news UCIPEM n. 998 –21 gennaio 2024

news UCIPEM n. 998 –21 gennaio 2024

mille non più di mille

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le news sono strutturate: notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}. Link diretti e link per pdf -download a siti internet, per documentazione.

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono ripresi nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

Il contenuto delle news è liberamente riproducibile citando la fonte primaria.

In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviate una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.com con richiesta di disconnessione.

Chi desidera connettersi invii a newsucipem@gmail.com la richiesta indicando nominativo e-comune d’esercizio d’attività, e-mail, ed eventuale consultorio di appartenenza. [Invio a 1.262 connessi]i

Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3  Chiesa e patriarcato. Le apostole con Gesù

            Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

02 ABUSI                                               Lefebvriani e abusatori

03 BENEDIZIONI                                   Novità, limiti e sfide delle “benedizioni pastorali”

07 BIBBIA                                              Lochebed, madre di Mosè, e quel cestello chiamato “pace

08                                                           Ma-donne – Figure femminili nella Bibbia: silenziosi annunci di umanità

09 CISF –                                               Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia. Newsletter n. 2, 18 gennaio 2024

11 CONSULTORI UCIPEM                   Parma. Attività per connettersi alle web conference

12                                                          Rimini. Addio a Vittoria Maioli Sanese, psicologa, una vita in ascolto delle famiglie

13 DALLA NAVATA                               II Domenica del tempo ordinario – Anno B

13                                                           Quel giorno sul lago

14 DISEGUAGLIANZE                           Italia L’1% più ricco detiene 84 volte la ricchezza del 20% più povero

15 DONNE NELLA (per la) CHIESA Chiesa e patriarcato. Le apostole con Gesù

16 ETICA                                                Tra indifferenza e in-differenza                      

21 FRANCESCO VESCOVO di ROMA La solitudine. “Chiesa contraria alle sue riforme, ma lui resta un profeta

22                                                           Un’etica condivisa nell’epoca post-religiosa

23                                                          La castità non va confusa con l’astinenza sessuale”

25                                                          sul sesso «Il piacere non è un peccato». La teologa: svolta nel linguaggio

26 MATERNITÀ                                     Sull’atto di nascita la madre può essere una sola: lo conferma la Cassazione

27 RELIGIONE                                       Avere fiducia Cristiani oggi. Dovremmo avere un aspetto più redento

30 RIFLESSIONI                                     sull’anno che si apre

32                                                          Pensare la complessità

34                                                          Il documento “Verso ottobre 20242”, del Consiglio ordinario  del Sinodo dei vescovi

23 VANGELO                                        Il lieto messaggio del Vangelo

36                                                          Così il giudaismo rilegge il Vangelo

38 VIOLENZA                                        Le scrittrici denunciano la violenza di genere

ABUSI

Lefebvriani e abusatori

Un’indagine giornalistica durata alcuni mesi del quotidiano ginevrino Le Temps porta a identificare una sessantina di preti della Fraternità Sacerdotale San Pio X (lefebvriani) come «sacerdoti problematici» e potenziali abusatori. Se la stima si rivelasse giusta, si arriverebbe alla conclusione che 8-9% dei 700 preti della Fraternità costituirebbero un rischio per i minori.

Una percentuale doppia o tripla rispetto a quella registrata fra il clero cattolico nelle varie indagini nazionali finora concluse. Lavorando su dieci casi accertati di abuso e avvicinando genitori, studenti, documenti interni e giudiziari, i giornalisti del quotidiano hanno denunciato l’inadeguatezza della gestione dei casi di abuso, sia sul versante delle vittime che degli abusatori.

www.settimananews.it/chiesa/lefebvriani-50-anni-qualche-ruga

www.settimananews.it/chiesa/gal assia-lefebvriani-vescovi-abusi

I predatori subiscono censure lievi (temporanee sospensioni dal ministero, esercizi spirituali, spostamenti ecc.), non vengono in nessun caso denunciati all’autorità civile né vengono seguiti con terapie adeguate. Le vittime sono abbandonate a sé stesse, vengono espulse dalle comunità dei fedeli e non possono accedere ai risarcimenti se non imposti dai tribunali.

«La nostra analisi – scrive Le Temps – mostra che gli abusi descritti hanno avuto luogo in tutta Europa e nel mondo, sin dalla fondazione della Fraternità e fino al 2020».

Nel Livre noir de la Fraternité Sacerdotale Saint-Pio X se ne segnalano una decina, in parte già conclusi con condanne civili come quello relativo a p. F. Abbet, condannato da un tribunale belga a cinque anni di carcere, o di p. C. Roisnel condannato a 19 anni di reclusione, o dell’ex seminarista K. Sloniker con una condanna a vita per violenza sui minori. Nel giugno scorso, un altro membro della Fraternità ha subìto una dura condanna per violenze su 27 giovani. Philippe Peignot, accusato di abusi su cinque ragazzi, è stato condannato dal Dicastero per la dottrina della fede – talora la Fraternità si avvale delle competenze romane – nel 2014, ma l’anno successivo ha abbandonato la Fraternità e si è trovato libero.

Il prete non si tocca. Le Temps ha dato parola ad un uomo che, negli anni ’80, a otto anni, era stato sottoposto a sevizie nella scuola elementare gestita dalla Fraternità ad Ecône, sua sede storica. Le autorità scolastiche del cantone Vallese hanno disposto un’immediata visita di controllo all’istituzione.

Nel 2022 è nata in Francia un’associazione delle vittime nelle istituzioni tradizionaliste della Fraternità. Il suo portavoce, Beniamin Effa, denuncia le resistenze che incontra: «La Fraternità esercita una forte influenza sui fedeli» e deplora l’omertà ispirata dalla convinzione che «accusare un prete è più grave dell’aggressione commessa dal prete». L’associazione ha chiesto alla Santa Sede di tener presente l’esigenza di trasparenza sugli abusi richiesta dalle vittime nei colloqui di riconciliazione con i lefebvriani.

La Fraternità afferma di aver fatto proprio l’indirizzo di “tolleranza zero” al suo interno e di piena collaborazione con le autorità civili sui casi sollevati nei tribunali. Essa si è, però, sottratta a tutte le indagini indipendenti come quella francese della Ciase o quella sostenuta dai vescovi svizzeri o altre avviate negli USA e altrove. Per il superiore del distretto di Francia, Benoit de Jorna, i gesti denunciati «sono catastrofici, ma essi riguardano una proporzione infima dei preti. Un’insistenza eccessiva può far credere che il numero sia enorme e questo non è il caso. Non bisogna gonfiare le cose. Sono atti innominabili, ma non è necessario farci sopra delle conferenze».

Per questo non hanno aperto i loro archivi alla commissione Ciase.

La Chiesa come societas perfecta non può ricorrere ad altre autorità, alla pura ragione naturale, incapace di cogliere il grande miracolo dell’indefettibilità della Chiesa. Alla fine, «il prete è un alter Christus e la deferenza riguardo a lui è giusta».

Lorenzo Prezzi   Settimana news                              21 gennaio 2024

www.settimananews.it/informazione-internazionale/lefebvriani-e-abusatori

BENEDIZIONI

Novità, limiti e sfide delle “benedizioni pastorali” (di M. Gallo)

Ho chiesto a Marco Lorenzo Gallo, * 1977,     teologo in Italia e in Francia e direttore di Rivista di Pastorale Liturgica, di commentare il testo di Fiducia Supplicans, data la sua grande competenza sul tema della “benedizione” di cui ha studiato il fenomeno religioso e teologico come pochi altri. Ne è emerso un post più lungo del solito, ma la cui lettura permette di identificare nuove questioni e nuove possibilità di lettura della Dichiarazione del Dicastero per la dottrina della fede, anche in rapporto al “lavoro sinodale” che nel frattempo deve trovare i suoi temi e le sue forme.

 Lo ringrazio per la pronta e competente risposta, che aiuta a non polarizzare una recezione che esige lungimiranza e coscienza dei limiti, e che sul piano liturgico non dimentichi di collocarsi nell’orizzonte che Magnum Principium ha riaperto nel 2017 e che, nel caso specifico, sembra dimenticato dalla vocazione universalistica della Dichiarazione, che non tiene conto delle esigenze di inculturazione che il “benedire” chiede quasi come sua logica elementare. (ag)

“Benedizioni pastorali” in Fiducia supplicans. Vere novità, limiti significativi e sfide affascinanti

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/12/18/0901/01963.html

“Fiducia supplicans” è un evento che irrompe quasi d’improvviso, a metà di un complesso processo sinodale. Il suo contributo teologico ha il valore di una reale innovazione nel magistero della Chiesa – da qui la scelta stilistica della Dichiarazione. La questione è centrale, la soluzione immaginata lascia però molto perplessi. E, a partire dalle repentine levate di scudi, lascia intravvedere una affascinante sfida sulla forma di chiesa cattolica del futuro, insieme unita e realmente inculturata.

Inedito (e forse inatteso): reazioni numerose e immediate di vescovi. Le reazioni alla Dichiarazione “Fiducia supplicans” costituiscono in meno di un mese un dossier già piuttosto consistente. Non mi risulta che documenti magisteriali anche ben più impegnativi e fondamentali abbiano suscitato nulla di paragonabile (né Evangelii Gaudium, che contiene dinamiche di riforma pastorale assai radicali, né Laudato si’ o Fratelli tutti con la loro impegnata critica al nostro stile di vita, e sorprendentemente nemmeno di Amoris Lætitia, logica dalla quale questa dichiarazione senza dubbio dipende). Dal 18 dicembre abbiamo invece assistito alla repentina presa di posizione di decine di Conferenze episcopali nazionali e regionali. Certo, si può notare che sul numero totale si tratta di una minoranza, e che cominciano ad esserci anche alcune dichiarazioni ufficiali a sostegno, ma il fatto in sé merita di essere visto e interpretato.

È pur sempre vero che quando si prendono decisioni relative alla liturgia (cfr. Traditionis custodes) o ci si esprime sulla tematica dell’affettività, si suscita normalmente una reazione più immediata e non di rado di resistenza. Era dunque prevedibile che questa dichiarazione, che tocca entrambi i nervi sensibili della cattolicità (liturgia e sessualità), avrebbe acceso gli animi.

                Tra i vescovi che hanno preso la decisione di esprimere la loro opinione in forma ufficiale, la gran parte si presenta perplessa e diversi sono estremamente critici. Mi risulta che la questione si concentri sull’opportunità delle benedizioni alle coppie omosessuali, e non in particolare per le coppie in nuova unione. Che il numero ed il tono delle reazioni siano significativi è, infine, ben comprensibile dal Comunicato stampa del card. Prefetto Fernandéz e del segretario Matteo del 5 gennaio, che intende aiutare e chiarire la ricezione della Dichiarazione.

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/12/18/0901/01963.html

Polarizzazione e comunicazione: audio e video più critici, scritti più favorevoli.

Non solo comunicati ufficiali fanno parte del dossier su Fiducia supplicans, chiaramente. Tra le numerose voci dei commentatori che si impegnano più diffusamente a ricostruire il contesto della dichiarazione del Dicastero e ne analizzano le dimensioni teologiche o pastorali colpisce una certa e significativa modalità comunicativa. Le voci più esplicitamente critiche sul testo sono più facilmente reperibili nel formato video o podcast. Riviste o giornali, blog o i profili che ospitano testi scritti presentano invece un approccio più favorevole. Senza immaginare chissà quale strategia, mi sembra tuttavia di cogliere una certa dinamica polarizzante: il linguaggio ed i simboli di appartenenza si divaricano tra chi si impegna nella produzione di materiale più rapidamente divulgativo-polemico e la più riflessione teologica per iscritto.

Che cosa resta da dire?

Sono convinto che continuare a moltiplicare le prese di parola rischia di accentuare la china polarizzante. Perché il dialogo invece sia possibile, ritengo utile che si continui a lavorare sul chiarimento degli elementi di fondo, perché l’ascolto reciproco sia più produttivo.

                Senza ricostruire lo status del dibattito, mi sembra che alcune questioni si debbano ancora far presenti alla riflessione e non siano state debitamente raccolte. Penso in particolare all’uso della categoria di benedizione che viene fatto e al complesso rapporto con il processo sinodale. La mia ipotesi è che, piuttosto che davanti al rischio di uno scisma, abbiamo l’occasione (certo non priva di rischi ma anche di opportunità) di una forma di unità cattolica diversa, che la teologia ha il dovere di irrobustire.

C’è del nuovo

Dal Reponsum del 22 febbraio 2021 a Fiducia supplicans del 18 dicembre 2023, il tentativo di cucire in una certa continuità il discorso è visibile, ma ancora più evidente è la consapevolezza di intervenire con uno sviluppo reale, non ripetitivo:

www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20210222_responsum-dubium-unioni_it.html

Tale riflessione teologica, basata sulla visione pastorale di Papa Francesco, implica un vero sviluppo rispetto a quanto è stato detto sulle benedizioni nel Magistero e nei testi ufficiali della Chiesa. Questo rende ragione del fatto che il testo abbia assunto la tipologia di “Dichiarazione”.

                Pur esprimendo in tutta chiarezza che “resta ferma la dottrina tradizionale circa il matrimonio” e “non ammettendo nessun tipo di rito liturgico o benedizioni simili a un rito liturgico che possano creare confusione” (FS), c’è la volontà di offrire un novum. Questa discontinuità si realizza in un’autorizzazione della pratica pastorale di “benedire le coppie in situazioni irregolari e le coppie dello stesso sesso, senza convalidare ufficialmente il loro status o modificare in alcun modo l’insegnamento perenne della Chiesa sul matrimonio”. Ma la più macroscopica delle differenze è senza dubbio la questione teologica e sacramentale del grado di analogia e differenza tra sacramenti e sacramentali, tra matrimonio e benedizioni, nello specifico.

                Nel Responsum, si dichiaravano illecite le benedizioni di unioni omossessuali proprio sulla base di un rapporto di coerenza tra i sacramentali e i sacramenti. Il testo di appoggio citato era il n. 10 dei prænotanda del De Beneditionibus, in cui si dice delle benedizioni che sono «istituite in certo qual modo a imitazione dei sacramenti». Così si concludeva:

https://liturgico.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/8/2022/04/08/Benedizionale-DEFINITIVO-.pdf

Di conseguenza, per essere coerenti con la natura dei sacramentali, quando si invoca una benedizione su alcune relazioni umane occorre – oltre alla retta intenzione di coloro che ne partecipano – che ciò che viene benedetto sia oggettivamente e positivamente ordinato a ricevere e ad esprimere la grazia, in funzione dei disegni di Dio iscritti nella Creazione e pienamente rivelati da Cristo Signore. Sono quindi compatibili con l’essenza della benedizione impartita dalla Chiesa solo quelle realtà che sono di per sé ordinate a servire quei disegni. Per tale motivo, non è lecito impartire una benedizione a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita), come è il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso (Responsum).

Lecita, dunque, resta la benedizione individuale, ma non la benedizione di una relazione non ordinata rispetto alla forma del sacramento.

                Qui inizia l’integrazione magisteriale nuova. “Fiducia supplicans” intende accogliere l’invito di Francescoa fare lo sforzo di ampliare ed arricchire il senso delle benedizioni” (7). Così al n. 12, si va esplicitamente oltre questa coincidenza della richiesta delle condizioni morali che si chiedono per i sacramenti e quelle necessarie per le benedizioni, perché questa posizione forza la benedizione in un controllo ecclesiale che non le è connaturale, che costituirebbe un “grave impoverimento”, che è quello del controllo eccessivo, ed alla paralisi nell’accompagnamento pastorale spontaneo e libero (36):

Infatti, vi è il pericolo che un gesto pastorale, così amato e diffuso, sia sottoposto a troppi prerequisiti di carattere morale, i quali, con la pretesa di un controllo, potrebbero porre in ombra la forza incondizionata dell’amore di Dio su cui si fonda il gesto della benedizione (12).

                Per questo si offre una comprensione più ampia della benedizione, che fa riferimento alla ricchissima fenomenologia biblica, alla ricerca di un “approccio maggiormente pastorale alle benedizioni” (21). Il maggior spazio di differenza rispetto ai sacramenti è individuato nel carattere di invocazione di aiuto che chi richiede una benedizione rivolge a Dio, per vivere meglio, con la fiducia di non confidare solo nelle proprie forze, per uscire dagli spazi angusti di un mondo senza grazia. Nella libertà semplice della pietà popolare, le benedizioni sono considerate “espressioni di fede”, che quando sono richieste “al di fuori di un quadro liturgico” si esprimono “con maggiore spontaneità e libertà”. Considerate così, le benedizioni cessano di essere un rischio o un problema e diventano una risorsa pastorale da valorizzare (23), per la quale non è necessario chiedere alle persone una previa perfezione morale (25), “senza chiedere nulla” (27). “È un seme dello Spirito Santo che va curato, non ostacolato” (33).

L’umanità supplica, ed è Dio che benedice per primo senza smettere mai, qualsiasi sia la condizione della persona. E il ministro ordinato – fatte salve tutte le condizioni di prudenza ed evitato ogni scandalo – è incoraggiato a mettersi accanto e unirsi alla preghiera di chi, in qualsiasi condizione, si affida al Signore, invoca il suo aiuto, vuole procedere nel suo disegno di amore e verità. Si fa riferimento a benedizioni “che non si trovano nel Benedizionale” (35), “non ritualizzate” e che non diventano “un atto liturgico o semi-liturgico simile a un sacramento” (36), per le quali non è necessario che ci sia sempre una norma o una procedura, un rito (37).

È ben evidente che il pronunciamento rovescia il precedente a partire da una teologia sacramentaria che sa leggere l’analogia sacramenti / sacramentali facendo della loro dissomiglianza non una contraddizione, ma uno spazio. Si esce dal modello binario del Responsum (dentro-fuori, ordinato-non ordinato, lecito-non lecito), per entrare in un sistema più complesso, per il quale è certamente richiesto l’esercizio della prudenza e del discernimento – diffusamente argomentato in Amoris Lætitia e fondato sulla rilettura missionaria di ogni atto ecclesiale di Evangelii Gaudium. Se c’era una dialettica di incoerenza era quella tra il Responsum e le due citate esortazioni apostoliche di Francesco. Fiducia supplicans esplicita senza ambiguità ciò che queste dinamiche avevano già fondato.

                Le benedizioni pastorali: ragioni per una definizione per spogliazione

Per tenere insieme i suoi due poli teorici (i medesimi delle Respuestas del Papa ai Dubia dei cardinali), e cioè                www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_risposta-dubia-2023_it.html verso chi non vi rientra, lo strumento individuato è dunque quello delle cosiddette “benedizioni pastorali” non liturgiche (o non ritualizzate, o senza forma liturgica).

                Su questa differenza tra benedizioni liturgiche (e quindi parte di azioni sacramentali o tratte da libri rituali come il Benedizionale, celebrate in un contesto rituale) e forme più libere si fonderebbe secondo Fiducia supplicans la possibilità di evitare ogni confusione con ciò che sarebbe inteso come analogo al contenuto di un matrimonio.

                Le caratteristiche di questi atti sono delineate con una certa ampiezza di particolari: saranno brevi (28) tanto da durare pochi secondi, non possono avvenire nel contesto dei riti civili (39), non prevedono abiti liturgici, né gesti o parole tipiche del rito delle nozze cristiane, non in un luogo importante dell’edificio sacro, soprattutto non all’altare, avvengono in altri contesti (40), magari durante un pellegrinaggio, senza rituale o schema pubblicato. Non c’è concorso della comunità, né ministerialità di altri: si tratta della risposta di un ministro ad una specifica domanda (improvvisata?) di alcuni credenti. Il gesto stesso nella sua essenzialità è un annuncio del kerygma e un invito ad avvicinarsi all’amore di Cristo (44).

 Il comunicato stampa del 4 gennaio 2024 va oltre, precisando che non è opportuno che i vescovi offrano altri orientamenti pastorali, perché questo concorrerebbe a fare di questi gesti semplici qualcosa di tendenzialmente ambiguo.

L’intento è quello di spogliare di ogni carattere rituale di atto liturgico queste benedizioni, per escluderne ogni valore giuridico e ogni riconoscimento ecclesiale, per le coppie in nuova unione e omosessuali. L’intento è non variare la dottrina sul matrimonio: la teologia del sacramento nuziale mostra, infatti, che tipico della benedizione di una coppia è il passaggio puntuale tra un prima e un dopo. Essa si dà nella forma rituale di una consacrazione, condivisa con altri sacramentali come le istituzioni di ministri e le professioni monastiche e religiose. In questo senso, le benedizioni maggiori devono prevedere un rituale riconosciuto dall’autorità competente e hanno degli effetti riconosciuti dal diritto canonico.

                Ora, rispetto a queste, le “benedizioni pastorali” di FS emergono quasi solo in negativo (non liturgiche, non rituali, non scritte, non all’altare …), con una lunga serie di negazioni, per differenza e sottrazione. Certo, in positivo si afferma che sono un’espressione di fede, una manifestazione del kerygma di salvezza, parte della pietà popolare. Le perplessità rispetto a questi gesti minimali sono due: tale “spogliazione” è l’unico modo di garantire la differenza? E soprattutto, è ecclesialmente sostenibile?

