UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
UCIPEM n. 935 – 6 novembre 2022
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L ’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
CONTRIBUTI PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA
02 ABUSI Poco rumore e poi nulla. La Chiesa francese sul caso del vescovo Santier
04 AICCeF Webinar di presentazione dei Projet Work
05 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n.2, 26novembre 2022
07 CITTÀ DEL VATICANO PCTM e CEI. Un impegno comune contro gli abusi sessuali
08 Commissione dei minori, dal prossimo anno un rapporto annuale
O9 Più esperti, ma dove sono i sopravvissuti? La lotta “sinodale” a abusi de nuova” PC M
11 CONSULTORI UCIPEM Mantova. Atti del Convegno “I miei *primi* 280 giorni
13 Napoli. Frecce scoccate
14 DALLA NAVATA 32° Domenica del tempo ordinario – Anno C
14 Commento
16 DEMOGRAFIA Inverno demografico
19 ECUMENISMO Il Sae suggerisce: “vocazione” e non “conversione” di san Paolo
20 FAMIGLIA DI FATTO Separazione, mantenimento e affidamento dei figli
22 FED. CHIESE EVANGELICHE Messaggio conclusivo dell’Assise della FCEI 2022
23 La Riforma, una storia di passione
25 IVG Legge 22 maggio 1978,n. 194 Interruzione Volontaria della Gravidanza
27 No all’aborto teniamoci stretta la 194
29 LITURGIA La comunione ecclesiale
31 PASTORALE Chiesa e omosessualità. Noi operatori pastorali con le persone lgbt
33 POVERTÀ Diritto a residenza: ActionAid: a Roma ottima notizia per la tutela dei più fragili.
34 RIFLESSIONI Portare i fiori ai morti
34 SIN0DALITÀ Sinodo-documento: l’esperienza di Frascati
38 “Sinodo: molto dipende da cosa si è disposti a sentire”
40 SINODO CONTINENTALE La Chiesa in carne e ossa e la Chiesa nei palazzi. Al via la tappa continentale
41 I peccati della Chiesa fotografati nel documento per la tappa continentale
42 SINODO IN ITALIA Nomina dei vescovi. Un atto “conciliare”
44 SINODO NEL MONDO Vescovi dell’Amazzonia: è il momento della speranza!
45 STALKING L’ex amante assolta, deve risarcire la vittima
45 STRANIERI Stranieri, lavoratori e imprenditori. Ma poveri. I dati del dossier immigrazione
ABUSI
Poco rumore e poi nulla. La Chiesa francese sul caso del vescovo Santier
Un nuovo crollo di credibilità rischia di mandare al tappeto la Chiesa di Francia, dopo il recupero tentato con il lavoro sugli abusi della Commissione Ciase, sfociato nello scioccante Rapporto Sauvé, al quale erano seguiti mea culpa episcopali e proclami di impegno su verità, giustizia e prevenzione. L’esplosione del “caso Santier” rischia infatti di riportare tutto a zero e di allontanare definitivamente il popolo cattolico dalla gerarchia.
Gli abusi, la condanna e una pena ridicola. Questi i fatti. Secondo quanto riportato dalla rivista Golias (settembre 2022) e da Famille Chrétienne (14/10) mons. Michel Santier, cofondatore della comunità Réjouis-Toi – una delle numerose “comunità nuove” sorte in Francia nell’alveo del Rinnovamento carismatico, oggi pesantemente devastate da abusi –, vescovo di Luçon dal 2001 al 2007 e di Creteil fino al 2021, è stato condannato dalla giustizia canonica per abusi spirituali a scopo sessuale su due giovani, avvenuti negli anni ’90, quando era sacerdote della diocesi di Coutances (Manche). All’epoca, Santier era direttore della Ecole de foi (Scuola di fede), una scuola di preghiera per ragazzi dai 18 ai 30 anni, e in quel ruolo ha «esercitato un’influenza psico-spirituale e usato il suo ascendente su due giovani uomini adulti per scopi sessuali»: «Davanti al tabernacolo – è specificato – il penitente era invitato a togliersi un capo di abbigliamento a ogni peccato confessato. Alla fine dell’operazione arrivava l’assoluzione». La manipolazione del sacramento della confessione è una delle colpe più gravi che un sacerdote può commettere e una delle più pesantemente punite.
Le due vittime, ormai 40enni, avevano denunciato l’abuso nel 2019, e in seguito si era mossa la macchina della giustizia vaticana. Nel 2020, Santier aveva lasciato il suo incarico episcopale accampando problemi di salute e “altre difficoltà”, ma nell’ottobre 2021 sono arrivati i provvedimenti canonici: l’obbligo a ritirarsi nell’abbazia di Saint-Sauveur-le-Vicomte (Manche) per condurre una vita di penitenza e preghiera, durante la quale ha svolto invece l’incarico di cappellano delle suore di Saint MarieMadeleine Postel. Questi provvedimenti non sono mai stati resi pubblici. Ma la cosa non finisce qui. Il 22 ottobre, Famille Chrétienne ha svelato che altre misure nei confronti di Santier sono state prese dopo che sono state segnalate cinque nuove vittime. In accordo con Roma, il vescovo di Coutances Laurent Le Boulc’h ha vietato all’ex vescovo di Créteil ogni ministero pubblico. «Non può celebrare la Messa in pubblico né confessare», conferma mons. Dominique Lebrun, arcivescovo metropolita di Rouen. Un nuovo fascicolo è stato aperto a Roma.
Uno scandalo nello scandalo. Il punto della questione, oltre il fatto in sé, è il silenzio dei vescovi francesi. Se anche fosse vero che nessuno, all’interno della Conferenza episcopale, era informato della punizione comminata a Santier – quando, nel novembre 2021, i vescovi fecero il punto nella dolorosa assemblea a Lourdes post-Rapporto Sauvé – ci sarebbe però qualcosa di profondamente opaco nella gestione del caso, che tira in ballo il successore di Santier a Creteil, mons. Dominique Blanchet. Una volta depositata la denuncia delle vittime nel 2019, mons. Santier è stato convocato dall’arcivescovo di Parigi, allora mons. Michel Aupetit, con giurisdizione su Creteil; questi ha avviato la procedura sfociata nell’accettazione romana delle dimissioni di Santier nel gennaio 2021. Peccato che Santier, nella sua lettera di addio pubblica alla diocesi del giugno 2021, abbia nascosto ai fedeli il vero motivo della sua partenza: «Non avrò la forza fisica per continuare il mio ministero in mezzo a voi fino a quando avrò 75 anni e dopo aver attraversato altre difficoltà, alla fine del 2019 (…) ho scritto al Papa Francesco per consegnare il mio incarico a lui (…)». Malgrado qualche sospetto cominci a serpeggiare, il silenzio sul vero motivo della sua partenza viene ben mantenuto dall’episcopato. Fino al punto che nonostante la sanzione canonica, mons. Santier è ammesso dal suo successore, Blanchet, a celebrare la Messa crismale del giovedì santo a Créteil, il 14 aprile scorso, come rivela Libération (19/10). Blanchet, il 20 ottobre, cerca maldestramente di giustificarsi su Libération: «Poiché i provvedimenti disciplinari non sono stati resi pubblici da Roma e dallo stesso Michel Santier, ho ritenuto che costringerlo in quel momento all’assenza avrebbe causato più difficoltà della sua presenza».
Sei giorni prima su Famille Chrétienne il 14 ottobre, aveva affermato con la stessa sicurezza: «Non ci può essere eccezione all’esigenza della verità e della giustizia». Uno scempio compiuto sulla fiducia dei fedeli tanto che, il giorno dopo, il presidente dei vescovi mons. Éric de Moulins-Beaufort si sente in dovere di rassicurare i fedeli: «Il sentimento di tradimento, la tentazione dello sconforto sono tutte emozioni che capisco e che ci attraversano, proprio come l’incomprensione e la rabbia di molti per gli atti stessi»; «Non ci può essere impunità nella Chiesa, qualunque sia la funzione della persona implicata». Non una parola, però, sull’atteggiamento di Blanchet e sul suo nascondimento dei fatti alla messa crismale.
L’opinione pubblica cattolica non perdona più. Numerose le riflessioni delle figure di spicco del cattolicesimo francese su quanto accaduto nelle pagine dei media cattolici più diffusi. «Perché i vescovi non hanno detto nulla sugli abusi commessi da mons. Santier prima che fossero rivelati dalla stampa?», chiede tout court Alban de Montigny su Le Pelèrin (25/10), rilevando che questa domanda «viene a scuotere l’episcopato che si trova alla vigilia dell’Assemblea plenaria autunnale – dal 3 all’8 novembre». Il punto è se le sanzioni vaticane possono essere rese pubbliche: e se per Astrid Kaptijn, professoressa di diritto canonico all’Università di Friburgo ed ex membro della Ciase, «le decisioni non sono coperte dal segreto pontificio», p. Bruno Gonçalves, professore di diritto canonico all’Institut Catholique di Parigi, ricorda che le cose funzionano così: «Quando c’è uno scandalo pubblico, è necessario riparare pubblicamente, ma se i fatti non sono stati commessi in pubblico, rivelarli provoca lo scandalo mentre si dovrebbe ripararli. Altrimenti detto, fatti pubblici, sentenza pubblica; fatti occulti, sentenza occulta». Sta di fatto che tra i vescovi, le scelte di Roma sollevano interrogativi, riporta de Montigny: «È incomprensibile che monsignor Santier sia rimasto vescovo di Créteil per un altro anno dopo la denuncia», ha detto uno di loro. «Credo nella sincerità di Dominique Blanchet ed Éric de Moulins-Beaufort, ma come possono aver lavorato con Ciase e mantenere questo comportamento?», si chiede uno dei vescovi interpellati da Le Pelèrin.
Ma è proprio il sistema della giustizia canonica in sé a fare acqua. «Se questo scandalo istituzionale, che si aggiunge a uno scandalo individuale, mette paradossalmente in evidenza la necessità della giustizia canonica, purtroppo getta una luce severa sui difetti di questa giustizia così come viene attualmente applicata», commenta Jean Bernard su La Croix (27/10). «È proprio la permanenza in carica di chierici abusivi che è stata e rimane lo scandalo supremo agli occhi delle vittime», anche se «sembra che il principio della prescrizione dei reati, che si applica anche nel diritto canonico, abbia impedito l’apertura di un procedimento penale e quindi reso impossibile l’imposizione di una punizione» come la dimissione dallo stato clericale. Resta il fatto che il modo in cui la Chiesa ha gestito questa vicenda è in linea con la sua prassi precedente, «che si può riassumere in due termini: clandestinità e indulgenza».
- Clandestinità, perché invece di rimuovere Santier dal suo incarico «secondo il canone 192 del Codice di Diritto Canonico, che avrebbe avuto l’inconveniente di dover rispettare i diritti della difesa, motivare la decisione e pubblicarla, Roma ha preferito chiedergli di dimettersi in applicazione dell’art. 401 § 2 del suddetto Codice, dato che questa procedura non richiede particolari giustificazioni».
- Segretezza accompagnata da menzogna, perché «le dimissioni sono state imputate a problemi di salute, in barba alla più elementare verità».
- Indulgenza, perché a mons. Santier, pur vincolato a una vita di “preghiera” e “penitenza”, «sono state affidate le funzioni di cappellano di una comunità religiosa femminile, con la possibilità di celebrare la Messa in pubblico».
L’inadeguatezza della giustizia canonica. Ombre nere che si riflettono sulla imminente assemblea dei vescovi, a porte chiuse, senza i consueti incontri con i professionisti dei media, a parte la conferenza stampa finale, osserva sempre su La Croix Dominique Greiner (21/10). Ma è molto scettico Stephane Joulain, missionario dei Padri bianchi e psicoterapeuta (La Croix, 23/10). «Le recenti rivelazioni sulle violenze sessuali commesse da Michel Santier mi danno la nausea. Questo sentimento è provocato sia dagli atti commessi da quest’uomo nel contesto del suo ministero ordinato – questa perversione della grazia e della misericordia è un vero e proprio peccato contro lo Spirito Santo – ma anche dalla imposizione di sanzioni deboli per atti così gravi, che in altri tempi sarebbero stati sanzionati con la scomunica». «Negli ultimi decenni la giustizia canonica si è dimostrata incapace di giudicare questi numerosi ed efferati crimini. Non credo più, e sto pesando le mie parole, nella capacità dell’istituzione ecclesiastica di rendere giustizia in materia penale. Per questo motivo incoraggio sempre le vittime che mi consultano a rivolgersi innanzitutto alla giustizia umana».
«Il diritto canonico – rincara Joulain – è spesso usato per difendere i potenti dai deboli, mentre lo scopo del diritto è proteggere i deboli dai forti. Se il diritto civile riguarda il rapporto tra gli individui, il diritto penale riguarda il rapporto tra società e individui. Il diritto penale nella sua applicazione dice come una società intende e protegge i valori fondamentali della convivenza. È qui che l’istituzione cattolica ha fallito terribilmente. La prassi penale canonica riflette una concezione della convivenza ecclesiale in cui i chierici e in particolare i vescovi regnano sovrani». E il diritto penale canonico «è amministrato da uomini di Chiesa che troppo spesso preferiscono ancora proteggere l’istituzione piuttosto che il Popolo di Dio. (…). La legge può essere messa in cortocircuito in vari modi, ad esempio pervertendola attraverso un’interpretazione errata o facendo in modo che vengano nominate persone notoriamente non abbastanza competenti o troppo partigiane in difesa dell’istituzione. Queste strategie sistemiche sono ben note e molto efficaci».
La rabbia delle vittime. «Il mondo sta ancora una volta crollando intorno a noi, vittime di un chierico, bambini o adulti, che stanno disperatamente cercando di ricostruirsi», scrive ai vescovi (La Croix, 24/10), il collettivo di vittime Foi et Résilience, esprimendo sostegno «a questi due uomini che hanno trovato la forza di uscire dal loro silenzio». E rivolgendosi ai vescovi: «Nascondendo questa sanzione al popolo di Dio, a quello delle tre diocesi interessate e, più in generale, a tutti i fedeli, laici e sacerdoti, avete perpetuato ancora una volta questa cultura del silenzio così deleteria per tutti. Questo ha un nome: violazione della fiducia». Le vittime puntano il dito anche contro «la riluttanza (per non dire il rifiuto) dei vescovi (e dei fedeli) ad accettare e prendere in considerazione l’aggressione degli adulti», non riconosciuti nel piano di risarcimenti della Chiesa francese. Eppure «Sì, gli adulti sono o sono stati aggrediti sessualmente da chierici che li hanno posti sotto il loro controllo, manipolati e resi vulnerabili per la loro soddisfazione personale (…) Cosa intendete fare per loro e per le vittime adulte?». Tre le profanazioni compiute in questa vicenda: «Del corpo di questi giovani, del sacramento della riconciliazione e dell’Eucaristia, poiché gli atti sono avvenuti davanti al tabernacolo». Fatti estremamente gravi, ma «il silenzio è assordante sulla dimensione spirituale di questi abusi. Non una parola. Cosa direte?».
Quanto alla punizione comminata, poi, «ci scandalizza! Che considerazione avete della vita religiosa femminile per inviare loro un cappellano colpevole di questa triplice profanazione?». «Abbiamo scelto di lavorare con voi per cambiare le cose», concludono le vittime. «In questi tre anni di lavoro insieme (…) abbiamo cercato di condividere con voi la nostra conoscenza esperienziale, di aprire i vostri occhi sulla realtà di questi abusi e aggressioni commessi all’interno della Chiesa e di spingervi a ripensare radicalmente il vostro modo di gestire queste situazioni e di prevenirle. Abbiamo affrontato molti attacchi per aver scelto questa strada, ma non la abbandoneremo. Oggi, come molti fedeli della Chiesa di Francia, siamo scandalizzati, scoraggiati, devastati. Come possiamo mantenere la nostra fiducia, come possiamo ancora fidarci di voi?».
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 38 05 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68950
AICCeF- Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari
I Webinar di presentazione dei Projet Work
La Presidente Sinigaglia ed il Consiglio Direttivo dell’Associazione hanno deciso di realizzare la presentazione, a tutti i Soci Aiccef, dei lavori ideati ed elaborati dai colleghi che hanno partecipato al Corso di Alta Formazione: Linguaggi e tecniche della consulenza familiare on line, il Corso di Alta Formazione [CAF] del 2021, nato dall’importante sinergia tra l’Istituto Universitario Ecclesia Mater e l’AICCeF.
I Projet Work sono “il frutto del desiderio di creatività e di crescita di ogni Consulente Familiare in ascolto dei tempi” ci ha detto Francesco Citarda, e “rappresentano il nuovo che avanza, perché il futuro lo scriveremo dirigendoci verso orizzonti inconsueti”, ha sottolineato Rita Roberto.
“I lavori prodotti nell’ambito del CAF sono innovativi e rappresentano per la professione un’occasione significativa per aprire a nuove prospettive. Tutto ciò è perfettamente in linea con la mission inclusiva del Consulente Familiare che amplia gli orizzonti individuali e fa spazio a nuovi mondi relazionali”, ci ha detto la Presidente Stefania Sinigaglia, perché “la crescita passa attraverso chi è capace di visioni nuove”.
Riteniamo che ogni lavoro contenga argomenti di grande interesse, stimoli di novità, ideazioni pratiche ed approfondimenti professionali, che possono essere molto utili a tutti i colleghi che esercitano la nostra professione e con cui li vogliamo condividere.
Perciò abbiamo organizzato due webinar, di 4 ore ciascuno, in cui i protagonisti dei Progetti, coadiuvati dai loro Tutor, illustreranno le loro idee, le loro ricerche e le applicazioni ideate. I webinar saranno trasmessi il 19 e il 26 novembre, alle ore 15,00 e saranno gratuiti.
Per ogni webinar è prevista l’attribuzione di 20 CFP ai partecipanti registrati. In concomitanza degli eventi comunicheremo il programma e le modalità di partecipazione. 30 ottobre 2022
www.aiccef.it/it/news/webinar-di-presentazione-dei-projet-work.html#cookieOk
CISF – CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA
Newsletter CISF – n. 40, 2 novembre 2022
- E tu, cosa faresti se la incontrassi per strada? È un celebre esperimento sociale, realizzato alcuni anni fa ma sempre sconvolgente da vedere: la risposta delle persone di fronte a una stessa bambina, lasciata sola per strada prima in abiti eleganti e poi in abiti miseri. Venne realizzato in Georgia da Unicef, con una bambina-attrice opportunamente travestita che, alla fine della clip, esprime il suo dispiacere per essere stata ignorata e allontanata quando era nella versione “povera” [su YouTube – 2 min 38 sec]
- Un nuovo modo di usare il digitale in famiglia? Sarà pubblicato il prossimo 30 novembre “Famiglia&Digitale. Costi e opportunità” (Edizioni San Paolo), il nuovo rapporto annuale del Centro Internazionale Studi Famiglia. Per avvicinarci all’uscita del volume, che fonda la sua analisi su una ricerca su oltre 2mila famiglie con figli, Stefano Pasta, ricercatore Cremit (Università Cattolica di Milano) illustra come sia emerso un nuovo modo di usare social, piattaforme e device in famiglia: prevalgono, infatti, usi condivisi tra genitori e figli. L’intervista sulla pagina YouTube del CISF [8 min 45 sec]
www.youtube.com/watch?v=e0OWvGpSyhQ&t=23s
- Gioco d’azzardo e alcol in età anziana: convegno regionale. Giovedì 10 novembre (ore 9-13.30) presso l’Auditorium Don Alberione di Milano si terrà il convegno in presenza “Gioco d’azzardo e alcol in età anziana: oltre la punta dell’iceberg”, organizzato da CISF e Ordine Assistenti Sociali Lombardia a conclusione di una serie di eventi organizzati nel 2022 per offrire, a interlocutori diversi, occasioni di riflessione e confronto su gioco d’azzardo e consumo di alcol in età avanzata. L’evento formativo è rivolto a varie professionalità: assistenti sociali, educatori professionali, psicologi, medici, ecc.; è aperto a gruppi di auto mutuo aiuto (Alcolisti Anonimi, Club Algologici Territoriali, Giocatori Anonimi), associazioni di anziani, realtà di volontariato. Il programma della mattinata e l’scrizione obbligatoria entro lunedì 7 novembre: assistenti sociali e altre figure professionali e altri soggetti.
- Il CISF a Bologna e Milano – due incontri in presenza.
- Bologna, sabato 5 novembre 2022 (h. 9.30). Il Direttore Cisf (F. Belletti) interverrà all’incontro “POLITICA FISCALE E FAMIGLIA. Una fiscalità amica del futuro del Paese è a misura di famiglia: un costo si trasforma in un investimento” , promosso da INSIEME-PER (partito-movimento politico ispirato alla Dottrina sociale della Chiesa).
- Milano, lunedì 7 novembre 2022 (h. 21.00). L’Associazione Nonni 2.0 organizza a Milano
www.nonniduepuntozero.eu/chi-siamo
l’incontro su “Nonni, Genitori, Nipoti. La famiglia larga e solidale, pietra angolare della sussidiarietà”, cui interverrà anche il direttore Cisf (F. Belletti).
- USA/programma online di formazione per genitori separati. Si chiama Online Parenting Program ed è una realtà di formazione, certificata dalle agenzie governative e collaboratrice delle Family Court di vari Stati americani, per fornire moduli di formazione a supporto dei genitori separati e anche dei figli (dai 10 anni in su) di genitori separati. I moduli proposti – a pagamento – mirano a dare strumenti educativi e modelli di collaborazione per i genitori, in modo da abbassare la conflittualità nel corso della separazione; e stimolano lo sviluppo di skill relazionali e di autostima per i ragazzi. Il sito opera a più livelli e, oltre al sostegno alle famiglie separate, realizza programmi a favore delle famiglie dei militari, degli ex carcerati e di altri ambiti di particolare fragilità.
- Work-life balance: come è stata applicata la direttiva UE? Lo ha investigato COFACE (Federazione europea di associazioni familiari) in una recente relazione (10 Stati con Italia) https://coface-eu.org/about-us
che ripercorre la progressiva attuazione della direttiva europea sull’equilibrio tra lavoro e vita privata (è stata la prima iniziativa legislativa che ha seguito il varo della Direttiva “Pilastro dei Diritti Sociali” nel 2017, ed è stata formalmente adottata nel 2019). Gli Stati membri avevano tempo fino ad Agosto 2022 per darle applicazione, cogliendo l’occasione per riformare le proprie normative interne. Come è andata? Sono stati compiuti progressi in molti paesi, sottolinea COFACE, tuttavia, il pieno recepimento nei 27 Stati membri dell’UE è ancora incompleto.
- Si riduce la capacità di risparmio delle famiglie. L’inflazione sta riducendo i risparmi delle famiglie italiane, perché per mantenere i consumi molti hanno fatto ricorso alle proprie riserve o a prestiti. È solo uno dei dati dell’indagine annuale Acri/Ipsos, presentata in occasione della 98ª Giornata mondiale del risparmio. Si riducono le famiglie in grado di far fronte con mezzi propri a situazioni di difficoltà: il 39% potrebbe affrontare con serenità una spesa imprevista pari a 10.000 euro, il 75% una di 1.000. La capacità di risparmio è una fonte di tranquillità rispetto all’attuale situazione economica e rimane, come in passato, una priorità: più di un terzo (37%) non vive tranquillo se non mette da parte qualche risparmio
- Piemonte: via libera ad “allontanamento zero”. È stato approvato dal Consiglio Regionale del Piemonte (con 29 sì e 14 no, dopo quasi tre anni di discussione), il ddl “Allontanamento zero”, che mira a “evitare l’allontanamento del minore dalla propria casa e favorire il rafforzamento della rete formale e informale a sostegno della famiglia, prevenendo le situazioni di marginalità e isolamento”.
www.regione.piemonte.it/web/pinforma/notizie/approvata-allontanamento-zero#
Lo stanziamento complessivo per sostenere questo obiettivo è di 44,5 milioni di euro per il biennio 2023-2024 (22,3 milioni per il 2023 e 22,2 per il 2024). Il via libera alla normativa ha suscitato pareri contrastanti
–posizione di Ciai https://ciai.it/allontanamento-zero-demagogia-che-non-tutela-i-diritti-dei-bambini-e-delle-bambine
documento del Tavolo Nazionale Affido sul testo di legge:
- Friuli Venezia Giulia, un portale dedicato all’invecchiamento attivo. Recentemente premiato a Bruxelles il portale realizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia in tema di invecchiamento attivo, che ha reso visibili tutte le attività dedicate (leggi, progetti, finanziamenti, buone pratiche) in un unico portale. Preziose informazioni che vanno dal sostegno per le famiglie alle proposte di completamento della vita lavorativa, dall’impegno civile all’abitare al contrasto alla solitudine.
- Save the date
- Webinar (UE) – 8 novembre 2022 (14-16 CET). “Challenges&Dangers of children exposure to sexual explicit content in the digital era”, a cura di Fafce (Federazione delle associazioni familiari cattoliche in Europa), incontro anche in presenza presso il Parlamento Europeo
www.fafce.org/conference-invitation-challenges-and-dangers-of-children-exposure-to-sexual-explicit-content-in-the-digital-era-8-november-2022-14-00-16-00-cet
- Convegno (Trento) – 19 novembre 2022 (9-13). “Oltre i pregiudizi e gli stereotipi nel sistema dell’adozione“, convegno a cura della Fondazione Franco Demarchi e mostra sul tema, aperta dal 12 al 19 novembre.
www.fdemarchi.it/ita/Centro-di-documentazione/News/Convegno-e-mostra-sul-tema-Adozione
- Seminario (IT) – 22 novembre 2022 (a partire dalle 16.30). “Famiglie e intelligenza artificiale“, evento online (via Zoom) dell’Osservatorio sui consumi delle famiglie (OSCF) del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Verona [qui per info e iscrizioni]
Iscrizione gratuita http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.asp
CITTÀ DEL VATICANO
PCTM e CEI. Un impegno comune contro gli abusi sessuali
In uno spirito di stima e reciproca collaborazione, la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori (PCTM) e la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) annunciano la firma di un accordo volto a promuovere un impegno comune sempre più incisivo nel combattere gli abusi sessuali all’interno della Chiesa. Alla base c’è la condivisione di un approccio integrale e delle buone prassi adottate dalla Chiesa in Italia per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili.
Lo comunica una nota ufficiale della CEI. Il documento, siglato il 28 ottobre 2022) a Roma dai Cardinali Sean O’Malley e Matteo Maria Zuppi, Presidenti rispettivamente della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori e della Conferenza Episcopale Italiana, prevede aggiornamenti regolari – dalla CEI a livello nazionale e dalla PCTM a livello universale – sulle iniziative di tutela e di salvaguardia dei minori e delle persone vulnerabili. Si contempla inoltre uno scambio di competenze e professionalità, legate alle buone prassi, al fine di creare una rete globale di Centri per l’accoglienza, l’ascolto e la guarigione delle vittime, secondo gli standard internazionali individuati dalla Commissione e sul modello di quelli già diffusi nelle Diocesi italiane.
“Affinché la lotta agli abusi sia condotta con determinazione a beneficio del Popolo di Dio e per rimarcare l’impegno di responsabilità per la salvaguardia di ciascuno, soprattutto dei più piccoli e vulnerabili, l’accordo include anche un aiuto verso quei Paesi, specialmente in via di sviluppo, che dispongono di scarse risorse umane, professionali e finanziarie, con un supporto (non solo a livello economico) sia nella prevenzione sia nell’attuazione delle politiche di tutela”.
Il documento ha validità annuale e verrà rivisto per assicurare la sua rispondenza agli obiettivi. CEI e PCTM periodicamente elaboreranno una relazione su quanto realizzato”, riporta la nota ufficiale.
www.acistampa.com/story/pctm-e-cei-un-impegno-comune-contro-gli-abusi-sessuali-21011
Commissione dei minori, dal prossimo anno un rapporto annuale
Ci sarà un primo rapporto annuale della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori il prossimo anno, ma padre Andrew Small, segretario ad interim della Commissione, ritiene che i primi dati realmente perseguibili per fare un rapporto annuale pieno non ci saranno prima del 2024.
Nel mezzo della prima plenaria con la membership estesa a 20 membri, padre Small ha incontrato i giornalisti il 28 ottobre per dare una panoramica dei lavori della Commissione. La plenaria si è tenuta dal 27 al 29 ottobre, ed ha anche avuto lo scopo di esplorare e definire i compiti della Commissione ora che è stata collegata, con la riforma della Curia, al Dicastero per la Dottrina della Fede.
Il rapporto annuale era stato chiesto dal Papa nell’incontro che ha avuto con la commissione lo scorso aprile. Padre Small ha spiegato che il rapporto dovrebbe essere diviso in quattro sezioni.
- La prima sezione andrebbe a riassumere i rapporti dei vescovi sulle loro linee guida e l’implementazione del motu proprio Vos Estis Lux Mundi. I vescovi generalmente consegnano questo rapporto alla commissione durante le visite ad limina.
- La seconda sezione farà una panoramica geografica sugli sforzi per la protezione dei minori. Questa parte sarà redatta dai membri della commissione, divisi in gruppi.
- Ci sarà una terza sezione che guarderà a come i dicasteri della Curia Romana stanno includendo nelle loro attività la tutela dei minori. Padre Small ha fatto l’esempio del Dicastero per il Clero, che potrebbe essere chiamato a riportare di come sta promuovendo la tutela nei seminari.
- La quarta sezione invece guarderà agli sforzi della Chiesa nella tutela dei minori nel mondo, anche su questioni più ampie come il salvataggio dei soldati bambini, la protezione dei migranti e rifugiati bambini, la sicurezza negli orfanotrofi.
La plenaria della Commissione ha anche stabilito di lanciare un fondo che possa aiutare a finanziare centri per accompagnare i minori che hanno subito abusi e le loro famiglie.
Padre Small sostiene che da 70 a 80 delle 114 conferenze episcopali del mondo non abbiano meccanismi di denuncia stabili e pubblici come richiesto dalla Vos Estis, e che uno dei problemi per questo è la raccolta delle risorse. Da qui, la decisione di stabilire il fondo.
“Nel nostro impegno con le vittime – ha detto padre Small – il riconoscimento dell’errore commesso contro di loro è primario. Non c’è niente che prenda il posto dell’essere creduti e ascoltati”. Allo stesso tempo, vedere che chi fa del male “a volte resta senza punizione è molto doloroso”, e per questo le vittime sono confuse o deluse se non sono informate dei provvedimenti presi dalla Chiesa.
Padre Small ha anche ricordato che il prossimo anno sarà il decimo anno della Commissione da quando è stata stabilita, e che in questo periodo “ha avuto anche momenti e difficoltà molto intensi e quelli sono stati momenti di confronto con gli altri”. Ogni difficoltà è stata però superata dal “duro lavoro” e dalla reputazione e ferite di quanti si sono impegnati.
Andrea Gagliarducci ACI Stampa 31 ottobre 2021
www.acistampa.com/story/commissione-dei-minori-dal-prossimo-anno-un-rapporto-annuale-21021
Più esperti, ma dove sono i sopravvissuti? La lotta “sinodale” a abusi de nuova” Pontificia Commissione Minori
Molte novità, sulla carta, nella lotta vaticana agli abusi perpetrati dal clero sono stati annunciati in queste ultime settimane: un primo rapporto annuale della Pontificia Commissione vaticana per la Tutela dei Minori (PCTM) – presieduta dal card. Sean O’Malley – vedrà la luce nel 2023, anche se i primi dati utili, secondo p. Andrew Small, segretario ad interim della Commissione, che ha illustrato le iniziative ai giornalisti il 28 ottobre – saranno a disposizione solo nel 2024; un accordo, siglato tra la Commissione stessa e la Conferenza episcopale italiana, per promuovere un impegno comune sulla base di un approccio condiviso, che si servirà di uno scambio regolare tra i due organismi sulle iniziative di tutela e di salvaguardia dei minori e delle persone vulnerabili, a livello di informazioni e di competenze per creare una rete globale di Centri per l’accoglienza, l’ascolto e la guarigione delle vittime.
La Commissione vaticana si allarga. Nel frattempo, il 30 settembre scorso, papa Francesco ha ampliato la PCTM nominando dieci nuovi membri, che si aggiungono ai dieci già operativi. Una storia tormentata, quella di questo organismo, soprattutto per i rapporti con il Dicastero per la Dottrina della Fede, e per diversità di vedute all’interno, ma anche per la sua non chiarissima identità, per la lentezza e le resistenze alle proposte della Commissione come quella, approvata dal papa – ma mai realizzata – di creare un tribunale separato per i vescovi che agiscono in modo inappropriato nei casi di abuso sessuale. Il card. O’Malley annunciò la nascita del tribunale nel giugno 2015, ma esso, di fatto non vide mai la luce; al suo posto papa Francesco, l’anno dopo, emanò una nuova legge (il motu proprio Come una madre amorevole) che stabiliva la rimozione dei vescovi negligenti. In che misura sia stato applicato, finora, non è chiaro.
www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio_20160604_come-una-madre-amorevole.html
Con la Costituzione Apostolica sulla Curia Romana, Prædicate Evangelium, nel marzo di quest’anno
il papa ha posto la Commissione all’interno della sezione disciplinare del Dicastero per la Dottrina della Fede, lasciandole, nelle intenzioni almeno, una autonomia, con la nomina diretta pontificia del Presidente, che riferisce direttamente al papa e con l’indipendenza dal Dicastero per ciò che riguarda decisioni su membri e personale e sulle proposte avanzate.
I nuovi membri designati (con un incarico quinquennale) sono: mons. Peter Karam, vicario patriarcale della Chiesa maronita (Libano); mons. Thibault Verny, vescovo ausiliare di Parigi, incaricato della Protezione dei minori per l’arcidiocesi di Parigi e interlocutore della Commissione CIASE, promotore, tra le altre cose, di un sito web di informazione sugli abusi e di formazione online obbligatoria per gli educatori della Diocesi di Parigi; p. Tim Brennan, della Provincia australiana dei Missionari del Sacro Cuore, impegnato a Roma presso l’Ufficio Tutela della Curia generalizia; suor Niluka Perera (India), assistente sociale professionale, coordinatrice del Catholic Care for Children International (CCCI) dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG) di Roma; suor Teresa Nyadombo, coordinatrice nazionale per l’educazione e la salvaguardia della Conferenza episcopale cattolica dello Zimbabwe; Irma Patricia Espinosa Hernández, psichiatra e psicoterapeuta, esperta di psicologia criminale, profilazione e valutazione delle vittime di abusi sessuali e di autori di reati sessuali, direttrice della Facoltà di Psicologia dell’Universidad Catolica Lumen Gentium di Città del Messico e membro del Consiglio nazionale per la protezione dei minori della Conferenza episcopale messicana, nonché cofondatrice del CEPROME, centro di ricerca e formazione interdisciplinare sulla protezione dei minori con sede a Città del Messico; Maud de Boer-Buquicchio, presidente di ECPAT Internazionale (associazione che opera per contrastare lo sfruttamento sessuale dei minori, la violenza e la tratta), già vice cancelliere presso la Corte Europea dei Diritti Umani (1998), poi (2002-2012) vice segretario generale del Consiglio d’Europa; dal 2014 al 2020 è stata relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla vendita e lo sfruttamento sessuale dei bambini; Anne-Marie Emilie Rivet-Duval (Mauritius), psicologa clinica responsabile dell’Ufficio diocesano di psicologia; Teresa Devlin, con studi in psicologia e scienze sociali, CEO del National Board for Safeguarding Children in the Catholic Church in Irlanda; Ewa Kusz, psicologa clinica, sessuologa e terapeuta, vicedirettrice del Centro per la protezione dell’infanzia presso l’Università dei Gesuiti “Ignatianum” di Cracovia (Polonia), dove ha contribuito a creare il programma di studi post-laurea sulla protezione dell’infanzia.
Questi nuovi membri si vanno ad aggiungere a mons. Luis Manuel Alí Herrera, vescovo ausiliare di Bogotá, in Colombia, psicologo; p. Hans Zollner, direttore dell’Istituto di Antropologia della Pontificia Università Gregoriana; suor Arina Gonçalves, sociologa e terapeuta; Ernesto Caffo, fondatore e presidente di Telefono Azzurro Onlus e presidente della Fondazione Child; Benyam Dawit Mezmur, professore associato di Giurisprudenza presso il Dullah Omar Institute, University of the Western Cape, a Cape Town (Sudafrica), due volte presidente della Commissione di Esperti sui Diritti e il Benessere dei Bambini dell’Unione Africana, nonché presidente della Commissione Onu sui diritti dei bambini (2015-2017), Neville Owen, giudice della Corte d’Appello della Corte Suprema dell’Australia occidentale, alla guida del Consiglio Giustizia e Riconciliazione creato dalla Chiesa australiana per far fronte alla crisi causata dagli abusi sessuali; Sinalelea Fe’ao, 42 anni di lavoro nel campo dell’educazione; Teresa Kettelkamp Morris, già colonnello nella Polizia di Stato dell’Illinois, direttrice esecutiva del Segretariato per la tutela dei bambini e dei giovani della Conferenza episcopale Usa (2005-2011) e Nelson Giovannelli Rosendo dos Santo, esperto di riabilitazione dalla tossicodipendenza e dall’abuso, fondatore in Brasile delle comunità Fazenda da Esperança.
Una sola, per quanto è noto (nel 2018 la Commissione aveva affermato che l’identità delle vittime di abuso sessuale presenti tra i membri non sarebbe stata resa pubblica) la presenza in rappresentanza dei sopravvissuti: nel marzo 2021 si era aggiunto al gruppo il giornalista cileno Juan Carlos Cruz, – vittima da adolescente delle violenze sessuali del prete poi dimesso dallo stato clericale, Fernando Karadima – cofondatore nel 2010 della “Fundación para la Confianza”, dedicata al sostegno dei sopravvissuti e alla prevenzione degli abusi, e nel 2018 del “Centro CUIDA”, il primo centro di ricerca per lo studio e l’indagine sugli abusi nella società presso la Pontificia Università Cattolica del Cile.
Ufficialmente, dunque, Cruz sarebbe l’unico sopravvissuto ad abusi presente in Commissione; Una presenza tormentata, quella delle vittime: il britannico Peter Saunders, fondatore ed ex responsabile dell’associazione di vittime di pedofilia Napac e l’irlandese Marie Collins, entrambi nominati nel 2014, se ne andarono delusi, arrendendosi a lentezze, ostacoli e persino boicottaggi della Curia nei confronti del lavoro del gruppo; la neuropsichiatra infantile francese Catherine Bonnet, specializzata in violenze sessuali su minori, lasciò nel 2018: aveva invano insistito sulla necessità di ascoltare le vittime, «singolarmente o nel quadro di associazioni come l’Ending Clerical Abuse (ECA)».
La “nuova” agenda della Commissione. Se la Commissione sembra dunque limitare fortemente la presenza di sopravvissuti al suo interno (lasciando il beneficio del dubbio sul una loro presenza “riservata”) afferma peraltro di volere che la voce delle vittime sia ascoltata, e a questo fine ha promosso dei Survivors Advisory Panels (SAP), con l’intento di individuare contenuti e modalità per includere le esperienze delle vittime e dei sopravvissuti all’interno delle politiche di tutela e di cura delle Chiese.
www.iicsa.org.uk/reports-recommendations/publications/investigation/roman-catholic-church/part-h-engaging-victims-and-complainants/h3-survivor-advisory-panel
La Commissione – che non si occupa di casi individuali – dovrà anche supervisionare l’applicazione delle linee guida delle Conferenze episcopali, in base a Prædicate Evangelium; a questo scopo essa è stata incaricata di collaborare con le Conferenze episcopali, le Diocesi e gli Ordini religiosi per garantire l’applicazione e l’efficacia delle linee guida, che oltretutto non sono ancora state elaborate da tutte le 114 Conferenze episcopali del mondo.
Vengono inoltre istituiti meccanismi di segnalazione di abusi in tutta la Chiesa, in ottemperanza all’articolo 2 del motu proprio Vos Estis Lux Mundi del 2019,
www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190507_vos-estis-lux-mundi.html
e la redazione di un Rapporto Annuale. Poiché vi è una grande disparità nella formazione e nella prevenzione degli abusi sessuali sui minori tra il Nord e il Sud del mondo, la Chiesa, ha spiegato p. Small, è chiamata a intervenire: a questo scopo la CEI – che, lo ricordiamo, continua a rifiutare una ricerca indipendente che dia un quadro dell’abuso in Italia, dove omertà ecclesiastica e vuoti giuridici lasciano il fenomeno ancora largamente sommerso e, dunque, non affrontabile – ha previsto uno stanziamento, per un periodo di tre anni, di fondi dell’8 per mille, per supportare la Commissione nella sua lotta agli abusi nel Sud del mondo.
Quanto al Rapporto annuale, si tratterà di un documento descrittivo sull’applicazione e l’efficacia delle politiche e delle procedure di salvaguardia nella Chiesa, fornendo un feedback [effetto retroattivo] sulle misure di cura e accompagnamento delle vittime e indicazioni sulle best practices da attuare.
Tra gli auspici formulati da p. Small, quello che il Rapporto annuale «fornisca un grado di trasparenza e responsabilità così urgente in tema di protezione e di gestione degli abusi: il Rapporto Annuale può costituire un importante punto di incontro e di dialogo con tutti i Dicasteri che compartecipano in qualche modo all’attuazione del safeguarding e nella protezione dei minori». Si tratterebbe, insomma, ha detto p. Small, di un approccio «inquadrato in termini di sinodalità. Definendo questo lavoro nella prospettiva della comunione e della sussidiarietà, il Santo Padre lo ha associato a due concetti fondamentali dell’essere e del fare della Chiesa».
È da sottolineare, però, – e lo ammette lo stesso segretario ad interim della PCTM – che proprio alla luce del processo sinodale manca un “pezzo” importante: «il peso e il significato effettivamente attribuito alle esperienze delle vittime/sopravvissuti agli abusi sessuali da parte del clero nel processo sinodale sono ancora dolorosamente poco chiari e le testimonianze delle vittime/sopravvissuti sono state finora limitate, e l’impatto delle loro esperienze e intuizioni è difficile da discernere».
Ludovica Eugenio Adista 01 novembre 2022
CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Mantova. Atti del Convegno “I miei *primi* 280 giorni
Sommario
Etica Salute e Famiglia
Anno XXVI, n°6 Novembre-Dicembre 2022
Responsabili: Gabrio Zacchè, Armando Savignano, Luisa Menini
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Pag. 03 Relatori presenti all’inizio del Convegno (foto di Attilio Pignata). Da sinistra:
don Stefano Tognetti (parroco di Roncoferraro),
Armando Savignano (docente di filosofia morale, Università di Trieste),
Sergio Rossi (sindaco di Roncoferraro),
Samuela Boni (presidente di “La quercia Millenaria”),
Giovanni Paganini (medico internista, presidente Consulta Pastorale della Salute, Diocesi di Mantova),
Mons. Paolo Gibelli (medico e parroco a Suzzara),
Gabrio Zacchè (primario emerito Ginecologia e Ostetricia, Mantova),
Stefano Pellizzardi (Direttore SC Consultori Familiari ASST Mantova),
Renzo Boscaini (Direttore Socio-Sanitario ASST Mantova),
Gianpaolo Grisolia (Direttore FF SC Ostetricia e Ginecologia, Mantova),
Maurizio Tedoli, (Chirurgo, membro della Consulta Pastorale della Salute, Diocesi di Mantova).
Altri relatori:
Don Maurizio Chiodi (Ordinario di bioetica Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le scienze del
Matrimonio e della Famiglia),
Roberto Bondavalli (psicologo psicoterapeuta),
Maria Luisa Costa e Daniela Simoncelli del CAV di Mantova.
Pag.04 Presentazione Giovanni Paganini
Pag.06 Inverno demografico Armando Savignano
Pag.11 45 anni di legge 194 Gabrio Zacchè
Pag.15 La diagnosi prenatale Giampaolo Grisolia
Pag.19 I dialoghi tra mamma e nascituro Roberto Bondavalli
Pag.24 Il Centro di Aiuto alla Vita di Mantova Maria Luisa Costa
Pag.27 Progetto mamme per mano CAV Mantova Donatella Simoncelli
Pag.29 Terapia dell’Accoglienza. Accompagnare gravidanze con diagnosi di patologia. Samuela Boni
Pag.32 Il grembo materno e l’esperienza della vita prima del parto Maurizio Chiodi
Pag.36 «Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto» Paolo Gibelli
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Napoli. Frecce scoccate
Una scelta d’amore per l’umanità sofferente. Una scelta personale, operata da padre Correra (per noi tutti semplicemente Domenico, come lui stesso voleva), che ha viaggiato per 60 anni facendosi strada nei cuori di chi aveva bisogno di aiuto come di chi era animato dallo slancio di aiutare. Un seme che ha dato vita a quella realtà che ho imparato ad amare.
Ricordo una circostanza più unica che rara, con Domenico che parlava di sé per descrivere l’origine della sua vocazione al sacerdozio, quando il suo giovane cuore, attonito di fronte agli orrori e alla sofferenza della guerra, cominciò ad intuire la possibilità di trasformarli in un profondo desiderio di farsi compagno nel dolore e nello smarrimento.
(17 maggio 1926- 13 aprile 2022
Queste riflessioni e quel ricordo mi hanno accompagnato nel ritrovarci in quell’occasione speciale, con la voglia di dirci che il distacco ancora tanto recente sta diventando una presenza che ci accompagna e continua a rassicurarci nel nostro quotidiano impegno per quell’umanità sofferente centro dell’universo consultoriale. E poi nel sentire l’abbraccio dell’accoglienza di chi ha raccolto il testimone di quel primo germoglio, il racconto di chi ha attraversato tanta storia del consultorio Centro “La Famiglia”, condividendone lo spirito, le radici perché rischiarino le pagine ancora da scrivere.
Si sono succeduti interventi per ripercorrere la nascita e lo sviluppo della realtà consultoriale in Italia, e in particolare la storia del Centro La Famiglia che nel suo svolgersi ha accompagnato migliaia di persone nella loro condizione di sofferenza e disagio. Descrizione intrecciata a testimonianze su Domenico come fondatore di quella realtà napoletana, assieme a discrete e preziose presenze, e protagonista di quella storia a livello nazionale.
L’auspicio di un’alleanza tra istituzioni, società civile e volontariato ha accomunato gli interventi dell’assessore all’istruzione e alla famiglia, Maura Striano, e del presidente dell’UCIPEM, Francesco Lanatà. La centralità del servizio per la promozione e lo sviluppo della persona umana, nelle sue relazioni sociali, come punto d’incontro della visione evangelica e del sistema costituzionale è emersa dalle parole dell’avv. Luigi Notaro.
