NEWSUCIPEM n. 567 – 11 ottobre 2015

 

UCIPEM n. 567 – 11 ottobre 2015

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

20135 MILANO – via S. Lattuada, 14-c.f. 801516050373-. ☎ 02.55187310

ucipem@istitutolacasa.it                                   http://www.ucipem.com

“notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line               Direttore responsabile Maria Chiara Duranti.

Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le “news” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriale.

Le news sono così strutturate:

  • notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
  • link a siti internet per documentazione.

Le notizie, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.

La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

Il contenuto di questo new è liberamente riproducibile citando la fonte.

Per i numeri precedenti, dal n. 527 al n. 562 andare su           

http://ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=category&id=84&Itemid=231

            In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviateci una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.com con oggetto: “richiesta di disconnessione news”.

                                                                                                                                                                                                950 iscritti

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ADOTTABILITÀ                             Il diritto del minore a crescere nella famiglia di origine.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO  Non bastano i versamenti saltuari per assolvere dalla violazione.

                                                           Condannato chi non lo versa, se non dimostra completa indigenza.

ASSEGNO DIVORZILE                  L’ex moglie non perde il diritto se svolge lavori saltuari.

L’ex avrebbe potuto rendere più produttiva l’attività.

CHIESA CATTOLICA                    Vi racconto com’era la Chiesa prima del Concilio Vaticano II

Matrimonio indissolubile e Chiesa solubile.

CONSULTORI Familiari UCIPEM Pescara. Percorso di conoscenza di se stessi.

                                                           Trento.           Dalla coppia alla famiglia.

CORTE COSTITUZIONALE          Adozione nazionale di ultra6anni di madre libera professionista.

DALLA NAVATA                            28° domenica del tempo ordinario – anno B -11 ottobre 2015.

FAMIGLIA                                       Istituzione naturale?

Famiglia e forme di convivenza.

Diritto sulla famiglia, diritto per la famiglia

FRANCESCO vescovo di ROMA    Papa Francesco: no ai ministri di rigidità, Dio vuole misericordia.

Famiglie rendono il mondo più umano, ma politica non le sostiene.

NONNI                                              Se il genitore impedisce al nonno di vedere i nipoti.

NULLITÀ MATRIMONIALE         Motu proprio riforma matrimoniale.

Versaldi: l’approdo al matrimonio sia ben preparato.

OMOFILIA                                       Sinodo e omosessualità: è possibile una discussione franca?

PARLAMENTO                                Camera Assemblea. Affido familiare.

SEPARAZIONE                                Gli accordi di separazione consensuale.

La separazione personale tra coniugi alla luce delle ultime novità.

SINODO SULLA FAMIGLIA          Apertura, Francesco invoca ancora collegialità e parresia.

Il cardinale Péter Erdő apre i lavori.

Un Sinodo nel solco del Concilio Vaticano II.

Papa Francesco martedì 6 ottobre 2015, prese la parola.

                                                           E se Gesù entrasse in Sinodo?

«Omofobia o cibofobia?» Alla fine anche il Papa sorrise.

La famiglia visita i padri sinodali. Il piccolo Davide al Sinodo.

Una proposta pastorale per il sinodo.

                                                            Il vero nemico è la dottrina astratta.

La prima relazione dei 13 Circuli minores.

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ADOTTABILITÀ

Il diritto del minore a crescere ed essere educato nell’ambito della famiglia di origine.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 19735, 2 ottobre 2015.

Il diritto del minore a crescere ed essere educato nell’ambito della famiglia di origine, considerata l’ambiente più adatto per un armonico sviluppo psicofisico, pur dovendo essere garantito anche mediante la predisposizione d’interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e disagio familiare, incontra i suoi limiti in presenza di uno stato di abbandono, ravvisabile allorché i genitori ed i parenti più stretti non siano in grado di prestare, in via non transitoria, le cure necessarie, né di assicurare l’adempimento dell’obbligo di mantenere, educare ed istruire la prole, cosicché la rescissione del legame familiare costituisca l’unico strumento idoneo ad evitare al minore un più grave pregiudizio ed a garantirgli assistenza e stabilità affettiva.

La configurabilità di tale situazione non può essere esclusa in virtù dello stato di detenzione al quale il genitore sia temporaneamente assoggettato, trattandosi di una circostanza che, in quanto imputabile alla condotta criminosa del genitore stesso, volutamente posta in essere nella consapevolezza della possibile condanna e carcerazione, non integra gli estremi della causa di forza maggiore di carattere transitorio individuata dall’art. 8 della legge n. 184 del 1983 quale causa di giustificazione della mancanza di assistenza.

avv. Renato D’Isa  6 ottobre 2015   sentenza

http://renatodisa.com/2015/10/06/corte-di-cassazione-sezione-i-sentenza-2-ottobre-2015-n-19735-il-diritto-del-minore-a-crescere-ed-essere-educato-nellambito-della-famiglia-di-origine-considerata-lambiente-piu-adatto-per-un/

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Non bastano i versamenti saltuari in favore del figlio per assolvere il padre dalla violazione degli obblighi

Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, ordinanza n. 39165, 28 settembre 2015.

La Cassazione boccia le tesi dei giudici di merito. Ai fini dell’esclusione del reato, il giudice dovrà verificare in concreto lo stato di bisogno del bambino per tutto il periodo d’inadempienza- Non sono idonee ad escludere il reato previsto dall’art. 570 c.p. (Violazione degli obblighi di assistenza familiare) le sole sporadiche e saltuarie contribuzioni che il genitore abbia versato al figlio minore, poiché deve essere valutato il costante inadempimento dell’interessato al suo dovere contributivo, persistente in un ampio arco temporale, nonché la permanenza dello stato di bisogno del bambino per tutto il periodo contestato.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione penale sul ricorso presentato da una donna contro il provvedimento emesso dalla Corte d’Appello di Genova che assolveva il padre di suo figlio dal reato contestatogli ex art. 570 c.p., per l’abbandono morale e materiale in danno del figlio minore sviluppatosi dal 1991 sino alla data della pronuncia (2014). I giudici del gravame avevano ritenuto decisive per l’assoluzione, alcune contribuzioni saltuarie e di modesta entità che l’imputato aveva versato nei confronti del bambino. 

            Tuttavia, gli Ermellini sono di contrario avviso ed accolgono il ricorso della madre. Precisano i giudici che il reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, contestato all’interessato “si realizza nell’ipotesi di omessa contribuzione in favore del minore, pur in assenza di una specifica dimostrazione dello stato di bisogno, poiché tale condizione deriva dall’impossibilità del creditore di procurarsi autonomamente i mezzi di sussistenza, salva la possibilità dell’obbligato di dimostrare, in senso opposto, la diretta accessibilità di questi a mezzi di sostentamento autonomi”. 

            Nel caso di specie, il reato non può essere ritenuto insussistente valutando che sporadici versamenti siano adeguati ad escludere in concreto lo stato di bisogno del bambino. Neppur può valere la considerazione che la madre e i suoi parenti abbiano contribuito a scongiurare lo stato di indigenza del minore, atteso che l’obbligo di mantenimento grava su entrambi i genitori e l’intervento di uno dei due, o di terzi, essendo volontario ed eventuale, non esonera l’obbligato inadempiente dalla responsabilità penale.

            In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la minore età dei figli destinatari di tali mezzi di sussistenza, rappresenta in re ipsa una condizione soggettiva dello stato di bisogno che obbliga i genitore a contribuire al loro mantenimento. È principio pacifico che il reato di cui all’art. 570 c.p., secondo comma, sussiste anche quando uno dei genitori ometta la prestazioni dei mezzi di sussistenza in favore dei figli minori o inabili, ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l’altro genitore.

            Per escludere la sussistenza del reato, sarebbe stato necessario accertare una impossibilità ad adempiere del padre, non dovuta ad una sua condotta volontaria, una verifica che non è avvenuta nel caso in esame. Pertanto, la sentenza impugnata è annullata e la causa rinviata per un nuovo giudizio al giudice competente

Lucia Izzo      Newsletter Giuridica studio Cataldi 05 ottobre 201           sentenza

www.studiocataldi.it/articoli/19608-cassazione-non-bastano-i-versamenti-saltuari-in-favore-del-figlio-per-assolvere-il-padre-dalla-violazione-degli-obblighi-di-assistenza.asp

Va condannato il padre che non versa il mantenimento, se non dimostra assoluta e completa indigenza.

Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, ordinanza n. 39851, 2 ottobre 2015.

La Cassazione ha confermato multa e tre mesi di reclusione, nonostante la precarietà e il lavoro saltuario. Nonostante la situazione lavorativa “precaria” e saltuaria, è confermata la condanna a tre mesi di reclusione ed euro 260,00 di multa per il padre che si sottrae all’obbligo di versamento dell’assegno di mantenimento.

            I giudici della Corte di Cassazione penale, hanno così deciso sul ricorso di un uomo che aveva omesso di versare l’assegno di mantenimento (dell’importo di euro seicento mensili) nei confronti di moglie e figli nell’intero arco temporale ricompreso fra l’agosto 2008 e l’aprile 2009, salvo un parziale adempimento per la somma di euro 640,00. Il ricorrente precisa di non aver avuto alcuna volontà di sottrarsi all’obbligo di versamento del mantenimento, per non ha potuto provvedervi per oggettiva impossibilità considerando la precarietà delle sue condizioni di lavoro e della indisponibilità di un reddito costante nel tempo. In aggiunta l’uomo afferma di aver comunque provveduto all’acquisto di generi di prima necessità e di un mezzo di trasporto per consentire gli spostamenti dei propri figli. Per gli Ermellini il ricorso è tuttavia inammissibile, poiché teso ad una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali già svolte nei precedenti gradi di giudizio.

La Suprema Corte ritiene puntuale la ricostruzione svolta in merito, poiché esattamente i giudici hanno posto in rilievo il dato oggettivo che l’imputato, benché svolgesse attività lavorativa, sia pure in modo saltuario, ha fatto mancare con la sua condotta i mezzi di sussistenza alla coniuge ed ai tre figli minorenni, non essendo la persona offesa in grado di provvedere alle molteplici esigenze di un nucleo familiare composto di quattro unità. Alla stregua delle rappresentate emergenze probatorie, dunque, deve ritenersi che l’impugnata pronuncia abbia fatto buon governo del quadro di principi che regolano la materia in esame ove si consideri che, in caso di mancato pagamento di quell’assegno, la tutela penale prescinde dalla prova dello stato di bisogno dell’avente diritto e che l’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti fissati in sede civile, deve essere assoluta, integrando una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti.

         Nel caso in esame, l’imputato non ha offerto alcuna dimostrazione di versare in una situazione di assoluta ed incolpevole indigenza, sì da rendere materialmente impossibile l’ottemperanza alle relative statuizioni civili.

            In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, d’altronde, incombe sull’interessato l’onere (nel caso in esame non soddisfatto) di allegare gli elementi dai quali possa desumersi l’impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione, del tutto inidonee dovendosi ritenere, a tal fine, la dimostrazione di una mera flessione degli introiti economici o la generica allegazione di difficoltà.

            Il ricorso è inammissibile e il ricorrente è tenuto anche al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Lucia Izzo      Newsletter Giuridica studio Cataldi 05 ottobre 201  sentenza

www.studiocataldi.it/articoli/19651-condannato-il-padre-che-non-versa-il-mantenimento-se-non-dimostra-assoluta-e-completa-indigenza.asp

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ASSEGNO DIVORZILE

L’ex moglie non perde il diritto all’assegno divorzile se svolge lavori saltuari.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 19780, 2 ottobre 2015.

Secondo la Cassazione, bisogna tener conto dell’età e delle condizioni di salute della donna, alla quale si presume anche assegnata la casa coniugale. Legittimo l’assegno di divorzio riconosciuto dal giudice nei confronti dell’ex moglie, senza escludere alla donna la possibilità di svolgere una limitata attività, con redditi modesti e saltuari. Lo precisa la Corte di Cassazione rigettando il ricorso dell’ex marito teso a ottenere l’annullamento delle statuizioni dei giudici di merito che avevano determinato per la moglie un assegno divorzile pari a 300,00 euro mensili.

Gli Ermellini precisano che il consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che l’assegno per il coniuge debba tendere al mantenimento del tenore di vita da questo goduto durante la convivenza matrimoniale, anche se indice di tale tenore di vita possa essere l’attuale disparità di posizioni economiche tra coniugi.

Il regime della separazione è autonomo rispetto a quello del divorzio, specialmente, come nel caso di specie, quando i coniugi si separano consensualmente e le relative clausole sono espressione della loro libera volontà. Adeguata e non illogica la determinazione effettuata dai giudici a quo che avevano esaminato la situazione economica delle parti ravvisandovi una disparità a vantaggio nel marito.

La sentenza impugnata non esclude che l’ex moglie possa svolgere una seppur limitata attività con redditi modesti e saltuari, tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute.

            Per quanto riguarda il godimento della casa familiare, si ritiene che spetti alla donna, altrimenti i giudici di merito avrebbero calcolato la misura dell’assegno tenendo conto di un importo sicuramente più elevato. Rigettato il ricorso, il ricorrente è tenuto al pagamento delle spese processuali.

Lucia Izzo      Newsletter Giuridica studio Cataldi            05 ottobre 201           sentenza

www.studiocataldi.it/articoli/19653-assegno-divorzile-alla-moglie-anche-se-svolge-un-attivita-lavorativa-con-redditi-modesti-e-saltuari.asp

L’ex coniuge avrebbe potuto rendere + produttiva la propria attività, ma si è rifiutata per ragioni etiche.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 19581, 30 settembre 2015.

Ciò non basta per considerare non dovuto a suo vantaggio l’assegno divorzile Con tale questione, in particolare, si è recentemente confrontata la Corte di Cassazione, analizzando un caso.

La questione aveva ad oggetto, nel dettaglio, la richiesta di un uomo di essere manlevato dall’obbligo di versare alla ex moglie l’assegno divorzile di 500 euro mensili, come da condanna della Corte d’appello.

            La Cassazione, nell’esaminare la vicenda oggetto di contenzioso, ha rilevato che nella fase di merito erano state riscontrate, e adeguatamente valutate, sia la forte sperequazione economica esistente tra le parti, sia la sussistenza degli altri requisiti che legittimano l’attribuzione dell’assegno divorzile, in tema di capacità lavorativa e di idoneità alla produzione di reddito, come individuati dalla legge e dalla giurisprudenza.

            A fronte di tale circostanza, per i giudici a nulla rileva che la donna, che per diversi anni aveva gestito un allevamento da riproduzione di struzzi, si era rifiutata di trasformare l’attività in allevamento destinato alla macellazione.

            Le questioni etiche poste alla base della scelta e dalle quali è derivato un declino dell’attività imprenditoriale della ex coniuge, infatti, non sono da sole idonee a farle perdere il diritto all’assegno, che quindi deve continuare ad esserle corrisposto.

Valeria Zeppilli          Newsletter Giuridica studio Cataldi 05 ottobre 201           sentenza

www.studiocataldi.it/articoli/19622-assegno-divorzile-il-rifiuto-di-trasformare-la-propria-attivita-per-questioni-etiche-non-legittima-la-perdita-del-diritto.asp

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CHIESA CATTOLICA

Vi racconto com’era la Chiesa prima del Concilio Vaticano II

E poi l’11 ottobre del 1962 cominciò la grande svolta. Era la fine degli anni Ottanta, al Sinodo i vescovi discutevano dei “christi fideles laici”, e forse per questo il parroco mi aveva chiesto di parlare a un gruppo di giovani-adulti che si preparavano alla Cresima. A un certo punto, per sottolineare la responsabilità che essi si sarebbero assunti ricevendo quel sacramento, mi riferii al nuovo modo di partecipazione alla Messa: una partecipazione più attiva, piena, comunitaria. “Vedete? Ora voi pregate in italiano, ascoltate brani della S. Scrittura. Il sacerdote celebra di fronte a voi, e di fronte a voi consacra il pane e il vino”.

            Mi guardavano come se fossi un alieno, e con un’aria quasi divertita. Non capivo, e non capiva neanche l’amico parroco. Ci mettemmo un bel po’ a scoprirlo. Quei giovani non sapevano nulla del Concilio, della riforma liturgica. La prima volta che erano entrati in chiesa, la Messa era già così. Non avevano mai visto quella di prima. Quando il prete, protagonista assoluto, celebrava in latino con le spalle all’assemblea. E l’assemblea restava muta, passiva, salvo rispondere con un Amen alle preghiere che il sacerdote rivolgeva a un Dio, con il quale lui soltanto sembrava essere in confidenza. E intanto le vecchiette, noncuranti di tutto, recitavano per conto loro il rosario.

            Ma non era solo questa, la Chiesa, prima del Concilio Vaticano II. Era una Chiesa che si portava ancora dietro i “residui” di un passato difficile, tormentato. La Chiesa della cosiddetta “epoca costantiniana”, e cioè di quando i Pontefici erano diventati detentori di un potere temporale. La Chiesa che, della Controriforma, aveva finito con l’accentuarne un certo spirito negativo, difensivo, e soprattutto gli aspetti giuridici, clericali. La Chiesa che dall’inizio del XX secolo, in reazione alle minacce da fuori e ai pericoli interni, si era caratterizzata per una eccessiva uniformità sul piano del governo, su quello liturgico e pastorale.

Così, prima del Concilio, la Chiesa aveva ancora (sospeso il Vaticano I dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia) una struttura piramidale, quasi monarchica. I vescovi, ormai, avevano solo il compito di amministrare le rispettive diocesi. I preti, come più o meno li aveva definiti il          erano dei “super-cristiani”; i laici, invece, senza una configurazione precisa, senza un “posto” proprio nella comunità ecclesiale. La Bibbia ancora emarginata. La libertà di coscienza, se non più condannata, comunque non riconosciuta dappertutto. I non cattolici erano “fratelli separati”, da riportare all’”ovile”. Gli ebrei, quelli del tempo di Gesù ma anche quelli di oggi, responsabili di “deicidio”. E i rapporti con il mondo moderno – seppure erano finiti gli scontri che, dall’Illuminismo, avevano segnato tre secoli di storia – non erano proprio dei migliori.

            Sembrerà un quadro troppo semplicistico, approssimativo, e fors’anche ingeneroso, per le troppe oscurità che ne vengono fuori. Ma andava raccontata, la Chiesa, com’era prima del Concilio. Non per criticarla, certo che no: problemi e situazioni andrebbero contestualizzati, riguardati e giudicati in rapporto alle circostanze storiche, culturali, politiche, e naturalmente ecclesiali, di allora. Ma andava raccontata, la Chiesa, com’era prima del Vaticano II, per ricordare – alle nuove generazioni che ne sanno poco o nulla, e anche a tante persone anziane che con il tempo hanno dimenticato – la svolta che l’11 ottobre del 1962 rappresentò per la comunità cattolica ma anche per l’umanità.

            L’8 dicembre prossimo, con l’avvio del Giubileo della Misericordia, sarà anche commemorato solennemente il 50° della conclusione del Vaticano II. Ma adesso, qui, vorremmo richiamare l’attenzione sull’inizio di quello straordinario evento. Da lì, dall’audacia profetica di Giovanni XXIII, e poi dalla progressiva comprensione, da parte dei vescovi, della loro responsabilità nei confronti della Chiesa universale, da lì cominciò una nuova stagione per il cattolicesimo: nel segno del ritorno alla parola di Dio, alle fonti perenni della vita cristiana, e, insieme, nel segno di una Chiesa profondamente rinnovata, perché più evangelica, più missionaria, più presente nelle vicende degli uomini e del mondo.

Lo storico francese Emile Poulat disse che la Chiesa cattolica era cambiata più nei dieci anni seguiti al Vaticano II che non nei cento anni precedenti. Ma è anche vero che la maggior parte dei cambiamenti – dopo un Concilio che era nato essenzialmente come Concilio pastorale – furono invece di ordine istituzionale; e, fatta eccezione per la riforma liturgica e il rinnovamento biblico, non raggiunsero la massa dei credenti. I quali, allora, riuscirono comunque a respirare la nuova aria che circolava; e, talvolta senza rendersene pienamente conto, tradussero le novità conciliari nella propria vita cristiana, nel linguaggio spirituale, nelle pratiche di pietà.

            Da quei tempi, però, sono passati più di cinquant’anni. Se già alla fine degli anni Ottanta, quei giovani non sapevano nulla del Vaticano II, e di come fosse cambiata la Messa, che cosa possono saperne i cristiani di oggi? Vivono ovviamente la realtà-Chiesa, così com’è stata plasmata dal Concilio; ma – per restare alla celebrazione eucaristica – hanno coscienza del significato di certi gesti che compiono, di certe letture che ascoltano? Qualcuno gli ha mai spiegato che questa nuova maniera di pregare – l’uso della propria lingua, i passi della S. Scrittura, le “intenzioni dei fedeli”, lo scambio della pace – dovrebbe portare anche a una nuova maniera di vivere la fede, e di testimoniarla nella quotidianità della vita familiare e sociale?

Ecco perché sarebbe importante riaprire il “libro” del Concilio, e conoscere come e perché sia stata possibile questa grande opera di rinnovamento; e, dunque, perché oggi nella Chiesa cattolica niente sia più come prima: prima, appunto, del Vaticano II. E, questo, non perché fosse stata messa da parte la Tradizione, o fossero stati cancellati i dogmi, le leggi. Ma perché i padri conciliari, dopo una incredibile maturazione personale e collettiva, avevano saputo leggere il Vangelo con occhi nuovi, e cogliere i segni della presenza di Dio, i “segni dei tempi”, nella storia umana.