                Costruire la differenza dentro il rito, non senza

Proprio il De Benedictionibus citato costituisce invece un quadro in cui si sarebbe potuto lavorare a una forma differente di benedizioni, senza per questo negare ogni differenza. Il rituale riformato, infatti, contiene solo benedizioni non istitutive, senza conseguenze giuridiche. Eppure, per i numerosissimi casi previsti, dai più ordinari (benedizione di alimenti, animali, automobili) a più raffinati (fidanzamento, figli, anniversari di nozze, malati), si costruisce un quadro rituale elastico (forma lunga, forma breve), con una dinamica fondamentale (radunarsi, ascolto della Parola, intercessioni, benedizione) che difende la dignità semplice del rito. Il Benedizionale non prescrive, ma invita a prendersi il tempo, a visitare ambienti esterni o invitare nell’aula liturgica, a cedere la parola, a dialogare. In una parola, vi troviamo delle vere liturgie costruite sulla loro identità, non per sottrazione di ciò che è altro.

Si può agire verso le relazioni di legami non sacramentali, con la stessa logica con la quale si benedicono neonati, campi e negozi, strade, ponti e fonti d’acqua senza credere che ciò che è benedetto diventi sacro, e nemmeno senza fermarsi all’accusa qualcuno li può leggere come gesti ambigui, superstiziosi e magici. È conveniente sfidare la confusione perché crediamo che la verità renda liberi e possa venire alla luce: non basta benedire le persone, perché l’essere umano non esiste senza il mondo delle cose, degli ambienti e soprattutto senza relazioni. Negare la benedizione agli animali domestici o in occasione dell’apertura di una attività in cui ci si gioca tutto il futuro corrisponde al non benedire la persona stessa che vi è implicata con la sua storia per come sta realizzando. Ed è proprio il rito ad abitare questa dinamica, perché accoglie la Parola e se ne appropria per rileggere la realtà secondo il linguaggio della Rivelazione. Le benedizioni del De Benedictionibus non sono assoluzioni, istituzioni, consacrazioni. La Parola proclamata non di rado richiama severamente alla responsabilità, ai poveri, alla conversione.

Come potranno invece creare una vera conversazione ecclesiale queste spoglie benedizioni pastorali per le quali i ministri non potranno avere libri approvati? Fiducia supplicans non produce paradossalmente un effetto censurante rispetto ai lenti processi in cui Conferenze episcopali e diocesi stavano camminando nel comporre riti di benedizione per coppie in nuova unione?

Conclusione: disarticolazione del Sinodo e forma di cattolicità

Che tipo di esercizio di magistero corrisponde a Fiducia supplicans? Chi ha composto il testo, ha raccolto la sfida di Prædicate evangelium in cui si immagina il funzionamento di ogni atto di curia come risultato di un processo di ascolto reciproco tra popolo, collegio episcopale, vescovo di Roma. Nel testo della Dichiarazione dove trova risonanza l’esercizio sinodale di ascolto delle coppie credenti in nuova unione o omosessuali. Chi sono gli interlocutori del testo, i soli pastori? Sarebbe interessante ascoltare le domande e le osservazioni da parte di coloro che richiedono queste benedizioni pastorali. Si riconoscono in questa figura di credente che chiede e riceve, e non offre nulla?

                La pubblicazione della Dichiarazione sembra perciò giungere come sviluppo di dinamiche interne al magistero episcopale, senza alcuna articolazione chiara con il processo sinodale in atto. In numerosi contesti culturali, i lavori preparatori – anche in Italia, e non solo nel più discusso Synodaler Weg tedesco – hanno fatto emergere la domanda sul posto ecclesiale per le coppie credenti in unione omosessuale: la tematica ha faticato a trovare una trattazione diffusa durante i lavori del Sinodo sulla sinodalità dell’ottobre 2023. Fiducia supplicans irrompe improvvisamente sulla scena, sparigliando le carte, con una modalità che impone di portare in aula sinodale non (sol)tanto la questione della morale sessuale nel cattolicesimo contemporaneo, ma finalmente il suo legame con le differenti culture e antropologie nel mondo. Davvero, è possibile che il magistero universale si espliciti una sola antropologia cristiana estendibile in ogni latitudine? È fortemente istruttivo analizzare la forma delle risonanze critiche alla Dichiarazione, perché queste fanno emergere una dissonanza che riverbera nel modo di lavorare in esegesi sulla Scrittura, nello statuto teologico della coscienza a cui si offre la verità, e quindi nella forma di comunione ecclesiale. Il principio con il quale si apre Amoris lætitia ci sembra la vera sfida:

Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cfr Gv 16,13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, «le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato» (AL 3).

                Se per la liturgia, si è dato inizio con Magnum principium

www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio_20170903_magnum-principium.html

 a un processo che dà fiducia ai contesti culturali e linguistici di generare forme plurali dello stesso rito cattolico romano, la stessa direzione va ora percorsa non in tono minore per le altre pratiche in cui i credenti cattolici cercano di vivere il Vangelo.

                Marco Gallo, diocesi di Saluzzo, pubblicato nel blog Come se non di Andrea Grillo 14 gennaio 2024

www.cittadellaeditrice.com/munera/novita-limite-e-sfide-delle-benedizioni-pastorali-di-m-gallo

BIBBIA

«Iochebed, madre di Mosè, e quel cestello chiamato pace»

C’è una donna, all’inizio del libro dell’Esodo, di cui non si dice il nome: è la madre di Mosè. Chiamata semplicemente “una figlia di Levi” sappiamo da un testo successivo che il suo nome fosse Iochebed: «Il Signore è Gloria» (cf. Es 6,20). Lo stesso nome di una delle due donne le quali, ostaggio di Hamas, sono state le prime ad essere liberate. Iochebed è quella anziana signora che, nel momento del rilascio, si è voltata indietro verso i suoi aguzzini e li ha salutati dicendo: “Shalom”. Augurando loro la pace.

                Al di là delle interpretazioni che i giornalisti hanno dato a questo saluto, da esso scaturisce un brivido, pensando alla memoria biblica racchiusa nel nome di quella donna ebrea che ha visto quanto degli umani divenuti belve hanno fatto della sua casa, dei suoi vicini e dei loro bambini. La Iochebed del 7 ottobre di quest’anno è riuscita a salvare la sua vita, quella di più di tremila anni fa riuscì a salvare il suo bambino.

                Gli ebrei, a quei tempi, erano ancora in Egitto e il nuovo Faraone li aveva ridotti in assoluta schiavitù: non solo dovevano resistere ai lavori forzati ma anche subire che i loro figli maschi venissero ammazzati. Sul nascere, quando ancora si trovavano: “tra le due pietre” dove la madre li stava partorendo. Era questo, difatti, l’ordine che Faraone aveva dato alle levatrici degli Ebrei: «Quando assistete le donne ebree durante il parto osservate bene…se è un maschio fatelo morire» (Es 1,16).

Ma Sifra (“Splendore”) e Pua (“Bellezza”) non ebbero paura di disobbedire all’ordine del Re per ubbidire, invece, alla loro coscienza: obiettarono contro il diritto di far morire per servire il dovere di far vivere. Fu così che quando Iochebed diede alla luce Mosè, le levatrici non vollero soffocarlo e lo misero, invece, tra le braccia della madre. Ma Faraone aveva un controllo capillare, i suoi corpi di polizia presidiavano il territorio sino alle suburre dove vivevano gli schiavi ebrei e non sarebbe sfuggita loro la presenza di un bambino superstite.

Ciò nonostante Iochebed rischiò la vita sua per quella del figlio a ragione del fatto che – dice il testo – «vide che era bello». Proprio per questo «lo tenne nascosto per tre mesi» (Es 2,2). Ora sarebbe difficile trovare una mamma che non vedesse bello il frutto del suo seno ma a Iochebed non sarebbe bastato il suo comprensibile amore per poterlo salvare. Giunse infatti, il momento in cui non poté più nasconderlo e, allora, lo adagiò in un cestello che pose sulle rive del Nilo, affidando il suo destino agli occhi della sorella Miriam, la quale «si pose a osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto» (Es 2,4).

                Ed ecco che arriva la figlia del Faraone a prendere un bagno nel Nilo e vede quel cestello; immagina subito che si possa trattare di un figlio degli Ebrei e sa quanto ha decretato suo padre al loro riguardo. Avrebbe dovuto lasciarlo morire sulle sponde del Nilo, ma non fu così: la figlia del Faraone, anche lei, violò il decreto emanato da suo padre: «Ella vide il cestello tra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: è un bambino degli Ebrei» (Es 2,5b-6).

                Le levatrici avevano obbedito alla loro coscienza, dove risuonava la voce del Dio della vita, la figlia di Faraone obbedisce alla compassione, a quella commozione delle viscere che ogni essere ancora umano sente dinanzi all’inermità dei bambini di qualsiasi razza e al loro grido di vivere, di crescere, di giocare, di essere felici. Per salvare i bambini ci vuole una cordata, un gioco di squadra: non basta una madre ebrea per salvare i suoi figli occorre che si allei con un’altra donna, con la figlia dei suoi nemici.

Solo la compassione delle donne tesserà quel cestello di salvezza per tutti i bambini del mondo, che si chiama “pace”. Shalom allora a tutte le donne ebree, shalom alle donne di Gaza, shalom a tutte le donne che si prendono cura dei bambini e a tutte quelle “sorelle” che vegliano su di loro per sottrarle agli umani divenuti belve. Shalom a Iochebed: “Gloria al Signore!”.

                Rosanna Virgili                 Roma sette                                        8 novembre 2023

www.romasette.it/iochebed-madre-di-mose-quel-cestello-chiamato-pace

Ma-donne – Figure femminili nella Bibbia: silenziosi annunci di umanità

Dal 16 ottobre 2023 e fino al 5 febbraio 2024 presso la Basilica di Sant’Ambrogio alle ore 21.00 sono stati organizzati cinque incontri mensili con altrettanti studiosi, biblisti e teologi per offrire letture originali e suggestive di figure femminili presenti nei testi biblici.

Il ciclo si presenta con il titolo di Ma-donne e si avvale degli interventi

  • della pastora battista Lidia Maggi (16/10/23) (video),                       https://youtu.be/Z_CKHIdeZzM?t=981s
  • la biblista Donatella Scaiola (06/11/23) (video),                 www.youtube.com/watch?v=Ok5Hn3J1FQg&t=4s
  • il Cardinale Gianfranco Ravasi (11/12/23) (video),           www.youtube.com/watch?v=kzuZr_wsa5E&t=140s
  • la scrittrice Mariapia Veladiano (15/01/24) (video)                       www.youtube.com/watch?v=eYy4r7ld64M
  • l’economista e biblista Luigino Bruni (05/02/24) (video).

Ci sono figure e circostanze della Bibbia – si legge nella presentazione – che per molto tempo sono state considerate di rilevanza inferiore. Tra queste, molti personaggi femminili, sovente in ombra o celati dietro le quinte, quasi protagoniste di una Bibbia minore.

                Sembrano fare eccezione Eva, madre di tutti i viventi, e la Madonna, vergine madre … più che creatura, come scrisse Dante. Maria ha goduto di una considerazione del tutto straordinaria, che si è riflessa poi anche nella letteratura religiosa e profana. Antica e nuova Eva, l’una ad aprire, l’altra a dare una svolta ad una umanità in attesa di redenzione.

                Forse proprio a partire da queste figure, la ricerca teologica e letteraria si è interessata ad altre donne – reali o immaginarie – che poi sono state scoperte nella loro particolare ed esemplare straordinarietà.

                Ecco allora Sara – donna chiamata da Dio, che con la maternità fa diventare uomo Abramo, e quella donna che – pur celata – nel Cantico dei Cantici manifesta una straordinaria capacità seduttiva attraverso parole che divengono musica, canto, un inno all’amore fieramente umano che ha in sé qualcosa di divino.

Gli incontri proposti – aiutati da un suggestivo accompagnamento musicale – offrono letture originali di donne che escono dal testo biblico per mostrarci quel che – il più delle volte nascosto – val la pena di scoprire.

                Data di pubblicazione: 18 gennaio 2024

www.alzogliocchiversoilcielo.com/2024/01/ma-donne-figure-femminili-nella-bibbia.html#more

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – N. 2, 18 gennaio 2024

§ La memoria delle emozioni. È in concorso come miglior documentario 2024 al premio David di Donatello e viene proiettato in diverse parti d’Italia  – ed è disponibile su RaiPlay – il docu-film “La memoria delle emozioni”

www.raiplay.it/programmi/lamemoriadelleemozioni                          [su YouTube il servizio dedicato al progetto – 3 min]

https://cooplameridiana.it/wp-content/uploads/2024/01/Scheda-DocuFilm-Memoria-delle-Emozioni.pdf

girato a Paese Ritrovato, la cittadina alle porte di Monza  che ospita 64 persone con Alzheimer

www.youtube.com/watch?v=CIUONaHER_c

§ Un futuro senza zii e cugini. Nel prossimo futuro la dimensione complessiva dei nuclei famigliari dovrebbe diminuire in modo permanente a livello internazionale. Se nel 1950 una donna di 65 anni aveva 41 parenti in vita, entro il 2095 una donna della stessa età ne avrà solo 25. Sono questi i risultati dello studio coordinato dall’Istituto tedesco Max Planck per la ricerca demografica (Mpidr), pubblicato sulla rivista dell’Accademia americana delle scienze [qui l’articolo scientifico con traduzione automatica].

                www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2315722120

§ Occupazione femminile, Italia ultima in Europa. Nel mese di dicembre il Servizio Studi della Camera ha pubblicato un documento intitolato “L’occupazione femminile” in cui sono messe in evidenza cifre negative (il tasso di occupazione femminile in Italia risulta essere il più basso tra gli Stati UE, pari al 55%, contro una media europea del 69,3% e con un altrettanto grave divario interno: le donne occupate, infatti, sono circa 9,5 milioni, laddove i maschi occupati sono circa 13 milioni). Il report, di 24 pagine, offre una panoramica delle strategie predisposte sia a livello sovranazionale – declinate in interventi nella legislazione italiana – sia a livello nazionale, finalizzate ad accrescere la parità di genere nel mondo del lavoro.

 http://documenti.camera.it/leg19/dossier/pdf/PP004LA.pdf

§ La famiglia digitale, sondaggio e progetto. Il Forum delle Associazioni Familiari, nell’ambito del progetto La Famiglia Digitale, finanziato dal Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, sta effettuando un sondaggio per focalizzare i fabbisogni digitali di casalinghe e casalinghi. Gli interessati possono supportare questa indagine compilando il questionario [cliccando questo link, scadenza 31 gennaio]

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLScdRwQDySr9E8Ibu9-JBJ3P5T7JQk-lGargeVkE9UJiA8bjcQ/formResponse?pli=1

. Per i risultati del sondaggio o per frequentare il successivo corso gratuito è possibile prenotarsi alla seguente piattaforma .                                                                                    www.ifoa.it/la-famiglia-digitale-una-serie-a-episodi-sta-arrivando/?fbclid=IwAR3xyvJQYpZ8rqNJHPReJiFP77q8Fk8GsJuh_EWqMODErP2RYjyEx2FlVEo

§ Percorsi di formazione. S’intitola “Alleanza uomo-donna: limite, incontro e risorsa” il corso proposto dall’Istituto di Studi Superiori sulla Donna-UPRA per rispondere alle grandi domande che riguardano la relazione uomo-donna nei vari contesti relazionali. Il corso si svolgerà tutti i martedì dal 13 febbraio al 28 maggio 2024 dalle 15:00 alle 17:30 (in presenza ma anche online) [qui il programma]

www.upra.org/istituto-di-studi-superiori-sulla-donna/alleanza-uomo-donna-limite-incontro-e-risorsa

§ Dalle case editrici

  • J. Eldredge, Cuore selvaggio. Viaggio nell’animo maschile, Ares, Milano, 2023, pp. 336
  • C. Rivoiro, E. Javaloyes, P. Rovea (a cura di), Il mondo sommerso della pornografia, Città Nuova, Roma, 2022, pp. 128
  • P. Zanini, Leggere insieme per superare i limiti. Come la lettura può aiutare a vivere la disabilità, San Paolo, Cinisello B. 2023, pp. 190

E se la lettura fosse davvero un atto di rivolta, una pratica che sovverte i comuni stereotipi di intelligenza, abilità, conformità? Se la lettura costituisse un atto di indipendenza, se costruisse un mondo sicuro fatto di avventure, emozioni, sogni? Se la lettura spostasse i limiti, in particolare quelli che ci poniamo o crediamo di vedere negli altri? È la sfida proposta da Paola Zanini, psicologa e psicoterapeuta infantile di formazione psicoanalitica, che in questo libro propone di assumere sguardi e pratiche in grado di sovvertire quello che pensiamo di sapere rispetto all’esperienza della disabilità. (…)

[Leggi qui tutta la recensione]                    www.faigliacristiana.it/media/pdf/cisf/24cisfnews2allegatolibriok.pdf

§ Save the date

  • Webinar (EU) – 23 gennaio 2024 (10.30-12.30 CET). “EU Policy Webinar on the implementation of the European Child Guarantee” a cura di COFACE
https://coface-eu.org/event/eu-policy-webinar-european-child-guarantee
  • Formazione (Web) – 25 gennaio/ 29 febbraio / 15-17 marzo 2024. “Clinica della relazione di coppia” corso di 20 ore dedicato ai clinici e ai professionisti a cura del Centro Kum

www.facebook.com/centrokum

  • Presentazione (Cosenza) – 27 gennaio 2024 (inizio ore 17.30). “Razzismi 2.0: analisi socio-educativa dell’odio online” presentazione del volume di Stefano Pasta

www.facebook.com/MorcellianaSchole

  • Workshop (Bologna) – 22 febbraio 2024 (10-17). “Archetipi femminili e stili lavorativi” organizzato da Scuola IRS per il Sociale [qui il programma]
https://scuolairsperilsociale.it/wp-content/uploads/2023/11/archetipi-24-i22_2_24-BO.pdf

Iscrizione  http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio    http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.asp

CONSULTORI UCIPEM

Parma                  Attività e link per connettersi alle web conference

Genitori figli e identità sessuale. Nasce uno spazio per genitori che sentono il bisogno di confrontarsi con il tema dell’identità di genere e orientamento  sessuale di figli e figlie adolescenti;

dove portare domande, preoccupazioni, emozioni, riflessioni; comprendere quello che i figli stanno vivendo e comunicando; cercare le parole per parlarne con loro.

Gli incontri saranno condotti dalle psicologhe Micaela Fusi e Silvia Levati

2024: febbraio – 28 febbraio – 20 marzo

Ciclo di incontri dalle  ore 18 alle ore 20

Grazie al Progetto Open con la Regione Emilia Romagna e il Comune di Parma il percorso è gratuito

info ed iscrizioni  0521- 234396

https://drive.google.com/file/d/1hle0UhL7Ajhk0txsBGztEGEvJRSEg1CX/view?usp=sharing

Link per connettersi alle web conference e per riascoltare gli incontri già avvenuti:       ↓↑

 www.famigliapiu.it/index.php/2021/03/17/incontri-in-modalita-web-conference

  • 7 febbraio 2023.Lettera agli uomini veri di domani, nel libro di Pellai l’emergenza educativa e l’analfabetismo emotivo                                                                        www.youtube.com/watch?v=MiHB3g9fKxo

articolo in merito di Lucia De Ioanna

https://parma.repubblica.it/cronaca/2023/02/11/news/lettera_agli_uomini_veri_di_domani_nel_libro_di_pellai_lemergenza_educativa_e_lincapacita_di_dare_diritto_di_cittadinanza-387455017/#google_vignette
  • 30 marzo 2022, ore 21.00: Dov’è la parità che ci avete promesso?
https://drive.google.com/file/d/1Nn5fy6NGfJ-uXn077DF94THC3VEv7Zlk/view?usp=sharing

articolo in merito di  Francesca Musiari – Il Borgo di Parma

  • 15 marzo 2022, ore 21.00: Viola e il blu
https://drive.google.com/file/d/1RKJLP31nc2572CDeHd4r7cJ2vFlDoASn/view?usp=sharing
  • 31 maggio 2021, ore 20.45: Crescere uomini
https://drive.google.com/file/d/1hle0UhL7Ajhk0txsBGztEGEvJRSEg1CX/view?usp=sharing
  • 21 aprile 2021, ore 20.45: Le emozioni nel piatto
https://drive.google.com/file/d/1IJMGlPUXQBOM2TtwiM2Vk0EePyErGw-y/view?usp=sharing
  • 30 marzo 2021, ore 20.45: Mi chiamo Happy

Registrazione non disponibile

  • 18 marzo 2021, ore 20.45: Quando nasce una donna
https://drive.google.com/file/d/1m8Rtnlu9b2LijrXdyt1ehjiPUSOQXw1t/view?usp=sharing

Adolescenti tra frigo e divano

  • 11 febbraio 2021: Rosangela Soncini “Ero una figlia del vento”               
https://drive.google.com/file/d/1_W5mgySQwcyO3w2HD4yqdUOeSVsG5Qyu/view?usp=sharing
  • 4 febbraio 2021: Silvia Levati e Micaela Fusi
https://drive.google.com/file/d/1zcC2Yr081rD_1urlBQxi38ah8tlTiiO7/view?usp=sharing
  • 28 gennai0 2021: Federico Cioni
https://drive.google.com/file/d/1ex09jEETDGUSCagjAIkwg2fEcLEWz1dW/view?usp=sharing

. Addio a Vittoria Maioli Sanese, psicologa, una vita in ascolto delle famiglie

      A 80 anni è morta dopo una lunga malattia, restando attiva sino all’ultimo, una figura assai nota per la profondità e la capacità di comprendere le vere necessità della coppia e dell’educazione

Ha dedicato una vita alla coppia e alla famiglia, indagando con passione e lucidità intellettuale relazioni e rapporti tra coniugi, madri, padri e figli. È morta nel pomeriggio di giovedì 18 gennaio Vittoria Maioli Sanese. Riminese, aveva 80 anni e da alcuni mesi combatteva con una grave malattia. Psicologa della coppia e della famiglia aveva fondato nel 1970 il Consultorio familiare (associato all’Ucipem [di cui ha anche fatto parte del consiglio direttivo]) di Rimini, di cui è stata appassionata direttrice fino all’ultimo giorno della sua vita.