La prospettiva futura è stato il motivo di fondo di tutti gli interventi: l’intenzione di fare della storia passata il patrimonio per guardare al futuro, adattandosi ai cambiamenti nella necessità di un continuo aggiornamento e nel mantenere la vocazione della prossimità gratuita. Intendimento, quest’ultimo, risuonato nelle parole del nostro Vescovo durante la celebrazione eucaristica, attraverso le quali ho sentito riecheggiare l’invito a porsi in ascolto dei poveri per recepirne lo slancio di generosità in totale gratuità. E allora ho visto ancora più distintamente l’importanza del farci “poveri”, nel mettere tra parentesi i nostri costrutti e pregiudizi, per poterci ritrovare tutti in sintonia e così poter affiancare con sguardo limpido chiunque porta a noi la propria sofferenza. Così da prolungare oltre questi 60 anni quella originaria scelta d’amore, facendone insieme una rampa di lancio nel futuro. Perché l’arco ha scoccato tutte le sue frecce, e ora sta a noi andare, lontano e in ogni direzione, alimentando quello slancio e, come novelli Cupido, entrare nel cuore di quanti si rivolgono a noi per poterne condividere il dolore e risvegliarne la speranza. Insieme.
Prof. Sergio Pepe Consulente Familiare, Mediatore Familiare, Formatore Gordon
http://www.consultorio-famiglia-giovani.it
DALLA NAVATA
XXXII Domenica del tempo ordinario- Anno C
2Maccabei 07, 14. È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita»
Salmo 16, 05. Tieni saldi i miei passi sulle tue vie e i miei piedi non vacilleranno. Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio; tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole.
Paolo 2Tessalonicesi 02, 16. Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.
Luca 20, 37 Che poi i morti risorgano, lo ha palesato anche Mosè al roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui»
Commento di Luciano Manicardi – Comunità di Bose
La pericope evangelica della XXXII domenica dell’Ordinario presenta una controversia tra Gesù e i Sadducei circa la fede nella resurrezione (Lc 20,27-38). I sadducei erano rappresentanti di quel movimento aristocratico-sacerdotale che si caratterizzava per una stretta interpretazione della sola Torah scritta, prescindendo dalla Torah orale che il movimento farisaico faceva risalire anch’essa al Sinai. Pertanto, non trovando nella Torah scritta affermazioni esplicite circa la resurrezione, i Sadducei, a differenza dei farisei, non credevano alla resurrezione. Non a caso, anticipando l’argomento della discussione, Luca accompagna l’ingresso in scena dei Sadducei (e si tratta dell’unica e sola volta in cui i Sadducei compaiono nel terzo vangelo) con l’inciso: “i quali dicono che non c’è resurrezione” (v. 27). Il testo presenta una prima parte in cui i Sadducei pongono a Gesù un caso studiato a tavolino che si conclude con una domanda (vv. 27-33) e una seconda che presenta la risposta di Gesù (vv. 34-38).
Essi sottopongono a Gesù il caso – una finzione costruita ad arte -, di sette fratelli che sono morti senza lasciare figli dopo avere sposato in successione la stessa donna. Questa sorta di esercitazione scolastica, viene giocata dai Sadducei per mettere in ridicolo la credenza nella resurrezione dei morti. Essi espongono ciò che dice la Torah (v. 28), quindi narrano la storiella dei sette fratelli e della donna (vv. 29-32) e infine pongono una domanda a Gesù (v. 33). Il fine è quello di mettere in ridicolo la fede nella resurrezione. Essi citano la legge sul levirato come espressa in Dt 25,5-6. Essa dice che il fratello di un uomo sposato che muore senza avere figli, sposerà la vedova e il figlio primogenito che nascerà “andrà sotto il nome del fratello morto, perché il nome di questi non si estingua in Israele”. La storia dei sette fratelli e della loro identica sorte – morte senza figli –, a cui segue la morte della donna stessa, sfocia nella domanda che dovrebbe mettere con le spalle al muro il loro interlocutore e mostrare l’assurdità della credenza nella resurrezione, o almeno i problemi che arriva a comportare: “La donna dunque, alla resurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie” (v. 33).
Prima di esaminare la risposta di Gesù ci possiamo interrogare sulla dimensione ermeneutica del testo. Come questa storiella fittizia e anche grottesca riguarda il credente oggi? Cosa ci dice, se ci dice qualcosa? In realtà, il problema centrale del testo, la fede nella resurrezione, tocca da vicino l’uomo d’oggi e anche i credenti. Oggi alla posizione “colta” che critica il cristianesimo che con la resurrezione dimostrerebbe di non saper abitare il tragico come gli antichi greci, e a quella che vede nella resurrezione un’evasione nell’aldilà, un inverificabile happy end consolatorio apposto alla drammaticità della storia, si affiancano la reticenza e l’imbarazzo che spesso abitano gli stessi credenti di fronte alla fede nella resurrezione. A volte non siamo poi così distanti dalle posizioni dei Sadducei. Forse ci scandalizza di più la resurrezione che la morte di croce. Dunque, il primo messaggio che emerge dal testo è la fede nella resurrezione come scandalo. Ma è uno scandalo che si oppone all’ovvietà della morte. La resurrezione è tutto fuorché ovvia. È l’incredibile per eccellenza, e dunque il vero contenuto della fede che chiede di credere l’incredibile. La fede cristiana è fede nella resurrezione e la fede nella resurrezione è, tout court, la fede cristiana. Fede che Cristo è risorto dai morti e fede che i morti risorgeranno in Cristo. “Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” (1Cor 15,17); “Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!” (1Cor 15,13).
Un elemento che colpisce ancora nel “caso di scuola” creato dai Sadducei è l’uso disinvolto e totalmente privo di compassione di situazioni che nella realtà sono tragiche e dolorose come la morte, la vedovanza, l’assenza di figli. Il testo di Dt a cui essi si riferiscono è teso a dare vita, speranza e futuro anche a chi moriva senza figli, ma essi stravolgono quella finalità e il loro discorso è un vero e proprio inno alla morte. Per quattro volte ricorre il verbo “morire” (apothnéskein: vv. 28.29.31.32), due volte l’espressione “senza figli” (áteknos: vv. 28.29), una volta l’espressione “non lasciare figli” (v. 31). Il loro parlare (e pensare) è dominato dall’ossessione della morte. La riduzione del dolore umano, di un caso tragico, ad argomentazione dialettica, dice anche il cinismo e la possibile violenza e insensibilità della parola e, in particolare, della parola teologica, almeno quando e se riduce la realtà a casistica, quando e se è scissa dalla compassione umana. Criterio di verità della parola, e anche della parola teologica, è il suo sentire il dolore umano, il suo lasciarsi abitare dalla sofferenza umana, e dunque il suo rifiutarsi di manipolare il dolore altrui e, per quanto possibile, di aggiungere dolore a dolore, di creare sofferenza inutile. Il discorso teologico e pastorale riesce a raggiungere e toccare il credente nel tragico della sua esistenza? O lo usa per difendere o sostenere una posizione dottrinale?
Gesù risponde ai Sadducei riprendendone l’argomentazione che parlava di mariti e mogli, di figli e di matrimonio, e che intendeva la vita futura, la vita aperta dalla resurrezione, come proiezione e prosecuzione di questa vita. La realtà matrimoniale, come l’esercizio sessuale, è realtà penultima, di questo mondo. Affermando la resurrezione, Gesù afferma anche la distinzione, ben presente nella mentalità apocalittica, tra “questo mondo” (v. 34) e “l’altro mondo” (v. 35). Il senso del v. 34 è chiaro: sposarsi e procreare sono realtà di “questo mondo”, mentre coloro che entreranno a far parte dell’altro mondo (essendone stati giudicati degni da Dio: il v. 35 presenta un passivo divino), “non prendono moglie né marito” (v. 35). Ormai risorti essi vivono in Dio e dove regna Dio non regna più la morte (v. 36). Dicendo che i risorti sono “uguali agli angeli” (isángheloi: v. 36), Luca usa un termine che troviamo anche in Filone di Alessandria per affermare che Abramo, una volta morto, divenne uguale agli angeli perché aveva un corpo spirituale. Il riferimento agli angeli va compreso anche in riferimento al fatto che i Sadducei, come ci informa altrove Luca, oltre a non credere alla resurrezione, affermano che non vi sono neppure “angeli né spiriti” (At 23,8).
A questo punto Gesù fa giocare l’argomentazione scritturistica. La resurrezione è attestata già nel passo del roveto (“a proposito del roveto”: v. 37), dunque al cuore della Torah, quando Mosè dice “Signore il Dio di Abramo e Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” (v. 37). In Es 3,6 Dio si presenta a Mosè come attualmente Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, sebbene siano passati secoli dalle vicende dei patriarchi: non dice “io ero”, ma “io sono” il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Non solo egli è vivente, ma anche i patriarchi lo sono, grazie a lui, per lui e in lui. Egli si rivela a Mosè come il Dio fedele all’alleanza, come Dio di viventi e non di morti, dunque come Dio la cui fedeltà è più forte della morte e trascina nella sua vita anche coloro con i quali si è impegnato legandosi a loro in alleanza. Dunque il Dio che davanti a Mosè si autoproclama Dio di Abramo, di Isacco e Giacobbe attesta che anche i patriarchi sono viventi in lui: “tutti infatti vivono per lui” (v. 38). Sta scritto nel quarto libro dei Maccabei: “I nostri patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe vivono in Dio” (IV Mac 7,19); “Coloro che muoiono per Dio vivono per Dio, come Abramo, Isacco e Giacobbe” (IV Mac 16,25). Gesù dunque fonda la fede nella resurrezione sull’autorità di Mosè e della Torah, proprio i riferimenti su cui si erano appoggiati i Sadducei per smentire la credenza nella resurrezione. Con questa esegesi, Gesù si mostra in linea con l’interpretazione farisaica di quel brano. “Dice R. Simaj: da dove sappiamo che la resurrezione dei morti è insegnata nella Torah? Perché sta scritto: ‘Anche con Abramo, Isacco e Giacobbe io ho stabilito la mia alleanza, per dare ad essi la terra di Canaan, la terra dove essi soggiornarono come forestieri’ (Es 6,4). Qui non si dice: ‘per dare a voi’ (figli d’Israele), ma ‘per dare a loro’. Da qui risulta che la resurrezione dei morti è insegnata anche dalla Torah” (bSanhedrin 90b).
Sul piano ermeneutico cosa possiamo trarre da tutto questo? La redazione lucana di questo episodio, assai complesso, riporta il discorso sulla resurrezione all’oggi e alle motivazioni del vivere oggi. Dal testo emerge pertanto una domanda per noi: per chi vivo? Perché vivo? Grazie a cosa vivo? Che cosa mi fa vivere? Se la domanda-trabocchetto dei Sadducei nasconde anche una serietà, questa riguarda il futuro delle nostre relazioni, del nostro amore, dell’amore che spendiamo nell’oggi. E la risposta di R. Simaj, oltre a contestare una visione della vita futura come prolungamento del presente, la strappa anche a speculazioni astratte e riporta all’oggi storico il credente interpellandolo sulle motivazioni del suo vivere. Chi ha una ragione per morire, ha anche una ragione per vivere. Chi ha una ragione per cui dare la vita, ha anche una motivazione per vivere. Dunque: per chi e per che cosa vivo?
Luciano Manicardi Comunità di Bose
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/15289-credere-l-incredibile
DEMOGRAFIA
Inverno demografico
- I Paesi europei e la denatalità. Più che soffermarsi sui drammatici dati statistici forse è quanto mai
opportuno concentrarsi sui rimedi e i tentativi di soluzione del drammatico problema della denatalità, con la premessa che lo Stato non si intrometta se non per incentivare, dato che tale cruciale questione riguarda essenzialmente la privacy delle persone. Il che non può eludere tuttavia l’interrogativo se un figlio sia solo una questione esclusivamente privata o abbia anche risvolti sociali e pubblici. Forse non è inutile interrogarsi sulle soluzioni escogitate da altri Paesi per tentare di risolvere la questione della denatalità.
Nel modello svedese, le donne senza figli, o con un solo figlio, sono poche, mentre quelle con due figli costituiscono la maggioranza; sono molto ridotte le donne con tre figli. Evidentemente, nella società svedese, è largamente diffuso, e peraltro già realizzato, l’ideale di famiglia con almeno due figli in media. In questa situazione è di senso comune che sia stata impostata una politica di sostegno alla famiglia ed alla donna, privilegiando interventi tesi ad armonizzare vita lavorativa e famiglia, mediante l’incoraggiamento al lavoro parziale, flessibile, temporaneo, ed inoltre creando le condizioni per la maternità in giovane età. Si tratta di interventi che vengono qualificati come ‘arte’, cioè come «l’arte di sincronizzare e conciliare vita professionale, condizione di genitore e crescita individuale».
Nel modello francese, si parte dal dato di fatto che le aspirazioni e le inclinazioni delle donne siano molto variabili, in presenza anche di una società multietnica, sicché occorre assecondarle per quanto è possibile. Gran parte delle donne individuano la loro promozione sociale nel lavoro o nella carriera, sicché appare inutile, o può sortire solo effetti molto limitati o parziali, il tentativo di distoglierle da tali attitudini. Un’altra parte delle donne è incline ad una famiglia relativamente numerosa, ma è frenata dalla carenza di risorse economiche e da altri fattori temporali. A tal fine, occorre predisporre incentivi di tipo economico, in modo costante e progressivo specie a partire dal secondo figlio.
Questi due modelli non possono eludere un problema morale di fondo: non è affatto scontato, anzi è discutibile, se debba essere ritenuta più giusta ed accettabile una politica tesa a favorire la distinzione tra le donne che puntano al lavoro ed alla carriera rispetto ad altre che privilegiano la realizzazione in famiglia, soprattutto se, in base al principio dell’uguaglianza, sono diritti fondamentali delle donne tanto il lavoro quanto una procreazione responsabile. Nell’ottica della legislazione francese l’intervento dello Stato non è visto come un’infrazione della libertà individuale, ma come un miglioramento di essa in quanto aiuta le coppie ad appagare i propri desideri. La politica che ne risulta è stata attivamente perseguita per vari decenni e si può dire che faccia ormai parte della cultura dominante. Include varie componenti relative all’assistenza economica, alle abitazioni, all’istruzione pre-scolare, al doposcuola ed ai congedi per maternità e per la cura dei figli.
Il modello svedese appare più rispettoso delle scelte individuali; ma le conseguenze dimostrano che in Scandinavia un numero elevato di donne sole, in condizioni economiche deboli, hanno la totale responsabilità dei figli. Gli interventi a favore della donna e della famiglia messi in atto dal governo francese, puntano ad aumentare la natalità, mentre quelli della Svezia forniscono ampi sussidi familiari alfine di salvaguardare il benessere dei figli e delle coppie, favorendo nel contempo la parità dei sessi, ma senza perseguire l’obiettivo di modificare i comportamenti demografici.
L’Italia, fatta eccezione per il periodo fascista, durante il quale vi fu una politica demografica finalizzata a favorire la nascita di figli maschi da inviare al fronte per perseguire tragici disegni di grandezza, brilla attualmente per la mancanza di qualsiasi progetto demografico a lungo termine
2. Crisi demografica e questione giovanile Uno degli aspetti della crisi demografica è caratterizzata da due fenomeni che possono essere considerati come due facce di una stessa medaglia: la così detta sindrome del ritardo» e la presenza nel teatro sociale dei così detti «bamboccioni». La bassa riproduttività è la conseguenza principale della così detta ‘sindrome del ritardo’, che sembra abbia colpito la società italiana spostando in avanti in maniera quasi patologica l’età dell’assunzione di responsabilità e della conseguente formazione di decisioni e scelte. Se è vero che tutti sentono il desiderio di maternità-paternità, è altrettanto evidente che non intendono realizzarlo incondizionatamente, dal momento che ritengono che entrambi i partner abbiano compiuti gli studi, siano inseriti nel mondo del lavoro e sia disponibile un’abitazione. Il percorso che conduce alla riproduzione implica la costruzione di una stabilità che si consegue attraverso tappe intermedie. E proprio qui sta la differenza col passato, non tanto nella condizione di ‘stabilità’, ritenuta requisito per aver un figlio, quanto piuttosto nella gradualità con cui viene raggiunta a differenza delle generazioni precedenti, dove distacco dalla famiglia di origine, lavoro, casa, gratificazioni sessuali, unione matrimoniale, potevano anche essere eventi contemporanei.
Un altro elemento da non sottovalutare è l’allungamento delle tappe del percorso delle generazioni recenti, a cominciare dalla durata del periodo di studi, a causa non solo del fatto che una maggiore porzione di componenti di ciascuna generazione affronta studi più lunghi, ma anche per l’eccessivo tempo impiegato per concludere i vari curricula. La concentrazione dei ritardi fra le varie tappe fa sì che, per un crescente numero di coppie, il momento della decisione di avere un figlio, pur desiderato e programmato, avviene in una fase avanzata della vita riproduttiva; tale programma non può essere realizzato, per alcune, a causa del sopraggiungere dell’infertilità, per altre per rottura o instabilità dell’unione, per altre ancora, per la percezione di un costo fisico e psicologico accresciuto rispetto alle aspettative. La sindrome del ritardo è, dunque, una delle cause della bassa riproduttività. Emerge, purtroppo, anche una tendenza dei giovani a restare in famiglia oltre i trent’anni, per scelta di opportunità più che per ragioni a volte di forza maggiore connesse alla mancanza di sbocchi occupazionali.
Dal Rapporto sulla coesione sociale emerge che sempre più under 35 non hanno ancora acquisito l’indipendenza. Una fotografia fatta di ‘bamboccioni‘ che continuano a dipendere dai genitori e non sono ancora in grado di progettare un futuro. Tra i 20 e 30 anni chi ancora non si è sposato in quasi la metà dei casi se ne sta con i genitori piuttosto che andare a vivere per conto proprio. Si tratta di un fenomeno caratterizzato dai così detti adulti-bambini e che segnerebbe anche la fine di un’epoca conflittuale esplosa nel 1968. Dopo un trentennio di sperimentazioni e novità le nuove generazioni sembrano aver trovato un assetto di convivenza affettiva, ma forse troppo prolungata. Tale tendenza è ad un passo dal produrre un paradosso di figli più vecchi dei padri. Siamo così dinanzi ad un circolo vizioso tutto italiano: i genitori sono più vecchi e i loro figli invecchiano in casa senza diventare genitori. Sembra che la famiglia sia diventata il luogo della libertà individuale e sovente della comodità. Ci troviamo così dinanzi, come è stato osservato, ad una ‘famiglia federale’ nella quale ciascuno ha un pezzo di potere sulla propria vita. Si tratta di famiglie non più fondate sulla comunanza di esperienze, risorse, idee, ma piuttosto sulla necessità di fornire e ricevere servizi avendo, in cambio, una certa quantità di ‘aiuto morale’ da far valere contro le difficoltà di un mondo in rapido cambiamento. Si è parlato a tal proposito dei così detti ‘bamboccioni’, anche se occorre dire che non tutte le responsabilità sono da imputare ai giovani data la drammatica crisi occupazionale odierna. Ad ogni modo, il bamboccione è un soggetto che potenzialmente ha due personalità critiche: quella dell’insufficiente e quella dell’inibito. Sono bamboccioni tutti coloro che continuano a dipendere dai genitori:
- per inibizioni personali, per cui non hanno elaborato il distacco dai genitori; in tal caso si tratterebbe dei così detti ‘mammoni’.
- per convenienza, per cui sono insufficienti per scelta e per incapacità personale; e allora si tratta di debolezza.
Queste due tipologie si riferiscono propriamente al bamboccione distinguendo tra chi, avendone le capacità, potrebbe rendersi autonomo, ma non lo fa; e chi, invece, è incapace di risolvere la sua situazione senza il sostegno dei genitori. Per superare tale sindrome è quanto mai opportuno accelerare il processo di autonomia, incoraggiare l’assunzione di responsabilità, rendere spendibili formazione e capacità. Tutto questo ha un duplice significato sul piano demografico ed anche nei risvolti etico-sociali: da un lato, diminuisce, per le famiglie, il tempo di dipendenza dei figli alleggerendo, di conseguenza, il costo di riproduzione e formazione della prole; dall’altro lato, accorcia i tempi delle scelte riproduttive.
3. La legge 194\1978 applicata solo in parte. Secondo un Parere del Comitato nazionale di bioetica del 2005 intitolato: ‘Aiuto alle donne in gravidanza e depressione post-partum’, la legge 194 non è stata sufficientemente applicata specialmente nella prevenzione e nell’aiuto alla donna in gravidanza per evitare la drammatica decisione di abortire. Dopo aver rilevato che la stessa intitolazione della 194 fa “innanzitutto riferimento alla tutela sociale della maternità”, il Comitato afferma che le disposizioni che “si incentrano sul concetto di aiuto alla donna da offrirsi nel momento in cui accedere al colloquio previsto dalla normativa, avrebbero dovuto costituire l’aspetto unanimemente condiviso dell’approccio sociale giuridico al problema dell’aborto, ma la loro attuazione secondo un giudizio ampiamente condiviso è rimasta insufficiente“. Tali disposizioni, “orientate al fine di rimuovere le cause che porterebbero la donna all’interruzione della gravidanza”, rileva il comitato di bioetica, muovono “nel senso di un impegno dei servizi socio-sanitari sia nell’interesse della donna, sia nell’interesse del concepito ed esprimono la non indifferenza, in ogni caso, dell’ordinamento giuridico rispetto alla prospettiva di un’interruzione della gravidanza“. In tal senso, secondo il Comitato, “rispondono a una finalità preventiva dell’aborto da realizzarsi, secondo la volontà espressa dal legislatore, attraverso il dialogo e l’aiuto”. Inoltre, è il richiamo del comitato, “una speciale attenzione va riferita alle donne immigrate, soprattutto se la loro presenza in Italia non sia regolare“. Questa effettivamente rappresenta uno dei grandi problemi della questione dell’aborto perché è a tutti evidente una posizione di debolezza e fragilità proprio della stragrande maggioranza delle donne immigrate che più di tutte hanno bisogno di aiuto concreto e di incoraggiamento efficace. Occorre perciò recuperare “un ampio impegno condiviso a sostegno alla donna in gravidanza, così da rendere palese nel contesto sociale e nella pubbliche istituzioni un clima positivo di disponibilità verso la gravidanza in atto, clima la cui impercettibilità è sembrata, non di rado, scarsa“. E perciò necessario distinguere, nel colloquio, una fase mirata all’aiuto sociale, economico e psicologico e tale da coinvolgere competenze ulteriori a quella sanitaria. Nel corso del colloquio, perciò, va fatto tutto quanto è necessario affinché la donna abbandoni la scelta dell’aborto, che invero costituisce sempre una decisione traumatica e tragica. È inaccettabile inoltre, “sia rispetto ai diritti delle donne sia rispetto alla dignità dei portatori di anomalie o malformazioni, che nell’ipotesi più frequente relativa all’articolo 6 della legge quella in cui un grave pericolo per la salute psichica della donna in caso di prosecuzione della gravidanza risulta riferito a rilevanti anomalie o malformazioni del feto, si consideri, nel sentire sociale, il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza come scontato”. Non c’è dubbio che proprio questo aspetto genera inquietudine nell’opinione pubblica perché sovente nell’ipotesi di malformazione del nascituro viene prescelta quasi automaticamente la via dell’aborto. Senza voler sindacare su questo gravissimo problema che tocca nel più profondo il vissuto delle persone, risulta tuttavia quanto mai urgente una presa di coscienza ed un’adeguata attenzione soprattutto alla luce di interrogativi se la vita debba essere accettata e accolta soltanto quando si è integri, sani e forti secondo i ben noti canoni della società del benessere e dei consumi Anche alla luce di questa presa di posizione del Comitato nazionale di bioetica emerge il problema di una prevenzione concreta e di una dissuasione fattiva rispetto alla grave decisione di abortire. Il che non vuol dire porre mano alla riforma della legge 194, quanto piuttosto di applicarla in tutte le sue parti.
Prof. Armando Savignano, docente di filosofia morale, Università di Trieste 24 settembre 2022
Comitato nazionale per la bioetica
AIUTO ALLE DONNE IN GRAVIDANZA E DEPRESSIONE POST-PARTUM
Documento approvato nella seduta Plenaria del 16 dicembre 2005
ECUMENISMO
Dialogo con l’ebraismo. Il Sae suggerisce: “vocazione” e non “conversione” di san Paolo
Quella di san Paolo non è stata una «conversione», ma una «vocazione». Parte da questo presupposto la richiesta contenuta in una petizione promossa dal Segretariato attività ecumeniche (Sae) e inviata al prefetto del Dicastero per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti, mons. Arthur Roche, e al segretario, mons. Vittorio Francesco Viola: modificare ufficialmente la denominazione “Festa della Conversione di San Paolo” in “Festa della Vocazione di San Paolo”, che peraltro coincide con la conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Finora la proposta è stata firmata da 164 persone: vescovi, teologhe e teologi, liturgisti, bibliste e biblisti, studiosi, presbiteri, religiose e religiosi e da «numerosi altri membri del popolo di Dio», fra cui anche diversi protestanti ed ebrei (è possibile sottoscriverla ancora sul sito web del Sae: www.saenotizie.it).
Nelle fonti neotestamentarie – spiegano dal Sae – quella di Paolo non appare, come spesso invece è considerata, come una conversione dall’ebraismo al cristianesimo, che peraltro nella prima metà del I secolo d. C. non esisteva ancora come religione definita. Nelle parole di Paolo si tratta piuttosto di una rivelazione del Signore risorto e di una chiamata ad essere apostolo delle genti.
Infatti «il termine “conversione” è dotato di tre significati principali: passaggio da una comunità di fede a un’altra; cambiamento di vita di persone o comunità che decidono di abbandonare la “via dei peccatori”; un impegno di purificazione e rinnovamento quotidiano della propria vita spirituale», si legge nella petizione.
«La chiamata alla conversione e al “cambiamento di mentalità” (metanoia) è posto all’inizio della predicazione di Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). Si tratta di un appello sempre attuale per ogni credente. La chiamata di Paolo di Tarso non si conforma a questo andamento». Nel brano “autobiografico” della lettera ai Galati infatti «Paolo parla di un’improvvisa rivelazione e di una chiamata avvenuta per scelta divina senza riferirsi ad alcun processo di pentimento personale relativo alla sua precedente condotta». Anche quando parla di «giudaismo» – peraltro parola assai rara nel lessico neotestamentario –, «Paolo non si riferisce alla sua appartenenza ebraica da lui sempre affermata e mantenuta. Anzi, lo stesso qualificarsi come “apostolo delle genti” (Rm 11,13) presuppone il mantenimento della sua appartenenza ebraica».
Insomma «Paolo apostolo è un ebreo che annuncia Gesù Cristo a non ebrei». L’espressione «conversione» risulta «impropria» in base alla testimonianza di Paolo stesso e «può ingenerare l’errata convinzione che Paolo si sia convertito in quanto ha cessato di essere ebreo per diventare cristiano», oltre che «auspicare una forma di proselitismo nei confronti degli ebrei, prassi un tempo tenacemente perseguita con metodi quasi sempre riprovevoli, ma oggi apertamente e ufficialmente respinta» dalla Chiesa cattolica. Paolo «è diventato infatti non già un cristiano bensì un ebreo credente in Gesù Cristo».
Ecco allora la richiesta inviata al Dicastero vaticano per il culto divino: modificare ufficialmente la denominazione «Festa della Conversione di San Paolo» in «Festa della Vocazione di San Paolo». Si tratta di una richiesta che, in senso stretto, riguarda solo la Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia, precisano dal Sae, collocata in un contesto più ampio, «la modifica è dotata di un rilevante significato in ambito ecumenico e fornisce un ulteriore impulso al fondamentale dialogo tra la Chiesa e il popolo ebraico». Siamo sempre più convinti, spiega la presidente del Sae, la predicatora valdese Erica Sfredda, che «il dialogo, sia ecumenico sia di altra natura, sia più che mai indispensabile per vincere ogni forma di conflittualità».
Luca Kocci Adista Notizie n° 38 del 05 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68948
FAMIGLIA DI FATTO
Separazione, mantenimento e affidamento dei figli
I figli della famiglia di fatto sono stati equiparati a quelli nati dal matrimonio dalla legge n. 219/2012, nuove tutele sono state previste dalla legge Cirinnà n. 76/2016 e da ultimo dalla legge n. 206/2021 di riforma del processo civile
- Famiglia di fatto e tutele. La famiglia di fatto e le coppie omosessuali hanno raggiunto importanti obiettivi. La legge prevede tutele per le coppie che decidono di non convolare a nozze, ma anche per i figli nati all’interno di realtà che rifiutano di contrattualizzare il legame che li unisce dal punto di vista affettivo.
- Figli delle coppie di fatto: la disciplina normativa. La legge n. 219/2012, in vigore dal 1° gennaio 2013, equipara i figli nati da una coppia di conviventi a quelli di una regolare coppia sposata. In questo modo i genitori, coniugati o meno, hanno nei confronti dei figli i medesimi diritti e doveri delle coppie unite in matrimonio. Non esistono differenze per quanto riguarda la competenza processuale e la successione.
Il Tribunale ordinario è competente nel risolvere le questioni relative all’affido e al mantenimento dei figli sia di coppie sposate che di fatto, anche se, in virtù della riforma del processo civile contenuta nella legge delega n. 206/2021, dal 22 giugno 2022 sono intervenute alcune modifiche che hanno comportato il passaggio di alcune materie alla competenza del Tribunale dei Minori. Modifiche che toccheranno più profondamente la competenza degli organi giudiziari a partire dal 2024, anno previsto per l’entrata in funzione del nuovo Tribunale dedicato alle persone, ai minorenni e alle famiglie.
- Separazione coppia di fatto e mantenimento figli. Per quanto riguarda il mantenimento dei figli, analizzando la normativa in essere, si rileva che la Legge Cirinnà, che ha introdotto importanti novità per le coppie di fatto, presenta tuttavia il difetto di non garantire, in caso di separazione, una tutela adeguata al convivente più debole economicamente. La legge infatti non prevede la corresponsione di un assegno di mantenimento a favore del convivente più svantaggiato, ma solo il diritto agli alimenti da commisurare alla durata della convivenza, Deteriori rispetto al coniuge sono anche i diritti successori.
Discorso completamente diverso deve essere fatto per i figli e il loro mantenimento. I genitori devono infatti provvedere alle loro necessità in misura proporzionale alle rispettive capacità reddituali ed economiche. Il Giudice dopo aver confrontato le diverse posizioni dei due ex conviventi deciderà chi tra i due è tenuto a corrispondere l’assegno di mantenimento e la misura dello stesso. Nella determinazione dell’entità dell’assegno il magistrato deve tenere conto altresì del tenore goduto dai figli durante la convivenza.
Altra questione da regolare è quella relativa alle spese straordinarie, stabilite solitamente nella misura del 50% a carico di entrambi i genitori. Questi costi sono correlati alle esigenze di crescita del bambino e si caratterizzano per la loro imprevedibilità e occasionalità (gite, spese dentistiche, concerti, sport, corsi musicali).
- Separazione coppia di fatto e affidamento figli. La parificazione dei figli naturali a quelli legittimi comporta l’applicazione della disciplina sull’affido condiviso, che enuncia il principio della bigenitorialità. Questo significa che la potestà genitoriale viene esercitata da entrambi i genitori. Discorso diverso deve essere fatto per la collocazione fisica del figlio. Si ritiene infatti che, per l’equilibrio psico-fisico del minore, sia preferibile che costui dorma e trascorra le proprie giornate presso l’abitazione del genitore collocatario capace di assicurare una maggiore presenza e cura, anche se certa giurisprudenza tende a incoraggiare il pernottamento di una o due notti presso il genitore non collocatario, che in genere è ancora il padre.
- Negoziazione assistita per mantenimento e affidamento figli. Dal 22 giugno 2022 la soluzione giudiziale non è più l’unico metodo a cui le coppie di fatto possono ricorrere per dibattere sulle questioni dell’affidamento e del mantenimento dei figli. I genitori di figli nati fuori dal matrimonio possono infatti ricorrere alla negoziazione assistita per risolvere le questioni che riguardano l’affidamento e il mantenimento dei figli minori, il mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente, la determinazione degli alimenti e le modifiche di tutto quanto indicato. Per quanto riguarda nello specifico la conclusione dell’accordo la legge richiede l’assistenza di almeno un avvocato per parte.
www.studiocataldi.it/articoli/20116-negoziazione-assistita-guida-pratica-alla-stipulazione-dell-accordo-con-fac-simile.asp
- Giurisprudenza Cassazione sulla famiglia di fatto. Una serie di massime della Cassazione sulla famiglia di fatto:
- Cassazione, quinta Sezione civile, ordinanza n. 20956, 1° luglio 2022
La discussione sull’applicabilità, alle persone civilmente unite, del regime esonerativo di cui all’art. 19, l. n. 74 del 1987, per gli atti traslativi conseguenti alla crisi matrimoniale e, segnatamente, per quanto concerne le attribuzioni patrimoniali compiute in occasione dello scioglimento dell’unione civile, in virtù del richiamo alla relativa disciplina civilistica operato dal comma 20 dell’art. 1, l. n. 76 del 2016, per il quale “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio (…) ovunque ricorrono nelle leggi (…) si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile”), è comunque estranea alla controversia oggetto d’esame. I nuovi istituti hanno recepito un diverso modo di intendere e concepire l’istituzione familiare, slegato da un modello generale e immutabile, che ha trovato via via riconoscimento nella giurisprudenza ordinaria ed in quella della Corte Costituzionale, muovendo da una interpretazione sistematica ed evolutiva degli articoli 2 e 29 della Costituzione. Essi segnano il definitivo superamento dell’opinione, un tempo diffusa, secondo cui le cd. convivenze more uxorio costituirebbero un fenomeno puramente fattuale, e tuttavia permane pur sempre la distinzione, già sul piano costituzionale, dalla famiglia fondata sul matrimonio. (…) La Corte (EDU) tuttavia, ha costantemente riconosciuto agli Stati contraenti la facoltà di accordare una «tutela privilegiata» alle coppie unite in matrimonio, affermando che l’art. 8 Cedu non obbliga ad attribuire alle coppie di fatto uno statuto giuridico analogo a quello delle coppie coniugate e ritenendo ammissibili differenze di trattamento in materia di benefici previdenziali, di diritto di abitazione della casa familiare dopo la rottura del rapporto di coppia, di diritto alla pensione per superstiti. La Corte ha anche affermato che l’art. 12 Cedu, pur garantendo la libertà negativa di non sposarsi, non assicura alle coppie che compiano tale scelta il diritto a fruire degli stessi benefici accordati alle coppie coniugate.
- Cassazione, seconda Sezione civile, ordinanza n. 5086/16 febbraio 2022
www.studioruggeri.it/cassazione-civile-ordinanza-16-febbraio-2022-n-5086
L’art. 936 c.c., trova applicazione soltanto quando l’autore delle opere sia realmente terzo, ossia non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale che gli attribuisca la facoltà di costruire sul suolo. La norma mira a regolare gli effetti patrimoniali che conseguono ad un’attività di costruzione su suolo altrui ad opera di chi o non sia vincolato al proprietario dell’immobile da alcun rapporto negoziale ovvero lo sia ma in ragione di un rapporto giuridico che non comporta una specifica disciplina della realizzazione dell’opera. Il principio è talmente ancorato alla tradizione giuridica che non prevede deroghe nemmeno nel rapporto coniugale: invero, anche se un coniuge contribuisce alla realizzazione di un edificio situato sul fondo di esclusiva proprietà dell’altro non acquista alcun diritto sullo stesso, né esso può costituire oggetto di comunione. Il coniuge non proprietario potrà tutt’al più, chiedere la ripetizione di quanto versato, purché sia in grado di provarne i conferimenti (Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2010, n. 20508).
La questione giuridica sollevata dal ricorrente attiene alla qualificazione giuridica dell’azione posta in essere dal convivente more uxorio nei confronti del proprietario del suolo, una volta cessata la convivenza, che abbia contribuito con il proprio lavoro o con dazioni di denaro alla costruzione della casa che sarebbe dovuta diventare o era diventata abitazione comune. In tal caso, le prestazioni di opera e di denaro vanno a vantaggio del proprietario esclusivo del fondo sul quale l’opera fu edificata che, per il principio di accessione, acquista la proprietà di quanto realizzato mediante il contributo del convivente o di chi è stato legato da una relazione sentimentale, per la realizzazione di un progetto di vita comune. Secondo l’orientamento di questa (Corte Cassazione civile sez. III, 07/06/2018, n. 14732), al quale il collegio intende dare continuità, l’azione deve essere inquadrata nell’ambito dell’azione generale di arricchimento senza causa, connessa allo scioglimento della famiglia di fatto.
Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 31672/26 ottobre 2022
Il diritto all’assegno vitalizio di cui all’art. 580 c.c., che sorge “ex lege” per responsabilità patrimoniale del genitore biologico avente fonte nel fatto procreativo, spetta anche al figlio che abbia già il diverso “status” di figlio altrui e nel novero dei figli “non riconoscibili” devono comprendersi anche coloro che, avendo un diverso stato di filiazione, per scelta consapevole non hanno impugnato il precedente riconoscimento o non hanno proposto azione di disconoscimento di paternità, non potendo negarsi al figlio, pena la violazione degli artt. 2 e 30 Cost., e 8 CEDU, la possibilità di scegliere tra la minore tutela successoria di cui all’art. 580 c.c., conservando la stabilità della sua identità familiare precedente, e quella “piena” che gli competerebbe ove facesse giuridicamente accertare la filiazione biologica.
Annamaria Villafrate Studio Cataldi 31 ottobre 2022
www.studiocataldi.it/articoli/23535-famiglia-di-fatto-separazione-mantenimento-e-affidamento-dei-figli.asp
FEDERAZIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA
La FCEI riunisce l’Unione cristiana evangelica battista (UCEBI), la chiesa valdese, la chiesa metodista, la chiesa luterana, l’Esercito della Salvezza, la Comunione di chiese libere e la Chiesa apostolica italiana. Conformemente allo Statuto, partecipano alla Federazione in qualità di “osservatori” l’Unione delle chiese cristiane avventiste del 7° giorno (UICCA) e la Federazione delle chiese pentecostali (FCP).
Sola Scrittura. Solo Cristo. Sola Grazia. Sola Fede. (Sola Scriptura. Solus Christus. Sola gratia. Sola Fide). Questi sono quattro principi fondamentali della Riforma della chiesa, il cui inizio è convenzionalmente collocato il 31 ottobre del 1517. In questa data, infatti, Martin Lutero affisse le sue 95 tesi sul portale della chiesa del Castello di Wittenberg. A partire dal XVI secolo, la Riforma protestante si espande e si trasforma, portando alla nascita di movimenti e chiese che, ancora oggi, si ispirano al principio di una chiesa “semper reformanda”.
Messaggio conclusivo dell’Assise della FCEI 2022
«Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, a che punto è la notte?». La sentinella risponde: «Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare, interrogate pure; tornate un’altra volta». Isaia 21,11-12
Come il profeta Isaia, che parlava in un tempo di deportazione, sofferenza e crisi, sappiamo di camminare in tempi bui e difficili.
Camminiamo nella notte quando nel nome del nazionalismo, degli interessi economici, delle appartenenze religiose scoppiano guerre che non riusciamo a fermare.
Camminiamo nella notte quando la terra che Dio ci ha affidato perché la custodissimo si desertifica, quando diventa arida e repellente, quando costringe i suoi abitanti a cercare rifugio in altri paesi e in altri continenti. Quando milioni di persone non hanno cibo per sfamarsi, acqua per dissetarsi e irrigare i campi, accesso alle cure, a una casa dignitosa, all’istruzione, ai vaccini.
Camminiamo nella notte quando non riusciamo a dare speranza e fiducia alle nostre figlie e ai nostri figli, sempre più spesso convinti che il loro futuro sarà peggiore del nostro passato. Quando tante persone, giovani ed adulti, lavorano senza percepire il giusto salario; quando tanti immigrati sono sfruttati e talora trattati come schiavi privi di diritti umani fondamentali; quando le donne sono ferite, uccise o violate da un potere maschile violento e distruttivo; quando le persone sono discriminate, offese e persino uccise per la loro identità di genere e orientamento sessuale.
Camminiamo nella notte quando vediamo vacillare i principi fondamentali delle democrazie; quando oligarchi, magnati e demagoghi irrompono sulla scena pubblica e, nel nome del popolo, propagandano una pericolosa miscela di nazionalismo, sovranismo, militarismo, radicalismo. E quando tutto questo limita i diritti umani, la libertà di parola e di coscienza; quando altera e manipola la verità; quando porta alla chiusura delle frontiere e a respingere immigrati e richiedenti asilo.
In questo tempo dobbiamo vigilare, consapevoli che Dio ci chiama a restare svegli, ad aprire occhi a cuore di fronte alle ingiustizie. Non ci rassegniamo al pensiero dominante che pone al centro il profitto e il proprio interesse di individui, di popolo, di etnia. Denunciamo gli atteggiamenti xenofobi e razzisti, le idee e la propaganda antisemita e le discriminazioni nei confronti di varie comunità di fede, prima tra tutte quella islamica, che riscontriamo nella società europea e anche italiana.
Ci adoperiamo per sostenere chi vacilla, chi chiede soccorso, chi ha bisogno di protezione. A questo prossimo e a questa prossima apriamo le porte delle nostre chiese, dei nostri centri di aiuto e di accoglienza; di fronte a loro testimoniamo che l’Evangelo che predichiamo e che ci muove si incarna in gesti concreti di giustizia, pace, salvaguardia del creato.
Nell’attesa dell’alba nuova del Regno di Dio, noi camminiamo in questo tempo di oscurità profonda, nella fiducia che colui che cammina con noi e illumina i nostri passi incerti è Gesù Cristo, “la luce del mondo” (Gv. 9,5). Nel buio della falsità che si traveste da verità, noi annunciamo che “il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità” (Ef. 5,9). Quando la vita di molti, di troppe, attraversa una galleria buia e tutto ciò che era familiare diventa ostacolo nell’oscurità, noi riaffermiamo che “la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta” (Gv. 1,5).
Tutto questo non ci esime dal sentire sulla nostra coscienza il peso di tutto ciò che per noi è “peccato”: il peccato di non aver saputo costruire la pace e la giustizia, custodire con cura la buona creazione di Dio, testimoniare con gioia e concretezza la nostra speranza in Cristo che fa ogni cosa nuova. Ma ci permette di vivere nella grazia e di camminare nella notte buia riconoscendo i tanti segni di speranza, i tanti germogli del Regno che viene, le tante voci che rompono il silenzio: l’interrogazione di chi chiede quanto è ancora lunga la notte, e la risposta fiduciosa della sentinella che ci conferma che il giorno verrà.
È questo il senso profondo della fede in Cristo che annunciamo: quando le tenebre sono più scure, immaginare la luce; dove regna lo sconforto, testimoniare la speranza; quando vincono la chiusura e gli egoismi, affermare l’accoglienza e la comunione; nel tempo dell’oppressione e della guerra, costruire la giustizia e la pace. “La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere
delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Romani 13,12).
www.nev.it/nev/wp-content/uploads/2022/11/Assise-FCEI-2022-messaggio-conclusivo.pdf
La Riforma, una storia di passione
Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio; poiché l’amore è forte come la morte, la passione è dura come lo sheol [regno dei defunti]. Le sue fiamme sono fiamme di yah [Jahvè], una fiamma ardente. Le grandi acque non potrebbero spegnere l’amore, né i fiumi sommergerlo. (Cantico dei Cantici 8, 6-7a)
Festeggiare la festa della Riforma con il Cantico dei Cantici può sembrare un azzardo. Cosa hanno in comune le parole di due giovani amanti, che si giurano amore eterno, con un evento che ha rivoltato la chiesa come un guanto, che ha avviato processi di rinnovamento ecclesiale da fare arrossire i nostri pallidi sinodi? Processi che ci hanno generato, che ci hanno reso la chiesa che siamo.
Celebrare la Riforma con il Cantico, oggi, significa interrogarsi su quella passione per Dio che ha infiammato una generazione e messo in moto un processo di verifica e di riscoperta della fede. Se ci sentiamo spenti e incapaci di ardere per Dio, come lo furono le nostre madri e i nostri padri, il Cantico ci spinge ad osare, a soffiare sulle nostre ceneri per ravvivare la brace.
Con il Cantico ci mettiamo alla ricerca di quella passione sopita, nella notte della storia e, proprio come la Sulamita, la giovane innamorata del Cantico, osiamo sfidare il buio della fede alla ricerca dell’Amato. E non ci daremo pace fino a quando non lo avremo ritrovato e potremo abbracciarlo per ricevere i suoi baci.
Celebrare la festa della Riforma con il Cantico dei Cantici significa focalizzare l’attenzione su ciò che davvero conta per credere, vivere, abitare la terra, ricercando la vita buona. Un invito a ritornare all’essenziale, a ciò che non si consuma in un fuoco di paglia, che non si beve in un sorso: ciò che rimane anche quando le acque sembrano sommergere ogni cosa.
Ciò che non si può comprare con nessuna valuta, tanto meno con una carta di credito blasonata.
La Riforma è stato un momento puntuale della storia, in cui una generazione di credenti, di fronte allo smarrimento di una chiesa ripiegata su se stessa, una chiesa potente, scandalosamente sfarzosa rispetto alla povertà della gente, ha osato domandarsi: ma cosa è centrale nel credere? Qual è il nucleo incandescente della fede? Il fuoco che brucia e non consuma, capace di strapparci al conformismo, all’abitudine, al calcolo e al cinismo…
È iniziata così una ricerca di senso appassionata, dolorosa eppure bellissima.
Nella notte della chiesa, la Riforma è stata quella ragazza audace che ha osato sfidare i pericoli della città notturna, i guardiani dell’ortodossia, e mettersi nuovamente in ricerca dell’amato perduto. Non ha temuto di essere fermata, picchiata, spogliata proprio da quelle sentinelle che avrebbero dovuto proteggere il fuoco della fede.
Noi siamo figli e figlie di questa storia d’amore per Dio. Nasciamo da quella passione. Le fiamme di yah [Jahvè] ci abitano anche se, come le ragazze stolte della parabola, abbiamo lasciato spegnere le nostre torce.