            E poi, anche per un altro motivo sarebbe di grande importanza riaprire il “libro” del Vaticano II. Tra le carenze più vistose, e imperdonabili, del rinnovamento post-conciliare, c’è stata quella relativa proprio al documento fondamentale, la costituzione “Lumen gentium”. Ebbene, papa Francesco ha messo in moto il processo di attuazione, e sicuramente incontrerà molti ostacoli. Ma riuscirà a vincere le resistenze di una certa gerarchia ecclesiastica, ancora così gelosa del suo potere e dei suoi privilegi, se avrà il sostegno – un sostegno cosciente, maturo, responsabile – di quella immensa maggioranza del popolo di Dio che sono i laici.

Gian Franco Svidercoschi, vaticanista, già vice direttore de “L’Osservatore Romano”.  8 ottobre 2015

http://it.aleteia.org/2015/10/08/ecco-comera-la-chiesa-prima-del-concilio-vaticano-ii/?utm_campaign=NL_it&utm_source=topnews_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it-Oct%2008,%202015%2008:38%20am

Nel Sinodo il destino del pontificato

Papa Francesco non farà mediazioni. Non nella sostanza. Forse non lo si è letto in profondità il suo intervento di lunedì scorso all’apertura dell’assemblea sinodale. Papa Francesco intende questa seconda assemblea sinodale, che chiude un biennio di confronti, riflessioni, analisi sulla questione della famiglia e che ha visto il più ampio coinvolgimento di tutta la Chiesa, come qualcosa che va oltre il tema stesso.

Il Sinodo sulla famiglia, per la modalità voluta da papa Francesco, concerne l’idea stessa che il Papa ha della forma della Chiesa. Cioè del suo modo di essere. Certo c’ è il tema specifico, ci sono le determinazioni anche canoniche sulle singole questioni (come la comunione ai divorziati risposati) e alla fine toccherà a lui decidere cosa accogliere da questo processo di partecipazione della Chiesa, e lo farà l’anno prossimo durante il giubileo della misericordia.

Ma la sua non vuole essere una decisione solitaria. Questo Sinodo ha lo stile di un Concilio. È la forma nuova, ordinaria, con la quale il papa intende che la Chiesa debba affrontare le questioni che ha di fronte in questo tempo di trasformazioni radicali. Il Papa intende la Chiesa stessa in questa forma di sinodalità e di collegialità. La collegialità come manifestazione esterna (giuridica) dell’unità spirituale interna (la sinodalità), nella quale avviene una partecipazione effettiva dei vescovi e di tutto il popolo di Dio. In questo egli realizza compiutamente quel processo che il Concilio Vaticano II aveva aperto. Così quando egli ricorda «che il Sinodo non è un convegno o un parlamento o un senato, dove ci si mette d’accordo», non ce l’ha con le istituzioni democratiche, ma intende piuttosto riassumere una intera prospettiva ecclesiale: partecipare è recepire.

Per il papa «il Sinodo è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita».

Tutto il suo pontificato si riassume qui. Può non riuscire. Può fallire. E le conseguenze allora sarebbero dirompenti per tutta la Chiesa e per il mondo intero. Per questo non farà mediazioni. Non accetterà che il Sinodo si chiuda in un nulla di fatto. Ne ha una consapevolezza piena e una lucida determinazione. Per questo è intervenuto a sorpresa nuovamente nel dibattito sinodale per chiarire le modalità del Sinodo di fronte alle critiche di alcuni vescovi. E se sarà necessario lo farà ancora. È sempre presente. Partecipa ad ogni momento, parla personalmente con i dubbiosi. Vuole che parlino tutti.

Conosceva dapprima il testo del relatore generale del Sinodo, il cardinale ungherese Péter Erdö. Una relazione così chiusa e arretrata da rappresentare una ostentata provocazione. Perché il testo di Erdö

è nella sostanza un arretramento anche rispetto alla sua relazione iniziale al Sinodo dello scorso anno, non solo rispetto allo strumento di lavoro, elaborato a partire dalla relazione finale e dalle risposte delle Conferenze episcopali di tutto il mondo. Quasi un atto di presunzione. Come se tutto il lavoro svolto sin qui dall’intera Chiesa fosse carta straccia. E il Sinodo una cosa inutile. Un errore grave da parte dell’ala ultraconservatrice. Papa Francesco lo ha lasciato fare. Egli confida che la maggioranza dei padri sinodali sappia e comprenda che la Chiesa cattolica non è l’Ungheria. Non basta stendere un muro di filo spinato per proteggersi dalla realtà e ritenersi al sicuro. Al sicuro da che? E per che cosa?

Quando ha pronunciato le sue parole introduttive, rivolto ai padri sinodali, il papa ha indicato qual è per lui l’unica strada possibile per la Chiesa oggi e con ciò ha detto che andrà fino in fondo. Nello stesso intervento, entrando nel merito, ha chiesto coraggio apostolico, umiltà evangelica, preghiera fiduciosa. Il coraggio apostolico non si lascia intimorire dalle seduzioni mondane, né dalla durezza dottrinale che allontana, in nome del bene, le persone da Dio. L’umiltà evangelica «sa svuotarsi dalle proprie convenzioni e pregiudizi» e non giudica gli altri.

L’orazione fiduciosa «è l’azione del cuore quando si apre a Dio, quando si fanno tacere tutti i nostri umori per ascoltare la soave voce di Dio che parla nel silenzio». Senza Dio la Chiesa non ha parole necessarie da dire. Ma perché questa insistenza e questa urgenza? Papa Francesco è consapevole della profondità della crisi del cristianesimo e della crisi dello stesso Occidente. La vede dalle periferie del mondo. Una perdita di senso della storia che nella storia occidentale avvolge anche la Chiesa.

Sa che nel dopo concilio si è aperta una crisi dell’istituzione-Chiesa, che né il pontificato carismatico di Giovanni Paolo II, né quello teologico di Benedetto XVI hanno risolta. Anzi, che essa si è aggravata trasformandosi in crisi di autorità nella Chiesa stessa, al punto che Benedetto XVI è arrivato alla decisione di dimettersi. E il conclave gli ha chiesto di riformare la Chiesa. Il Concilio Vaticano II aveva affrontato, seppur in maniera disomogenea, l’idea di una riforma della Chiesa, oramai inevitabilmente permeata dalla modernità, riprendendo dalla Chiesa delle origini i concetti di reformatio, purificatio, renovatio.

Entrambi gli ultimi due grandi papi hanno inteso optare prevalentemente per una riforma della Chiesa che guardasse a una estroversione accattivante o alla sua interna purificazione, accantonando o escludendo le altre dimensioni. Papa Francesco ritiene che vista la situazione critica non si possa che agire su tutti i punti, senza più separare la parte strutturale da quella spirituale della riforma. Ma non è questione di qualche raccomandazione o rammendo curiale. È questione di un radicale ritorno al Vangelo. Al Vangelo come vita, testimonianza viva prima che come dottrina. Dal dogma al kerygma. All’annuncio.

Il Vangelo di Gesù somiglia più a una relazione personale che a un sistema dottrinale. Francesco ha una visione relazionale e processuale del Vangelo, come fu agli inizi, nella quale le donne e gli uomini di questo tempo possano riaccostarsi al messaggio cristiano come fosse adesso la prima volta. Riguardando la loro storia e la loro vita. Non è una negazione della dottrina della Chiesa, ma la scommessa che viva nuovamente.

Il papa chiede alla Chiesa di trovare forme di vita della fede che parlino al cuore delle persone nelle situazioni storiche attuali, a cominciare da quelle più drammatiche, uscendo dalle secche di un modello basato su una verità posseduta e semplicemente da comunicare. La Chiesa annuncia la verità (il Dio che si rivela in Gesù Cristo), ma non la possiede e non la può imporre. Per questo Francesco, di fronte alla scena di questo mondo, ha ripreso tra i nomi di Dio quello da tempo sottaciuto di misericordia. Se Dio è misericordia, la Chiesa non può che essere misericordia. In se stessa e nella sua testimonianza. Ma questo la Chiesa lo deve credere assieme.

Brunelli

Pubblicato su IlSole24ore del 9 ottobre 2015 e ripreso da Il Simografo.

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/nel-sinodo-il-destino-del-pontificato.html

Matrimonio indissolubile e Chiesa solubile.

Il Sinodo dei vescovi del 2014 e 2015 va letto storicamente e teologicamente nella scia del Vaticano II: papa Francesco lo ha detto apertamente e vari leader sinodali (quelli che potremmo chiamare “riformisti”) vi fanno riferimento. Come il Vaticano II, anche il Sinodo affronta oggi, sia pure indirettamente, una questione ecclesiologica, simile a quella al cuore del dibattito conciliare e in particolare sulla costituzione Gaudium et spes: la cattolica è una Chiesa aperta al mondo e ai segni dei tempi, capace di cambiare alcune discipline? Oppure è una Chiesa contro-culturale e capace d’annunciare il Vangelo perché indisponibile a un “aggiornamento” alla luce dei tempi moderni?

Ma tra le tante differenze tra la Chiesa dei primi anni Sessanta e quella di oggi vi è una concezione di unità della Chiesa molto diversa, ovvero una ecclesiologia pratica diversa. Nel corso del secondo postconcilio (che a mio parere inizia a metà del pontificato di Giovanni Paolo II e culmina con Benedetto XVI) sono emerse tendenze a un’ideologizzazione del cattolicesimo anche grazie alla sua inculturazione con la mentalità pseudo-calvinista e vagamente settaria del cristianesimo nordamericano.

            Basta fare un giro per le riviste e i blog (ahimè frequentatissimi) del cattolicesimo anglofono per vedere che quanti sono i più fermi nel rigettare qualsiasi modifica nella prassi dell’accesso all’eucaristia per i divorziati risposati sono anche coloro che vedono nel solo atto di dibattere sulla questione un impulso eretico, che è permesso se non addirittura capeggiato da papa Francesco (alcuni cattolicissimi e notissimi blogger cattolici americani hanno apertamente accusato il papa di eresia, talvolta anche su riviste importanti come First Things).

            Sono gli stessi che parlano di uno scisma come probabilmente inevitabile alla luce delle tendenze eretiche del cardinale Kasper e dei vescovi tedeschi in particolare. Una versione sofisticata di questa visione è quella del cardinale Erdö secondo cui non vi è gradualità tra bene e male. La versione rozza, purtroppo non così isolata negli ambienti conservatori americani e anglofoni, è quella secondo cui l’indissolubilità del matrimonio va difesa con la minaccia della solubilità della chiesa.

È una minaccia che suona molto più spaventosa in Europa che in America, in cui buona parte di questi conservatori e tradizionalisti sono approdati alla Chiesa cattolica provenendo da altre Chiese cristiane, in genere chiese della tradizione protestante. È innegabile che la mentalità settaria è entrata a far parte del corpo della Chiesa cattolica e ha un impatto diretto sul dibattito a livello episcopale, specialmente quando tocca una questione come il matrimonio cattolico che è tipica di una concezione di chiesa non settaria.

            Come ha notato un amico e collega americano, alcuni ambienti dicono di prevedere uno scisma all’orizzonte. In realtà sperano che avvenga.

Massimo Faggioli                  martedì 6 ottobre 2015

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/matrimonio-indissolubile-e-chiesa.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

                                    Pescara.          Percorso di conoscenza di se stessi.

Alla scoperta di nuove possibilità e relazioni soddisfacenti. Il percorso mira, attraverso l’utilizzo di dinamiche esperienziali, a favorire la capacità di auto-ascolto, l’esplorazione di sé e del proprio mondo interiore, per acquisire maggiore consapevolezza di ciò che siamo.

Il quadro di riferimento teorico-applicativo è basato sul modello della psicologia umanistica e fornisce ai partecipanti griglie di lettura e modalità di intervento integrate, al fine di offrire agli utenti sostegno e aiuto altamente personalizzati, partendo dalle esigenze e dalle caratteristiche di unicità e soggettività di ogni persona.

            Il training si articola in 10 moduli di 3 ore ognuno, per complessive 30 ore.

La metodologia di apprendimento è teorico-esperienziale. Attraverso esercitazioni tecnico-pratiche si vuol favorire lo sviluppo e l’integrazione di abilità comunicative e di ascolto utili a migliorare la relazione con l’altro sia in ambito professionale che personale.

www.ucipempescara.org

            Trento.           Dalla coppia alla famiglia.

Anche quest’anno il Servizio Attività sociali propone alla cittadinanza un ciclo di incontri dal titolo Dalla coppia alla famiglia, un’occasione per riflettere in coppia e per raggiungere una maggior consapevolezza e condivisione su alcuni temi, come la relazione e le conflittualità, la comunicazione, la sessualità, gli aspetti giuridici e patrimoniali, talvolta sottovalutati e poco discussi.

            L’iniziativa, pensata inizialmente per le giovani coppie che si preparano al matrimonio, si è allargata negli anni registrando una partecipazione molto variegata, sia per età che per condizione dei partecipanti, da coppie di fidanzati a coppie conviventi o coniugate, evidenziando quanto il bisogno di formazione e di cura della relazione duri nel tempo, indipendentemente dall’età e dalla condizione d’appartenenza.

            È organizzata in collaborazione con il Tavolo della formazione alle relazioni familiari, composto da varie realtà che sostengono a vario titolo le coppie e le famiglie: Associazione laica famiglie in difficoltà, Consultorio familiare Ucipem, Consultorio dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari, Punto Famiglie – ascolto e promozione, Forum delle Associazioni familiari del Trentino, Associazione Famiglie insieme, Associazione famiglie per l’accoglienza e Associazione Famiglie nuove.

            Le serate, ad ingresso libero, si terranno durante il mese di novembre a Villa de Mersi a Villazzano, con inizio alle 20.30.

  • giovedì 5 novembre. Così vicini, così diversi! Le parole dell’ascolto nella comunicazione di coppia.

Enrica Tomasi, esperta in comunicazione consultorio UCIPEM

  • giovedì 12 novembre. Io e te: la sessualità nella relazione di coppia.

Luisa Lorusso, psicologa – sessuologa

  • giovedì 19 novembre.

Nodi da sciogliere? Aspetti giuridici e patrimoniali nella vita di coppia.

Massimo Zanoni, avvocato

  • giovedì 26 novembre. Litigare fa bene: istruzioni per l’uso.

Franca Gamberoni, coordinatrice Alfid

In un tempo dove tutto corre, questo percorso vuole essere una proposta dove il tempo della riflessione personale e di coppia trova uno spazio ed un tempo tutto suo, dove ciascuno, sollecitato dalle tematiche affrontate dai relatori possa leggere la propria esperienza e riflettere per costruire serenamente il proprio progetto di coppia e di famiglia, nella consapevolezza che se le problematiche e gli aspetti critici ci accomunano, le risposte possibili sono diverse e spesso uniche, come unica è ogni persona e ogni coppia di persone.

http://lavocedeltrentino.it/index.php/breaking-news-trentino/23167-dalla-coppia-alla-famiglia-nei-giovedi-di-novembre-ritornano-gli-incontri-per-coppie?tmpl=component&print=1&layout=default&page=

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CORTE COSTITUZIONALE

Adozione nazionale di ultraseienne parte da parte di madre libera professionista.

Sentenza n. 205, 22 ottobre 2015                                         estratto                 passim

Illegittimo prevedere il limite dei sei anni di età del bambino soltanto per la madre libera professionista che ricorra all’adozione nazionale.

Giudizio di legittimità costituzionale dell’art.72 del Testo unico delle disposizioni legislative in materia di e sostegno della maternità e della paternità Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151. (…).

            A fondamento dell’istanza, la ricorrente ha prodotto il decreto del 15-18 maggio 2013, con cui il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta ha disposto in favore suo e del coniuge, a decorrere dal 28 febbraio 2013, l’affidamento preadottivo del minore D., nato il 14 luglio 2005.

            La ricorrente denuncia l’illegittimità e il carattere discriminatorio del provvedimento di rigetto, incentrato sul rilievo che il minore avesse già compiuto il sesto anno di età «all’atto di ingresso nel nucleo familiare». (…)

            Il giudice rimettente assume che la normativa sull’indennità di maternità, nel prevedere il limite dei sei anni di età del bambino soltanto per la madre libera professionista che ricorra all’adozione nazionale, contravvenga al fondamentale canone di eguaglianza e al principio di tutela della maternità e dell’infanzia.

            Quanto al primo profilo, il giudice a quo evidenzia che, soltanto per la madre libera professionista che scelga la via dell’adozione nazionale, permane quel limite dei sei anni di età del bambino, che il legislatore ha superato per i lavoratori dipendenti (legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ­ legge finanziaria 2008») e la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo per la madre libera professionista, che opti per l’adozione internazionale (sentenza n. 371 del 2003).

            Tale disparità di trattamento sarebbe priva di ogni ragion d’essere, anche alla luce della «notevole durata», che contraddistingue la procedura di adozione nazionale e implica di frequente, allorché interviene il decreto di affidamento preadottivo, il superamento del limite dei sei anni di età del bambino.

            La normativa impugnata, inoltre, sarebbe disarmonica rispetto ai precetti costituzionali, che impongono di «supportare in modo effettivo le famiglie e soprattutto le donne, le quali si trovano a sostenere l’arduo compito di far coesistere il loro ruolo di lavoratrici con quello di madri e di conseguire l’interesse dei minori, i quali hanno diritto ad una crescita serena».

            L’interesse dei minori – soggiunge il giudice rimettente – non è meno meritevole di tutela nella procedura di adozione nazionale, che registra, al pari della procedura di adozione internazionale, difficoltà e «problematiche sociali e psicologiche» anche quando il minore abbia superato i sei anni di età. (…)

La norma, ad avviso della parte intervenuta, riserverebbe un trattamento deteriore alle madri libere professioniste che scelgono le procedure dell’adozione nazionale, rispetto alle madri lavoratrici dipendenti e autonome, per un verso, e, per altro verso, rispetto alle madri libere professioniste che ricorrono all’adozione internazionale.

            La norma, inoltre, violerebbe il diritto del minore a godere della presenza effettiva della madre, nel momento delicato dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare, e vanificherebbe quella finalità di tutela del minore, che il legislatore persegue con l’istituire tali provvidenze.

2.– La questione è fondata.

3.– Sul presente giudizio non incidono le novità introdotte dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183). Come si evince dalla relazione illustrativa che accompagna il decreto, la normativa si prefigge di armonizzare la disciplina dell’indennità di maternità e di recepire le indicazioni della giurisprudenza di questa Corte, anche con riferimento al limite di età del bambino adottato.

            In tale quadro si inscrive l’art. 20 del D. Lgs. n. 80 del 2015, che, con previsione di carattere generale, svincola l’erogazione dell’indennità dal requisito del mancato superamento dei sei anni di età del bambino. Per effetto della norma transitoria dell’art. 28, tale disciplina si applica soltanto a partire dal 25 giugno 2015, giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

            Le novità normative, che non dispiegano alcuna influenza sul giudizio in corso, non alterano, pertanto, i termini della questione e non richiedono che il giudice rimettente rinnovi la valutazione di rilevanza che ha compiuto, con motivazione articolata e convincente, anche con riguardo alle questioni preliminari sulla tempestività della domanda.

4.– La soluzione del dubbio di costituzionalità non può prescindere dall’inquadramento delle finalità dell’istituto, crocevia di molteplici valori costituzionalmente rilevanti (artt. 31, secondo comma, e 37, primo comma, Cost.).

Nell’indennità di maternità, all’originaria funzione di tutela della donna, scolpita nella stessa denominazione del beneficio, si affianca una finalità di tutela dell’interesse del minore, che l’opera del legislatore e dell’interprete ha enucleato in maniera sempre più nitida. È proprio tale finalità che ispira, sul versante legislativo, la progressiva estensione del trattamento di maternità anche alle ipotesi di affidamento e adozione.

            Tale estensione, dapprima circoscritta alle madri lavoratrici dipendenti (art. 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, in tema di «Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro»), ha coinvolto successivamente le madri lavoratrici autonome (art. 2, comma 2, della legge 29 dicembre 1987, n. 546, che racchiude la disciplina della «Indennità di maternità per le lavoratrici autonome») e le madri libere professioniste (art. 3, comma 1, della legge 11 dicembre 1990, n. 379, avente ad oggetto la «Indennità di maternità per le libere professioniste»).

            La tutela del preminente interesse del minore traspare anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha contribuito a definirne i multiformi contenuti (da ultimo, sentenza n. 257 del 2012, in merito alla modulazione temporale del trattamento di maternità delle lavoratrici iscritte alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, recante «Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare», che abbiano adottato o avuto in affidamento preadottivo un minore).

            In questa prospettiva, l’interesse del minore, che trascende le implicazioni meramente biologiche del rapporto con la madre, reclama una tutela efficace di tutte le esigenze connesse a un compiuto e armonico sviluppo della personalità. Nel caso di affidamento e di adozione, tali esigenze si atteggiano come necessità di assistenza nella delicata fase dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare.

            Proprio per questa nuova pienezza di significato, che trae ispirazione e coerenza dai precetti costituzionali, l’interesse del minore non può patire discriminazioni arbitrarie, legate al dato accidentale ed estrinseco della tipologia del rapporto di lavoro facente capo alla madre o delle particolarità del rapporto di filiazione che si instaura. Inquadrato in tali coordinate, il beneficio dell’indennità di maternità costituisce attuazione del dettato costituzionale, che esige per la madre e per il bambino «una speciale adeguata protezione» (art. 37, primo comma, Cost.). È questa stessa formulazione letterale, non priva di enfasi, che illumina di significati il principio enunciato dalla Costituzione. La specialità e l’adeguatezza della protezione non sono aspetti irrelati ed eterogenei, che possano essere disgiunti l’uno dall’altro. L’assenza di congiunzioni tra i due aggettivi “speciale” e “adeguata” dimostra che si tratta di profili inscindibili, che si compenetrano e si rafforzano a vicenda.