Sorella di don Giuseppe Maioli, noto sacerdote della diocesi di Rimini, Vittoria era sposata con il politico Nicola Sanese (ex sottosegretario e parlamentare Dc).

La coppia ha avuto 6 figli, di cui 4 naturali e due adottati, e una allegra moltitudine di nipoti e pronipoti, che trovavano in lei non solo una mamma e una nonna ma un riferimento fondamentale di fede e di valori. La sua formazione ecclesiale è avvenuta nel movimento di Comunione e Liberazione, del quale è stata una figura molto significativa per la storia del movimento di Rimini, oltre che per la diocesi e la comunità riminese, diventando conosciuta in tutta Italia per la sua attività professionale e il suo intenso impegno attraverso convegni, iniziative di formazione e libri. Il suo sguardo di bene e di positività sulla famiglia, sull’essere coppia e genitori, sull’essere figli è stato un prezioso e profondo contributo alla riflessione su questi temi.

Oltre al lavoro clinico, per decenni ha guidato tanti gruppi di riflessione e di formazione per genitori, operatori sociali, educatori, psicologi. Numerosissimi i suoi interventi in occasione di convegni, congressi e seminari. Più volte era stata tra gli ospiti del Meeting di Rimini e protagonista di tanti incontri organizzati dalla diocesi di Rimini e dalle parrocchie. Offriva non manuali né istruzioni per l’uso né tantomeno slogan, quanto piuttosto percorsi di aiuto. Ha pubblicato diversi libri sulla famiglia e sulla coppia. Già il primo, Ho sete, per piacere. Padre, madre, figli. Una esperienza in aiuto ai genitori (2004), aveva riscosso subito un notevole successo e rappresentava una sorta di manifesto della psicologa: «Lungi dal cedere alla tentazione di intellettualizzare, di psicologizzare e tanto meno di tecnicizzare la trattazione del problema – aveva scritto – qui racconto un’esperienza, descrivo la vita dei genitori e dei figli, i loro problemi, le loro angosce, le loro speranze».

La coppia ha avuto 6 figli, di cui 4 naturali e due adottati, e una allegra moltitudine di nipoti e pronipoti, che trovavano in lei non solo una mamma e una nonna ma un riferimento fondamentale di fede e di valori. La sua formazione ecclesiale è avvenuta nel movimento di Comunione e Liberazione, del quale è stata una figura molto significativa per la storia del movimento di Rimini, oltre che per la diocesi e la comunità riminese,

Offriva non manuali né istruzioni per l’uso né tantomeno slogan, quanto piuttosto percorsi di aiuto. Ha pubblicato diversi libri sulla famiglia e sulla coppia. Già il primo, Ho sete, per piacere. Padre, madre, figli. Una esperienza in aiuto ai genitori (2004), aveva riscosso subito un notevole successo e rappresentava una sorta di manifesto della psicologa: «Lungi dal cedere alla tentazione di intellettualizzare, di psicologizzare e tanto meno di tecnicizzare la trattazione del problema – aveva scritto – qui racconto un’esperienza, descrivo la vita dei genitori e dei figli, i loro problemi, le loro angosce, le loro speranze», diventando conosciuta in tutta Italia per la sua attività professionale e il suo intenso impegno attraverso convegni, iniziative di formazione e libri. Il suo sguardo di bene e di positività sulla famiglia, sull’essere coppia e genitori, sull’essere figli è stato un prezioso e profondo contributo alla riflessione su questi te.

                Oltre al lavoro clinico, per decenni ha guidato tanti gruppi di riflessione e di formazione per genitori, operatori sociali, educatori, psicologi. Numerosissimi i suoi interventi in occasione di convegni, congressi e seminari. Più volte era stata tra gli ospiti del Meeting di Rimini e protagonista di tanti incontri organizzati dalla  i tecnicizzare la trattazione del problema – aveva scritto – qui racconto un’esperienza, descrivo la vita dei genitori e dei figli, i loro problemi, le loro angosce, le loro speranze».

Sono poi seguiti Perché ti amo (2006), Come figlio (2008), Chi sei tu che mi guardi (2010), La domanda. Come vento impetuoso (2015).

Di recente aveva rilasciato un’intervista alla rivista Tempi sul femminicidio di Giulia Cecchettin, offrendone una lettura non ideologica e molto profonda. «Possiamo fare tutte le leggi del mondo – aveva affermato – ma se manca il passaggio dentro di sé, il cambiamento della persona, non succederà nulla di significativo. Sembra che oggi in Italia si abbia paura di andare a fondo del problema».

Con la consueta, suggestiva chiarezza di analisi adottata e profusa in oltre 40 anni di attività affrontando le relazioni uomo-donna e genitori-figli, Vittoria Maioli Sanese negava che il problema di quella tragedia fosse un patriarcato che non esiste più, indicando semmai come centro della questione il narcisismo sempre più diffuso che «diventa intollerabilità del proprio limite e della frustrazione».

Paolo Guiducci                 Avvenire             18 gennaio 2024

www.avvenire.it/attualita/pagine/addio-a-vittoria-maioli-sanese-psicologa-una-vita-in-ascolto-delle-famiglie

                                                                    DALLA NAVATA

III Domenica del tempo ordinario – Anno B

Giona                                   03, 10. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.

Salmo responsoriale     24, 04. Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella

                                               tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza.

Paolo 1Corinzi                  07, 31. Passa la figura di questo mondo.

Marco                                  01,14. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio.

Quel giorno sul lago

La notizia dell’arresto di Giovanni spinge Gesù a uscire, per così dire, allo scoperto. Che cosa abbia fatto nel tempo intercorso tra l’episodio del battesimo e delle tentazioni e la notizia dell’arresto di Giovanni non ci viene detto, probabilmente ha condotto una vita del tutto «anonima» nel villaggio di Nazaret.

Ma non è difficile pensare che tale anonimato sia stato «condito» da un’assidua frequentazione delle Scritture di Israele, dallo studio e dalla comprensione dei testi, che attraverso l’esperienza del suo popolo esprimono il volto di Dio padre, il suo modo di farsi presente nella storia e nelle vicende umane, la sua costante fedeltà al suo progetto di salvezza.

Proprio tutto questo, una volta che Giovanni ha compiuto il suo percorso – ed era facile immaginare che da quella prigione non sarebbe più uscito –, spinge Gesù a intraprendere il suo cammino, la sua missione. Mi colpisce sempre il modo con cui muove i primi passi: al contrario dei maestri del suo tempo, non cerca dapprima un luogo dove fondare la sua scuola, dove impartire il suo insegnamento; cerca, invece, dei compagni di viaggio, altre persone che possano stare con lui, condividere con lui il suo cammino, la missione che è chiamato a compiere.

Partito da Nazaret, quindi, fa tappa sul lago di Galilea e sulla riva si imbatte in alcuni pescatori intenti nel loro lavoro. Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni facevano parte, molto probabilmente, di un’azienda ittica a dimensione familiare. Che cosa Gesù abbia visto in loro e che cosa loro abbiano visto in lui non viene detto, ma la subitaneità con cui lasciano le reti, l’azienda e persino, nel caso di Giacomo e Giovanni, il loro padre è sorprendente. In pochissimo tempo la tranquillità economica e sociale di una famiglia – dato che anche la madre di Giacomo e Giovanni lascerà il marito per seguire questo rabbi itinerante – viene a dir poco sconvolta; e questo è solo l’inizio.

Se poi ci fermiamo a riflettere sulle parole dell’invito che Gesù rivolge loro, allora il «mistero» si fa più fitto: che cosa significa «vi farò pescatori di uomini»? Sicuramente un’espressione che deve essere suonata a dir poco enigmatica ai loro orecchi, ma allo stesso tempo carica di una progettualità tale da dare loro la forza – e forse anche l’incoscienza – di lasciare tutto e andare.

Tutto questo, però, non accade «a ciel sereno», nel senso che proprio questa «subitaneità» testimonia un’attesa, un’aspettativa, una speranza. La predicazione di Giovanni non era passata inascoltata, l’attesa di un messia liberatore si palpava nell’aria e, forse come una scintilla, proprio quell’annuncio – «il tempo è compiuto» – è ciò che quei pescatori stavano aspettando, «convertitevi e credete nel Vangelo» è ciò che desideravano ardentemente sentire.

Non si tratta di un semplice desiderio di cambiare vita, di rompere la monotonia del quotidiano, e neanche di uno spirito di avventura; ciò che vi è dietro a tale risposta è il desiderio di salvezza, il bisogno profondo di trovare un senso alla propria vita, alla realtà che li circonda – per molti versi non migliore di quella odierna – di aprire lo sguardo a un orizzonte più ampio e luminoso.

È vero anche che la loro comprensione di quell’annuncio e le loro aspettative saranno pian piano stravolte durante quei tre anni che trascorreranno alla sequela di quel Maestro itinerante. Si sentiranno delusi, confusi, a volte le parole di Gesù risulteranno «dure» alle loro orecchie, e alcuni di loro abbandoneranno il cammino – «molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui» (Gv 6,66) –, ma per loro rimarranno sempre e comunque parole di vita: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,69).

La fine di questa storia, a livello umano, la conosciamo tutti: il loro Maestro morirà innalzato su di una croce, nel modo più infamante e tragico allo stesso tempo. Atterriti e impauriti ritorneranno sulle rive del lago e ricominceranno a pescare: «Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca». Ma sembra che neanche questo riuscirà loro bene: «Quella notte non presero nulla» (Gv 21,3).

Tuttavia questa storia non finisce qui. Ciò che speravano, ciò che attendevano, all’inizio forse in modo confuso o incosciente, si realizzerà nelle loro vite in pienezza. La bellezza di quello sguardo che li aveva colpiti e rapiti quel giorno sulle rive di quel lago, si manifesterà in tutto il suo splendore, ne saranno avvolti e trasfigurati, perché quella «bellezza» è il Salvatore del mondo.

                Ester Abbattista, biblista                              Re-blog

DISUGUAGLIANZE

In Italia si amplia il divario tra ricchi e poveri. L’1% più ricco detiene 84 volte la ricchezza del 20% più povero

Disuguaglianze: Oxfam, i 5 uomini più ricchi del mondo hanno raddoppiato le ricchezze mentre 5 miliardi di persone rimangono in povertà. In Italia la forbice tra ricchi e poveri si amplia: lo denuncia il nuovo rapporto di Oxfam, pubblicato ogni anno in occasione del World economic forum di Davos. Il quadro distribuzionale tra il 2021 e il 2022 mostra quasi un dimezzamento della quota di ricchezza detenuta dal 20% più povero (passata dallo 0,51% allo 0,27%), a fronte di una sostanziale stabilità della quota del 10% più ricco degli italiani.

Se a fine 2021 la ricchezza del top-10% era 6,3 volte superiore a quella detenuta dalla metà più povera della popolazione, il rapporto supera il valore 6,7 nel 2022. Ancor più al vertice della piramide distributiva, le consistenze patrimoniali nette dell’1% più ricco (titolare, a fine 2022, del 23,1% della ricchezza nazionale) erano oltre 84 volte superiori alla ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana.

Secondo Oxfam dall’inizio della pandemia fino al mese di novembre 2023 il numero dei miliardari italiani è aumentato di 27 unità (passando da 36 a 63) e il valore dei patrimoni miliardari (pari a 217,6 miliardi di dollari a fine novembre 2023) è cresciuto in termini reali di oltre 68 miliardi di dollari (+46%). Nel corso del 2023 è cresciuto sensibilmente anche il numero dei multimilionari italiani: l’insieme dei titolari di patrimoni finanziari superiori a 5 milioni di dollari ha visto 11.830 nuovi ingressi su base annua. Il valore complessivo dei loro asset è lievitato nel corso dell’anno passato di 178 miliardi di dollari in termini reali.

La disuguaglianza nella distribuzione dei redditi netti equivalenti in Italia è rimasta pressoché stabile nel 2021 (ultimo anno per cui le stime distribuzionali sono accertate) rispetto al 2020, grazie a un ruolo incisivo dei trasferimenti pubblici emergenziali e del reddito di cittadinanza. Il profilo poco egalitario della distribuzione dei redditi colloca il nostro Paese in ventunesima posizione sui 27 Paesi membri dell’Ue.

                Nel 2022 il fenomeno della povertà assoluta mostrava in Italia una maggiore diffusione rispetto all’anno precedente. Poco più di 2 milioni e 180 mila famiglie per un totale di 5,6 milioni di individui versavano nel 2022 in condizioni di povertà assoluta. L’incidenza della povertà a livello familiare è passata in un anno dal 7,7% all’8,3%, mentre quella individuale è cresciuta dal 9,1% al 9,7%. Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia stima che le misure che hanno sostituito il reddito di cittadinanza porteranno ad una riduzione di beneficiari “di 500.000 unità rispetto alle famiglie eleggibili per il reddito di cittadinanza. Misure destinate ad aumentare la disuguaglianza, l’indigenza e l’esclusione sociale”.

La riduzione delle disuguaglianze rappresenta un tema cui nessun governo, al netto della retorica, ha finora attribuito centralità d’azione – sottolinea il report di Oxfam -. Il Governo Meloni non fa eccezione e il suo primo anno è stato caratterizzato da politiche del lavoro incapaci di ridimensionare il fenomeno della povertà lavorativa, da una riforma fiscale che riduce l’equità e l’efficienza del sistema impositivo italiano e dall’abbandono dell’approccio universalistico alla lotta alla povertà”. Oxfam chiede al governo di “ripensare profondamente le misure per l’inclusione sociale e lavorativa introdotte nel 2023, riabbracciando l’approccio universalistico che garantisce a chiunque si trovi in difficoltà la possibilità di accedere a uno schema di reddito minimo fruibile fino a quando la condizione di bisogno persiste”. In materia fiscale di prevedere, tra l’altro, l’introduzione di un’imposta progressiva sui grandi patrimoni. In Italia, a titolo esemplificativo, l’imposta potrebbe essere rivolta al solo 0,1% più ricco della popolazione con un patrimonio netto individuale sopra i 5,4 milioni di euro. Con un potenziale gettito stimato tra 13,2 e 15,7 miliardi di euro all’anno.

Tra le misure per contrastare il lavoro povero Oxfam caldeggia, tra l’altro, l’introduzione di un salario minimo legale indicizzato all’inflazione, “introdurre forti limitazioni all’esternalizzazione del lavoro e prevedere una drastica riduzione delle forme contrattuali a tempo determinato, ricorrendo a poche e stringenti causali”.

(P.C.)                     Agenzia SIR        15 gennaio 2024

DONNE NELLA (per la ) CHIESA

Chiesa e patriarcato. Le apostole con Gesù

La discussione sul patriarcato si è accesa ultimamente sui media dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin da parte del suo ex fidanzato e per le parole della sorella della vittima. Il termine patriarcato significa letteralmente “dominio del padre” (arché in greco significa dominio). In senso ampio e generale viene utilizzato per indicare un ordinamento sociale in cui l’autorità e il potere sono tradizionalmente concentrati nelle mani degli individui maschili: gli uomini detengono una predominanza di potere e di privilegi spesso a discapito delle donne. Così è stata la storia della società occidentale dalle sue origini fin dopo la seconda guerra mondiale, con rare eccezioni. Tra le rare eccezioni c’è, nel passato, Platone con quanto scrive sulle donne nella sua opera “La Repubblica”.

Tra queste eccezioni c’è sicuramente anche Gesù Cristo e l’apostolo Paolo ed è ciò che interessa a noi. Con la predicazione di Gesù del regno di Dio, cambia anche l’atteggiamento verso le donne. Il regno di Dio non è né la Chiesa, né il Paradiso, ma è formato da chi, anche oggi, segue il messaggio di Gesù e le sue parole. Nel regno di Dio non ci sono più differenze né sociali, né di genere, perché, come ha capito bene l’apostolo Paolo, in Cristo «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28), cioè in Cristo Gesù siamo tutti uguali! La lettera ai Galati fu scritta verso il 56, se dai cristiani fosse stato seguito questo pensiero, si rivoluzionava il mondo 2.000 anni fa!

Nei Vangeli Gesù non ha solo discepoli, ma anche discepole, molte discepole. Diverse donne lo seguivano e avevano cura di lui: «Egli se ne andava per città e villaggi predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui [syn autò in greco] i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata la Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode, Susanna e molte altre che lo servivano con i loro beni» (Lc 8,1-3). Le donne stavano con Gesù come i Dodici, formavano una comunità unita a Gesù, erano con lui (syn autò: G. Barbaglio *1934-†2007, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, EDB, Bologna 2002, 379).

Gesù si intrattiene tranquillamente con una donna, la Samaritana, tanto che anche i suoi discepoli se ne meravigliano (Gv 4,1-30). È in rapporto di familiarità con Marta e Maria, le sorelle di Lazzaro (Lc 10,38-42), salva una donna accusata di adulterio (Gv 8,1-11) e si lascia baciare i piedi da una peccatrice. Come scrive Luca: «Stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7,38). A questa donna Gesù dice delle parole tra le più belle del Vangelo: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (Lc 7,47).

Questa attenzione di Gesù per le donne è qualcosa di straordinario, come scrive Joachim Jeremias (*1900-†1979: «Si ha qui qualcosa che è davvero sorprendente; Gesù si distacca dai costumi che tengono segregata la donna» (J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1972, 259). Tutto questo a quel tempo doveva suscitare molto clamore: un gruppo di donne faceva parte attiva del circolo stretto attorno a Gesù, era uno scandalo.

Tutto questo è confermato dal fatto che le donne sono presenti, a differenza degli uomini, nei momenti più cruciali della vita di Gesù: alla croce, al sepolcro e annunciano la sua risurrezione. Esse hanno mantenuto verso di lui un coraggio e una fedeltà che i Dodici e altri discepoli non hanno avuto. Scrive Marco: vi erano alcune donne che osservavano da lontano la crocifissione di Gesù «tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses e Salome, le quali quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme» (Mc 15,40-41). Erano le donne che avevano seguito Gesù a Gerusalemme nel suo ultimo viaggio, 130 km circa, 4-5 giorni di cammino, pernottando in qualche luogo, con molti disagi, soprattutto da parte delle donne. Esse sono presenti alla sepoltura e alla tomba di Gesù. Commovente un passo di Matteo: «Lì sedute di fronte alla tomba, c’erano Maria di Magdala e l’altra Maria» (Mt 27, 59-61). E poi, passato il sabato, «Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salomé, comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levar del sole» (Mc 16,1-2; vedi anche Mt 28,1-10; Lc 24,1-10; Gv 20,1). E poi esse danno l’annuncio della risurrezione di Gesù.

Per questo, nelle comunità cristiane delle origini le donne avevano importanza, come vedremo, e poi, finito il I secolo, anche la Chiesa si adattò alla mentalità patriarcale, anche sulla base di quanto è scritto nella

I° lettera a Timoteo che non è dell’apostolo Paolo: «La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo, rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato fatto Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre. Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza» (1Tm 2,11-15). È un testo tipicamente patriarcale che si trova nel Nuovo Testamento, che per tanti secoli è stato attribuito all’apostolo Paolo e che la Chiesa ha seguito, in piena contraddizione con quanto Paolo scrive nella lettera ai Galati, il testo di sopra, Gal 3,28, e nella prima lettera ai Corinzi 11,5, dove le donne pregavano e profetizzavano nelle riunioni comunitarie. Vedremo poi l’importanza che hanno le donne nella lettera ai Romani.

In 1Cor 14,34-35 troviamo però scritto: «Le donne nelle assemblee tacciano, perché non è loro permesso parlare; siano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea!». La prima lettera ai Corinzi à di Paolo, ma questa frase non è di Paolo: è una glossa aggiunta in seguito. Questi versetti infatti interrompono, come scrive la “Bibbia TOB” [Traduction Oecuménique de la Bible 1975-6], «la trattazione sui profeti (vv. 29-33… 37-40), contraddicono 1Cor 11,5, sembrano fuori argomento in capitoli che non trattano affatto del ruolo delle donne nelle assemblee. Paolo poi non ha la consuetudine di ricorrere alla Legge per risolvere un caso di disciplina comunitaria. La glossa potrebbe essere stata inserita forse sotto l’influsso di 1Tm 2,11-15, quando le lettere di Paolo vennero riunite in collezione».

Il ruolo delle donne nelle prime comunità cristiane è molto chiaro alla fine della lettera ai Romani (16,1-16); Paolo ne elenca diverse con ruoli importanti di collaboratrici, e troviamo donne anche in altri testi.