Oggi, le parole del Cantico dei Cantici ci destano da quel torpore, ci fanno udire il grido della festa, la voce dello sposo che chiama. Una storia d’amore appassionata. È così che possiamo raccontare la Riforma. In un momento di crisi, quando tutto nella chiesa sembrava deformato, abbruttito, alcuni credenti hanno osato sedersi intorno a un tavolo e chiedersi se aveva ancora senso stare insieme. Proprio come due coniugi litigiosi o indifferenti che, prima di lasciarsi, si concedono un’ultima possibilità chiedendosi: “ma noi perché stiamo insieme? Ci sono ragioni per restare oppure è tutto finito?”.
A quella crisi, la Riforma ha trovato 5 ragioni per restare. E le ha trovate andando all’essenziale, a ciò che davvero conta. La tradizione lo ha riassunto nei 5 sola. Ricordate?
Solo cinque cose occorrono per credere, per ritrovare l’amato perduto, per cambiare e ricominciare a vivere la vita buona della chiesa: cinque sola. Mi piace questo paradosso: si ricerca l’essenziale, quell’unicum (sola) e lo si esprime al plurale (cinque). La Riforma è figlia della Scrittura, una parola essenziale, fondativa eppure plurale, per nulla dogmatica: un libro e, insieme, tanti libri che tra loro dialogano, una verità che non si consegna in un dogma, ma in tante storie che si confrontano, tante quanti sono i libri della Bibbia. La Riforma è figlia dei Vangeli: al centro solo Gesù, nostro Signore, ma raccontato con quattro diversi sguardi, non sempre conciliabili in un unico sguardo. È anche per questo che la ricerca non è mai ultimata e la Riforma nella storia non si conclude con un evento puntuale; piuttosto, è un processo, un continuo movimento (Ecclesia semper reformanda).
Cinque sola che oggi proviamo a riscrivere per riavvicinarli a noi:
- Sola Grazia, per ricordarci che la fede è un dono e la relazione con Dio è all’insegna della gratuità. Dio non si può comprare, ma anche la sua creatura, che è a sua immagine, va liberata, sottratta al ricatto di una fede che lega con il bisogno di protezione o, peggio, con la paura.
- Solo Cristo. Al centro della fede cristiana c’è un incontro non con un’idea, ma con una persona. La fede è questa relazione personale, unica. Che passa attraverso un “tu”, qualcuno che pronuncia il tuo nome. Un’esperienza particolare che ti apre all’universale proprio radicandosi in una storia concreta, in un volto, in un nome. Il cuore di chi vive totalmente una storia d’amore viene circonciso dall’amore. Amando quell’unico amato si comprende il senso dell’amore e si impara ad amare il mondo. Il cantore di Nazareth ci svela quel Dio amorevole, creatore del mondo, che si prende cura di ogni piccola creatura della terra.
- Sola fede: la fede è fiducia in Dio, nella vita, negli altri. La fede è vestita di speranza, e si affida. È questa postura che ci strappa all’idolo del nostro “io”, al delirio di autosufficienza, alla diffidenza nei confronti degli altri. Credere significa riconoscere la nostra vulnerabilità, la nostra interdipendenza. Prima ancora di essere una qualità spiritale, la fede è una condizione antropologica.
- Sola Scrittura: in tempi bombardati da tante parole, dove le fake news viaggiano parallelamente alle notizie fondate, ci sentiamo smarriti, disorientati. Ritornare ad abitare le Scritture significa mettersi in ascolto di una parola altra, che non fa eco alle mie parole, che mette in scena mondi lontani e, dunque, allarga i miei orizzonti e, insieme, mi permette di specchiarmi in storie capaci di illuminare le mie ombre, i lati oscuri di me, quelli che nego anche a me stessa. La Bibbia è il luogo privilegiato dove riascoltare le storie che fondano la nostra fede. Incontro lì il Dio di Abramo e Sara, il Dio che si schiera dalla parte degli oppressi per strapparli alle grinfie del faraone, È lì che incontro il volto umano di un Dio che chiama, insegna, guarisce, ama fino a consegnarsi agli amici che lo tradiscono e rinnegano. Un Dio che muore, ma che la tomba non può trattenere. Nella Bibbia ritrovo narrata la vita buona come Dio l’ha sognata per noi e per l’intero creato.
- Solo a Dio la Gloria: l’ultimo dei sola prova a riassumerli tutti. È la dichiarazione d’amore di una chiesa appassionata, di un’umanità innamorata: non a noi la gloria Signore, ma solo a Te. La passione non si esime dal fare autocritica, dal confessare la propria inadeguatezza per avere dato peso (è il significato letterale di gloria in ebraico) ad altri signori, altri idoli: al prestigio, al consenso, alla visibilità, al denaro, al guadagno, al potere… e l’elenco diventa legione.
Celebrare la festa della Riforma con il Cantico dei Cantici è sentire la voce dell’amato che ci chiama, che si ostina a chiamarci, che ci invita ad uscire. Il fuoco appassionato di questo amore non è spento e vuole infiammare ancora una generazione, la nostra. Oggi la sua voce ci giunge come il Cantico più bello per ammorbidire i nostri cuori. Buona Festa della Riforma!
Lidia Maggi, pastora battista, Luino Culto 30 ottobre 2022 4 novembre 2022
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/11/lidia-maggi-la-riforma-una-storia-di.html
INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA
45 anni della Legge 22 maggio 1978, n. 194
Prima della legge 194, in tema di aborto volontario, era in vigore l’articolo 546 del Codice penale italiano, datato 1930, condizionato dalla cultura italiana del tempo, come recita il titolo stesso (Titolo X), “Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”: “Chiunque cagiona l’aborto di una donna, col consenso di lei è punito con la reclusione da due a cinque anni”. La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all’aborto.” Nessun riferimento alla dignità umana del feto. Ma la cultura, l’etica sociale e la sensibilità cambiano e nel corso degli anni ’70, già nel dicembre 1970 era approvata la legge 898 che disciplina i casi di scioglimento del matrimonio; nel maggio 1974 si svolse il referendum abrogativo: il «no» fu il 58,3%.
Dopo un acceso dibattito iniziato nel 1975 dal partito radicale, che sottolineava la diffusa piaga dell’aborto clandestino e la necessità di recuperare l’autodeterminazione femminile, si arriva alla legge 22 maggio 1978 n. 194: norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione Volontaria della gravidanza.
www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1978;194
La legge era approvata con 160 voti, contro 148, da comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e sinistra indipendente. Avevano votato contro democristiani, missini, radicali e demo-proletari (questi ultimi due gruppi non erano contrari alla depenalizzazione dell’aborto ma ai limiti che la legge poneva alla totale libertà di abortire).
Il mondo cattolico non si rassegna ed il Movimento per la Vita (MpV), fondato nel gennaio 1980, raccogliendo l’appello di vescovi e dello stesso papa Giovanni Paolo II, raccolgono firme per un referendum abrogativo. Il referendum avviene il 17-18 maggio 1981, preceduto il 13 maggio dall’attentato al Papa (che contribuì a svelenire le polemiche). I risultati furono netti: il “no” contro la proposta dell’MpV raggiunse il 67,9%. I voti referendari mettevano in evidenza gli effetti della progressiva inevitabile secolarizzazione della società italiana.
“Legge per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza ”non sancisce l’aborto come un diritto assoluto. lo depenalizza e regolamenta”
Art.1- Lo stato … riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio l’interruzione volontaria della gravidanza non è metodo per il controllo delle nascite
Art.2- Ruolo dei consultori nell’informare e nel «contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’IVG». I consultori possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni di base ed associazioni che possono aiutare le maternità difficili.
Art. 5- Consultorio e strutture socio-sanitarie devono aiutare a rimuovere le cause di IVG offrendo tutti gli aiuti necessari, “ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza”.
Art. 6- IVG dopo 90 giorni, se pericolo di vita per la donna, o “processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinano grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
Art. 9- Prevede l’obiezione di coscienza. Da questi articoli si comprende che l’opposizione parlamentare all’aborto ha fatto il possibile per inserire nella legge elementi positivi limitanti il danno. Per almeno dieci anni non li ho visti applicare, anzi, come obiettore ho subito la discriminazione professionale, poi gradualmente si è diffusa negli operatori la consapevolezza di impegnarsi sul piano della prevenzione.
Questo l’andamento degli aborti negli anni successivi al 1978:
Il calo progressivo delle interruzioni volontarie è evidente. Dal 2014 gli aborti sono meno di 100.000/anno. Nel 2020 sono 66.413, numero ridotto ma sempre importante, più della popolazione di Mantova (49.308 nel 2017). Quali le motivazioni? Sono molteplici: il calo della popolazione in età fertile, un più diffuso senso di responsabilità della donna (non si afferma più lo slogan “l’utero è mio e ne faccio ciò che voglio”), l’opera socio-sanitaria dei consultori che gradualmente limitano la funzione di distribuire certificati per l’interruzione senza offrire aiuto. Ma la motivazione principale sta nella pratica sempre più diffusa di utilizzare le “pillole dei 2-5 giorni dopo” nel caso di rapporto a rischio gravidanza. Lo conferma anche il Ministro della Salute nella sua relazione al Parlamento del 13 giugno 2022.
www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_3236_allegato.pdf
Relazione Ministro Salute attuazione Legge 194/78 tutela sociale maternità e interruzione volontaria di gravidanza – dati definitivi 2020 (completa di allegati)
Tabelle IVG 2022 – dati 2020
Tabelle IVG 2022 – dati 2020
Data di pubblicazione: 13 giugno 2022 , ultimo aggiornamento 15 settembre 2022
L’utilizzo delle pillole “del giorno dopo” come l’ELLA ONE è stato sempre più facilitato: la pillola dei 5 giorni dopo è in vendita in Italia dal 2012 con ricetta medica, dal 2015 senza ricetta medica per le maggiorenni, dal 2020 senza ricetta medica anche per le minorenni.
Il meccanismo di azione è duplice: inibire o spostare in avanti l’ovulazione, impedire l’impianto in utero dell’ovulo fecondato, quindi dell’iniziale embrione; tecnicamente questa azione è definita come “intercettazione”. Queste pillole sono in commercio come “contraccettivi” nonostante impediscano l’impianto.
Ma quando inizia la vita umana? Dal concepimento o dall’annidamento? Il mondo scientifico, si dice, è diviso. Se inizia dal concepimento, come ci hanno sempre insegnato in un’epoca precedente queste questioni, potrebbe diventa lecito anche fare sperimentazione sull’embrione prima dell’impianto, eseguire la diagnosi genetica preimpianto, ecc.
Ma il mondo scientifico non è diviso. Il mondo scientifico si adegua a quanto richiesto dalla nostra società. Lo dice chiaramente il Rapporto Warnock (1984) il quale, parlando a questo riguardo di “pre-embrione”, ammette che si tratta più di una convenzione che di una convinzione, e conclude: “al fine di acquietare la preoccupazione del pubblico si decide di stabilire a maggioranza che la ricerca potesse essere condotta su qualsiasi embrione fino al termine del 14° giorno dopo la fertilizzazione”.
La Congregazione per la Dottrina della Fede, nella istruzione “Donum Vitæ” (1987) afferma, giustamente, che il concepimento coincide con l’inizio della vita di un nuovo essere umano.
Quale comportamento per noi operatori cristiani di fronte a leggi imperfette come questa? Questi i pronunciamenti del magistero: «Quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui” (Giovanni Paolo II – Enciclica Evangelium Vitæ, 73 1995).
” In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi [aborto, suicidio assistito] vanno affrontati con pacatezza, in modo serio e riflessivo, e ben disposto a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise” (papa Francesco 16/11/ 2017).
Gabrio Zacchè, primario emerito di ginecologia – Mantova 24 settembre 2022
No all’aborto teniamoci stretta la 194
www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1978;194
La decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di abrogare la sentenza Roe vs. Wade del 1973 che codificava l’aborto come un diritto costituzionale – con una delle leggi più libertarie al mondo – rimanda ai singoli Stati di legiferare autonomamente. Molti tra questi Stati americani hanno già reso criminale il ricorso all’aborto (come il Texas) e altri lo faranno a breve. La decisione avrà l’immediato effetto di creare disparità tra le cittadine americane e quasi certamente non contribuirà a diminuire il numero degli aborti legali, perché a chi ha intenzione di abortire basterà spostarsi di Stato.
La cosa ha creato un certo sconcerto nel resto del mondo per varie ragioni: perché gli Usa sono il luogo dove si possono monitorare cambiamenti politici e culturali; perché lì il cattolicesimo conservatore è imperante e agguerrito; perché gli Usa sono considerati (a torto o a ragione) il faro della democrazia e della tutela dei diritti di tutto. Certo, se gli Usa ci rimandano lo stato dell’arte della democrazia e dei diritti, possiamo dire che in questo nostro mondo essi sono in crisi e da tempo.
Mons. Vincenzo Paglia ha rassicurato, in una intervista apparsa sul Corriere, che la sentenza americana è una questione interna agli Usa e che una ridiscussione della 194 in Italia non è in agenda nemmeno per la Chiesa Italiana; anzi si tratterebbe di applicarla di più, almeno per quanto riguarda la parte della tutela sociale della maternità. La legge 194/78 infatti è sostanzialmente diversa da quella americana: nell’articolo 1 vi si legge: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».
Appartengo ad una generazione di cattolici che può ricordare le vivaci discussioni in parrocchia sulla opportunità o meno che lo Stato si dotasse di una legge per decriminalizzare l’aborto. Sono stata cresciuta e formata da quei cattolici che si schierarono a favore dell’introduzione di una legge tesa ad eliminare l’aborto clandestino, permettendo all’Italia con il loro voto a favore della legge 194 del 1978 di depenalizzarne e disciplinarne l’accesso, diminuendo effettivamente il numero di aborti clandestini da subito.
Distinguere tra questione morale e questione legale. Ai fini di un dibattito «serio e pacato» sulla questione, come auspica Mons. Paglia, occorre anzitutto distinguere, riprendendo Kant, tra questione morale e questione legale. Che cosa vuol dire? L’ex senatore Lucio Romano lo spiegava ricordando le parole di Norberto Bobbio che diceva che di fronte alla «scelta sempre dolorosa fra diritti incompatibili…si può parlare di depenalizzazione dell’aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all’aborto».
Ricordo ancora una giovane catechista che forse senza conoscere Kant argomentava: «Io non lo vorrei mai fare, ma perché dovrei impedire a te di farlo, se tu lo vuoi fare?». In fondo è la stessa posizione che portò il Card. Carlo Maria Martini a dire: «Ritengo che vada rispettata ogni persona che, magari dopo molta riflessione e sofferenza, in questi casi estremi segue la sua coscienza, anche se si decide per qualcosa che io non mi sento di approvare». In una cultura prona a pregiudizi e valori ancora vagamente patriarcali, la donna è considerata in ultima istanza secondaria e funzionale alla «vita», ai figli, alla natura, all’uomo maschio, alla famiglia, alla società; in quanto tale le sue decisioni, i suoi comportamenti, il suo corpo contano meno della vita dei figli, del bene della società, del buon nome della famiglia o dell’onore del maschio, e quindi sono affare dell’uomo e della società e da questi devono essere regolati. Occorre però ricordare a tal proposito un dato di fatto: le donne scelgono. In questione di gravidanza scelgono secondo la loro coscienza, anche perché convinte che la cosa riguardi anzitutto il loro corpo. Decidono sul loro corpo, con scelte drammatiche, da tempi immemorabili, a dispetto delle convinzioni sociali, delle famiglie, dei mariti, delle religioni e spesso della morale, propria o altrui. Le donne decidono perché sono soggetti capaci di prender decisioni, né più e né meno di tante persone attorno a noi o nella nostra famiglia, come padri, madri, fratelli, sorelle, figli, nipoti, che decidono delle loro vite indipendentemente da cosa pensiamo, anche quando non ci piace cosa decidono, anche quando la loro decisione mette a repentaglio loro stessi, il buon nome della famiglia, i nostri stessi principi.
Ci sono donne determinate ad abortire per motivi più diversi. Il Rapporto Unfpa 2022 registra che il 50% delle gravidanze è indesiderato. https://aidos.it/wp-content/uploads/2022/06/SOWP2022-ITALIANO-WEB.pdf
In molti di questi casi restare incinta non è una scelta. Gran parte delle gravidanze indesiderate deriva ancora dalla violenza sulle donne. Stupri, gravidanze forzate, gravidanze pericolose, ma anche gravidanze che proprio non la volevo non così non ora…
Fin dalla notte dei tempi le donne hanno cercato strategie per evitare gravidanze indesiderate. I metodi sono stati i più strani, dai più barbari ai più improbabili. Le sacerdotesse di Diana usavano pozioni a base di prezzemolo; a Pompei il ritrovamento di raschietti ha fatto pensare a tecniche avanzate di raschiamento dell’utero; Etty Hillesum ci ha provato saltellando su e giù per le scale; alcune adolescenti sono convinte che basterà usare una lavanda di Coca Cola. Una donna determinata ad abortire troverà il modo, fosse pure illegale.
Le scelte delle donne e la sete di sostegno. Occorre quindi distinguere tra questione morale e questione legale. La legge 194/1978 sotto questo profilo è una legge altamente rispettosa della scelta della donna. Considera le donne come soggetti capaci di decisione autonoma e rispetta la loro volontà. Non le lascia però nella solitudine di una scelta drammatica, ma mette al primo posto la loro salute, promuovendo una rete di sostegno, informazione e assistenza. Per questo occorre tenercela stretta.
Le contingenze di una gravidanza indesiderata sono le più diverse, come le variabili in termini di vissuto personale, affettivo, familiare, sociale, economico, culturale, sanitario. Una «morale della santità» cioè il principio che rende una volontà sempre santa e universalmente giusta, non si fa carico di misurarsi con questo
mondo limitato, ingiusto, caotico, spesso disonesto e sproporzionatamente diseguale, nel quale la nostra stessa capacità di prendere decisioni è condizionata da molteplici fattori. La «legge di santità» rischia di lasciare al privato decisioni di una complessità fisica, psicologica e sociale devastanti, però permette di uscirne «pilatamente» con la coscienza pulita.
Adriana Zarri lo diceva così: «È sconcertante rilevare come i fautori di una giustizia dura, che contempli la sanzione suprema, siano spesso i medesimi che alimentano l’esagitata campagna contro la tolleranza legale dell’aborto; …gli stessi che consentano che la morte semini vittime tra madri e figli, gettati allo sbaraglio dell’aborto clandestino, purché ‘siano salvi i principi’, purché sia chiaro che bisogna punire. Quale credito dobbiamo fare alla loro campagna antiabortista?
Quello di un autentico amore per la vita e il vivente, nel rispetto dell’uomo, o non piuttosto un attaccamento a un ordine sancito, quale che sia? Del timore del ‘dove si va a finire’? Della durezza del ‘chi sbaglia paga’ e chi concepisce un figlio inopportuno deve tenerselo perché non è giusto che paghi l’intera società: …e noi vogliamo stare in pace, senza fastidi? » (I guardiani del sabato).
Non elimineremo l’aborto negandolo per legge; il nostro mondo non diventerebbe più morale e più giusto. È indubbio infatti che la legge 194/1978 ha contribuito da subito alla diminuzione degli aborti clandestini in Italia e ha dimostrato e dovrebbe averci convinte che eliminare l’aborto legale aumenterà l’aborto clandestino e quindi l’immoralità, le ingiustizie e le morti in questo mondo. Una legge non cambierà la decisione drammatica di queste donne, ma l’assenza di legalità aumenterà l’immoralità, perché nell’illegalità aumentano le frodi, la malavita, il malaffare. Nella colpevolizzazione e nella criminalizzazione aumenteranno le doppiezze, la falsità, le carte false per non incorrere nello stigma sociale, nel giudizio della gente, nelle sanzioni legali. Aumenteranno gli opportunismi, la doppia morale, i ricatti, le angosce e le sofferenze di chi si ritrova ad attraversare una strada già piena di insidie, incertezze e altissimi rischi. Il mondo sembrerà più pulito senza esserlo davvero.
Aumenterà l’ingiustizia perché potranno permettersi di abortire legalmente solo coloro che troveranno il supporto economico per poter accedere a cliniche private o spostarsi verso paesi in cui l’aborto è legale. Potranno farlo cioè solo persone ricche. Essere donna ed essere povera sarà una doppia colpa, una doppia ingiustizia. Aumenteranno le morti perché donne che cercheranno l’aborto clandestino incontreranno professionisti inadeguati, medici spesso improvvisati, faccendieri dell’illegalità che metteranno a repentaglio la dignità, la salute e la stessa vita delle donne. Donne spesso povere, già violentate nello spirito se non anche nel corpo, metteranno a rischio la loro salute e molte moriranno.
Non elimineremo quindi l’aborto rendendolo illegale, ma eliminando le condizioni che creano gravidanze indesiderate. Ma su questo vorrei tornare in un prossimo intervento.
Selene Zorzi, teologa Istituto Teologico Marchigiano
Rocca n.18\2022, pag. 20
LITURGIA
La comunione ecclesiale
La messa non può essere un luogo di contestazione e divisione fraterna. E la liturgia se non è celebrazione del Vangelo non può attirare nessuno. Scrive Papa Francesco nella lettera apostolica Desiderio desideravi (29 giugno 2022) che le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, non possono essere giudicate una semplice divergenza di sensibilità nei confronti di una forma rituale, ma che vanno comprese come divergenze ecclesiologiche.
www.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/20220629-lettera-ap-desiderio-desideravi.html
Per questo ha sentito il dovere di affermare che “i libri liturgici promulgati dai santi pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II in confronto ai decreti del Concilio Vaticano II sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano” (TC, art. 1).
L’espressione è forte e perentoria, ma certamente non nega che il Vetus Ordo in vigore fino alla Riforma liturgica sia stato in quei secoli espressione della lex orandi del Rito Romano. Certamente l’attuale liturgia cattolica, che comunque necessita sempre e continuamente di riforma, perché la chiesa è semper reformanda, esprime la preghiera del Rito Romano, ma soprattutto esprime la fede della chiesa oggi, una fede nella tradizione, ma approfondita, arricchita, perché la liturgia cresce con la sua celebrazione sempre rinnovata. Accade per la liturgia quel che accade per la Parola di Dio: Divina Scriptura cum legente crescit!
D’altronde va ricordato a tutti che la tradizione è ciò che trasmette il fondamento della fede. Il pericolo è attaccarsi alle tradizioni e non a ciò che trasmettono. Una tradizione non vive se non si rinnova. Per questo Papa Francesco, in Desiderio desideravi, ridice che il mandato ricevuto come successore dell’apostolo Pietro gli impone di custodire e confermare la comunione ecclesiale cattolica in una ricerca inesausta dell’unità. Ma a nessuno sfugge che questa unità alla quale tutta la chiesa deve tendere, e che sarà piena solo nell’éschaton, [esito finale]risulta contraddetta da porzioni di fedeli che si vogliono e si dicono fedeli alla tradizione, e da ultimo spezzata dalla realtà nata dallo scisma di mons. Marcel Lefevre. È vero che in Italia questa presenza di tradizionalisti è molto limitata e circoscritta, e per questo motivo la chiesa italiana non vi presta grande attenzione, ma sappiamo bene che in altri paesi – soprattutto in Francia, in Germania e negli Stati Uniti – i tradizionalisti costituiscono una minoranza ben attestata, non piccola e molto efficace sul piano della comunicazione e della visibilità. In una diaspora cattolica, tra cattolici sempre meno numerosi, la loro presenza appare significativa e capace di esprimersi con una militanza perseverante.
Occorre subito precisare che si tratta di una presenza variegata, che mostra diversi volti, diversi stili, diversi modi di stare nella comunione ecclesiale, con modalità di lotta per continuare a esistere molto differenti: da una critica ponderata e mite, a una contestazione quasi continua, fino ad arrivare a una delegittimazione della chiesa cattolica, di Papa Francesco e dei vescovi. A volte assistiamo al mutamento di una critica doverosa e filiale in un’accusa dura e convinta di tradimento della fede, e dunque un’accusa di eresia.
La situazione è grave, ed è tempo di smetterla di sorridere di questa porzione di chiesa, o addirittura di deriderla e disprezzarla. Praticare l’ecumenismo con tante comunità cristiane, a volte gravemente impoverite del nucleo della fede in Cristo, e non saper dialogare e camminare anche con i tradizionalisti non è certo segno di autentica carità fraterna, né di consapevolezza di essere uniti dall’unum baptisma, l’unico battesimo, che ci rende fratelli e discepoli di Gesù Cristo.
Possiamo noi arrivare a un discernimento sereno e mite di questa realtà? Nella mia esistenza di monaco e di cristiano cattolico, sempre attento alla vita così diversa nelle chiese, come ho sempre frequentato chiese e monasteri delle comunità cristiane non cattoliche ma ortodosse o riformate, così ho sempre frequentato anche comunità o monasteri che volendosi fedeli alla tradizione anteriore alla riforma liturgica hanno ottenuto la possibilità di continuare a vivere la liturgia celebrandola con il Vetus Ordo. Non mi bastava certo contemplare, partecipare e gustare la bellezza dei riti e del canto gregoriano, ma guardavo con attenzione alla vita umana e spirituale di quelle comunità, e ho sempre constatato un amore sincero per la liturgia, una fedeltà seria e profonda alla tradizione monastica, vissuta con intenzione evangelica, ricca di iniziative e di lavoro per vivere la condizione di tutti gli uomini, una vita comune capace di grande carità. Ho dunque mandato i miei fratelli monaci all’abbazia francese di Le Barroux, una comunità fiorente, per imparare a fare il pane e, nei miei soggiorni in questo e altri monasteri tradizionalisti, ho potuto verificare che anche con loro “è bello e dolce vivere insieme”. Li ho sentiti semplicemente fratelli, e confesso che mi sono trovato meglio tra loro che in alcuni monasteri che si dicono fedeli al Vaticano II, ma che vivono una vita da residenza religiosa non monastica.
Resta significativa l’intervista che il nuovo abate di Solesmes ha rilasciato dopo l’udienza con Papa Francesco, il 5 settembre 2022. Dom Geoffroy Kemlin è a capo di una congregazione di monasteri nella quale alcuni celebrano con il Vetus Ordo preconciliare mentre altri seguono la riforma di Paolo VI, in vigore in tutta la chiesa cattolica latina. Era dunque doveroso da parte sua far conoscere al Papa le reazioni a Traditionis custodes registratesi in Francia e chiedergli come doveva comportarsi nell’applicazione del Motu proprio nei suoi monasteri. Papa Francesco a questo proposito gli avrebbe detto che spetta proprio a lui, abate di Solesmes, fare discernimento, e non spetta alla sua persona, anche se è il papa, perché abita a duemila chilometri di distanza. Letteralmente: “Tu sei un monaco, e il discernimento è proprio dei monaci. Non ti dico né sì né no, ma ti lascio discernere e prendere una decisione”. Consiglio, questo, che il Papa ha dato anche ad alcuni vescovi francesi, e questo ci dice che ciò che il Papa veramente vuole è l’unità, cosa che non impedisce una diversità di rito purché sia onorata la fede cattolica del mistero eucaristico.
In un’udienza con Papa Francesco nel 2014 il Papa mi chiese cosa ne pensavo dei tradizionalisti, e io gli dissi: “Santità, se accettano il concilio Vaticano II, se accettano realmente il suo ministero di successore di Pietro, se dichiarano valida la riforma liturgica e l’eucaristia normata da Paolo VI, li lasci vivere… La chiesa deve accettare una comunione plurale, non può più essere monolitica nelle forme”.
Continuo a restare della stessa opinione dopo tutti questi anni in cui l’eucaristia da vincolo di unità è diventata causa di divisione. E di questo occorre che si prendano la responsabilità non solo quelli che ricadono nella nostalgia del passato – “indietristi”, li chiama il Papa –, ma anche quelli che con i tradizionalisti non sono stati chiari, sono stati doppi e ambigui spingendoli senza che apparisse su posizioni di contestazione e di rottura con la chiesa.
Ecclesia Dei ha sempre agito con veridicità, lealtà, trasparenza nel tessere un dialogo con queste porzioni di chiesa?
E alcuni cardinali e vescovi da che parte stava nel dopo concilio: aderendo al Vaticano II e la conseguente riforma o criticandolo fino a diminuirne l’autorità?
Noi oggi viviamo già molte tensioni e opposizioni nella chiesa da non poterci permettere anche il venir meno di una pace eucaristica. La messa non può essere un luogo di contestazione e di divisione fraterna e perché si apra un cammino di vera comunione è quanto mai necessario che la celebrazione del Novus Ordo venga praticata evitando sciatteria, banalità, bruttezza. Attualmente la situazione rende veramente faticoso a molti cattolici frequentare la liturgia per trarne frutti spirituali. C’è troppo protagonismo del presbitero, troppa verbosità, canti poco curati e poco dignitosi, omelie che ormai si nutrono quasi solo delle scienze umane, di psicologia, di storia dell’arte: queste incantano tutti ma non convertono nessuno.
A mio giudizio, la situazione è drammatica e io comprendo come gli amanti della tradizione non riescano ad accedere sempre a nuovo Ordo ma restino ancorati all’antico rito che non deve mai essere disprezzato e svalutato. La liturgia, se non è mistero ordinato, se non è bella pur nella semplicità, se non è celebrazione del Vangelo non può attirare nessun, neanche attraverso la grazia. L’unità cattolica, poi, non può e non deve essere uniformità ma armonia multiforme, comunione plurale, in cui ognuno e tutti trovano possibilità di viva partecipazione. Traditionis custodes e Desiderio desideravi devono essere un invito per tutti a rinnovare la fede eucaristica attraverso una celebrazione sera e bella dell’eucaristia vissuta come comunione e non come occasione di divisione ecclesiale.
Enzo Bianchi Vita pastorale 5 novembre 2022
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/11/enzo-bianchi-la-comunione-ecclesiale.html
PASTORALE
Chiesa e omosessualità. Noi operatori pastorali con le persone lgbt
In questo tempo di riscoperta della natura sinodale della Chiesa noi operatori pastorali pugliesi che accompagniamo le persone lgbt sentiamo che è arrivato il momento in cui anche noi facciamo conoscere alla Chiesa il cammino che stiamo facendo, le nostre gioie, le nostre scoperte, le nostre fatiche. Anche noi abbiamo bisogno di fare coming out.
Chi siamo noi? Noi siamo dei preti, religiosi o religiose che a un certo punto della loro vita si sono imbattuti e poi incontrati con delle persone lgbt e che si sono messi con loro a camminare alla ricerca della volontà di Dio.
Mentre le nostre comunità cristiane di recente si stanno aprendo lentamente all’ascolto delle persone lgbt e questo è già l’avvio di un processo importante che condurrà ad ascoltare direttamente il vissuto delle persone che vivono questa condizione e a non accontentarsi di conoscere solo gli articoli del catechismo che parlano di loro, una voce che invece non è stata ancora ascoltata è proprio la nostra, quella di noi operatori pastorali, noi uomini e donne che stiamo facendo questo percorso di frontiera difficile, sofferto, esposto e in qualche modo anche tormentato. In questo nostro scritto vogliamo come riempire questo vuoto, annodare questo filo, avviare questa riflessione allargandola ai vescovi e a tutto il popolo di Dio. Noi tutti siamo impegnati nella costruzione di una Chiesa che si mette in ascolto della parola di Dio e della Tradizione della Chiesa. Come operatori tuttavia riteniamo di avere qualcosa di importante da dire sul nostro argomento perché le nostre parole sono intrise dei volti, delle gioie e dei drammi delle persone che accompagniamo. Abbiamo cioè parole impregnate delle vicende esistenziali di tante persone lgbt che sono diventate per noi fratelli e sorelle, compagni di viaggio.
Gli incontri e l’esperienza dell’ascolto ci hanno toccati profondamente e ci hanno coinvolti in prima persona perché siamo stati resi partecipi della loro vita intima e sacra. Camminando con loro abbiamo provato diversi sentimenti e stati d’animo. Subito comunque abbiamo avuto la sensazione di trovarci tra le mani un materiale umano sofferto che tuttavia cercava senso e luce. Noi intanto dal canto nostro avevamo da una parte una Chiesa sicura di sé con i suoi principi chiari e secolari e dall’altra delle persone in carne e ossa con la loro voglia di vita e di realizzazione umana e affettiva che da quei principi non era assecondata e approvata.
E noi? Noi ci siamo trovati drammaticamente in mezzo, tra due amori, desiderosi di vivere contemporaneamente la fedeltà alla nostra Chiesa e una comprensione profonda delle persone che accompagnavamo.
Noi siamo ministri della Chiesa e non autori di noi stessi. Per questo motivo sapevamo e sappiamo che dobbiamo agire non a titolo personale ma in nomine ecclesiæ. Tuttavia vediamo quanta sofferenza viene prodotta nelle persone lgbt da alcune parole forti del catechismo della Chiesa Cattolica che in sostanza chiedono loro di rinunciare alla loro vita affettiva e sessuale che viene vista come peccaminosa e che invece loro sentono profondamente congeniale e appartenente alla loro natura.
Noi non nascondiamo che questa esperienza di interposizione tra il Magistero della Chiesa e i loro volti ci procura notevole sofferenza. Vorremmo dire parole prossime che portino sollievo e conforto. Vorremmo dire parole che liberano e sprigionano gioia. Invece ci rendiamo conto invece che il Catechismo impone sulle loro spalle dei pesi quasi insostenibili e noi francamente non vorremmo prendere parte a questa operazione che sembra più oppressiva che liberante. Il nostro tormento è che sentiamo che le parole ecclesiali che dovremmo proferire fanno più male che bene, bloccano energie invece di liberarle.
Questa dunque la nostra vicenda umana e pastorale che, crediamo, merita anch’essa attenzione e ascolto. E noi, da figli devoti della Chiesa chiediamo a papa Francesco e ai nostri vescovi di fare ogni sforzo possibile per indagare più a fondo gli argomenti connessi con la pastorale lgbt per scoprire quale dovrebbe essere la parola giusta della Chiesa, la parola che non fa male, non opprime ma aiuta le persone a volare, perché in fondo questo è il nostro compito.
Chiediamo insomma alla Chiesa di darci parole nuove per raccontare l’amore tra due persone dello stesso sesso perché a noi è parso più volte che le parole in uso sull’argomento siano degli strumenti obsoleti che hanno un urgente bisogno di revisione.
Don Dino d’Aloia Adista Segni Nuovi n° 38 del 05 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68930
POVERTÀ
Diritto a residenza: ActionAid: a Roma ottima notizia per la tutela dei più fragili.
“La notizia dell’iscrizione anagrafica delle persone finora escluse in quanto sprovviste di un titolo per l’immobile in cui dimorano è un’ottima notizia per la città di Roma. Ora finalmente tante donne, uomini, bambini e bambine potranno veder garantiti i loro diritti fondamentali e avere accesso pieno all’assistenza sociale e al welfare”. Questo è il commento di Livia Zoli, responsabile Diseguaglianze globali e migrazioni presso ActionAid, riguardo alla direttiva a firma del sindaco di Roma Roberto Gualtieri che ha fatto seguito alla mozione approvata il 7 giugno 2022, nella quale si deroga ufficialmente parte dell’articolo 5 del decreto Renzi-Lupi, che esclude dalla residenza chi vive all’interno di stabili occupati.
“La decisione presa dal Comune di Roma sottolinea l’importanza e il ruolo che la mobilitazione di associazioni e persone può ricoprire nell’invertire tendenze in atto e aprire alla tutela di diritti che finora sembravano molto difficili da ottenere”, ha sottolineato Zoli. ActionAid nel 2021 ha lanciato la campagna #DirittiInGiacenza per denunciare come ancora troppo spesso in Italia l’esclusione dalla residenza sia discrezionale, illegittima e discriminatoria verso le persone più fragili, sia italiane che straniere. “Continueremo a mobilitarci a Roma, a Napoli e in molti altri territori perché la notizia di oggi dimostra che è possibile una discontinuità rispetto all’idea che chi verte in condizione di marginalità sociale debba essere anche ai margini dei diritti. Questo è possibile attraverso il diretto protagonismo delle persone escluse”, conclude Livia Zoli. “Ora è il momento che anche altre amministrazioni inizino a tutelare il diritto all’iscrizione anagrafica – ribadisce ActionAid -. Il nostro impegno non finisce qui: valuteremo e monitoreremo attentamente l’applicazione concreta di questa decisione. Parallelamente ci impegneremo affinché siano superati anche altri conflitti all’interno del funzionamento dell’anagrafe, come ad esempio l’iscrizione anagrafica delle persone senza fissa dimora”.
(P.C.) Agenzia SIR 5 novembre 2022
www.agensir.it/quotidiano/2022/11/5/diritto-alla-residenza-actionaid-a-roma-ottima-notizia-per-la-tutela-dei-piu-fragili-ora-estendere-ad-altre-citta
RIFLESSIONI
Portare i fiori ai morti
Gli alberi si spogliano delle foglie e le lasciano cadere a terra, appaiono nebbie mattutine sempre più lente a dissolversi e anche in noi emergono sentimenti velati di oscurità… È autunno inoltrato, è ora di pensare ai nostri morti.
Forse per contrastare questa spoliazione in atto, che rende la terra desolata, noi rendiamo alcuni lembi di terra, i cimiteri, simili a prati primaverili in fiore, che con i loro colori trasformano un “ campo santo” in una tavolozza che richiama i tramonti, con tonalità penitenziali, violacee o molto pallide.
Resto sempre stupito da questo ripetersi fedele di gesti che si concentrano ogni anno nel giorno di domani, vigilia dei “morti”. Andiamo ai cimiteri, puliamo le tombe sovente imbrattate dalle intemperie, portiamo dei fiori e anche delle fiammelle di fuoco, quasi per creare momentaneamente un’atmosfera vissuta già prima, quando eravamo tutti insieme sulla terra.
Perché anche nelle tombe preistoriche, scoperte recentemente, troviamo sempre dei “fiori” deposti accanto ai morti, deposti dai parenti, da chi dava sepoltura a chi aveva cessato di vivere e non si sarebbe più visto? Certamente perché da sempre gli umani contraggono un debito verso i morti!
Ma che cosa dobbiamo loro? Come pagare il nostro debito ora che non sono più con noi? Proprio dal sentire un debito di riconoscenza, di gratitudine, scaturisce in noi il dovere di compiere un gesto, dare un segno che siamo umani dotati di memoria, capaci di ricordare e conservare fili di relazione e pepite di amore da scambiare con chi non c’è più.
Se qualcosa abbiamo ricevuto dobbiamo riconoscerlo, perché chi ci ha preceduto ci ha fatto venire al mondo, ci ha fatto crescere, ci ha amato in mezzo a tante contraddizioni, e comunque ha significato qualcosa di buono per la nostra vita. Nessuno che viene al mondo e vi transita è esentato e non trova motivo per dire un grazie a qualcuno!
Anche per portare a termine i nostri doveri verso le generazioni future occorre essere esercitati al riconoscimento dei doveri che abbiamo
verso chi ci ha preceduto. Ciò che abbiamo ricevuto lo dobbiamo trasmettere… e possibilmente un po’ meglio! Chi fa tabula rasa del passato e sente la vocazione del rottamatore (attualmente tanto esercitata dalla generazione di mezzo) lascia macerie dietro di sé, e spesso continua ad agitarsi perché non riesce a vedere il deserto che si è creato intorno. Sì, ci sono alcuni che pensano di non aver ricevuto nulla, e quindi di non aver nulla da dare, ma in questa incapacità di donare e accogliere i doni ricevuti sta nient’altro che la loro disperata solitudine.
Il gesto semplice di andare a scegliere un fiore, di portarlo sulla tomba e offrirlo al morto è un gesto di grande umanità, è usare un linguaggio non verbale per dire a chi non c’è più che l’amore continua, la memoria è viva, e che nel cuore c’
è riconoscimento e gratitudine, l’assolvimento di un dovere. Un amico morto resta un amico sempre, un nemico morto non è più un nemico! E chi porta un fiore al cimitero spero l’abbia portato anche mentre l’altro era ancora in vita. I morti non vanno uccisi, ma neanche i vivi devono essere dimenticati.
Enzo Bianchi La Repubblica – 31 ottobre 2022
www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/173430/portare-i-fiori-ai-morti
SINODO
Sinodo-documento: l’esperienza di Frascati
Dopo la fase di ascolto del Sinodo sulla sinodalità, un gruppo di religiosi, ecclesiastici e laici si è riunito a Frascati, in Italia, per sintetizzare le relazioni provenienti da tutto il mondo. Austen Ivereigh vi ha preso parte e offre questo racconto dall’interno.
Alla fine del nostro primo giorno a Frascati, alla fine di settembre, colpito dalla solennità del compito che ci attendeva, ho scritto a un amico per dirgli che molti dei miei colleghi “esperti” sentivano la mano della storia e il peso della responsabilità sulle nostre spalle. “Spero che tu stia tenendo un diario”, ha risposto il mio amico. Non mi riferivo solo alla pressione di creare, in due brevi settimane, un documento che raccogliesse i frutti del più grande esercizio di ascolto e consultazione che la Chiesa cattolica abbia mai realizzato. È stato più solenne di così. Come ci aveva detto quella mattina il card. Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi, ci trovavamo su res sacra, un terreno sacro.
I documenti affidati ai 26 membri del gruppo di lettura/scrittura erano stati scritti con le lacrime e talvolta con il sangue dei martiri. Leggerli in modo superficiale, o usarli al servizio di qualche programma o altro, sarebbe stato irrispettoso non solo delle persone, ma anche dello Spirito Santo che agisce attraverso il sensus fidelium. “Noi siamo il cuore e le orecchie della Chiesa, per ascoltare il grido del popolo di Dio” – ci ha detto il card. Grech, parlando in italiano.
Il nostro compito era quello di presentare, in un unico documento accessibile a tutta la Chiesa, le speranze e i sogni del popolo di Dio che si era riunito in un numero senza precedenti per molti mesi in tutto il mondo per la prima fase del Sinodo sulla sinodalità. Ricordandoci i famosi quattro principi di papa Francesco
- il tempo è superiore allo spazio,
- le realtà sono superiori alle idee,
- l’unità prevale sul conflitto
- il tutto è superiore alla parte), il card. Grech ha detto che la prima fase consisteva nel permettere alla voce dello Spirito di emergere al di sopra dei conflitti e delle divisioni; nell’ascoltare l’esperienza piuttosto che discutere le idee; e nel cogliere il quadro più ampio, “ciò che lo Spirito sta dicendo a tutta la Chiesa, non solo a una parte di essa”.
Molte persone – ci ha ricordato – non hanno partecipato al sinodo o lo hanno fatto con scetticismo a causa di precedenti esperienze in cui avevano parlato ma ciò che avevano detto non era stato ascoltato o messo in pratica. Questa volta doveva essere diverso. Per essere la voce del popolo di Dio, ha aggiunto il card. Jean-Claude Hollerich, relatore del sinodo, “è necessario essere presenti non solo con la mente, ma con tutto sé stessi”. Ciò significava essere attenti, ad esempio, al modo in cui in alcune relazioni sinodali erano stati applicati filtri a ciò che la gente diceva da parte di vescovi desiderosi di abbellire o di gruppi che avevano la loro agenda particolare.
“Siate aperti a ciò che strabocca”, ci ha detto p. Giacomo Costa: “Dove si trova? A cosa siamo chiamati?”. Padre Costa, veterano del Sinodo sui giovani del 2018 ed esperto di processi di discernimento di gruppo, è stato l’ingegnere del nostro processo. Ma quel primo giorno è stato più che altro una guida del ritiro, esortandoci ad aprirci alle grazie di cui avevamo bisogno: essere aperti, avere fiducia nel processo e lavorare in modo collaborativo – non solo per scrivere un documento insieme, ma per essere al servizio della missione più ampia.
Nell’essere fedeli a ciò che avevamo sentito dalla gente, siamo stati chiamati a essere attenti a ciò che lo Spirito aveva suscitato in noi, per cogliere la “cosa nuova” che Dio stava offrendo alla Chiesa nel nostro tempo, che è ciò che papa Francesco intende con “el desborde”, il traboccare.
Il processo e lo spirito di Frascati. Chiamati dalla segreteria del Sinodo a Frascati, una cittadina alla periferia di Roma, tra il 22 settembre e il 2 ottobre, siamo arrivati da ogni angolo del mondo. Un mix di religiosi, clero e laici. provenienti da molti luoghi – tra cui Libano, Francia, Canada, Singapore, Ungheria, Portogallo, Perù, Kenya e Corea –, ci siamo suddivisi in tre categorie sovrapposte.
La maggior parte di noi era composta da teologi, giuristi canonici e studiosi delle Scritture; alcuni erano facilitatori di processi sinodali e programmi di leadership; due di noi si occupavano di comunicazione ecclesiale. Molti erano anche membri delle quattro commissioni del sinodo: teologia, metodologia, spiritualità e comunicazione. L’unico vescovo del gruppo dei lettori/scrittori invitati era l’arcivescovo Timothy Costelloe di Perth, presidente del Consiglio plenario australiano. Aggiungendo i nostri 26 membri del gruppo di lettura/scrittura ai tre superiori della segreteria sinodale e ai quattro membri del gruppo di coordinamento del sinodo, 33 persone sono state direttamente coinvolte nell’elaborazione del documento, 12 delle quali donne. Sebbene le relazioni lette potessero essere in una delle cinque lingue scelte dalla segreteria, per facilitare il processo di Frascati abbiamo usato solo l’inglese e l’italiano nelle nostre deliberazioni.
Ciascun membro del gruppo di lettura/scrittura è arrivato dopo aver letto circa 15-20 dei “rapporti di sintesi nazionali” di 10 pagine inviati al segretariato da 112 Chiese, cioè quasi tutte le conferenze episcopali e le Chiese orientali del mondo. Questi rapporti delle Chiese locali, ognuno dei quali è una sintesi dei processi diocesani, sono stati il materiale principale su cui abbiamo lavorato. Ma abbiamo anche tenuto conto dei rapporti che la segreteria del Sinodo aveva già vagliato: le sintesi dei superiori degli ordini religiosi di tutto il mondo; un’unica presentazione da parte di 150 associazioni di fedeli laici; i rapporti di 17 dicasteri della curia romana; e un rapporto compilato dagli “influencer” del mondo digitale, il cui esercizio di ascolto online ha attirato oltre 100.000 persone.
Infine, abbiamo ascoltato una presentazione dei contributi di oltre 1.000 individui o gruppi che hanno scelto, per ragioni diverse, di scrivere direttamente al Segretariato piuttosto che attraverso le loro Chiese locali.