            L’adeguatezza della tutela non può che essere valutata al banco di prova della specificità della posizione di chi dovrà beneficiarne. Inoltre, nell’affermare l’esigenza di una tutela incisiva, la Carta fondamentale associa la madre e il bambino e sceglie di collocarli in un orizzonte comune. Anche il punto di vista della tutela, pertanto, non può che rispecchiare e rispettare l’unicità della relazione esistenziale che lega la madre al bambino.

            L’indennità di maternità è emblematica dell’indissolubile intreccio d’interessi della madre e del minore, che presuppongono, anche secondo il dettato costituzionale, una considerazione unitaria.

5.– La normativa censurata si discosta dai principi costituzionali richiamati. Nel negare l’indennità di maternità soltanto alle madri libere professioniste che adottino un minore di nazionalità italiana, quando il minore abbia già compiuto i sei anni di età, la disciplina si pone in insanabile contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio di tutela della maternità e dell’infanzia, declinato anche come tutela della donna lavoratrice e del bambino. Quanto al primo profilo, la normativa impugnata è foriera di una discriminazione arbitraria a danno della libera professionista che adotti un minore di nazionalità italiana.

(…) La singolarità del trattamento riservato alla libera professionista che opti per l’adozione nazionale è carente di ogni giustificazione razionale, idonea a dar conto del permanere, soltanto per questa fattispecie, di un limite rimosso per tutte le altre ipotesi.

            Nel corso di questo giudizio, che non ha visto intervenire il Presidente del Consiglio dei ministri, non sono state addotte giustificazioni a sostegno di tale trattamento difforme e non è senza significato che, all’incongruenza segnalata, il legislatore abbia successivamente posto rimedio, con l’art. 20 del d.lgs. n. 80 del 2015. Non vi è ragione di condizionare al limite dei sei anni di età del figlio l’erogazione del beneficio soltanto alle madri che adottino un minore di nazionalità italiana. Ciò rende il contrasto con il principio di eguaglianza ancora più stridente, poiché, determinando diversificazioni sprovviste di una precisa ragion d’essere, si pregiudica a un tempo l’interesse della madre e del minore e la funzione stessa dell’indennità di maternità, da riconoscersi senza distinzioni tra categorie di madri lavoratrici e tra figli. Vi è inoltre da considerare che la posizione della madre e del minore di nazionalità italiana non risulta meno meritevole di tutela per il solo fatto che il minore abbia superato i sei anni di età, nel momento in cui il decreto di affidamento preadottivo interviene a formalizzarne l’ingresso nel nucleo familiare.

L’inserimento del minore nella nuova famiglia non è meno arduo e bisognoso di «una speciale adeguata protezione» se il minore è di nazionalità italiana e per il dato contingente, e legato a fattori imponderabili, che il minore abbia superato i sei anni di età. Nel limitare la concessione di un beneficio, che tutela il preminente interesse del minore, la norma censurata si traduce, in ultima analisi, in una discriminazione pregiudizievole non solo per la madre libera professionista che imbocchi la strada dell’adozione nazionale, ma anche e soprattutto per il minore di nazionalità italiana, coinvolto in una procedura di adozione.

            Da tali considerazioni discende l’illegittimità costituzionale della norma, per violazione di tutti i parametri evocati dal giudice rimettente.

            Per questi motivi         la Corte Costituzionale

            dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella versione antecedente alle novità introdotte dall’art. 20 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui, per il caso di adozione nazionale, prevede che l’indennità di maternità spetti alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età.

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero=205

. ▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

DALLA NAVATA

28° domenica del tempo ordinario – anno B -11 ottobre 2015.

Sapienza         07, 29 «Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza.»

Salmo              90, 12 «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio.»

Ebrei               04, 12 «La parola di Dio è viva, efficace, (…) e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.

Marco             10, 18 «Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.»

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FAMIGLIA

Istituzione naturale?

L’occasione è propizia per parlare di famiglia, visto che ne discute il Sinodo della Chiesa Cattolica romana e che in Parlamento sono depositate numerose proposte di legge sul riconoscimento delle unioni, sia etero che omosessuali.

E’ opinione diffusa che la famiglia, e il matrimonio come supporto legale, sia una istituzione naturale. Claude Levi- Strauss, l’antropologo che  rivoluzionò il concetto di famiglia, confutò questa idea dimostrando che la famiglia non è né un fatto naturale né universale, poiché se così fosse la sua definizione non dovrebbe variare nel tempo e nello spazio: la certezza dell’istituzione famiglia, cioè dell’insieme di un uomo di una donna e dei relativi figli, formalizzata dal matrimonio, dovrebbe essere condivisa da tutto il gruppo umano come legge di natura che escluda la possibilità che ve ne siano altre. Gli studi effettuati su diverse popolazioni dimostrarono il contrario. Insomma, niente è naturale, necessario, biologicamente fondato nell’istituzione familiare. In alcune antiche popolazioni esiste il matrimonio legale fra donne per non parlare delle attuali situazioni in varie nazioni.

La famiglia è un fatto culturale non naturale come qualcuno vuol farci credere.

            Comunicato di Primo Mastrantoni segretario ADUC           7 ottobre 2015

http://salute.aduc.it/comunicato/famiglia+naturale_23473.php

Famiglia e forme di convivenza.

La famiglia è uno dei principali argomenti di interesse per la maggior parte delle scienze sociali, che se ne occupano sotto diversi punti di vista. Questo percorso di lettura offre alcuni esempi di studio della famiglia da parte dell’antropologia, della storia, della demografia e della sociologia.

Il primo brano, Famiglia e società, è tratto da uno scritto del celebre antropologo francese Claude Lévi-Strauss, che critica la tesi secondo cui la famiglia coniugale sarebbe elemento costitutivo di ogni società. Contrariamente a questa concezione, essa sarebbe per Lévi-Strauss il frutto di un processo storico. Unico requisito «naturale» della famiglia umana è la regola dell’esogamia, il fatto che essa nasce dall’unione tra persone che originariamente appartengono a famiglie diverse.

Una tesi analoga è sviluppata nel secondo testo del percorso, anch’esso di ambito antropologico, intitolato Discendenza, sistemi di parentela e gruppi domestici. Nel passo si legge che «Per perpetuarsi nel tempo, i gruppi di parentela si scambiano tra loro i partner matrimoniali».

Il terzo testo, opera del sociologo Marzio Barbagli, ci offre una testimonianza del dibattito storico circa le origini della famiglia «moderna», contrassegnata dal calore affettivo nelle relazioni tra marito e moglie e tra genitori e figli.

Il passo successivo è, invece, opera di uno studioso di demografia, Massimo Livi Bacci, e indaga, come recita il titolo, Il declino della fecondità in Italia, studiandone le cause e le possibili conseguenze.

Chiude il percorso un brano di ambito sociologico, Le trasformazioni dei modelli familiari in Italia e in Europa, che mette in evidenza la variabilità del ciclo di vita della famiglia a seconda delle società e dei periodi storici. Se si analizza la famiglia in termini processuali, si riescono ad esaminare le modalità della sua formazione e trasformazione nel tempo, cogliendo i punti di rottura e di continuità rispetto al passato.

 

Famiglia e società. Claude Lévi-Strauss                                          estratto

La famiglia è uno dei campi di studio privilegiati dalla ricerca antropologica. Molti autori hanno in particolare sottolineato l’universalità e l’inevitabilità della famiglia coniugale. Critico nei confronti di questa prospettiva è uno dei più celebri antropologi francesi, Claude Lévi-Strauss, uno dei principali esponenti del cosiddetto «strutturalismo». Secondo Lévi-Strauss, la famiglia coniugale, anche se largamente diffusa, non può essere considerata elemento costitutivo di ogni tipo di società: essa non risponde esclusivamente a funzioni biologiche, ma rappresenta piuttosto «un equilibrio instabile» della struttura sociale. In quasi tutte le società, tra marito, moglie e figli esiste almeno un’unione temporanea di fatto, ma la famiglia non gode sempre dello stesso riconoscimento sociale. Pur in una varietà di forme organizzative e di norme che ne regolano il funzionamento, la famiglia è il prodotto dei legami e degli scambi che strutturano la società.

Lévi-Strauss riconosce nella proibizione dell’incesto, cioè nel divieto di avere rapporti sessuali tra consanguinei, una regola universale, in base alla quale i membri di un gruppo sono costretti a cercare all’esterno, in altri gruppi, il proprio partner. Come osserva in     del 1949: «La proibizione dell’incesto non è tanto una regola che vieta di sposare la madre, la sorella o la figlia, quanto invece una regola che obbliga a dare ad altri la madre, la sorella o la figlia». In questo modo, si sviluppa una fitta trama di scambi, che garantisce la sopravvivenza del gruppo sociale e, in definitiva, la riproduzione della società.

La famiglia coniugale monogamica è abbastanza frequente. Ogni volta che sembra essere sostituita da tipi diversi di organizzazione, ciò avviene generalmente in società molto specializzate e sofisticate, non già – come una volta ci si attendeva – nelle società più semplici e rozze. Inoltre, i pochi casi di famiglia non coniugale (anche nella sua forma poligamica) dimostrano, al di là di ogni dubbio, che l’elevata frequenza del tipo coniugale di raggruppamento sociale non deriva da una necessità universale. È almeno concepibile che una società durevole e perfettamente stabile possa esistere senza di esso. Di qui un difficile problema: se non esiste alcuna legge naturale che renda la famiglia universale, come possiamo spiegare che essa sia rintracciabile praticamente dappertutto? […]

Esiste in forme estremamente diverse e in molti tipi di società; d’altra parte, la prevalenza della monogamia dipende dal fatto che – salvo in particolari condizioni intenzionalmente provocate o determinate oggettivamente – di norma vi è all’incirca una donna disponibile per ogni uomo. Nelle società moderne ragioni morali, religiose ed economiche hanno dato una sanzione ufficiale al matrimonio monogamico […]. Ma nelle società che si trovano a un livello culturale molto più basso, in cui non c’è pregiudizio alcuno contro la poligamia, e in cui magari la poligamia è effettivamente permessa o desiderata, un risultato identico può essere prodotto dalla mancanza di differenziazioni sociali ed economiche, cosicché nessun uomo possiede i mezzi o la capacità di ottenere più di una moglie: di conseguenza ognuno è costretto a fare di necessità virtù. […] Bisogna far ricorso a casi estremi […] per trovare società in cui non esista almeno un’unione temporanea de facto tra il marito, la moglie e i loro figli. Ma occorre tener presente che, mentre da noi un gruppo di questo genere costituisce la famiglia e viene legalmente riconosciuto, ciò non avviene affatto in un elevato numero di società umane […]. La grande maggioranza delle società […] non dimostra un interesse fattivo per un tipo di raggruppamento che, almeno per alcune di esse (tra cui la nostra), appare così importante. Anche qui, sono importanti i gruppi, non già gli aggregati temporanei degli individui che rappresentano tali gruppi. Per esempio, molte società sono interessate a stabilire con chiarezza le relazioni della prole con il gruppo del padre, da una parte, e con il gruppo della madre, dall’altra, ma fanno ciò differenziando fortemente i due generi di relazione […]. Per limitarci a un solo esempio, è sorprendente osservare la minuziosa cura con cui gli indiani Hopi dell’Arizona distinguono diversi tipi di diritti legali e religiosi in riferimento alla linea paterna e alla linea materna, mentre la frequenza del divorzio rende la famiglia così instabile che in pratica molti padri non hanno mai condiviso coi loro figli la stessa casa, dato che le cose sono di proprietà delle donne e, da un punto di vista legale, i figli seguono la linea materna […].

Se gli esempi precedenti possono essere spiegati con l’instabilità, ve ne sono altri che implicano considerazioni del tutto opposte. Nella maggior parte delle regioni dell’India e in molte regioni dell’Europa occidentale e orientale – in alcuni casi fino al secolo scorso – l’unità sociale di base era costituita da un tipo di famiglia che si dovrebbe definire come domestico, anziché coniugale: della proprietà della terra e della fattoria, nonché dell’autorità familiare ed economica era investito il più vecchio antenato vivente, oppure la comunità di fratelli discendenti dallo stesso antenato. Nel bratstvo russo, nella zadruga slava meridionale, nella maisnie francese la famiglia era effettivamente costituita dall’antenato o dai fratelli ancora viventi con le loro mogli, dai figli sposati, anch’essi con le loro mogli e le figlie nubili, e così via fino ai pronipoti. Questi vasti gruppi, che in certi casi potevano comprendere diverse dozzine di persone che vivevano e lavoravano sotto una comune autorità, sono stati designati come famiglie congiunte o famiglie estese. Entrambi i termini sono utili, ma fuorvianti, in quanto implicano che quelle grandi unità siano costituite da piccole famiglie coniugali. Come abbiamo già visto, mentre è vero che la famiglia coniugale limitata a madre e bambini è praticamente universale, in quanto si basa sulla dipendenza fisiologica e psicologica che, almeno per un certo tempo, esiste tra essi, e che la famiglia coniugale costituita da marito, moglie e figli è quasi altrettanto frequente per ragioni psicologiche ed economiche che vanno aggiunte a quella a cui si è accennato prima, il processo storico che ci ha condotti al riconoscimento legale della famiglia coniugale è d’altra parte molto complesso: solo in parte esso è stato determinato dalla crescente consapevolezza di una situazione naturale. Ma non c’è quasi dubbio che, in larga misura, esso sia dipeso dal restringere a un gruppo, il più piccolo possibile, lo status legale5 che, nel passato delle nostre istituzioni, era stato attribuito per secoli a gruppi molto ampi. In conclusione, non sarebbe errato rifiutare i termini di famiglia congiunta e di famiglia estesa. Anzi, è piuttosto la famiglia coniugale che merita il nome di famiglia ristretta. […]

Per completare il quadro, dobbiamo infine considerare i casi in cui la famiglia coniugale differisce dalla nostra, non tanto a causa di una differenza quantitativa di valore funzionale, quanto perché il suo valore funzionale viene inteso in modo qualitativamente diverso dalle nostre concezioni […]. Ci sono molti popoli per i quali il tipo di coniuge che si dovrebbe sposare è molto più importante del tipo di matrimonio che si può realizzare. Questi popoli sono disposti ad accettare unioni che ai nostri occhi apparirebbero non solo incredibili, ma in diretta contraddizione con gli intenti e gli scopi che ci si propone quando si forma una famiglia. Per esempio, i Ciukci della Siberia non erano affatto contrari al matrimonio di una ragazza adulta, diciamo sulla ventina, con un marito bambino di due o tre anni. In tal caso la giovane donna, resa madre da un amante autorizzato, avrebbe curato insieme suo figlio e il piccolo marito. Analogamente, tra i Mohave dell’America settentrionale vigeva il costume opposto, in virtù del quale un uomo sposava una bambina e l’accudiva fino a che non diventasse sufficientemente adulta da adempiere i propri doveri coniugali: tali matrimoni venivano considerati molto saldi, dal momento che i sentimenti naturali tra marito e moglie sarebbero stati rafforzati dal ricordo delle cure che uno dei coniugi aveva prodigato, come fosse un genitore, all’altro […].

Gli esempi che abbiamo finora riferito rispettano, in una certa misura, la dualità dei sessi che costituisce, per il nostro modo di sentire, un requisito del matrimonio e dell’edificazione di una famiglia. Ma in diverse regioni dell’Africa era consentito che donne di alto rango sposassero altre donne, alle quali facevano generare dei figli grazie ai servigi di amanti maschili non riconosciuti. […]

Ci rendiamo ora conto perché sia tanto erroneo cercare di spiegare la famiglia sulle basi puramente naturali della procreazione, dell’istinto materno e dei sentimenti psicologici che intercorrono tra un uomo e una donna, e tra padre e figli. Nessuno di questi fattori sarebbe sufficiente a dare origine alla famiglia, e per una ragione abbastanza semplice: per l’intera umanità il requisito assoluto per la costituzione di una famiglia è l’esistenza preliminare di due altre famiglie, di cui una sia disposta a fornire l’uomo e l’altra la donna, i quali attraverso il loro matrimonio daranno origine a una terza famiglia, e così indefinitamente. In altre parole, ciò che rende l’uomo realmente diverso dall’animale è il fatto che nell’umanità non ci potrebbe essere famiglia se non vi fosse società: se non vi fosse cioè una pluralità di famiglie disposte a riconoscere che vi sono altri legami, oltre a quelli di consanguineità, e che il processo naturale della filiazione può essere perseguito soltanto attraverso il processo sociale dell’affinità. […]

Della famiglia ristretta non possiamo affermare né che costituisca l’elemento del gruppo sociale, né che ne risulti. Piuttosto, il gruppo sociale può instaurarsi soltanto in contrapposizione, e entro certi limiti in accordo, con la famiglia. Infatti, al fine di conservare la società nel tempo occorre che le donne generino dei figli e beneficino della protezione maschile, mentre sono impegnate nel parto e nell’allattamento; e per perpetuare attraverso le generazioni il modello fondamentale del tessuto sociale sono necessari precisi complessi di regole. Eppure, l’interesse primario della società verso la famiglia non è di proteggerla o di rafforzarla: si tratta piuttosto di un atteggiamento di diffidenza, di un rifiuto del suo diritto di esistere in isolamento o in permanenza. Alle famiglie ristrette è concesso di vivere soltanto per un periodo di tempo limitato, lungo o breve secondo i casi, ma alla rigorosa condizione che i suoi componenti siano incessantemente spostati, dati o presi a prestito, offerti o restituiti, cosicché nuove famiglie ristrette possano essere ricreate indefinitamente, ovvero fatte per scomparire.

            Discendenza, sistemi di parentela e gruppi domestici                      Antonio Marazzi      

Uno dei modi attraverso cui ogni società definisce le posizioni degli individui e ne regola, di conseguenza, le interazioni è quello fondato sulla «riproduzione». Quest’ultima riveste una notevole importanza non solo in termini biologici, ma anche per i suoi contenuti culturali e sociali. Oltre a implicazioni inerenti le relazioni tra i sessi e, quindi, le differenze di genere, la riproduzione chiama in causa i criteri e le strategie attraverso cui avvengono la scelta del partner e la costruzione della famiglia, che stanno poi alla base della formazione dei sistemi di parentela e di discendenza.

Numerose ricerche antropologiche, in diverse società tradizionali, hanno mostrato una grande varietà di modelli di matrimonio, di famiglia e di parentela. Questi modelli strutturano le reti di relazioni sociali di una comunità, fissando norme e obblighi sociali. Da essi derivano anche forme diverse di «gruppi domestici», ovvero i tipi di residenza che, in genere, riguardano i membri di una famiglia. Una nuova coppia può andare a vivere con la famiglia dello sposo, seguendo il modello «patrilocale», oppure con la famiglia della sposa, seguendo il modello «matrilocale». Un altro modello, di gran lunga prevalente nelle società moderne, è quello «neolocale»: in questo caso, si forma una famiglia nucleare autonoma, che va a vivere in una propria residenza.

La scelta del partner e il suo riconoscimento sociale è al centro di un delicato e complesso sistema di rapporti interindividuali, che molte popolazioni regolano scrupolosamente, in modo da assicurare una rete ordinata di alleanze matrimoniali. Un’unione stabile e riconosciuta lega i gruppi d’origine dei due partner attraverso una rete di obbligazioni reciproche che ogni società definisce secondo i propri orientamenti. Ma è alla discendenza, assicurata dalla riproduzione, che viene prestata una particolare attenzione, dato che è attraverso essa che una società dura nel tempo.

Questo aspetto dinamico, essenziale per la vita stessa di una cultura, è vissuto in prima persona da ogni individuo, che nel corso del tempo si percepisce di volta in volta come appartenente all’ultima generazione, a quella precedente o ad altre precedenti ancora. Se questa condizione fondata sul fatto naturale della riproduzione è concreta e universale e viene percepita da tutti gli individui come un elemento d’identità sociale che muta nel tempo, la definizione della collocazione sociale all’interno di questo schema generale varia da cultura a cultura.

            Lo studio delle relazioni familiari                 Marzio Barbagli

Per lungo tempo, gli scienziati sociali hanno privilegiato lo studio della struttura delle famiglie. Seguendo questa prospettiva, in molte ricerche è stata focalizzata l’attenzione sulle forme di organizzazione degli aggregati domestici. In questo modo, ad esempio, si è mostrato come, nella storia dei Paesi occidentali, si è verificato un profondo cambiamento delle strutture familiari, in particolare il passaggio da un modello «tradizionale» di famiglia complessa a uno «moderno» di famiglia nucleare. Alcuni autori hanno individuato l’inizio di questa trasformazione nei processi di industrializzazione e di urbanizzazione, mentre altri lo hanno fissato più indietro nel tempo.

Questi ultimi studiosi non si sono limitati a retrodatare di secoli l’affermazione della famiglia nucleare, ma hanno anche sostenuto che essa sia stata uno dei fattori che ha contribuito allo stesso sviluppo dell’industrializzazione. Il dibattito è ancora aperto: le ricerche più recenti hanno evidenziato la presenza di differenti tipi di organizzazione domestica a seconda dei diversi contesti territoriali di riferimento.

Il quadro delle conoscenze disponibili è stato arricchito e, in parte, complicato da un’altra prospettiva di ricerca, che ha privilegiato l’analisi delle relazioni, piuttosto che delle strutture familiari. In quest’ottica, sono state analizzate le relazioni di affetto e di autorità fra i componenti della famiglia, come ad esempio i rapporti tra marito e moglie, oppure tra genitori e figli. Sono state, inoltre, prese in esame le relazioni esterne all’unità coniugale: ad esempio, i vincoli e gli obblighi posti dalla comunità e dalla parentela.