  • Febe: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio [diakonon, diaconessa] della Chiesa di Cencre; accoglietela nel Signore, come si addice ai santi e assistetela in qualunque cosa possa aver bisogno di voi; anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso» (Rm 16,1-2).
  • Prisca (o Priscilla): «Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù. Essi per salvarmi la vita, hanno rischiato la loro testa e a loro non soltanto io sono grato, ma a tutte le Chiese del mondo pagano. Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,3-5). Prisca e Aquila sono moglie e marito, nominati diverse volte da Paolo: «Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca con la comunità che si raduna nella loro casa» (1Cor 16,19),
  • Maria: «Salutate Maria, che ha fatto molto per voi» (Rm 16,6).
  • Giunia: «Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo prima di me» (Rm 16,7). Paolo li chiama apostoli; Giunia è l’unica donna nel Nuovo Testamento ad essere chiamata apostolo.
  • Trifena e Trifosa: «Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore» (Rm 16,12).
  • Perside: «Salutate la carissima Perside, che ha tanto faticato per il Signore» (Rm 16,12).
  • La madre di Rufo: «Salutate Rufo, prescelto dal Signore, e sua madre, che è una madre anche per me» (Rm 16,13).
  • Patroba: «Salutate Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma e i fratelli che sono con loro» (Rm 16,14).
  • Giulia e la sorella di Nereo: «Salutate Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i santi che sono con loro» (Rm 16,15).
  • Evodia e Sintiche sono ricordate nella lettera ai Filippesi: «Esorto Evodia e esorto anche Sintiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego anche te, mio fedele cooperatore, di aiutarle, perché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita» (Fil 4,2-3). Nel descrivere l’attività di Evodia e di Sintiche, Paolo usa la parola greca synethlesan (hanno combattuto), da cui derivano le parole atleta e atletica. «Questo rende l’idea dell’energia e dell’impegno che esse avevano investito nella diffusione del Vangelo. Esse lo predicano allo stesso modo di Paolo, di Clemente e di altri, e non c’è alcuna distinzione tra i contributi degli uomini e quelli di queste donne. Erano tutti collaboratori» (J. Murphy O’- Connor*1935-†2013, “Paolo. Un uomo inquieto, un apostolo insuperabile, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, 91). Le donne lavoravano come gli uomini nella comunità di Filippi e probabilmente Evodia e Sintiche erano a capo di qualche Chiesa domestica e forse da qui il loro disaccordo.
  • Lidia: a Filippi troviamo anche una certa Lidia che invitò Paolo a stare nella sua casa finché fosse rimasto a Filippi (At 16,15). «Possiamo ritenere che la casa di Lidia fosse diventata il luogo dove i cristiani inizialmente si incontravano, e quindi che essa abbia preso parte all’evangelizzazione di Filippi» (Murphy O’ Connor, Paolo. Un uomo inquieto, 91).
  • Apfia: «Al carissimo Filemone, nostro collaboratore, alla sorella Apfia, ad Archippo nostro compagno nella lotta per la fede e alla comunità che si raduna nella tua casa» (Fm 1-2).

Il ministero di Paolo era dunque un ministero cooperativo di uomini e di donne. Sicuramente Gesù non rientra nella categoria del patriarcato, come neppure l’apostolo Paolo. E la Chiesa di oggi?

Ermanno Arrigoni,  Adista Segni Nuovi n° 2        20 gennaio 2024

laureato in Filosofia, dottorato in Teologia alla Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale di Milano

www.adista.it/articolo/71233

ETICA

L’etica tra indifferenza e in-differenza

Indifferenza e in-differenza sono due categorie contrapposte che hanno entrambe a che fare con l’etica. La prima in negativo, in quanto designa un atteggiamento che sta alla radice dell’immoralità; anzi ne costituisce l’anima più profonda; la seconda in positivo, in quanto pone  l’accento sulla struttura originaria dell’agire morale, la quale implica il necessario riferimento all’altro nel rispetto della sua alterità. Mentre dunque l’indifferenza impedisce in partenza l’esercizio della moralità, l’in-differenza ne costituisce il fattore costitutivo, quello che sta alla base del suo esercizio.

Questa fondamentale distinzione (e opposizione) consente un approccio all’etica nei due aspetti che ne definiscono il campo: il ruolo del giudizio nei confronti delle varie espressioni dell’agire umano e quello dell’offerta di indicazioni che orientino la condotta umana al perseguimento del bene. Tra questi due atteggiamenti, e la loro immediata ricaduta nelle scelte e nei comportamenti tanto della vita privata quanto di quella pubblica, è necessario trovare un equilibrio armonico, che conferisca alle due facce dell’etica piena giustificazione e spinga la persona umana e scegliere in ogni situazione il bene comune.

L’etica del giudizio: origini e sviluppo. Purtroppo non sempre questo equilibrio è stato mantenuto. Per lunghi secoli, a partire dalla patristica fino all’epoca moderna, a prevalere è stato un modello negativo di scienza morale, che aveva come fine la determinazione delle condizioni di peccato e che assumeva come strumento per perseguire con rigore l’obiettivo il diritto canonico e civile, in quanto discipline in grado di fornire con precisione le necessarie distinzioni. Si trattava di un’etica rivolta ai confessori, ai quali era prevalentemente destinata per consentirgli una corretta amministrazione del sacramento della penitenza, la possibilità di mettere in atto un puntuale discernimento, che segnalasse l’esistenza del peccato, ne definisse la natura e ne mettesse a fuoco la gravità.

Dietro a questa concezione della penitenza, che prevedeva – così si è espresso il concilio di Trento – la denuncia dei peccati «secondo la specie, il numero e le circostanze che modificano la specie» vi è una visione della vita cristiana, dove ad avere il sopravvento è il timore di Dio (timor Domini) giudice severo, e viene alimentata la paura dell’inferno come luogo di eterna dannazione, spesso descritto dai confessori in termini terrificanti con l’obiettivo di scuotere la coscienza dei fedeli e metterli in allerta con la minaccia di finire dannati in tale luogo di pena.

In questo contesto l’indifferenza non trova una precisa collocazione. Essa non è immediatamente inseribile né nell’ambito dei comandamenti, il cui schema occupa il primo posto nell’esposizione sistematica della morale cattolica, né nell’ambito delle virtù morali (le cosiddette virtù cardinali), che costituiscono la struttura portante della vita morale secondo la scuola domenicana. Per questo essa viene considerata una realtà amorale, che non rientra propriamente nell’elenco dettagliato dei peccati presenti nei Penitenziali e successivamente nelle Summæ confessariorum ed è, per questa ragione, del tutto trascurata come realtà estranea al giudizio etico. Il ricupero dell’indifferenza nella sua valenza etica e in tutta la sua gravità avviene in epoca moderna. L’individualismo egoistico esasperato e il fenomeno della globalizzazione hanno concorso, in misura determinante, a favorire l’affermarsi di questa tendenza, che ha assunto i connotati – come spesso ricorda papa Francesco – di “cultura dell’indifferenza”. Si tratta di un sentimento diffuso, alimentato anche dalla vastità degli orizzonti che si aprono e dalla oggettiva difficoltà a circoscriverli e a far fronte a situazioni di disagio – da quelle dei paesi del sud del mondo dove si vive in condizione di radicale povertà a quelli occidentali, dove le crescenti e sempre più accentuate diseguaglianze minacciano la vita del ceto medio – provocando una sensazione di impotenza la quale sfocia nella passività e nella destituzione di responsabilità; in definitiva, nell’indifferenza. A confermare la centralità di questo comportamento sta il fatto che l’indifferenza è diventata oggi il maggiore peccato sociale, in quanto in diretto contrasto con la virtù della carità, che è “il” comandamento attorno a cui ruota l’intera vita morale del credente e che ha come obiettivo il perseguimento di una fraternità universale. L’indifferenza è la “cifra” del venire meno (o almeno dell’affievolirsi) dei valori, che hanno rappresentato per molto tempo l’indice più consistente dell’influenza culturale del cristianesimo. Ma è anche il segnale preoccupante dell’avanzare di una tendenza disumanizzante, che mette a serio repentaglio il livello di civiltà del mondo attuale, in particolare dell’occidente, la culla storica dei diritti umani e della democrazia.

L’in-differenza come struttura portante dell’etica. Di segno diverso, anzi opposto, è l’in-differenza che riveste un ruolo di primo piano nell’ambito dell’etica, in quanto rinvia all’importanza della diversità quale fattore costitutivo dell’eticità. A rilevare questa importanza è il fatto che l’etica ha le proprie radici in una concezione relazionale del soggetto umano, e che tale relazionalità implica il riconoscimento e la valorizzazione della diversità o, se si vuole, dell’alterità. Questa visione non è in realtà nuova: è presente, fin dall’inizio, nella tradizione ebraico-cristiana e nel pensiero della classicità greco-romana. Nel caso della tradizione ebraico-cristiana i contenuti della vita morale che il buon israelita doveva fare propri trovavano la loro espressione, in forma imperativo-negativa nel “decalogo”, le cui due tavole riguardano rispettivamente la relazione con Dio e quella con il proprio simile. A questi aderisce in piena continuità la successiva tradizione cristiana, per la quale l’eticità ha come fulcro – lo si è già ricordato – l’amore di Dio e quello del prossimo.

Nel caso del pensiero greco-romano, a sua volta il fondamento dell’esperienza morale consiste analogamente in una prospettiva relazionale, che viene chiaramente delineandosi in chiave strettamente razionale a partire dall’Etica nicomachea di Aristotele, nella quale a definire l’eticità è anzitutto la virtù-principe della giustizia, il cui contenuto essenziale è la relazione nei confronti dell’altro (iustitia est ad alterum). Questa prospettiva viene confermata dal ricorso al diritto romano, che rappresenta la norma di valutazione delle relazioni interumane, in quanto al riconoscimento dell’uguaglianza di tutti si unisce l’attenzione a ciò che spetta a ciascuno (unicuique suum tribuere).

Questa concezione dell’eticità viene – purtroppo – accantonata dalla successiva tradizione cristiana per il prevalere, fin dagli inizi, di un modello oggettivo-materiale, che cancella qualsiasi riferimento alla soggettività, dunque alla persona. I Penitenziali e le Summæ confessariorum, che hanno come destinatari i sacerdoti perché amministrino (non celebrino) correttamente il “sacramento della penitenza”, in cui occupa il primo posto la confessione, non sono altro che cataloghi di peccati con l’offerta di appositi criteri per valutarne la gravità e assegnare al penitente la corrispettiva tariffa penitenziale.

Tale visione si perpetua nel tempo e viene confermata anche con la nascita, nella modernità, della teologia morale come disciplina autonoma con una propria metodologia e un proprio impianto strutturale, quello della casistica che ha come preoccupazione fondamentale la circoscrizione del peccato e la rilevazione dello stato di colpevolezza proprio del penitente. Non manca di per sé fin da allora nella definizione del peccato il riferimento al dato soggettivo che interagisce con quello oggettivo, come risulta dalle condizioni richieste perché il peccato sussista: la materia grave, la piena avvertenza e il deliberato consenso. Gli ultimi due elementi che rinviano alla soggettività sono tuttavia del tutto trascurati nella esposizione dei contenuti della moralità in favore del dato oggettivo, che non ha soltanto la preminenza ma l’esclusività.

Alcuni fermenti che vanno in direzione opposta vengono man mano facendosi strada, sia pure in posizione minoritaria, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento – Rosmini è stato al riguardo un pioniere – i quali, oltre che ribaltare la visione negativa del passato, rifacendosi in particolare ad alcune grandi categorie bibliche – alleanza, sequela di Cristo, carità (per non ricordare che le principali) – riportano al centro della riflessione la persona, mettendo in evidenza le dinamiche psicologiche e i condizionamenti socioculturali dell’agire mediante il ricorso ai risultati forniti dalle scienze umane. Ma una vera e propria svolta si avrà soltanto con la celebrazione del Vaticano II che sollecita un radicale “cambiamento di prospettiva”, assegnando il dovuto rilievo alla soggettività, con l’adozione di una visione formale-personale dell’eticità – in verità già anticipata da alcuni teologi, Karl Rahner in primis – dove l’aspetto oggettivo non viene trascurato ma inglobato nel concetto di persona, in quanto soggetto unico e irripetibile e, nello stesso tempo, soggetto costitutivamente relazionale, perciò aperto all’alterità.

I connotati di un’etica dell’in-differenza. A ben guardare la ragione profonda del sopravvento nella modernità del modello oggettivo-materiale va ascritta alla riduzione della persona ad individuo, dunque all’eliminazione della relazione come elemento costitutivo dell’identità soggettiva. Il che è avvenuto attraverso un lungo percorso, i cui inizi vanno ricondotti all’avvento del Nominalismo che, considerando i concetti come semplici etichette imposte dall’esterno alla realtà per motivi convenzionali, i quali nulla hanno a che fare con la sua essenza reale (i concetti sono meri flatus vocis), finisce per negare alla moralità ogni riferimento all’alterità, che viene sostituita come criterio di giudizio dal principio di autorità (l’auctoritas divina). Questo processo è venuto sviluppandosi (e intensificandosi) in seguito in due direzioni. La prima è costituita dall’assolutismo politico che fa del principio di autorità l’asse portante della vita sociale (non veritas sed auctoritas facit legem), la quale ha nel patto garantito dal Leviatano – è questa la formula del contrattualismo hobbesiano – il proprio fondamento. La seconda direzione è quella della nascita e della diffusione dell’ideologia liberale. Si deve  categoria dei diritti dell’uomo fornendone una prima formulazione. Ma non si possono misconoscere anche i limiti di questa dottrina, in particolare la centralità assegnata al presupposto individualistico nell’ambito della scienza economica e dell’esercizio dell’economia reale, dove le finalità perseguite sono l’interesse soggettivo e la ricerca del profitto, perciò l’assenza di attenzione ai beni relazionali e alla qualità della vita. Come non si può misconoscere che la stessa categoria dei diritti umani non ha più, in questo contesto, alcun fondamento nella natura dell’uomo – si pensi alla categoria di diritto naturale – ma i cui contenuti vengono definiti attraverso la ricerca di un punto di convergenza tra posizioni diverse.

L’etica della in-differenza è fondata proprio sul rifiuto dell’antropologia individualistica descritta e sulla sua sostituzione con un’antropologia relazionale. La riscoperta del concetto di persona da parte di alcune correnti del pensiero contemporaneo – dalla fenomenologia al personalismo fino al pensiero ebraico – ha trovato sbocco nella produzione di un modello etico che ha come fondamento la relazionalità. La relazione, in quanto elemento costitutivo (e dunque non accidentale o contingente) della persona, assume qui i connotati di struttura portante dell’etica, con il ricupero – va sottolineato con chiarezza – del modello presente fin dalle origini – come si è rilevato – nell’ambito dell’etica occidentale. L’etica relazionale non implica l’abbandono della soggettività, cioè dell’unicità e dell’irrepetibilità del singolo – della sua specificità identitaria – ma la integra inserendola in un contesto che la valorizza, connettendola al mondo delle relazioni, mettendone meglio in luce l’alterità e sollecitandone la crescita, nonché arricchendola mediante il confronto e la reciproca interazione. L’indifferenza (L’in-differenza) conferisce così piena possibilità di espressione alla libertà da cui l’etica trae la sua insorgenza e a cui occorre riferirsi per valutare realisticamente lo spessore morale dell’agire umano. La libertà che viene qui richiamata non coincide tuttavia con una forma di anarchia o di libertarismo selvaggio ma si collega strettamente alla responsabilità: è una libertà responsabile, che si esercita con un’attenzione costante alla varietà delle vocazioni soggettive e alla pluralità delle circostanze situazionali.

Connotati di un’etica della responsabilità.  L’in-differenza ha dunque come naturale conseguenza l’adesione alla proposta dell’“etica della responsabilità” considerata da Max Weber come l’etica del politico e del professionista, ma in realtà estensibile a tutto l’arco dell’agire umano. Essa si oppone, secondo Weber, all’etica della “convinzione” o della “coscienza”, in quanto mette in evidenza l’insufficienza della semplice declamazione dei principi o dei valori – declamazione del tutto sterile, che non ha alcuna possibilità di incidere sul terreno delle scelte concrete della persona – e propone, in alternativa, come criterio di valutazione, l’analisi delle conseguenze positive e/o negative delle azioni, che vanno tra loro soppesate per giungere alla definizione del “bene possibile” in situazione (che non coincide col “bene assoluto”, mai totalmente attingibile), accontentandosi talvolta di scegliere il “male minore”.

L’assunzione di questo modello non implica il pericolo del relativismo, poiché la misurazione delle conseguenze (o degli effetti) delle azioni esige, per essere condotta correttamente, il riferimento a un sistema valoriale gerarchizzato in base al quale valutare la loro bontà morale, affrontando anche quelle situazioni di conflitto dei valori (o dei doveri), in cui la moralità consiste nell’adesione al valore più alto. L’etica weberiana della responsabilità non può dunque essere assimilata a un’etica machiavellica, perché pur avendo di mira anzitutto il conseguimento del “fine”, non rinuncia a riconoscere lo spessore morale del “mezzo”, e non giustifica pertanto il ricorso a qualunque mezzo per perseguirlo. La preoccupazione da cui tale modello muove è l’esigenza di dare spazio al principio dell’efficacia, la quale non può tuttavia andare disgiunta dall’attenzione al contenuto valoriale dell’azione.

Ma la versione weberiana dell’etica della responsabilità non è sufficiente a conferire pienezza alla vera responsabilità morale. La figura del “rispondere di qualcosa”, cioè del peso oggettivo dell’azione, deve integrarsi con l’intenzionalità del soggetto che la promuove. Di qui la necessità di introdurre una seconda figura, “rispondere a qualcuno”: figura che rinvia al volto dell’altro, che ci interpella a partire dalla sua indigenza con la sollecitazione a assentire ai suoi bisogni senza frapporre alcuna condizione, dunque con una imperatività assoluta. La questione che allora si pone come inderogabile è quella che riguarda la definizione dell’altro. L’orizzonte universalistico entro cui ci muoviamo, conseguenza del fenomeno della globalizzazione e della connaturale interdipendenza tra i vari popoli e i diversi settori nei quali si esprime la convivenza umana impone allora di andare oltre la proposta originaria del personalismo che identifica l’altro con il vicino (il prossimo in senso stretto) per includere – come ci ricorda Paul Ricoeur – il “terzo”, colui con cui non entreremo mai direttamente in contatto, ma che ha un nome e un volto precisi, e che possiamo raggiungere attraverso la politica, cioè dando vita a “strutture giuste” ispirate a una solidarietà integrale e universale.

Questa visione non comporta che l’esercizio della responsabilità debba essere vissuto in modo omogeneo ed appiattito, ma nel doveroso rispetto di gradi diversi, dando il primato al più vicino, il “prossimo”, senza rinunciare per questo a estendere l’impegno verso l’intera umanità. A ciò si deve aggiungere, inoltre, un’ulteriore apertura al mondo degli altri; apertura che include – come ci ha ricordato Hans Jonas – le generazioni future. Il che implica l’adesione a un concetto più esteso di “bene comune”, non più riconducibile a una prospettiva “sincronica” (tutto l’uomo nella sua integralità e tutti gli uomini nella loro universalità), ma facendo spazio a una prospettiva “diacronica” prendendo seriamente in considerazione coloro che verranno dopo di noi ai quali dobbiamo consegnare un mondo abitabile.

L’etica deve assumere oggi, in definitiva, il carattere di antidoto all’indifferenza e di piena accoglienza della in-differenza, facendo della responsabilità la sorgente originaria di una piena liberazione umana.

Giannino Piana                                “Servitium” n. 262 ottobre/dicembre 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202401/240116piana.pdf

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

La solitudine di papa Francesco, Vito Mancuso “Chiesa contraria alle sue riforme, ma lui resta un profeta

Non c’è solo la proverbiale ironia di papa Francesco dietro quel suo riconoscersi solo alla luce di scelte pastorali coraggiose, da ultima il via libera alle benedizioni delle coppie gay. “Traspare anche una certa paura, mista ad amarezza, per il rendersi conto che ampie fette della Chiesa, quelle più praticanti, non lo stanno seguendo“, è il teologo Vito Mancuso a mettere il dito nella piaga della crescente solitudine di Bergoglio sullo sfondo dell’apparizione di quest’ultimo al programma “Che tempo che fa”.

Anche a livello internazionale gli appelli del Papa per l’ambiente e la pace cadono regolarmente nel vuoto, non trova?

“Assolutamente sì, ma, pur se non viene dato seguito ai suoi moniti, non esiste al mondo altra autorità morale e spirituale eccetto la sua. E questo disturbare il potere politico ed economico, anche a costo di fallire, rappresenta la sorte stessa di Francesco“.

Un destino da 3 milioni di spettatori rimasti incollati l’altra sera alla tv per ascoltare le sue parole… .

“Lui è uno straordinario comunicatore la cui solitudine induce a un sentimento umano di tenerezza. Da un punto di vista politico e spirituale, è un bene avere un Papa che, nonostante fatichi a governare e a farsi ascoltare ai piani alti, dimostra di essere in grado di sintonizzarsi come pochi sui problemi degli uomini e delle donne del suo tempo, di scrivere encicliche stupende sulla difesa del creato che magari saranno comprese e attuate tra cent’anni. In fondo quella di Bergoglio è la solitudine dei profeti che sanno ascoltare la voce di Dio e guardare oltre il contingente”.

Ma intanto, come scherza Fiorello, i cardinali l’hanno già «estromesso dal loro gruppo Whatsapp». Tornando seri, è accettabile questa palpabile solitudine del Papa nella Chiesa?

“Era doverosa ai tempi di Pio IX e Pio XII, quando la figura del Pontefice era distante, altra rispetto alla gente. Adesso, venuti meno da decenni il plurale maiestatis e la sedia gestatoria, il fatto che il Papa sia isolato è un grandissimo problema a livello ecclesiale. Lo stesso Francesco si è reso conto che non manca chi, profanando il senso autentico della preghiera, non prega più per lui, ma contro di lui, come ha lasciato intendere neanche troppo velatamente da Fazio“.

A che cosa si deve questo suo essere tra i cattolici ’voce che grida nel deserto’?