I quindici giorni sono stati divisi grosso modo in tre periodi. Dapprima ci sono stati quattro giorni di “ascolto” in cui si è lavorato in piccoli gruppi per identificare gli elementi fondamentali – che riflettessero il consenso o voci minoritarie e profetiche -, che abbiamo poi riassunto nelle presentazioni alle sessioni plenarie.
Poi ci sono stati altri quattro giorni di “scrittura” per redigere una prima bozza. Dopo una giornata libera per una visita di gruppo al palazzo papale e ai giardini di Castel Gandolfo, gli ultimi giorni sono stati dedicati alla revisione e al riesame, con l’aiuto del consiglio sinodale di 16 persone, per lo più cardinali, che dovevano approvare la bozza finale. E abbiamo incontrato papa Francesco.
Il processo è stato intenso e faticoso, e il compito una corsa contro il tempo. Ma parteciparvi è stato anche un privilegio. Trascorrere molto tempo in piacevole compagnia – ai pasti, nelle liturgie e nelle conversazioni spirituali, lavorando in piccoli gruppi e, di tanto in tanto, andando in città per un caffè e un gelato -, ha aiutato a formare uno strumento di discernimento. Quando ci siamo sintonizzati l’uno con l’altro, con le voci delle relazioni e infine con lo Spirito Santo, ciò che all’inizio sembrava impossibile ha cominciato a cedere il passo alla consapevolezza che stava nascendo qualcosa di importante. Padre Costa cambiava continuamente la composizione dei gruppi: prima per continente, poi per sesso e infine per status ecclesiale. Così, ad esempio, la mattina ero in Europa-italiano, il pomeriggio in uomini-inglese e la mattina seguente in laici-italiano. Tutto questo per garantire che le nostre prospettive particolari non andassero perse, producendo, allo stesso tempo, contenuti per la relazione sotto forma di paragrafi con citazioni di supporto dai documenti. Queste citazioni, che coglievano non solo cosa ma anche come si esprimevano le persone nelle Chiese locali, sono diventate note a Frascati come “le perle del popolo di Dio”.
La principale tensione che ho avvertito all’interno dei gruppi è stata che alcuni sembravano ansiosi di abbandonare queste perle a favore di commenti astratti. La tentazione di teologizzare, come se ciò che il popolo aveva detto non potesse essere lasciato semplicemente com’era, era sempre presente a Frascati, una resistenza comprensibile tra persone altamente competenti e istruite all’umiltà che la nostra sintesi richiedeva.
Nei gruppi ho vissuto la tentazione come una sorta di peso morto di ottusità e banalità, e l’ho trovata frustrante. Lasciate parlare la gente! Questa è diventata la mia preghiera e la mia speranza per il documento. Anche il card. Grech e padre Costa erano consapevoli della tentazione e l’hanno affrontata. “Siamo stati convocati qui con il compito di ascoltare il popolo di Dio”, ci ha ricordato il card. Grech. “Se nella nostra sintesi non rappresentiamo ciò che il popolo di Dio sta cercando di dire, allora abbiamo fallito”.
Il messaggio è arrivato. Il documento finale rimane radicato nel popolo. Ma avendo sperimentato la tentazione nei nostri gruppi, mi sono reso conto di quanto sia difficile, nei processi sinodali, ascoltare davvero il popolo, soprattutto per quelli di noi abituati ad analizzare e a opinare. Mi ha reso molto più consapevole della tentazione delle relazioni sinodali, molte delle quali avevano applicato i “filtri” carichi di ansia rispetto ai quali il card. Hollerich aveva messo in guardia il primo giorno.
Nel mio gruppo di sintesi nazionali ho avuto due casi estremi: in uno, il filtro era costituito
- da un establishment clericale evidentemente disabituato all’idea che lo Spirito parli attraverso la gente comune.
- In un altro, il filtro è stato applicato da una struttura laica convinta di possedere già tutte le risposte alle domande, tanto che ascoltare le persone nelle parrocchie sarebbe stato inutile.
Sono arrivato alla fine di entrambe le relazioni senza avere la minima idea di cosa pensassero le persone, tanto meno di cosa lo Spirito potesse dire attraverso di loro.
Ma erano un’eccezione. La maggior parte dei rapporti, scritti o meno direttamente dai vescovi o da équipes da loro nominate, si sforzavano di cogliere ciò che la gente aveva detto, trasmettendolo senza esprimere un giudizio.
Trovare la pecora smarrita. A Frascati ho imparato anche l’importanza di non limitarsi a includere tutti, ma di andare alla ricerca di chi manca. Ci è stato detto di aggiungere una sedia vuota ai nostri gruppi e di porre diverse domande: dov’erano le voci di minoranza che erano costanti nei rapporti ma che rischiavano di perdersi nell’attenzione ai problemi più alla moda? Quale voce profetica non è stata ascoltata? Quale prospettiva non è ancora emersa? La plenaria che è seguita si è improvvisamente riempita di voci che erano presenti nei rapporti, ma che non erano ancora state ben ascoltate da noi. I rapporti provenienti da tutto il mondo lo dicevano: le strutture dall’alto verso il basso e il modus operandi della Chiesa di oggi sono stanchi e non si adattano al contesto missionario, sia che la Chiesa sia vecchia o giovane. I contenitori esistenti non sono adeguati a ospitare la diversità della Chiesa, né a consentire la partecipazione di tutti alla missione. Era tempo di mettere carne sulle ossa della comprensione del Concilio Vaticano II della Chiesa come popolo di Dio.
Tuttavia, la voce che si è fatta sentire non ha preteso e non si è lamentata; è stata una voce più umile e amorevole, che ha parlato in modo diretto e fermo, nominando le realtà che dovevano essere affrontate, ma che confidava nella saggezza del processo sinodale per discernere le risposte giuste. L’appello che aveva iniziato a trovare forma a Frascati era proprio lì, in quella speranza di spazi di appartenenza in cui tutti potessero esprimersi senza paura di essere esclusi, in cui sia l’impegno per la verità evangelica sia l’inclusione radicale di tutti potessero essere meglio messi in tensione. In ciò che è emerso, ho iniziato a cogliere la verità di ciò che papa Francesco dice nella Evangelii gaudium, cioè che “Dio fornisce alla totalità dei fedeli un istinto di fede – sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che è veramente di Dio”. È un istinto che si accompagna, prosegue il papa, a un certo tipo di saggezza, “per cogliere intuitivamente quelle realtà, anche quando non hanno i mezzi per esprimerle con precisione”.
Quello che lo Spirito stava dicendo alla Chiesa era, in fondo, proprio lì, nelle relazioni, in quell’”istinto di fede” nelle voci sofferenti per la frammentazione e la divisione, che desideravano una Chiesa materna, avvolgente, paziente, più ospitale, che potesse raccogliere coloro che erano rimasti fuori, che fosse più capace di tenere in tensione le differenze e i disaccordi e che prendesse sul serio l’idea che tutti i battezzati sono chiamati alla missione e a sedere al tavolo dove si discernono le decisioni.
Nonostante la stanchezza, ci siamo sentiti incoraggiati da questa consapevolezza. Il popolo di Dio era in movimento. Dovevamo aiutare la Chiesa a muoversi con lui.
Una Chiesa come una grande tenda. È stato un po’ di tempo dopo l’incontro, alla fine della prima settimana, che è nata tra noi l’idea che è diventata l’icona di Frascati. La tenda dell’incontro in Isaia 54,2 ha al centro il tabernacolo ed è saldamente ancorata a robusti pioli; tuttavia è in grado di essere allargata e spostata secondo le esigenze della missione. Ci è sembrata una metafora perfetta di ciò che il popolo di Dio chiedeva, che il documento chiama “Chiesa sinodale missionaria“. Alcuni saranno sorpresi dal fatto che il documento non approfondisce le questioni sollevate dal sinodo, ma le lascia in sospeso, rilevando i disaccordi laddove esistono e invitandoli al confronto. La maggior parte del documento non è dedicata alle questioni ma al “processo”. Il processo, dopo tutto, è lo scopo di un sinodo sulla sinodalità, ed è qui che il documento apre un nuovo importante terreno, raccogliendo e dando espressione al desiderio delle relazioni per un modo di procedere sinodale. Da qui il sogno, nella relazione dei superiori religiosi, di “una Chiesa globale e sinodale che vive l’unità nella diversità”: “Dio sta preparando qualcosa di nuovo e noi dobbiamo collaborare”.
Che cos’è questo qualcosa di nuovo, questa Chiesa a grandi tende? Ispirandosi alla Evangelii gaudium, i paragrafi 30-33 del documento continentale rilevano le due tentazioni spirituali che una Chiesa diversificata deve affrontare: da un lato, rimanere intrappolati nel conflitto e nella polarizzazione; dall’altro, ignorare le tensioni che la diversità porta con sé, fingendo che non esistano in una sorta di coesistenza frammentata. Nessuno può leggere i rapporti e non trovare persone che lamentano entrambe le cose nella nostra Chiesa: sia la polarizzazione che la frammentazione nella Chiesa di oggi mostrano che i contenitori che abbiamo sono inadeguati. Il documento di Frascati offre uno strumento ermeneutico per un nuovo contenitore, che ci permetta di creare una Chiesa a tenda più grande, capace di tenere insieme diversità e disaccordo in una tensione generativa.
Attingendo ai suggerimenti contenuti nelle relazioni, il documento offre un’ampia varietà di approcci per le prossime fasi del sinodo, da portare avanti nelle assemblee regionali del febbraio del prossimo anno. Ma ciò che potrebbe sfuggire è il significato di tutto ciò per le questioni spesso spinose sollevate dalle relazioni dei sinodi nazionali. Significa, innanzitutto, che, come Chiesa, non dobbiamo considerare tali questioni come problemi da “risolvere” o da “decidere” immediatamente, ma come tensioni dinamiche che – se gestite in modi aperti allo Spirito – sono vivificanti. L’invito è “ad articolarle in un processo di costante e continuo discernimento, in modo da sfruttarle come fonte di energia senza che diventino distruttive”. Per questo motivo papa Francesco ha prolungato il processo sinodale, in modo che si concluda non con un’unica assemblea a Roma nell’ottobre 2023, ma con una seconda assemblea l’anno dopo. Questo darà tempo allo Spirito di entrare in quelle tensioni in modo che diventino nuove possibilità piuttosto che cause di un conflitto sempre più profondo.
È stato grazie a questi processi che, nella sua prima era missionaria, la Chiesa è stata in grado di crescere così rapidamente oltre i confini di razza, lingua e cultura. Attraverso lo straordinario raduno dei fedeli globali iniziato nel 2021, è emerso il sogno di un modo di procedere che rigenera la tradizione sinodale in modi appropriati per la Chiesa globale di oggi, caratterizzata da un’immensa diversità.
L’attenzione ai processi sinodali può essere frustrante per coloro che sono impazienti di vedere particolari cambiamenti che, visti almeno da Manhattan o Monaco, sembrano evidenti. Ad altri, che sospettano che l’intero processo sinodale sia una diluizione o una capitolazione, sembrerà pericolosamente vulnerabile e aperto. Ma nessuno può dubitare, leggendo i rapporti delle Chiese locali come abbiamo fatto a Frascati, che il sensus fidelium si è risvegliato e ha parlato, e che non possiamo assolutamente affrontare queste tensioni senza prima creare la capacità di una Chiesa sinodale. Se siamo riusciti a confezionare questa chiamata e a condividerla in modo che altri possano coglierla, la nostra missione a Frascati è compiuta.
Pubblicato sul sito della rivista America dei gesuiti USA.
Austen Ivereigh Settimana news 18 ottobre 2022
www.settimananews.it/sinodo/sinodo-la-esperienza-di-frascati
“Sinodo: molto dipende da cosa si è disposti a sentire”
Il cammino sinodale delle chiese italiane riprende con una nuova fase di ascolto. Forse perché le resistenze ecclesiali al cammino sinodale sono state molte (e abbastanza prevedibili): autoreferenzialità, clericalismo, paura, maschilismo, ignoranza, lontananza dalla vita concreta e – purtroppo – potremmo continuare. A fronte di tutto questo un anno di ascolto non ci è bastato.
D’altra parte l’ascolto fatto ha condotto a delle sintesi che poi sono state alla base di una sintesi generale. Abbiamo così una base per continuare, ma anche in questo caso le ombre non mancano: le sintesi (dei gruppi, delle diocesi come quella generale) sono state riapprovate? I diversi gruppi, che si sono attivati spontaneamente e hanno inviato il risultato del loro lavoro, hanno potuto verificare che quanto hanno detto sia entrato nella sintesi? Forse è successo qualche volta, ma non in modo sistematico, e forse così corriamo il rischio che pochi decidano che cosa sia importante di ciò che si è ascoltato.
Ascolto e discernimento invece si richiamano: se anche possono essere solo alcuni a indicare le varie opzioni possibili di fronte ad una questione, dovrebbero però essere tutti ad approvare di cosa discutere (cioè quale sia la questione importante) e a prendere parte alla decisione su quale fra le opzioni indicate dai pochi si vuole perseguire.
Cantieri in ritardo. Sulla stessa linea, fra luci ed ombre, come correndo lungo un viale alberato (fra le perplessità ricordo quanto già scritto in questo blog da Marinella Perroni circa gli stereotipi per il maschile e il femminile), si trova anche il documento I cantieri di Betania (12 luglio 2022), consegnato alle chiese per questo secondo anno: molti gli spunti, ma resta la sensazione che dovremmo essere più avanti di così.
Ci viene ricordato per esempio che non si può stare fermi, come credenti e come chiesa, ma bisogna camminare, come Gesù e i suoi: ma davvero non sappiamo ancora che non c’è forma di chiesa o espressione dottrinale che non sia stata in movimento e che non possa essere messa in movimento?
Poi ci viene detto che dobbiamo camminare sulla strada dove camminano tutti. Ma perché altrimenti dove si può camminare? Se abbiamo bisogno di un tale richiamo, forse dovremmo chiederci che chiesa siamo stati fin qui. Come hanno potuto le nostre prassi (dai vestiti, ai titoli fino al modo di celebrare e decidere, guadagnarsi da vivere, gestire i beni ecc…) e il nostro linguaggio essere diversi da quelli degli uomini e le donne in mezzo ai quali viviamo?
Infine il documento dei cantieri di Betaniaci offre alcune importanti consapevolezze ecclesiali, in modo particolare quando, riflettendo sulle relazioni ecclesiali, parla di strutture (finalmente!). Se non cambiamo le strutture, infatti, e permarranno le attuali gerarchie e distanze, non si daranno realmente nella chiesa fraternità e sororità.
Ultimo arriva il riconoscimento dell’importanza della formazione (sacrosanto!), ma quando il Concilio aveva parlato del prendere parte di tutti alla liturgia, al servizio e all’annuncio, questo non portava con sé l’urgenza di avviare percorsi formativi che lo rendessero possibile?
Viene di nuovo da chiedersi come mai siamo ancora a questo punto. … per la paura di cambiare
Una possibile risposta ci viene proprio dal brano scelto come trama del cammino: quello in cui Gesù si ferma in casa di Marta, Maria e Lazzaro, e Marta si lamenta della sorella mentre Gesù la difende dicendo che si è scelta la parte buona.
Certamente è un brano che ci mostra Gesù nel villaggio e nella casa, ci parla di amicizia e di relazioni, mette al centro l’ascolto della Parola (tutti aspetti che il documento dei cantieri mette in risalto), ma è anche un brano – l’esegesi ormai ce l’ha dimostrato – in cui l’evangelista riporta le tensioni interne alla comunità per cui alcuni (forse anche lui stesso) avevano l’intento di screditare il ruolo di leader delle donne, il quale invece, leggendo altri brani del NT e vedendo la prassi delle prime comunità, appare chiaramente diffuso e riconosciuto.
È un brano allora che ci mette in guardia da una tendenza costantemente presente nella chiesa: quella di cercare di rimettere le persone al loro posto (se sono donne lo facciamo con particolare gusto), mantenendo l’ordine di sempre, e magari pensando bene di precisare che è il Signore a volere così. Queste tensioni ci sono sempre state: il Vangelo stesso ci testimonia, come nel brano di Marta e Maria, la paura di alcuni di andare fino in fondo nel seguire lo stile di Gesù, di accettarne le conseguenze anche sulle gerarchie sociali e sulle culture.
Sarebbe importante allora, ricordando Betania, ricordarsi di cosa altro viene raccontato dai Vangeli su quella casa e sugli amici (le amiche in particolare) di Gesù. Dovremmo ricordare che nel Vangelo di Giovanni (cap. 12) troviamo Maria, oltre che zitta ai piedi di Gesù, intenta ad ungerli ispirando al Signore, come una maestra, il gesto che lui sceglie di ripetere come memoriale della Pasqua: la lavanda dei piedi.
E dovremmo ricordare Marta (Gv 11) tutt’altro che zittita, ma provocata a parlare da Gesù stesso, fino a che lui la conduce, mentre le si rivolge standole di fronte, a professare la sua fede in colui che le si rivela come la resurrezione e la vita. Una professione di fede, quella di lei, piena e senza tentennamenti, a differenza di quella di Pietro, che fu subito ripreso da Gesù (cfr. Mt 16).
Forse ci serve ancora uno sguardo diverso, capace di uscire dallo scontato, di riconoscere ciò che manca senza scuse e di collocarsi fuori campo. Forse ci serve più coraggio. Forse davvero dobbiamo riprendere l’ascolto, ma chiamando per nome ciò che non riusciamo a fare e su cui vogliamo decidere come cambiare: provando a decidere insieme su che cosa e perché vogliamo cambiare. Perché quando si cammina, bisogna pure fare qualche passo.
Simona Segoloni Il Regno 26 ottobre 2022
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/10/simona-segoloni-sinodo-molto-dipende-da.html
SINODO CONTINENTALE
La Chiesa in carne e ossa e la Chiesa nei palazzi. Al via la tappa continentale del sinodo
«La prima tappa del processo sinodale ha prodotto frutti abbondanti, semi nuovi che promettono una nuova crescita e, soprattutto, ha suscitato un’esperienza di gioia in una stagione complicata». Questa è la soddisfazione espressa nel “Documento di lavoro per la Tappa Continentale” (DTC) del Sinodo sulla sinodalità la cui fase assembleare è stata spalmata da papa Francesco, il 16 ottobre scorso, su due anni – 2023 e 2024 –, determinando un nuovo modo di procedere: nel 2023 si svolgeranno le 7 Assemblee Continentali cui spetta il compito di «stilare un elenco di priorità, su cui opererà il proprio discernimento la Prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si svolgerà dal 4 al 29 ottobre 2023»; l’anno successivo, la sessione conclusiva.
Il DTC, che è stato presentato in Vaticano il 27 ottobre, è dunque la base per la preparazione delle Assemblee Continentali. Lungo 46 pagine è la sintesi dei contributi di 112 su 114 Conferenze episcopali e di tutte le 15 Chiese orientali cattoliche; di 17 su 23 dicasteri della Curia Romana; e quelle dei superiori religiosi (USG/UISG), di associazioni e movimenti di fedeli laici. E poi ci sono, leggiamo, «mille contributi di singoli e di gruppi, e gli spunti raccolti attraverso i social media grazie all’iniziativa del “Sinodo digitale”». Un gruppo di esperti – uomini e donne, vescovi, sacerdoti, consacrate e consacrati, laici e laiche, provenienti da tutti i continenti – hanno vagliato i materiali insieme al gruppo di redazione della Segreteria del Sinodo. A questo organismo dovranno essere trasmessi entro il 31 marzo 2023 i documenti finali delle Assemblee continentali. Sulla base di questi, entro giugno 2023, sarà redatto l’Instrumentum laboris per la sessione del 2024.
Il Documento, oltre alla soddisfazione per il successo del processo sinodale IL DTC, riferisce che nella fase di ascolto, quella diocesana conclusasi con le sintesi episcopali, non sono mancate (e neanche sono state nascoste, è la sottolineatura che compare nel testo) difficoltà dovute agli impedimenti causati dalla pandemia; alla mancata comprensione di «cosa significa sinodalità»; alla traduzione e inculturazione dei materiali; a «paure e resistenze da parte del clero, ma anche la passività dei laici», ecc., non da ultimo a «espressioni di rifiuto molto netto» forse per timore di cambiamenti ingestibili.
Nella notizia che segue riferiamo delle questioni più problematiche emerse nell’ascolto delle realtà ecclesiali che hanno partecipato finora al cammino sinodale e raccolte nel DTC, la cui esistenza dimostra quanto la Chiesa “in carne e ossa” sia lontana dal magistero e dalla prassi ecclesiali. Lo ha ben riconosciuto il card. Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente dei vescovi europei, in un’intervista all’Osservatore Romano (24/10). «La nostra pastorale – ha affermato – parla ad un uomo che non esiste più. Dobbiamo essere capaci di annunciare il Vangelo, e far capire il Vangelo, all’uomo di oggi, che per lo più lo ignora. Questo implica una grande apertura da parte nostra, e anche la disponibilità, pur fermi nel Vangelo, a lasciarci trasformare anche noi».
Eletta Cucuzza Adista Notizie n° 38 05 novembre 2022
I peccati della Chiesa fotografati nel documento per la tappa continentale
Il “Documento di lavoro per la Tappa Continentale” (DTC) rende conto di tutti gli argomenti problematici
www.synod.va/content/dam/synod/common/phases/continental-stage/dcs/Documento-Tappa-Continentale-IT.pdf
affrontati nelle sintesi delle Conferenze episcopali (dalle quali estrapola virgolettati relativi alla materia trattata e che invece nella illustrazione che segue – tranne quando necessario – non possono trovare spazio). “Tutti”, si diceva, ma bisognerebbe aggiungere “tranne uno”: nel testo non si parla del conferimento dell’ordinazione sacerdotale ai cosiddetti viri probati, cioè agli uomini già sposati (e non vedovi) di provata dignità e virtù. Eppure fu una richiesta dei vescovi riuniti nell’Assemblea sinodale per l’Amazzonia, poi lasciata in sospeso da papa Francesco nell’esortazione post-sinodale Querida Amazonia.
La sensazione complessiva che lascia la lettura del DTC – da cui estrapoliamo di seguito alcuni brani – è che la Chiesa cattolica, per struttura e magistero, sia autoreferenziale, arroccata, escludente, piuttosto incapace proprio di sinodalità (sensazione che nulla deve togliere però alla prassi di vicinanza di tantissimi sacerdoti, religiosi e organismi ecclesiali).
- Abusi. «Un ostacolo di particolare rilevanza sulla via del camminare insieme», cioè del “fare sinodo”, «è rappresentato dallo scandalo degli abusi compiuti da membri del clero o da persone con un incarico ecclesiale: in primo luogo e soprattutto gli abusi su minori e persone vulnerabili, ma anche quelli di altro genere (spirituali, sessuali, economici, di autorità, di coscienza). Si tratta di una ferita aperta, che continua a infliggere dolore alle vittime e ai superstiti, alle loro famiglie e alle loro comunità». «Molte Chiese locali riferiscono di trovarsi di fronte a un contesto culturale segnato dal declino della credibilità e della fiducia di cui godono a causa della crisi degli abusi».
- Ascolto. Le sintesi «evidenziano la mancanza di processi comunitari di ascolto e discernimento, e domandano una maggiore formazione in questo campo.
- Ostacoli strutturali: nel documento si denunciano le «strutture gerarchiche che favoriscono tendenze autocratiche; una cultura clericale e individualista che isola i singoli e frammenta le relazioni tra sacerdoti e laici; disparità socioculturali ed economiche che avvantaggiano le persone ricche e istruite; l’assenza di spazi “intermedi” che favoriscano l’incontro tra i membri di gruppi tra loro separati».
- Le carenze affettive del clero. «Molti membri del clero (…) non si sentono ascoltati, sostenuti e apprezzati (…). Un ascolto particolarmente attento va riservato ai ministri ordinati riguardo alle dimensioni affettive e sessuali della loro vita. Si segnala anche l’importanza di prevedere forme di accoglienza e protezione per le donne e gli eventuali figli di sacerdoti venuti meno al voto di celibato, che altrimenti sono a rischio di subire gravi ingiustizie e discriminazioni».
- La vita. «Risalta l’impegno del Popolo di Dio per la difesa della vita fragile e minacciata in tutte le sue fasi. Ad esempio, per la Chiesa greco-cattolica ucraina, fa parte della sinodalità “studiare il fenomeno della migrazione femminile e offrire un sostegno alle donne di differenti classi di età; prestare particolare attenzione alle donne che decidono di abortire a causa della paura della povertà materiale e del rifiuto da parte delle famiglie in Ucraina; promuovere un’opera educativa tra le donne che sono chiamate a compiere una scelta responsabile quando si trovano ad attraversare un momento difficile della loro vita, con lo scopo di preservare e proteggere la vita dei nascituri e prevenire il ricorso all’aborto; prendersi cura delle donne con una sindrome post-abortiva”».
- Gli “esiliati”. «I gruppi che provano un senso di esilio sono diversi, a partire da molte donne e giovani che non sentono riconosciuti i propri doni e le proprie capacità. All’interno di questo insieme assai eterogeneo, molti si sentono denigrati, trascurati, incompresi. (…). È stato invece fonte di tristezza il fatto che alcuni abbiano avuto la sensazione che la loro partecipazione al percorso sinodale non fosse gradita: si tratta di un sentimento che richiede comprensione e dialogo».
- Accoglienza per gli “esiliati”. «Tra coloro che chiedono un dialogo più incisivo e uno spazio più accogliente troviamo anche coloro che per diverse ragioni avvertono una tensione tra l’appartenenza alla Chiesa e le proprie relazioni affettive, come ad esempio: i divorziati risposati, i genitori single, le persone che vivono in un matrimonio poligamico, le persone LGBTQ, ecc. Le sintesi mostrano come questa richiesta di accoglienza interpelli molte Chiese locali».
- Disaccordo sulla morale cattolica. «Alcune Chiese locali sperimentano un pluralismo di posizioni al loro interno: “L’Africa meridionale subisce anche l’impatto delle tendenze internazionali della secolarizzazione, dell’individualismo e del relativismo. Temi come l’insegnamento della Chiesa sull’aborto, la contraccezione, l’ordinazione delle donne, i preti sposati, il celibato, il divorzio e il passaggio a nuove nozze, la possibilità di accostarsi alla comunione, l’omosessualità, le persone LGBTQIA+ sono stati sollevati in tutte le Diocesi, sia rurali sia urbane. Sono emersi punti di vista differenti e non è possibile formulare una posizione definitiva della comunità su nessuna di queste tematiche” (Sudafrica)».
- Ambiente e povertà. «Il Popolo di Dio esprime il profondo desiderio di ascoltare il grido dei poveri e quello della terra. In particolare, le sintesi ci invitano a riconoscere l’interconnessione tra le sfide sociali e ambientali e a darvi risposta collaborando e dando vita ad alleanze con altre confessioni cristiane, credenti di altre religioni e persone di buona volontà. Questo appello a un rinnovato ecumenismo e all’impegno interreligioso è particolarmente forte nelle regioni segnate da una maggiore vulnerabilità ai danni socio-ambientali e da disuguaglianze più marcate».
- Popolazioni indigene. «In numerosi casi si chiede di prestare particolare attenzione alla situazione delle popolazioni indigene. La loro spiritualità, la loro saggezza e la loro cultura hanno molto da insegnare. Abbiamo bisogno di rileggere la storia insieme a questi popoli, per trarre ispirazione da quelle situazioni in cui l’azione della Chiesa si è posta a servizio del loro sviluppo umano integrale e chiedere perdono per i momenti in cui invece è stata complice della loro oppressione».
- Ecumenismo e convivenza religiosa. «La sinodalità è una chiamata di Dio a camminare insieme a tutta la famiglia umana. In molti luoghi, i cristiani vivono in mezzo a persone di altre fedi o non credenti e sono impegnati in un dialogo fatto di quotidianità e comunanza di vita», ma molta è la strada «da percorrere in termini di scambio e collaborazione sociale, culturale, spirituale e intellettuale». «Le ferite della Chiesa sono intimamente collegate a quelle del mondo. Le sintesi parlano delle sfide del tribalismo, del settarismo, del razzismo, della povertà e della disuguaglianza di genere nella vita della Chiesa e del mondo».
- Celebrazioni liturgiche. «Molte sintesi incoraggiano fortemente l’attuazione di uno stile sinodale di celebrazione liturgica che permetta la partecipazione attiva di tutti i fedeli nell’accoglienza di tutte le differenze, nella valorizzazione di tutti i ministeri e nel riconoscimento di tutti i carismi. L’ascolto sinodale delle Chiese registra molte questioni da affrontare in questa direzione: dal ripensamento di una liturgia troppo centrata sul celebrante, alle modalità di partecipazione attiva dei laici, all’accesso delle donne a ruoli ministeriali (…); «l’esperienza delle Chiese registra anche nodi di conflitto, che devono essere affrontati in modo sinodale, quali il discernimento del rapporto con i riti preconciliari».
Eletta Cucuzza Adista Notizie n° 38 05 novembre 2022
SINODO IN ITALIA
Nomina dei vescovi. Un atto “conciliare”
Nei giorni in cui si ricorda il sessantesimo anniversario del Concilio Vaticano II, un gruppo di battezzati e battezzate della Chiesa di Brindisi-Ostuni ha fatto un atto “conciliare”. Cioè non ha commemorato con celebrazioni di rito o con articoli omiletici e retorici quel grande evento dello Spirito, ma ha agito con stile conciliare: non parole sul Concilio, ma parole da figli e figlie del Concilio, camminando sulle vie del Concilio e per vivere veramente l’ecclesiologia conciliare.
Ne è nata una Lettera che hanno scritto al papa, che ha un valore almeno nazionale
newsUcipem n. 932, 16 ottobre 2022, pag. 36 https://www.adista.it/articolo/68825S
A firmarla non sono giovani sprovveduti, ma donne e uomini maturi che, proprio fin da giovani, si sono impegnati nella Chiesa locale e sono perciò ben noti a chi conosca non superficialmente le vicende dei cattolici salentini dal Concilio ad oggi. Non a caso essi richiamano la evangelica figura di Tonino Bello: il simbolo incarnato di quanto di meglio le Chiese pugliesi hanno realizzato in termini di pastoralità secondo il Vaticano II. A fianco del grande vescovo salentino è pure idealmente presente (anche se non lo citano esplicitamente) la figura del laico Michele Di Schiena, che tanto si è impegnato per radicare il Concilio nel popolo cristiano salentino.
Che cosa, dunque, scrivono questi laici e laiche nella loro Lettera? A partire dalla contingenza della vicina nomina di un nuovo arcivescovo per la diocesi di Brindisi-Ostuni, prendono la parola per esprimere – praticando la sinodalità e non solo parlandone – i loro voti sulle caratteristiche che, secondo la loro visione conciliare, sono richieste al nuovo Pastore e che, perciò, ne dovrebbero guidare la scelta. Non indicazioni di nomi, dunque, ma di criteri di discernimento. È una richiesta tanto responsabile e non velleitaria, quanto normale (normale ovviamente in una Chiesa che viva il Vaticano II: se non appare normale vuol dire che non siamo in presenza di una Chiesa conciliare). Normale e, direi, molto moderata (il “minimo sindacale”, per esprimersi in maniera irrituale).
È chiaro, comunque, che il problema più ampio che, con questa Lettera, essi richiamano e pongono riguarda le modalità di scelta dei vescovi nella Chiesa cattolica. Si tratta di una delle “cinque piaghe” della Chiesa, indicate nell’Ottocento (quasi duecento anni fa!), dal Beato Antonio Rosmini, allora condannato per la sua franca audacia, ma poi visto come un profeta anticipatore del Vaticano II, recentemente beatificato da papa Ratzinger e al quale anche papa Francesco si è più volte richiamato. Rosmini suggeriva di ispirarsi all’antica pratica della Chiesa dei primi secoli con l’elezione dei vescovi da parte di clero e popolo. Dopo il Concilio si è ripresa questa proposta di Rosmini e la discussione è continuata, con alti e bassi, fino ai nostri giorni.
Al di là del riferimento storico ai primi tempi delle comunità cristiane (grosso modo dalla predicazione di Gesù all’editto di Costantino), è evidente che, nel XXI secolo, in questo cambiamento d’epoca (e non solo epoca di cambiamenti) che stiamo vivendo, una riflessione e un cambiamento istituzionale, anche su questo aspetto, siano necessari e urgenti per la Chiesa cattolica, anzi sono già in grave ritardo. Non è il caso, dunque, di essere “moderati”: ci vogliono più coraggio e più radicalismo evangelico. E non si possono rimandare decisioni di cambiamento radicale.
Nel regime di cristianità, e limitiamoci all’ultimo periodo, dall’inizio dell’età moderna al Novecento, quando cioè si era in presenza di una società che si pensava tutta cristiana, i capi politici (imperatori, re, principi, governi, ministri) si ingerivano – in quanto si ritenevano detentori di un dovere/potere “cristiano” nei confronti della Chiesa – nella vita ecclesiale interna e condizionavano (o imponevano) la nomina dei vescovi. Per uscire da questa “piaga” si potevano seguire due vie, ciascuna analogicamente parallela ai due differenti processi in atto di modernizzazione del potere politico: o la via della centralizzazione di tipo bonapartistico o la via della partecipazione democratica. La prima è la via che si è effettivamente seguita (con il passaggio fondamentale del 1917, quando fu promulgato un Codice di tipo napoleonico per regolare il diritto canonico), centralizzando tutto il potere nel papa e nella Curia romana. La seconda era la via a cui pensava Rosmini.
Tra le due guerre mondiali poi, in presenza della sfida mortale alla Chiesa che veniva dai regimi totalitari (soprattutto dal nazismo di Hitler e dal comunismo di Stalin, ma più sottilmente e nonostante i Patti Lateranensi anche dal fascismo, sempre più nazificato), anche a Chiesa assumeva, arroccandosi sulla difensiva, una forma totalitaria, con i pontificati di Pio XI e di Pio XII. Ma, dopo la caduta del fascismo e del nazismo, e con l’avvento di regimi democratici, questa struttura istituzionale centralizzata della Chiesa, che permaneva, creava disagio e produceva dinamiche contraddittorie. Il Concilio Vaticano II ha avviato il superamento del totalitarismo ecclesiale. Ma il processo ha avuto alti e bassi, non si è ancora compiuto e l’anacronismo (esistenziale prima ancora che istituzionale) di alcune permanenze totalitarie appare sempre più stridente e incomprensibile per le nuove generazioni. Poteva ancora essere accettato in presenza del comunismo. Ma dopo il crollo dell’Urss non si giustifica più. Anzi la Chiesa cattolica rischia di essere percepita – in modo esagerato, ma non completamente a torto – come l’ultimo dei totalitarismi. Fuori tempo massimo.
La lettera del gruppo brindisino, dunque, portando l’attenzione su uno dei più urgenti punti di necessario cambiamento, offre un grande servizio alla Chiesa cattolica. Forse ancora troppo moderato, per le necessità storiche. Ma forse fin troppo audace, per l’attuale timidezza (almeno a quel che appare) di gran parte delle donne .
Fulvio De Giorgi Adista Segni Nuovi n° 38 05 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68927
{Dopo il Concilio Vaticano II, durante il papato(1963 -1978) di Paolo VI https://youtu.be/zO-zObOrjT8
ho ricevuto dal Vaticano in tre momenti separati la richiesta di un parere sulla possibile candidatura a Vescovo di tre presbiteri della Diocesi di Ivrea. Ero allora Presidente diocesano dell’Azione cattolica. Tengo ancora adesso rigorosamente il segreto. Due divennero vescovi senza sapere del mio voto positivo. Il terzo, nonostante il suo valore e la grande amicizia che ci legava non mi parve adatto. Non ho elementi per valutare se era una consuetudine. Con l’avvento di Giovanni Paolo II, si ritornò al passato.}
Papa Francesco il 13 luglio 2022 ha nominato tre donne al dicastero per i vescovi, costituito da 15 membri.
SINODO NEL MONDO
Vescovi dell’Amazzonia: è il momento della speranza!
Che sia il momento del riscatto dell’Amazzonia! In questo sperano i vescovi della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonica (REPAM-Brasile, organismo legato alla Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile), dopo il risultato delle elezioni generali del 30 ottobre scorso che hanno assegnato la vittoria a Luís Inácio Lula da Silva. La REPAM, è scritto in una Nota del 1° novembre, «si congratula con il Presidente eletto ed esprime la sua speranza che le proposte annunciate durante la campagna elettorale in relazione all’Amazzonia e ai suoi popoli e comunità tradizionali diventino effettive».
Argomentano i vescovi firmatari che «la ferma posizione del presidente eletto in difesa dell’Amazzonia e delle sue popolazioni, già nel suo primo discorso dopo la conferma della sua vittoria, ci fa ben sperare: “ci impegniamo nei confronti delle popolazioni indigene, degli altri popoli della foresta e di biodiversità”, ha garantito. È un impegno urgente – sottolineano – perché l’Amazzonia sta bruciando e i suoi popoli subiscono ogni tipo di violenza e di violazione dei diritti umani. È urgente ridare il giusto posto all’Amazzonia e riconoscere la sua importanza centrale nel ciclo dell’acqua e nella produzione e distribuzione delle piogge, nonché la sua funzione di regolazione del clima in tutto il pianeta. «Gli ultimi governi, a partire dal 2016 – rammentano –, hanno rappresentato una tragedia per l’Amazzonia e una offesa ai diritti della natura. Tuttavia, le popolazioni di questa regione strategica sono rimaste fermamente a difesa della vita e hanno consapevolmente votato per un nuovo progetto guidato dalla “Ecologia integrale”, il tema centrale del Sinodo speciale della Chiesa per l’Amazzonia».
«È il momento della speranza! – esclamano – Restituire alle popolazioni dell’Amazzonia i loro fiumi liberi da mercurio e agro- tossici, ripopolati di pesci di tutte le specie, alimento sacro nel suolo amazzonico. È ora di smettere di violentare la terra con la criminale ricerca dell’oro e con compagnie minerarie irresponsabili. È tempo di ripristinare la dignità dei popoli indigeni con i loro territori legittimamente delimitati e protetti da qualsiasi tipo di invasione e di distruzione. È tempo di sognare un tempo nuovo per l’Amazzonia e i suoi popoli».
La REPAM-Brasile conferma anche «la propria fiducia in tutte le istituzioni rappresentative dei processi democratici del Paese e nel processo elettorale, condotto in modo competente dal Tribunale Elettorale Superiore, con l’assistenza dei partiti politici e di organizzazioni della società civile».
I vescovi firmatari sono: mons. Evaristo Pascoal Spengler, vescovo prelato di Marajó – PA e presidente della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonica – REPAM Brasile; dom Pedro Brito Guimarães, arcivescovo di Palmas – TO, vice-presidente della REPAM Brasile, e dom José Ionilton Lisboa de Oliveira, vescovo prelato di Itacoatiara – AM, segretario dello stesso organismo.
Redazione ADISTA 03 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68972
STALKING
L’ex amante assolta, deve risarcire la vittima
Corte di cassazione, quinta Sezione Penale, sentenza n. 40298, 25 ottobre 2022
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_45081_1.pdf
La Cassazione conferma la decisione di merito rilevando che se anche la condotta della donna non è stata tale da comportarne la condanna per il reato di stalking, l’ansia che la stessa ha provocato all’ex merita un ristoro
Assolta dal reato di stalking, deve risarcire la persona offesa. La condotta della ex amante le risparmia la condanna per il reato di stalking, ma non la esime dall’obbligo di risarcire la persona offesa. Risarcimento quindi per l’ex amante, che la stessa perseguitava e al quale ha provocato ansia, anche se la stessa è anche frutto della conoscenza della relazione da parte di moglie e figlio. Questo emerge dalla sentenza della Cassazione
Assolta infatti in primo grado dal reato di stalking nei confronti dell’uomo con il quale ha avuto in passato una relazione extraconiugale, in sede di appello l’imputata viene condannata a risarcire i danni arrecati a causa della sua condotta, decisamente assillante.
Risarcimento per l’ansia conseguente alle condotte assillanti. Decisione che la donna contesta. A mezzo difensore, nel ricorrere in Cassazione, mette infatti in discussione la sua responsabilità per il mancato raggiungimento della certezza di quanto contestato oltre ogni ragionevole dubbio. Il ricorso della donna però viene dichiarato inammissibile. La condotta attribuita alla donna è stata confermata dalle dichiarazioni attendibili rese dalla moglie dell’uomo, dal figlio e dalla fidanzata di quest’ultimo. È stato inoltre appurato in sede di primo grado che lo stato d’ansia che ad un certo punto si respirava in famiglia non era dovuto alla condotta della donna, quanto alla scoperta della reazione extraconiugale. Lo stato d’ansia che ha colpito la persona offesa però era da attribuire alla condotta assillante della ex amante, che nei suoi confronti ha messo in atto una vera e propria persecuzione a cui si è sommato il clima di tensione che respirava in famiglia dopo che moglie e figlio hanno scoperto la relazione.
Confermata quindi la condanna al risarcimento dei danni.
Annamaria Villafrate Studio Cataldi 02 nov 2022
www.studiocataldi.it/articoli/45081-stalking-l-ex-amante-assolta-deve-risarcire-la-vittima.asp
STRANIERI
Stranieri, lavoratori e imprenditori. Ma poveri. I dati del dossier immigrazione
Lavorano, fanno impresa, ma sono più poveri. È uno dei dati sugli stranieri residenti in Italia (5.194.000, l’8,8% della popolazione) che emerge dal nuovo Dossier Statistico Immigrazione, curato da Idos, in collaborazione con il Centro studi Confronti e l’Istituto di studi politici “S. Pio V”, presentato a Roma lo scorso 27 ottobre in una conferenza stampa a cui hanno partecipato, fra gli altri, la moderatora della Tavola valdese Alessandra Trotta, la giornalista Eleonora Camilli e p. Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia di cooperazione “Habeshia”, prete eritreo impegnato nel salvataggio e nell’accoglienza dei migranti.
Rispetto al 2020, infatti, il tasso di occupazione fra gli immigrati è cresciuto del 2,4%, ma risultano demansionati rispetto al livello di formazione acquisito: il 63,8% svolge professioni non qualificate o operaie e la quota di sovra istruiti è del 32,8% (42,5% tra le sole donne) contro il 25% degli italiani. A questo bisogna aggiungere che gli immigrati svolgono un’ampia gamma di lavori imprescindibili: sono il 15,3% degli occupati nel settore alberghiero e della ristorazione, il 15,5% nelle costruzioni, il 18% in agricoltura e il 64,2% nei servizi alle famiglie, dove quasi i due terzi degli addetti sono stranieri. Tutti settori che, in assenza di manodopera straniera, entrerebbero in profonda crisi. Nel caso dell’assistenza alle persone, la gran parte delle famiglie italiane con anziani, minori o disabili sarebbero più sole e prive di aiuto.
Molti poi fanno impresa: le attività imprenditoriali condotte da immigrati e immigrate sono 642.638, costituiscono un decimo del totale (10,6%) e sono cresciute dell’1,8% (+11.481) rispetto al 2020, continuando un trend di ininterrotta espansione pure negli anni di crisi e di pandemia. Di conseguenza vivendo e lavorando in Italia, gli immigrati pagano le tasse, consumano e versano contributi: nel 2020 hanno pagato 5,3 miliardi di euro di Irpef, 4,3 miliardi di Iva, 1,4 miliardi di Tasi e Tari, 2,2 miliardi di accise su benzina e tabacchi, 145 milioni di euro per le pratiche di acquisizione di cittadinanza e di rilascio/rinnovo dei permessi di soggiorno. Inoltre, tra comunitari e non comunitari, hanno versato 15,6 miliardi di euro di contributi previdenziali, contribuendo al sistema pensionistico italiano. Ne deriva che il saldo netto tra uscite economiche (28,9 miliardi) ed entrate (30,2 miliardi) legate all’immigrazione è stato ancora una volta positivo di circa 1,3 miliardi di euro a vantaggio delle casse dello Stato.
Eppure, sebbene contribuiscano in maniera irrinunciabile al benessere collettivo, ne restano sempre più esclusi. Nel 2021 gli stranieri in condizione di povertà assoluta sono saliti, in Italia, a oltre 1 milione e 600mila (+100.000 rispetto al 2020), il 32,4% di tutti quelli residenti in Italia, una quota oltre 4 volte superiore a quella degli italiani (7,2%). E la percentuale di famiglie che non riescono a soddisfare i bisogni essenziali è del 26,3% tra i nuclei misti (con almeno uno straniero) e sale al 30,6% tra quelle di soli stranieri: 5 volte in più che tra le famiglie di soli italiani (5,7%). Anche la povertà relativa, legata alla capacità di spesa e perciò alla disuguaglianza sociale, colpisce molto più gli stranieri che gli italiani: nel 2021 ha riguardato in tutto 2,9 milioni di famiglie (l’11,1% del totale) ma, rispetto al 2020, l’incidenza di quelle che si trovano in tale stato è passata, tra i nuclei di soli italiani, dall’8,6% al 9,2%; tra quelli misti, dal 26,5% al 30,5%; e, tra quelli di soli stranieri, dal 25,7% a 32,2%, una quota oltre 3 volte superiore a quella delle famiglie di italiani.
Malgrado queste maggiori condizioni di indigenza, accedono meno degli italiani alle prestazioni di assistenza sociale (mense, trasporti, case popolari, sostegno al reddito ecc.), da cui vengono esclusi attraverso l’introduzione di requisiti illegittimi e arbitrari, da parte di Comuni e istituzioni, come il possesso di un permesso di lungo-soggiorno e una residenza anagrafica almeno decennale. Sono questi i vincoli che hanno limitato ad appena il 12% la quota di stranieri tra i beneficiari del Reddito di Cittadinanza, la principale misura nazionale di contrasto alla povertà economica, sebbene gli immigrati siano 3 ogni 10 poveri assoluti in Italia e questa indigenza sia, tra le loro famiglie, 5 volte superiore rispetto ai nuclei italiani.