Queste ricerche hanno gettato nuova luce sui mutamenti storici della famiglia, anche se lo studio delle interazioni familiari risulta particolarmente difficile da un punto di vista metodologico.

Due teorie a confronto. Tutti gli studi pubblicati nell’ultimo decennio concordano nell’individuazione, almeno a grandi linee, dei principali mutamenti della famiglia nei paesi occidentali. Sinteticamente si può dire che, secondo i loro autori, la famiglia «moderna» è nata da alcune trasformazioni avvenute nelle relazioni di autorità e di affetto esterne ed interne all’unità coniugale elementare. In primo luogo, questa si è liberata a poco a poco dai controlli della comunità e della parentela. Vi è stato in secondo luogo il passaggio da un sistema di matrimonio combinato dai genitori, mossi esclusivamente da interessi di tipo economico e sociale, ad uno basato sulla libera scelta dei coniugi, sull’attrazione fisica, sull’amore. È mutato in terzo luogo il rapporto fra i coniugi. La tradizionale asimmetria di potere fra marito e moglie si è attenuata, la freddezza ed il distacco lasciato il posto al calore affettivo ed all’intimità, la passione erotica ha acquistato una crescente importanza. Infine, sono cambiate le relazioni fra genitori e figli. Per lungo tempo i padri e le madri hanno avuto un atteggiamento di indifferenza verso i figli (soprattutto finché questi erano piccoli). […] Con la nascita della famiglia moderna gli atteggiamenti ed i comportamenti dei genitori sono radicalmente cambiati ed i figli sono diventati i destinatari privilegiati delle loro cure e del loro affetto.

Anche se concordano nell’individuazione dei principali mutamenti della famiglia nei paesi occidentali, gli autori di questi studi sono in disaccordo su tre cose: su quando, in quali classi sociali e per quali motivi tali mutamenti hanno avuto luogo. In particolare, Edward Shorter e Lawrence Stone sono arrivati a conclusioni completamente diverse su questi punti. Per Shorter, è nella seconda metà del Settecento, a causa della nascita e dello sviluppo del «capitalismo industriale», che è sorta la famiglia moderna. È in questo periodo che sia i rapporti fra i coniugi che quelli fra genitori e figli sono stati investiti da un’«ondata di sentimento». Da un lato si è avuta una crescente «sentimentalizzazione» ed «erotizzazione» del rapporto di coppia: i giovani hanno scoperto l’«amore romantico» ed i piaceri del sesso, le relazioni sessuali pre-matrimoniali sono diventate molto più frequenti, il numero delle nascite illegittime e dei concepimenti prenuziali è cresciuto vertiginosamente. Dall’altro lato, dopo secoli di indifferenza dei genitori verso i figli, è nato l’«amore materno». […] In primo luogo, con la nascita e lo sviluppo del capitalismo industriale, i giovani proletari concentrati nelle città acquistavano la «mentalità dell’economia di mercato». I valori fondamentali di questa nuova mentalità, l’interesse individuale e la competitività, venivano trasmessi dall’ambito del comportamento economico a quello dei rapporti familiari. Così i giovani proletari divenivano sempre meno sensibili ai doveri verso la comunità e la parentela e tendevano sempre più ad essere autonomi, a ricercare la realizzazione di sé ed il piacere sessuale. In secondo luogo, il capitalismo industriale produceva un innalzamento del livello di vita dei ceti medi (artigiani, commercianti, contadini proprietari) e determinava un mutamento nelle relazioni fra genitori e figli, permettendo alle madri di spendere meno tempo ad aiutare il marito nell’azienda familiare e di dedicarsi molto di più all’allevamento della prole.

Completamente diverse sono le risposte date da Lawrence Stone agli interrogativi su quando, in quali classi sociali e per quali motivi è nata la famiglia moderna. Secondo questo storico, dal XV al XIX secolo la famiglia inglese (ma non solo quella) è passata attraverso tre diversi tipi in tre diversi stadi. Il primo, la «famiglia a lignaggio aperto», aveva due caratteristiche di fondo. Innanzitutto i suoi componenti erano sottoposti ad un forte controllo della parentela (nei ceti più elevati) e della comunità (in quelli più bassi). In secondo luogo, sia i rapporti fra i coniugi che quelli fra genitori e figli erano freddi. Questa mancanza di calore affettivo nelle relazioni familiari dipendeva da vari fattori. Dal modello di matrimonio prevalente, che non era basato sulla libera scelta dei coniugi. Dall’alto tasso di mortalità, che spingeva a non fare forti investimenti emotivi in persone la cui vita era appesa ad un filo. Infine dal fatto che i modi in cui venivano allevati i bambini in quella società producevano un tipo di personalità con un’affettività a «gradiente debole», incapace cioè di stabilire relazioni calde con gli altri.

Il secondo tipo di famiglia, quella che Stone chiama «nucleare, patriarcale, ristretta», ha predominato fra il 1580 ed il 1640. Era caratterizzata dal declino della parentela e della comunità, dall’accrescimento del peso dell’unità coniugale elementare, dal rafforzamento del patriarcato, cioè del potere del maschio, padre e marito. Il passaggio dal primo al secondo tipo di famiglia è stato provocato, secondo Stone, dal formarsi del sistema statale moderno e favorito dalla Riforma protestante.

Il terzo tipo di famiglia, che Stone chiama «nucleare, domestica, chiusa», era basata sul principio dell’autonomia personale e tenuta insieme da forti legami affettivi. La influenza di forze esterne come la parentela e la comunità sull’unità coniugale elementare, che era già diminuita nel periodo precedente, si riduceva ulteriormente. All’interno di questa unità nucleare si formavano relazioni affettive più calde fra marito e moglie, genitori e figli. Si invertiva inoltre la tendenza del periodo precedente al patriarcato, mutava la distribuzione del potere all’interno della famiglia ed il grado di subordinazione della moglie e dei figli al marito-padre si attenuava. Questo tipo di famiglia iniziava ad emergere verso il 1620 e si affermava progressivamente nel secolo successivo.

Dunque, a differenza di Shorter, Stone ritiene che la famiglia nucleare domestica chiusa preceda di un lungo periodo di tempo l’industrializzazione e sia di conseguenza del tutto indipendente da questa. Secondo Stone, il formarsi di questo nuovo tipo di famiglia va ricondotto invece alla nascita dell’«individualismo affettivo», cioè ai profondi mutamenti avvenuti nel modo in cui «l’individuo considerava se stesso in rapporto alla società (l’affermarsi dell’individualismo) e nel modo in cui si comportava e sentiva nei confronti di altri esseri umani, da un lato la moglie ed i figli, dall’altro i genitori ed i parenti (l’affermarsi dell’affetto)». […]

Sentimenti di affetto e relazioni di autorità. Numerose critiche sono state rivolte alle ricerche sulle relazioni familiari. Molti studiosi hanno attaccato le tesi principali sostenute dai loro autori, negando in particolare che vi sia mai stato un periodo storico in cui nei rapporti fra coniugi e fra genitori e figli mancasse ogni forma di affetto. Ma più in generale si può dire che dal dibattito che vi è stato è emerso che la ricerca storica sui sentimenti e le relazioni di affetto presenta problemi e difficoltà non facilmente superabili.

In primo luogo, è problematica la definizione stessa dei concetti usati in queste ricerche. Riferendosi in particolare ai rapporti fra i coniugi, Hans Medick e David Sabean hanno negato che si possano considerare come categorie che si escludono a vicenda le emozioni e gli interessi, l’amore ed il denaro. […]

In secondo luogo, è straordinariamente difficile distinguere i «sentimenti» dal «modo di espressione dei sentimenti». E questo comporta il rischio, soprattutto nello studio della vita familiare di un tempo, di scambiare per mancanza di affetto un rapporto di autorità-deferenza. […]

In terzo luogo, la documentazione che anche lo storico più abile o più fortunato può reperire presenta tali limiti che da essa si possono difficilmente ricavare delle prove decisive a favore dell’una o dell’altra tesi sui sentimenti che provavano l’uno per l’altro i diversi componenti di una famiglia. […]- Gli autori delle ricerche sulle relazioni di affetto […] hanno anche cercato di inferire [dedurre] informazioni sui sentimenti partendo da quelle disponibili sui comportamenti. Ma anche questa strada si è dimostrata difficilmente praticabile. […] Molti degli autori delle ricerche sui sentimenti hanno […] considerato indicatori della mancanza di affetto dei genitori verso i figli l’abbandono dei neonati, la pratica di fasciarli strettamente e di lasciarli per lungo tempo da soli immobilizzati in questo modo, di darli ad allattare ad una balia ecc…Ma è stato convincentemente mostrato da altri che nessuno di questi comportamenti può da solo dirci quali fossero i «sentimenti» dei genitori verso i figli.

Il declino della fecondità in Italia.                Massimo Livi Bacci

Uno dei maggiori cambiamenti che, negli ultimi decenni, ha interessato le famiglie dei Paesi occidentali riguarda la riduzione della fecondità. In Italia, questo fenomeno si è manifestato più tardi rispetto ad altri Paesi, ma è cresciuto fortemente a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, tanto che il tasso di fecondità delle donne italiane è oggi tra i più bassi in Europa. Il declino della fecondità può essere ricondotto a una molteplicità di fattori. Tra questi, sono rilevanti la maggiore autonomia delle donne, determinata da più alti tassi di scolarizzazione e di occupazione nel mercato del lavoro, ma anche il «valore più elevato» assegnato ai figli e, quindi, una maggiore preoccupazione rispetto al loro futuro. Le incertezze che restringono lo spazio delle scelte procreative sono, inoltre, aggravate dall’assenza di sostegni e servizi pubblici adeguati.

Il demografo Massimo Livi Bacci mette in evidenza gli aspetti critici di un prolungato declino demografico, mostrando come esso possa provocare effetti negativi sull’intera società. Le cause della ridotta fecondità italiana sono ricondotte alla rapidità delle trasformazioni sociali e culturali e al lento distacco dei giovani dalla famiglia di origine. Per correggere questa situazione, sarebbero necessari interventi rivolti a sostenere economicamente le coppie, ma anche maggiori investimenti, soprattutto nel campo dell’istruzione, per i bambini e i giovani.

Nel corso degli anni Novanta la popolazione italiana, che oggi è di 57 milioni, è rimasta praticamente stazionaria, con l’eccesso di decessi rispetto alle nascite compensato dall’immigrazione. Nel trentennio 1960-1990 la popolazione era cresciuta di 6 milioni, e altri 9 se n’erano aggiunti nei trent’anni precedenti, tra il 1930 e il 1960. Quella che in passato era stata una crescita rigogliosa si è oggi ridotta a zero. E per il futuro? Considerando i prossimi trent’anni […] la popolazione italiana potrebbe ridursi di 7 milioni di unità. […] Questa previsione è basata sul fatto che la fecondità resterà attestata sui bassi livelli registrati negli ultimi quindici anni e che la durata della vita aumenterà ulteriormente. […]

Prima di giungere al cuore della questione vorrei esaminare brevemente un altro aspetto. […] La questione non è se l’Italia (o qualsiasi altro paese) sarebbe un posto migliore con 10 o 20 o 30 milioni di abitanti in meno, ma se un rapido declino demografico è sostenibile per lungo tempo senza provocare un generale impoverimento della società. […] Un rapido declino, come quello previsto dalle attuali tendenze demografiche, non è sostenibile a lungo in numerosi campi: biodemografico, economico, sociale o politico. Sotto il profilo biodemografico, l’attuale tasso di fecondità implica il dimezzamento della popolazione italiana ogni quarant’anni. […] Di fatto, l’ipotizzato declino di 7 milioni di unità nei prossimi trent’anni comporta un rapidissimo invecchiamento della popolazione. […] Tale rapido invecchiamento implica la non sostenibilità economica degli attuali meccanismi dei trasferimenti intergenerazionali per il decrescente numero di chi produce e paga le tasse e il contemporaneo aumento di anziani e pensionati.

L’invecchiamento, inoltre, è destinato a frenare la produttività e a ritardare la crescita. Infine, in campo sociale e politico, una piramide d’età rovesciata provocherebbe un forte rallentamento dell’innovazione e della mobilità; le reti familiari sarebbero più deboli e meno dense; le decisioni politiche verrebbero sempre più a concentrarsi nelle mani degli anziani. Ovviamente, le società possono adattarsi e conformarsi ai cambiamenti, ma nel caso dell’Italia questi ultimi potrebbero essere così rapidi che qualsiasi aggiustamento risulterebbe inefficace. Da qui la non sostenibilità.

Quanto pochi sono i pochi figli che l’Italia produce? Un’unità di misura convenzionale impiegata dai demografi è il cosiddetto tasso di fecondità totale, o il numero di figli per donna basato sull’ipotesi che nessuna donna muoia prima della fine del ciclo di vita fecondo. La fecondità di sostituzione – il numero di bambini necessari per sostituire esattamente una generazione con un’altra, senza aumento o diminuzione – è di pochissimo superiore a due figli per donna, più o meno l’odierno tasso di fecondità delle donne americane. […]. Nell’ultimo decennio, Italia, Spagna e Germania hanno gareggiato per la conquista del tasso di fecondità più basso d’Europa, e l’Italia si è quasi sempre aggiudicata la vittoria. […].

È giunto ora il momento di affrontare un quesito cruciale: perché la fecondità in Italia è così bassa? […]. Esistono almeno due importanti gruppi di elementi correlati: il primo è la rapidità del cambiamento sociale negli ultimi decenni; il secondo consiste nei peculiari meccanismi che governano il lento distacco dei giovani da nido familiare […]. Questa rivoluzione di valori, atteggiamenti e comportamenti ha avuto luogo in una società che, sotto altri profili, è rimasta statica o si è andata evolvendo molto lentamente. L’organizzazione del tempo è rimasta caotica, i ritmi della scuola contrastano con quelli del lavoro; spostarsi è impresa ardua e costosa; l’investimento sociale (in biblioteche, punti d’incontro, strutture sportive e ricreative) per bambini e giovani è gravemente carente; la divisione di genere dei compiti all’interno della famiglia è ancora fortemente asimmetrica; il mercato del lavoro offre poche opportunità alla madre lavoratrice che abbisogna di un lavoro flessibile o part time. Il mancato adeguamento della società ha imposto ulteriori oneri – in termini di tempo ed energia – ai genitori e alle donne in particolare. Il rinvio della decisione di fare un figlio e la riduzione del numero di figli programmati possono dunque essere interpretati come conseguenza di questo insieme di fattori.

Il secondo gruppo di elementi che spiegano la bassissima fecondità concerne quel «troppa famiglia» che è causa e conseguenza di quella che ho definito «sindrome del ritardo», tipica della società italiana. Questa sindrome ha spostato in avanti negli anni la piena assunzione di responsabilità che fanno di un individuo una persona adulta, autonoma e indipendente, in grado di prendere decisioni fondamentali quali instaurare un rapporto stabile o avere dei figli.

La riproduzione è un processo che inizia con la maturazione sessuale e finisce col cessare della capacità di concepire. Una delle principali costanti della storia sociale e demografica nell’Europa moderna è stata il graduale innalzamento dell’età media al primo parto: da un’età postpuberale, com’era comunemente tra le donne toscane del Quattrocento, a un’età molto più matura che per la maggioranza delle donne italiane si avvicina ai 30 anni. Questo processo di graduale procrastinazione è accelerato durante gli ultimi vent’anni, com’è ben documentato da censimenti, indagini e analisi demografiche e sociologiche, e comprovato dall’esperienza comune. Questa ampia documentazione […] dimostra inequivocabilmente due importanti aspetti. Il primo concerne le aspettative: se quasi tutti gli uomini e le donne desiderano e prevedono di avere almeno un figlio, e – in media – vorrebbero averne due, d’altro canto le loro decisioni riproduttive appaiono il risultato finale di una serie di passi da compiere in ordine sequenziale. Il secondo è il graduale innalzamento, tra le recenti generazioni, dell’età in cui si completa l’istruzione, si entra nel mercato del lavoro e si trova un’occupazione stabile, si sceglie una casa, si lascia la famiglia, si inizia una relazione affettiva. […]

Analizziamo dunque il primo aspetto: se è vero che tutti sentono il desiderio di diventare genitori, è altrettanto vero che tale desiderio è subordinato a una serie di condizioni. I sondaggi dimostrano che i programmi dei giovani prevedono, in primo luogo, il completamento degli studi; occorre quindi trovare un lavoro a tempo pieno e poi una casa confortevole; si può pensare, infine, di creare un’unione stabile, il che significa pressoché invariabilmente sposarsi. Il cammino verso le decisioni riproduttive implica la graduale costruzione della stabilità. La grande differenza rispetto al passato non sta nel fatto che per avere dei figli sia richiesta stabilità, ma che tale stabilità viene oggi raggiunta gradualmente, lentamente, e perciò più in là negli anni. […] Negli ultimi vent’anni si è sviluppato un nuovo modello di vita. Secondo tale modello il completamento dell’educazione di entrambi i partner è un prerequisito per entrare nel mercato del lavoro; trovare un’occupazione a tempo pieno e una casa (il che richiede risorse, dal momento che tre quarti delle famiglie italiane possiedono la casa in cui vivono) sono prerequisiti per lasciare la casa dei genitori; e lasciare la casa dei genitori è una condizione per prendere decisioni su matrimonio e procreazione. Ciascuno di questi passi richiede più tempo che in passato. […]

La combinazione di questi ritardi implica, per un numero crescente di coppie, il fatto che la decisione di avere un primo o un secondo figlio – non importa quanto desiderato o pianificato – viene presa in una fase avanzata del periodo riproduttivo e che in alcuni casi tali piani non vengono realizzati a causa del sopraggiungere di problemi di sterilità, del logorio o della rottura del rapporto, o della presa di coscienza che i costi fisiologici o psicologici della procreazione sono più pesanti di quanto si pensasse.

Le trasformazioni dei modelli familiari in Italia e in Europa

Marzio Barbagli, Maria Castiglioni, Gianpiero Dalla Zuanna

In tutti i Paesi europei, nell’ultimo trentennio, si osservano profonde trasformazioni nella vita domestica e nell’organizzazione della famiglia. Le differenze esistenti tra i diversi modelli di «fare famiglia» sono diminuite, anche se permangono alcune peculiarità che continuano a distinguere i Paesi mediterranei da quelli centro-settentrionali. Nei primi i figli lasciano molto più tardi la famiglia di origine, mentre nei secondi risultano di gran lunga più diffuse le convivenze more uxorio. Queste differenze trovano fondamento nella diversa «intensità» che storicamente ha connotato le relazioni familiari nelle due aree: più «debole» nell’Europa centro-settentrionale, più «forte» in quella mediterranea. Con riferimento al nostro Paese, molte caratteristiche delle attuali famiglie italiane sono comprensibili alla luce delle sue dinamiche storiche: ne emerge un quadro che evidenzia notevoli mutamenti, ma che conferma anche la persistente e forte presenza della famiglia nel sistema di relazioni sociali e nei diversi ambiti dell’organizzazione.

Le categorie più spesso usate dagli studiosi di scienze sociali per descrivere e spiegare i mutamenti avvenuti in Europa, nell’ultimo trentennio del Novecento, nella vita domestica, sono quelle di rottura e di convergenza. Rottura, perché in questo periodo sono avvenute delle trasformazioni radicali nei modi in cui le famiglie si formano, si trasformano, si dividono, come pure nelle relazioni di autorità, di cooperazione e di solidarietà fra coloro che ne fanno parte, fra mariti e mogli, genitori e figli, suoceri, generi e nuore. Convergenza, perché la direzione di queste trasformazioni è stata la stessa in tutta l’Europa occidentale e le differenze esistenti fra i vari paesi sono diminuite. Che negli ultimi decenni del Novecento vi siano stati in Europa profondi cambiamenti nell’organizzazione e nella vita domestica è fuori dubbio. Ovunque, il numero dei matrimoni celebrati ogni anno è diminuito, mentre si è innalzata l’età a cui i giovani lasciano la famiglia di origine e quella a cui si sposano ed è cresciuta la quota di coloro che trascorrono alcuni anni della loro vita in convivenze more uxorio, di solito eterosessuali, ma talvolta omosessuali. Ovunque, le relazioni interne alle famiglie sono cambiate, il grado di divisione del lavoro si è ridotto, i rapporti fra coniugi e quelli fra genitori e figli sono diventati meno asimmetrici. Ovunque, vi è stato un calo del tasso di fecondità.