“Non ha fatto i conti fino in fondo con le forze effettive a sua disposizione nella Chiesa. A ciò si aggiunge che troppe volte, in questi oltre dieci anni di pontificato, Francesco ha criticato pubblicamente le condotte della Curia romana. È come se ogni giorno il presidente del Consiglio attaccasse i suoi ministri. Va da sé che nell’esecutivo finisca per non riscuotere particolari simpatie”.

E come si traduce questa situazione nel governo del Papa?

                “In un continuo scontentare sia la destra sia la sinistra cattolica, con la prima che gli rimprovera la messa al bando della Tradizione e la seconda lo scarso coraggio. La questione della benedizione delle coppie omosessuali è paradigmatica: da un lato, Bergoglio le approva, dall’altro, subito dopo precisa che devono essere fatte in fretta e senza particolare pubblicità. Una sorta di ’vorrei ma non posso’ che fatica a conciliarsi con il senso ultimo della religione. Chi crede in una fede ha bisogno di punti fermi”.

Sull’omosessualità si è arrivati addirittura ad un documento degli episcopati africani contrario sostanzialmente a quanto stabilito dal Papa. Quasi un unicum nella storia della Chiesa.

“È il segno che è venuto meno il principio di autorità, un tempo espresso nella locuzione Roma locuta, causa finita . Ma è stato lo stesso Francesco a contribuire ad affossarlo, col suo insistere sulla collegialità e la sinodalità. Purtroppo la Chiesa dimostra di non essere ancora pronta ad accogliere i cambiamenti e lui si barcamena. Se Benedetto XVI era un teologo e non un Papa, il suo successore è un profeta più che un Pontefice”.

                               Giovanni Panettiere           Quotidiano Nazionale       16 gennaio.2024

www.msn.com/it-it/notizie/italia/la-solitudine-di-papa-francesco-il-teologo-chiesa-contraria-alle-sue-riforme-ma-lui-resta-un-profeta/ar-AA1n2drU

Un’etica condivisa nell’epoca post-religiosa

Personalmente dal discorso di papa Francesco Ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno (8 gennaio 2024) ho tratto due o tre considerazioni.

www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/january/documents/20240108-corpo-diplomatico.html

  1. La prima è la radicale laicità del registro comunicativo. Il papa non parla da una cattedra sovra-elevata, in quanto portavoce di un Dio che gli parla mediante un filo diretto ed esclusivo, ma da umano pensante a umani pensanti: i quattro quinti del testo sono dedicati ai temi – intrecciati – della pace, della salvaguardia dell’ambiente e della giustizia internazionale. Se i bravi cristiani di tutte le confessioni, cattolica in primis, vorranno rimproverarlo per non aver detto che l’umanità avrà un futuro solo se si convertirà al cristianesimo, si accomodino pure: dimostreranno di non aver capito per nulla che viviamo in un’epoca postreligionale in cui solo ritrovando un’etica basilare comune si potrà sperare di non affondare irreversibilmente nell’autodistruzione. Solo chi rispetta, con convinzione teorica e coerenza pratica, i «principi razionalmente evidenti e comunemente accettati» della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) ha il diritto morale di dirsi credente, ateo o agnostico. Senza queste fondamenta antropologiche ogni professione religiosa, filosofica o politica è solo una maschera ideologica (perniciosa prima di tutto per chi la indossa ingenuamente).
  2. Una seconda considerazione riguarda le tematiche concernenti la bioetica. Rispetto agli interventi dei due papi precedenti, qui occupano il posto marginale che meritano nell’ottica di chi guarda, con saggezza, alla complessità delle tragedie in corso. Alcune di queste tematiche non sono neppure nominate esplicitamente, ma vi si fa tacita allusione, come per l’eutanasia («In ogni momento della sua esistenza, la vita umana dev’essere preservata e tutelata, mentre constato con rammarico, specialmente in Occidente, il persistente diffondersi di una cultura della morte, che, in nome di una finta pietà, scarta bambini, anziani e malati») e l’aborto procurato («la via della pace esige il rispetto della vita, di ogni vita umana, a partire da quella del nascituro nel grembo della madre»). Ed è proprio a proposito della vita del “nascituro”, che Francesco aggiunge: «Non può essere soppressa, né diventare oggetto di mercimonio. Al riguardo, ritengo deprecabile la pratica della cosiddetta maternità surrogata, che lede gravemente la dignità della donna e del figlio. Essa è fondata sullo sfruttamento di una situazione di necessità materiale della madre. Un bambino è sempre un dono e mai l’oggetto di un contratto. Auspico, pertanto, un impegno della Comunità internazionale per proibire a livello universale tale pratica». Anche autorevoli femministe, di formazione molto lontana dal mondo cattolico, hanno salutato con plauso questo passaggio. Personalmente non ho un’idea chiara e definitiva sulla questione, ma onestà intellettuale impone che qui si legga solo ciò che è scritto: che il papa condanna la “maternità surrogata” in quanto «mercimonio», effetto di un “contratto” che comporta lo «sfruttamento di una situazione di necessità materiale della madre». Su altre motivazioni (più nobili) non c’è parola. Forse Francesco condanna anche queste fattispecie, ma è certo che non lo fa in questo discorso. Se trovo prudente questo silenzio, non posso non evidenziare un altro silenzio (assai meno apprezzabile): sulla necessità imprescindibile che tutte le agenzie educative (per prima la Chiesa cattolica!) si impegnino a diffondere una cultura della prevenzione delle gravidanze e assicurino, soprattutto alle donne, l’accesso gratuito a tutti gli strumenti contraccettivi.
  3. Una terza considerazione viene suggerita dal passaggio – anche esso mediaticamente enfatizzato in queste ore – sulla Condanna della “teoria del gender”: «Purtroppo, i tentativi compiuti negli ultimi decenni di introdurre nuovi diritti, non pienamente consistenti rispetto a quelli originalmente definiti e non sempre accettabili, hanno dato adito a colonizzazioni ideologiche, tra le quali ha un ruolo centrale la teoria del gender, che è pericolosissima perché cancella le differenze nella pretesa di rendere tutti uguali. Tali colonizzazioni ideologiche provocano ferite e divisioni tra gli Stati, anziché favorire l’edificazione della pace». Non è la prima volta che il papa prende di mira questa “teoria”, ma – come nelle volte precedenti – non indica nessun riferimento a istituzioni, libri, studiosi che la sosterrebbero. Così, però, offre un vantaggio immeritato a quelle frange conservatrici, anzi reazionarie, che nella sua stessa Chiesa come in altre Chiese cristiane, lo contestano. Sono infatti intellettuali delle Destre teologiche di orientamento fondamentalista ad aver inventato la categoria “teoria del gender” per fare di molte teorie (alcune convincenti, altre opinabili, altre ancora insostenibili) un unico mazzo da bruciare al rogo. No, caro papa: su questioni delicate o si procede con il cesello o si tace del tutto. Quale bioetico o quale esponente del pensiero femminista, quale teorico del mondo LGBT+ sostiene che si debbano cancellare le “differenze” per renderci tutti «uguali»? In questo territorio culturale – che pur frequento da alcuni anni – ho incontrato esattamente tesi di segno opposto: ognuno di noi è unico e nessuno ha il diritto di omologarlo a una pretesa normalità. Ma, «se sbaglio, mi corriggerete».

Augusto Cavadi°                      Adista notizie n. 2           20 gennaio 2024

° co-dirige, con la moglie Adriana Saieva, la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo. Ha pubblicato, tra l’altro, “Il Dio dei mafiosi” (2009), “Dio visto da Sud” (2021) e “O religione o ateismo? La spiritualità ‘laica’ come fondamento comune” (2021)

www.adista.it/articolo/71237

Papa Francesco: “La castità non va confusa con l’astinenza sessuale”

Dopo le critiche dei tradizionalisti al cardinal Fernandez il Papa ricorda che “nel cristianesimo non c’è una condanna dell’istinto sessuale”. Ma mette in guardia da un uso sconsiderato della sessualità e dalla ‘cosificazione’ dell’altro, evidente nella “cronaca di tutti i giorni”

www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240117-udienza-generale.html

“Nel cristianesimo non c’è una condanna dell’istinto sessuale”, il piacere sessuale “è un dono di Dio” e la castità non va confusa con l’astinenza sessuale: queste lea puntualizzazioni di papa Francesco che nel corso dell’udienza generale ha proseguito un ciclo di catechesi dedicato ai vizi e alle virtù concentrandosi sulla “lussuria” e mettendo in guardia da un uso sconsiderato della sessualità, in particolare nel caso delle “relazioni tossiche” messe in luce dalla “cronaca di tutti i giorni”.

I tradizionalisti contro Fernandez. Di recente un libro scritto alcuni decenni fa dal nuovo prefetto del dicastero per la Dottrina della fede, nel quale il cardinale argentino Victor Manuel Fernandez, molto vicino al Papa, descriveva l’orgasmo nel quadro di una trattazione sull’estasi mistica, ha scatenato l’indignazione dei cattolici tradizionalisti.

Le canzoni sull’innamoramento. “Gli antichi padri ci insegnano che, dopo la gola, il secondo demone che sta sempre accovacciato alla porta del cuore è quello della lussuria”, ha detto oggi Jorge Mario Bergoglio. “Mentre la gola è la voracità nei confronti del cibo, questo secondo vizio è una sorta di “voracità” verso un’altra persona, cioè il legame avvelenato che gli esseri umani intrattengono tra di loro, specialmente nella sfera della sessualità. Si badi bene: nel cristianesimo non c’è una condanna dell’istinto sessuale. Un libro della Bibbia, il Cantico dei Cantici, è uno stupendo poema d’amore tra due fidanzati. Tuttavia, questa dimensione così bella della nostra umanità – la dimensione sessuale, la dimensione dell’amore – non è esente da pericoli, tanto che già san Paolo deve affrontare la questione nella prima lettera ai Corinzi. Scrive così: “Si sente da per tutto parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani”. Il rimprovero dell’Apostolo riguarda proprio una gestione malsana della sessualità da parte di alcuni cristiani”.

L’innamoramento sentimento puro se non inquinato. Francesco ha descritto in termini positivi l’innamoramento: “E’ una delle realtà più sorprendenti dell’esistenza. Buona parte delle canzoni che si ascoltano alla radio riguardano questo: amori che si illuminano, amori sempre ricercati e mai raggiunti, amori carichi di gioia, o che tormentano fino alle lacrime. Se non viene inquinato dal vizio, l’innamoramento è uno dei sentimenti più puri. Una persona innamorata diventa generosa, gode nel fare regali, scrive lettere e poesie. Smette di pensare a sé stessa per essere completamente proiettata verso l’altro. È bello questo. E se chiedete a un innamorato per quale motivo ami, non troverà una risposta: per tanti versi il suo è un amore incondizionato, senza nessuna ragione. Pazienza se quell’amore, tanto potente, è anche un po’ ingenuo: l’innamorato non conosce veramente il volto dell’altro, tende a idealizzarlo, è pronto a pronunciare promesse di cui non coglie subito il peso”.

La castità non va confusa con l’astinenza. Questo “giardino dove si moltiplicano meraviglie” non è però “al riparo del male”, ha detto il Papa, che ha sottolineato come esso “viene deturpato dal demone della lussuria”. Un vizio “particolarmente odioso, almeno per due motivi”. Perché “devasta le relazioni tra le persone: per documentare una realtà del genere – ha notato Bergoglioè sufficiente purtroppo la cronaca di tutti giorni. Quante relazioni iniziate nel migliore dei modi si sono poi mutate in relazioni tossiche, di possesso dell’altro, prive di rispetto e del senso del limite? Sono amori – ha detto ancora il Papa – in cui è mancata la castità: virtù che – ha precisato – non va confusa con l’astinenza sessuale, no, bensì va connessa con la volontà di non possedere mai l’altro. Amare è rispettare l’altro, ricercare la sua felicità, coltivare empatia per i suoi sentimenti, disporsi nella conoscenza di un corpo, di una psicologia e di un’anima che non sono i nostri, e che devono essere contemplati per la bellezza di cui sono portatori. La lussuria, invece, si fa beffe di tutto questo: depreda, rapina, consuma in tutta fretta, non vuole ascoltare l’altro ma solo il proprio bisogno e il proprio piacere”.

La “cosificazione” dell’altro e la lussuria. E poi – seconda ragione per cui “la lussuria è un vizio pericoloso” – “tra tutti i piaceri dell’uomo, la sessualità ha una voce potente. Coinvolge tutti i sensi; dimora sia nel corpo che nella psiche: e questo è bellissimo, ma se non disciplinata con pazienza, se non iscritta in una relazione e in una storia dove due individui la trasformano in una danza amorosa, essa si muta in una catena che priva l’uomo di libertà. Il piacere sessuale, che è un dono di Dio – ha rimarcato Francescoè minato dalla pornografia: soddisfacimento senza relazione che può generare forme di dipendenza. Dobbiamo difendere l’amore del cuore, della mente, del corpo, amore puro del donarsi l’uno l’altro, e questa è la bellezza del rapporto sessuale”. Vincere la “battaglia contro la lussuria, contro la cosificazione dell’altro, può essere un’impresa che dura tutta una vita, ha detto il Papa: “Però il premio di questa battaglia è il più importante in assoluto, perché si tratta di preservare quella bellezza che Dio ha scritto nella sua creazione quando ha immaginato l’amore tra l’uomo e la donna, che non è per usare l’uno l’altro ma per amarsi”. E “se non c’è l’amore, la vita è triste solitudine”.

Iacopo Scaramuzzi          La repubblica    17 gennaio 2024

www.repubblica.it/cronaca/2024/01/17/news/papa_francesco_piacere_sessuale_dono_di_dio_relazioni_tossiche_lussuria-421895187

Francesco sul sesso «Il piacere non è un peccato». La teologa: svolta nel linguaggio

                               intervista a Marinella Perroni

Il male non è il sesso, ma la lussuria, «la cosificazione dell’altro». Un demone che deturpa il piacere sessuale, di per sé «dono di Dio». Il Papa esplicita ancor più la sua presa di distanza dalla visione oscurantista della sessualità che ha dominato per secoli la dottrina cattolica, almeno fino al Vaticano II. Lo fa dando seguito alle sue catechesi sui vizi e le virtù cristiane e parlando, primo Pontefice a dirlo senza equivoci, della virtù della castità da non confondere con l’astinenza sessuale: «È la volontà di non possedere l’altro».

Professoressa, sta mutando il linguaggio della Chiesa sulla sessualità?

  *1947 «È cambiato e lo dimostra anche l’udienza generale di ieri del Papa. Si è fatta largo una visione positiva della sessualità – risponde Marinella Perroni, docente emerita di Nuovo Testamento al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma -. In passato abbiamo avuto grosse riserve sul sesso e il piacere sessuale, sì pensi solo alla riflessione dei padri della Chiesa e di Sant’Agostino, in particolare, che ha dominato per secoli. Oggi, invece, si è recepito il cambiamento antropologico e culturale in materia. La sessualità è vista come un’espressione dell’umano al cui interno si possono annidare le scelte per il bene come quelle per il male. Non diversamente e non più delle altre dimensioni della nostra vita».

Insomma il sesso non è più l’unico ricettacolo dei peccati da confessare?

                «Si, non è la sfera condannata per eccellenza. Ha un repertorio molto vasto di opzioni del male, dal possesso alla “cosificazione” e la mercificazione dell’altro, ma può essere anche un’occasione di realizzazione del bene»

                Che cosa spinge Bergoglio ad impiegare un lessico più diretto e colloquiale sull’affettività, a lungo ritenuta tabù dalla Chiesa?

«Questo è il suo approccio pastorale e magisteriale su ogni argomento, non esclusa la sessualità. Il papa privilegia un tratto colloquiale, cerca una conversazione, vuole l’incontro con le persone, con tutti i rischi connessi a questo stile».

Quali?

«La colloquialità procede per approssimazioni, non per affermazioni. Può portare anche a delle ambiguità. Bergoglio tuttavia ha scelto questo genere di approccio che sta diventando anche magisteriale. Quest’ultimo termine, pur se perde un po’ di rilevanza, finisce per esprimere uno spazio in cui si può conversare e non versare solo»

Come si spiega questo parlare del Papa sulla sessualità da non condannare senza però alcun riferimento al matrimonio che, Catechismo alla mano, resta la cornice unica di una relazione affettiva in senso cristiano?

                «Pur se la Chiesa si rifiuta di tematizzare la sessualità alla luce delle nuove prospettive antropologiche e sociologiche, potrebbe finalmente essere un’indicazione secondo la quale le nozze non sono più il solo contesto in cui supporre il sesso. Piuttosto è la sessualità a rappresentare uno spazio all’interno del quale si colloca anche la dimensione del matrimonio. Lo scostamento rispetto al passato è in corso. Quanto al Catechismo, ha più di trent’anni, non è un documento qualsiasi, è vero, ma non è infallibile ed è uno strumento che sta dentro la grande riflessione teologica e dottrinale della Chiesa, non viceversa».

Le nozze, però, restano l’ambito privilegiato della sensualità?

«Sì, rimangono la forma auspicata per un vissuto di relazione nell’ottica cristiana»

Ha fatto bene Francesco a chiarire che la castità è altro dall’astinenza sessuale?

«Sì, ma va sempre ricordato che questo senso del rispetto per gli altri secondo Gesù non è limitato al sesso. Esiste anche, per esempio, sul fronte del linguaggio. I social mettono a dura prova questa forma di castità

L’insistere del Papa contro la lussuria, con rimando ai fatti di cronaca nera dei nostri giorni, testimonia una crescente sensibilità della Chiesa sui femminicidi?

«Questa non può non crescere di fronte allo tsunami che si sta abbattendo sulla società. Il problema non è essere sensibilmente coinvolti, ma il trovare le parole giuste per entrare dentro il fenomeno, capirne le radici ed individuare le modalità giuste per affrontarlo. E a riguardo i vescovi non sono tutti uguali».

Giovanni Panettiere       Quotidiano Nazionale 19 gennaio 2024

www.msn.com/it-it/notizie/italia/papa-francesco-sul-sesso-il-piacere-non-%C3%A8-un-peccato-la-teologa-svolta-nel-linguaggio/ar-AA1n9Ura

www.alzogliocchiversoilcielo.com/2024/01/papa-francesco-sul-sesso-il-piacere-non.html#more

MATERNITÀ

Sull’atto di nascita la madre può essere una sola: lo conferma la Cassazione

Il pubblico ufficiale, nel redigere l’atto di nascita di un minore nato in Italia, non può indicare quali genitori persone dello stesso sesso ed è pertanto legittimo il suo rifiuto al ricevimento della dichiarazione di riconoscimento da parte della c.d. “madre intenzionale”. La Cassazione, con l’ordinanza n. 511/2024 pubblicata l’8 gennaio 2024, ha ribadito che gli atti di nascita formati in Italia non possono contenere l’indicazione di due “mamme” poiché detta indicazione contrasterebbe con quanto previsto dall’ordinamento italiano[1] .

https://i2.res.24o.it/pdf2010/S24/Documenti/2024/01/09/AllegatiPDF/511_2024_ORDINANZA.pdf

Gli atti di competenza degli ufficiali di stato civile, fra cui gli atti di nascita di persone nate in Italia, devono essere formati nel rispetto di quanto previsto dalla legge italiana e più precisamente dal DPR n. 396/2000.

www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legge:2000-10-03;396~art89

Le norme che disciplinano la formazione di questi atti sono “ad applicazione necessaria” in quanto hanno la funzione di regolare l’attività della pubblica amministrazione. Ne deriva che l’ufficiale di stato civile non ha alcuna discrezionalità operativa: deve applicare la legge e deve rispettare i limiti che l’ordinamento ha previsto in merito alla sua attività, fra cui il divieto di enunciare negli atti che forma «dichiarazioni e indicazioni diverse da quelle che sono stabilite e permesse da ciascun atto» (art. 11, comma 3 del DPR n. 396/2000). Gli atti dello stato civile sono inoltre “atti a contenuto vincolato” in quanto, secondo il disposto dell’art. 12 del DPR n. 396/2000, devono essere redatti «secondo le formule e le modalità stabilite dal Ministro dell’Interno».

                Sulla base di queste considerazioni, la Prima Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, ha ribadito che è legittimo il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile alla richiesta di indicare nell’atto di nascita, oltre al nome della madre del bambino (ossia colei che lo ha partorito), anche il nome di un’altra donna quale “madre intenzionale”, poiché la legge italiana non lo consente (l’art. 250 cod. civ. fa infatti riferimento a genitori di sesso diverso: «il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dal padre e dalla madre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento»).

La Cassazione ha così posto fine ad un contenzioso iniziato nel 2016 e che aveva tratto origine dalla pretesa di due donne unite civilmente (una di nazionalità italiana e l’altra statunitense) di ottenere un certificato di nascita recante entrambe come madri del bambino che era stato partorito in Italia da una delle due a seguito di fecondazione eterologa eseguita all’estero (Danimarca), con l’accordo di entrambe.

                L’ufficiale di stato civile di Pisa, applicando correttamente la legge, si era rifiutato di ricevere la dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale da parte della c.d. “madre intenzionale”. Le due donne si erano allora rivolte al Tribunale di Pisa, chiedendo l’accertamento dell’illegittimità del rifiuto dell’ufficiale di stato civile e la rettificazione dell’atto di nascita con l’indicazione di entrambe come genitori del bambino.

Le domande erano state respinte dal giudice di primo grado, che aveva ritenuto corretto l’operato dell’ufficiale di stato civile, osservando che la legittimità del rifiuto opposto si fondava sui limiti previsti dalla legge 40/2004, che non ammette la fecondazione eterologa per le coppie formate da persone dello stesso sesso (cfr. art. 5, secondo cui «possono accedere  alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di  maggiorenni  di  sesso  diverso,  coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi»), limite che la Consulta, come noto, ha riconosciuto pienamente conforme ai principi costituzionali (cfr. Corte cost. n. 221/2019).