«Se si consentisse loro non solo di lavorare più ore regolarmente, visto che la sottoccupazione cela spesso un contestuale impiego in nero, ma anche di accedere a professioni di più alta qualifica, con contratti più stabili e tutele più effettive, sarebbe valorizzato un potenziale ancora oggi mortificato, sebbene quanto mai prezioso in questa fase di crisi globale – spiega Luca Di Sciullo, presidente Idos –. Un potenziale che gioverebbe, oltre che agli immigrati, all’intero sistema Paese, dal momento che diminuirebbe l’economia sommersa e l’evasione, aumenterebbe ancor più il gettito in tasse e contributi, renderebbe più transnazionale e competitiva l’economia italiana
Luca Kocci Adista Notizie n° 38 05 novembre 2022
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UCIPEM n. 935 – 6 novembre 2022
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L ’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
CONTRIBUTI PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA
02 ABUSI Poco rumore e poi nulla. La Chiesa francese sul caso del vescovo Santier
04 AICCeF Webinar di presentazione dei Projet Work
05 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n.2, 26novembre 2022
07 CITTÀ DEL VATICANO PCTM e CEI. Un impegno comune contro gli abusi sessuali
08 Commissione dei minori, dal prossimo anno un rapporto annuale
O9 Più esperti, ma dove sono i sopravvissuti? La lotta “sinodale” a abusi de nuova” PC M
11 CONSULTORI UCIPEM Mantova. Atti del Convegno “I miei *primi* 280 giorni
13 Napoli. Frecce scoccate
14 DALLA NAVATA 32° Domenica del tempo ordinario – Anno C
14 Commento
16 DEMOGRAFIA Inverno demografico
19 ECUMENISMO Il Sae suggerisce: “vocazione” e non “conversione” di san Paolo
20 FAMIGLIA DI FATTO Separazione, mantenimento e affidamento dei figli
22 FED. CHIESE EVANGELICHE Messaggio conclusivo dell’Assise della FCEI 2022
23 La Riforma, una storia di passione
25 IVG Legge 22 maggio 1978,n. 194 Interruzione Volontaria della Gravidanza
27 No all’aborto teniamoci stretta la 194
29 LITURGIA La comunione ecclesiale
31 PASTORALE Chiesa e omosessualità. Noi operatori pastorali con le persone lgbt
33 POVERTÀ Diritto a residenza: ActionAid: a Roma ottima notizia per la tutela dei più fragili.
34 RIFLESSIONI Portare i fiori ai morti
34 SIN0DALITÀ Sinodo-documento: l’esperienza di Frascati
38 “Sinodo: molto dipende da cosa si è disposti a sentire”
40 SINODO CONTINENTALE La Chiesa in carne e ossa e la Chiesa nei palazzi. Al via la tappa continentale
41 I peccati della Chiesa fotografati nel documento per la tappa continentale
42 SINODO IN ITALIA Nomina dei vescovi. Un atto “conciliare”
44 SINODO NEL MONDO Vescovi dell’Amazzonia: è il momento della speranza!
45 STALKING L’ex amante assolta, deve risarcire la vittima
45 STRANIERI Stranieri, lavoratori e imprenditori. Ma poveri. I dati del dossier immigrazione
ABUSI
Poco rumore e poi nulla. La Chiesa francese sul caso del vescovo Santier
Un nuovo crollo di credibilità rischia di mandare al tappeto la Chiesa di Francia, dopo il recupero tentato con il lavoro sugli abusi della Commissione Ciase, sfociato nello scioccante Rapporto Sauvé, al quale erano seguiti mea culpa episcopali e proclami di impegno su verità, giustizia e prevenzione. L’esplosione del “caso Santier” rischia infatti di riportare tutto a zero e di allontanare definitivamente il popolo cattolico dalla gerarchia.
Gli abusi, la condanna e una pena ridicola. Questi i fatti. Secondo quanto riportato dalla rivista Golias (settembre 2022) e da Famille Chrétienne (14/10) mons. Michel Santier, cofondatore della comunità Réjouis-Toi – una delle numerose “comunità nuove” sorte in Francia nell’alveo del Rinnovamento carismatico, oggi pesantemente devastate da abusi –, vescovo di Luçon dal 2001 al 2007 e di Creteil fino al 2021, è stato condannato dalla giustizia canonica per abusi spirituali a scopo sessuale su due giovani, avvenuti negli anni ’90, quando era sacerdote della diocesi di Coutances (Manche). All’epoca, Santier era direttore della Ecole de foi (Scuola di fede), una scuola di preghiera per ragazzi dai 18 ai 30 anni, e in quel ruolo ha «esercitato un’influenza psico-spirituale e usato il suo ascendente su due giovani uomini adulti per scopi sessuali»: «Davanti al tabernacolo – è specificato – il penitente era invitato a togliersi un capo di abbigliamento a ogni peccato confessato. Alla fine dell’operazione arrivava l’assoluzione». La manipolazione del sacramento della confessione è una delle colpe più gravi che un sacerdote può commettere e una delle più pesantemente punite.
Le due vittime, ormai 40enni, avevano denunciato l’abuso nel 2019, e in seguito si era mossa la macchina della giustizia vaticana. Nel 2020, Santier aveva lasciato il suo incarico episcopale accampando problemi di salute e “altre difficoltà”, ma nell’ottobre 2021 sono arrivati i provvedimenti canonici: l’obbligo a ritirarsi nell’abbazia di Saint-Sauveur-le-Vicomte (Manche) per condurre una vita di penitenza e preghiera, durante la quale ha svolto invece l’incarico di cappellano delle suore di Saint MarieMadeleine Postel. Questi provvedimenti non sono mai stati resi pubblici. Ma la cosa non finisce qui. Il 22 ottobre, Famille Chrétienne ha svelato che altre misure nei confronti di Santier sono state prese dopo che sono state segnalate cinque nuove vittime. In accordo con Roma, il vescovo di Coutances Laurent Le Boulc’h ha vietato all’ex vescovo di Créteil ogni ministero pubblico. «Non può celebrare la Messa in pubblico né confessare», conferma mons. Dominique Lebrun, arcivescovo metropolita di Rouen. Un nuovo fascicolo è stato aperto a Roma.
Uno scandalo nello scandalo. Il punto della questione, oltre il fatto in sé, è il silenzio dei vescovi francesi. Se anche fosse vero che nessuno, all’interno della Conferenza episcopale, era informato della punizione comminata a Santier – quando, nel novembre 2021, i vescovi fecero il punto nella dolorosa assemblea a Lourdes post-Rapporto Sauvé – ci sarebbe però qualcosa di profondamente opaco nella gestione del caso, che tira in ballo il successore di Santier a Creteil, mons. Dominique Blanchet. Una volta depositata la denuncia delle vittime nel 2019, mons. Santier è stato convocato dall’arcivescovo di Parigi, allora mons. Michel Aupetit, con giurisdizione su Creteil; questi ha avviato la procedura sfociata nell’accettazione romana delle dimissioni di Santier nel gennaio 2021. Peccato che Santier, nella sua lettera di addio pubblica alla diocesi del giugno 2021, abbia nascosto ai fedeli il vero motivo della sua partenza: «Non avrò la forza fisica per continuare il mio ministero in mezzo a voi fino a quando avrò 75 anni e dopo aver attraversato altre difficoltà, alla fine del 2019 (…) ho scritto al Papa Francesco per consegnare il mio incarico a lui (…)». Malgrado qualche sospetto cominci a serpeggiare, il silenzio sul vero motivo della sua partenza viene ben mantenuto dall’episcopato. Fino al punto che nonostante la sanzione canonica, mons. Santier è ammesso dal suo successore, Blanchet, a celebrare la Messa crismale del giovedì santo a Créteil, il 14 aprile scorso, come rivela Libération (19/10). Blanchet, il 20 ottobre, cerca maldestramente di giustificarsi su Libération: «Poiché i provvedimenti disciplinari non sono stati resi pubblici da Roma e dallo stesso Michel Santier, ho ritenuto che costringerlo in quel momento all’assenza avrebbe causato più difficoltà della sua presenza».
Sei giorni prima su Famille Chrétienne il 14 ottobre, aveva affermato con la stessa sicurezza: «Non ci può essere eccezione all’esigenza della verità e della giustizia». Uno scempio compiuto sulla fiducia dei fedeli tanto che, il giorno dopo, il presidente dei vescovi mons. Éric de Moulins-Beaufort si sente in dovere di rassicurare i fedeli: «Il sentimento di tradimento, la tentazione dello sconforto sono tutte emozioni che capisco e che ci attraversano, proprio come l’incomprensione e la rabbia di molti per gli atti stessi»; «Non ci può essere impunità nella Chiesa, qualunque sia la funzione della persona implicata». Non una parola, però, sull’atteggiamento di Blanchet e sul suo nascondimento dei fatti alla messa crismale.
L’opinione pubblica cattolica non perdona più. Numerose le riflessioni delle figure di spicco del cattolicesimo francese su quanto accaduto nelle pagine dei media cattolici più diffusi. «Perché i vescovi non hanno detto nulla sugli abusi commessi da mons. Santier prima che fossero rivelati dalla stampa?», chiede tout court Alban de Montigny su Le Pelèrin (25/10), rilevando che questa domanda «viene a scuotere l’episcopato che si trova alla vigilia dell’Assemblea plenaria autunnale – dal 3 all’8 novembre». Il punto è se le sanzioni vaticane possono essere rese pubbliche: e se per Astrid Kaptijn, professoressa di diritto canonico all’Università di Friburgo ed ex membro della Ciase, «le decisioni non sono coperte dal segreto pontificio», p. Bruno Gonçalves, professore di diritto canonico all’Institut Catholique di Parigi, ricorda che le cose funzionano così: «Quando c’è uno scandalo pubblico, è necessario riparare pubblicamente, ma se i fatti non sono stati commessi in pubblico, rivelarli provoca lo scandalo mentre si dovrebbe ripararli. Altrimenti detto, fatti pubblici, sentenza pubblica; fatti occulti, sentenza occulta». Sta di fatto che tra i vescovi, le scelte di Roma sollevano interrogativi, riporta de Montigny: «È incomprensibile che monsignor Santier sia rimasto vescovo di Créteil per un altro anno dopo la denuncia», ha detto uno di loro. «Credo nella sincerità di Dominique Blanchet ed Éric de Moulins-Beaufort, ma come possono aver lavorato con Ciase e mantenere questo comportamento?», si chiede uno dei vescovi interpellati da Le Pelèrin.
Ma è proprio il sistema della giustizia canonica in sé a fare acqua. «Se questo scandalo istituzionale, che si aggiunge a uno scandalo individuale, mette paradossalmente in evidenza la necessità della giustizia canonica, purtroppo getta una luce severa sui difetti di questa giustizia così come viene attualmente applicata», commenta Jean Bernard su La Croix (27/10). «È proprio la permanenza in carica di chierici abusivi che è stata e rimane lo scandalo supremo agli occhi delle vittime», anche se «sembra che il principio della prescrizione dei reati, che si applica anche nel diritto canonico, abbia impedito l’apertura di un procedimento penale e quindi reso impossibile l’imposizione di una punizione» come la dimissione dallo stato clericale. Resta il fatto che il modo in cui la Chiesa ha gestito questa vicenda è in linea con la sua prassi precedente, «che si può riassumere in due termini: clandestinità e indulgenza».
- Clandestinità, perché invece di rimuovere Santier dal suo incarico «secondo il canone 192 del Codice di Diritto Canonico, che avrebbe avuto l’inconveniente di dover rispettare i diritti della difesa, motivare la decisione e pubblicarla, Roma ha preferito chiedergli di dimettersi in applicazione dell’art. 401 § 2 del suddetto Codice, dato che questa procedura non richiede particolari giustificazioni».
- Segretezza accompagnata da menzogna, perché «le dimissioni sono state imputate a problemi di salute, in barba alla più elementare verità».
- Indulgenza, perché a mons. Santier, pur vincolato a una vita di “preghiera” e “penitenza”, «sono state affidate le funzioni di cappellano di una comunità religiosa femminile, con la possibilità di celebrare la Messa in pubblico».
L’inadeguatezza della giustizia canonica. Ombre nere che si riflettono sulla imminente assemblea dei vescovi, a porte chiuse, senza i consueti incontri con i professionisti dei media, a parte la conferenza stampa finale, osserva sempre su La Croix Dominique Greiner (21/10). Ma è molto scettico Stephane Joulain, missionario dei Padri bianchi e psicoterapeuta (La Croix, 23/10). «Le recenti rivelazioni sulle violenze sessuali commesse da Michel Santier mi danno la nausea. Questo sentimento è provocato sia dagli atti commessi da quest’uomo nel contesto del suo ministero ordinato – questa perversione della grazia e della misericordia è un vero e proprio peccato contro lo Spirito Santo – ma anche dalla imposizione di sanzioni deboli per atti così gravi, che in altri tempi sarebbero stati sanzionati con la scomunica». «Negli ultimi decenni la giustizia canonica si è dimostrata incapace di giudicare questi numerosi ed efferati crimini. Non credo più, e sto pesando le mie parole, nella capacità dell’istituzione ecclesiastica di rendere giustizia in materia penale. Per questo motivo incoraggio sempre le vittime che mi consultano a rivolgersi innanzitutto alla giustizia umana».
«Il diritto canonico – rincara Joulain – è spesso usato per difendere i potenti dai deboli, mentre lo scopo del diritto è proteggere i deboli dai forti. Se il diritto civile riguarda il rapporto tra gli individui, il diritto penale riguarda il rapporto tra società e individui. Il diritto penale nella sua applicazione dice come una società intende e protegge i valori fondamentali della convivenza. È qui che l’istituzione cattolica ha fallito terribilmente. La prassi penale canonica riflette una concezione della convivenza ecclesiale in cui i chierici e in particolare i vescovi regnano sovrani». E il diritto penale canonico «è amministrato da uomini di Chiesa che troppo spesso preferiscono ancora proteggere l’istituzione piuttosto che il Popolo di Dio. (…). La legge può essere messa in cortocircuito in vari modi, ad esempio pervertendola attraverso un’interpretazione errata o facendo in modo che vengano nominate persone notoriamente non abbastanza competenti o troppo partigiane in difesa dell’istituzione. Queste strategie sistemiche sono ben note e molto efficaci».
La rabbia delle vittime. «Il mondo sta ancora una volta crollando intorno a noi, vittime di un chierico, bambini o adulti, che stanno disperatamente cercando di ricostruirsi», scrive ai vescovi (La Croix, 24/10), il collettivo di vittime Foi et Résilience, esprimendo sostegno «a questi due uomini che hanno trovato la forza di uscire dal loro silenzio». E rivolgendosi ai vescovi: «Nascondendo questa sanzione al popolo di Dio, a quello delle tre diocesi interessate e, più in generale, a tutti i fedeli, laici e sacerdoti, avete perpetuato ancora una volta questa cultura del silenzio così deleteria per tutti. Questo ha un nome: violazione della fiducia». Le vittime puntano il dito anche contro «la riluttanza (per non dire il rifiuto) dei vescovi (e dei fedeli) ad accettare e prendere in considerazione l’aggressione degli adulti», non riconosciuti nel piano di risarcimenti della Chiesa francese. Eppure «Sì, gli adulti sono o sono stati aggrediti sessualmente da chierici che li hanno posti sotto il loro controllo, manipolati e resi vulnerabili per la loro soddisfazione personale (…) Cosa intendete fare per loro e per le vittime adulte?». Tre le profanazioni compiute in questa vicenda: «Del corpo di questi giovani, del sacramento della riconciliazione e dell’Eucaristia, poiché gli atti sono avvenuti davanti al tabernacolo». Fatti estremamente gravi, ma «il silenzio è assordante sulla dimensione spirituale di questi abusi. Non una parola. Cosa direte?».
Quanto alla punizione comminata, poi, «ci scandalizza! Che considerazione avete della vita religiosa femminile per inviare loro un cappellano colpevole di questa triplice profanazione?». «Abbiamo scelto di lavorare con voi per cambiare le cose», concludono le vittime. «In questi tre anni di lavoro insieme (…) abbiamo cercato di condividere con voi la nostra conoscenza esperienziale, di aprire i vostri occhi sulla realtà di questi abusi e aggressioni commessi all’interno della Chiesa e di spingervi a ripensare radicalmente il vostro modo di gestire queste situazioni e di prevenirle. Abbiamo affrontato molti attacchi per aver scelto questa strada, ma non la abbandoneremo. Oggi, come molti fedeli della Chiesa di Francia, siamo scandalizzati, scoraggiati, devastati. Come possiamo mantenere la nostra fiducia, come possiamo ancora fidarci di voi?».
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 38 05 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68950
AICCeF- Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari
I Webinar di presentazione dei Projet Work
La Presidente Sinigaglia ed il Consiglio Direttivo dell’Associazione hanno deciso di realizzare la presentazione, a tutti i Soci Aiccef, dei lavori ideati ed elaborati dai colleghi che hanno partecipato al Corso di Alta Formazione: Linguaggi e tecniche della consulenza familiare on line, il Corso di Alta Formazione [CAF] del 2021, nato dall’importante sinergia tra l’Istituto Universitario Ecclesia Mater e l’AICCeF.
I Projet Work sono “il frutto del desiderio di creatività e di crescita di ogni Consulente Familiare in ascolto dei tempi” ci ha detto Francesco Citarda, e “rappresentano il nuovo che avanza, perché il futuro lo scriveremo dirigendoci verso orizzonti inconsueti”, ha sottolineato Rita Roberto.
“I lavori prodotti nell’ambito del CAF sono innovativi e rappresentano per la professione un’occasione significativa per aprire a nuove prospettive. Tutto ciò è perfettamente in linea con la mission inclusiva del Consulente Familiare che amplia gli orizzonti individuali e fa spazio a nuovi mondi relazionali”, ci ha detto la Presidente Stefania Sinigaglia, perché “la crescita passa attraverso chi è capace di visioni nuove”.
Riteniamo che ogni lavoro contenga argomenti di grande interesse, stimoli di novità, ideazioni pratiche ed approfondimenti professionali, che possono essere molto utili a tutti i colleghi che esercitano la nostra professione e con cui li vogliamo condividere.
Perciò abbiamo organizzato due webinar, di 4 ore ciascuno, in cui i protagonisti dei Progetti, coadiuvati dai loro Tutor, illustreranno le loro idee, le loro ricerche e le applicazioni ideate. I webinar saranno trasmessi il 19 e il 26 novembre, alle ore 15,00 e saranno gratuiti.
Per ogni webinar è prevista l’attribuzione di 20 CFP ai partecipanti registrati. In concomitanza degli eventi comunicheremo il programma e le modalità di partecipazione. 30 ottobre 2022
www.aiccef.it/it/news/webinar-di-presentazione-dei-projet-work.html#cookieOk
CISF – CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA
Newsletter CISF – n. 40, 2 novembre 2022
- E tu, cosa faresti se la incontrassi per strada? È un celebre esperimento sociale, realizzato alcuni anni fa ma sempre sconvolgente da vedere: la risposta delle persone di fronte a una stessa bambina, lasciata sola per strada prima in abiti eleganti e poi in abiti miseri. Venne realizzato in Georgia da Unicef, con una bambina-attrice opportunamente travestita che, alla fine della clip, esprime il suo dispiacere per essere stata ignorata e allontanata quando era nella versione “povera” [su YouTube – 2 min 38 sec]
- Un nuovo modo di usare il digitale in famiglia? Sarà pubblicato il prossimo 30 novembre “Famiglia&Digitale. Costi e opportunità” (Edizioni San Paolo), il nuovo rapporto annuale del Centro Internazionale Studi Famiglia. Per avvicinarci all’uscita del volume, che fonda la sua analisi su una ricerca su oltre 2mila famiglie con figli, Stefano Pasta, ricercatore Cremit (Università Cattolica di Milano) illustra come sia emerso un nuovo modo di usare social, piattaforme e device in famiglia: prevalgono, infatti, usi condivisi tra genitori e figli. L’intervista sulla pagina YouTube del CISF [8 min 45 sec]
www.youtube.com/watch?v=e0OWvGpSyhQ&t=23s
- Gioco d’azzardo e alcol in età anziana: convegno regionale. Giovedì 10 novembre (ore 9-13.30) presso l’Auditorium Don Alberione di Milano si terrà il convegno in presenza “Gioco d’azzardo e alcol in età anziana: oltre la punta dell’iceberg”, organizzato da CISF e Ordine Assistenti Sociali Lombardia a conclusione di una serie di eventi organizzati nel 2022 per offrire, a interlocutori diversi, occasioni di riflessione e confronto su gioco d’azzardo e consumo di alcol in età avanzata. L’evento formativo è rivolto a varie professionalità: assistenti sociali, educatori professionali, psicologi, medici, ecc.; è aperto a gruppi di auto mutuo aiuto (Alcolisti Anonimi, Club Algologici Territoriali, Giocatori Anonimi), associazioni di anziani, realtà di volontariato. Il programma della mattinata e l’scrizione obbligatoria entro lunedì 7 novembre: assistenti sociali e altre figure professionali e altri soggetti.
- Il CISF a Bologna e Milano – due incontri in presenza.
- Bologna, sabato 5 novembre 2022 (h. 9.30). Il Direttore Cisf (F. Belletti) interverrà all’incontro “POLITICA FISCALE E FAMIGLIA. Una fiscalità amica del futuro del Paese è a misura di famiglia: un costo si trasforma in un investimento” , promosso da INSIEME-PER (partito-movimento politico ispirato alla Dottrina sociale della Chiesa).
- Milano, lunedì 7 novembre 2022 (h. 21.00). L’Associazione Nonni 2.0 organizza a Milano
www.nonniduepuntozero.eu/chi-siamo
l’incontro su “Nonni, Genitori, Nipoti. La famiglia larga e solidale, pietra angolare della sussidiarietà”, cui interverrà anche il direttore Cisf (F. Belletti).
- USA/programma online di formazione per genitori separati. Si chiama Online Parenting Program ed è una realtà di formazione, certificata dalle agenzie governative e collaboratrice delle Family Court di vari Stati americani, per fornire moduli di formazione a supporto dei genitori separati e anche dei figli (dai 10 anni in su) di genitori separati. I moduli proposti – a pagamento – mirano a dare strumenti educativi e modelli di collaborazione per i genitori, in modo da abbassare la conflittualità nel corso della separazione; e stimolano lo sviluppo di skill relazionali e di autostima per i ragazzi. Il sito opera a più livelli e, oltre al sostegno alle famiglie separate, realizza programmi a favore delle famiglie dei militari, degli ex carcerati e di altri ambiti di particolare fragilità.
- Work-life balance: come è stata applicata la direttiva UE? Lo ha investigato COFACE (Federazione europea di associazioni familiari) in una recente relazione (10 Stati con Italia) https://coface-eu.org/about-us
che ripercorre la progressiva attuazione della direttiva europea sull’equilibrio tra lavoro e vita privata (è stata la prima iniziativa legislativa che ha seguito il varo della Direttiva “Pilastro dei Diritti Sociali” nel 2017, ed è stata formalmente adottata nel 2019). Gli Stati membri avevano tempo fino ad Agosto 2022 per darle applicazione, cogliendo l’occasione per riformare le proprie normative interne. Come è andata? Sono stati compiuti progressi in molti paesi, sottolinea COFACE, tuttavia, il pieno recepimento nei 27 Stati membri dell’UE è ancora incompleto.
- Si riduce la capacità di risparmio delle famiglie. L’inflazione sta riducendo i risparmi delle famiglie italiane, perché per mantenere i consumi molti hanno fatto ricorso alle proprie riserve o a prestiti. È solo uno dei dati dell’indagine annuale Acri/Ipsos, presentata in occasione della 98ª Giornata mondiale del risparmio. Si riducono le famiglie in grado di far fronte con mezzi propri a situazioni di difficoltà: il 39% potrebbe affrontare con serenità una spesa imprevista pari a 10.000 euro, il 75% una di 1.000. La capacità di risparmio è una fonte di tranquillità rispetto all’attuale situazione economica e rimane, come in passato, una priorità: più di un terzo (37%) non vive tranquillo se non mette da parte qualche risparmio
- Piemonte: via libera ad “allontanamento zero”. È stato approvato dal Consiglio Regionale del Piemonte (con 29 sì e 14 no, dopo quasi tre anni di discussione), il ddl “Allontanamento zero”, che mira a “evitare l’allontanamento del minore dalla propria casa e favorire il rafforzamento della rete formale e informale a sostegno della famiglia, prevenendo le situazioni di marginalità e isolamento”.
www.regione.piemonte.it/web/pinforma/notizie/approvata-allontanamento-zero#
Lo stanziamento complessivo per sostenere questo obiettivo è di 44,5 milioni di euro per il biennio 2023-2024 (22,3 milioni per il 2023 e 22,2 per il 2024). Il via libera alla normativa ha suscitato pareri contrastanti
–posizione di Ciai https://ciai.it/allontanamento-zero-demagogia-che-non-tutela-i-diritti-dei-bambini-e-delle-bambine
documento del Tavolo Nazionale Affido sul testo di legge:
- Friuli Venezia Giulia, un portale dedicato all’invecchiamento attivo. Recentemente premiato a Bruxelles il portale realizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia in tema di invecchiamento attivo, che ha reso visibili tutte le attività dedicate (leggi, progetti, finanziamenti, buone pratiche) in un unico portale. Preziose informazioni che vanno dal sostegno per le famiglie alle proposte di completamento della vita lavorativa, dall’impegno civile all’abitare al contrasto alla solitudine.
- Save the date
- Webinar (UE) – 8 novembre 2022 (14-16 CET). “Challenges&Dangers of children exposure to sexual explicit content in the digital era”, a cura di Fafce (Federazione delle associazioni familiari cattoliche in Europa), incontro anche in presenza presso il Parlamento Europeo
www.fafce.org/conference-invitation-challenges-and-dangers-of-children-exposure-to-sexual-explicit-content-in-the-digital-era-8-november-2022-14-00-16-00-cet
- Convegno (Trento) – 19 novembre 2022 (9-13). “Oltre i pregiudizi e gli stereotipi nel sistema dell’adozione“, convegno a cura della Fondazione Franco Demarchi e mostra sul tema, aperta dal 12 al 19 novembre.
www.fdemarchi.it/ita/Centro-di-documentazione/News/Convegno-e-mostra-sul-tema-Adozione
- Seminario (IT) – 22 novembre 2022 (a partire dalle 16.30). “Famiglie e intelligenza artificiale“, evento online (via Zoom) dell’Osservatorio sui consumi delle famiglie (OSCF) del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Verona [qui per info e iscrizioni]
Iscrizione gratuita http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.asp
CITTÀ DEL VATICANO
PCTM e CEI. Un impegno comune contro gli abusi sessuali
In uno spirito di stima e reciproca collaborazione, la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori (PCTM) e la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) annunciano la firma di un accordo volto a promuovere un impegno comune sempre più incisivo nel combattere gli abusi sessuali all’interno della Chiesa. Alla base c’è la condivisione di un approccio integrale e delle buone prassi adottate dalla Chiesa in Italia per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili.
Lo comunica una nota ufficiale della CEI. Il documento, siglato il 28 ottobre 2022) a Roma dai Cardinali Sean O’Malley e Matteo Maria Zuppi, Presidenti rispettivamente della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori e della Conferenza Episcopale Italiana, prevede aggiornamenti regolari – dalla CEI a livello nazionale e dalla PCTM a livello universale – sulle iniziative di tutela e di salvaguardia dei minori e delle persone vulnerabili. Si contempla inoltre uno scambio di competenze e professionalità, legate alle buone prassi, al fine di creare una rete globale di Centri per l’accoglienza, l’ascolto e la guarigione delle vittime, secondo gli standard internazionali individuati dalla Commissione e sul modello di quelli già diffusi nelle Diocesi italiane.
“Affinché la lotta agli abusi sia condotta con determinazione a beneficio del Popolo di Dio e per rimarcare l’impegno di responsabilità per la salvaguardia di ciascuno, soprattutto dei più piccoli e vulnerabili, l’accordo include anche un aiuto verso quei Paesi, specialmente in via di sviluppo, che dispongono di scarse risorse umane, professionali e finanziarie, con un supporto (non solo a livello economico) sia nella prevenzione sia nell’attuazione delle politiche di tutela”.
Il documento ha validità annuale e verrà rivisto per assicurare la sua rispondenza agli obiettivi. CEI e PCTM periodicamente elaboreranno una relazione su quanto realizzato”, riporta la nota ufficiale.
www.acistampa.com/story/pctm-e-cei-un-impegno-comune-contro-gli-abusi-sessuali-21011
Commissione dei minori, dal prossimo anno un rapporto annuale
Ci sarà un primo rapporto annuale della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori il prossimo anno, ma padre Andrew Small, segretario ad interim della Commissione, ritiene che i primi dati realmente perseguibili per fare un rapporto annuale pieno non ci saranno prima del 2024.
Nel mezzo della prima plenaria con la membership estesa a 20 membri, padre Small ha incontrato i giornalisti il 28 ottobre per dare una panoramica dei lavori della Commissione. La plenaria si è tenuta dal 27 al 29 ottobre, ed ha anche avuto lo scopo di esplorare e definire i compiti della Commissione ora che è stata collegata, con la riforma della Curia, al Dicastero per la Dottrina della Fede.
Il rapporto annuale era stato chiesto dal Papa nell’incontro che ha avuto con la commissione lo scorso aprile. Padre Small ha spiegato che il rapporto dovrebbe essere diviso in quattro sezioni.
- La prima sezione andrebbe a riassumere i rapporti dei vescovi sulle loro linee guida e l’implementazione del motu proprio Vos Estis Lux Mundi. I vescovi generalmente consegnano questo rapporto alla commissione durante le visite ad limina.
- La seconda sezione farà una panoramica geografica sugli sforzi per la protezione dei minori. Questa parte sarà redatta dai membri della commissione, divisi in gruppi.
- Ci sarà una terza sezione che guarderà a come i dicasteri della Curia Romana stanno includendo nelle loro attività la tutela dei minori. Padre Small ha fatto l’esempio del Dicastero per il Clero, che potrebbe essere chiamato a riportare di come sta promuovendo la tutela nei seminari.
- La quarta sezione invece guarderà agli sforzi della Chiesa nella tutela dei minori nel mondo, anche su questioni più ampie come il salvataggio dei soldati bambini, la protezione dei migranti e rifugiati bambini, la sicurezza negli orfanotrofi.
La plenaria della Commissione ha anche stabilito di lanciare un fondo che possa aiutare a finanziare centri per accompagnare i minori che hanno subito abusi e le loro famiglie.
Padre Small sostiene che da 70 a 80 delle 114 conferenze episcopali del mondo non abbiano meccanismi di denuncia stabili e pubblici come richiesto dalla Vos Estis, e che uno dei problemi per questo è la raccolta delle risorse. Da qui, la decisione di stabilire il fondo.
“Nel nostro impegno con le vittime – ha detto padre Small – il riconoscimento dell’errore commesso contro di loro è primario. Non c’è niente che prenda il posto dell’essere creduti e ascoltati”. Allo stesso tempo, vedere che chi fa del male “a volte resta senza punizione è molto doloroso”, e per questo le vittime sono confuse o deluse se non sono informate dei provvedimenti presi dalla Chiesa.
Padre Small ha anche ricordato che il prossimo anno sarà il decimo anno della Commissione da quando è stata stabilita, e che in questo periodo “ha avuto anche momenti e difficoltà molto intensi e quelli sono stati momenti di confronto con gli altri”. Ogni difficoltà è stata però superata dal “duro lavoro” e dalla reputazione e ferite di quanti si sono impegnati.
Andrea Gagliarducci ACI Stampa 31 ottobre 2021
www.acistampa.com/story/commissione-dei-minori-dal-prossimo-anno-un-rapporto-annuale-21021
Più esperti, ma dove sono i sopravvissuti? La lotta “sinodale” a abusi de nuova” Pontificia Commissione Minori
Molte novità, sulla carta, nella lotta vaticana agli abusi perpetrati dal clero sono stati annunciati in queste ultime settimane: un primo rapporto annuale della Pontificia Commissione vaticana per la Tutela dei Minori (PCTM) – presieduta dal card. Sean O’Malley – vedrà la luce nel 2023, anche se i primi dati utili, secondo p. Andrew Small, segretario ad interim della Commissione, che ha illustrato le iniziative ai giornalisti il 28 ottobre – saranno a disposizione solo nel 2024; un accordo, siglato tra la Commissione stessa e la Conferenza episcopale italiana, per promuovere un impegno comune sulla base di un approccio condiviso, che si servirà di uno scambio regolare tra i due organismi sulle iniziative di tutela e di salvaguardia dei minori e delle persone vulnerabili, a livello di informazioni e di competenze per creare una rete globale di Centri per l’accoglienza, l’ascolto e la guarigione delle vittime.
La Commissione vaticana si allarga. Nel frattempo, il 30 settembre scorso, papa Francesco ha ampliato la PCTM nominando dieci nuovi membri, che si aggiungono ai dieci già operativi. Una storia tormentata, quella di questo organismo, soprattutto per i rapporti con il Dicastero per la Dottrina della Fede, e per diversità di vedute all’interno, ma anche per la sua non chiarissima identità, per la lentezza e le resistenze alle proposte della Commissione come quella, approvata dal papa – ma mai realizzata – di creare un tribunale separato per i vescovi che agiscono in modo inappropriato nei casi di abuso sessuale. Il card. O’Malley annunciò la nascita del tribunale nel giugno 2015, ma esso, di fatto non vide mai la luce; al suo posto papa Francesco, l’anno dopo, emanò una nuova legge (il motu proprio Come una madre amorevole) che stabiliva la rimozione dei vescovi negligenti. In che misura sia stato applicato, finora, non è chiaro.
www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio_20160604_come-una-madre-amorevole.html
Con la Costituzione Apostolica sulla Curia Romana, Prædicate Evangelium, nel marzo di quest’anno
il papa ha posto la Commissione all’interno della sezione disciplinare del Dicastero per la Dottrina della Fede, lasciandole, nelle intenzioni almeno, una autonomia, con la nomina diretta pontificia del Presidente, che riferisce direttamente al papa e con l’indipendenza dal Dicastero per ciò che riguarda decisioni su membri e personale e sulle proposte avanzate.
I nuovi membri designati (con un incarico quinquennale) sono: mons. Peter Karam, vicario patriarcale della Chiesa maronita (Libano); mons. Thibault Verny, vescovo ausiliare di Parigi, incaricato della Protezione dei minori per l’arcidiocesi di Parigi e interlocutore della Commissione CIASE, promotore, tra le altre cose, di un sito web di informazione sugli abusi e di formazione online obbligatoria per gli educatori della Diocesi di Parigi; p. Tim Brennan, della Provincia australiana dei Missionari del Sacro Cuore, impegnato a Roma presso l’Ufficio Tutela della Curia generalizia; suor Niluka Perera (India), assistente sociale professionale, coordinatrice del Catholic Care for Children International (CCCI) dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG) di Roma; suor Teresa Nyadombo, coordinatrice nazionale per l’educazione e la salvaguardia della Conferenza episcopale cattolica dello Zimbabwe; Irma Patricia Espinosa Hernández, psichiatra e psicoterapeuta, esperta di psicologia criminale, profilazione e valutazione delle vittime di abusi sessuali e di autori di reati sessuali, direttrice della Facoltà di Psicologia dell’Universidad Catolica Lumen Gentium di Città del Messico e membro del Consiglio nazionale per la protezione dei minori della Conferenza episcopale messicana, nonché cofondatrice del CEPROME, centro di ricerca e formazione interdisciplinare sulla protezione dei minori con sede a Città del Messico; Maud de Boer-Buquicchio, presidente di ECPAT Internazionale (associazione che opera per contrastare lo sfruttamento sessuale dei minori, la violenza e la tratta), già vice cancelliere presso la Corte Europea dei Diritti Umani (1998), poi (2002-2012) vice segretario generale del Consiglio d’Europa; dal 2014 al 2020 è stata relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla vendita e lo sfruttamento sessuale dei bambini; Anne-Marie Emilie Rivet-Duval (Mauritius), psicologa clinica responsabile dell’Ufficio diocesano di psicologia; Teresa Devlin, con studi in psicologia e scienze sociali, CEO del National Board for Safeguarding Children in the Catholic Church in Irlanda; Ewa Kusz, psicologa clinica, sessuologa e terapeuta, vicedirettrice del Centro per la protezione dell’infanzia presso l’Università dei Gesuiti “Ignatianum” di Cracovia (Polonia), dove ha contribuito a creare il programma di studi post-laurea sulla protezione dell’infanzia.
Questi nuovi membri si vanno ad aggiungere a mons. Luis Manuel Alí Herrera, vescovo ausiliare di Bogotá, in Colombia, psicologo; p. Hans Zollner, direttore dell’Istituto di Antropologia della Pontificia Università Gregoriana; suor Arina Gonçalves, sociologa e terapeuta; Ernesto Caffo, fondatore e presidente di Telefono Azzurro Onlus e presidente della Fondazione Child; Benyam Dawit Mezmur, professore associato di Giurisprudenza presso il Dullah Omar Institute, University of the Western Cape, a Cape Town (Sudafrica), due volte presidente della Commissione di Esperti sui Diritti e il Benessere dei Bambini dell’Unione Africana, nonché presidente della Commissione Onu sui diritti dei bambini (2015-2017), Neville Owen, giudice della Corte d’Appello della Corte Suprema dell’Australia occidentale, alla guida del Consiglio Giustizia e Riconciliazione creato dalla Chiesa australiana per far fronte alla crisi causata dagli abusi sessuali; Sinalelea Fe’ao, 42 anni di lavoro nel campo dell’educazione; Teresa Kettelkamp Morris, già colonnello nella Polizia di Stato dell’Illinois, direttrice esecutiva del Segretariato per la tutela dei bambini e dei giovani della Conferenza episcopale Usa (2005-2011) e Nelson Giovannelli Rosendo dos Santo, esperto di riabilitazione dalla tossicodipendenza e dall’abuso, fondatore in Brasile delle comunità Fazenda da Esperança.
Una sola, per quanto è noto (nel 2018 la Commissione aveva affermato che l’identità delle vittime di abuso sessuale presenti tra i membri non sarebbe stata resa pubblica) la presenza in rappresentanza dei sopravvissuti: nel marzo 2021 si era aggiunto al gruppo il giornalista cileno Juan Carlos Cruz, – vittima da adolescente delle violenze sessuali del prete poi dimesso dallo stato clericale, Fernando Karadima – cofondatore nel 2010 della “Fundación para la Confianza”, dedicata al sostegno dei sopravvissuti e alla prevenzione degli abusi, e nel 2018 del “Centro CUIDA”, il primo centro di ricerca per lo studio e l’indagine sugli abusi nella società presso la Pontificia Università Cattolica del Cile.
Ufficialmente, dunque, Cruz sarebbe l’unico sopravvissuto ad abusi presente in Commissione; Una presenza tormentata, quella delle vittime: il britannico Peter Saunders, fondatore ed ex responsabile dell’associazione di vittime di pedofilia Napac e l’irlandese Marie Collins, entrambi nominati nel 2014, se ne andarono delusi, arrendendosi a lentezze, ostacoli e persino boicottaggi della Curia nei confronti del lavoro del gruppo; la neuropsichiatra infantile francese Catherine Bonnet, specializzata in violenze sessuali su minori, lasciò nel 2018: aveva invano insistito sulla necessità di ascoltare le vittime, «singolarmente o nel quadro di associazioni come l’Ending Clerical Abuse (ECA)».
La “nuova” agenda della Commissione. Se la Commissione sembra dunque limitare fortemente la presenza di sopravvissuti al suo interno (lasciando il beneficio del dubbio sul una loro presenza “riservata”) afferma peraltro di volere che la voce delle vittime sia ascoltata, e a questo fine ha promosso dei Survivors Advisory Panels (SAP), con l’intento di individuare contenuti e modalità per includere le esperienze delle vittime e dei sopravvissuti all’interno delle politiche di tutela e di cura delle Chiese.
www.iicsa.org.uk/reports-recommendations/publications/investigation/roman-catholic-church/part-h-engaging-victims-and-complainants/h3-survivor-advisory-panel
La Commissione – che non si occupa di casi individuali – dovrà anche supervisionare l’applicazione delle linee guida delle Conferenze episcopali, in base a Prædicate Evangelium; a questo scopo essa è stata incaricata di collaborare con le Conferenze episcopali, le Diocesi e gli Ordini religiosi per garantire l’applicazione e l’efficacia delle linee guida, che oltretutto non sono ancora state elaborate da tutte le 114 Conferenze episcopali del mondo.
Vengono inoltre istituiti meccanismi di segnalazione di abusi in tutta la Chiesa, in ottemperanza all’articolo 2 del motu proprio Vos Estis Lux Mundi del 2019,
www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190507_vos-estis-lux-mundi.html
e la redazione di un Rapporto Annuale. Poiché vi è una grande disparità nella formazione e nella prevenzione degli abusi sessuali sui minori tra il Nord e il Sud del mondo, la Chiesa, ha spiegato p. Small, è chiamata a intervenire: a questo scopo la CEI – che, lo ricordiamo, continua a rifiutare una ricerca indipendente che dia un quadro dell’abuso in Italia, dove omertà ecclesiastica e vuoti giuridici lasciano il fenomeno ancora largamente sommerso e, dunque, non affrontabile – ha previsto uno stanziamento, per un periodo di tre anni, di fondi dell’8 per mille, per supportare la Commissione nella sua lotta agli abusi nel Sud del mondo.
Quanto al Rapporto annuale, si tratterà di un documento descrittivo sull’applicazione e l’efficacia delle politiche e delle procedure di salvaguardia nella Chiesa, fornendo un feedback [effetto retroattivo] sulle misure di cura e accompagnamento delle vittime e indicazioni sulle best practices da attuare.
Tra gli auspici formulati da p. Small, quello che il Rapporto annuale «fornisca un grado di trasparenza e responsabilità così urgente in tema di protezione e di gestione degli abusi: il Rapporto Annuale può costituire un importante punto di incontro e di dialogo con tutti i Dicasteri che compartecipano in qualche modo all’attuazione del safeguarding e nella protezione dei minori». Si tratterebbe, insomma, ha detto p. Small, di un approccio «inquadrato in termini di sinodalità. Definendo questo lavoro nella prospettiva della comunione e della sussidiarietà, il Santo Padre lo ha associato a due concetti fondamentali dell’essere e del fare della Chiesa».
È da sottolineare, però, – e lo ammette lo stesso segretario ad interim della PCTM – che proprio alla luce del processo sinodale manca un “pezzo” importante: «il peso e il significato effettivamente attribuito alle esperienze delle vittime/sopravvissuti agli abusi sessuali da parte del clero nel processo sinodale sono ancora dolorosamente poco chiari e le testimonianze delle vittime/sopravvissuti sono state finora limitate, e l’impatto delle loro esperienze e intuizioni è difficile da discernere».
Ludovica Eugenio Adista 01 novembre 2022
CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Mantova. Atti del Convegno “I miei *primi* 280 giorni
Sommario
Etica Salute e Famiglia
Anno XXVI, n°6 Novembre-Dicembre 2022
Responsabili: Gabrio Zacchè, Armando Savignano, Luisa Menini
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Pag. 03 Relatori presenti all’inizio del Convegno (foto di Attilio Pignata). Da sinistra:
don Stefano Tognetti (parroco di Roncoferraro),
Armando Savignano (docente di filosofia morale, Università di Trieste),
Sergio Rossi (sindaco di Roncoferraro),
Samuela Boni (presidente di “La quercia Millenaria”),
Giovanni Paganini (medico internista, presidente Consulta Pastorale della Salute, Diocesi di Mantova),
Mons. Paolo Gibelli (medico e parroco a Suzzara),
Gabrio Zacchè (primario emerito Ginecologia e Ostetricia, Mantova),
Stefano Pellizzardi (Direttore SC Consultori Familiari ASST Mantova),
Renzo Boscaini (Direttore Socio-Sanitario ASST Mantova),
Gianpaolo Grisolia (Direttore FF SC Ostetricia e Ginecologia, Mantova),
Maurizio Tedoli, (Chirurgo, membro della Consulta Pastorale della Salute, Diocesi di Mantova).
Altri relatori:
Don Maurizio Chiodi (Ordinario di bioetica Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le scienze del
Matrimonio e della Famiglia),
Roberto Bondavalli (psicologo psicoterapeuta),
Maria Luisa Costa e Daniela Simoncelli del CAV di Mantova.
Pag.04 Presentazione Giovanni Paganini
Pag.06 Inverno demografico Armando Savignano
Pag.11 45 anni di legge 194 Gabrio Zacchè
Pag.15 La diagnosi prenatale Giampaolo Grisolia
Pag.19 I dialoghi tra mamma e nascituro Roberto Bondavalli
Pag.24 Il Centro di Aiuto alla Vita di Mantova Maria Luisa Costa
Pag.27 Progetto mamme per mano CAV Mantova Donatella Simoncelli
Pag.29 Terapia dell’Accoglienza. Accompagnare gravidanze con diagnosi di patologia. Samuela Boni
Pag.32 Il grembo materno e l’esperienza della vita prima del parto Maurizio Chiodi
Pag.36 «Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto» Paolo Gibelli
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Napoli. Frecce scoccate
Una scelta d’amore per l’umanità sofferente. Una scelta personale, operata da padre Correra (per noi tutti semplicemente Domenico, come lui stesso voleva), che ha viaggiato per 60 anni facendosi strada nei cuori di chi aveva bisogno di aiuto come di chi era animato dallo slancio di aiutare. Un seme che ha dato vita a quella realtà che ho imparato ad amare.
Ricordo una circostanza più unica che rara, con Domenico che parlava di sé per descrivere l’origine della sua vocazione al sacerdozio, quando il suo giovane cuore, attonito di fronte agli orrori e alla sofferenza della guerra, cominciò ad intuire la possibilità di trasformarli in un profondo desiderio di farsi compagno nel dolore e nello smarrimento.
(17 maggio 1926- 13 aprile 2022
Queste riflessioni e quel ricordo mi hanno accompagnato nel ritrovarci in quell’occasione speciale, con la voglia di dirci che il distacco ancora tanto recente sta diventando una presenza che ci accompagna e continua a rassicurarci nel nostro quotidiano impegno per quell’umanità sofferente centro dell’universo consultoriale. E poi nel sentire l’abbraccio dell’accoglienza di chi ha raccolto il testimone di quel primo germoglio, il racconto di chi ha attraversato tanta storia del consultorio Centro “La Famiglia”, condividendone lo spirito, le radici perché rischiarino le pagine ancora da scrivere.
Si sono succeduti interventi per ripercorrere la nascita e lo sviluppo della realtà consultoriale in Italia, e in particolare la storia del Centro La Famiglia che nel suo svolgersi ha accompagnato migliaia di persone nella loro condizione di sofferenza e disagio. Descrizione intrecciata a testimonianze su Domenico come fondatore di quella realtà napoletana, assieme a discrete e preziose presenze, e protagonista di quella storia a livello nazionale.
L’auspicio di un’alleanza tra istituzioni, società civile e volontariato ha accomunato gli interventi dell’assessore all’istruzione e alla famiglia, Maura Striano, e del presidente dell’UCIPEM, Francesco Lanatà. La centralità del servizio per la promozione e lo sviluppo della persona umana, nelle sue relazioni sociali, come punto d’incontro della visione evangelica e del sistema costituzionale è emersa dalle parole dell’avv. Luigi Notaro.