Ovunque, è cresciuta l’instabilità coniugale, il numero dei matrimoni che terminano con la separazione legale o il divorzio. Questi cambiamenti di comportamento sono stati talvolta preceduti e talvolta accompagnati da mutamenti non meno importanti del diritto di famiglia. […] Da questa rivoluzione dei valori e dei comportamenti, delle norme giuridiche e di quelle sociali, è emerso un sistema di organizzazione e di vita familiare assolutamente unico nella lunga storia dell’umanità. Se è vero infatti che anche in passato vi sono state società che ammettevano il divorzio e accettavano le coppie omosessuali, è altrettanto vero che la funzione ed il rilievo di queste istituzioni erano assai diverse da oggi. Inoltre, in nessuna società del passato si sono mai affermati due principi che dominano oggi nei paesi dell’Europa occidentale: la parità di diritti fra coniugi e fra i figli nati dentro e fuori il matrimonio. Altrettanto innegabile è che nell’Europa occidentale, nell’ultimo trentennio del Novecento, vi sia stata una convergenza per molti aspetti della vita domestica. In questo periodo, le somiglianze fra i vari paesi sono aumentate riguardo alle dimensioni ed alla composizione della famiglia, alle regole di residenza dopo le nozze, alla fecondità, alle relazioni fra mariti e mogli, genitori e figli, alle norme giuridiche. Così, ad esempio, le differenze fra i paesi con e quelli senza il divorzio sono venute meno quando questo istituto è stato introdotto nei codici dell’Italia e della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda. […]

Tuttavia, per certi aspetti della vita domestica, vi sono ancora oggi rilevanti differenze fra i vari paesi dell’Europa occidentale, alcune di antica origine, altre emerse più recentemente. Nell’Europa occidentale vi sono oggi due sistemi di formazione della famiglia assai diversi. Nei paesi centro settentrionali, i giovani escono di casa presto, per motivi di studio o di lavoro, e vanno a vivere spesso in una casa in affitto, da soli, con qualche amico o con un partner more uxorio. Nei paesi mediterranei invece i figli e le figlie lasciano la famiglia di origine molto più tardi, in genere in occasione del matrimonio, e vanno a vivere con il coniuge, spesso in una casa di loro proprietà, acquistata con l’aiuto determinante dei genitori. […]

I modi ed i tempi in cui, nel nostro paese, si lasciano i genitori per creare una nuova famiglia sono stati spesso considerati con stupore, preoccupazione, ironia, moralismo. Si è deriso il «mammismo» dei figli e l’iperprotettività ansiosa dei loro genitori. Molti studiosi di scienze sociali hanno cercato invece di capire e di spiegare, e si sono chiesti perché in Italia e in Spagna, in Grecia ed in Portogallo, il sistema di formazione della famiglia sia oggi diverso rispetto agli altri paesi dell’Europa centro settentrionale. Numerose sono state le risposte che essi hanno finora dato a questo interrogativo. Le più importanti riconducono questa differenza alla situazione del mercato del lavoro, a quello dell’abitazione, alle politiche sociali seguite ed alla religione. […] Ma nel complesso si può dire che i tempi ed i modi in cui si creava una nuova famiglia in Italia (e negli altri paesi mediterranei) erano anche in passato assai diversi da quelli che si seguivano nei paesi dell’Europa centro settentrionale. E dunque, pur non ignorando che nell’ultimo trentennio vi è stata in tutta Europa una rottura nella storia del mondo domestico, siamo convinti che dobbiamo tenere conto anche della continuità con il passato per spiegare le differenze oggi esistenti fra i paesi centro settentrionali e quelli meridionali. Più in generale, i risultati di numerose ricerche storiche condotte negli ultimi trenta anni da storici, demografi e sociologi – per quanto ancora frammentari ed insoddisfacenti – fanno pensare che per molti secoli i legami familiari siano stati tendenzialmente «deboli» nei paesi centro settentrionali, «forti» in quelli meridionali. Per quanto possiamo affermare grazie alla documentazione attualmente disponibile, nell’Europa meridionale i legami fra genitori e figli e fra fratelli permangono intensi per tutta la vita, mentre nell’Europa centro settentrionale si attenuano già alla fine dell’adolescenza. Oggi come nei secoli passati, questa struttura a «famiglia forte» è in grado di condizionare profondamente sia la vita dei singoli che l’intera organizzazione sociale dei paesi dell’Europa del Sud. Questa differenza ha conseguenze importanti su diversi aspetti della vita delle persone e delle famiglie […]. Ad esempio, i legami familiari forti reggono anche davanti all’emigrazione in paesi dominati dalla famiglia «debole», come mostriamo esaminando le scelte familiari dei giovani italiani di seconda generazione emigrati in Australia. […]. Se fosse davvero fondata, questa ipotesi di continuità storica potrebbe aiutarci a capire molte altre differenze che si riscontrano oggi in Europa, fra le quali quelle nelle politiche sociali tradizionalmente seguite. Naturalmente queste politiche dipendono da numerosi fattori. Ma se oggi nei paesi centro settentrionali i compiti di assistenza e di cura delle persone vengono attributi spesso allo stato ed al mercato, mentre in quelli mediterranei ricadono più frequentemente sui genitori, sui figli, sui coniugi, è anche perché, per molti secoli, nei primi hanno dominato le famiglie «deboli», nei secondi invece quelle «forti».

http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:Bq-wUmWfOUAJ:www.loescher.it/librionline/risorse_capirelasocieta/download/2712_Percorso7.pdf+&cd=1&hl=it&ct=clnk&gl=it

Diritto sulla famiglia, diritto per la famiglia.

Oggi si parla tanto di famiglia ma, forse, si pratica poco la famiglia. Tra i neologismi odierni compare “famigliafobia”, un atteggiamento sempre più diffuso contro la famiglia, cui si dovrebbe rispondere impiegando, in maniera atecnica, attività quali “doing business” (fare impresa), “civic crowdfunding” (finanziamento collettivo) e “fundraising” (raccolta fondi). Se si riscoprissero il senso e il significato della famiglia non ci sarebbe bisogno di alcun neologismo, né negativo né positivo.

“L’interesse della famiglia non sempre coincide con quello egoistico dei singoli, e perciò l’organizzazione familiare viene regolata da numerose norme inderogabili, di ordine pubblico. Mentre massima è la libertà che il diritto riconosce ai soggetti nel determinarsi al compimento degli atti familiari, minima è l’autonomia che viene loro riconosciuta nel regolamento del rapporto di famiglia”. Così si esprimeva il grande giurista Alberto Trabucchi, “maestro del diritto di famiglia”, tra gli anni ’60 e gli anni ’70, anni cruciali per il diritto di famiglia.

            Con l’avvento degli anni 2000, purtroppo, è tornato preponderante l’interesse egoistico che ha portato all’ammissibilità di patti in deroga ai doveri coniugali (inammissibili, però, se riguardanti l’obbligo di assistenza morale e materiale o se finalizzati all’elusione dei doveri coniugali) e alle varie configurazioni e denominazioni della famiglia, dalla famiglia unipersonale alla famiglia arcobaleno.

            “Quando si esaminano i grandi capolavori della letteratura o del cinema, non si può non essere colpiti dal modo in cui le realtà familiari si trovano spesso nel cuore del dramma o della tresca. Complessità delle relazioni tra congiunti, tra fratelli e sorelle, tra genitori e figli, tra famiglie imparentate o vicine. La vita familiare sembra presentare una gamma quasi infinita di situazioni che offrono al talento dello scrittore o del cineasta l’occasione di appassionarci e di farci riflettere. Prendendo in esame tale realtà multiforme, questi osservatori della vita familiare vi trovano il peggio e il meglio. Vi si trovano infatti generosità, bontà, sacrifici, come pure abusi a volte terribili, chiusura e sofferenza”.

            Queste le parole del teologo francese Marc Rastoin, per il quale si tratta di una realtà umana e sociale fondamentale: “le famiglie rivelano ciò di cui è capace il cuore umano, nel bene e nel male. Le famiglie possono essere ferite, segnate dal peccato e dal silenzio, possono essere luoghi di dolore e di follia, ma pure […] possono essere luoghi di crescita e di bontà, di bellezza e di perdono, di parola e di verità. Questo vale per la vita della coppia genitoriale – che ne è la fonte e la base -, come pure per le relazioni genitori-figli, che ne sono il frutto. […] Ognuno di noi ha la propria esperienza, e questo ai diversi livelli della realtà familiare. Ci sono infatti in ogni famiglia ombre e luci, cose e avvenimenti di cui non si deve parlare, e persone il cui coraggio si trasmette silenziosamente agli altri. Una moglie o un marito che si prende cura del proprio coniuge malato con una dedizione incondizionata. Genitori che si prendono cura dei loro figli con pazienza amorevole. Fratelli e sorelle generosi e solidali tra loro, quando uno vive un momento difficile. Pensiamo anche a genitori con un figlio vittima della droga. D’altra parte, conosciamo tutti gelosie strane e implacabili tra fratelli e sorelle, padri assenti che si disinteressano dei loro figli, fratelli e sorelle che si fanno del male, stupidamente e amaramente, per un’eredità, soffrendo per vecchie ferite mal digerite, coppie in cui l’amore s’è trasformato in guerre con trincee più o meno silenziose. Perché una tale tavolozza?” .

            Non esiste nessuna “famiglia del Mulino Bianco” e proprio per questo bisogna darsi ancor di più da fare.

            Per arginare i contrasti insiti in ogni famiglia il legislatore della riforma del diritto di famiglia (L. n. 151/1975) ha focalizzato l’attenzione sulla famiglia nella sua interezza, con le varie locuzioni in cui è richiamata, per fissarne la priorità rispetto ai singoli membri: interesse della famiglia (art. 143 comma 2 c.c.), bisogni della famiglia (art. 143 comma 3 c.c.), esigenze preminenti della famiglia (art. 144 c.c.), esigenze dell’unità e della vita della famiglia (art. 145 comma 2 c.c.), mantenimento della famiglia (art. 324 comma 2 c.c.).

            Il senso e significato di mettere su famiglia è indicato nell’art. 144 c.c.: concordare l’indirizzo della vita familiare e fissare la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi (vocabolo che differisce da “tutti e due”, perché indica una relazione più stretta) e quelle preminenti della famiglia stessa. Il legislatore del 1975, oltre alla funzione naturale di “mediazione attiva” della famiglia, ha previsto anche una sorta di “mediazione interattiva” con l’intervento del giudice e pure con l’audizione dei figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno d’età (art. 145 cod. civ.).

            Questa disposizione, così come altre innovative dell’allora riforma, sono state disattese o neglette.

            “Il dramma è non tentare l’impossibile per togliere le incrostazioni, sanare le ferite, rimuovere il non-detto nelle dinamiche che normalmente vive una coppia, in modo che da una situazione di crisi – salutare, il più delle volte – riemerga un nuovo ritmo di vita a due. La posta in gioco è la felicità delle persone e in definitiva di ciascuno di noi” afferma la psicologa e psicoterapeuta Paola Bassani.

            “Collaborazione nell’interesse della famiglia” (art. 143 comma 2 c.c.) significa che la coppia coniugale deve sublimarsi e non può incrinarsi alla prima crisi, sbandata o difficoltà come, invece, avviene. Quasi una dimensione triadica in cui la coppia è la base ed il vertice è la famiglia.

            “La vocazione alla famiglia è iscritta nella natura umana, ed essa prende la forma di un viaggio impegnativo e a volte conflittuale, come lo è tutta la vita, del resto. Sono incalcolabili la forza, la carica di umanità in essa contenute: l’aiuto reciproco, le relazioni che crescono con il crescere delle persone, la generatività, l’accompagnamento educativo, la condivisione delle gioie e delle difficoltà”.

            Tale descrizione, del teologo Antonio Spadaro, è espressa giuridicamente nell’attualità e problematicità dell’art. 29 comma 1 della Costituzione: “[…] famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.

            C’è, infine, “un problema culturale più ampio, sul modo di intendere la famiglia. […] Senza un orizzonte autenticamente relazionale, la famiglia non può né costituirsi né, poi, reggersi” (Franco Miano, docente di filosofia morale).

            Famiglia deriva etimologicamente dall’osco-umbro “faam”, casa, divenuto poi nel latino “famulus”, servitore. Famiglia è fare casa insieme e mettersi al servizio l’uno dell’altro. Se vengono a mancare queste caratteristiche sin dal “progetto di famiglia”, non vi è famiglia ed è inutile e dannoso mettere al mondo un figlio sperando che “cementifichi” una relazione vacillante o inesistente.

            È questo il senso della pluricitata definizione (considerata ossimoro) dell’art. 29, comma 1, della Costituzione, ove si legge “famiglia società naturale fondata sul matrimonio”.

            Una famiglia da progettare è quel diritto di sposarsi e di fondare una famiglia riconosciuto in tutti gli atti internazionali (per es. art. 16 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani) che è ben diverso da quei “progetti di genitorialità privi di legami biologici con il nato” di cui si parla nella sentenza del G.I.P. del Tribunale di Napoli del 17 luglio 2015 (che, molto discutibilmente, ha aperto le porte in Italia alla cosiddetta maternità surrogata o utero in affitto).

            La genitorialità non è un diritto e la famiglia è tale anche senza figli. Non bisogna pretendere di avere figli ad ogni costo e con ogni mezzo trascurando, poi, i diritti degli altri, in primis dei futuri figli.

            Una sublimazione dell’amore genitoriale si ha già nella genitorialità adottiva, nel cui caso la legge riconosce il diritto del figlio adottato di accedere ad informazioni sulle proprie origini (il novellato art. 28 legge 4 maggio 1983 n. 184 distingue varie modalità).

            Famiglia è dare la vita e darsi la vita in uno spirito di servizio intrafamiliare e interfamiliare, ovvero “generatività” (concetto elaborato per la prima volta dallo psicoanalista tedesco Erik Erickson, intesa come capacità dell’età adulta opposta ad una condizione di stagnazione e autoassorbimento), che non si manifesta necessariamente nella “generazionalità” (mettere al mondo altre generazioni): è anche questo uno degli aspetti dell’ecologia familiare, relazionale ed umana, esigenza sempre più sentita.

            A proposito di quest’ecologia (“eco-” dal greco “oikos” che significa “casa, famiglia”), nelle attuali compagini familiari, famiglie con figlio unico o famiglie allargate, i genitori hanno ancor di più il compito di educare alla fratria, alla fraternità e alla fratellanza.

Anche se non è costruttivo che la riforma del decreto legislativo 154/2013 abbia eliminato dall’art. 147 del codice civile la distinzione tra “prole” (complesso dei figli di una famiglia) e “figli” (i singoli figli). Così sostiene fra Fabio Scarsato (occupatosi a lungo di disagio giovanile): “Senza per forza di cose arrivare ai «fratelli coltelli» o alle diaboliche liti per le eredità, ma certamente l’esperienza ci ha insegnato che fratelli e sorelle si nasce, in qualche modo. Ma poi, giorno dopo giorno, bisogna anche diventarlo. Geneticamente e spiritualmente siamo predisposti alla fraternità. Ma questa non avverrà senza di noi. Che è come dire: qualcosa viene donato, ma poi il resto va responsabilmente costruito assieme, faticando, sbagliando, ricominciando. Talvolta anche accettando che il fratello o la sorella restino diversi dalle nostre aspettative, non ci assomiglino, facciano altre scelte di vita, anche sbagli. Perché essere fratelli non significa non vedere o giustificare sempre. E comunque parliamo di fratelli, non di gemelli, perfettamente uguali, l’uno fotocopia dell’altro. Il fatto è che le nostre fatiche e i nostri insuccessi non sono di per sé una negazione della fraternità. Ci dicono piuttosto della lunga strada da percorrere e del nostro desiderio insopprimibile di arrivarci”.

La famiglia – si legge nel punto n. 16 del Patto associativo del Forum delle associazioni familiari del 1999 – “deve essere riconosciuta quale soggetto attivo, consapevole e responsabile, titolare di doveri e diritti all’interno del sistema dei servizi alla persona, con particolare riferimento agli ambiti culturale, scolastico, lavorativo, sociale, assistenziale, sanitario, giuridico, psicologico e relazionale e deve poter fruire delle relative adeguate misure economiche”.

La famiglia è e deve essere anche soggetto economico. Occorre riappropriarsi del vero e profondo significato di economia, quell’economia richiamata nella Costituzione, a cominciare dall’art. 2 ove si parla di “solidarietà economica”.

            In alcune famiglie si sta provando a educarsi al valore delle cose. “Talvolta basta decidere che un guasto o una rottura, soprattutto se provocati da disattenzione o superficialità, non saranno magicamente pagati da chissà chi: la famiglia, solennemente riunita in seduta plenaria, deciderà a che cosa si rinuncerà per far fronte a quel costo. E ognuno contribuirà per quel che può ed è alla portata delle sue tasche (ma si può anche sopperire con qualche lavoretto in casa o rinunciando a un gelato). Un’altra volta, all’arrivo del tanto richiesto cagnolino, ci si dividerà equamente i compiti, dando a ognuno la sua piccola responsabilità (l’esperienza insegna che quando si tratta periodicamente di portare il cagnolino a fare una passeggiata, non è così semplice staccarsi dai propri giochi o dalla tv). Educarsi a «pagare di persona» nelle piccole cose” (fra Fabio Scarsato).

            Nel Preambolo e nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si prescrive di educare il fanciullo ai valori e alla responsabilità, ma in realtà in famiglia occorrono coeducazione valoriale e corresponsabilità che esprimono il vero senso della famiglia di mettersi al servizio l’uno dell’altro.

“Il nostro mondo scorre dinanzi a noi e assume la nostra impronta, la nostra forma” (dal pensiero del filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson): così ogni famiglia e l’infanzia generata ed educata in seno ad ogni famiglia. È inutile lamentarsi delle nuove generazioni: esse sono lo specchio delle generazioni precedenti. La famiglia genera tutto, non solo i figli, e può far degenerare ogni cosa, per esempio i valori in disvalori. Il primo luogo sicuro (etimologicamente “senza preoccupazione”), deputato per natura ad ogni forma di educazione, è e deve essere la famiglia. La reciprocità nell’amare è anche saper chiedere e prendere l’amore e il calore dall’altro e dell’altro. Questa è l’educazione sentimentale (ancor prima che sessuale) che bisogna impartire e in cui bisogna crescere in famiglia.

            Negli ultimi decenni per arginare la forza centrifuga della deriva individualistica e l’arretramento del Welfare State, che hanno fatto sorgere nuove esigenze come quella dei caregiver (letteralmente “colui che si prende cura” e si riferisce a tutti i familiari, prevalentemente donne, che assistono un loro congiunto ammalato e/o disabile) o del cohousing (una forma di coabitazione solidale in cui più famiglie condividono spazi, tempi e servizi), il legislatore ha cercato di riassettare il tessuto relazionale della famiglia con varie leggi, dalla legge 28 marzo 2001 n. 149 che ha cambiato la rubrica della legge sull’adozione in “Diritto del minore ad una famiglia”, al decreto legislativo n. 80/2015 (Decreto attuativo della c.d. riforma Jobs Act) che ha esteso i congedi (in tal caso non retribuiti) per i genitori, lavoratori dipendenti, sino all’età di 12 anni dei figli.

            La legge 149/2001 ha profondamente innovato la legge sull’adozione 184/1983 tanto da renderla un vero vademecum della genitorialità (non solo di quella adottiva), dall’art 1 in cui si stabilisce che il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia all’art. 6 in cui si parla di idoneità e capacità dei futuri genitori, e così di seguito.

            Lungo la stessa linea è seguita la legge 10 dicembre 2012 n. 219 “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali” (come pure il decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154) che, tra le varie novelle legislative, ha sostituito l’art. 315 del codice civile, nel cui attuale testo al secondo comma si legge: “Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”. Perché nella famiglia si è (o si dovrebbe essere) l’uno dall’altro, l’uno con l’altro, l’uno per l’altro, soprattutto in presenza di figli.

            La famiglia è un progetto fatto di vari momenti, componenti ed elementi. La famiglia, prima ancora di essere una comunità, è comunione, alla base di ogni altra comunità. Infatti, laddove venga a mancare questa comunione si riportano conflittualità e negatività in ogni altro contesto.

            In quasi tutte le fonti normative la famiglia è definita “naturale”: sia per la famiglia e non a costo della famiglia ogni decisione, personale o politica. Dalla famiglia alla famiglia: così la vita, così l’aspirazione, così l’esigenza di ogni uomo. Dalla famiglia alla famiglia: ecco il cerchio della vita.

dr Margherita Marzario -Newsletter Giuridica studio Cataldi     05 ottobre 201

http://www.studiocataldi.it/articoli/19631-diritto-sulla-famiglia-diritto-per-la-famiglia.asp

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Papa Francesco: no ai ministri di rigidità, Dio vuole misericordia.

Il profeta Giona resiste alla volontà di Dio, ma alla fine impara che deve obbedire al Signore. Francesco ha sviluppato la sua omelia muovendo dalla Prima Lettura, tratta proprio dal Libro di Giona, e ha osservato che la grande città di Ninive si converte proprio grazie alla sua predicazione: “Davvero fa il miracolo, perché in questo caso lui ha lasciato da parte la sua testardaggine e ha obbedito alla volontà di Dio, e ha fatto quello che il Signore gli aveva comandato”. Ninive, dunque, si converte e davanti a questa conversione, Giona, che è uomo “non docile allo Spirito di Dio, si arrabbia”: “Giona – ha detto il Papa – provò grande dispiacere e fu sdegnato”. E, addirittura, “rimprovera il Signore”.

            Se il cuore è duro, la misericordia di Dio non può entrare. La storia di Giona e Ninive, annota Francesco, si articola dunque in tre capitoli: il primo “è la resistenza alla missione che il Signore gli affida”; il secondo “è l’obbedienza, e quando si obbedisce si fanno miracoli. L’obbedienza alla volontà di Dio e Ninive si converte”. Nel terzo capitolo, “c’è la resistenza alla misericordia di Dio”:

            “Quelle parole, ‘Signore, non era forse questo che dicevo quando ero nel mio Paese? Perché Tu sei un Dio misericordioso e pietoso’, e io ho fatto tutto il lavoro di predicare, io ho fatto il mio mestiere ben fatto, e Tu li perdoni? E’ il cuore con quella durezza che non lascia entrare la misericordia di Dio. E’ più importante la mia predica, sono più importanti i miei pensieri, è più importante tutto quell’elenco di comandamenti che devo osservare, tutto, tutto, tutto che la misericordia di Dio”.