Proposto dalle due donne il reclamo avverso la sentenza di primo grado, la Corte di Appello di Firenze accoglieva le loro doglianze, ritenendo che la fattispecie fosse riconducibile all’art. 33 della legge 218/1995 (legge che disciplina il diritto internazionale privato) in materia di filiazione – in ragione della cittadinanza americana della madre biologica del bambino – con la conseguenza di poter applicare la legge statunitense anziché la legge italiana.

La Cassazione ha tuttavia ritenuto errata, sotto diversi profili, l’impostazione della Corte di Appello, la quale ‒ si legge nell’ordinanza n. 511/2024 (p. 16) − ha realizzato «una evidente violazione di legge perché ha consentito la formazione, attraverso un’operazione interpretativa della normativa americana, di un atto di nascita di un bambino nato in Italia con l’applicazione diretta del diritto straniero, laddove ciò non è consentito all’ufficiale di stato civile in ragione del precipuo e limitato esercizio dei poteri di carattere pubblico attribuitigli, da cui esorbitano quelli costitutivi dello status filiationis, status che può conseguire alla diretta applicazione della legge nazionale ex art. 231 e seg. cod. civ.  ed ex lege n. 40/2004, ove ne ricorrano i presupposti ivi previsti».

                La Suprema Corte ha pertanto cassato senza rinvio la decisione della Corte di Appello di Firenze, con il rigetto dell’originaria domanda ed ha condannato le due donne alla refusione delle spese dell’intero giudizio.

Daniela Bianchini            Centro studi Livatino     12 gennaio 2024

www.centrostudilivatino.it/sullatto-di-nascita-la-madre-puo-essere-una-sola-lo-conferma-la-cassazione

RELIGIONE

Avere fiducia Cristiani oggi. Dovremmo avere un aspetto più redento

Essere cristiani di fronte alle minacce del nostro tempo: angoscia per la mancanza di senso e paura del futuro. Un uomo anziano siede tranquillo in un banco della bella chiesa carolingia di San Giorgio sull’sola di Reichenau (Lago di Costanza) e osserva l’ambiente; poi ci parla. Le frasi inizialmente amichevoli lasciano improvvisamente il posto ad osservazioni da populismo di destra xenofoba. Anche dopo settimane, non riesco a togliermelo dalla testa. Da quanto mi ha detto, ho capito che è felice per la nipotina, che non ha preoccupazioni economiche come insegnante in pensione e può permettersi di viaggiare liberamente con il suo camper. In un discorso cupo, maledice ciò che conosce e reagisce con panico a ciò che non conosce.

Gli storici Ewald Frie e Mischa Meier affermano che il nostro continuo parlare di crisi è segno della speranza di una “controllabilità tecnica” di fronte al pericolo e all’incertezza. Nel loro libro “Thinking Crises Differently” (Propyläen, Berlino 2023), parlano di “minacce”. Prendono sul serio il fatto che la paura e la rabbia nascono proprio quando non crediamo più di poterle controllare, ma siamo invece sicuri di chi sia il responsabile di tutto: i semafori, i vecchi partiti, gli arabi – o i vecchi capitalisti bianchi, che accusiamo della catastrofe climatica e delle guerre. Una minaccia dall’esito incerto crea una dinamica sociale se riesce a conquistare la priorità comunicativa nella sfera pubblica, rendendo plausibile l’urgenza e mettendo in moto forze che procedono per inerzia. E non è una cosa armoniosa: le opportunità che alcuni vogliono cogliere sono viste come un rischio da altri.

I confini tra attivismo, violenza e contro-violenza vengono rapidamente superati. Gli altri sono considerati o soggetti solidali o nemici del nostro stare bene. O suscitano il nostro impegno o attirano il nostro odio. La paura e il risentimento aumentano perché l’allarme viene costantemente suonato in nuovi luoghi. Il peggio della pandemia di coronavirus era appena alle spalle quando la guerra è tornata in Europa. Il numero delle vittime degli scontri è in costante aumento. 100 miliardi di euro sarebbero meglio investiti in turbine eoliche e pompe di calore, in asili nido e contrasto alla povertà infantile, piuttosto che in attrezzature belliche, se non dovessimo fare i conti con dittatori che rifiutano di accettare i confini. Non appena abbiamo creduto che l’Occidente fosse almeno solidale con i suoi valori, l’opinione pubblica è precipitata in uno scontro di civiltà in cui domina l’insensibilità verso le vittime. Il terrore alimentato dall’odio di Hamas, cinico sia nei confronti del popolo ebraico che di quello palestinese, e la risposta scontata dello Stato israeliano, terribile nella portata della sua contro-violenza, ci tolgono la possibilità di dare una risposta attendibile o essere in grado di dare una mano, di essere d’aiuto. Sia gli ebrei che i musulmani si sentono minacciati e si sentono lasciati soli nel loro orrore e nel loro dolore perché l’ambiguità del conflitto mediorientale non può essere tollerata, l’empatia esiste solo in modo unilaterale, e ognuno conta solo le proprie vittime, sempre solo contro gli altri. Comunque, mentre già fatichiamo a credere di poter trovare una risposta al Covid, ai cambiamenti climatici e alla guerra, ora dobbiamo anche temere il ritorno di uno spietato Trump alla Casa Bianca e il dominio delle autocrazie sulla scena mondiale. Nessuno di questi due poteri orienterà il mondo verso maggiore umanità o verso scelte rispettose del pianeta e del clima. E intere regioni del mondo con i loro popoli saranno dimenticate se ci concentriamo solo sui centri di potere.

In un mondo in cui l’ordine è minacciato e si rischia il caos, molte persone sviluppano atteggiamenti depressivi o aggressivi. Se ci si limita ad una visione ristretta al nostro piccolo mondo, si perde di vista il problema che riguarda molte persone in questo Paese: non ci si chiede più se tante persone non se la passano bene, né se c’è ancora giustizia per molti altri. “Il risentimento su piccola scala alimentato da ogni minimo cambiamento non aiuta affatto, proprio come l’autocommiserazione su larga scala con cui ci lamentiamo per tutto ciò che ci viene

richiesto“, scrive la giornalista Carolin Emcke. Quanto è diffusa l’angoscia per la mancanza di un senso della vita che potrebbe cambiare davvero le nostre vite?Questo è il nostro tempo. Accogliamolo“.

Il cristianesimo è in declino. La diminuita adesione alle chiese rivela che il cristianesimo organizzato non è attualmente in grado di costruire una vera e propria forza antagonista. Le persone abbandonano le chiese protestanti per indifferenza. Le parrocchie cattoliche stanno diminuendo, e questa è una differenza importante, perché i cattolici sono indignati, e le cattoliche sono discriminate e arrabbiate.

L’ambiente cattolico come struttura relativamente stabile di credenze e modi di vita era giunto al termine già negli anni Cinquanta; il Concilio Vaticano II non è stato una causa del suo declino, ne è stato piuttosto un’espressione. Il profondo mutamento religioso iniziato negli anni Sessanta ha chiuso il cattolicesimo in una memoria culturale contraddittoria, vissuta in alcuni ambienti come una forte perdita, in altri ambienti come una dinamica di liberazione.

Tre tendenze, dagli anni ’60 agli anni ’90, hanno preparato il terreno per la situazione odierna:

  1. In primo luogo, è diventata una pratica diffusa fare una teologia della vita quotidiana. L’autostima delle donne cristiane “moderne” e dei cristiani “illuminati” è stata caratterizzata dalla formazione personale delle convinzioni religiose piuttosto che dall’apprendimento catechistico. Le fonti dell’autorità religiosa non provenivano più dal magistero, ma dal dialogo pubblico sulla Bibbia e sulla fede. Le norme morali della vita quotidiana, soprattutto la morale sessuale, sono diventate una questione di coscienza individuale.
  2.  In secondo luogo, questo ha portato a un cambiamento nei ruoli e nei riti. Il “reverendo” è diventato un manager parrocchiale e uno psicologo religioso; le donne hanno sempre più rifiutato il ruolo di “serve” e rivendicato una partecipazione attiva.
  3. In terzo luogo, i confini sociali che separavano i mondi cattolici dal resto della società sono caduti. La comunitarizzazione è emersa al di là dei club e delle associazioni. Vivere da cristiani significava fare rete con la società civile per promuovere il movimento per la pace e l’ambiente e la giustizia globale. I giovani tendevano ad aderire ai Verdi piuttosto che alla CDU. Anche se non sincronizzate, tendenze simili possono essere descritte anche per il protestantesimo.

Tuttavia, queste tendenze sono così contraddittorie che la Chiesa cattolica è attualmente molto preoccupata di sé stessa. Lo scandalo degli abusi e degli insabbiamenti di abusi sta imponendo la richiesta di abbattere finalmente la struttura di potere clericale di uomini celibi e non solo di intraprendere percorsi sinodali, ma anche di portarli a compimento. D’altra parte, c’è un conservatorismo ben organizzato che vuole rendere generalmente vincolante e unico “vero” cattolicesimo la spinta perseguita da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Un conservatorismo che ha alzato la voce in modo infruttuoso. Infruttuoso, perché i contatti con i movimenti sociali rilevanti sono stati spesso interrotti. E alzare la voce e gridare, ci impedisce di ascoltare, non solo di ascoltarci l’un l’altro, ma anche di ascoltare quelle interruzioni inaudite (Johann Baptist Metz) che potrebbero permettere al Vangelo di girare nella ruota del mondo e della Chiesa. Crediamo davvero ancora che con la nascita di un certo bambino il mondo abbia assunto un volto diverso? Che le persone siano liberate da una insensata servitù a vita e dalla servile obbedienza alla fede, ma liberate anche in vista di qualcosa di più di una semplice convinzione di diritti individuali? Liberate addirittura dal peccato e dalla morte?

Solo la libertà ci permette di agire Solo la libertà ci permette di tornare ad agire positivamente di fronte alle minacce. Una libertà non priva di amore – e non solo amore senza libertà (Ottmar Fuchs). Una libertà non formulerebbe richieste di piaceri della vita, ma una disponibilità ad essere onesti. Una tale libertà non fornirebbe spazi sicuri, ma sarebbe disponibile ad affrontare dei rischi. La libertà senza attriti, senza avversari, è una libertà che non conta perché non costa nulla (Jean-Paul Sartre). La libertà di fronte al mondo supererebbe l’ansia per la mancanza di senso e la paura del futuro. Nel migliore dei casi, sembreremmo più redenti e agiremmo con più coraggio. Ci sono degli elementi nel cuore del cristianesimo che favoriscono tutto ciò. La Bibbia è il libro in cui le minacce si affrontano di fronte a Dio: le persone possono lasciare le case da schiavi delle loro privazioni e oppressioni, anche se la terra migliore è accessibile solo superando deserti. Le persone possono, anzi devono, cantare canti di Dio di fronte ai loro oppressori, perché solo questi canti parlano ancora della loro dignità. La parola profetica non lascia in pace né il potere né la routine. Nella sofferenza incommensurabile, il lamento in Dio deve poter avere ancora una direzione.

Nella vita e nella morte di Gesù di Nazareth, Dio dà un’indicazione sull’uso della libertà: Dio osa assumere la nostra umanità. Dio rischia tutto di fronte al “gemito della natura“, come lo chiama San Paolo, e di fronte alle croci che la storia umana pone ovunque. Gesù vive questa realtà con tutti i suoi attriti e le sue resistenze per non limitarsi ad annunciare il “regno di Dio“, ma per incarnarlo. Ciò che è liberatorio per molti e minaccioso per altri, alla fine ha portato alla denuncia, all’uso scorretto della legge e all’omicidio giudiziario, ma poi alla speranza e alla certezza che la morte non ha l’ultima parola. D’ora in poi, la vita di una persona dovrebbe essere giudicata in base al fatto che la sua esistenza ha aumentato o diminuito le possibilità di vita degli altri. Il pane e il vino sono un modo per condividere la vita di Gesù e per non perdere la speranza di fronte alla morte. Dopo più di 2000 anni, il cristianesimo dovrebbe aver imparato, attraverso l’amarezza e la vergogna, a non dare più spazio al fanatismo e alla violenza.

Un ritorno al cuore del cristianesimo aiuterebbe a porre fine a molte dispute interne. Non è sufficiente affermare che i dibattiti ecclesiali devono essere messi da parte e che la fede deve essere nuovamente proclamata. Certo non per tornare alla fine all’obbedienza infantile alla Chiesa e per abbandonare la richiesta di riforme strutturali. I valori fondamentali del cristianesimo sono utili di fronte alle minacce del nostro tempo solo se ci asteniamo dal concepire l’ecclesialità come univocità. Il cristianesimo protestante è stato plurale in sé dalla Riforma, ma anche in questo caso molto di più sarebbe possibile se i cristiani di tutte le tendenze riuscissero a superare l’ostinato accanimento e il meschino dogmatismo di confondere il proprio senso della fede con il vero cristianesimo. Per dire le cose concretamente: che coloro che partecipano al perdono dei peccati e al mistero di Cristo in una celebrazione in lingua latina siano in grado di permettere ad altri di intravedere la bellezza e la profondità della presenza di Dio anche in un linguaggio appropriato al genere. Chi non volesse assistere a una Messa presieduta da una donna, potrebbe astenersi dal farlo senza immaginare che ciò porti alla morte della Chiesa. Coloro che propagandano una “Chiesa dal basso” potrebbero evitare di ridicolizzare il rosario e la devozione mariana come bigottismo. La generazione plasmata dal Concilio potrebbe astenersi dal desiderare che la Chiesa nel suo complesso sia come l’aveva sognata mezzo secolo fa. I giovani dovrebbero parlare più apertamente del tipo di cristianesimo che vorrebbero vivere e trovare lo spazio per viverlo. Coloro che non vedono più una cattolicità mondiale come uniformità potrebbero consentire alle diverse chiese locali le forme di vita più favorevoli alla fede, all’amore e alla speranza. Per ottenere ciò, e questa sembra essere la cosa più difficile, dovremmo smettere di considerare il potere centralizzato come un servizio completo. Non serve più accettare un’autorità di questo tipo. Ma non ci porta nemmeno più lontano l’incapacità di staccarci dalla sua continua esistenza.

L’ora dell’ecumenismo globale. I cristiani potrebbero superare l’angoscia per la mancanza di senso e la paura del futuro in modo molto più efficace se trovassero un’intesa con gli ebrei, i musulmani e tutte le persone di buona volontà sulle richieste politiche e sociali fondamentali. Il progetto di “etica globale” dovrebbe formare un movimento di massa. Cosa potrebbe essere più impressionante di ciò che le religioni hanno in comune? Non vogliamo più fare sacrifici di sangue a un’unica ideologia. Non vogliamo più sfruttare e non vogliamo più essere sfruttati. Vogliamo un mondo abitabile per i nostri figli e per tutti i bambini. I vivi possono servire Dio, i morti no. I liberi possono fare la differenza, gli umiliati no. Siamo persone religiose perché crediamo che il mondo e le persone abbiano un futuro. Di fronte alle minacce del nostro tempo, non si tratta tanto di ciò che le religioni insegnano, ma di come le persone religiose vivono. Quanto sembriamo redenti? Quanto siamo liberi e impavidi di fronte al mondo?

   Andreas Holzem, nato nel 1961, è professore di Storia della Chiesa medievale e moderna presso la Facoltà di Teologia cattolica dell’Università di Tubinga.

 “www.publik-forum.de” del 9 gennaio 2024 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202401/240120holzem.pdf

RIFLESSIONI

Riflessioni sull’anno che si apre

Sotto l’apparente superficialità del quotidiano che sembra scorrere sempre uguale, in realtà scorre, in modo indefinito e spesso indefinibile, il fiume sotterraneo di un tempo benedetto.

                La storia umana è meravigliosamente segnata da una tensione che ne impedisce l’appiattimento: non è mai soltanto uno scorrere delle ore e dei giorni, perché fin dentro le pieghe della più piccola e nascosta dimensione della vita, da quando Gesù è venuto al mondo, abita la stessa presenza di Dio. Una storia sacra scorre ininterrotta intersecando la nostra storia umana. Dio e l’umano sono stati per sempre ricongiunti nella carne di Cristo e camminano verso l’unica mèta.

Tra il panorama di Dio e le strettoie umane non c’è più separazione irreparabile: in Cristo Gesù, ciò che era lontano è diventato vicino (cf. Ef 2,13). Ed è questa la visione che ogni primo giorno di ogni nuovo anno ci viene proposta: quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio (cf. Gal 4,4). L’apostolo Paolo è perentorio: il nostro tempo non è il monotono scorrere degli attimi cronologici, ma è occasione propizia, momento favorevole, tempo «pieno», perché abitato da Dio e dalla sua benedizione.

Il futuro che ci viene incontro. La moderna ed euforica cornice entro cui viviamo l’ultimo giorno dell’anno e il nuovo tempo che si apre non è sempre adatta a farci cogliere questa realtà; la scaramanzia, l’incontinente pioggia di auguri, di spumante e fuochi d’artificio può darci per un istante il brivido della festa, ma facilmente finisce per distrarci e per stordirci, chiudendoci nell’illusione di tutti i buoni propositi che, poi, nell’anno in corso, saranno puntualmente smentiti dalla realtà e, spesso, dalla nostra insolente pigrizia.

Nutriamo giustamente attese e aspettative, ma il «nuovo inizio» sarà già vecchio se rimane incastonato soltanto nei nostri ideali, nelle formule scaramantiche per augurarsi la fortuna o nella professionale e colossale bugia degli oroscopi.

È nuovo inizio ogni anno che si apre perché il tempo, da quando Gesù è venuto sulla terra, è pieno di Dio, è colmo di significati da rintracciare, è attraversato da una speranza sommersa che sempre siamo chiamati a disseppellire. Il Cristo è Colui che sta dietro di noi perché è venuto duemila anni fa, è anche Colui che sta sempre con noi oggi ed è sempre Colui che deve venire domani.

È Lui che impedisce al tempo il dramma della ripetizione ciclica, è Lui dischiude il futuro davanti a noi come tempo in cui nuovamente verrà, nuovamente e in molti modi ci parlerà, nuovamente ci strapperà dalle tenebre e inquieterà i nostri animi spenti per accenderli di passione per la vita, di amore i nostri simili, di attenzione per i deboli, di cura per il creato e le creature tutte.

Quali nuovi inizi? Da questa prospettiva, il nuovo anno non sarà più un semplice giro di calendario. Sarà un anno migliore? Sarà davvero tempo favorevole per la mia vita, per la Chiesa, per la società? Dipende molto da noi, dalla nostra attesa di Colui che deve venire e verrà ancora, da come ci misureremo con Lui.

Nella nostra vita. Un nuovo inizio è urgente nel modo di pensare e interpretare la nostra vita. Ha scritto di recente Tomáš Halík: «A volte penso che la nostra civiltà abbia perso il senso della gioia, di una gioia profonda biblicamente intesa e che questo deficit sia stato nascosto da una serie di surrogati a buon mercato».

Si fa un gran parlare – purtroppo anche nella predicazione religiosa e cristiana – di situazioni, gesti e atti che sarebbero moralmente discutibili e perciò pericolosi, ma l’attenzione rimane –come se nel frattempo non fosse mutato l’orizzonte antropologico e culturale – su alcune dimensioni della vita privata, della sfera intima e spesso di quella sessuale.

Nonostante la ricchezza del Magistero, non ultimo quello di Francesco, non abbiamo ancora messo al centro della nostra critica profetica il neopaganesimo che pervade la nostra mentalità e che si è ormai insinuato nelle pieghe più nascoste delle nostre metropoli: il principio della merce di scambio che regola le relazioni e sovverte le priorità e i valori della vita, spingendoci all’adorazione del consumismo, vero vitello d’oro innalzato nelle cattedrali del commercio e della pubblicità.

Lo stordimento che ne deriva restringe i nostri desideri profondi, ci proietta a vivere all’esterno e perciò in superfice e, proprio così, ci toglie la gioia. Come dice Meister Eckhart, l’uomo esteriore si perde fin quando dalla distrazione in cui si trova non riesce a scendere nel santuario interiore della propria vita.

Nella Chiesa. Un nuovo inizio è urgente anche nella nostra Chiesa. Si procede certamente a piccoli passi, purché non facciamo della necessaria gradualità pastorale un alibi per restare immobili, fissati nel passato, abili giocolieri del «non smuovere nulla» per restare tranquilli.

Già qualche tempo fa, il teologo tedesco Medard Kehl aveva offerto nel suo libro “Dove va la Chiesa” una disamina di alcune questioni ecclesiali non risolte e di sfide importanti che la Chiesa dovrebbe affrontare per superare il proprio conflitto con la modernità e cercare forme nuove per l’incarnazione e la trasmissione della fede.

È interessante che di recente anche Enzo Bianchi e un altro teologo tedesco, Gisbert Greshake, abbiano dato alle rispettive riflessioni un titolo uguale o simile. Il fondatore della Comunità di Bose afferma che siamo in un’epoca post-cristiana, di profonda indifferenza verso la ricerca di Dio; ma, al contempo, mentre occorrerebbe guardare a Gesù di Nazaret, al suo stile, al suo tratto umano, purtroppo le nostre comunità cristiane si sono assestate su alcuni valori e alcune prassi etiche, col rischio di ridurre la fede a una morale, a una dottrina, o a un semplice abito religioso.