La prospettiva futura è stato il motivo di fondo di tutti gli interventi: l’intenzione di fare della storia passata il patrimonio per guardare al futuro, adattandosi ai cambiamenti nella necessità di un continuo aggiornamento e nel mantenere la vocazione della prossimità gratuita. Intendimento, quest’ultimo, risuonato nelle parole del nostro Vescovo durante la celebrazione eucaristica, attraverso le quali ho sentito riecheggiare l’invito a porsi in ascolto dei poveri per recepirne lo slancio di generosità in totale gratuità. E allora ho visto ancora più distintamente l’importanza del farci “poveri”, nel mettere tra parentesi i nostri costrutti e pregiudizi, per poterci ritrovare tutti in sintonia e così poter affiancare con sguardo limpido chiunque porta a noi la propria sofferenza. Così da prolungare oltre questi 60 anni quella originaria scelta d’amore, facendone insieme una rampa di lancio nel futuro. Perché l’arco ha scoccato tutte le sue frecce, e ora sta a noi andare, lontano e in ogni direzione, alimentando quello slancio e, come novelli Cupido, entrare nel cuore di quanti si rivolgono a noi per poterne condividere il dolore e risvegliarne la speranza. Insieme.
Prof. Sergio Pepe Consulente Familiare, Mediatore Familiare, Formatore Gordon
http://www.consultorio-famiglia-giovani.it
DALLA NAVATA
XXXII Domenica del tempo ordinario- Anno C
2Maccabei 07, 14. È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita»
Salmo 16, 05. Tieni saldi i miei passi sulle tue vie e i miei piedi non vacilleranno. Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio; tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole.
Paolo 2Tessalonicesi 02, 16. Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.
Luca 20, 37 Che poi i morti risorgano, lo ha palesato anche Mosè al roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui»
Commento di Luciano Manicardi – Comunità di Bose
La pericope evangelica della XXXII domenica dell’Ordinario presenta una controversia tra Gesù e i Sadducei circa la fede nella resurrezione (Lc 20,27-38). I sadducei erano rappresentanti di quel movimento aristocratico-sacerdotale che si caratterizzava per una stretta interpretazione della sola Torah scritta, prescindendo dalla Torah orale che il movimento farisaico faceva risalire anch’essa al Sinai. Pertanto, non trovando nella Torah scritta affermazioni esplicite circa la resurrezione, i Sadducei, a differenza dei farisei, non credevano alla resurrezione. Non a caso, anticipando l’argomento della discussione, Luca accompagna l’ingresso in scena dei Sadducei (e si tratta dell’unica e sola volta in cui i Sadducei compaiono nel terzo vangelo) con l’inciso: “i quali dicono che non c’è resurrezione” (v. 27). Il testo presenta una prima parte in cui i Sadducei pongono a Gesù un caso studiato a tavolino che si conclude con una domanda (vv. 27-33) e una seconda che presenta la risposta di Gesù (vv. 34-38).
Essi sottopongono a Gesù il caso – una finzione costruita ad arte -, di sette fratelli che sono morti senza lasciare figli dopo avere sposato in successione la stessa donna. Questa sorta di esercitazione scolastica, viene giocata dai Sadducei per mettere in ridicolo la credenza nella resurrezione dei morti. Essi espongono ciò che dice la Torah (v. 28), quindi narrano la storiella dei sette fratelli e della donna (vv. 29-32) e infine pongono una domanda a Gesù (v. 33). Il fine è quello di mettere in ridicolo la fede nella resurrezione. Essi citano la legge sul levirato come espressa in Dt 25,5-6. Essa dice che il fratello di un uomo sposato che muore senza avere figli, sposerà la vedova e il figlio primogenito che nascerà “andrà sotto il nome del fratello morto, perché il nome di questi non si estingua in Israele”. La storia dei sette fratelli e della loro identica sorte – morte senza figli –, a cui segue la morte della donna stessa, sfocia nella domanda che dovrebbe mettere con le spalle al muro il loro interlocutore e mostrare l’assurdità della credenza nella resurrezione, o almeno i problemi che arriva a comportare: “La donna dunque, alla resurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie” (v. 33).
Prima di esaminare la risposta di Gesù ci possiamo interrogare sulla dimensione ermeneutica del testo. Come questa storiella fittizia e anche grottesca riguarda il credente oggi? Cosa ci dice, se ci dice qualcosa? In realtà, il problema centrale del testo, la fede nella resurrezione, tocca da vicino l’uomo d’oggi e anche i credenti. Oggi alla posizione “colta” che critica il cristianesimo che con la resurrezione dimostrerebbe di non saper abitare il tragico come gli antichi greci, e a quella che vede nella resurrezione un’evasione nell’aldilà, un inverificabile happy end consolatorio apposto alla drammaticità della storia, si affiancano la reticenza e l’imbarazzo che spesso abitano gli stessi credenti di fronte alla fede nella resurrezione. A volte non siamo poi così distanti dalle posizioni dei Sadducei. Forse ci scandalizza di più la resurrezione che la morte di croce. Dunque, il primo messaggio che emerge dal testo è la fede nella resurrezione come scandalo. Ma è uno scandalo che si oppone all’ovvietà della morte. La resurrezione è tutto fuorché ovvia. È l’incredibile per eccellenza, e dunque il vero contenuto della fede che chiede di credere l’incredibile. La fede cristiana è fede nella resurrezione e la fede nella resurrezione è, tout court, la fede cristiana. Fede che Cristo è risorto dai morti e fede che i morti risorgeranno in Cristo. “Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” (1Cor 15,17); “Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!” (1Cor 15,13).
Un elemento che colpisce ancora nel “caso di scuola” creato dai Sadducei è l’uso disinvolto e totalmente privo di compassione di situazioni che nella realtà sono tragiche e dolorose come la morte, la vedovanza, l’assenza di figli. Il testo di Dt a cui essi si riferiscono è teso a dare vita, speranza e futuro anche a chi moriva senza figli, ma essi stravolgono quella finalità e il loro discorso è un vero e proprio inno alla morte. Per quattro volte ricorre il verbo “morire” (apothnéskein: vv. 28.29.31.32), due volte l’espressione “senza figli” (áteknos: vv. 28.29), una volta l’espressione “non lasciare figli” (v. 31). Il loro parlare (e pensare) è dominato dall’ossessione della morte. La riduzione del dolore umano, di un caso tragico, ad argomentazione dialettica, dice anche il cinismo e la possibile violenza e insensibilità della parola e, in particolare, della parola teologica, almeno quando e se riduce la realtà a casistica, quando e se è scissa dalla compassione umana. Criterio di verità della parola, e anche della parola teologica, è il suo sentire il dolore umano, il suo lasciarsi abitare dalla sofferenza umana, e dunque il suo rifiutarsi di manipolare il dolore altrui e, per quanto possibile, di aggiungere dolore a dolore, di creare sofferenza inutile. Il discorso teologico e pastorale riesce a raggiungere e toccare il credente nel tragico della sua esistenza? O lo usa per difendere o sostenere una posizione dottrinale?
Gesù risponde ai Sadducei riprendendone l’argomentazione che parlava di mariti e mogli, di figli e di matrimonio, e che intendeva la vita futura, la vita aperta dalla resurrezione, come proiezione e prosecuzione di questa vita. La realtà matrimoniale, come l’esercizio sessuale, è realtà penultima, di questo mondo. Affermando la resurrezione, Gesù afferma anche la distinzione, ben presente nella mentalità apocalittica, tra “questo mondo” (v. 34) e “l’altro mondo” (v. 35). Il senso del v. 34 è chiaro: sposarsi e procreare sono realtà di “questo mondo”, mentre coloro che entreranno a far parte dell’altro mondo (essendone stati giudicati degni da Dio: il v. 35 presenta un passivo divino), “non prendono moglie né marito” (v. 35). Ormai risorti essi vivono in Dio e dove regna Dio non regna più la morte (v. 36). Dicendo che i risorti sono “uguali agli angeli” (isángheloi: v. 36), Luca usa un termine che troviamo anche in Filone di Alessandria per affermare che Abramo, una volta morto, divenne uguale agli angeli perché aveva un corpo spirituale. Il riferimento agli angeli va compreso anche in riferimento al fatto che i Sadducei, come ci informa altrove Luca, oltre a non credere alla resurrezione, affermano che non vi sono neppure “angeli né spiriti” (At 23,8).
A questo punto Gesù fa giocare l’argomentazione scritturistica. La resurrezione è attestata già nel passo del roveto (“a proposito del roveto”: v. 37), dunque al cuore della Torah, quando Mosè dice “Signore il Dio di Abramo e Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” (v. 37). In Es 3,6 Dio si presenta a Mosè come attualmente Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, sebbene siano passati secoli dalle vicende dei patriarchi: non dice “io ero”, ma “io sono” il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Non solo egli è vivente, ma anche i patriarchi lo sono, grazie a lui, per lui e in lui. Egli si rivela a Mosè come il Dio fedele all’alleanza, come Dio di viventi e non di morti, dunque come Dio la cui fedeltà è più forte della morte e trascina nella sua vita anche coloro con i quali si è impegnato legandosi a loro in alleanza. Dunque il Dio che davanti a Mosè si autoproclama Dio di Abramo, di Isacco e Giacobbe attesta che anche i patriarchi sono viventi in lui: “tutti infatti vivono per lui” (v. 38). Sta scritto nel quarto libro dei Maccabei: “I nostri patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe vivono in Dio” (IV Mac 7,19); “Coloro che muoiono per Dio vivono per Dio, come Abramo, Isacco e Giacobbe” (IV Mac 16,25). Gesù dunque fonda la fede nella resurrezione sull’autorità di Mosè e della Torah, proprio i riferimenti su cui si erano appoggiati i Sadducei per smentire la credenza nella resurrezione. Con questa esegesi, Gesù si mostra in linea con l’interpretazione farisaica di quel brano. “Dice R. Simaj: da dove sappiamo che la resurrezione dei morti è insegnata nella Torah? Perché sta scritto: ‘Anche con Abramo, Isacco e Giacobbe io ho stabilito la mia alleanza, per dare ad essi la terra di Canaan, la terra dove essi soggiornarono come forestieri’ (Es 6,4). Qui non si dice: ‘per dare a voi’ (figli d’Israele), ma ‘per dare a loro’. Da qui risulta che la resurrezione dei morti è insegnata anche dalla Torah” (bSanhedrin 90b).
Sul piano ermeneutico cosa possiamo trarre da tutto questo? La redazione lucana di questo episodio, assai complesso, riporta il discorso sulla resurrezione all’oggi e alle motivazioni del vivere oggi. Dal testo emerge pertanto una domanda per noi: per chi vivo? Perché vivo? Grazie a cosa vivo? Che cosa mi fa vivere? Se la domanda-trabocchetto dei Sadducei nasconde anche una serietà, questa riguarda il futuro delle nostre relazioni, del nostro amore, dell’amore che spendiamo nell’oggi. E la risposta di R. Simaj, oltre a contestare una visione della vita futura come prolungamento del presente, la strappa anche a speculazioni astratte e riporta all’oggi storico il credente interpellandolo sulle motivazioni del suo vivere. Chi ha una ragione per morire, ha anche una ragione per vivere. Chi ha una ragione per cui dare la vita, ha anche una motivazione per vivere. Dunque: per chi e per che cosa vivo?
Luciano Manicardi Comunità di Bose
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/15289-credere-l-incredibile
DEMOGRAFIA
Inverno demografico
- I Paesi europei e la denatalità. Più che soffermarsi sui drammatici dati statistici forse è quanto mai
opportuno concentrarsi sui rimedi e i tentativi di soluzione del drammatico problema della denatalità, con la premessa che lo Stato non si intrometta se non per incentivare, dato che tale cruciale questione riguarda essenzialmente la privacy delle persone. Il che non può eludere tuttavia l’interrogativo se un figlio sia solo una questione esclusivamente privata o abbia anche risvolti sociali e pubblici. Forse non è inutile interrogarsi sulle soluzioni escogitate da altri Paesi per tentare di risolvere la questione della denatalità.
Nel modello svedese, le donne senza figli, o con un solo figlio, sono poche, mentre quelle con due figli costituiscono la maggioranza; sono molto ridotte le donne con tre figli. Evidentemente, nella società svedese, è largamente diffuso, e peraltro già realizzato, l’ideale di famiglia con almeno due figli in media. In questa situazione è di senso comune che sia stata impostata una politica di sostegno alla famiglia ed alla donna, privilegiando interventi tesi ad armonizzare vita lavorativa e famiglia, mediante l’incoraggiamento al lavoro parziale, flessibile, temporaneo, ed inoltre creando le condizioni per la maternità in giovane età. Si tratta di interventi che vengono qualificati come ‘arte’, cioè come «l’arte di sincronizzare e conciliare vita professionale, condizione di genitore e crescita individuale».
Nel modello francese, si parte dal dato di fatto che le aspirazioni e le inclinazioni delle donne siano molto variabili, in presenza anche di una società multietnica, sicché occorre assecondarle per quanto è possibile. Gran parte delle donne individuano la loro promozione sociale nel lavoro o nella carriera, sicché appare inutile, o può sortire solo effetti molto limitati o parziali, il tentativo di distoglierle da tali attitudini. Un’altra parte delle donne è incline ad una famiglia relativamente numerosa, ma è frenata dalla carenza di risorse economiche e da altri fattori temporali. A tal fine, occorre predisporre incentivi di tipo economico, in modo costante e progressivo specie a partire dal secondo figlio.
Questi due modelli non possono eludere un problema morale di fondo: non è affatto scontato, anzi è discutibile, se debba essere ritenuta più giusta ed accettabile una politica tesa a favorire la distinzione tra le donne che puntano al lavoro ed alla carriera rispetto ad altre che privilegiano la realizzazione in famiglia, soprattutto se, in base al principio dell’uguaglianza, sono diritti fondamentali delle donne tanto il lavoro quanto una procreazione responsabile. Nell’ottica della legislazione francese l’intervento dello Stato non è visto come un’infrazione della libertà individuale, ma come un miglioramento di essa in quanto aiuta le coppie ad appagare i propri desideri. La politica che ne risulta è stata attivamente perseguita per vari decenni e si può dire che faccia ormai parte della cultura dominante. Include varie componenti relative all’assistenza economica, alle abitazioni, all’istruzione pre-scolare, al doposcuola ed ai congedi per maternità e per la cura dei figli.
Il modello svedese appare più rispettoso delle scelte individuali; ma le conseguenze dimostrano che in Scandinavia un numero elevato di donne sole, in condizioni economiche deboli, hanno la totale responsabilità dei figli. Gli interventi a favore della donna e della famiglia messi in atto dal governo francese, puntano ad aumentare la natalità, mentre quelli della Svezia forniscono ampi sussidi familiari alfine di salvaguardare il benessere dei figli e delle coppie, favorendo nel contempo la parità dei sessi, ma senza perseguire l’obiettivo di modificare i comportamenti demografici.
L’Italia, fatta eccezione per il periodo fascista, durante il quale vi fu una politica demografica finalizzata a favorire la nascita di figli maschi da inviare al fronte per perseguire tragici disegni di grandezza, brilla attualmente per la mancanza di qualsiasi progetto demografico a lungo termine
2. Crisi demografica e questione giovanile Uno degli aspetti della crisi demografica è caratterizzata da due fenomeni che possono essere considerati come due facce di una stessa medaglia: la così detta sindrome del ritardo» e la presenza nel teatro sociale dei così detti «bamboccioni». La bassa riproduttività è la conseguenza principale della così detta ‘sindrome del ritardo’, che sembra abbia colpito la società italiana spostando in avanti in maniera quasi patologica l’età dell’assunzione di responsabilità e della conseguente formazione di decisioni e scelte. Se è vero che tutti sentono il desiderio di maternità-paternità, è altrettanto evidente che non intendono realizzarlo incondizionatamente, dal momento che ritengono che entrambi i partner abbiano compiuti gli studi, siano inseriti nel mondo del lavoro e sia disponibile un’abitazione. Il percorso che conduce alla riproduzione implica la costruzione di una stabilità che si consegue attraverso tappe intermedie. E proprio qui sta la differenza col passato, non tanto nella condizione di ‘stabilità’, ritenuta requisito per aver un figlio, quanto piuttosto nella gradualità con cui viene raggiunta a differenza delle generazioni precedenti, dove distacco dalla famiglia di origine, lavoro, casa, gratificazioni sessuali, unione matrimoniale, potevano anche essere eventi contemporanei.
Un altro elemento da non sottovalutare è l’allungamento delle tappe del percorso delle generazioni recenti, a cominciare dalla durata del periodo di studi, a causa non solo del fatto che una maggiore porzione di componenti di ciascuna generazione affronta studi più lunghi, ma anche per l’eccessivo tempo impiegato per concludere i vari curricula. La concentrazione dei ritardi fra le varie tappe fa sì che, per un crescente numero di coppie, il momento della decisione di avere un figlio, pur desiderato e programmato, avviene in una fase avanzata della vita riproduttiva; tale programma non può essere realizzato, per alcune, a causa del sopraggiungere dell’infertilità, per altre per rottura o instabilità dell’unione, per altre ancora, per la percezione di un costo fisico e psicologico accresciuto rispetto alle aspettative. La sindrome del ritardo è, dunque, una delle cause della bassa riproduttività. Emerge, purtroppo, anche una tendenza dei giovani a restare in famiglia oltre i trent’anni, per scelta di opportunità più che per ragioni a volte di forza maggiore connesse alla mancanza di sbocchi occupazionali.
Dal Rapporto sulla coesione sociale emerge che sempre più under 35 non hanno ancora acquisito l’indipendenza. Una fotografia fatta di ‘bamboccioni‘ che continuano a dipendere dai genitori e non sono ancora in grado di progettare un futuro. Tra i 20 e 30 anni chi ancora non si è sposato in quasi la metà dei casi se ne sta con i genitori piuttosto che andare a vivere per conto proprio. Si tratta di un fenomeno caratterizzato dai così detti adulti-bambini e che segnerebbe anche la fine di un’epoca conflittuale esplosa nel 1968. Dopo un trentennio di sperimentazioni e novità le nuove generazioni sembrano aver trovato un assetto di convivenza affettiva, ma forse troppo prolungata. Tale tendenza è ad un passo dal produrre un paradosso di figli più vecchi dei padri. Siamo così dinanzi ad un circolo vizioso tutto italiano: i genitori sono più vecchi e i loro figli invecchiano in casa senza diventare genitori. Sembra che la famiglia sia diventata il luogo della libertà individuale e sovente della comodità. Ci troviamo così dinanzi, come è stato osservato, ad una ‘famiglia federale’ nella quale ciascuno ha un pezzo di potere sulla propria vita. Si tratta di famiglie non più fondate sulla comunanza di esperienze, risorse, idee, ma piuttosto sulla necessità di fornire e ricevere servizi avendo, in cambio, una certa quantità di ‘aiuto morale’ da far valere contro le difficoltà di un mondo in rapido cambiamento. Si è parlato a tal proposito dei così detti ‘bamboccioni’, anche se occorre dire che non tutte le responsabilità sono da imputare ai giovani data la drammatica crisi occupazionale odierna. Ad ogni modo, il bamboccione è un soggetto che potenzialmente ha due personalità critiche: quella dell’insufficiente e quella dell’inibito. Sono bamboccioni tutti coloro che continuano a dipendere dai genitori:
- per inibizioni personali, per cui non hanno elaborato il distacco dai genitori; in tal caso si tratterebbe dei così detti ‘mammoni’.
- per convenienza, per cui sono insufficienti per scelta e per incapacità personale; e allora si tratta di debolezza.
Queste due tipologie si riferiscono propriamente al bamboccione distinguendo tra chi, avendone le capacità, potrebbe rendersi autonomo, ma non lo fa; e chi, invece, è incapace di risolvere la sua situazione senza il sostegno dei genitori. Per superare tale sindrome è quanto mai opportuno accelerare il processo di autonomia, incoraggiare l’assunzione di responsabilità, rendere spendibili formazione e capacità. Tutto questo ha un duplice significato sul piano demografico ed anche nei risvolti etico-sociali: da un lato, diminuisce, per le famiglie, il tempo di dipendenza dei figli alleggerendo, di conseguenza, il costo di riproduzione e formazione della prole; dall’altro lato, accorcia i tempi delle scelte riproduttive.
3. La legge 194\1978 applicata solo in parte. Secondo un Parere del Comitato nazionale di bioetica del 2005 intitolato: ‘Aiuto alle donne in gravidanza e depressione post-partum’, la legge 194 non è stata sufficientemente applicata specialmente nella prevenzione e nell’aiuto alla donna in gravidanza per evitare la drammatica decisione di abortire. Dopo aver rilevato che la stessa intitolazione della 194 fa “innanzitutto riferimento alla tutela sociale della maternità”, il Comitato afferma che le disposizioni che “si incentrano sul concetto di aiuto alla donna da offrirsi nel momento in cui accedere al colloquio previsto dalla normativa, avrebbero dovuto costituire l’aspetto unanimemente condiviso dell’approccio sociale giuridico al problema dell’aborto, ma la loro attuazione secondo un giudizio ampiamente condiviso è rimasta insufficiente“. Tali disposizioni, “orientate al fine di rimuovere le cause che porterebbero la donna all’interruzione della gravidanza”, rileva il comitato di bioetica, muovono “nel senso di un impegno dei servizi socio-sanitari sia nell’interesse della donna, sia nell’interesse del concepito ed esprimono la non indifferenza, in ogni caso, dell’ordinamento giuridico rispetto alla prospettiva di un’interruzione della gravidanza“. In tal senso, secondo il Comitato, “rispondono a una finalità preventiva dell’aborto da realizzarsi, secondo la volontà espressa dal legislatore, attraverso il dialogo e l’aiuto”. Inoltre, è il richiamo del comitato, “una speciale attenzione va riferita alle donne immigrate, soprattutto se la loro presenza in Italia non sia regolare“. Questa effettivamente rappresenta uno dei grandi problemi della questione dell’aborto perché è a tutti evidente una posizione di debolezza e fragilità proprio della stragrande maggioranza delle donne immigrate che più di tutte hanno bisogno di aiuto concreto e di incoraggiamento efficace. Occorre perciò recuperare “un ampio impegno condiviso a sostegno alla donna in gravidanza, così da rendere palese nel contesto sociale e nella pubbliche istituzioni un clima positivo di disponibilità verso la gravidanza in atto, clima la cui impercettibilità è sembrata, non di rado, scarsa“. E perciò necessario distinguere, nel colloquio, una fase mirata all’aiuto sociale, economico e psicologico e tale da coinvolgere competenze ulteriori a quella sanitaria. Nel corso del colloquio, perciò, va fatto tutto quanto è necessario affinché la donna abbandoni la scelta dell’aborto, che invero costituisce sempre una decisione traumatica e tragica. È inaccettabile inoltre, “sia rispetto ai diritti delle donne sia rispetto alla dignità dei portatori di anomalie o malformazioni, che nell’ipotesi più frequente relativa all’articolo 6 della legge quella in cui un grave pericolo per la salute psichica della donna in caso di prosecuzione della gravidanza risulta riferito a rilevanti anomalie o malformazioni del feto, si consideri, nel sentire sociale, il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza come scontato”. Non c’è dubbio che proprio questo aspetto genera inquietudine nell’opinione pubblica perché sovente nell’ipotesi di malformazione del nascituro viene prescelta quasi automaticamente la via dell’aborto. Senza voler sindacare su questo gravissimo problema che tocca nel più profondo il vissuto delle persone, risulta tuttavia quanto mai urgente una presa di coscienza ed un’adeguata attenzione soprattutto alla luce di interrogativi se la vita debba essere accettata e accolta soltanto quando si è integri, sani e forti secondo i ben noti canoni della società del benessere e dei consumi Anche alla luce di questa presa di posizione del Comitato nazionale di bioetica emerge il problema di una prevenzione concreta e di una dissuasione fattiva rispetto alla grave decisione di abortire. Il che non vuol dire porre mano alla riforma della legge 194, quanto piuttosto di applicarla in tutte le sue parti.
Prof. Armando Savignano, docente di filosofia morale, Università di Trieste 24 settembre 2022
Comitato nazionale per la bioetica
AIUTO ALLE DONNE IN GRAVIDANZA E DEPRESSIONE POST-PARTUM
Documento approvato nella seduta Plenaria del 16 dicembre 2005
ECUMENISMO
Dialogo con l’ebraismo. Il Sae suggerisce: “vocazione” e non “conversione” di san Paolo
Quella di san Paolo non è stata una «conversione», ma una «vocazione». Parte da questo presupposto la richiesta contenuta in una petizione promossa dal Segretariato attività ecumeniche (Sae) e inviata al prefetto del Dicastero per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti, mons. Arthur Roche, e al segretario, mons. Vittorio Francesco Viola: modificare ufficialmente la denominazione “Festa della Conversione di San Paolo” in “Festa della Vocazione di San Paolo”, che peraltro coincide con la conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Finora la proposta è stata firmata da 164 persone: vescovi, teologhe e teologi, liturgisti, bibliste e biblisti, studiosi, presbiteri, religiose e religiosi e da «numerosi altri membri del popolo di Dio», fra cui anche diversi protestanti ed ebrei (è possibile sottoscriverla ancora sul sito web del Sae: www.saenotizie.it).
Nelle fonti neotestamentarie – spiegano dal Sae – quella di Paolo non appare, come spesso invece è considerata, come una conversione dall’ebraismo al cristianesimo, che peraltro nella prima metà del I secolo d. C. non esisteva ancora come religione definita. Nelle parole di Paolo si tratta piuttosto di una rivelazione del Signore risorto e di una chiamata ad essere apostolo delle genti.
Infatti «il termine “conversione” è dotato di tre significati principali: passaggio da una comunità di fede a un’altra; cambiamento di vita di persone o comunità che decidono di abbandonare la “via dei peccatori”; un impegno di purificazione e rinnovamento quotidiano della propria vita spirituale», si legge nella petizione.
«La chiamata alla conversione e al “cambiamento di mentalità” (metanoia) è posto all’inizio della predicazione di Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). Si tratta di un appello sempre attuale per ogni credente. La chiamata di Paolo di Tarso non si conforma a questo andamento». Nel brano “autobiografico” della lettera ai Galati infatti «Paolo parla di un’improvvisa rivelazione e di una chiamata avvenuta per scelta divina senza riferirsi ad alcun processo di pentimento personale relativo alla sua precedente condotta». Anche quando parla di «giudaismo» – peraltro parola assai rara nel lessico neotestamentario –, «Paolo non si riferisce alla sua appartenenza ebraica da lui sempre affermata e mantenuta. Anzi, lo stesso qualificarsi come “apostolo delle genti” (Rm 11,13) presuppone il mantenimento della sua appartenenza ebraica».
Insomma «Paolo apostolo è un ebreo che annuncia Gesù Cristo a non ebrei». L’espressione «conversione» risulta «impropria» in base alla testimonianza di Paolo stesso e «può ingenerare l’errata convinzione che Paolo si sia convertito in quanto ha cessato di essere ebreo per diventare cristiano», oltre che «auspicare una forma di proselitismo nei confronti degli ebrei, prassi un tempo tenacemente perseguita con metodi quasi sempre riprovevoli, ma oggi apertamente e ufficialmente respinta» dalla Chiesa cattolica. Paolo «è diventato infatti non già un cristiano bensì un ebreo credente in Gesù Cristo».
Ecco allora la richiesta inviata al Dicastero vaticano per il culto divino: modificare ufficialmente la denominazione «Festa della Conversione di San Paolo» in «Festa della Vocazione di San Paolo». Si tratta di una richiesta che, in senso stretto, riguarda solo la Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia, precisano dal Sae, collocata in un contesto più ampio, «la modifica è dotata di un rilevante significato in ambito ecumenico e fornisce un ulteriore impulso al fondamentale dialogo tra la Chiesa e il popolo ebraico». Siamo sempre più convinti, spiega la presidente del Sae, la predicatora valdese Erica Sfredda, che «il dialogo, sia ecumenico sia di altra natura, sia più che mai indispensabile per vincere ogni forma di conflittualità».
Luca Kocci Adista Notizie n° 38 del 05 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68948
FAMIGLIA DI FATTO
Separazione, mantenimento e affidamento dei figli
I figli della famiglia di fatto sono stati equiparati a quelli nati dal matrimonio dalla legge n. 219/2012, nuove tutele sono state previste dalla legge Cirinnà n. 76/2016 e da ultimo dalla legge n. 206/2021 di riforma del processo civile
- Famiglia di fatto e tutele. La famiglia di fatto e le coppie omosessuali hanno raggiunto importanti obiettivi. La legge prevede tutele per le coppie che decidono di non convolare a nozze, ma anche per i figli nati all’interno di realtà che rifiutano di contrattualizzare il legame che li unisce dal punto di vista affettivo.
- Figli delle coppie di fatto: la disciplina normativa. La legge n. 219/2012, in vigore dal 1° gennaio 2013, equipara i figli nati da una coppia di conviventi a quelli di una regolare coppia sposata. In questo modo i genitori, coniugati o meno, hanno nei confronti dei figli i medesimi diritti e doveri delle coppie unite in matrimonio. Non esistono differenze per quanto riguarda la competenza processuale e la successione.
Il Tribunale ordinario è competente nel risolvere le questioni relative all’affido e al mantenimento dei figli sia di coppie sposate che di fatto, anche se, in virtù della riforma del processo civile contenuta nella legge delega n. 206/2021, dal 22 giugno 2022 sono intervenute alcune modifiche che hanno comportato il passaggio di alcune materie alla competenza del Tribunale dei Minori. Modifiche che toccheranno più profondamente la competenza degli organi giudiziari a partire dal 2024, anno previsto per l’entrata in funzione del nuovo Tribunale dedicato alle persone, ai minorenni e alle famiglie.
- Separazione coppia di fatto e mantenimento figli. Per quanto riguarda il mantenimento dei figli, analizzando la normativa in essere, si rileva che la Legge Cirinnà, che ha introdotto importanti novità per le coppie di fatto, presenta tuttavia il difetto di non garantire, in caso di separazione, una tutela adeguata al convivente più debole economicamente. La legge infatti non prevede la corresponsione di un assegno di mantenimento a favore del convivente più svantaggiato, ma solo il diritto agli alimenti da commisurare alla durata della convivenza, Deteriori rispetto al coniuge sono anche i diritti successori.
Discorso completamente diverso deve essere fatto per i figli e il loro mantenimento. I genitori devono infatti provvedere alle loro necessità in misura proporzionale alle rispettive capacità reddituali ed economiche. Il Giudice dopo aver confrontato le diverse posizioni dei due ex conviventi deciderà chi tra i due è tenuto a corrispondere l’assegno di mantenimento e la misura dello stesso. Nella determinazione dell’entità dell’assegno il magistrato deve tenere conto altresì del tenore goduto dai figli durante la convivenza.
Altra questione da regolare è quella relativa alle spese straordinarie, stabilite solitamente nella misura del 50% a carico di entrambi i genitori. Questi costi sono correlati alle esigenze di crescita del bambino e si caratterizzano per la loro imprevedibilità e occasionalità (gite, spese dentistiche, concerti, sport, corsi musicali).
- Separazione coppia di fatto e affidamento figli. La parificazione dei figli naturali a quelli legittimi comporta l’applicazione della disciplina sull’affido condiviso, che enuncia il principio della bigenitorialità. Questo significa che la potestà genitoriale viene esercitata da entrambi i genitori. Discorso diverso deve essere fatto per la collocazione fisica del figlio. Si ritiene infatti che, per l’equilibrio psico-fisico del minore, sia preferibile che costui dorma e trascorra le proprie giornate presso l’abitazione del genitore collocatario capace di assicurare una maggiore presenza e cura, anche se certa giurisprudenza tende a incoraggiare il pernottamento di una o due notti presso il genitore non collocatario, che in genere è ancora il padre.
- Negoziazione assistita per mantenimento e affidamento figli. Dal 22 giugno 2022 la soluzione giudiziale non è più l’unico metodo a cui le coppie di fatto possono ricorrere per dibattere sulle questioni dell’affidamento e del mantenimento dei figli. I genitori di figli nati fuori dal matrimonio possono infatti ricorrere alla negoziazione assistita per risolvere le questioni che riguardano l’affidamento e il mantenimento dei figli minori, il mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente, la determinazione degli alimenti e le modifiche di tutto quanto indicato. Per quanto riguarda nello specifico la conclusione dell’accordo la legge richiede l’assistenza di almeno un avvocato per parte.
www.studiocataldi.it/articoli/20116-negoziazione-assistita-guida-pratica-alla-stipulazione-dell-accordo-con-fac-simile.asp
- Giurisprudenza Cassazione sulla famiglia di fatto. Una serie di massime della Cassazione sulla famiglia di fatto:
- Cassazione, quinta Sezione civile, ordinanza n. 20956, 1° luglio 2022
La discussione sull’applicabilità, alle persone civilmente unite, del regime esonerativo di cui all’art. 19, l. n. 74 del 1987, per gli atti traslativi conseguenti alla crisi matrimoniale e, segnatamente, per quanto concerne le attribuzioni patrimoniali compiute in occasione dello scioglimento dell’unione civile, in virtù del richiamo alla relativa disciplina civilistica operato dal comma 20 dell’art. 1, l. n. 76 del 2016, per il quale “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio (…) ovunque ricorrono nelle leggi (…) si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile”), è comunque estranea alla controversia oggetto d’esame. I nuovi istituti hanno recepito un diverso modo di intendere e concepire l’istituzione familiare, slegato da un modello generale e immutabile, che ha trovato via via riconoscimento nella giurisprudenza ordinaria ed in quella della Corte Costituzionale, muovendo da una interpretazione sistematica ed evolutiva degli articoli 2 e 29 della Costituzione. Essi segnano il definitivo superamento dell’opinione, un tempo diffusa, secondo cui le cd. convivenze more uxorio costituirebbero un fenomeno puramente fattuale, e tuttavia permane pur sempre la distinzione, già sul piano costituzionale, dalla famiglia fondata sul matrimonio. (…) La Corte (EDU) tuttavia, ha costantemente riconosciuto agli Stati contraenti la facoltà di accordare una «tutela privilegiata» alle coppie unite in matrimonio, affermando che l’art. 8 Cedu non obbliga ad attribuire alle coppie di fatto uno statuto giuridico analogo a quello delle coppie coniugate e ritenendo ammissibili differenze di trattamento in materia di benefici previdenziali, di diritto di abitazione della casa familiare dopo la rottura del rapporto di coppia, di diritto alla pensione per superstiti. La Corte ha anche affermato che l’art. 12 Cedu, pur garantendo la libertà negativa di non sposarsi, non assicura alle coppie che compiano tale scelta il diritto a fruire degli stessi benefici accordati alle coppie coniugate.
- Cassazione, seconda Sezione civile, ordinanza n. 5086/16 febbraio 2022
www.studioruggeri.it/cassazione-civile-ordinanza-16-febbraio-2022-n-5086
L’art. 936 c.c., trova applicazione soltanto quando l’autore delle opere sia realmente terzo, ossia non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale che gli attribuisca la facoltà di costruire sul suolo. La norma mira a regolare gli effetti patrimoniali che conseguono ad un’attività di costruzione su suolo altrui ad opera di chi o non sia vincolato al proprietario dell’immobile da alcun rapporto negoziale ovvero lo sia ma in ragione di un rapporto giuridico che non comporta una specifica disciplina della realizzazione dell’opera. Il principio è talmente ancorato alla tradizione giuridica che non prevede deroghe nemmeno nel rapporto coniugale: invero, anche se un coniuge contribuisce alla realizzazione di un edificio situato sul fondo di esclusiva proprietà dell’altro non acquista alcun diritto sullo stesso, né esso può costituire oggetto di comunione. Il coniuge non proprietario potrà tutt’al più, chiedere la ripetizione di quanto versato, purché sia in grado di provarne i conferimenti (Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2010, n. 20508).
La questione giuridica sollevata dal ricorrente attiene alla qualificazione giuridica dell’azione posta in essere dal convivente more uxorio nei confronti del proprietario del suolo, una volta cessata la convivenza, che abbia contribuito con il proprio lavoro o con dazioni di denaro alla costruzione della casa che sarebbe dovuta diventare o era diventata abitazione comune. In tal caso, le prestazioni di opera e di denaro vanno a vantaggio del proprietario esclusivo del fondo sul quale l’opera fu edificata che, per il principio di accessione, acquista la proprietà di quanto realizzato mediante il contributo del convivente o di chi è stato legato da una relazione sentimentale, per la realizzazione di un progetto di vita comune. Secondo l’orientamento di questa (Corte Cassazione civile sez. III, 07/06/2018, n. 14732), al quale il collegio intende dare continuità, l’azione deve essere inquadrata nell’ambito dell’azione generale di arricchimento senza causa, connessa allo scioglimento della famiglia di fatto.
Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 31672/26 ottobre 2022
Il diritto all’assegno vitalizio di cui all’art. 580 c.c., che sorge “ex lege” per responsabilità patrimoniale del genitore biologico avente fonte nel fatto procreativo, spetta anche al figlio che abbia già il diverso “status” di figlio altrui e nel novero dei figli “non riconoscibili” devono comprendersi anche coloro che, avendo un diverso stato di filiazione, per scelta consapevole non hanno impugnato il precedente riconoscimento o non hanno proposto azione di disconoscimento di paternità, non potendo negarsi al figlio, pena la violazione degli artt. 2 e 30 Cost., e 8 CEDU, la possibilità di scegliere tra la minore tutela successoria di cui all’art. 580 c.c., conservando la stabilità della sua identità familiare precedente, e quella “piena” che gli competerebbe ove facesse giuridicamente accertare la filiazione biologica.
Annamaria Villafrate Studio Cataldi 31 ottobre 2022
www.studiocataldi.it/articoli/23535-famiglia-di-fatto-separazione-mantenimento-e-affidamento-dei-figli.asp
FEDERAZIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA
La FCEI riunisce l’Unione cristiana evangelica battista (UCEBI), la chiesa valdese, la chiesa metodista, la chiesa luterana, l’Esercito della Salvezza, la Comunione di chiese libere e la Chiesa apostolica italiana. Conformemente allo Statuto, partecipano alla Federazione in qualità di “osservatori” l’Unione delle chiese cristiane avventiste del 7° giorno (UICCA) e la Federazione delle chiese pentecostali (FCP).
Sola Scrittura. Solo Cristo. Sola Grazia. Sola Fede. (Sola Scriptura. Solus Christus. Sola gratia. Sola Fide). Questi sono quattro principi fondamentali della Riforma della chiesa, il cui inizio è convenzionalmente collocato il 31 ottobre del 1517. In questa data, infatti, Martin Lutero affisse le sue 95 tesi sul portale della chiesa del Castello di Wittenberg. A partire dal XVI secolo, la Riforma protestante si espande e si trasforma, portando alla nascita di movimenti e chiese che, ancora oggi, si ispirano al principio di una chiesa “semper reformanda”.
Messaggio conclusivo dell’Assise della FCEI 2022
«Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, a che punto è la notte?». La sentinella risponde: «Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare, interrogate pure; tornate un’altra volta». Isaia 21,11-12
Come il profeta Isaia, che parlava in un tempo di deportazione, sofferenza e crisi, sappiamo di camminare in tempi bui e difficili.
Camminiamo nella notte quando nel nome del nazionalismo, degli interessi economici, delle appartenenze religiose scoppiano guerre che non riusciamo a fermare.
Camminiamo nella notte quando la terra che Dio ci ha affidato perché la custodissimo si desertifica, quando diventa arida e repellente, quando costringe i suoi abitanti a cercare rifugio in altri paesi e in altri continenti. Quando milioni di persone non hanno cibo per sfamarsi, acqua per dissetarsi e irrigare i campi, accesso alle cure, a una casa dignitosa, all’istruzione, ai vaccini.
Camminiamo nella notte quando non riusciamo a dare speranza e fiducia alle nostre figlie e ai nostri figli, sempre più spesso convinti che il loro futuro sarà peggiore del nostro passato. Quando tante persone, giovani ed adulti, lavorano senza percepire il giusto salario; quando tanti immigrati sono sfruttati e talora trattati come schiavi privi di diritti umani fondamentali; quando le donne sono ferite, uccise o violate da un potere maschile violento e distruttivo; quando le persone sono discriminate, offese e persino uccise per la loro identità di genere e orientamento sessuale.
Camminiamo nella notte quando vediamo vacillare i principi fondamentali delle democrazie; quando oligarchi, magnati e demagoghi irrompono sulla scena pubblica e, nel nome del popolo, propagandano una pericolosa miscela di nazionalismo, sovranismo, militarismo, radicalismo. E quando tutto questo limita i diritti umani, la libertà di parola e di coscienza; quando altera e manipola la verità; quando porta alla chiusura delle frontiere e a respingere immigrati e richiedenti asilo.
In questo tempo dobbiamo vigilare, consapevoli che Dio ci chiama a restare svegli, ad aprire occhi a cuore di fronte alle ingiustizie. Non ci rassegniamo al pensiero dominante che pone al centro il profitto e il proprio interesse di individui, di popolo, di etnia. Denunciamo gli atteggiamenti xenofobi e razzisti, le idee e la propaganda antisemita e le discriminazioni nei confronti di varie comunità di fede, prima tra tutte quella islamica, che riscontriamo nella società europea e anche italiana.
Ci adoperiamo per sostenere chi vacilla, chi chiede soccorso, chi ha bisogno di protezione. A questo prossimo e a questa prossima apriamo le porte delle nostre chiese, dei nostri centri di aiuto e di accoglienza; di fronte a loro testimoniamo che l’Evangelo che predichiamo e che ci muove si incarna in gesti concreti di giustizia, pace, salvaguardia del creato.
Nell’attesa dell’alba nuova del Regno di Dio, noi camminiamo in questo tempo di oscurità profonda, nella fiducia che colui che cammina con noi e illumina i nostri passi incerti è Gesù Cristo, “la luce del mondo” (Gv. 9,5). Nel buio della falsità che si traveste da verità, noi annunciamo che “il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità” (Ef. 5,9). Quando la vita di molti, di troppe, attraversa una galleria buia e tutto ciò che era familiare diventa ostacolo nell’oscurità, noi riaffermiamo che “la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta” (Gv. 1,5).
Tutto questo non ci esime dal sentire sulla nostra coscienza il peso di tutto ciò che per noi è “peccato”: il peccato di non aver saputo costruire la pace e la giustizia, custodire con cura la buona creazione di Dio, testimoniare con gioia e concretezza la nostra speranza in Cristo che fa ogni cosa nuova. Ma ci permette di vivere nella grazia e di camminare nella notte buia riconoscendo i tanti segni di speranza, i tanti germogli del Regno che viene, le tante voci che rompono il silenzio: l’interrogazione di chi chiede quanto è ancora lunga la notte, e la risposta fiduciosa della sentinella che ci conferma che il giorno verrà.
È questo il senso profondo della fede in Cristo che annunciamo: quando le tenebre sono più scure, immaginare la luce; dove regna lo sconforto, testimoniare la speranza; quando vincono la chiusura e gli egoismi, affermare l’accoglienza e la comunione; nel tempo dell’oppressione e della guerra, costruire la giustizia e la pace. “La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere
delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Romani 13,12).
www.nev.it/nev/wp-content/uploads/2022/11/Assise-FCEI-2022-messaggio-conclusivo.pdf
La Riforma, una storia di passione
Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio; poiché l’amore è forte come la morte, la passione è dura come lo sheol [regno dei defunti]. Le sue fiamme sono fiamme di yah [Jahvè], una fiamma ardente. Le grandi acque non potrebbero spegnere l’amore, né i fiumi sommergerlo. (Cantico dei Cantici 8, 6-7a)
Festeggiare la festa della Riforma con il Cantico dei Cantici può sembrare un azzardo. Cosa hanno in comune le parole di due giovani amanti, che si giurano amore eterno, con un evento che ha rivoltato la chiesa come un guanto, che ha avviato processi di rinnovamento ecclesiale da fare arrossire i nostri pallidi sinodi? Processi che ci hanno generato, che ci hanno reso la chiesa che siamo.
Celebrare la Riforma con il Cantico, oggi, significa interrogarsi su quella passione per Dio che ha infiammato una generazione e messo in moto un processo di verifica e di riscoperta della fede. Se ci sentiamo spenti e incapaci di ardere per Dio, come lo furono le nostre madri e i nostri padri, il Cantico ci spinge ad osare, a soffiare sulle nostre ceneri per ravvivare la brace.
Con il Cantico ci mettiamo alla ricerca di quella passione sopita, nella notte della storia e, proprio come la Sulamita, la giovane innamorata del Cantico, osiamo sfidare il buio della fede alla ricerca dell’Amato. E non ci daremo pace fino a quando non lo avremo ritrovato e potremo abbracciarlo per ricevere i suoi baci.
Celebrare la festa della Riforma con il Cantico dei Cantici significa focalizzare l’attenzione su ciò che davvero conta per credere, vivere, abitare la terra, ricercando la vita buona. Un invito a ritornare all’essenziale, a ciò che non si consuma in un fuoco di paglia, che non si beve in un sorso: ciò che rimane anche quando le acque sembrano sommergere ogni cosa.
Ciò che non si può comprare con nessuna valuta, tanto meno con una carta di credito blasonata.
La Riforma è stato un momento puntuale della storia, in cui una generazione di credenti, di fronte allo smarrimento di una chiesa ripiegata su se stessa, una chiesa potente, scandalosamente sfarzosa rispetto alla povertà della gente, ha osato domandarsi: ma cosa è centrale nel credere? Qual è il nucleo incandescente della fede? Il fuoco che brucia e non consuma, capace di strapparci al conformismo, all’abitudine, al calcolo e al cinismo…
È iniziata così una ricerca di senso appassionata, dolorosa eppure bellissima.
Nella notte della chiesa, la Riforma è stata quella ragazza audace che ha osato sfidare i pericoli della città notturna, i guardiani dell’ortodossia, e mettersi nuovamente in ricerca dell’amato perduto. Non ha temuto di essere fermata, picchiata, spogliata proprio da quelle sentinelle che avrebbero dovuto proteggere il fuoco della fede.
Noi siamo figli e figlie di questa storia d’amore per Dio. Nasciamo da quella passione. Le fiamme di yah [Jahvè] ci abitano anche se, come le ragazze stolte della parabola, abbiamo lasciato spegnere le nostre torce.