            Anche Gesù non era capito per la sua misericordia. “E questo dramma – rammenta Francesco – anche Gesù lo ha vissuto con i Dottori della Legge, che non capivano perché Lui non lasciò lapidare quella donna adultera, come Lui andava a cena con i pubblicani e i peccatori: non capivano. Non capivano la misericordia. ‘Tu sei misericordioso e pietoso’”. Il Salmo che oggi abbiamo pregato, prosegue il Papa, ci suggerisce di “attendere il Signore perché con il Signore è la misericordia, e grande è con Lui la redenzione”.

            No ai ministri della rigidità, il Signore ci chiede misericordia. “Dove c’è il Signore – riprende Francesco – c’è la misericordia. E Sant’Ambrogio aggiungeva: ‘E dove c’è la rigidità ci sono i suoi ministri’. La testardaggine che sfida la missione, che sfida la misericordia”: “Vicini all’inizio dell’Anno della Misericordia, preghiamo il Signore che ci faccia capire come è il suo cuore, cosa significa ‘misericordia’, cosa vuol dire quando Lui dice: ‘Misericordia voglio, e non sacrificio!’. E per questo, nella preghiera Colletta della Messa abbiamo pregato tanto con quella frase tanto bella: ‘Effondi su di noi la Tua misericordia’, perché soltanto si capisce la misericordia di Dio quando è stata versata su di noi, sui nostri peccati, sulle nostre miserie”.

Alessandro Gisotti     Notiziario radio vaticana–6 ottobre 2015  http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

Papa: famiglie rendono il mondo più umano, ma politica non le sostiene.

La Chiesa per la sua missione e il mondo per la sua stessa esistenza hanno bisogno di essere animati dallo “spirito familiare”, che mette in luce la parte migliore di ogni convivenza, civile ed ecclesiale. È il pensiero di fondo del Papa all’udienza generale in Piazza San Pietro. Francesco ha invitato politica ed economia a sostenere le famiglie, portatrici di valori insostituibili per il bene comune di ogni società. Sulle rive del lago dell’umanità la Chiesa non può continuare a pescare con le sue “vecchie reti”, quelle usate finora. Per prendere di nuovo il largo, e portare avanti la sua missione, ha bisogno – sostiene il Papa – di una dose massiccia di “spirito familiare”, perché la rete di rapporti e valori che tiene unita una famiglia è tuttora la migliore forma di “convivenza civile”, che scienza e tecnica non hanno saputo né imitare né superare.

Rapporti “disidratati”

Mentre i padri sinodali sono riuniti nei Circoli minori, Francesco propone la prima di una serie di catechesi che intendono accompagnare i lavori dell’assise in corso in Vaticano e riflettere sul legame, che definisce “indissolubile”, tra Chiesa e famiglia. Famiglia che il Papa dimostra di considerare davvero come protagonista di qualsiasi quotidianità di qualsiasi Paese e cultura:

“Uno sguardo attento alla vita quotidiana degli uomini e delle donne di oggi mostra immediatamente il bisogno che c’è ovunque di una robusta iniezione di ‘spirito famigliare’. Infatti, lo stile dei rapporti – civili, economici, giuridici, professionali, di cittadinanza – appare molto razionale, formale, organizzato, ma anche molto ‘disidratato’, arido, anonimo. Diventa a volte insopportabile. Pur volendo essere inclusivo nelle sue forme, nella realtà abbandona alla solitudine e allo scarto un numero sempre maggiore di persone”.

Famiglia crea un mondo abitabile. Insomma, rapporti umani che sono carenti proprio di “umanità”. La quale vibra e permea invece – osserva Francesco – ogni nucleo familiare che si regga sull’amore libero e reciproco dei suoi componenti: “La famiglia introduce al bisogno dei legami di fedeltà, sincerità, fiducia, cooperazione, rispetto; incoraggia a progettare un mondo abitabile e a credere nei rapporti di fiducia, anche in condizioni difficili; insegna ad onorare la parola data, il rispetto delle singole persone, la condivisione dei limiti personali e altrui. E tutti siamo consapevoli della insostituibilità dell’attenzio ne famigliare per i membri più piccoli, più vulnerabili, più feriti, e persino più disastrati nelle condotte della loro vita”.

Lo strano paradosso- Il problema è che famiglie così non godono di quell’attenzione che la loro grande rilevanza sociale meriterebbe. Alla famiglia, afferma il Papa, non si dà “il dovuto peso – e riconoscimento, e sostegno – nell’organizzazione politica ed economica della società contemporanea” che, “con tutta la sua scienza e la sua tecnica”, “non è ancora in grado di tradurre queste conoscenze in forme migliori di convivenza civile”: “Non solo l’organizzazione della vita comune si incaglia sempre più in una burocrazia del tutto estranea ai legami umani fondamentali, ma, addirittura, il costume sociale e politico mostra spesso segni di degrado – aggressività, volgarità, disprezzo… – che stanno ben al di sotto della soglia di un’educazione famigliare anche minima. In tale congiuntura, gli estremi opposti di questo abbrutimento dei rapporti – cioè l’ottusità tecnocratica e il familismo amorale – si congiungono e si alimentano a vicenda. Questo, vero, è un paradosso”.

La Chiesa è la famiglia di Dio. Ma non lo è, un paradosso, per la Chiesa che – indica il Papa – “individua oggi, in questo punto esatto, il senso storico della sua missione a riguardo della famiglia e dell’autentico spirito famigliare, incominciando da un’attenta revisione di vita, che riguarda sé stessa”: “Si potrebbe dire che lo ‘spirito famigliare’ è una carta costituzionale per la Chiesa: così il cristianesimo deve apparire, e così deve essere (…) Potremmo dire che oggi le famiglie sono una delle reti più importanti per la missione di Pietro e della Chiesa. Non è una rete che fa prigionieri, questa! Al contrario, libera dalle acque cattive dell’abbandono e dell’indifferenza, che affogano molti esseri umani nel mare della solitudine e dell’indifferenza. Le famiglie sanno bene che cos’è la dignità del sentirsi figli e non schiavi, o estranei, o solo un numero di carta d’identità”.

Alessandro De Carolis Notiziario Radio vaticana–7 ottobre 2015

http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬NNONNI

Se il genitore impedisce al nonno di vedere i nipoti.

            Il diritto dei nonni a mantenere un rapporto significativo con i nipoti trova tutela in Italia e in Europa ma a condizione che non pregiudichi l’interesse dei bambini. Il genitore non può impedire al nonno di frequentare il nipote ma spetta al giudice decidere cosa è meglio per l’interesse del bambino. La tutela del rapporto significativo tra ascendenti e nipoti è riconosciuta in Italia e all’estero. Vediamo come.

            La legge italiana riconosce ai nonni il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. Qualora il genitore o altra persona impedisca l’esercizio di tale diritto, i nonni possono ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore affinché vengano adottati i provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del minore [Art. 317 bis cod. civ.].

            Il diritto ai rapporti significativi con i minori non è però assoluto e incondizionato. Esso può essere esercitato solo se il giudice accerta che al minore faccia bene la frequentazione dei nonni. Difatti la legge pone al centro della tutela l’interesse del minore ad una crescita personale sana ed equilibrata, lontano da possibili conflitti e relazioni pregiudizievoli. La soluzione presuppone allora il compimento da parte del giudice di vere e proprie indagini sulla famiglia e, necessariamente, l’ascolto dei minori affinché possano emergere la loro volontà e le loro esigenze.

            Tale principio vale anche negli altri Paesi, come espressamente riconosciuto da una recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [CEDU sent. del 20 gennaio 2015]. Quest’ultima ha equiparato il ruolo dei nonni a quello dei genitori, prevedendo l’obbligo di ciascuno Stato di favorire la conciliazione tra nonni e nipoti minorenni, sempre avuto riguardo all’interesse di questi ultimi. Il rapporto nonni-nipoti è infatti tra i legami familiari tutelati dalla Carta europea dei diritti dell’uomo [Art. 8 Cedu].

            Dunque, i nonni possono sempre rivolgersi al giudice nazionale per esprimere le loro esigenze di tutela e ottenere eventualmente il riconoscimento del diritto di visita e l’obbligo del genitore a consentirne l’attuazione. Va tuttavia precisato che il riconoscimento del diritto dei nonni deve conciliarsi con la tutela del minore. Se quest’ultimo si trova all’estero, l’esercizio pratico del diritto di visita è molto complesso e devono intervenire le autorità interne dei singoli Stati.

            Il giudice non potrà infatti obbligare il minore a rientrare in Italia visto che ciò potrebbe comunque destabilizzarlo; né in ogni caso può imporgli di vedere i nonni.

La questione è molto delicata ed è pertanto opportuno rivolgersi al Tribunale per ottenere una soluzione ottimale che tuteli da un lato il diritto dei nonni e dall’altro il benessere dei nipoti.

Maria Monteleone     LpT                 7 ottobre 2015

www.laleggepertutti.it/98299_se-il-genitore-impedisce-al-nonno-di-vedere-i-nipoti        

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

NULLITÀ MATRIMONIALE

            Motu proprio riforma matrimoniale: “Un frutto del cammino sinodale”

Intervista al decano della Rota romana, mons. Pio Vito Pinto, sul nuovo processo di ‘snellimento’ introdotto da Papa Francesco- La rifondazione del processo matrimoniale con i Motu propri dello scorso 8 settembre, il rapporto con i due Sinodi su matrimonio e famiglia, lo snellimento e la semplificazione auspicata dai vescovi di tutto il mondo, la centralità del vescovo giudice, la rivalutazione del diritto del metropolita: sono questi i temi affrontati dal decano della Rota romana, mons. Pio Vito Pinto, un mese dopo la promulgazione dei due documenti che entreranno in vigore l’8 dicembre, inizio del Giubileo della misericordia, in un’intervista concessa a Giovanni Maria Vian, direttore de L’Osservatore Romano.

Si tratta di una profonda riforma, che già in questi primi giorni dei lavori sinodali è stata salutata con favore – sottolinea il prelato – “come una legge chiara, disposta per rispondere a bisogni urgenti dei fedeli e dalla quale il Papa si aspetta che venga speranza, non paure”. Secondo Pinto, i due documenti papali sono “frutto del cammino sinodale ed espressione autentica della collegialità episcopale”, emersa dai questionari inviati a tutte le Conferenze Episcopali.

Proprio da questi è risultata “un’amplissima convergenza sull’esigenza di snellire e semplificare i processi matrimoniali”, che nel concreto significa riprendere le disposizioni di Pio X all’inizio del ‘900, con cui il Pontefice voleva “restituire in pieno l’esercizio della potestà giudiziale al vescovo diocesano e al metropolita, cioè all’arcivescovo capo di una provincia ecclesiastica”. “In questo modo Papa Francesco vuole una maggiore prossimità delle strutture della Chiesa ai fedeli”, ribadisce il vescovo, spiegando che tale riforma “affida a ogni vescovo diocesano due tipi di processo: quello più breve e quello ordinario”. Nel primo caso “è il vescovo a giudicare personalmente, se vi è piena evidenza delle prove di nullità; in questo caso, dopo una breve istruttoria, assume la certezza morale e firma la sentenza. Non è tuttavia il vescovo a istruire le cause, ma i suoi collaboratori: il vicario giudiziale o altro giudice istruttore. Se invece non vi è immediata evidenza delle prove, il caso viene inviato al processo ordinario”.

“Per questo – afferma mons. Pinto – ogni vescovo deve costituire un tribunale diocesano per le nullità matrimoniali: collegiale, ma in caso di impossibilità anche con un giudice unico. In concreto, ogni richiesta di nullità va indirizzata al vicario giudiziale diocesano, che decide in quale dei due tipi di processo deve essere risolto il caso. Il processo breve prevede la possibile presenza delle parti, a differenza del processo ordinario, e deve risolversi in un arco di tempo che può oscillare da due settimane a un mese”. A detta del Decano della Rota romana, sono aspetti che “mostrano la grande novità di questo tipo di procedimento, non a caso affidato dal Successore di Pietro al vescovo in persona, perché questi non cada in abusi a danno della verità del vincolo matrimoniale: abusando, infatti, il vescovo tradirebbe non il Papa, ma Cristo stesso. E per entrambi i processi la gratuità, fortemente auspicata dai Motu propri, mostrerà con tutta evidenza il loro spirito pastorale, volto unicamente al bene dei fedeli. E questi comprendono immediatamente lo spirito di povertà che deve ispirare la Chiesa”.

Il nuovo regime giuridico – aggiunge inoltre il presule – entrerà in vigore dall’8 dicembre prossimo e non avrà effetti retroattivi. Tuttavia, nel caso di un processo già in corso e la cui sentenza di nullità sia data e notificata successivamente all’8 dicembre, si applicheranno gli effetti della riforma e la sentenza affermativa sarà quella definitiva. Circa i tribunali regionali, il prelato informa che tale legge “rifonda e riordina in pieno, ex integro, il processo matrimoniale, dando al vescovo il diritto di costituire il suo tribunale diocesano. Cade dunque la legge che prevede i tribunali regionali, esistenti del resto soltanto in alcuni Paesi”. Quindi, “all’interno delle singole province ecclesiastiche, i vescovi avranno invece facoltà di istituire, se lo riterranno utile, un tribunale interdiocesano con appello al tribunale del metropolita, fatta salva la possibilità di creare, a norma del diritto, tribunali interdiocesani di più province”. In alcune circostanze particolari il vescovo, “come pastore e giudice del suo gregge”, potrebbe consegnare personalmente la sentenza di nullità alle parti interessate. 2Sarebbe un segno di prossimità evangelica ai fedeli, in molti casi feriti da anni di sofferenza”, commenta Pinto, “la Chiesa infatti è mistero e il vescovo è colui che accompagna, quasi conduce per mano i fedeli: in questo senso è mistagogo, come furono Basilio e Giovanni Crisostomo in Oriente, Ambrogio e Agostino in Occidente”.

[S.C.]              zenit    7 ottobre 2015

www.zenit.org/it/articles/motu-proprio-riforma-matrimoniale-un-frutto-del-cammino-sinodale

            Versaldi: l’approdo al matrimonio sia ben preparato.

Oltre a riconoscere la nullità di molti matrimoni secondo le nuove linee fissate dal Motu Proprio di Papa Francesco, occorre aiutare i fidanzati a non scegliere di celebrare un matrimonio nullo. Questo uno dei suggerimenti risuonato nell’aula del sinodo. Ci si sofferma il cardinale Giuseppe Versaldi che evidenzia la costante ricerca da parte dei Padri sinodali di un annuncio evangelico che coniughi verità e misericordia:

R. – Seguendo gli ammonimenti e le indicazioni di Papa Francesco, stiamo cercando insieme di scoprire una verità che possa procedere nella direzione per cui questo Sinodo è stato convocato e cioè che il Vangelo possa essere annunciato agli uomini del nostro tempo tenendo conto delle mutate situazioni, ma anche della necessità di un annuncio che porti luce e verità, nella carità e nella misericordia. Il Papa continua a ripetere – e non possiamo non vedere in ciò un forte richiamo – che non ci si può lasciare andare ai due estremi, o giustizia o misericordia, ma bisogna coniugarli insieme. Non siamo un parlamento, non partiamo da idee opposte, ma da una base comune e procediamo tutti verso un’unica meta che è, appunto, Cristo che vuole essere annunciato e salvare gli uomini del nostro tempo.

D. – Segno dell’attenzione del Papa per la famiglia e per le coppie in difficoltà, per gli uomini e per le donne di oggi in difficoltà, è stato anche il recente Motu Proprio sulle nullità matrimoniali.

R. – Certo. Se si velocizza il processo per riconoscere che purtroppo oggi sono in aumento i casi di nullità matrimoniale, non si può – senza cambiare nulla – lasciare la preparazione al matrimonio come era, perché quelle stesse coppie che poi con fatica e sofferenza chiedono la nullità sono state accettate forse con troppa facilità al Sacramento del Matrimonio senza una verifica o un cammino, non per escluderli ma per preparali meglio, in maniera da non porre sulle loro spalle dei pesi che poi è difficile togliere. E’ comunque sempre una esperienza dolorosa il fallimento del matrimonio, anche se poi arriva la dichiarazione di nullità.

D. – Quindi questo, diciamo, è un suggerimento per prevenire le ferite?

R. – Esatto. Il Papa parla di “ospedale da campo”, che bisogna conservare aperto per curare le ferite, ma una buona madre cerca di prevenire le ferite: quindi, al fianco dell’ospedale da campo, bisogna che ci siano degli strumenti di educazione, di formazione. Se manca la fede è difficile che l’intenzione naturale sia quella che si pensava una volta essere corrispondente alle intenzioni di fare ciò che fa la Chiesa: purtroppo, i giovani d’oggi non hanno più questa piattaforma comune, perché la cultura è soggettivistica e ognuno di fabbrica il proprio significato del matrimonio, tant’è che dopo – giustamente – aumentano i casi di dichiarazione di nullità. Ma perché fermarli dopo, dopo un fallimento, e non prima per farli riflettere meglio?

D. – E a partire da che cosa si dovrebbe lavorare su questa formazione?

R. – Che il tempo del fidanzamento non sia solo una esperienza emotiva giusta, che i fidanzati fanno, ma che sia una specie di cammino catecumenale, in cui la Chiesa si affianca a loro e non per pesare e rabbuiare il loro bel momento di innamoramento, ma per far capire che cosa stanno volendo. Se non hanno l’intenzione dell’incontro salvifico con Cristo nella Chiesa, perché accettarli al Sacramento? E’ meglio non caricarli di questo peso, se per loro è solo un peso e non un aiuto. Così che si possa veramente poi accedere con gioia e non formalmente e esternamente quando già tutto sembra fatto, si aggiunge il rito del matrimonio, che invece è decisivo perché i giovani possa veramente perseverare nel loro amore.

Paolo Ondarza   Notiziario Radio vaticana – 11 ottobre2015   http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

OMOFILIA

Sinodo e omosessualità: è possibile una discussione franca?

Il dibattito culturale circa il riconoscimento delle relazioni d’amore omosessuale, in ambito teologico – sollecitato dalle risposte inviate da alcune conferenze episcopali alle domande del Sinodo[Svizzera e tedesca] e dal referendum irlandese – si sta focalizzando attorno ad alcuni nodi teoretico-terminologici abbastanza precisi.

            Vorrei dunque cercare di enuclearli e di cogliere, seppur per cenni, le problematiche speculative irrisolte che fanno da sfondo alle decisioni pastorali che l’Assemblea Sinodale si appresta a discutere; provando anche a valutare – proprio a partire da questi nuclei – quali passi possano essere realmente compiuti dal Sinodo.

            L’invito alla parresia di papa Francesco, del resto, ci spinge a fare questo sforzo, a porci in ascolto in modo nuovo di quelle che – per molti – sono delle relazioni d’amore. Dobbiamo cercare di innestare criticamente questo dato nelle nostre categorie teologiche, e comprendere che tipo di aggiornamento ci richiede, se è attuabile o meno, e che paradigma emergerebbe da questa operazione.

            Volendoli elencare in ordine alfabetico, dunque, i principali sono i seguenti:

            Amore o amicizia? Il Sinodo dei vescovi dovrà decidere se compiere un passo importante: cominciare a considerare le relazioni omosessuali come una forma d’amore compiuta. Un’analisi scientifica priva di pregiudizi metodologici, epistemici e sociali mostra che l’amore omosessuale può essere una forma di relazione affettiva sana e umanizzante. L’amore omosessuale non è immaturo, né narcisistico (l’omosessuale non ritira gli investimenti libidici dagli oggetti, bensì ama l’altro nella sua interezza); le persone omosessuali non sono più promiscue o psicologicamente instabili delle persone eterosessuali e le “terapie riparative” si sono rivelate inconsistenti. Vi possono essere delle difficoltà contingenti nella coppia – dovute a fattori ambientali e sociali – che tuttavia non sono determinate dall’omosessualità stessa della persona. Su queste basi, sarebbe possibile chiedere agli omosessuali (perché di fatto in molti già lo vivono, solo chiedono che sia riconosciuto) lo stesso “amore forte” che è richiesto alle persone eterosessuali, fatto di reciprocità, rispetto, fedeltà, donazione, sacrificio, solidarietà (cf. Deus caritas est, n. 6).

Questo non si configurerebbe come un cedimento all’edonismo o all’individualismo, bensì un consolidamento e un’esaltazione del modello cristiano di amore, che non intaccherebbe le radici della famiglia e della società. Si tratta, piuttosto, di riconoscere che il mutuo aiuto di due persone in una coppia d’amore costituisce un prezioso appoggio per la loro vita (Sinodo 2014, Relatio post disceptationem, n. 52), quindi un valore da promuovere. Al contrario, non saper apprezzare questo valore, accomunando ed etichettando come immorali categorie di comportamento molto diverse, potrebbe alla lunga far perdere un po’ di credibilità morale alla Chiesa.

            Bene possibile: è una nozione importante per la pastorale che richiede un approfondimento. In generale si tratta di capire come rivalutare una situazione di contingente imperfezione morale, e saper quindi proporre un ideale etico tenendo conto della gradualità con cui si arriva alla sua piena realizzazione (che ci consentirebbe di sfumare i giudizi perentori). Nel caso specifico delle coppie omosessuali, la ricerca del bene possibile si traduce nella definizione di ciò che costituisce il bene proprio (l’ordine proprio) di quello stato di vita innato (e della sua naturalis inclinatio corrispondente. Considerando che:

  1. la ricerca di una relazione d’amore nasce dallo sviluppo di un’immagine di sé positiva (è sana autostima, non orgoglio) e quindi è legata al riconoscimento – personale e sociale – e al completamento del proprio valore di persona;
  2. difficilmente si può imporre un carisma (quello dell’astinenza perpetua) a milioni di persone indistintamente, perché ciò contraddirebbe l’idea stessa di carisma; considerando tutto ciò si potrebbe sostenere che, pur mancando il fine procreativo, la presenza del fine unitivo costituisce quel bene possibile che rende plausibile l’accettazione dei rapporti omosessuali qualora siano praticati in relazioni caratterizzate dall’amore fedele e oblativo.