Anche i recenti dibattiti all’interno della cristianità su questioni delicate, molto più complesse di quanto riesca a dire un articolo del catechismo e spesso non prive di vissuti segnati dalla sofferenza, restano prigionieri di un approccio legalistico, dove la prima domanda e preoccupazione è cosa sia giusto o sbagliato, idoneo oppure no, invece che essere: come sono guardate da Dio queste persone e cosa possiamo fare noi per loro?

Spiace dirlo, ma il Vangelo, con la sconcertante lacerazione della Legge che Gesù provoca incontrando personaggi improbabili come Matteo, Zaccheo o l’adultera, sembra che debba ancora venire.

Nella società. Un nuovo inizio è urgente nella nostra società, e la cosa appare tristemente scontata se consideriamo le drammatiche condizioni dell’Ucraina e del Medio Oriente, senza dimenticarci di altre parti del mondo, dove sono scoppiati nuovi conflitti e si moltiplicano le violenze.

Possediamo molti mezzi e molte possibilità, eppure non riusciamo a evitare l’escalation di rivalità e conflitti, di vecchi rancori e sentimenti di odio ancorati a interessi economici e nazionalismi di ogni genere. Una società pacifica, fondata sulla reciproca accoglienza e convivenza dei popoli nella cornice di un contesto planetario finalmente emancipato dalla guerra, rimane un’utopia.

Sul tema, anche da parte credente, non mancano i distinguo e le ambiguità, rispetto ai quali si staglia la voce del Pontefice, che non si limita a sognare e incoraggiare la nascita di un mondo in cui tutti si riscoprano fratelli, ma nell’Urbi et Orbi di quest’anno ha anche tuonato contro il commercio delle armi, affermando: «per dire “no” alla guerra bisogna dire “no” alle armi…Oggi, come al tempo di Erode, le trame del male, che si oppongono alla luce divina, si muovono nell’ombra dell’ipocrisia e del nascondimento: quante stragi armate avvengono in un silenzio assordante, all’insaputa di tanti! La gente, che non vuole armi ma pane, che fatica ad andare avanti e chiede pace, ignora quanti soldi pubblici sono destinati agli armamenti. Eppure dovrebbe saperlo! Se ne parli, se ne scriva, perché si sappiano gli interessi e i guadagni che muovono i fili delle guerre» (Papa Francesco, Benedizione Urbi et Orbi, 25 dicembre 2023).

Cosa rispondono i Governi e gli Stati? E come si impegnano i cattolici nelle sfide politiche, culturali e sociali che incombono?

                Un nuovo parto della storia? Un nuovo inizio è l’augurio che ci facciamo. Un gran testimone della fede del Novecento, come Carlo Carretto, già nel lontano 1971 scriveva che «siamo entrati forse nell’epoca più drammatica della storia del mondo e della Chiesa. […] Direi che siamo invecchiati di secoli in pochi anni e il nostro passato spirituale ce lo sentiamo lontano lontano, anche se è solo di ieri. Soprattutto sentiamo lontana la nostra sicurezza, la nostra stabilità, il nostro dogmatismo». Poi aggiungeva: «Ma tutto questo è solo male? Non c’è forse nel disagio di oggi, nella crisi che ci travaglia, una radice buona? Un principio di vita? Posso trarre qualcosa di positivo dallo sfacelo del mio passato? Del nostro passato? Insomma, ciò che sta avvenendo è il principio della fine o è sintomo di un nuovo parto della storia e della Chiesa? […] È difficile dare una risposta. Ciò che possiamo però dire per intanto è che un po’ di insicurezza fa bene a noi, così abituati al dogmatismo e alla violenza delle nostre affermazioni. Ci fa bene soprattutto come cristiani perdere un tantino di prosopopea medievale che ci rendeva incapaci al dialogo, dimenticare il pensiero che bastava trovarsi sulla barca per essere al sicuro […] E, come Chiesa, ci fa bene diventare un tantino più umili, più piccoli, più disarmati, […] Non possiamo più nasconderci dietro i paraventi delle idee preconcette, delle leggi fatte, dell’ordine costituito, delle tradizioni venerande. Tutto è rimesso in questione ripensato e giudicato alla luce di una nuova presa di coscienza e di una fede più adulta […] Ma al di sopra di tutto c’è una scoperta da rifare, un incontro da effettuare, una fede da rinsaldare: quella in un Dio personale».

Entriamo in questo nuovo anno. E che sia davvero un nuovo inizio.

Francesco Cosentino *1979           Settimana News 01 gennaio 2024

www.settimananews.it/spiritualita/nuovi-inizi

Pensare la complessità

La domanda sulla legge naturale, per quanto importante e suggestiva, forse è qualcosa che ci poniamo solo in ambito cattolico, almeno in certi termini. Questo è già un indicatore. A volte infatti la sacrosanta tendenza a radicare ciò che affermiamo nella tradizione ci spinge a mantenere categorie che fanno faticare anche noi. Forse allora sarebbe utile sapere e gustare il fatto che la tradizione della chiesa, radicata nella fede apostolica dei primi e delle prime che hanno riconosciuto il Signore e ne hanno trasmesso il Vangelo, è stata straordinariamente creativa e duttile. Questa consapevolezza credo ci libererebbe dalla paura di innovare e abbandonare per riconsegnarci alla libertà di far crescere la tradizione con lo studio, l’esperienza delle cose spirituali e la predicazione (come leggiamo in Dei Verbum 8).

                Alcune domande. Entrando ora nel merito dell’argomento, vorrei porre solo alcune domande. Abbiamo affermato che i fattori biologici sono degli indicatori per la legge morale, anche se non la determinano. La domanda è: chi sceglie quali fattori biologici e con quali criteri? È un fattore biologico infatti anche la morte, la malattia, il fatto che alcuni soggetti umani siano più deboli di altri o meno efficienti sotto il profilo della sopravvivenza. Perché questi fattori biologici non sono indicatori di una legge, ma vengono piuttosto contrastati con la cura, la medicina, l’emancipazione dei soggetti più fragili, la giustizia? Noi sappiamo che Dio è il Dio della vita e dell’amore: di fronte a questo ogni indicatore biologico di morte diventa semplicemente qualcosa da combattere. Non dovrebbe essere questo l’unico criterio – favorire la vita di tutti e tutte quelli in gioco – anche in qualsiasi altra questione, al punto, se necessario, da piegare la biologia con i vaccini, gli antibiotici, gli strumenti architettonici che facilitino tutti, le protesi e via così anche per le questioni di etica sessuale?

                Un’altra domanda, già elaborata e in parte risposta dal prof. Massaro, riguarda che cosa dobbiamo intendere per natura quando si tratta di esseri umani, perché è fuor di dubbio che l’essere umano è naturalmente culturale. Nel corpo e nella materia (pensiamo solo al cibo) gli esseri umani esprimono dimensioni spirituali, simboliche, culturali, religiose. Perché il pranzo di Natale non è quello di ogni giorno? Mangiare (e anche procurarsi cibo e produrlo) è un dato biologico, eppure ciò che facciamo nel pranzo di Natale è radicalmente altro da quello che facciamo in un pranzo feriale (se lo facciamo). La biologia è la stessa, ma il gesto è un altro, la realtà è un’altra. Potremmo farci questa domanda anche per altre realtà: partorire e allattare è sempre la stessa cosa? È la stessa cosa quando sai che una volta su due il bambino muore o quando sai che certamente vivrà? È la stessa cosa quando hai partorito dieci volte in quindici anni senza riuscire a fare altro che crescere bambini o quando il bambino e la bambina sarà l’unico o uno di pochi? È la stessa cosa quando devi metterti il neonato sulla schiena e piegarti sui campi dopo una settimana o quando la preoccupazione si concentra sulle fatiche dei risvegli notturni e la mancanza di tempo per sé? Infine è la stessa maternità quando una donna pensa che quello sia il suo destino e l’unica aspirazione possibile da quando vive la maternità come una delle componenti della sua vita?

                Le stesse domande si possono fare sulla sessualità. Davvero la sessualità è la stessa (parlo da donna) quando si pensa come un dovere coniugale da tollerare per fare figli e senza dover provare piacere, da quando la sessualità è percepita come luogo di relazione, di espressione di sé e di godimento fisico? La natura biologica dell’atto sessuale resta la stessa, ma la realtà è un’altra. Mi domando se in questa realtà totalmente stravolta dalle intenzioni, dai valori, dai significati, dai comportamenti, i fattori biologici del concepimento non potessero essere reinquadrati, proprio come viene reinquadrato tutto il resto.

Pensare la complessità. Vorrei inoltre aprire un’altra questione. Una legge naturale genericamente intesa rischia di escludere il femminile. Infatti quando la differenza non viene specificata i nostri contesti culturali procedono secondo un finto neutro che è sempre maschile. Anche quando si pensa una sperimentazione per qualche farmaco o una pratica medica si parte sempre da un corpo maschile. Lo stesso avviene per la morale sessuale. Per esempio, l’utilizzo di metodi naturali o artificiali per la procreazione responsabile non ha un impatto neutro sul corpo femminile (certamente assumere farmaci ha un impatto diverso dall’uso di un profilattico) ma nemmeno sulla psiche (la paura di rimanere incinta nel caso dei metodi naturali può inibire completamente la persona sul piano sessuale e relazionale). Il corpo maschile subisce lo stesso impatto? Per un maschio una gravidanza inattesa o pericolosa per motivi di salute ha lo stesso significato che per la donna incinta? La legge naturale prevede la differenza nella quale si intrecciano corpi diversi, vissuti diversi, bisogni diversi, vitalità diverse?

                C’è poi però l’altra faccia della medaglia (che mi fa persino più paura), se facciamo riferimento ai fattori biologici come indicatori per la differenza dei corpi femminili (perché la differenza maschile non viene pensata mai, ma è data come base dell’umano), non corriamo il rischio di fare della maternità un destino ineluttabile e superiore ad ogni altra dimensione della vita femminile? Quale indicatore biologico ci salta agli occhi di più (basta guardare la storia dell’antropologia culturale) che la capacità di fare bambini? Cosa diventa la donna in questo caso? Se piace il genere, per continuare la riflessione, invito alla lettura del romanzo “Il racconto dell’ancella” (o alla visione della serie televisiva omonima). Ma se la donna è essenzialmente madre, il celibato per il Regno delle donne, la straordinaria rivoluzione cristiana che sottraeva le credenti al destino di una procreazione reiterata, sottomessa e spesso fonte di morte (della donna o dei neonati), non sarebbe da considerarsi contro natura? Oppure se non lo è, perché dovrebbe esserlo ridurre o eliminare le nascite nel caso di una donna (e di una coppia) impegnata sul piano lavorativo, sociale e/o ecclesiale (come lo sono tutte, visto che non è mai esistita donna che non abbia lavorato)? E perché se nel celibato si può interrompere completamente l’attività sessuale e procreativa per la quale il corpo umano è indubbiamente predisposto, non si può decidere su altri aspetti della sessualità a prescindere dagli indicatori biologici o correggendoli?

                Sono solo domande senza alcuna pretesa di risposta e con buona probabilità mal poste, ma credo che tutte aiutino a rivelare la necessità che la natura (e quindi la legge naturale) venga pensata in modo complesso, quindi mettendo in gioco più livelli conoscitivi e l’intersezione di diversi elementi. Non farlo ci consegna all’ingenuità o all’integralismo, certamente non ci permette di fare il bene delle persone e quindi si viene meno al comandamento di Dio. Pensare la complessità è la sfida di oggi per chi deve ragionare di qualsiasi argomento, compresa la teologia morale. Il coraggio di affrontare la sfida, senza aver già deciso quale sia la soluzione del problema, è ciò che fa crescere la tradizione cristiana e che le permette di portare frutto qui e ora.

 Simona Segoloni *1973, °        Pro mundi vita                 20 dicembre 2023

°docente incaricata di teologia del matrimonio presso il Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II” per gli studi su matrimonio e famiglia

www.promundivita.it/blog/pensare-la-complessita

SINODO

Il documento “Verso ottobre 20242”, prodotto dal Consiglio ordinario del Sinodo dei vescovi,

www.ilregno.it/documenti/2024/1/verso-ottobre-2024-segreteria-generale-del-sinodo

 ha sollecitato il contributo di teologi, canonisti ed esperti delle scienze umane e sociali, rinviando ai contenuti della Relazione di sintesi della prima sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi. Qui, al n. 15, viene posta l’attenzione sulla questione del rapporto tra amore e verità e sulle molteplici conseguenze che questo rapporto può avere su tante questioni etiche controverse.

                Volendo delineare un piccolo contributo al discernimento della questione, è saggio considerare quanto le stesse Scritture, nel Libro dei Salmi, suggeriscono sul rapporto tra amore e verità (citato nello stesso documento): «Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85,11-12).

Un asse della rivelazione cristiana. Il binomio verità-amore è un asse portante della rivelazione cristologica, contiene un appello alla responsabilità di ciascuno e spesso appare come una sfida lanciata dalle molteplici controversie etiche che, senza sosta, si manifestano nella ferialità della vita quotidiana personale e collettiva. Spesso nella mentalità più diffusa i due termini sono considerati antitetici, come se il dinamismo e la vitalità dell’amore fossero diametralmente opposti alla staticità monolitica della verità.

A questo proposito risultano significativi alcuni passi della Lettera a chi non crede di papa Francesco (4 settembre 2013) in risposta a E. Scalfari: «Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita».

Nel passato ritenuti avversari. Invece l’opposizione pregiudiziale tra i due termini del binomio, riscontrabile nella comunicazione e nella mentalità più diffusa, sembra che appartenga anche a vasti settori del pensiero ecclesiale, dove compare un debito ancora eccessivo verso spessori simbolici e categorie ormai inattuali rispetto alle consapevolezze presenti e diffuse. In particolare questa impostazione appare debitrice di una concezione di natura umana segnata da biologismo e intellettualismo, tipica della teologia morale post-tridentina, che supponeva l’impianto teorico di un’antropologia essenzialista dalla quale dedurre la norma, operazione esemplificata dall’assioma agere sequitur esse (l’agire segue l’essere).

                Perciò si manifesta l’opportunità di un ripensamento delle matrici fondamentali della teologia morale, per superare una prospettiva metafisica che non considera adeguatamente il focus antropologico primario, cioè la struttura originariamente storica e relazionale dell’umano.

Ripensare il concetto di natura umana

Questa prospettiva manca di una ricerca robusta di sviluppi diversi rispetto alla visione tradizionalmente oggettivistica e naturalistica dell’umano, identificabile anche con l’espressione «antropologia delle facoltà», ampiamente alimentata dalla tradizione ricevuta, ma probabilmente ormai divenuta inattuale.

Infatti gli abitanti del villaggio globale e digitale, bisognosi di un’attuazione di sé in un ampio orizzonte pieno di buone pratiche narrative e transitive, hanno raggiunto nuove consapevolezze, e questo chiede di ripensare il concetto di natura umana secondo un nuovo paradigma, che ne illustri il debito rispetto all’esperienza e alla storia, e in cui la dimensione ontologica sia declinata nella direzione fenomenologica ed ermeneutica, in modo da generare un modello in cui la natura è intesa in termini di passività originaria (spazio-tempo-mondo, nascita, corpo, socialità, cultura) che in-forma la coscienza morale.

La natura è legata all’esperienza e alla storia. Tale paradigma prospetta l’accesso all’universale specificamente attraverso il particolare: l’universale antropologico è visibile sempre in forme storiche concrete, pratiche, in rapporto costitutivo con le esperienze primarie che «affettano» la coscienza. Questo di conseguenza indica la necessità di uno sviluppo umano compiuto, perché la possibilità stessa che l’Annuncio evangelico dispieghi in pieno le sue energie di significato e di valore è strettamente legata al contenitore antropologico, a uno spazio cioè di plausibilità e di ragionevolezza pratica in cui si gioca il realismo della verità cristiana, visibile nel dinamismo delle forme dell’esperienza pratica.

Un’antropologia della libertà. Così viene tematizzata una più promettente «antropologia della libertà», radicata nella relazione biunivoca tra la dimensione antropologica e quella teologica definitivamente generata dall’Incarnazione, in grado di condurre a consapevolezza sensibile il darsi di Dio nella piena realizzazione della libertà umana, contribuendo così al superamento di una concezione oggettivistica del binomio amore-verità.

Luca Novara, teologo                    20 gennaio 2024

Vangelo

Il lieto messaggio del vangelo

Soprattutto dal Concilio Vaticano II in poi, nella chiesa cattolica emerge e si fa sentire il tradizionalismo, fenomeno complesso, variegato e cangiante. Riguarda una porzione di Chiesa che vuole restare in stretta continuità con il passato, non accetta nessun progresso nella comprensione della fede, né mutamenti delle forme nelle quali la fede si esprime. Solo “quella” forma del passato (in realtà un passato recente!), solo una certa teologia e solo una certa liturgia stanno nello spazio della verità e della tradizione. E così il passato viene idealizzato, reso un monumento, mentre il presente con la dinamica del rinnovamento, è giudicato in modo catastrofico.

In realtà, questa posizione che si vuole fedele alla tradizione, nega la tradizione autentica, la grande Tradizione, perché la tradizione — da tradere, trasmettere — è tale se è trasmissione creatrice, una corrente viva che si alimenta di una crescita come un giardino da coltivare. I tradizionalisti induriti negano, di fatto, la cattolicità verticale, storica, privilegiando un’epoca e non riconoscendo che lo Spirito ispira, agisce anche nel presente. I tradizionalisti sono anche una reazione a un rinnovamento scomposto, un insieme di innovazioni che non solo contraddicono la grande Tradizione, ma sono senza coerenza con la fede cristiana.

Soprattutto in ambito liturgico non si può negare che nel post-Concilio si assista a volte a celebrazioni fantasiose, che preferirei qualificare come offensive del mistero cristiano: canti mondani oltre che di cattivo gusto, segni e riti inventati senza discernimento, spettacolarità che sfigurano il rito e causano in alcuni un arroccarsi sul passato che nega ogni riforma.

Tuttavia, se il fulcro della contestazione tradizionalista è soprattutto la messa rinnovata nei suoi riti dal Vaticano II, rispetto alla quale si chiede di tornare alla messa preconciliare — quella tridentina, non quella di sempre –, la porzione tradizionalista mostra al suo interno diversità, pluralità di posizioni e di accenti. Vi sono monasteri, tra i quali eccellono quelli benedettini francesi di Barroux, di Wisques, di Triar, che sono una risorsa nella Chiesa: conservano i vecchi riti con fedeltà, il grande tesoro del canto gregoriano, vivono con serietà evangelica la vita monastica. La Chiesa oggi non tiene sufficientemente conto di queste realtà, abbagliata dalla contestazione portata avanti sui social da tanti gruppi tradizionalisti che negano legittimità alla riforma liturgica del Concilio e che attaccano il Papa in modo vergognoso, fino a dichiararlo sovente eretico. Difficile il dialogo con loro e tuttavia papa Francesco cerca di non escludere dalla Chiesa queste realtà e di offrire una riconciliazione anche a quelli che lo attaccano. Perché papa Francesco è convinto che il Vangelo è lieto messaggio, non è Vangelo della paura né della nostalgia del passato. Il Vangelo se non è buona e gioiosa notizia non è Vangelo.

Enzo Bianchi                       “la Repubblica”              15 gennaio 2024

www.repubblica.it/rubriche/2024/01/14/news/il_lieto_messaggio_del_vangelo-421875504

Così il giudaismo rilegge il Vangelo

È stato pubblicato in italiano “Il Nuovo Testamento letto dagli ebrei”, monumentale commento destinato a essere punto di riferimento degli studi. Sensibilità ebraica, fonti del rabbinismo, cultura giudaico-ellenistica, aiutano a capire la vita di Gesù, nonché gli sviluppi della dottrina paolina e degli altri apostoli.

Nel 2011 apparve negli Stati Uniti un monumentale commento ebraico a tutto il Nuovo Testamento, cui collaborarono circa ottanta ebrei, studiosi e studiose del giudaismo del secondo Tempio e delle origini del cristianesimo. Coordinarono l’impresa Marc Zvi Brettler e Amy-Jill Levine, di riconosciuta autorevolezza accademica in tali campi di studio (dai quali il mondo ebraico si era sempre tenuto abbastanza lontano, salvo alcune grandi eccezioni che si erano focalizzate soprattutto su Gesù e Paolo di Tarso). In poco tempo quel commento ebraico fu così positivamente recepito in America e a livello internazionale che già nel 2016 Levine e Brettler predisposero una seconda edizione, riveduta e ampliata, arricchita di nuovi saggi e apparati didattici. Su quest’ultima versione la casa editrice Queriniana ha realizzato l’edizione italiana, che porta il titolo “Il Nuovo Testamento letto dagli ebrei (Queriniana, pagine 944, euro 120,00), curata da Flavio Dalla Vecchia e con i testi

biblici della traduzione della Conferenza episcopale italiana (Cei) del 2008.

Grande opera di consultazione e di studio, si tratta di uno strumento destinato a restare un punto di riferimento fondamentale sia per i neo-testamentaristi di professione sia per quanti, ebrei o cristiani, frequentano e citano quelle fonti negli ambienti del dialogo interreligioso. Ora, impiego dialogico o pastorale a parte, è difficile sottovalutarne il valore scientifico proprio restando nel solco del metodo storico-critico. È noto infatti che non è questo l’approccio tradizionalmente in uso nelle scuole rabbiniche o adottato per le derashot (omelie) sinagogali, dove si privilegia la catena delle interpretazioni religiose e mistiche offerte dai maestri nel corso dei secoli. Perciò molti studiosi cristiani si chiedono se e come il mondo ebraico applichi la moderna filologia e la decostruzione testuale per comprendere le Scritture, il Tanakh. La risposta, positiva, sta nei due strumenti, entrambi pubblicati dalla Oxford University Press, curati dal fior fiore degli accademici ebrei a livello mondiale: “The Jewish Study Bible” (seconda edizione del 2014), curata da Adele Berlin e lo stesso Brettler, e il commento neotestamentario di cui sto parlando, or ora reso disponibile in italiano.