Oggi, le parole del Cantico dei Cantici ci destano da quel torpore, ci fanno udire il grido della festa, la voce dello sposo che chiama. Una storia d’amore appassionata. È così che possiamo raccontare la Riforma. In un momento di crisi, quando tutto nella chiesa sembrava deformato, abbruttito, alcuni credenti hanno osato sedersi intorno a un tavolo e chiedersi se aveva ancora senso stare insieme. Proprio come due coniugi litigiosi o indifferenti che, prima di lasciarsi, si concedono un’ultima possibilità chiedendosi: “ma noi perché stiamo insieme? Ci sono ragioni per restare oppure è tutto finito?”.
A quella crisi, la Riforma ha trovato 5 ragioni per restare. E le ha trovate andando all’essenziale, a ciò che davvero conta. La tradizione lo ha riassunto nei 5 sola. Ricordate?
Solo cinque cose occorrono per credere, per ritrovare l’amato perduto, per cambiare e ricominciare a vivere la vita buona della chiesa: cinque sola. Mi piace questo paradosso: si ricerca l’essenziale, quell’unicum (sola) e lo si esprime al plurale (cinque). La Riforma è figlia della Scrittura, una parola essenziale, fondativa eppure plurale, per nulla dogmatica: un libro e, insieme, tanti libri che tra loro dialogano, una verità che non si consegna in un dogma, ma in tante storie che si confrontano, tante quanti sono i libri della Bibbia. La Riforma è figlia dei Vangeli: al centro solo Gesù, nostro Signore, ma raccontato con quattro diversi sguardi, non sempre conciliabili in un unico sguardo. È anche per questo che la ricerca non è mai ultimata e la Riforma nella storia non si conclude con un evento puntuale; piuttosto, è un processo, un continuo movimento (Ecclesia semper reformanda).
Cinque sola che oggi proviamo a riscrivere per riavvicinarli a noi:
- Sola Grazia, per ricordarci che la fede è un dono e la relazione con Dio è all’insegna della gratuità. Dio non si può comprare, ma anche la sua creatura, che è a sua immagine, va liberata, sottratta al ricatto di una fede che lega con il bisogno di protezione o, peggio, con la paura.
- Solo Cristo. Al centro della fede cristiana c’è un incontro non con un’idea, ma con una persona. La fede è questa relazione personale, unica. Che passa attraverso un “tu”, qualcuno che pronuncia il tuo nome. Un’esperienza particolare che ti apre all’universale proprio radicandosi in una storia concreta, in un volto, in un nome. Il cuore di chi vive totalmente una storia d’amore viene circonciso dall’amore. Amando quell’unico amato si comprende il senso dell’amore e si impara ad amare il mondo. Il cantore di Nazareth ci svela quel Dio amorevole, creatore del mondo, che si prende cura di ogni piccola creatura della terra.
- Sola fede: la fede è fiducia in Dio, nella vita, negli altri. La fede è vestita di speranza, e si affida. È questa postura che ci strappa all’idolo del nostro “io”, al delirio di autosufficienza, alla diffidenza nei confronti degli altri. Credere significa riconoscere la nostra vulnerabilità, la nostra interdipendenza. Prima ancora di essere una qualità spiritale, la fede è una condizione antropologica.
- Sola Scrittura: in tempi bombardati da tante parole, dove le fake news viaggiano parallelamente alle notizie fondate, ci sentiamo smarriti, disorientati. Ritornare ad abitare le Scritture significa mettersi in ascolto di una parola altra, che non fa eco alle mie parole, che mette in scena mondi lontani e, dunque, allarga i miei orizzonti e, insieme, mi permette di specchiarmi in storie capaci di illuminare le mie ombre, i lati oscuri di me, quelli che nego anche a me stessa. La Bibbia è il luogo privilegiato dove riascoltare le storie che fondano la nostra fede. Incontro lì il Dio di Abramo e Sara, il Dio che si schiera dalla parte degli oppressi per strapparli alle grinfie del faraone, È lì che incontro il volto umano di un Dio che chiama, insegna, guarisce, ama fino a consegnarsi agli amici che lo tradiscono e rinnegano. Un Dio che muore, ma che la tomba non può trattenere. Nella Bibbia ritrovo narrata la vita buona come Dio l’ha sognata per noi e per l’intero creato.
- Solo a Dio la Gloria: l’ultimo dei sola prova a riassumerli tutti. È la dichiarazione d’amore di una chiesa appassionata, di un’umanità innamorata: non a noi la gloria Signore, ma solo a Te. La passione non si esime dal fare autocritica, dal confessare la propria inadeguatezza per avere dato peso (è il significato letterale di gloria in ebraico) ad altri signori, altri idoli: al prestigio, al consenso, alla visibilità, al denaro, al guadagno, al potere… e l’elenco diventa legione.
Celebrare la festa della Riforma con il Cantico dei Cantici è sentire la voce dell’amato che ci chiama, che si ostina a chiamarci, che ci invita ad uscire. Il fuoco appassionato di questo amore non è spento e vuole infiammare ancora una generazione, la nostra. Oggi la sua voce ci giunge come il Cantico più bello per ammorbidire i nostri cuori. Buona Festa della Riforma!
Lidia Maggi, pastora battista, Luino Culto 30 ottobre 2022 4 novembre 2022
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/11/lidia-maggi-la-riforma-una-storia-di.html
INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA
45 anni della Legge 22 maggio 1978, n. 194
Prima della legge 194, in tema di aborto volontario, era in vigore l’articolo 546 del Codice penale italiano, datato 1930, condizionato dalla cultura italiana del tempo, come recita il titolo stesso (Titolo X), “Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”: “Chiunque cagiona l’aborto di una donna, col consenso di lei è punito con la reclusione da due a cinque anni”. La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all’aborto.” Nessun riferimento alla dignità umana del feto. Ma la cultura, l’etica sociale e la sensibilità cambiano e nel corso degli anni ’70, già nel dicembre 1970 era approvata la legge 898 che disciplina i casi di scioglimento del matrimonio; nel maggio 1974 si svolse il referendum abrogativo: il «no» fu il 58,3%.
Dopo un acceso dibattito iniziato nel 1975 dal partito radicale, che sottolineava la diffusa piaga dell’aborto clandestino e la necessità di recuperare l’autodeterminazione femminile, si arriva alla legge 22 maggio 1978 n. 194: norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione Volontaria della gravidanza.
www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1978;194
La legge era approvata con 160 voti, contro 148, da comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e sinistra indipendente. Avevano votato contro democristiani, missini, radicali e demo-proletari (questi ultimi due gruppi non erano contrari alla depenalizzazione dell’aborto ma ai limiti che la legge poneva alla totale libertà di abortire).
Il mondo cattolico non si rassegna ed il Movimento per la Vita (MpV), fondato nel gennaio 1980, raccogliendo l’appello di vescovi e dello stesso papa Giovanni Paolo II, raccolgono firme per un referendum abrogativo. Il referendum avviene il 17-18 maggio 1981, preceduto il 13 maggio dall’attentato al Papa (che contribuì a svelenire le polemiche). I risultati furono netti: il “no” contro la proposta dell’MpV raggiunse il 67,9%. I voti referendari mettevano in evidenza gli effetti della progressiva inevitabile secolarizzazione della società italiana.
“Legge per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza ”non sancisce l’aborto come un diritto assoluto. lo depenalizza e regolamenta”
Art.1- Lo stato … riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio l’interruzione volontaria della gravidanza non è metodo per il controllo delle nascite
Art.2- Ruolo dei consultori nell’informare e nel «contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’IVG». I consultori possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni di base ed associazioni che possono aiutare le maternità difficili.
Art. 5- Consultorio e strutture socio-sanitarie devono aiutare a rimuovere le cause di IVG offrendo tutti gli aiuti necessari, “ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza”.
Art. 6- IVG dopo 90 giorni, se pericolo di vita per la donna, o “processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinano grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
Art. 9- Prevede l’obiezione di coscienza. Da questi articoli si comprende che l’opposizione parlamentare all’aborto ha fatto il possibile per inserire nella legge elementi positivi limitanti il danno. Per almeno dieci anni non li ho visti applicare, anzi, come obiettore ho subito la discriminazione professionale, poi gradualmente si è diffusa negli operatori la consapevolezza di impegnarsi sul piano della prevenzione.
Questo l’andamento degli aborti negli anni successivi al 1978:
Il calo progressivo delle interruzioni volontarie è evidente. Dal 2014 gli aborti sono meno di 100.000/anno. Nel 2020 sono 66.413, numero ridotto ma sempre importante, più della popolazione di Mantova (49.308 nel 2017). Quali le motivazioni? Sono molteplici: il calo della popolazione in età fertile, un più diffuso senso di responsabilità della donna (non si afferma più lo slogan “l’utero è mio e ne faccio ciò che voglio”), l’opera socio-sanitaria dei consultori che gradualmente limitano la funzione di distribuire certificati per l’interruzione senza offrire aiuto. Ma la motivazione principale sta nella pratica sempre più diffusa di utilizzare le “pillole dei 2-5 giorni dopo” nel caso di rapporto a rischio gravidanza. Lo conferma anche il Ministro della Salute nella sua relazione al Parlamento del 13 giugno 2022.
www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_3236_allegato.pdf
Relazione Ministro Salute attuazione Legge 194/78 tutela sociale maternità e interruzione volontaria di gravidanza – dati definitivi 2020 (completa di allegati)
Tabelle IVG 2022 – dati 2020
Tabelle IVG 2022 – dati 2020
Data di pubblicazione: 13 giugno 2022 , ultimo aggiornamento 15 settembre 2022
L’utilizzo delle pillole “del giorno dopo” come l’ELLA ONE è stato sempre più facilitato: la pillola dei 5 giorni dopo è in vendita in Italia dal 2012 con ricetta medica, dal 2015 senza ricetta medica per le maggiorenni, dal 2020 senza ricetta medica anche per le minorenni.
Il meccanismo di azione è duplice: inibire o spostare in avanti l’ovulazione, impedire l’impianto in utero dell’ovulo fecondato, quindi dell’iniziale embrione; tecnicamente questa azione è definita come “intercettazione”. Queste pillole sono in commercio come “contraccettivi” nonostante impediscano l’impianto.
Ma quando inizia la vita umana? Dal concepimento o dall’annidamento? Il mondo scientifico, si dice, è diviso. Se inizia dal concepimento, come ci hanno sempre insegnato in un’epoca precedente queste questioni, potrebbe diventa lecito anche fare sperimentazione sull’embrione prima dell’impianto, eseguire la diagnosi genetica preimpianto, ecc.
Ma il mondo scientifico non è diviso. Il mondo scientifico si adegua a quanto richiesto dalla nostra società. Lo dice chiaramente il Rapporto Warnock (1984) il quale, parlando a questo riguardo di “pre-embrione”, ammette che si tratta più di una convenzione che di una convinzione, e conclude: “al fine di acquietare la preoccupazione del pubblico si decide di stabilire a maggioranza che la ricerca potesse essere condotta su qualsiasi embrione fino al termine del 14° giorno dopo la fertilizzazione”.
La Congregazione per la Dottrina della Fede, nella istruzione “Donum Vitæ” (1987) afferma, giustamente, che il concepimento coincide con l’inizio della vita di un nuovo essere umano.
Quale comportamento per noi operatori cristiani di fronte a leggi imperfette come questa? Questi i pronunciamenti del magistero: «Quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui” (Giovanni Paolo II – Enciclica Evangelium Vitæ, 73 1995).
” In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi [aborto, suicidio assistito] vanno affrontati con pacatezza, in modo serio e riflessivo, e ben disposto a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise” (papa Francesco 16/11/ 2017).
Gabrio Zacchè, primario emerito di ginecologia – Mantova 24 settembre 2022
No all’aborto teniamoci stretta la 194
www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1978;194
La decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di abrogare la sentenza Roe vs. Wade del 1973 che codificava l’aborto come un diritto costituzionale – con una delle leggi più libertarie al mondo – rimanda ai singoli Stati di legiferare autonomamente. Molti tra questi Stati americani hanno già reso criminale il ricorso all’aborto (come il Texas) e altri lo faranno a breve. La decisione avrà l’immediato effetto di creare disparità tra le cittadine americane e quasi certamente non contribuirà a diminuire il numero degli aborti legali, perché a chi ha intenzione di abortire basterà spostarsi di Stato.
La cosa ha creato un certo sconcerto nel resto del mondo per varie ragioni: perché gli Usa sono il luogo dove si possono monitorare cambiamenti politici e culturali; perché lì il cattolicesimo conservatore è imperante e agguerrito; perché gli Usa sono considerati (a torto o a ragione) il faro della democrazia e della tutela dei diritti di tutto. Certo, se gli Usa ci rimandano lo stato dell’arte della democrazia e dei diritti, possiamo dire che in questo nostro mondo essi sono in crisi e da tempo.
Mons. Vincenzo Paglia ha rassicurato, in una intervista apparsa sul Corriere, che la sentenza americana è una questione interna agli Usa e che una ridiscussione della 194 in Italia non è in agenda nemmeno per la Chiesa Italiana; anzi si tratterebbe di applicarla di più, almeno per quanto riguarda la parte della tutela sociale della maternità. La legge 194/78 infatti è sostanzialmente diversa da quella americana: nell’articolo 1 vi si legge: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».
Appartengo ad una generazione di cattolici che può ricordare le vivaci discussioni in parrocchia sulla opportunità o meno che lo Stato si dotasse di una legge per decriminalizzare l’aborto. Sono stata cresciuta e formata da quei cattolici che si schierarono a favore dell’introduzione di una legge tesa ad eliminare l’aborto clandestino, permettendo all’Italia con il loro voto a favore della legge 194 del 1978 di depenalizzarne e disciplinarne l’accesso, diminuendo effettivamente il numero di aborti clandestini da subito.
Distinguere tra questione morale e questione legale. Ai fini di un dibattito «serio e pacato» sulla questione, come auspica Mons. Paglia, occorre anzitutto distinguere, riprendendo Kant, tra questione morale e questione legale. Che cosa vuol dire? L’ex senatore Lucio Romano lo spiegava ricordando le parole di Norberto Bobbio che diceva che di fronte alla «scelta sempre dolorosa fra diritti incompatibili…si può parlare di depenalizzazione dell’aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all’aborto».
Ricordo ancora una giovane catechista che forse senza conoscere Kant argomentava: «Io non lo vorrei mai fare, ma perché dovrei impedire a te di farlo, se tu lo vuoi fare?». In fondo è la stessa posizione che portò il Card. Carlo Maria Martini a dire: «Ritengo che vada rispettata ogni persona che, magari dopo molta riflessione e sofferenza, in questi casi estremi segue la sua coscienza, anche se si decide per qualcosa che io non mi sento di approvare». In una cultura prona a pregiudizi e valori ancora vagamente patriarcali, la donna è considerata in ultima istanza secondaria e funzionale alla «vita», ai figli, alla natura, all’uomo maschio, alla famiglia, alla società; in quanto tale le sue decisioni, i suoi comportamenti, il suo corpo contano meno della vita dei figli, del bene della società, del buon nome della famiglia o dell’onore del maschio, e quindi sono affare dell’uomo e della società e da questi devono essere regolati. Occorre però ricordare a tal proposito un dato di fatto: le donne scelgono. In questione di gravidanza scelgono secondo la loro coscienza, anche perché convinte che la cosa riguardi anzitutto il loro corpo. Decidono sul loro corpo, con scelte drammatiche, da tempi immemorabili, a dispetto delle convinzioni sociali, delle famiglie, dei mariti, delle religioni e spesso della morale, propria o altrui. Le donne decidono perché sono soggetti capaci di prender decisioni, né più e né meno di tante persone attorno a noi o nella nostra famiglia, come padri, madri, fratelli, sorelle, figli, nipoti, che decidono delle loro vite indipendentemente da cosa pensiamo, anche quando non ci piace cosa decidono, anche quando la loro decisione mette a repentaglio loro stessi, il buon nome della famiglia, i nostri stessi principi.
Ci sono donne determinate ad abortire per motivi più diversi. Il Rapporto Unfpa 2022 registra che il 50% delle gravidanze è indesiderato. https://aidos.it/wp-content/uploads/2022/06/SOWP2022-ITALIANO-WEB.pdf
In molti di questi casi restare incinta non è una scelta. Gran parte delle gravidanze indesiderate deriva ancora dalla violenza sulle donne. Stupri, gravidanze forzate, gravidanze pericolose, ma anche gravidanze che proprio non la volevo non così non ora…
Fin dalla notte dei tempi le donne hanno cercato strategie per evitare gravidanze indesiderate. I metodi sono stati i più strani, dai più barbari ai più improbabili. Le sacerdotesse di Diana usavano pozioni a base di prezzemolo; a Pompei il ritrovamento di raschietti ha fatto pensare a tecniche avanzate di raschiamento dell’utero; Etty Hillesum ci ha provato saltellando su e giù per le scale; alcune adolescenti sono convinte che basterà usare una lavanda di Coca Cola. Una donna determinata ad abortire troverà il modo, fosse pure illegale.
Le scelte delle donne e la sete di sostegno. Occorre quindi distinguere tra questione morale e questione legale. La legge 194/1978 sotto questo profilo è una legge altamente rispettosa della scelta della donna. Considera le donne come soggetti capaci di decisione autonoma e rispetta la loro volontà. Non le lascia però nella solitudine di una scelta drammatica, ma mette al primo posto la loro salute, promuovendo una rete di sostegno, informazione e assistenza. Per questo occorre tenercela stretta.
Le contingenze di una gravidanza indesiderata sono le più diverse, come le variabili in termini di vissuto personale, affettivo, familiare, sociale, economico, culturale, sanitario. Una «morale della santità» cioè il principio che rende una volontà sempre santa e universalmente giusta, non si fa carico di misurarsi con questo
mondo limitato, ingiusto, caotico, spesso disonesto e sproporzionatamente diseguale, nel quale la nostra stessa capacità di prendere decisioni è condizionata da molteplici fattori. La «legge di santità» rischia di lasciare al privato decisioni di una complessità fisica, psicologica e sociale devastanti, però permette di uscirne «pilatamente» con la coscienza pulita.
Adriana Zarri lo diceva così: «È sconcertante rilevare come i fautori di una giustizia dura, che contempli la sanzione suprema, siano spesso i medesimi che alimentano l’esagitata campagna contro la tolleranza legale dell’aborto; …gli stessi che consentano che la morte semini vittime tra madri e figli, gettati allo sbaraglio dell’aborto clandestino, purché ‘siano salvi i principi’, purché sia chiaro che bisogna punire. Quale credito dobbiamo fare alla loro campagna antiabortista?
Quello di un autentico amore per la vita e il vivente, nel rispetto dell’uomo, o non piuttosto un attaccamento a un ordine sancito, quale che sia? Del timore del ‘dove si va a finire’? Della durezza del ‘chi sbaglia paga’ e chi concepisce un figlio inopportuno deve tenerselo perché non è giusto che paghi l’intera società: …e noi vogliamo stare in pace, senza fastidi? » (I guardiani del sabato).
Non elimineremo l’aborto negandolo per legge; il nostro mondo non diventerebbe più morale e più giusto. È indubbio infatti che la legge 194/1978 ha contribuito da subito alla diminuzione degli aborti clandestini in Italia e ha dimostrato e dovrebbe averci convinte che eliminare l’aborto legale aumenterà l’aborto clandestino e quindi l’immoralità, le ingiustizie e le morti in questo mondo. Una legge non cambierà la decisione drammatica di queste donne, ma l’assenza di legalità aumenterà l’immoralità, perché nell’illegalità aumentano le frodi, la malavita, il malaffare. Nella colpevolizzazione e nella criminalizzazione aumenteranno le doppiezze, la falsità, le carte false per non incorrere nello stigma sociale, nel giudizio della gente, nelle sanzioni legali. Aumenteranno gli opportunismi, la doppia morale, i ricatti, le angosce e le sofferenze di chi si ritrova ad attraversare una strada già piena di insidie, incertezze e altissimi rischi. Il mondo sembrerà più pulito senza esserlo davvero.
Aumenterà l’ingiustizia perché potranno permettersi di abortire legalmente solo coloro che troveranno il supporto economico per poter accedere a cliniche private o spostarsi verso paesi in cui l’aborto è legale. Potranno farlo cioè solo persone ricche. Essere donna ed essere povera sarà una doppia colpa, una doppia ingiustizia. Aumenteranno le morti perché donne che cercheranno l’aborto clandestino incontreranno professionisti inadeguati, medici spesso improvvisati, faccendieri dell’illegalità che metteranno a repentaglio la dignità, la salute e la stessa vita delle donne. Donne spesso povere, già violentate nello spirito se non anche nel corpo, metteranno a rischio la loro salute e molte moriranno.
Non elimineremo quindi l’aborto rendendolo illegale, ma eliminando le condizioni che creano gravidanze indesiderate. Ma su questo vorrei tornare in un prossimo intervento.
Selene Zorzi, teologa Istituto Teologico Marchigiano
Rocca n.18\2022, pag. 20
LITURGIA
La comunione ecclesiale
La messa non può essere un luogo di contestazione e divisione fraterna. E la liturgia se non è celebrazione del Vangelo non può attirare nessuno. Scrive Papa Francesco nella lettera apostolica Desiderio desideravi (29 giugno 2022) che le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, non possono essere giudicate una semplice divergenza di sensibilità nei confronti di una forma rituale, ma che vanno comprese come divergenze ecclesiologiche.
www.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/20220629-lettera-ap-desiderio-desideravi.html
Per questo ha sentito il dovere di affermare che “i libri liturgici promulgati dai santi pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II in confronto ai decreti del Concilio Vaticano II sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano” (TC, art. 1).
L’espressione è forte e perentoria, ma certamente non nega che il Vetus Ordo in vigore fino alla Riforma liturgica sia stato in quei secoli espressione della lex orandi del Rito Romano. Certamente l’attuale liturgia cattolica, che comunque necessita sempre e continuamente di riforma, perché la chiesa è semper reformanda, esprime la preghiera del Rito Romano, ma soprattutto esprime la fede della chiesa oggi, una fede nella tradizione, ma approfondita, arricchita, perché la liturgia cresce con la sua celebrazione sempre rinnovata. Accade per la liturgia quel che accade per la Parola di Dio: Divina Scriptura cum legente crescit!
D’altronde va ricordato a tutti che la tradizione è ciò che trasmette il fondamento della fede. Il pericolo è attaccarsi alle tradizioni e non a ciò che trasmettono. Una tradizione non vive se non si rinnova. Per questo Papa Francesco, in Desiderio desideravi, ridice che il mandato ricevuto come successore dell’apostolo Pietro gli impone di custodire e confermare la comunione ecclesiale cattolica in una ricerca inesausta dell’unità. Ma a nessuno sfugge che questa unità alla quale tutta la chiesa deve tendere, e che sarà piena solo nell’éschaton, [esito finale]risulta contraddetta da porzioni di fedeli che si vogliono e si dicono fedeli alla tradizione, e da ultimo spezzata dalla realtà nata dallo scisma di mons. Marcel Lefevre. È vero che in Italia questa presenza di tradizionalisti è molto limitata e circoscritta, e per questo motivo la chiesa italiana non vi presta grande attenzione, ma sappiamo bene che in altri paesi – soprattutto in Francia, in Germania e negli Stati Uniti – i tradizionalisti costituiscono una minoranza ben attestata, non piccola e molto efficace sul piano della comunicazione e della visibilità. In una diaspora cattolica, tra cattolici sempre meno numerosi, la loro presenza appare significativa e capace di esprimersi con una militanza perseverante.
Occorre subito precisare che si tratta di una presenza variegata, che mostra diversi volti, diversi stili, diversi modi di stare nella comunione ecclesiale, con modalità di lotta per continuare a esistere molto differenti: da una critica ponderata e mite, a una contestazione quasi continua, fino ad arrivare a una delegittimazione della chiesa cattolica, di Papa Francesco e dei vescovi. A volte assistiamo al mutamento di una critica doverosa e filiale in un’accusa dura e convinta di tradimento della fede, e dunque un’accusa di eresia.
La situazione è grave, ed è tempo di smetterla di sorridere di questa porzione di chiesa, o addirittura di deriderla e disprezzarla. Praticare l’ecumenismo con tante comunità cristiane, a volte gravemente impoverite del nucleo della fede in Cristo, e non saper dialogare e camminare anche con i tradizionalisti non è certo segno di autentica carità fraterna, né di consapevolezza di essere uniti dall’unum baptisma, l’unico battesimo, che ci rende fratelli e discepoli di Gesù Cristo.
Possiamo noi arrivare a un discernimento sereno e mite di questa realtà? Nella mia esistenza di monaco e di cristiano cattolico, sempre attento alla vita così diversa nelle chiese, come ho sempre frequentato chiese e monasteri delle comunità cristiane non cattoliche ma ortodosse o riformate, così ho sempre frequentato anche comunità o monasteri che volendosi fedeli alla tradizione anteriore alla riforma liturgica hanno ottenuto la possibilità di continuare a vivere la liturgia celebrandola con il Vetus Ordo. Non mi bastava certo contemplare, partecipare e gustare la bellezza dei riti e del canto gregoriano, ma guardavo con attenzione alla vita umana e spirituale di quelle comunità, e ho sempre constatato un amore sincero per la liturgia, una fedeltà seria e profonda alla tradizione monastica, vissuta con intenzione evangelica, ricca di iniziative e di lavoro per vivere la condizione di tutti gli uomini, una vita comune capace di grande carità. Ho dunque mandato i miei fratelli monaci all’abbazia francese di Le Barroux, una comunità fiorente, per imparare a fare il pane e, nei miei soggiorni in questo e altri monasteri tradizionalisti, ho potuto verificare che anche con loro “è bello e dolce vivere insieme”. Li ho sentiti semplicemente fratelli, e confesso che mi sono trovato meglio tra loro che in alcuni monasteri che si dicono fedeli al Vaticano II, ma che vivono una vita da residenza religiosa non monastica.
Resta significativa l’intervista che il nuovo abate di Solesmes ha rilasciato dopo l’udienza con Papa Francesco, il 5 settembre 2022. Dom Geoffroy Kemlin è a capo di una congregazione di monasteri nella quale alcuni celebrano con il Vetus Ordo preconciliare mentre altri seguono la riforma di Paolo VI, in vigore in tutta la chiesa cattolica latina. Era dunque doveroso da parte sua far conoscere al Papa le reazioni a Traditionis custodes registratesi in Francia e chiedergli come doveva comportarsi nell’applicazione del Motu proprio nei suoi monasteri. Papa Francesco a questo proposito gli avrebbe detto che spetta proprio a lui, abate di Solesmes, fare discernimento, e non spetta alla sua persona, anche se è il papa, perché abita a duemila chilometri di distanza. Letteralmente: “Tu sei un monaco, e il discernimento è proprio dei monaci. Non ti dico né sì né no, ma ti lascio discernere e prendere una decisione”. Consiglio, questo, che il Papa ha dato anche ad alcuni vescovi francesi, e questo ci dice che ciò che il Papa veramente vuole è l’unità, cosa che non impedisce una diversità di rito purché sia onorata la fede cattolica del mistero eucaristico.
In un’udienza con Papa Francesco nel 2014 il Papa mi chiese cosa ne pensavo dei tradizionalisti, e io gli dissi: “Santità, se accettano il concilio Vaticano II, se accettano realmente il suo ministero di successore di Pietro, se dichiarano valida la riforma liturgica e l’eucaristia normata da Paolo VI, li lasci vivere… La chiesa deve accettare una comunione plurale, non può più essere monolitica nelle forme”.
Continuo a restare della stessa opinione dopo tutti questi anni in cui l’eucaristia da vincolo di unità è diventata causa di divisione. E di questo occorre che si prendano la responsabilità non solo quelli che ricadono nella nostalgia del passato – “indietristi”, li chiama il Papa –, ma anche quelli che con i tradizionalisti non sono stati chiari, sono stati doppi e ambigui spingendoli senza che apparisse su posizioni di contestazione e di rottura con la chiesa.
Ecclesia Dei ha sempre agito con veridicità, lealtà, trasparenza nel tessere un dialogo con queste porzioni di chiesa?
E alcuni cardinali e vescovi da che parte stava nel dopo concilio: aderendo al Vaticano II e la conseguente riforma o criticandolo fino a diminuirne l’autorità?
Noi oggi viviamo già molte tensioni e opposizioni nella chiesa da non poterci permettere anche il venir meno di una pace eucaristica. La messa non può essere un luogo di contestazione e di divisione fraterna e perché si apra un cammino di vera comunione è quanto mai necessario che la celebrazione del Novus Ordo venga praticata evitando sciatteria, banalità, bruttezza. Attualmente la situazione rende veramente faticoso a molti cattolici frequentare la liturgia per trarne frutti spirituali. C’è troppo protagonismo del presbitero, troppa verbosità, canti poco curati e poco dignitosi, omelie che ormai si nutrono quasi solo delle scienze umane, di psicologia, di storia dell’arte: queste incantano tutti ma non convertono nessuno.
A mio giudizio, la situazione è drammatica e io comprendo come gli amanti della tradizione non riescano ad accedere sempre a nuovo Ordo ma restino ancorati all’antico rito che non deve mai essere disprezzato e svalutato. La liturgia, se non è mistero ordinato, se non è bella pur nella semplicità, se non è celebrazione del Vangelo non può attirare nessun, neanche attraverso la grazia. L’unità cattolica, poi, non può e non deve essere uniformità ma armonia multiforme, comunione plurale, in cui ognuno e tutti trovano possibilità di viva partecipazione. Traditionis custodes e Desiderio desideravi devono essere un invito per tutti a rinnovare la fede eucaristica attraverso una celebrazione sera e bella dell’eucaristia vissuta come comunione e non come occasione di divisione ecclesiale.
Enzo Bianchi Vita pastorale 5 novembre 2022
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/11/enzo-bianchi-la-comunione-ecclesiale.html
PASTORALE
Chiesa e omosessualità. Noi operatori pastorali con le persone lgbt
In questo tempo di riscoperta della natura sinodale della Chiesa noi operatori pastorali pugliesi che accompagniamo le persone lgbt sentiamo che è arrivato il momento in cui anche noi facciamo conoscere alla Chiesa il cammino che stiamo facendo, le nostre gioie, le nostre scoperte, le nostre fatiche. Anche noi abbiamo bisogno di fare coming out.
Chi siamo noi? Noi siamo dei preti, religiosi o religiose che a un certo punto della loro vita si sono imbattuti e poi incontrati con delle persone lgbt e che si sono messi con loro a camminare alla ricerca della volontà di Dio.
Mentre le nostre comunità cristiane di recente si stanno aprendo lentamente all’ascolto delle persone lgbt e questo è già l’avvio di un processo importante che condurrà ad ascoltare direttamente il vissuto delle persone che vivono questa condizione e a non accontentarsi di conoscere solo gli articoli del catechismo che parlano di loro, una voce che invece non è stata ancora ascoltata è proprio la nostra, quella di noi operatori pastorali, noi uomini e donne che stiamo facendo questo percorso di frontiera difficile, sofferto, esposto e in qualche modo anche tormentato. In questo nostro scritto vogliamo come riempire questo vuoto, annodare questo filo, avviare questa riflessione allargandola ai vescovi e a tutto il popolo di Dio. Noi tutti siamo impegnati nella costruzione di una Chiesa che si mette in ascolto della parola di Dio e della Tradizione della Chiesa. Come operatori tuttavia riteniamo di avere qualcosa di importante da dire sul nostro argomento perché le nostre parole sono intrise dei volti, delle gioie e dei drammi delle persone che accompagniamo. Abbiamo cioè parole impregnate delle vicende esistenziali di tante persone lgbt che sono diventate per noi fratelli e sorelle, compagni di viaggio.
Gli incontri e l’esperienza dell’ascolto ci hanno toccati profondamente e ci hanno coinvolti in prima persona perché siamo stati resi partecipi della loro vita intima e sacra. Camminando con loro abbiamo provato diversi sentimenti e stati d’animo. Subito comunque abbiamo avuto la sensazione di trovarci tra le mani un materiale umano sofferto che tuttavia cercava senso e luce. Noi intanto dal canto nostro avevamo da una parte una Chiesa sicura di sé con i suoi principi chiari e secolari e dall’altra delle persone in carne e ossa con la loro voglia di vita e di realizzazione umana e affettiva che da quei principi non era assecondata e approvata.
E noi? Noi ci siamo trovati drammaticamente in mezzo, tra due amori, desiderosi di vivere contemporaneamente la fedeltà alla nostra Chiesa e una comprensione profonda delle persone che accompagnavamo.
Noi siamo ministri della Chiesa e non autori di noi stessi. Per questo motivo sapevamo e sappiamo che dobbiamo agire non a titolo personale ma in nomine ecclesiæ. Tuttavia vediamo quanta sofferenza viene prodotta nelle persone lgbt da alcune parole forti del catechismo della Chiesa Cattolica che in sostanza chiedono loro di rinunciare alla loro vita affettiva e sessuale che viene vista come peccaminosa e che invece loro sentono profondamente congeniale e appartenente alla loro natura.
Noi non nascondiamo che questa esperienza di interposizione tra il Magistero della Chiesa e i loro volti ci procura notevole sofferenza. Vorremmo dire parole prossime che portino sollievo e conforto. Vorremmo dire parole che liberano e sprigionano gioia. Invece ci rendiamo conto invece che il Catechismo impone sulle loro spalle dei pesi quasi insostenibili e noi francamente non vorremmo prendere parte a questa operazione che sembra più oppressiva che liberante. Il nostro tormento è che sentiamo che le parole ecclesiali che dovremmo proferire fanno più male che bene, bloccano energie invece di liberarle.
Questa dunque la nostra vicenda umana e pastorale che, crediamo, merita anch’essa attenzione e ascolto. E noi, da figli devoti della Chiesa chiediamo a papa Francesco e ai nostri vescovi di fare ogni sforzo possibile per indagare più a fondo gli argomenti connessi con la pastorale lgbt per scoprire quale dovrebbe essere la parola giusta della Chiesa, la parola che non fa male, non opprime ma aiuta le persone a volare, perché in fondo questo è il nostro compito.
Chiediamo insomma alla Chiesa di darci parole nuove per raccontare l’amore tra due persone dello stesso sesso perché a noi è parso più volte che le parole in uso sull’argomento siano degli strumenti obsoleti che hanno un urgente bisogno di revisione.
Don Dino d’Aloia Adista Segni Nuovi n° 38 del 05 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68930
POVERTÀ
Diritto a residenza: ActionAid: a Roma ottima notizia per la tutela dei più fragili.
“La notizia dell’iscrizione anagrafica delle persone finora escluse in quanto sprovviste di un titolo per l’immobile in cui dimorano è un’ottima notizia per la città di Roma. Ora finalmente tante donne, uomini, bambini e bambine potranno veder garantiti i loro diritti fondamentali e avere accesso pieno all’assistenza sociale e al welfare”. Questo è il commento di Livia Zoli, responsabile Diseguaglianze globali e migrazioni presso ActionAid, riguardo alla direttiva a firma del sindaco di Roma Roberto Gualtieri che ha fatto seguito alla mozione approvata il 7 giugno 2022, nella quale si deroga ufficialmente parte dell’articolo 5 del decreto Renzi-Lupi, che esclude dalla residenza chi vive all’interno di stabili occupati.
“La decisione presa dal Comune di Roma sottolinea l’importanza e il ruolo che la mobilitazione di associazioni e persone può ricoprire nell’invertire tendenze in atto e aprire alla tutela di diritti che finora sembravano molto difficili da ottenere”, ha sottolineato Zoli. ActionAid nel 2021 ha lanciato la campagna #DirittiInGiacenza per denunciare come ancora troppo spesso in Italia l’esclusione dalla residenza sia discrezionale, illegittima e discriminatoria verso le persone più fragili, sia italiane che straniere. “Continueremo a mobilitarci a Roma, a Napoli e in molti altri territori perché la notizia di oggi dimostra che è possibile una discontinuità rispetto all’idea che chi verte in condizione di marginalità sociale debba essere anche ai margini dei diritti. Questo è possibile attraverso il diretto protagonismo delle persone escluse”, conclude Livia Zoli. “Ora è il momento che anche altre amministrazioni inizino a tutelare il diritto all’iscrizione anagrafica – ribadisce ActionAid -. Il nostro impegno non finisce qui: valuteremo e monitoreremo attentamente l’applicazione concreta di questa decisione. Parallelamente ci impegneremo affinché siano superati anche altri conflitti all’interno del funzionamento dell’anagrafe, come ad esempio l’iscrizione anagrafica delle persone senza fissa dimora”.
(P.C.) Agenzia SIR 5 novembre 2022
www.agensir.it/quotidiano/2022/11/5/diritto-alla-residenza-actionaid-a-roma-ottima-notizia-per-la-tutela-dei-piu-fragili-ora-estendere-ad-altre-citta
RIFLESSIONI
Portare i fiori ai morti
Gli alberi si spogliano delle foglie e le lasciano cadere a terra, appaiono nebbie mattutine sempre più lente a dissolversi e anche in noi emergono sentimenti velati di oscurità… È autunno inoltrato, è ora di pensare ai nostri morti.
Forse per contrastare questa spoliazione in atto, che rende la terra desolata, noi rendiamo alcuni lembi di terra, i cimiteri, simili a prati primaverili in fiore, che con i loro colori trasformano un “ campo santo” in una tavolozza che richiama i tramonti, con tonalità penitenziali, violacee o molto pallide.
Resto sempre stupito da questo ripetersi fedele di gesti che si concentrano ogni anno nel giorno di domani, vigilia dei “morti”. Andiamo ai cimiteri, puliamo le tombe sovente imbrattate dalle intemperie, portiamo dei fiori e anche delle fiammelle di fuoco, quasi per creare momentaneamente un’atmosfera vissuta già prima, quando eravamo tutti insieme sulla terra.
Perché anche nelle tombe preistoriche, scoperte recentemente, troviamo sempre dei “fiori” deposti accanto ai morti, deposti dai parenti, da chi dava sepoltura a chi aveva cessato di vivere e non si sarebbe più visto? Certamente perché da sempre gli umani contraggono un debito verso i morti!
Ma che cosa dobbiamo loro? Come pagare il nostro debito ora che non sono più con noi? Proprio dal sentire un debito di riconoscenza, di gratitudine, scaturisce in noi il dovere di compiere un gesto, dare un segno che siamo umani dotati di memoria, capaci di ricordare e conservare fili di relazione e pepite di amore da scambiare con chi non c’è più.
Se qualcosa abbiamo ricevuto dobbiamo riconoscerlo, perché chi ci ha preceduto ci ha fatto venire al mondo, ci ha fatto crescere, ci ha amato in mezzo a tante contraddizioni, e comunque ha significato qualcosa di buono per la nostra vita. Nessuno che viene al mondo e vi transita è esentato e non trova motivo per dire un grazie a qualcuno!
Anche per portare a termine i nostri doveri verso le generazioni future occorre essere esercitati al riconoscimento dei doveri che abbiamo
verso chi ci ha preceduto. Ciò che abbiamo ricevuto lo dobbiamo trasmettere… e possibilmente un po’ meglio! Chi fa tabula rasa del passato e sente la vocazione del rottamatore (attualmente tanto esercitata dalla generazione di mezzo) lascia macerie dietro di sé, e spesso continua ad agitarsi perché non riesce a vedere il deserto che si è creato intorno. Sì, ci sono alcuni che pensano di non aver ricevuto nulla, e quindi di non aver nulla da dare, ma in questa incapacità di donare e accogliere i doni ricevuti sta nient’altro che la loro disperata solitudine.
Il gesto semplice di andare a scegliere un fiore, di portarlo sulla tomba e offrirlo al morto è un gesto di grande umanità, è usare un linguaggio non verbale per dire a chi non c’è più che l’amore continua, la memoria è viva, e che nel cuore c’
è riconoscimento e gratitudine, l’assolvimento di un dovere. Un amico morto resta un amico sempre, un nemico morto non è più un nemico! E chi porta un fiore al cimitero spero l’abbia portato anche mentre l’altro era ancora in vita. I morti non vanno uccisi, ma neanche i vivi devono essere dimenticati.
Enzo Bianchi La Repubblica – 31 ottobre 2022
www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/173430/portare-i-fiori-ai-morti
SINODO
Sinodo-documento: l’esperienza di Frascati
Dopo la fase di ascolto del Sinodo sulla sinodalità, un gruppo di religiosi, ecclesiastici e laici si è riunito a Frascati, in Italia, per sintetizzare le relazioni provenienti da tutto il mondo. Austen Ivereigh vi ha preso parte e offre questo racconto dall’interno.
Alla fine del nostro primo giorno a Frascati, alla fine di settembre, colpito dalla solennità del compito che ci attendeva, ho scritto a un amico per dirgli che molti dei miei colleghi “esperti” sentivano la mano della storia e il peso della responsabilità sulle nostre spalle. “Spero che tu stia tenendo un diario”, ha risposto il mio amico. Non mi riferivo solo alla pressione di creare, in due brevi settimane, un documento che raccogliesse i frutti del più grande esercizio di ascolto e consultazione che la Chiesa cattolica abbia mai realizzato. È stato più solenne di così. Come ci aveva detto quella mattina il card. Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi, ci trovavamo su res sacra, un terreno sacro.
I documenti affidati ai 26 membri del gruppo di lettura/scrittura erano stati scritti con le lacrime e talvolta con il sangue dei martiri. Leggerli in modo superficiale, o usarli al servizio di qualche programma o altro, sarebbe stato irrispettoso non solo delle persone, ma anche dello Spirito Santo che agisce attraverso il sensus fidelium. “Noi siamo il cuore e le orecchie della Chiesa, per ascoltare il grido del popolo di Dio” – ci ha detto il card. Grech, parlando in italiano.
Il nostro compito era quello di presentare, in un unico documento accessibile a tutta la Chiesa, le speranze e i sogni del popolo di Dio che si era riunito in un numero senza precedenti per molti mesi in tutto il mondo per la prima fase del Sinodo sulla sinodalità. Ricordandoci i famosi quattro principi di papa Francesco
- il tempo è superiore allo spazio,
- le realtà sono superiori alle idee,
- l’unità prevale sul conflitto
- il tutto è superiore alla parte), il card. Grech ha detto che la prima fase consisteva nel permettere alla voce dello Spirito di emergere al di sopra dei conflitti e delle divisioni; nell’ascoltare l’esperienza piuttosto che discutere le idee; e nel cogliere il quadro più ampio, “ciò che lo Spirito sta dicendo a tutta la Chiesa, non solo a una parte di essa”.
Molte persone – ci ha ricordato – non hanno partecipato al sinodo o lo hanno fatto con scetticismo a causa di precedenti esperienze in cui avevano parlato ma ciò che avevano detto non era stato ascoltato o messo in pratica. Questa volta doveva essere diverso. Per essere la voce del popolo di Dio, ha aggiunto il card. Jean-Claude Hollerich, relatore del sinodo, “è necessario essere presenti non solo con la mente, ma con tutto sé stessi”. Ciò significava essere attenti, ad esempio, al modo in cui in alcune relazioni sinodali erano stati applicati filtri a ciò che la gente diceva da parte di vescovi desiderosi di abbellire o di gruppi che avevano la loro agenda particolare.
“Siate aperti a ciò che strabocca”, ci ha detto p. Giacomo Costa: “Dove si trova? A cosa siamo chiamati?”. Padre Costa, veterano del Sinodo sui giovani del 2018 ed esperto di processi di discernimento di gruppo, è stato l’ingegnere del nostro processo. Ma quel primo giorno è stato più che altro una guida del ritiro, esortandoci ad aprirci alle grazie di cui avevamo bisogno: essere aperti, avere fiducia nel processo e lavorare in modo collaborativo – non solo per scrivere un documento insieme, ma per essere al servizio della missione più ampia.
Nell’essere fedeli a ciò che avevamo sentito dalla gente, siamo stati chiamati a essere attenti a ciò che lo Spirito aveva suscitato in noi, per cogliere la “cosa nuova” che Dio stava offrendo alla Chiesa nel nostro tempo, che è ciò che papa Francesco intende con “el desborde”, il traboccare.
Il processo e lo spirito di Frascati. Chiamati dalla segreteria del Sinodo a Frascati, una cittadina alla periferia di Roma, tra il 22 settembre e il 2 ottobre, siamo arrivati da ogni angolo del mondo. Un mix di religiosi, clero e laici. provenienti da molti luoghi – tra cui Libano, Francia, Canada, Singapore, Ungheria, Portogallo, Perù, Kenya e Corea –, ci siamo suddivisi in tre categorie sovrapposte.
La maggior parte di noi era composta da teologi, giuristi canonici e studiosi delle Scritture; alcuni erano facilitatori di processi sinodali e programmi di leadership; due di noi si occupavano di comunicazione ecclesiale. Molti erano anche membri delle quattro commissioni del sinodo: teologia, metodologia, spiritualità e comunicazione. L’unico vescovo del gruppo dei lettori/scrittori invitati era l’arcivescovo Timothy Costelloe di Perth, presidente del Consiglio plenario australiano. Aggiungendo i nostri 26 membri del gruppo di lettura/scrittura ai tre superiori della segreteria sinodale e ai quattro membri del gruppo di coordinamento del sinodo, 33 persone sono state direttamente coinvolte nell’elaborazione del documento, 12 delle quali donne. Sebbene le relazioni lette potessero essere in una delle cinque lingue scelte dalla segreteria, per facilitare il processo di Frascati abbiamo usato solo l’inglese e l’italiano nelle nostre deliberazioni.
Ciascun membro del gruppo di lettura/scrittura è arrivato dopo aver letto circa 15-20 dei “rapporti di sintesi nazionali” di 10 pagine inviati al segretariato da 112 Chiese, cioè quasi tutte le conferenze episcopali e le Chiese orientali del mondo. Questi rapporti delle Chiese locali, ognuno dei quali è una sintesi dei processi diocesani, sono stati il materiale principale su cui abbiamo lavorato. Ma abbiamo anche tenuto conto dei rapporti che la segreteria del Sinodo aveva già vagliato: le sintesi dei superiori degli ordini religiosi di tutto il mondo; un’unica presentazione da parte di 150 associazioni di fedeli laici; i rapporti di 17 dicasteri della curia romana; e un rapporto compilato dagli “influencer” del mondo digitale, il cui esercizio di ascolto online ha attirato oltre 100.000 persone.
Infine, abbiamo ascoltato una presentazione dei contributi di oltre 1.000 individui o gruppi che hanno scelto, per ragioni diverse, di scrivere direttamente al Segretariato piuttosto che attraverso le loro Chiese locali.