Alla coppia omosessuale, dunque, potrebbe essere proposto di vivere una forma di castità coniugale        La necessità della presenza del fine unitivo in un atto sessuale è ciò che a pieno titolo rientra nelle norme universali della legge morale naturale, rispettandone le caratteristiche formali. E questa è precisamente la razionalità (oggettività, la forma) dell’amore sessuale umano, anche omosessuale.

            Complementarietà: la complementarietà in senso strettamente biologico è fondamentale per la procreazione, ma non sembra una caratteristica indispensabile per l’amore autentico tra due persone, perché l’amore nasce da una ricerca di una forma di complementarietà più ampia, che a volte coincide con quella biologica, altre volte no. Lo schema bipolare uomo-donna è insuperabile e imprescindibile per l’antropologia, ma quanto alla realizzazione di un amore umano integrale, esso sembra essere un caso paradigmatico (sicuramente maggioritario) ma che non può essere assunto a paradigma vincolate per tutti gli individui. Affermare che l’unità duale biologicamente procreativa sia l’unico vero compimento dell’imago Dei (trinitaria), infatti, rischia di escludere molti altri stati di vita cristiani che – salvo peripezie argomentative – in tale paradigma non rientrano, come quello celibatario, verginale, o delle coppie sterili.

            Un amore umano non-fecondo biologicamente, non essendo specchio della fecondità dell’amore intratrinitario, non sarebbe dunque vero amore? Se la risposta è “no”, possiamo ipotizzare un concetto di complementarietà ampio, che vada oltre la complementarietà biologica (senza negarla). Essendo la sessualità un fenomeno anche psichico, essa è in parte determinata dalle relazioni primarie avute nell’infanzia, che a sua volta condizionano il desiderio. Ciò che una persona scopre essere il suo “complemento” (a seconda di com’è strutturata bio-psichicamente la sua sessualità, nel combinato di mascolinità e femminilità che – come caratteristiche psicologiche in senso freudiano – possono sommarsi nell’individuo in modi molto differenti) può essere la persona dello stesso sesso, perché nella ricerca della parte complementare vi è sempre la ricerca – anche nell’omosessuale – di una persona nella sua interezza, somma di caratteristiche fisiche e psicologiche.

            Una considerazione complessiva della sessualità umana, allora, potrebbe consentirci di ipotizzare una complementarietà che potremmo definire “personalistica”: la persona cerca il suo completamento in un’altra persona che, per il suo essere unitario di corpo e psiche, corrisponde a ciò che sente essere l’altra metà. Un “complemento” che, pur nella ricerca della persona dello stesso sesso, resta sempre un dialogo con l’assoluta alterità, in una reciprocità che non è mai fusione. Ogni persona, anche se dello stesso sesso, è un infinitamente altro da me, con cui devo instaurare un rapporto di reciprocità che passi per l’accettazione di tale differenza.

            Differenza sessuale/alterità: secondo l’«argomento dell’alterità» riconoscere come lecito l’amore omosessuale significherebbe mettere in discussione l’antropologia cristiana circa la differenziazione sessuale, perché l’omosessuale cercherebbe solo ciò che è a sé identico, chiudendosi narcisisticamente su se stesso. Questa posizione sembra difficilmente sostenibile, sia dal punto di vista psicoanalitico che antropologico. È necessario considerare che il riconoscimento dell’alterità sessuale – e di ogni alterità – non passa solo per la dinamica di attrazione sessuale. Il simbolismo sessuale coniugale eterosessuale presente nel testo biblico è sicuramente paradigmatico, ma non esclude che vi possano essere altre forme di relazione sessuale buone. La sacra Scrittura riconosce l’importanza del riconoscimento dell’alterità, e definisce l’uomo come l’essere capace di relazione e comunione tra alterità; tra queste vi è anche l’alterità sessuale, il riconoscimento della quale è essenziale per la persona, ma che non si palesa solo nel desiderio carnale.

            Se le persone omosessuali sono psicologicamente sane, e se dunque l’Edipo è riuscito, si è risolta positivamente anche la relazione della persona omosessuale con l’altro sesso: le persone omosessuali non sono né misogine, né misandrogine. Anzi, proprio le profondissime relazioni di amicizia delle persone omosessuali con le persone di sesso opposto mostrano come l’accettazione dell’alterità sessuale avvenga in loro in un modo diverso, ma che non la nega affatto: al contrario, queste amicizie mostrano come vi possa essere una relazione uomo-donna straordinaria – complice, di rispetto assoluto – anche laddove manchi l’attrazione sessuale. Da questo punto di vista, il riconoscimento della liceità dell’amore omosessuale è il frutto maturo dell’antropologia personalista cattolica (prima che si infilasse nelle strettoie argomentative dell’unità-duale).

            Gender: coloro che denunciano una presunta «teoria del gender» suscitano oggi allarmismi nelle parrocchie e nelle scuole (alludendo a presunte volontà di palingenesi sociale, impropri paragoni con i totalitarismi, funesti complotti gestiti da potenti lobby, apocalissi sociali). È necessario, in questo caso, avviare un dialogo pacato e scientifico, che sappia cogliere ciò che di positivo c’è nelle teorie del gender (per esempio, l’educazione al rispetto della diversità e la rimozione di stereotipi oppressivi legati ai ruoli di genere o all’orientamento sessuale) denunciando eventualmente se vi sono puntuali criticità, ma senza demonizzare e creare scontri ideologici.

            Bisogna, cioè, isolare le posizioni più estreme (come può essere la teoria queer [ciò che è opposto a quello che comunemente è ritenuto “normale”, “legittimo”], che però è solo una delle più svariate teorie nate dai gender studies) di entrambi gli schieramenti. Questo dialogo servirà innanzitutto a chiarire i termini, poiché troppo spesso si nota una certa confusione nell’uso di concetti come identità di genere (nei suoi diversi aspetti: genetico, biologico e psico-affettivo), questioni legate ai ruoli di genere (stereotipati e discriminatori), omosessualità (che è legata all’orientamento sessuale) e identità sessuale. Le teorie sociologiche e psicologiche del gender non ideologiche sono compatibili con il pensiero e la prassi ecclesiale. Il Sinodo potrebbe fare molto invitando all’approfondimento e al dialogo, La persona omosessuale non rifiuta il suo essere biologicamente maschio o femmina (cosa che avviene invece nei transessuali, che in effetti provano un disagio patologico in riferimento al loro essere corporeo, causato probabilmente da fattori genetici e ormonali nelle prime fasi di sviluppo), così come non rifiuta di relazionarsi con la persona di sesso opposto) contribuendo ad abbassare il livello di scontro ideologico, che si sta rivelando deleterio su ogni fronte.

            Nuzialità: se davvero vogliamo intendere la nuzialità (o sponsalità) come categoria fondamentale di ogni aspetto del reale, dovremmo slegarla dal suo riferimento al dato biologico-sessuale: per essere un trascendentale, la nuzialità dovrebbe significare solo l’intrinseca relazionalità umana, a cui si collega la necessità – per ogni uomo – di realizzarsi nell’amore agapico, cioè nel dono gratuito di sé per un altro essere umano. La nuzialità originaria di ogni uomo dice che «ogni essere umano è una persona comunionale, ontologicamente aperta alla comunione con l’altro, perché ontologicamente dipendente dalla comunione con il suo Creatore». Non dice che l’essere umano si realizza (o sia fecondo) solo nella coppia, e tantomeno nella sola coppia eterosessuale. Se l’imago Dei è la qualitas comunionale, potremmo scoprire che l’eros si fa agape in varie forme di amore sessuale.

Omofobia: questo termine – usato anche dal card. Bagnasco per stigmatizzare un fenomeno sociale intollerabile – indica quell’insieme di rappresentazioni culturali, di credenze, di atteggiamenti e di pratiche sociali che invalidano, sviliscono o aggrediscono le identità e i comportamenti non eterosessuali (processo di esclusione/inclusione, di natura individuale, sociale o culturale). Lo stesso Catechismo invita a evitare alle persone omosessuali ogni marchio di ingiusta discriminazione (n. 2358). La lotta contro l’omofobia, però, richiederebbe un intervento più attivo, una pastorale impegnata, che si traducesse in incontri formativi nelle parrocchie che aiutino a superare i pregiudizi e i drammi famigliari. Il Sinodo potrebbe invitare a percorrere questa strada: significherebbe educare la comunità cristiana al rispetto (anche e soprattutto linguistico), a stringersi intorno alle vittime dell’omofobia stessa.

            Senso unitivo e procreativo (fecondità): secondo certe impostazioni, l’oggettivo ordine del desiderio sembra implicare che l’amor naturalis sia la tendenza al compimento che si realizza nella procreazione. Il desiderio d’infinito che muove nel profondo ogni desiderio umano, inappagabile nella semplice relazione con il partner, si colmerebbe nella procreazione. Queste affermazioni aprono degli interrogativi: chi non procrea sarebbe destinato a non appagare mai il suo desiderio, qualsiasi forma di amore egli tenta di mettere in atto? Se la risposta è “no”, si tratta di ampliare il campo semantico del termine “procreativo”, fino a includere alcune forme di fecondità spirituale implicate dal significato unitivo.

            La vita di coppia è già feconda nel suo darsi, perché il dono di sé per l’altro genera valore aggiunto: il noi emerge dall’io-tu come un nuovo ri-creativo stato di vita. Inoltre, se si definisse il senso unitivo come primario – ancorché inscindibile – rispetto a quello procreativo, questo consentirebbe di vedere nei gesti sessuali che esprimono il livello relazionale del rapporto (l’impegno al ‘per sempre’) ed espressi in questo contesto, degli atti leciti, sebbene non potenzialmente procreativi. Sarebbe un approfondimento-aggiornamento dei dettami dell’Humanae Vitae (n. 12) che permetterebbe di superare varie incongruenze dottrinali e pastorali.

            Sono tutte ipotesi, ed è difficile che l’attuale Sinodo possa sciogliere così tanti nodi. Di fronte alla complessità della questione – e la sua fluidità in ambito teologico, filosofico, scientifico e morale – questo Sinodo potrebbe però assumere una posizione distensiva e prudenziale, che eviti prese di posizione nette, o anatemi definitori, ma apra piuttosto a un periodo di franca, onesta e profonda (finanche libera) riflessione su questi concetti.            Premurandosi d’esortare i fedeli all’accoglienza, al rispetto, alla fratellanza, e indicando l’amore oblativo e fedele come la certezza cristiana di compiere la volontà di Dio in tutte le coppie. In futuro, una volta sciolti i nodi teoretici, si potrà pensare di sviluppare – con l’aiuto dello Spirito – dei modelli giuridici e sacramentali opportuni per il riconoscimento di queste nuove relazioni d’amore.

            Damiano Migliorini, *Dottorando all’Università di Verona.

L’articolo è pubblicato in Matrimonio: “In ascolto delle relazioni d’amore”, 40, 3 settembre 2015, 10-17.

7 ottobre 2015   http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/sinodo-e-omosessualita-e-possibile-una.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

PARLAMENTO

Camera Assemblea    Affido familiare

Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare.

C. 2957 approvata dal Senato, C. 2040 Santerini, C. 350 Pes, C. 3019 Marzano e C. 910 Elvira Savino.

7 ottobre 2015. La Camera ha quindi approvato, su richiesta della Presidente della Commissione Giustizia, Donatella Ferranti, il rinvio ad altra seduta del seguito dell’esame della proposta di legge

            www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0497&tipo=stenografico#sed0497.stenografico.tit00100

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

SEPARAZIONE

Gli accordi di separazione consensuale.

In sede di separazione, i coniugi possono disciplinare convenzionalmente una serie di aspetti dipendenti dallo scioglimento del vincolo coniugale. La possibilità di autodeterminarsi responsabilmente è indubbiamente correlata al concetto di famiglia nucleare c.d. privatizzata, a cui si sono ispirate le più importante riforme, come la legge sul divorzio e la legge di riforma del diritto di famiglia. Istituti come la separazione consensuale o il divorzio congiunto, sono volti proprio a valorizzare le capacità dei coniugi di stabilire le conseguenze della fase patologica di crisi coniugale.

            Gli accordi in sede di separazione. Gli accordi tra coniugi costituiscono uno strumento con il quale definire aspetti economici e personali dello scioglimento della relazione. Sono intese che intervengono a crisi coniugale già in atto, da distinguersi rispetto agli accordi presi prima che la crisi sia anche solo nell’aria, che hanno lo scopo di predeterminare le regole di una futura ed eventuale separazione. L’accordo di separazione consensuale costituisce un atto essenzialmente negoziale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminare i propri interessi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma ed in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi momenti ed aspetti della dinamica familiare (cfr. Cass., n. 11225/2014).

            L’omologazione del giudice. Il giudice interviene di norma a confermare, tramite un decreto di omologa, quanto stabilito dai coniugi in base alla propria autonomia negoziale, verificando il rispetto dell’art. 160 c.c. il quale afferma che “gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio”. La giurisprudenza ha costantemente affermato che la separazione consensuale ha un contenuto essenziale, che consiste nel consenso reciproco a vivere separati, nel disciplinare l’affidamento dei figli e l’eventuale assegno di mantenimento, e un contenuto c.d. eventuale occasionato dalla separazione, consistente in pattuizioni con cui i coniugi disciplinano l’instaurazione di un regime di vita separata attraverso statuizioni patrimoniali ed economiche (cfr. da ultimo Cass. n. 16909/2015). 

            Ex art. 158 c.c. la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice. Pertanto, non potranno essere oggetto di accordi gli status familiari e i diritti a questo connessi, di cui dovrà occuparsi il giudice in sede di omologazione, né potrà essere travalicato il limite invalicabile dell’interesse stabilito dalla Costituzione all’art. 30 (“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”). Questi accordi occasionati dalla separazione possono essere anteriori, coevi o successivi all’omologazione ed a loro volta omologati dal tribunale o rimanere non omologati (c.d. a latere).

            Gli accordi non omologati (a latere). Il problema principale si è posto proprio relativamente alla validità ed efficacia degli accordi a latere, non contenuti nel verbale sottoposto all’omologazione del giudice: sono accordi funzionalmente e cronologicamente legati alla separazione (ma ad essa estranei) con i quali i coniugi senza omologazione intendono integrare e o modificare gli accordi di separazione omologati. L’orientamento attualmente prevalente, valorizza l’autonomia negoziale dei coniugi e ritiene l’omologazione un atto di controllo sulla conformità degli accordi relativamente alle disposizioni di legge, considerando i doveri e gli interessi della famiglia che è necessario tutelare. Circa le pattuizioni convenute dai coniugi antecedentemente o contemporaneamente al decreto di omologazione, e non trasfuse nell’accordo omologato, la Corte di Cassazione ha stabilito la loro operatività soltanto se si collocano, rispetto a quest’ultimo, in posizione di non interferenza (perché riguardano un aspetto che non è disciplinato nell’accordo formale e che è sicuramente compatibile con esso, in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi equilibri, ovvero perché hanno un carattere meramente specificativo) oppure in posizione di conclamata e incontestabile maggiore o uguale rispondenza all’interesse tutelato attraverso il controllo di cui all’art. 158 c.c. (cfr. Cass., n. 20290/2005).

            Quando invece si tratta di patti successivi alla separazione omologata, modificativi di quanto stabilito in quella sede, la giurisprudenza ha nel tempo riconosciuto l’importanza dell’autonomia negoziale del coniugi ex art. 1322 c.c. stabilendo la validità e l’efficacia di questi accordi poiché meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Tali clausole, dirette a migliorare o integrare gli accordi omologati bilanciando gli interessi tra le parti, devono però essere compatibili con l’accordo omologato, senza interferire con quest’ultimo, nonché rispettare i limiti stabiliti dall’art. 160. Questo indirizzo giurisprudenziale applica ai coniugi separati la regola rebus sic stantibus, concedendogli di rivedere le condizioni di separazione in presenza di circostanze sopravvenute.

Lucia Izzo      Giuridica studio Cataldi        05 ottobre 201

www.studiocataldi.it/articoli/19595-gli-accordi-di-separazione-consensuale.asp

La separazione personale tra coniugi alla luce delle ultime novità legislative.

La separazione personale tra i coniugi è disciplinata, nel nostro ordinamento dall’articolo 150 c.c.: “E’ ammessa la separazione personale dei coniugi. La separazione può essere giudiziale o consensuale. Il diritto di chiedere la separazione giudiziale o la omologazione di quella consensuale spetta esclusivamente ai coniugi”. È bene innanzitutto precisare che con la separazione i coniugi danno vita ad una situazione in cui alcuni obblighi nascenti dal matrimonio rimangono sospesi, primo tra tutti l’obbligo della coabitazione senza che venga meno il vincolo matrimoniale che conosce il suo capolinea con il divorzio.

La separazione, a dire del nostro legislatore, può essere consensuale o giudiziale: consensuale: quando sussiste un accordo tra i coniugi circa le condizioni personali e patrimoniali della separazione stessa. Il Tribunale, in questo caso, si limita ad omologare tale accordo, cioè ad assicurarsi che siano rispettati i diritti di ciascun coniuge e della eventuale prole mediante decreto; in caso di disaccordo, la separazione viene pronunciata con sentenza dal Tribunale che prescrive determinate condizioni.

La separazione personale produce effetti, anche, di carattere patrimoniale. Difatti, a seguito del provvedimento definitivo emesso in sede di separazione – sentenza in caso di separazione giudiziale, oppure decreto di omologa in caso di separazione consensuale – cessa il regime legale di comunione dei beni. La separazione, infine, non esclude il coniuge separato dalla successione legittima, né dalla quota di riserva quale legittimario, tranne nell’ipotesi in cui la separazione sia stata pronunciata con addebito. In questo caso egli ha diritto solamente ad un assegno vitalizio adeguato alle sostanze ereditarie e al numero degli eredi, sempre che al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. Si noti bene! La sentenza che dichiara la separazione o il provvedimento di omologa in caso di separazione consensuale devono essere annotati sull’atto di matrimonio dall’Ufficiale di Stato Civile.

La riconciliazione. Durante il colloquio l’avvocato deve far presente ai coniugi che possono far cessare gli effetti della separazione con la riconciliazione. Le norme di riferimento sono contenute negli art. 154 e 157 c.c.- Capo V, titolo IV, libro I. L’art. 154 c.c. rubricato “Riconciliazione” stabilisce che: “La riconciliazione tra i coniugi comporta l’abbandono della domanda di separazione personale già proposta”; l’art. 157 c.c. rubricato “Cessazione degli effetti della separazione” dispone: “I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione. La separazione può essere pronunciata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione”.

Che cosa, dunque, deve intendersi per riconciliazione? Per riconciliazione deve intendersi la ricostituzione della comunità familiare attraverso il ripristino della comunione materiale e spirituale tra i coniugi o meglio la volontà dei coniugi di ricostituire in pieno et la loro convivenza materiale, et spirituale, fondamento della convivenza medesima.

Il procedimento. Dopo aver delineato, brevemente, gli effetti che produce la separazione, le sue forme e l’eventuale riconciliazione esaminiamo ora gli aspetti procedurali. Quando il matrimonio giunge al capolinea i coniugi d’accordo o, in caso contrario uno di essi, decidono di intraprendere l’iter che porterà alla frattura del rapporto coniugale rivolgendosi ad un avvocato. Ruolo dell’avvocato in tale procedura non è solo quello di fornire un supporto tecnico, ma anche quello di fornire consigli e una valutazione di insieme sul da farsi.

Il colloquio con l’avvocato è di notevole importanza. La materia trattata: “Diritto di famiglia” è assai delicata ed importante, soprattutto in presenza di figli minori. Se può sembrare semplice redigere l’atto introduttivo che riveste la forma del ricorso, non è affatto semplice saper consigliare ed assistere giudizialmente il cliente nelle diverse fasi del processo. Ecco perché nel corso del colloquio chiedo al cliente di essere chiaro e preciso nel descrivere la situazione. Occorre non solo avere una approfondita conoscenza della materia, ma anche di discipline connesse, ciò al fine di evitare che, anche a distanza di anni, possano verificarsi conseguenze spiacevoli dovute ad una scelta processuale poco attenta ed oculata. Dico loro di porre da parte l’odio, il rancore, soprattutto nel caso in cui ci siano minori. In tale situazione di conflitto mi trovo, spesso, a dover fare da “paciere” assumendo le vesti di “paladino” cercando di spiegare che separarsi non significa farsi la guerra in quanto non ci saranno né vinti, né vincitori. Spiego loro che obiettivo di un buon avvocato è quello di tutelare al meglio entrambi e in presenza di figli minori questi ultimi.

            Ed è proprio in questa ultima ipotesi che il lavoro dell’avvocato diventa più delicato cercando di individuare la soluzione migliore al fine di proteggere/tutelare nel migliore dei modi il minore dalle “schegge” generate dalla rottura del menage familiare. Nell’ipotesi in cui non si optasse per una consensuale – che a parere di chi scrive sarebbe la scelta migliore – il primo atto da predisporre, per avviare la procedura di separazione, è una lettera raccomandata con la quale si comunica all’altro coniuge la volontà del cliente di addivenire alla separazione. Lo si invita in studio per un colloquio al fine di verificare se sussiste la possibilità di una separazione consensuale. Nel caso in cui ciò non sia possibile occorrerà dar corso alla separazione giudiziale.