Il presupposto di questo pluridecennale lavoro collettivo è che i variegati testi che compongono quelle che, a ben vedere, andrebbero chiamate le Scritture cristiane (sebbene stia prevalendo la dicitura Secondo Testamento, accanto al Primo Testamento che sarebbe la Bibbia ebraica o Tanakh), sebbene scritti o giunti a noi in lingua greca, sono testi pensati e certamente all’inizio trasmessi oralmente in aramaico se non in ebraico; inoltre i diversi generi letterari in cui si esprimono sono generi specifici della cultura ebraica del secondo Tempio; e non entriamo nel merito di tematiche e discussioni religiose, di preoccupazioni politiche e di tensioni sociali, tutti tasselli del grande mosaico del giudaismo di quei secoli, al quale Giovanni il battezzatore, Gesù e i loro movimenti – se riformatori o restauratori è oggetto di dibattito – appartenevano, un mosaico senza il quale non possono essere davvero compresi. La sensibilità ebraica e una più affinata conoscenza delle stesse fonti del rabbinismo, oltre che della cultura giudaico-ellenistica, sono certamente di aiuto per decifrare più di un contesto della vita e della predicazione gesuane nonché degli sviluppi della dottrina paolina e degli altri apostoli della nuova fede.

E qui sorgono alcuni dei grandi interrogativi ermeneutici che nessuno studioso del Nuovo Testamento può eludere:

  1. quanto davvero “nuova” era questa fede, nata dentro la società ebraica del I secolo e nutritasi dei suoi accesi dibattiti teologico- politici?
  2. Sotto quali spinte e come cambiò l’approccio a una secolare prassi ebraica?
  3.  E soprattutto: era necessario che la “separazione delle strade” diventasse un conflitto aperto, duro e violento, come spesso solo i conflitti religiosi sanno essere?

 Il commentario curato da Levine e Brettler non mira a rispondere a queste tre domande, tuttavia esse aleggiano su questo monumento di esegesi ebraica tesa a mostrare gli elementi di continuità e di discontinuità nella narrativa evangelico- apostolica, la quale dalla conoscenza approfondita dei targumim (le traduzioni della Bibbia ebraica in aramaico), dei midrashim e delle tradizioni rabbiniche esce illuminata e persino, per i cristiani, più storicamente credibile.

Il commentario vero e proprio è arricchito, come detto, da cinquantaquattro saggi, che costituiscono un libro nel libro, e metodologicamente potrebbero essere il vero punto di partenza per apprezzare anche le note e le chiose al corpus neotestamentario. Chi, tra gli studiosi cristiani (per tacere di ministri e catechisti) ha davvero mai approfondito la storia del sinedrio, dalle sue origini a quando cessò di esistere nel V secolo? Eppure quando si parla (o si straparla) della passione di Gesù lo si cita, in negativo, ignorandone struttura, regole ed eminenti maestri, con estrema superficialità. Ecco il tema di uno di questi saggi che approfondiscono, tra le altre, la questione del matrimonio e del ripudio, su cui all’epoca di Gesù le scuole dei farisei avevano opinioni assai diversificate, e Gesù si inserisce in questo complesso dibattito halakhico; la questione dei sacrifici nel Tempio (che Gesù non ha mai condannato) cui si affiancò l’invenzione delle preghiere sinagogali; la questione dei rapporti tra ebrei e non ebrei, su cui l’insegnamento gesuano sembra oscillare tra chiusure e aperture. Ascoltare il parere di dotti ebrei, che conoscono siffatte questioni anche attraverso i dibattiti talmudici e le altre fonti coeve, non può che portare molte letture cristiane a una maggior cautela esegetica, arricchendole in sfumature e in profondità di comprensione. Anche in Italia uno strumento come questo “Nuovo Testamento letto dagli ebrei”, al di là della curiosità, non può che contribuire a far superare insegnamenti obsoleti e omelie anti-ebraiche, anzi a far crescere la consapevolezza che l’identità ebraica di Gesù non è un ostacolo alla sua comprensione da parte cristiana, e che persino la predicazione paolina si capisce meglio alla luce del contesto religioso e politico della società ebraica di quel drammatico primo secolo.

 Molte altre novità attendono il lettore e lo studioso attenti di quest’opera, e lasciamo loro volentieri il piacere della scoperta.

Massimo Giuliani, professore associato Università di Trento        “Avvenire”        18 gennaio 2024

www.avvenire.it/agora/pagine/il-nuovo-testamento-letto-dagli-ebrei-commento

VIOLENZA

Le scrittrici denunciano la violenza di genere

Femminicidio, la parola che dà l’allarme

Non è una questione astratta, è la pratica attraverso la quale il sistema che chiamiamo società civile punisce i deboli. Le vittime concrete sono le donne che vengono uccise. Le vittime astratte siamo noi. Tutti noi

La parola del 2023 secondo Treccani è femminicidio. Valeria della Valle — che con Giuseppe Patota dirige il Vocabolario Treccani — ha spiegato in una nota che la presenza della parola femminicidio sulla stampa e sui libri di saggistica si è fatta più rilevante “fino a configurarsi come una sorta di campanello d’allarme che segnala, sul piano linguistico, l’intensità della discriminazione di genere”.

                Quando Michela Murgia, mi diceva e, soprattutto, scriveva che la parola femminicidio non indica il sesso della morta, ma il motivo per cui è stata uccisa e aggiungeva che la parola femminicidio non segnala solo che qualcuno è stato ammazzato, ma pure il perché è stato ammazzato, io non le credevo.

Eccepivo che essere umano viene prima di qualsiasi distinzione di genere, sesso, razza e religione, che la vita viva precede la vita felice o la vita infelice, la vita delle donne e degli uomini, dei vecchi e dei bambini, di coloro che ci piacciono e degli altri che sono pure la maggioranza, bisogna dire omicidio — chiudevo la mia arringa maestosa e illuminista –, bisogna dire omicidio perché sia detto, a voce sempre più alta, che non si uccide.

Ovviamente, aveva — e avrà — ragione Michela Murgia alla quale le questioni astratte non interessavano. Le interessava identificare e tentare di risolvere i problemi. E questo rimane un grande monito adesso che non posso più parlarle dall’altezza infantile della mia presunzione.

                Il femminicidio non è questione astratta, è la pratica attraverso la quale il sistema che chiamiamo società civile ed è formato e sostenuto da uomini e donne punisce i deboli, gli irregolari, i non conformi. Dove debole, irregolare e non conforme significa il contrario di maschio bianco eterosessuale. E dove il debole, irregolare e non conforme più diffuso è la donna. Le vittime concrete di questa pratica sono dunque le donne che, dall’inizio dell’anno 2023 e, direi, del tempo, vengono uccise, le vittime astratte di questa pratica siamo noi. Tutti noi.

                Con un problema che, nel nostro essere vittime astratte sottovalutiamo — i maschi bianchi eterosessuali, fuori e dentro di noi, di più, ma dicono “non si può dire niente/non si può fare niente” — e, con questa sottovalutazione, contribuiamo al fatto che i femminicidi crescano quasi indisturbati, le misure, già lasche, si rivelino prima inefficaci e poi inutili.

Elena Cecchettin, dal giorno in cui è morta sua sorella Giulia, ribadisce col corpo e le parole che se è successo a Giulia, può succedere a tutte. Se Giulia Cecchettin è morta, tutte siamo a rischio e se siamo salve è per caso o fortuna, per una serie ininterrotta di gesti riusciti. Se caso e fortuna sono dirimenti allora la società che abbiamo costruito deve essere ripensata.

Nell’anno 2014, Daniele Giglioli, studioso e critico, pubblicava per i tipi nottetempo “Critica  della vittima” Un esperimento con l’etica che cominciava così: “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima… Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce… Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subìto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto”.

                Così, quando Giorgia Meloni, primo ministro, tra le tante parole, sue e citate, del discorso ad Atreju ha detto che essere conservatori significa vivere di ciò che è eterno ed ha ribadito “siamo le stesse persone che eravamo ieri e saremo le stesse persone che siamo oggi”, l’eternità non ha rassicurato e la persistenza in ciò che si è mi ha raggelato. Perché in quelle eternità e persistenza affonda la radice di violenza per cui il femminicidio è prassi e le vittime astratte vantano le loro ragioni mentre le vittime concrete non possono più farlo perché morte

Chiara Valerio *1978     La repubblica 29 dicembre 2023

www.repubblica.it/commenti/2023/12/29/news/femminicidio_treccani_violenza_donne-421770979

Violenza sulle donne, quelle parole che feriscono più di un pugno

Certe frasi ci accompagnano da quando siamo nate, evitano di lasciare tracce visibili ma non fanno meno male. Basta assistere a certi interrogatori nei processi per stupro

Certe, violenze e certe altre. Una varietà infinita. Quelle fisiche, muscolari, di pugni che diventano lividi, occhi pesti, labbra spaccate. Concitazione di botte che ti arrivano addosso. Quelle a mano armata, premeditate, che mirano a uccidere. E nello stupro, il corpo ridotto a una cavità in cui svuotare lo scroto.

Poi c’è la violenza delle parole. Ci accompagna da quando siamo nate, evita di lasciare tracce visibili, non fa meno male. E dietro, ancora, c’è un pensiero pervasivo, ereditato da padri e patriarchi, che si salda però con gli strumenti mediatici della contemporaneità e sempre, sempre finisce sul corpo.

Il corpo delle donne è un parafulmine su cui si scaricano tensioni dirette e oblique. È corpo sovraesposto, bruciato dalle scosse, ferito. Il corpo delle donne non è solo una proprietà pretesa dai maschi più retrivi, è proprietà pubblica. La violenza che subisce non è mai individuale, è di sistema. È sommerso di richieste: essere un modello di bellezza, di perfezione che mai può sfiorire, di salute e splendore. Quando si finge di accettarne il diverso, il difforme, l’eccentrico che sfora i canoni socialmente approvati, lo si fa restando nel solco rassicurante dello straordinario, dell’eccezione. Le donne anziane non corrette chirurgicamente compaiono di rado in pubblicità, ancor meno le obese, le basse, le storte. Le cicatrici? Solo se sei una campionessa.

Il corpo delle donne deve comunque confrontarsi con l’imperativo biologico di assicurare la sopravvivenza della specie: si può danneggiare il pianeta con azioni il cui potenziale distruttivo è arcinoto da decenni, ma le donne sono sempre chiamate alla riproduzione. Se si sottraggono devono giustificarsi, dichiarare una sterilità o motivare la propria scelta contraria. In entrambi i casi un sospetto, una disapprovazione più o meno esplicita cade sulle renitenti: è davvero possibile fidarsi di una donna che non può o non vuole generare figli? E se invece vuole ma non può, subirà l’intrusione di leggi occhiute che andranno a definire un perimetro ben preciso entro cui muoversi nel tentativo di procurarsi una gravidanza. Oltrepassarlo ricorrendo per esempio a pratiche consentite in Paesi esteri è una violazione punibile, e la punizione ricade non solo sulle coppie di aspiranti genitori ma anche sui figli eventuali, il cui riconoscimento da parte dello Stato italiano è a dir poco ostacolato, soprattutto oggi.

Ciò non significa che auspichiamo una totale deregolamentazione delle pratiche di fecondazione assistita, tutt’altro, significa soltanto ribadire che la proprietà del corpo di donna è anche pretesa dello Stato, ciò che non avviene per il corpo del maschio. L’apparato genitale maschile è lasciato in pace, quello femminile sempre dibattuto, toccato, giudicato. Nel dibattito pubblico, negli ospedali, nei tribunali. Eri bagnata mentre ti violentavano? Se sì, la tua vagina aveva dato il consenso che ti affanni a negare. Processo per stupro, il documentario di Loredana Rotondo del 1979, è ridiventato drammaticamente attuale poche settimane fa, in un’aula del tribunale di Tempio Pausania.

                Profilattico a parte, la contraccezione è a totale carico della donna, che può prendere la pillola per molti anni, inserire la spirale, legare le tube se opportuno. Non si parla mai di vasectomia, una pratica che l’uomo fatica ad accettare confondendola magari con una riduzione della potenza, della virilità. Evoca forse il fantasma dell’evirazione. Comunque una manipolazione chirurgica sull’organo copulatore non è ben accetta, mentre la donna è più “abituata”. Ma se richiede un’interruzione di gravidanza, allora tutto cambia. Allora sì che le cose diventano difficili.

Esiste una legge a tutela, certo, la 194, punto di arrivo nel lontano 1978 di lunghe e faticose battaglie. Da allora il numero di aborti è drasticamente diminuito, eppure questa legge è ormai scritta solo sulla carta. Viene svuotata dall’interno, mentre si ripete che non verrà messa in discussione. Depotenziati i consultori, dove mancano medici non obiettori che possano rilasciare il famoso certificato alle donne che richiedano di abortire. Ce ne vuole per ottenerlo e se infine ci riesci pagando magari un libero professionista, poi aspetti obbligatoriamente sette giorni, il tempo dell’eventuale ripensamento. In questi sette giorni sei del tutto ferma, non puoi nemmeno prendere l’appuntamento. Intanto la tua gravidanza va avanti e prima di abortire verrai forse messa davanti a un ecografo e ti verrà mostrato “un cuoricino che batte”. E tu davvero vorrai fermarlo quel cuoricino, davvero vorrai uccidere tuo figlio? Quanta violenza. Non la tua, no. Quella su di te, sul tuo corpo, sul tuo dolore.

                Nella mia regione, l’Abruzzo, una donna di San Salvo per esempio deve arrivare all’ospedale di Penne per interrompere una gravidanza. Sono 113,27 chilometri. Tutti gli ospedali che ci sono in mezzo – Vasto, Lanciano, Chieti – non erogano questo servizio. E l’aborto farmacologico? Sarebbe infinitamente meno invasivo per la donna, sarebbe più “leggero”. Non si fa mai in tempo per quello, figuriamoci se si può ottenerlo entro gli 11/12 giorni di gestazione prescritti. Come mai non si riesce a organizzarlo sulla maggior parte del nostro territorio? Forse è proprio lì, il problema, nella “leggerezza”. Troppo comodo con la RU 486. Una pillola e via. Quel “cuoricino che batte” non avrebbe nemmeno il tempo di formarsi, e tu, donna, non soffriresti abbastanza, non saresti abbastanza punita per la tua colpa. Abortirai con dolore, almeno. Ricovero, forse sguardi di riprovazione intorno a te, forse ti metteranno in una stanza con le mamme che allattano, sentirai gli stessi vagiti che avrebbe potuto gettare tuo figlio.

Ma qual è la tua colpa, poi? Oggi direi soprattutto la povertà. Chi abortisce raramente è benestante. Spesso sono donne immigrate, che parlano poco l’italiano. Su di loro la violenza di sistema è più facile e perciò più vigliacca. Sono fragili. Ed è tra loro che dobbiamo arrivare con la sorellanza, proprio lì, dove nessuna leggerà questa pagina. Dove un corpo di donna vale davvero troppo poco.

Donatella Di Pietrantonio           La repubblica  10 gennaio 2024

Violenza di genere, linguaggi che odiano le donne

Prima del sopruso fisico ci sono sempre le parole maschili scagliate come pietre contro figlie, sorelle, compagne. È da qui che parte la catena tossica che a volte arriva fino allo stupro o all’omicidio. La violenza contro le donne è bastarda: si insinua nella loro esistenza distruggendole dall’interno, cancellandone l’identità e riducendo a brandelli quel po’ di fiducia che ancora hanno in loro stesse.

                Quando la si percepisce, è spesso troppo tardi. Lei ha già fatto terra bruciata, ha già agito: la violenza fisica arriva quasi sempre dopo quella psicologica e quella verbale. Dopo quell’accumulo di parole scagliate come pietre, un misto di suppliche, minacce, controllo e sguardi di commiserazione: hai visto come ti sei ridotta? E adesso che fai, rispondi? Come ti permetti? Chi ti credi di essere?

                Inizia quasi sempre così, la bastarda: un’umiliazione continua, cui si aggiungono la gelosia, il possesso, talvolta pure l’invidia. Se io non ci riesco, non ci devi riuscire nemmeno tu. Ti sei offesa? Smettila di fare la vittima! Lo sai bene pure tu come l’hai guardato: la solita troia, la solita pezzente, la solita nullità.

                La violenza di genere avanza spesso mascherata, celandosi dietro frasi piene di buoni propositi e lodevoli intenzioni. Se è geloso, mi ama. Se urla, mi ama. Se mi corregge, mi ama. Quante volte ce lo siamo sentite ripetere o ce lo siamo noi stesse ripetuto, convincendoci che fosse lui ad aver ragione, che fossimo noi a non valere nulla. Come se l’esistenza avesse bisogno di una giustificazione, e il valore di una donna dipendesse sempre e solo da come gli altri si comportano con lei. Mentre l’amore, con la gelosia e con le urla, non c’entra niente. Esattamente come non c’entra con i rimproveri e con le umiliazioni, con tutte quelle giustificazioni inutili e assurde: lo faccio per il tuo bene.

Quale bene può mai esserci quando qualcuno pretende di sapere meglio di noi, e al posto nostro, quello che dobbiamo (o meno) fare? In nome di quale bene un padre, un fratello, un fidanzato o un marito, osano prendere decisioni al posto nostro e vogliono imporci la loro volontà?

                Dicono: lo faccio per te. Dicono: un giorno me ne sarai grata. Dicono: ringrazia il cielo di aver trovato uno come me che ti sopporta. Dicono: smettila di lamentarti, pensa a tutte coloro che vorrebbero trovarsi al posto tuo. Gli uomini violenti, che quasi sempre sono perversi e narcisi e manipolatori, lo sanno perfettamente che ci sono frasi che ammazzano prima ancora di aver sollevato la mano contro la propria donna. Subito prima dei gesti violenti che, presto o tardi, finiscono con l’arrivare. Lasciando tracce che nessuno, a quel punto, può più far finta di non vedere: lividi, ossa rotte, sangue, cadaveri.

C’è chi, anche dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin e le parole di sua sorella, Elena (che ha chiesto a tutte e a tutti di impegnarsi affinché si arrivi a una rivoluzione culturale), continua a rimettere in discussione la nozione di continuum, ossia l’idea secondo cui il femminicidio rappresenterebbe il polo estremo di uno spettro che include un’ampia varietà di abusi fisici, sessuali, psicologici e verbali.

C’è chi insiste sull’inutilità del concetto di cultura dello stupro, sostenendo che non ha senso parlare di una continuità della violenza che spazierebbe dai commenti sessisti, ai palpeggiamenti in metro o per la strada, fino alle molestie fisiche, allo stupro e al femminicidio, affermando che, se tutto è violenza, allora si corre il rischio di non riconoscere più la violenza vera.

                Esattamente come, chiamando stupro ogni atto sessuale cui non si sia acconsentito, ci sarebbe il pericolo di banalizzare gli stupri veri, ossia quegli atti orrendi compiuti da maschi brutali, meglio ancora se sconosciuti. E se, invece, lui non è uno sconosciuto? E se lei lo conosceva bene e l’ha baciato? Se lei ha accettato di dormire con un tizio, e magari anche di farci l’amore, e poi però, l’indomani mattina, viene penetrata a sua insaputa, magari mentre è ancora addormentata?

Il perpetuarsi inesorabile delle violenze contro le donne affonda le radici in quell’ostinata voglia di non vedere che le violenze estreme sono il proseguimento di quelle quotidiane; e che è sempre a partire dal momento in cui ci si permette di dire a una ragazzina “stai zitta” o “non capisci nulla” che le si impedisce di avere accesso alla consapevolezza del proprio valore, e quindi alla fiducia in sé, e quindi a quelle risorse interne necessarie per rifiutare abusi e umiliazioni.

Non se ne può davvero più. Perché poi, purtroppo, sono sempre le donne a pagare sulla propria pelle il perpetuarsi degli stereotipi di genere, l’assenza di coraggio da parte di politici e intellettuali, l’immobilismo di fronte a un patriarcato che non è stato ancora smantellato. E finché ci sarà chi si arrogherà il diritto di decidere chi è (o meno) vittima, le vittime di violenze non saranno protette, i colpevoli continueranno a delinquere, e la grammatica delle relazioni affettive non verrà riscritta.

Nonostante sia proprio questa erronea grammatica a legittimare i rapporti tossici e a discolpare le famiglie disfunzionali.

Michela Marzano            La repubblica    cultura                 15 gennaio 2024

www.repubblica.it/cultura/2024/01/15/news/michela_marzano_violenza_di_genere_campagna_scrittrici_corpo_donne-421881612/?ref=nl-rep-f-anr

Riceve questo notiziario in è presente nella mailing list di newsUCIPEM.

Comunichiamo che i suoi dati personali sono trattati per le finalità connesse alle attività di comunicazione di newsUCIPEM. I trattamenti sono effettuati manualmente e/o attraverso strumenti automatizzati. I suoi dati non saranno diffusi a terzi e saranno trattati in modo da garantire sicurezza e riservatezza.

titolare dei trattamenti è Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali Onlus

Corso Diaz, 49 – 47100 Forlì                        ucipemnazionale@gmail.com

Il responsabile è il dr Giancarlo Marcone, via A. Favero 3-10015-Ivrea.    newsucipem@gmail.com

Condividi, se ti va!