I quindici giorni sono stati divisi grosso modo in tre periodi. Dapprima ci sono stati quattro giorni di “ascolto” in cui si è lavorato in piccoli gruppi per identificare gli elementi fondamentali – che riflettessero il consenso o voci minoritarie e profetiche -, che abbiamo poi riassunto nelle presentazioni alle sessioni plenarie.
Poi ci sono stati altri quattro giorni di “scrittura” per redigere una prima bozza. Dopo una giornata libera per una visita di gruppo al palazzo papale e ai giardini di Castel Gandolfo, gli ultimi giorni sono stati dedicati alla revisione e al riesame, con l’aiuto del consiglio sinodale di 16 persone, per lo più cardinali, che dovevano approvare la bozza finale. E abbiamo incontrato papa Francesco.
Il processo è stato intenso e faticoso, e il compito una corsa contro il tempo. Ma parteciparvi è stato anche un privilegio. Trascorrere molto tempo in piacevole compagnia – ai pasti, nelle liturgie e nelle conversazioni spirituali, lavorando in piccoli gruppi e, di tanto in tanto, andando in città per un caffè e un gelato -, ha aiutato a formare uno strumento di discernimento. Quando ci siamo sintonizzati l’uno con l’altro, con le voci delle relazioni e infine con lo Spirito Santo, ciò che all’inizio sembrava impossibile ha cominciato a cedere il passo alla consapevolezza che stava nascendo qualcosa di importante. Padre Costa cambiava continuamente la composizione dei gruppi: prima per continente, poi per sesso e infine per status ecclesiale. Così, ad esempio, la mattina ero in Europa-italiano, il pomeriggio in uomini-inglese e la mattina seguente in laici-italiano. Tutto questo per garantire che le nostre prospettive particolari non andassero perse, producendo, allo stesso tempo, contenuti per la relazione sotto forma di paragrafi con citazioni di supporto dai documenti. Queste citazioni, che coglievano non solo cosa ma anche come si esprimevano le persone nelle Chiese locali, sono diventate note a Frascati come “le perle del popolo di Dio”.
La principale tensione che ho avvertito all’interno dei gruppi è stata che alcuni sembravano ansiosi di abbandonare queste perle a favore di commenti astratti. La tentazione di teologizzare, come se ciò che il popolo aveva detto non potesse essere lasciato semplicemente com’era, era sempre presente a Frascati, una resistenza comprensibile tra persone altamente competenti e istruite all’umiltà che la nostra sintesi richiedeva.
Nei gruppi ho vissuto la tentazione come una sorta di peso morto di ottusità e banalità, e l’ho trovata frustrante. Lasciate parlare la gente! Questa è diventata la mia preghiera e la mia speranza per il documento. Anche il card. Grech e padre Costa erano consapevoli della tentazione e l’hanno affrontata. “Siamo stati convocati qui con il compito di ascoltare il popolo di Dio”, ci ha ricordato il card. Grech. “Se nella nostra sintesi non rappresentiamo ciò che il popolo di Dio sta cercando di dire, allora abbiamo fallito”.
Il messaggio è arrivato. Il documento finale rimane radicato nel popolo. Ma avendo sperimentato la tentazione nei nostri gruppi, mi sono reso conto di quanto sia difficile, nei processi sinodali, ascoltare davvero il popolo, soprattutto per quelli di noi abituati ad analizzare e a opinare. Mi ha reso molto più consapevole della tentazione delle relazioni sinodali, molte delle quali avevano applicato i “filtri” carichi di ansia rispetto ai quali il card. Hollerich aveva messo in guardia il primo giorno.
Nel mio gruppo di sintesi nazionali ho avuto due casi estremi: in uno, il filtro era costituito
- da un establishment clericale evidentemente disabituato all’idea che lo Spirito parli attraverso la gente comune.
- In un altro, il filtro è stato applicato da una struttura laica convinta di possedere già tutte le risposte alle domande, tanto che ascoltare le persone nelle parrocchie sarebbe stato inutile.
Sono arrivato alla fine di entrambe le relazioni senza avere la minima idea di cosa pensassero le persone, tanto meno di cosa lo Spirito potesse dire attraverso di loro.
Ma erano un’eccezione. La maggior parte dei rapporti, scritti o meno direttamente dai vescovi o da équipes da loro nominate, si sforzavano di cogliere ciò che la gente aveva detto, trasmettendolo senza esprimere un giudizio.
Trovare la pecora smarrita. A Frascati ho imparato anche l’importanza di non limitarsi a includere tutti, ma di andare alla ricerca di chi manca. Ci è stato detto di aggiungere una sedia vuota ai nostri gruppi e di porre diverse domande: dov’erano le voci di minoranza che erano costanti nei rapporti ma che rischiavano di perdersi nell’attenzione ai problemi più alla moda? Quale voce profetica non è stata ascoltata? Quale prospettiva non è ancora emersa? La plenaria che è seguita si è improvvisamente riempita di voci che erano presenti nei rapporti, ma che non erano ancora state ben ascoltate da noi. I rapporti provenienti da tutto il mondo lo dicevano: le strutture dall’alto verso il basso e il modus operandi della Chiesa di oggi sono stanchi e non si adattano al contesto missionario, sia che la Chiesa sia vecchia o giovane. I contenitori esistenti non sono adeguati a ospitare la diversità della Chiesa, né a consentire la partecipazione di tutti alla missione. Era tempo di mettere carne sulle ossa della comprensione del Concilio Vaticano II della Chiesa come popolo di Dio.
Tuttavia, la voce che si è fatta sentire non ha preteso e non si è lamentata; è stata una voce più umile e amorevole, che ha parlato in modo diretto e fermo, nominando le realtà che dovevano essere affrontate, ma che confidava nella saggezza del processo sinodale per discernere le risposte giuste. L’appello che aveva iniziato a trovare forma a Frascati era proprio lì, in quella speranza di spazi di appartenenza in cui tutti potessero esprimersi senza paura di essere esclusi, in cui sia l’impegno per la verità evangelica sia l’inclusione radicale di tutti potessero essere meglio messi in tensione. In ciò che è emerso, ho iniziato a cogliere la verità di ciò che papa Francesco dice nella Evangelii gaudium, cioè che “Dio fornisce alla totalità dei fedeli un istinto di fede – sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che è veramente di Dio”. È un istinto che si accompagna, prosegue il papa, a un certo tipo di saggezza, “per cogliere intuitivamente quelle realtà, anche quando non hanno i mezzi per esprimerle con precisione”.
Quello che lo Spirito stava dicendo alla Chiesa era, in fondo, proprio lì, nelle relazioni, in quell’”istinto di fede” nelle voci sofferenti per la frammentazione e la divisione, che desideravano una Chiesa materna, avvolgente, paziente, più ospitale, che potesse raccogliere coloro che erano rimasti fuori, che fosse più capace di tenere in tensione le differenze e i disaccordi e che prendesse sul serio l’idea che tutti i battezzati sono chiamati alla missione e a sedere al tavolo dove si discernono le decisioni.
Nonostante la stanchezza, ci siamo sentiti incoraggiati da questa consapevolezza. Il popolo di Dio era in movimento. Dovevamo aiutare la Chiesa a muoversi con lui.
Una Chiesa come una grande tenda. È stato un po’ di tempo dopo l’incontro, alla fine della prima settimana, che è nata tra noi l’idea che è diventata l’icona di Frascati. La tenda dell’incontro in Isaia 54,2 ha al centro il tabernacolo ed è saldamente ancorata a robusti pioli; tuttavia è in grado di essere allargata e spostata secondo le esigenze della missione. Ci è sembrata una metafora perfetta di ciò che il popolo di Dio chiedeva, che il documento chiama “Chiesa sinodale missionaria“. Alcuni saranno sorpresi dal fatto che il documento non approfondisce le questioni sollevate dal sinodo, ma le lascia in sospeso, rilevando i disaccordi laddove esistono e invitandoli al confronto. La maggior parte del documento non è dedicata alle questioni ma al “processo”. Il processo, dopo tutto, è lo scopo di un sinodo sulla sinodalità, ed è qui che il documento apre un nuovo importante terreno, raccogliendo e dando espressione al desiderio delle relazioni per un modo di procedere sinodale. Da qui il sogno, nella relazione dei superiori religiosi, di “una Chiesa globale e sinodale che vive l’unità nella diversità”: “Dio sta preparando qualcosa di nuovo e noi dobbiamo collaborare”.
Che cos’è questo qualcosa di nuovo, questa Chiesa a grandi tende? Ispirandosi alla Evangelii gaudium, i paragrafi 30-33 del documento continentale rilevano le due tentazioni spirituali che una Chiesa diversificata deve affrontare: da un lato, rimanere intrappolati nel conflitto e nella polarizzazione; dall’altro, ignorare le tensioni che la diversità porta con sé, fingendo che non esistano in una sorta di coesistenza frammentata. Nessuno può leggere i rapporti e non trovare persone che lamentano entrambe le cose nella nostra Chiesa: sia la polarizzazione che la frammentazione nella Chiesa di oggi mostrano che i contenitori che abbiamo sono inadeguati. Il documento di Frascati offre uno strumento ermeneutico per un nuovo contenitore, che ci permetta di creare una Chiesa a tenda più grande, capace di tenere insieme diversità e disaccordo in una tensione generativa.
Attingendo ai suggerimenti contenuti nelle relazioni, il documento offre un’ampia varietà di approcci per le prossime fasi del sinodo, da portare avanti nelle assemblee regionali del febbraio del prossimo anno. Ma ciò che potrebbe sfuggire è il significato di tutto ciò per le questioni spesso spinose sollevate dalle relazioni dei sinodi nazionali. Significa, innanzitutto, che, come Chiesa, non dobbiamo considerare tali questioni come problemi da “risolvere” o da “decidere” immediatamente, ma come tensioni dinamiche che – se gestite in modi aperti allo Spirito – sono vivificanti. L’invito è “ad articolarle in un processo di costante e continuo discernimento, in modo da sfruttarle come fonte di energia senza che diventino distruttive”. Per questo motivo papa Francesco ha prolungato il processo sinodale, in modo che si concluda non con un’unica assemblea a Roma nell’ottobre 2023, ma con una seconda assemblea l’anno dopo. Questo darà tempo allo Spirito di entrare in quelle tensioni in modo che diventino nuove possibilità piuttosto che cause di un conflitto sempre più profondo.
È stato grazie a questi processi che, nella sua prima era missionaria, la Chiesa è stata in grado di crescere così rapidamente oltre i confini di razza, lingua e cultura. Attraverso lo straordinario raduno dei fedeli globali iniziato nel 2021, è emerso il sogno di un modo di procedere che rigenera la tradizione sinodale in modi appropriati per la Chiesa globale di oggi, caratterizzata da un’immensa diversità.
L’attenzione ai processi sinodali può essere frustrante per coloro che sono impazienti di vedere particolari cambiamenti che, visti almeno da Manhattan o Monaco, sembrano evidenti. Ad altri, che sospettano che l’intero processo sinodale sia una diluizione o una capitolazione, sembrerà pericolosamente vulnerabile e aperto. Ma nessuno può dubitare, leggendo i rapporti delle Chiese locali come abbiamo fatto a Frascati, che il sensus fidelium si è risvegliato e ha parlato, e che non possiamo assolutamente affrontare queste tensioni senza prima creare la capacità di una Chiesa sinodale. Se siamo riusciti a confezionare questa chiamata e a condividerla in modo che altri possano coglierla, la nostra missione a Frascati è compiuta.
Pubblicato sul sito della rivista America dei gesuiti USA.
Austen Ivereigh Settimana news 18 ottobre 2022
www.settimananews.it/sinodo/sinodo-la-esperienza-di-frascati
“Sinodo: molto dipende da cosa si è disposti a sentire”
Il cammino sinodale delle chiese italiane riprende con una nuova fase di ascolto. Forse perché le resistenze ecclesiali al cammino sinodale sono state molte (e abbastanza prevedibili): autoreferenzialità, clericalismo, paura, maschilismo, ignoranza, lontananza dalla vita concreta e – purtroppo – potremmo continuare. A fronte di tutto questo un anno di ascolto non ci è bastato.
D’altra parte l’ascolto fatto ha condotto a delle sintesi che poi sono state alla base di una sintesi generale. Abbiamo così una base per continuare, ma anche in questo caso le ombre non mancano: le sintesi (dei gruppi, delle diocesi come quella generale) sono state riapprovate? I diversi gruppi, che si sono attivati spontaneamente e hanno inviato il risultato del loro lavoro, hanno potuto verificare che quanto hanno detto sia entrato nella sintesi? Forse è successo qualche volta, ma non in modo sistematico, e forse così corriamo il rischio che pochi decidano che cosa sia importante di ciò che si è ascoltato.
Ascolto e discernimento invece si richiamano: se anche possono essere solo alcuni a indicare le varie opzioni possibili di fronte ad una questione, dovrebbero però essere tutti ad approvare di cosa discutere (cioè quale sia la questione importante) e a prendere parte alla decisione su quale fra le opzioni indicate dai pochi si vuole perseguire.
Cantieri in ritardo. Sulla stessa linea, fra luci ed ombre, come correndo lungo un viale alberato (fra le perplessità ricordo quanto già scritto in questo blog da Marinella Perroni circa gli stereotipi per il maschile e il femminile), si trova anche il documento I cantieri di Betania (12 luglio 2022), consegnato alle chiese per questo secondo anno: molti gli spunti, ma resta la sensazione che dovremmo essere più avanti di così.
Ci viene ricordato per esempio che non si può stare fermi, come credenti e come chiesa, ma bisogna camminare, come Gesù e i suoi: ma davvero non sappiamo ancora che non c’è forma di chiesa o espressione dottrinale che non sia stata in movimento e che non possa essere messa in movimento?
Poi ci viene detto che dobbiamo camminare sulla strada dove camminano tutti. Ma perché altrimenti dove si può camminare? Se abbiamo bisogno di un tale richiamo, forse dovremmo chiederci che chiesa siamo stati fin qui. Come hanno potuto le nostre prassi (dai vestiti, ai titoli fino al modo di celebrare e decidere, guadagnarsi da vivere, gestire i beni ecc…) e il nostro linguaggio essere diversi da quelli degli uomini e le donne in mezzo ai quali viviamo?
Infine il documento dei cantieri di Betaniaci offre alcune importanti consapevolezze ecclesiali, in modo particolare quando, riflettendo sulle relazioni ecclesiali, parla di strutture (finalmente!). Se non cambiamo le strutture, infatti, e permarranno le attuali gerarchie e distanze, non si daranno realmente nella chiesa fraternità e sororità.
Ultimo arriva il riconoscimento dell’importanza della formazione (sacrosanto!), ma quando il Concilio aveva parlato del prendere parte di tutti alla liturgia, al servizio e all’annuncio, questo non portava con sé l’urgenza di avviare percorsi formativi che lo rendessero possibile?
Viene di nuovo da chiedersi come mai siamo ancora a questo punto. … per la paura di cambiare
Una possibile risposta ci viene proprio dal brano scelto come trama del cammino: quello in cui Gesù si ferma in casa di Marta, Maria e Lazzaro, e Marta si lamenta della sorella mentre Gesù la difende dicendo che si è scelta la parte buona.
Certamente è un brano che ci mostra Gesù nel villaggio e nella casa, ci parla di amicizia e di relazioni, mette al centro l’ascolto della Parola (tutti aspetti che il documento dei cantieri mette in risalto), ma è anche un brano – l’esegesi ormai ce l’ha dimostrato – in cui l’evangelista riporta le tensioni interne alla comunità per cui alcuni (forse anche lui stesso) avevano l’intento di screditare il ruolo di leader delle donne, il quale invece, leggendo altri brani del NT e vedendo la prassi delle prime comunità, appare chiaramente diffuso e riconosciuto.
È un brano allora che ci mette in guardia da una tendenza costantemente presente nella chiesa: quella di cercare di rimettere le persone al loro posto (se sono donne lo facciamo con particolare gusto), mantenendo l’ordine di sempre, e magari pensando bene di precisare che è il Signore a volere così. Queste tensioni ci sono sempre state: il Vangelo stesso ci testimonia, come nel brano di Marta e Maria, la paura di alcuni di andare fino in fondo nel seguire lo stile di Gesù, di accettarne le conseguenze anche sulle gerarchie sociali e sulle culture.
Sarebbe importante allora, ricordando Betania, ricordarsi di cosa altro viene raccontato dai Vangeli su quella casa e sugli amici (le amiche in particolare) di Gesù. Dovremmo ricordare che nel Vangelo di Giovanni (cap. 12) troviamo Maria, oltre che zitta ai piedi di Gesù, intenta ad ungerli ispirando al Signore, come una maestra, il gesto che lui sceglie di ripetere come memoriale della Pasqua: la lavanda dei piedi.
E dovremmo ricordare Marta (Gv 11) tutt’altro che zittita, ma provocata a parlare da Gesù stesso, fino a che lui la conduce, mentre le si rivolge standole di fronte, a professare la sua fede in colui che le si rivela come la resurrezione e la vita. Una professione di fede, quella di lei, piena e senza tentennamenti, a differenza di quella di Pietro, che fu subito ripreso da Gesù (cfr. Mt 16).
Forse ci serve ancora uno sguardo diverso, capace di uscire dallo scontato, di riconoscere ciò che manca senza scuse e di collocarsi fuori campo. Forse ci serve più coraggio. Forse davvero dobbiamo riprendere l’ascolto, ma chiamando per nome ciò che non riusciamo a fare e su cui vogliamo decidere come cambiare: provando a decidere insieme su che cosa e perché vogliamo cambiare. Perché quando si cammina, bisogna pure fare qualche passo.
Simona Segoloni Il Regno 26 ottobre 2022
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/10/simona-segoloni-sinodo-molto-dipende-da.html
SINODO CONTINENTALE
La Chiesa in carne e ossa e la Chiesa nei palazzi. Al via la tappa continentale del sinodo
«La prima tappa del processo sinodale ha prodotto frutti abbondanti, semi nuovi che promettono una nuova crescita e, soprattutto, ha suscitato un’esperienza di gioia in una stagione complicata». Questa è la soddisfazione espressa nel “Documento di lavoro per la Tappa Continentale” (DTC) del Sinodo sulla sinodalità la cui fase assembleare è stata spalmata da papa Francesco, il 16 ottobre scorso, su due anni – 2023 e 2024 –, determinando un nuovo modo di procedere: nel 2023 si svolgeranno le 7 Assemblee Continentali cui spetta il compito di «stilare un elenco di priorità, su cui opererà il proprio discernimento la Prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si svolgerà dal 4 al 29 ottobre 2023»; l’anno successivo, la sessione conclusiva.
Il DTC, che è stato presentato in Vaticano il 27 ottobre, è dunque la base per la preparazione delle Assemblee Continentali. Lungo 46 pagine è la sintesi dei contributi di 112 su 114 Conferenze episcopali e di tutte le 15 Chiese orientali cattoliche; di 17 su 23 dicasteri della Curia Romana; e quelle dei superiori religiosi (USG/UISG), di associazioni e movimenti di fedeli laici. E poi ci sono, leggiamo, «mille contributi di singoli e di gruppi, e gli spunti raccolti attraverso i social media grazie all’iniziativa del “Sinodo digitale”». Un gruppo di esperti – uomini e donne, vescovi, sacerdoti, consacrate e consacrati, laici e laiche, provenienti da tutti i continenti – hanno vagliato i materiali insieme al gruppo di redazione della Segreteria del Sinodo. A questo organismo dovranno essere trasmessi entro il 31 marzo 2023 i documenti finali delle Assemblee continentali. Sulla base di questi, entro giugno 2023, sarà redatto l’Instrumentum laboris per la sessione del 2024.
Il Documento, oltre alla soddisfazione per il successo del processo sinodale IL DTC, riferisce che nella fase di ascolto, quella diocesana conclusasi con le sintesi episcopali, non sono mancate (e neanche sono state nascoste, è la sottolineatura che compare nel testo) difficoltà dovute agli impedimenti causati dalla pandemia; alla mancata comprensione di «cosa significa sinodalità»; alla traduzione e inculturazione dei materiali; a «paure e resistenze da parte del clero, ma anche la passività dei laici», ecc., non da ultimo a «espressioni di rifiuto molto netto» forse per timore di cambiamenti ingestibili.
Nella notizia che segue riferiamo delle questioni più problematiche emerse nell’ascolto delle realtà ecclesiali che hanno partecipato finora al cammino sinodale e raccolte nel DTC, la cui esistenza dimostra quanto la Chiesa “in carne e ossa” sia lontana dal magistero e dalla prassi ecclesiali. Lo ha ben riconosciuto il card. Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente dei vescovi europei, in un’intervista all’Osservatore Romano (24/10). «La nostra pastorale – ha affermato – parla ad un uomo che non esiste più. Dobbiamo essere capaci di annunciare il Vangelo, e far capire il Vangelo, all’uomo di oggi, che per lo più lo ignora. Questo implica una grande apertura da parte nostra, e anche la disponibilità, pur fermi nel Vangelo, a lasciarci trasformare anche noi».
Eletta Cucuzza Adista Notizie n° 38 05 novembre 2022
I peccati della Chiesa fotografati nel documento per la tappa continentale
Il “Documento di lavoro per la Tappa Continentale” (DTC) rende conto di tutti gli argomenti problematici
www.synod.va/content/dam/synod/common/phases/continental-stage/dcs/Documento-Tappa-Continentale-IT.pdf
affrontati nelle sintesi delle Conferenze episcopali (dalle quali estrapola virgolettati relativi alla materia trattata e che invece nella illustrazione che segue – tranne quando necessario – non possono trovare spazio). “Tutti”, si diceva, ma bisognerebbe aggiungere “tranne uno”: nel testo non si parla del conferimento dell’ordinazione sacerdotale ai cosiddetti viri probati, cioè agli uomini già sposati (e non vedovi) di provata dignità e virtù. Eppure fu una richiesta dei vescovi riuniti nell’Assemblea sinodale per l’Amazzonia, poi lasciata in sospeso da papa Francesco nell’esortazione post-sinodale Querida Amazonia.
La sensazione complessiva che lascia la lettura del DTC – da cui estrapoliamo di seguito alcuni brani – è che la Chiesa cattolica, per struttura e magistero, sia autoreferenziale, arroccata, escludente, piuttosto incapace proprio di sinodalità (sensazione che nulla deve togliere però alla prassi di vicinanza di tantissimi sacerdoti, religiosi e organismi ecclesiali).
- Abusi. «Un ostacolo di particolare rilevanza sulla via del camminare insieme», cioè del “fare sinodo”, «è rappresentato dallo scandalo degli abusi compiuti da membri del clero o da persone con un incarico ecclesiale: in primo luogo e soprattutto gli abusi su minori e persone vulnerabili, ma anche quelli di altro genere (spirituali, sessuali, economici, di autorità, di coscienza). Si tratta di una ferita aperta, che continua a infliggere dolore alle vittime e ai superstiti, alle loro famiglie e alle loro comunità». «Molte Chiese locali riferiscono di trovarsi di fronte a un contesto culturale segnato dal declino della credibilità e della fiducia di cui godono a causa della crisi degli abusi».
- Ascolto. Le sintesi «evidenziano la mancanza di processi comunitari di ascolto e discernimento, e domandano una maggiore formazione in questo campo.
- Ostacoli strutturali: nel documento si denunciano le «strutture gerarchiche che favoriscono tendenze autocratiche; una cultura clericale e individualista che isola i singoli e frammenta le relazioni tra sacerdoti e laici; disparità socioculturali ed economiche che avvantaggiano le persone ricche e istruite; l’assenza di spazi “intermedi” che favoriscano l’incontro tra i membri di gruppi tra loro separati».
- Le carenze affettive del clero. «Molti membri del clero (…) non si sentono ascoltati, sostenuti e apprezzati (…). Un ascolto particolarmente attento va riservato ai ministri ordinati riguardo alle dimensioni affettive e sessuali della loro vita. Si segnala anche l’importanza di prevedere forme di accoglienza e protezione per le donne e gli eventuali figli di sacerdoti venuti meno al voto di celibato, che altrimenti sono a rischio di subire gravi ingiustizie e discriminazioni».
- La vita. «Risalta l’impegno del Popolo di Dio per la difesa della vita fragile e minacciata in tutte le sue fasi. Ad esempio, per la Chiesa greco-cattolica ucraina, fa parte della sinodalità “studiare il fenomeno della migrazione femminile e offrire un sostegno alle donne di differenti classi di età; prestare particolare attenzione alle donne che decidono di abortire a causa della paura della povertà materiale e del rifiuto da parte delle famiglie in Ucraina; promuovere un’opera educativa tra le donne che sono chiamate a compiere una scelta responsabile quando si trovano ad attraversare un momento difficile della loro vita, con lo scopo di preservare e proteggere la vita dei nascituri e prevenire il ricorso all’aborto; prendersi cura delle donne con una sindrome post-abortiva”».
- Gli “esiliati”. «I gruppi che provano un senso di esilio sono diversi, a partire da molte donne e giovani che non sentono riconosciuti i propri doni e le proprie capacità. All’interno di questo insieme assai eterogeneo, molti si sentono denigrati, trascurati, incompresi. (…). È stato invece fonte di tristezza il fatto che alcuni abbiano avuto la sensazione che la loro partecipazione al percorso sinodale non fosse gradita: si tratta di un sentimento che richiede comprensione e dialogo».
- Accoglienza per gli “esiliati”. «Tra coloro che chiedono un dialogo più incisivo e uno spazio più accogliente troviamo anche coloro che per diverse ragioni avvertono una tensione tra l’appartenenza alla Chiesa e le proprie relazioni affettive, come ad esempio: i divorziati risposati, i genitori single, le persone che vivono in un matrimonio poligamico, le persone LGBTQ, ecc. Le sintesi mostrano come questa richiesta di accoglienza interpelli molte Chiese locali».
- Disaccordo sulla morale cattolica. «Alcune Chiese locali sperimentano un pluralismo di posizioni al loro interno: “L’Africa meridionale subisce anche l’impatto delle tendenze internazionali della secolarizzazione, dell’individualismo e del relativismo. Temi come l’insegnamento della Chiesa sull’aborto, la contraccezione, l’ordinazione delle donne, i preti sposati, il celibato, il divorzio e il passaggio a nuove nozze, la possibilità di accostarsi alla comunione, l’omosessualità, le persone LGBTQIA+ sono stati sollevati in tutte le Diocesi, sia rurali sia urbane. Sono emersi punti di vista differenti e non è possibile formulare una posizione definitiva della comunità su nessuna di queste tematiche” (Sudafrica)».
- Ambiente e povertà. «Il Popolo di Dio esprime il profondo desiderio di ascoltare il grido dei poveri e quello della terra. In particolare, le sintesi ci invitano a riconoscere l’interconnessione tra le sfide sociali e ambientali e a darvi risposta collaborando e dando vita ad alleanze con altre confessioni cristiane, credenti di altre religioni e persone di buona volontà. Questo appello a un rinnovato ecumenismo e all’impegno interreligioso è particolarmente forte nelle regioni segnate da una maggiore vulnerabilità ai danni socio-ambientali e da disuguaglianze più marcate».
- Popolazioni indigene. «In numerosi casi si chiede di prestare particolare attenzione alla situazione delle popolazioni indigene. La loro spiritualità, la loro saggezza e la loro cultura hanno molto da insegnare. Abbiamo bisogno di rileggere la storia insieme a questi popoli, per trarre ispirazione da quelle situazioni in cui l’azione della Chiesa si è posta a servizio del loro sviluppo umano integrale e chiedere perdono per i momenti in cui invece è stata complice della loro oppressione».
- Ecumenismo e convivenza religiosa. «La sinodalità è una chiamata di Dio a camminare insieme a tutta la famiglia umana. In molti luoghi, i cristiani vivono in mezzo a persone di altre fedi o non credenti e sono impegnati in un dialogo fatto di quotidianità e comunanza di vita», ma molta è la strada «da percorrere in termini di scambio e collaborazione sociale, culturale, spirituale e intellettuale». «Le ferite della Chiesa sono intimamente collegate a quelle del mondo. Le sintesi parlano delle sfide del tribalismo, del settarismo, del razzismo, della povertà e della disuguaglianza di genere nella vita della Chiesa e del mondo».
- Celebrazioni liturgiche. «Molte sintesi incoraggiano fortemente l’attuazione di uno stile sinodale di celebrazione liturgica che permetta la partecipazione attiva di tutti i fedeli nell’accoglienza di tutte le differenze, nella valorizzazione di tutti i ministeri e nel riconoscimento di tutti i carismi. L’ascolto sinodale delle Chiese registra molte questioni da affrontare in questa direzione: dal ripensamento di una liturgia troppo centrata sul celebrante, alle modalità di partecipazione attiva dei laici, all’accesso delle donne a ruoli ministeriali (…); «l’esperienza delle Chiese registra anche nodi di conflitto, che devono essere affrontati in modo sinodale, quali il discernimento del rapporto con i riti preconciliari».
Eletta Cucuzza Adista Notizie n° 38 05 novembre 2022
SINODO IN ITALIA
Nomina dei vescovi. Un atto “conciliare”
Nei giorni in cui si ricorda il sessantesimo anniversario del Concilio Vaticano II, un gruppo di battezzati e battezzate della Chiesa di Brindisi-Ostuni ha fatto un atto “conciliare”. Cioè non ha commemorato con celebrazioni di rito o con articoli omiletici e retorici quel grande evento dello Spirito, ma ha agito con stile conciliare: non parole sul Concilio, ma parole da figli e figlie del Concilio, camminando sulle vie del Concilio e per vivere veramente l’ecclesiologia conciliare.
Ne è nata una Lettera che hanno scritto al papa, che ha un valore almeno nazionale
newsUcipem n. 932, 16 ottobre 2022, pag. 36 https://www.adista.it/articolo/68825S
A firmarla non sono giovani sprovveduti, ma donne e uomini maturi che, proprio fin da giovani, si sono impegnati nella Chiesa locale e sono perciò ben noti a chi conosca non superficialmente le vicende dei cattolici salentini dal Concilio ad oggi. Non a caso essi richiamano la evangelica figura di Tonino Bello: il simbolo incarnato di quanto di meglio le Chiese pugliesi hanno realizzato in termini di pastoralità secondo il Vaticano II. A fianco del grande vescovo salentino è pure idealmente presente (anche se non lo citano esplicitamente) la figura del laico Michele Di Schiena, che tanto si è impegnato per radicare il Concilio nel popolo cristiano salentino.
Che cosa, dunque, scrivono questi laici e laiche nella loro Lettera? A partire dalla contingenza della vicina nomina di un nuovo arcivescovo per la diocesi di Brindisi-Ostuni, prendono la parola per esprimere – praticando la sinodalità e non solo parlandone – i loro voti sulle caratteristiche che, secondo la loro visione conciliare, sono richieste al nuovo Pastore e che, perciò, ne dovrebbero guidare la scelta. Non indicazioni di nomi, dunque, ma di criteri di discernimento. È una richiesta tanto responsabile e non velleitaria, quanto normale (normale ovviamente in una Chiesa che viva il Vaticano II: se non appare normale vuol dire che non siamo in presenza di una Chiesa conciliare). Normale e, direi, molto moderata (il “minimo sindacale”, per esprimersi in maniera irrituale).
È chiaro, comunque, che il problema più ampio che, con questa Lettera, essi richiamano e pongono riguarda le modalità di scelta dei vescovi nella Chiesa cattolica. Si tratta di una delle “cinque piaghe” della Chiesa, indicate nell’Ottocento (quasi duecento anni fa!), dal Beato Antonio Rosmini, allora condannato per la sua franca audacia, ma poi visto come un profeta anticipatore del Vaticano II, recentemente beatificato da papa Ratzinger e al quale anche papa Francesco si è più volte richiamato. Rosmini suggeriva di ispirarsi all’antica pratica della Chiesa dei primi secoli con l’elezione dei vescovi da parte di clero e popolo. Dopo il Concilio si è ripresa questa proposta di Rosmini e la discussione è continuata, con alti e bassi, fino ai nostri giorni.
Al di là del riferimento storico ai primi tempi delle comunità cristiane (grosso modo dalla predicazione di Gesù all’editto di Costantino), è evidente che, nel XXI secolo, in questo cambiamento d’epoca (e non solo epoca di cambiamenti) che stiamo vivendo, una riflessione e un cambiamento istituzionale, anche su questo aspetto, siano necessari e urgenti per la Chiesa cattolica, anzi sono già in grave ritardo. Non è il caso, dunque, di essere “moderati”: ci vogliono più coraggio e più radicalismo evangelico. E non si possono rimandare decisioni di cambiamento radicale.
Nel regime di cristianità, e limitiamoci all’ultimo periodo, dall’inizio dell’età moderna al Novecento, quando cioè si era in presenza di una società che si pensava tutta cristiana, i capi politici (imperatori, re, principi, governi, ministri) si ingerivano – in quanto si ritenevano detentori di un dovere/potere “cristiano” nei confronti della Chiesa – nella vita ecclesiale interna e condizionavano (o imponevano) la nomina dei vescovi. Per uscire da questa “piaga” si potevano seguire due vie, ciascuna analogicamente parallela ai due differenti processi in atto di modernizzazione del potere politico: o la via della centralizzazione di tipo bonapartistico o la via della partecipazione democratica. La prima è la via che si è effettivamente seguita (con il passaggio fondamentale del 1917, quando fu promulgato un Codice di tipo napoleonico per regolare il diritto canonico), centralizzando tutto il potere nel papa e nella Curia romana. La seconda era la via a cui pensava Rosmini.
Tra le due guerre mondiali poi, in presenza della sfida mortale alla Chiesa che veniva dai regimi totalitari (soprattutto dal nazismo di Hitler e dal comunismo di Stalin, ma più sottilmente e nonostante i Patti Lateranensi anche dal fascismo, sempre più nazificato), anche a Chiesa assumeva, arroccandosi sulla difensiva, una forma totalitaria, con i pontificati di Pio XI e di Pio XII. Ma, dopo la caduta del fascismo e del nazismo, e con l’avvento di regimi democratici, questa struttura istituzionale centralizzata della Chiesa, che permaneva, creava disagio e produceva dinamiche contraddittorie. Il Concilio Vaticano II ha avviato il superamento del totalitarismo ecclesiale. Ma il processo ha avuto alti e bassi, non si è ancora compiuto e l’anacronismo (esistenziale prima ancora che istituzionale) di alcune permanenze totalitarie appare sempre più stridente e incomprensibile per le nuove generazioni. Poteva ancora essere accettato in presenza del comunismo. Ma dopo il crollo dell’Urss non si giustifica più. Anzi la Chiesa cattolica rischia di essere percepita – in modo esagerato, ma non completamente a torto – come l’ultimo dei totalitarismi. Fuori tempo massimo.
La lettera del gruppo brindisino, dunque, portando l’attenzione su uno dei più urgenti punti di necessario cambiamento, offre un grande servizio alla Chiesa cattolica. Forse ancora troppo moderato, per le necessità storiche. Ma forse fin troppo audace, per l’attuale timidezza (almeno a quel che appare) di gran parte delle donne .
Fulvio De Giorgi Adista Segni Nuovi n° 38 05 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68927
{Dopo il Concilio Vaticano II, durante il papato(1963 -1978) di Paolo VI https://youtu.be/zO-zObOrjT8
ho ricevuto dal Vaticano in tre momenti separati la richiesta di un parere sulla possibile candidatura a Vescovo di tre presbiteri della Diocesi di Ivrea. Ero allora Presidente diocesano dell’Azione cattolica. Tengo ancora adesso rigorosamente il segreto. Due divennero vescovi senza sapere del mio voto positivo. Il terzo, nonostante il suo valore e la grande amicizia che ci legava non mi parve adatto. Non ho elementi per valutare se era una consuetudine. Con l’avvento di Giovanni Paolo II, si ritornò al passato.}
Papa Francesco il 13 luglio 2022 ha nominato tre donne al dicastero per i vescovi, costituito da 15 membri.
SINODO NEL MONDO
Vescovi dell’Amazzonia: è il momento della speranza!
Che sia il momento del riscatto dell’Amazzonia! In questo sperano i vescovi della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonica (REPAM-Brasile, organismo legato alla Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile), dopo il risultato delle elezioni generali del 30 ottobre scorso che hanno assegnato la vittoria a Luís Inácio Lula da Silva. La REPAM, è scritto in una Nota del 1° novembre, «si congratula con il Presidente eletto ed esprime la sua speranza che le proposte annunciate durante la campagna elettorale in relazione all’Amazzonia e ai suoi popoli e comunità tradizionali diventino effettive».
Argomentano i vescovi firmatari che «la ferma posizione del presidente eletto in difesa dell’Amazzonia e delle sue popolazioni, già nel suo primo discorso dopo la conferma della sua vittoria, ci fa ben sperare: “ci impegniamo nei confronti delle popolazioni indigene, degli altri popoli della foresta e di biodiversità”, ha garantito. È un impegno urgente – sottolineano – perché l’Amazzonia sta bruciando e i suoi popoli subiscono ogni tipo di violenza e di violazione dei diritti umani. È urgente ridare il giusto posto all’Amazzonia e riconoscere la sua importanza centrale nel ciclo dell’acqua e nella produzione e distribuzione delle piogge, nonché la sua funzione di regolazione del clima in tutto il pianeta. «Gli ultimi governi, a partire dal 2016 – rammentano –, hanno rappresentato una tragedia per l’Amazzonia e una offesa ai diritti della natura. Tuttavia, le popolazioni di questa regione strategica sono rimaste fermamente a difesa della vita e hanno consapevolmente votato per un nuovo progetto guidato dalla “Ecologia integrale”, il tema centrale del Sinodo speciale della Chiesa per l’Amazzonia».
«È il momento della speranza! – esclamano – Restituire alle popolazioni dell’Amazzonia i loro fiumi liberi da mercurio e agro- tossici, ripopolati di pesci di tutte le specie, alimento sacro nel suolo amazzonico. È ora di smettere di violentare la terra con la criminale ricerca dell’oro e con compagnie minerarie irresponsabili. È tempo di ripristinare la dignità dei popoli indigeni con i loro territori legittimamente delimitati e protetti da qualsiasi tipo di invasione e di distruzione. È tempo di sognare un tempo nuovo per l’Amazzonia e i suoi popoli».
La REPAM-Brasile conferma anche «la propria fiducia in tutte le istituzioni rappresentative dei processi democratici del Paese e nel processo elettorale, condotto in modo competente dal Tribunale Elettorale Superiore, con l’assistenza dei partiti politici e di organizzazioni della società civile».
I vescovi firmatari sono: mons. Evaristo Pascoal Spengler, vescovo prelato di Marajó – PA e presidente della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonica – REPAM Brasile; dom Pedro Brito Guimarães, arcivescovo di Palmas – TO, vice-presidente della REPAM Brasile, e dom José Ionilton Lisboa de Oliveira, vescovo prelato di Itacoatiara – AM, segretario dello stesso organismo.
Redazione ADISTA 03 novembre 2022
www.adista.it/articolo/68972
STALKING
L’ex amante assolta, deve risarcire la vittima
Corte di cassazione, quinta Sezione Penale, sentenza n. 40298, 25 ottobre 2022
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_45081_1.pdf
La Cassazione conferma la decisione di merito rilevando che se anche la condotta della donna non è stata tale da comportarne la condanna per il reato di stalking, l’ansia che la stessa ha provocato all’ex merita un ristoro
Assolta dal reato di stalking, deve risarcire la persona offesa. La condotta della ex amante le risparmia la condanna per il reato di stalking, ma non la esime dall’obbligo di risarcire la persona offesa. Risarcimento quindi per l’ex amante, che la stessa perseguitava e al quale ha provocato ansia, anche se la stessa è anche frutto della conoscenza della relazione da parte di moglie e figlio. Questo emerge dalla sentenza della Cassazione
Assolta infatti in primo grado dal reato di stalking nei confronti dell’uomo con il quale ha avuto in passato una relazione extraconiugale, in sede di appello l’imputata viene condannata a risarcire i danni arrecati a causa della sua condotta, decisamente assillante.
Risarcimento per l’ansia conseguente alle condotte assillanti. Decisione che la donna contesta. A mezzo difensore, nel ricorrere in Cassazione, mette infatti in discussione la sua responsabilità per il mancato raggiungimento della certezza di quanto contestato oltre ogni ragionevole dubbio. Il ricorso della donna però viene dichiarato inammissibile. La condotta attribuita alla donna è stata confermata dalle dichiarazioni attendibili rese dalla moglie dell’uomo, dal figlio e dalla fidanzata di quest’ultimo. È stato inoltre appurato in sede di primo grado che lo stato d’ansia che ad un certo punto si respirava in famiglia non era dovuto alla condotta della donna, quanto alla scoperta della reazione extraconiugale. Lo stato d’ansia che ha colpito la persona offesa però era da attribuire alla condotta assillante della ex amante, che nei suoi confronti ha messo in atto una vera e propria persecuzione a cui si è sommato il clima di tensione che respirava in famiglia dopo che moglie e figlio hanno scoperto la relazione.
Confermata quindi la condanna al risarcimento dei danni.
Annamaria Villafrate Studio Cataldi 02 nov 2022
www.studiocataldi.it/articoli/45081-stalking-l-ex-amante-assolta-deve-risarcire-la-vittima.asp
STRANIERI
Stranieri, lavoratori e imprenditori. Ma poveri. I dati del dossier immigrazione
Lavorano, fanno impresa, ma sono più poveri. È uno dei dati sugli stranieri residenti in Italia (5.194.000, l’8,8% della popolazione) che emerge dal nuovo Dossier Statistico Immigrazione, curato da Idos, in collaborazione con il Centro studi Confronti e l’Istituto di studi politici “S. Pio V”, presentato a Roma lo scorso 27 ottobre in una conferenza stampa a cui hanno partecipato, fra gli altri, la moderatora della Tavola valdese Alessandra Trotta, la giornalista Eleonora Camilli e p. Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia di cooperazione “Habeshia”, prete eritreo impegnato nel salvataggio e nell’accoglienza dei migranti.
Rispetto al 2020, infatti, il tasso di occupazione fra gli immigrati è cresciuto del 2,4%, ma risultano demansionati rispetto al livello di formazione acquisito: il 63,8% svolge professioni non qualificate o operaie e la quota di sovra istruiti è del 32,8% (42,5% tra le sole donne) contro il 25% degli italiani. A questo bisogna aggiungere che gli immigrati svolgono un’ampia gamma di lavori imprescindibili: sono il 15,3% degli occupati nel settore alberghiero e della ristorazione, il 15,5% nelle costruzioni, il 18% in agricoltura e il 64,2% nei servizi alle famiglie, dove quasi i due terzi degli addetti sono stranieri. Tutti settori che, in assenza di manodopera straniera, entrerebbero in profonda crisi. Nel caso dell’assistenza alle persone, la gran parte delle famiglie italiane con anziani, minori o disabili sarebbero più sole e prive di aiuto.
Molti poi fanno impresa: le attività imprenditoriali condotte da immigrati e immigrate sono 642.638, costituiscono un decimo del totale (10,6%) e sono cresciute dell’1,8% (+11.481) rispetto al 2020, continuando un trend di ininterrotta espansione pure negli anni di crisi e di pandemia. Di conseguenza vivendo e lavorando in Italia, gli immigrati pagano le tasse, consumano e versano contributi: nel 2020 hanno pagato 5,3 miliardi di euro di Irpef, 4,3 miliardi di Iva, 1,4 miliardi di Tasi e Tari, 2,2 miliardi di accise su benzina e tabacchi, 145 milioni di euro per le pratiche di acquisizione di cittadinanza e di rilascio/rinnovo dei permessi di soggiorno. Inoltre, tra comunitari e non comunitari, hanno versato 15,6 miliardi di euro di contributi previdenziali, contribuendo al sistema pensionistico italiano. Ne deriva che il saldo netto tra uscite economiche (28,9 miliardi) ed entrate (30,2 miliardi) legate all’immigrazione è stato ancora una volta positivo di circa 1,3 miliardi di euro a vantaggio delle casse dello Stato.
Eppure, sebbene contribuiscano in maniera irrinunciabile al benessere collettivo, ne restano sempre più esclusi. Nel 2021 gli stranieri in condizione di povertà assoluta sono saliti, in Italia, a oltre 1 milione e 600mila (+100.000 rispetto al 2020), il 32,4% di tutti quelli residenti in Italia, una quota oltre 4 volte superiore a quella degli italiani (7,2%). E la percentuale di famiglie che non riescono a soddisfare i bisogni essenziali è del 26,3% tra i nuclei misti (con almeno uno straniero) e sale al 30,6% tra quelle di soli stranieri: 5 volte in più che tra le famiglie di soli italiani (5,7%). Anche la povertà relativa, legata alla capacità di spesa e perciò alla disuguaglianza sociale, colpisce molto più gli stranieri che gli italiani: nel 2021 ha riguardato in tutto 2,9 milioni di famiglie (l’11,1% del totale) ma, rispetto al 2020, l’incidenza di quelle che si trovano in tale stato è passata, tra i nuclei di soli italiani, dall’8,6% al 9,2%; tra quelli misti, dal 26,5% al 30,5%; e, tra quelli di soli stranieri, dal 25,7% a 32,2%, una quota oltre 3 volte superiore a quella delle famiglie di italiani.
Malgrado queste maggiori condizioni di indigenza, accedono meno degli italiani alle prestazioni di assistenza sociale (mense, trasporti, case popolari, sostegno al reddito ecc.), da cui vengono esclusi attraverso l’introduzione di requisiti illegittimi e arbitrari, da parte di Comuni e istituzioni, come il possesso di un permesso di lungo-soggiorno e una residenza anagrafica almeno decennale. Sono questi i vincoli che hanno limitato ad appena il 12% la quota di stranieri tra i beneficiari del Reddito di Cittadinanza, la principale misura nazionale di contrasto alla povertà economica, sebbene gli immigrati siano 3 ogni 10 poveri assoluti in Italia e questa indigenza sia, tra le loro famiglie, 5 volte superiore rispetto ai nuclei italiani.
«Se si consentisse loro non solo di lavorare più ore regolarmente, visto che la sottoccupazione cela spesso un contestuale impiego in nero, ma anche di accedere a professioni di più alta qualifica, con contratti più stabili e tutele più effettive, sarebbe valorizzato un potenziale ancora oggi mortificato, sebbene quanto mai prezioso in questa fase di crisi globale – spiega Luca Di Sciullo, presidente Idos –. Un potenziale che gioverebbe, oltre che agli immigrati, all’intero sistema Paese, dal momento che diminuirebbe l’economia sommersa e l’evasione, aumenterebbe ancor più il gettito in tasse e contributi, renderebbe più transnazionale e competitiva l’economia italiana
Luca Kocci Adista Notizie n° 38 05 novembre 2022
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