I protagonisti del procedimento di separazione sono i coniugi. Essi hanno la legittimazione ad agire, ovvero spetta, esclusivamente, a loro il potere di dare avvio al procedimento e di proseguirlo. La domanda introduttiva del giudizio di separazione riveste la forma del ricorso ai sensi dell’art. 706 c.p.c..

Dove va presentato il ricorso? Il ricorso va presentato al Tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi o in mancanza al Tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto ha la residenza o il domicilio. Nel caso in cui il coniuge convenuto sia residente all’estero o risulti irreperibile la domanda si propone al Tribunale del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente e, se anche questi è residente all’estero, a qualunque Tribunale della Repubblica. Quanto al contenuto il ricorso deve indicare dettagliatamente “[…] l’esposizione dei fatti sui quali la domanda è fondata”. In particolare deve contenere le seguenti domande: assegno di mantenimento che l’attore/ricorrente pretende dall’altro coniuge per sé e per i figli; addebitabilità della separazione all’altro coniuge; affidamento dei figli minori; assegnazione della casa coniugale.

Quanto all’affidamento dei figli, il Tribunale ha poteri officiosi e può dare i provvedimenti relativi all’affidamento e alle regole, anche in contrasto con le indicazioni delle parti. Questo perché? Se leggiamo attentamente l’art. 155 c.c. rubricato “Provvedimenti riguardo ai figli” il Legislatore, rigorosamente, al comma 2 dice che: “[…] il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”. In altri termini, il giudice è chiamato a valutare la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori – c.d. principio della bigenitorialità – oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determinandone i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore. Altresì, provvede a fissare il quantum e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.

Il ricorso introduttivo sia del giudizio di separazione che di quello del divorzio deve essere sottoscritto da un difensore munito di procura, in quanto non è consentito alla parte di stare in giudizio in proprio. Predisposto il ricorso esaminiamo quali sono gli altri adempimenti che l’avvocato deve compiere prima di giungere all’udienza davanti al Presidente del Tribunale: c.d. udienza presidenziale.

Cosa succede dopo il deposito del ricorso in Cancelleria? Il Presidente, nei cinque giorni successivi al deposito in Cancelleria, con decreto, provvede a fissare:

– la data dell’udienza di comparizione dei coniugi davanti a sé, che deve essere tenuta entro novanta giorni dal deposito del ricorso;

– il termine per la notificazione del ricorso e del decreto,

– ed il termine entro cui il coniuge convenuto può depositare memoria difensiva e documenti.

Si noti bene. Al ricorso e alla memoria difensiva vanno allegate le ultime dichiarazioni dei redditi presentate. Nel ricorso deve essere dato atto della presenza di figli legittimi, legittimati o adottati da entrambi i coniugi durante il matrimonio. Prima della comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale l’avvocato deve provvedere a notificare il ricorso con il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza. Chi scrive ritiene necessario ricordare che è il Presidente del Tribunale che provvede a fissare il termine entro cui il ricorso ed il decreto devono essere notificati. Si giunge, così, all’udienza di comparizione delle parti davanti al Presidente del Tribunale.

L’udienza presidenziale. L’art. 707 c.p.c. – “Comparizione personale delle parti” – così dispone: “I coniugi devono comparire personalmente davanti al presidente con l’assistenza del difensore. Se il ricorrente non si presenta o rinuncia, la domanda non ha effetto. Se non si presenta il coniuge convenuto, il presidente può fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata”. Al comma secondo del summenzionato articolo il nostro legislatore precisa che la mancata comparizione del ricorrente priva di effetti la domanda di separazione. E’ esclusa la perdita di efficacia della domanda qualora la mancata presenza sia giustificata da gravi e comprovati motivi. E’ bene precisare che, se l’impedimento è solo temporaneo, si avrà un rinvio dell’udienza evitando al coniuge ricorrente di incorrere in tale drastica sanzione, altrimenti, in caso di impedimento non temporaneo è consentito al coniuge ricorrente di comparire a mezzo di procuratore speciale.

Al comma terzo il legislatore precisa/esamina che, in caso di omessa comparizione del coniuge convenuto, il Presidente verifica la regolarità della notifica del ricorso ordinando, se necessario, la sua rinnovazione e il contestuale rinvio dell’udienza. Se, invece, la notifica è regolare, il rinvio ad un’udienza successiva è consentito solo in presenza di un legittimo impedimento del convenuto o di un suo effettivo interesse al tentativo di riconciliazione. In mancanza di legittimo impedimento o di interesse al tentativo di riconciliazione, la mancata comparizione della controparte equivale ad insuccesso del tentativo di riconciliazione.

All’udienza presidenziale i coniugi vengono sentiti dal Presidente del Tribunale prima separatamente e poi congiuntamente per il rituale tentativo di riconciliazione. Nel caso in cui il tentativo di riconciliazione fallisca il Presidente, sentiti i coniugi ed i rispettivi difensori dà, con ordinanza, i provvedimenti provvisori ed urgenti necessari per tutelare l’interesse della prole e dei coniugi, nomina il giudice istruttore e fissa l’udienza di comparizione e trattazione. Se tale ordinanza è pronunciata fuori udienza deve essere, poi, comunicata alle parti. La disposizione normativa che stiamo esaminando è stata modificata dalla Legge 80/2005 e dalla successiva Legge 54/2006 (meglio conosciuta come “Legge sull’affidamento condiviso dei figli”) prevedendo un duplice strumento di controllo dell’ordinanza presidenziale, avente ad oggetto i provvedimenti temporanei e urgenti pronunciati nell’interesse della prole e dei coniugi. Infatti, da un lato detta ordinanza può essere reclamata innanzi alla Corte d’appello entro dieci giorni dalla notificazione del provvedimento e dall’altro è prevista la possibilità per il giudice istruttore di modificare o revocare l’ordinanza presidenziale. Una volta promosso il reclamo non è più possibile proporre istanza di revoca o modifica, se non in presenza di un mutamento delle circostanze.

I provvedimenti presidenziali. Passiamo ora ad esaminare i provvedimenti presidenziali: efficacia e rimedi. Se la riconciliazione non riesce il Presidente del Tribunale deve emettere i cosiddetti provvedimenti urgenti e provvisori; cioè deve stabilire a priori -rispetto alla decisione definitiva – a chi dei due coniugi vanno affidati i figli, a chi va assegnata la casa coniugale e, ancora, stabilire se un coniuge deve corrispondere all’altro il cosiddetto assegno di mantenimento o un assegno quale mantenimento per i figli.

E’ bene, infatti, che il ricorso sia corredato da una completa documentazione. La medesima disposizione è prevista anche dalla Legge sul divorzio n. 898 del 1970 che all’art. 5 dispone “I coniugi devono presentare all’udienza di comparizione davanti al Presidente del Tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni, il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”. Compete, dunque, ai coniugi fornire al Tribunale gli elementi reddituali necessari per poter determinare, esattamente, il quantum dell’assegno divorzile.

Se la situazione si presenta oscura il Presidente può riservarsi e decidere fuori udienza. Infatti, può disporre, se lo ritiene opportuno, che le parti, prima di tale decisione, spieghino determinati punti anche attraverso una documentazione ad hoc.

Per quanto riguarda l’affidamento dei figli, se la questione si presenta complessa il Presidente può decidere di sentire il minore, oppure disporre una consulenza tecnica dalla quale si possa desumere in modo chiaro quale sia la soluzione migliore da adottare nell’interesse dei figli. Detti provvedimenti temporanei e urgenti sono adottati dal Presidente con ordinanza. Il principio generale in base al quale detti provvedimenti vengono emessi dall’Autorità Giudiziaria è quello del “rebus sic stantibus” (“stando così le cose”), ovvero sulla base degli elementi di fatto così come delineati in un determinato momento, allo stato attuale, ferma restando la modificabilità degli stessi in presenza di circostanze nuove che modifichino il quadro della valutazione precedente.

Questi provvedimenti sono dotati di efficacia esecutiva immediata in virtù dell’art. 189 disp. att. c.p.c, secondo il quale: “L’ordinanza con la quale il presidente del tribunale […] dà i provvedimenti di cui all’art. 708 del codice costituisce titolo esecutivo”. L’efficacia esecutiva di cui sono dotati questi provvedimenti è tale che perdura, anche dopo l’estinzione del processo e fino a che non sia sostituita con altro provvedimento emesso dal Presidente o dal giudice istruttore a seguito di una nuova presentazione del ricorso per separazione personale dei coniugi. La medesima situazione si verifica nel procedimento di divorzio. Infatti è previsto che all’esito dell’udienza presidenziale di comparizione dei coniugi, venga emessa un’ordinanza con i provvedimenti temporanei ed urgenti finalizzati a regolamentare i rapporti, anche economici, sia con la prole che tra i coniugi.

Il nostro legislatore prevede avverso i provvedimenti presidenziali due rimedi possibili:

  • il reclamo alla Corte d’Appello ex art. 708, comma 4 c.p.c., introdotto dall’art. 2, comma 1, della Legge 54/2006 sull’affido condiviso: “Contro i provvedimenti di cui al terzo comma si può proporre reclamo con ricorso alla Corte d’Appello, che si pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento”. La decorrenza del termine di dieci giorni per la proponibilità del reclamo è, dunque, connessa alla notificazione del provvedimento. Ciò significa che se l’ordinanza non è stata notificata, deve ritenersi che il suddetto termine (10 giorni) non abbia mai iniziato a decorrere.
  • l’istanza di modifica delle condizioni di separazione proposta al Giudice Istruttore ex art. 709, ultimo comma, c.p.c.: “I provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui al terzo comma dell’articolo 708 possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore”.

In quali casi si ricorre all’istituto del reclamo? Ed in quali a quello dell’istanza di modifica al giudice istruttore? Si ricorre all’istituto del reclamo quando sussistono errori – per es. errori di interpretazione della legge applicabile, errori nell’esame dei documenti di causa…- nella decisione emessa in fase presidenziale. In questo caso il reclamo deve basarsi sulle medesime circostanze. In altri termini, la funzione del reclamo è quella di riesaminare, sulla base delle stesse circostanze, l’ordinanza presidenziale ritenuta erronea.

Si ricorre, invece, all’istanza di modifica al Giudice Istruttore quando si verifica un mutamento delle circostanze. I provvedimenti contenuti nell’ordinanza presidenziale possono essere, così, sottoposti a revoca o modifica solo al fine di adeguarli alle nuove circostanze. Difatti, l’art. 156 c.c. ultimo comma, dispone: “Qualora sopravvengano giustificati motivi il giudice, su istanza di parte, può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti di cui ai commi precedenti”.

Riassumendo: se la parte denuncia errori di valutazione da parte del Presidente del Tribunale su fatti portati alla sua conoscenza dovrà ricorrere all’istituto del reclamo, entro il termine perentorio di 10 giorni – ex art. 708, comma 4, c.p.c.., avanti alla Corte d’Appello; se, invece, la parte asserisce l’esistenza di circostanze nuove o, anche, di fatti preesistenti di cui, però, si sia avuta conoscenza in un secondo momento, dovrà richiedere al Giudice Istruttore la revoca o la modifica del provvedimento presidenziale- ex art. 709 ultimo comma c.p.c.

Revoca/modifica delle condizioni della separazione riguardanti l’affidamento dei figli. Rilievo particolare assume la disciplina relativa alla revoca/modifica delle condizioni della separazione riguardanti l’affidamento dei figli. L’art. 155 ter c.c., introdotto dalla Legge 54/2006 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”, consente ai genitori di chiedere – in ogni tempo – la revisione di questi provvedimenti. Tale istanza è giustificata dall’ esigenza di tutelare il superiore interesse della prole e prescinde, perciò, da ogni condizione. Quando si attiva il procedimento per la modifica delle condizioni relative all’affidamento dei figli è prevista la presenza del Pubblico Ministero. E’ bene precisare che è possibile, per espressa previsione della Suprema Corte, disporre l’audizione dei figli che abbiano compiuto i dodici anni o anche di età inferiore se capaci di discernimento.

Passiamo ora ad esaminare la disposizione contenuta nell’art. 709 ter c.p.c. Anche questa disposizione è una delle novità introdotte dalla Legge 54/2006: “in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento”, il giudice può non solo modificare i provvedimenti in vigore, ma anche emettere provvedimenti aventi carattere sanzionatorio: ammonire il genitore inadempiente; disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di € 75 a un massimo di € 5.000 a favore della Cassa delle ammende.

La ratio della norma de qua è quella di garantire al minore la possibilità di costruire un rapporto equilibrato e duraturo con entrambi i genitori. Infatti, il principio che sta alla base dei provvedimenti – ex art. 709 ter c.p.c. – è quello di bi-genitorialità, ovvero “il principio etico in base al quale un bambino ha una legittima aspirazione, ed un legittimo diritto a mantenere un rapporto stabile con entrambi i genitori, anche nel caso questi siano separati o divorziati”.

I rimedi previsti dal nostro Legislatore avverso i provvedimenti presidenziali, trovano applicazione non solo in sede di separazione giudiziale, ma anche di divorzio giudiziale.

L’assegnazione della casa coniugale. Uno dei punti su cui i coniugi spesso vengono a scontrarsi riguarda l’assegnazione della casa coniugale. Che cosa si intende con l’espressione “casa coniugale”? Per “casa coniugale” deve intendersi l’immobile comprensivo dei beni mobili all’interno esistenti finalizzato all’organizzazione e all’amministrazione del menage familiare, il luogo, cioè, in cui viene stabilita e si articola la vita familiare. Il Presidente del Tribunale è chiamato a pronunciarsi anche in merito all’assegnazione della casa coniugale. Esaminiamo le diverse ipotesi.

  1. 1° ipotesi: Procedimento di separazione assegnazione della ex-casa coniugale in presenza di figli minori. Il criterio da applicare – sia in caso di separazione che in caso di divorzio – per l’assegnazione della ex-casa coniugale è quello della tutela della prole e dell’interesse di questa a rimanere nell’ambiente domestico e, in mancanza di prole, trovano applicazione le norme sulla proprietà o sul possesso. Per quanto riguarda la natura dell’assegnazione della casa coniugale, i Giudici di Piazza Cavour hanno stabilito che “il diritto riconosciuto al coniuge, non titolare di un diritto di proprietà o di godimento, sulla casa coniugale, con il provvedimento giudiziale di assegnazione di detta casa in sede di separazione o divorzio, ha natura di diritto personale di godimento e non di diritto reale” (Cass. Civ., sez. I, sent. 3 marzo 2006, n. 4719).
  2. 2° ipotesi: Procedimento di separazione assegnazione della ex-casa coniugale in assenza di figli. In questa ipotesi la ex-casa coniugale spetterà automaticamente ed esclusivamente al coniuge proprietario.
  3. 3° ipotesi: Procedimento di separazione assegnazione della ex-casa coniugale in presenza di figli maggiorenni. In questa ipotesi la Suprema Corte, al fine di evitare il perdurare di un vincolo sull’immobile a lungo termine, ha puntualizzato che: “al fine dell’assegnazione ad uno dei coniugi separati o divorziati della casa familiare, nella quale questi abiti con un figlio maggiorenne, occorre che si tratti della stessa abitazione in cui si svolgeva la vita della famiglia allorché essa era unita, ed inoltre che il figlio convivente versi, senza colpa, in condizione di non autosufficienza economica” (Cass. Civ., sez. I, sent. 20 gennaio 2006, n. 1198).

Se la ex-casa coniugale è in locazione, come avviene l’assegnazione? In questa ipotesi la ex-casa coniugale viene assegnata al coniuge non titolare del contratto di locazione. Difatti, la cessione del contratto a favore del coniuge assegnatario (art. 6 L. n. 392/78) opera ex lege e determina l’estinzione del contratto di locazione in capo al coniuge originario conduttore, senza alcuna possibilità di una sua ripresa, neanche nel caso di allontanamento dall’immobile da parte del nuovo conduttore. Tutto ciò si verifica senza la necessità di darne apposita comunicazione al locatore. In questo caso nessuna opposizione da parte del locatore avrà esito positivo. Al riguardo la Cassazione ha stabilito che “l’art. 6 della legge n. 392 del 1978, che prevede il sub ingresso legale del coniuge separato o divorziato nella posizione di conduttore della casa familiare, allorché il relativo diritto gli sia stato attribuito dal giudice, non può trovare applicazione ove l’immobile oggetto del contratto di locazione stipulato da uno dei coniugi, e ceduto, dopo la separazione, all’altro, non sia stato adibito ad abitazione familiare” (Cass. Civ., sez. III, sent.10 aprile 2000, n. 4502).

Esaminiamo ora il caso in cui la ex-casa coniugale è data ai coniugi in comodato. Che succede in caso di assegnazione? La ex-casa coniugale di norma viene assegnata, in presenza di figli, al genitore collocatario. E se i coniugi si separano, senza figli, va restituita? A tale quesito ha risposto il Tribunale di Caltanissetta con la sentenza del 19 marzo 2014. Il caso su cui il Giudice di Caltanissetta si è pronunciato riguardava un appartamento dato in comodato dai genitori dello sposo a lui e alla nuora come casa coniugale. La coppia vi aveva abitato fino alla separazione. In sede di udienza di separazione, il Presidente del Tribunale aveva autorizzato i coniugi a vivere separatamente. Quanto alla casa coniugale il Giudice della separazione, poiché i coniugi non avevano figli, non si era pronunciato in merito all’assegnazione di tale immobile, ritenendo che dovevano trovare applicazione le norme sulla comunione ordinaria, ovvero quelle che regolano il diritto di godimento. In realtà, dopo la separazione, l’appartamento continuava ad essere occupato dalla moglie che non solo non era proprietaria, ma ancor più, nell’ordinanza di separazione, l’immobile de quo non le era stato assegnato.

E’ bene ricordare che la casa coniugale di norma viene assegnata, in presenza di figli, al genitore collocatario. I suoceri decidevano, così, di agire per ottenere il rilascio. La donna, viceversa, eccepiva che, visto il vincolo di destinazione impresso sul bene (casa coniugale), i comodanti avrebbero potuto ottenere il rilascio dell’immobile solo con il venir meno del vincolo coniugale, ovvero con il divorzio. Il Giudice dava ragione ai suoceri motivando che il vincolo di destinazione è idoneo ad indicare la durata necessaria del rapporto fino a quando – del bene – il comodatario fa l’uso effettivo al quale era destinato (in questo caso: casa coniugale). In altri termini, venuto meno il rapporto coniugale e, quindi, la convivenza dei coniugi e in assenza di un provvedimento giudiziale di assegnazione, il bene va restituito al comodante. Pertanto, i suoceri non dovevano attendere la definizione del giudizio di separazione e neppure di quello di divorzio perché, a seguito dell’ordinanza di separazione, l’immobile aveva perso il vincolo di destinazione: casa coniugale. Il Tribunale ordinava, così, il rilascio dell’appartamento, ma respingeva l’ulteriore richiesta formulata dai suoceri, ovvero la richiesta di un risarcimento dei danni per il mancato godimento dell’immobile, occupato dalla nuora oltre la data dell’ordinanza presidenziale. I proprietari non erano, infatti, riusciti a dimostrare quale diverso uso ne avrebbero potuto fare in quel periodo. La richiesta di risarcimento è, dunque, legata alla reale dimostrazione dell’utile uso che i proprietari avrebbero potuto fare nel periodo successivo all’ordinanza di separazione. Il Giudice ha, altresì, respinto anche la richiesta della nuora di rimborso delle spese affrontate per la conservazione dell’immobile. La donna, infatti, aveva dimostrato di avere sostenuto – in via esclusiva – spese di manutenzione dell’immobile, ma dai documenti prodotti era chiaro che si trattava di addizioni e migliorie funzionali a un più confortevole uso e, come tali, secondo l’articolo 1808 c.c., insuscettibili di rimborso.

Assegno di mantenimento.Tra i provvedimenti provvisori ed urgenti rientra anche quello relativo alla determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento per i figli e per il coniuge.  “L’assegno di mantenimento è una forma di contribuzione economica consistente, in caso di separazione tra coniugi e qualora ricorrano determinati presupposti, nel versamento periodico di una somma di denaro o di voci di spesa da parte di uno dei coniugi all’altro o ai figli (qualora vi siano), per adempiere all’obbligo di assistenza materiale”.

Per potere ottenere la corresponsione dell’assegno di mantenimento è necessario che sussistano alcune condizioni:

– deve esserne fatta esplicita richiesta nel ricorso dal coniuge richiedente;

– al coniuge che richiede l’assegno non deve essere addebitata la separazione;

– il coniuge richiedente non deve avere “adeguati redditi propri”;

– il coniuge obbligato al pagamento dell’assegno deve disporre di mezzi economici idonei.

L’assegno da corrispondere è periodico, normalmente a scadenza mensile. Nella stessa misura in cui continua a permanere in vita, in caso di separazione, l’obbligo all’assistenza materiale tra coniugi, continua, anche, l’obbligo da parte dei genitori di contribuire al mantenimento, all’educazione e all’istruzione dei figli.

Il nostro Legislatore prevede due assegni di mantenimento:

assegno di mantenimento a favore del coniuge;

assegno di mantenimento a favore dei figli.

Quanto all’assegno di mantenimento a favore del coniuge va osservato che, nella maggior parte dei casi, questo obbligo a corrispondere detto assegno ricade sul marito perché la moglie, priva di redditi adeguati, si trova impossibilitata a mantenere il medesimo tenore di vita che aveva in costanza di matrimonio. In questo caso il giudice dovrà imporre all’altro coniuge di provvedere al versamento periodico di un assegno il cui quantum è determinato tenendo conto dei redditi del coniuge obbligato e dei bisogni dell’altro.

L’assegno di mantenimento non può essere corrisposto qualora al coniuge sia stata addebitata la responsabilità della separazione. In questo caso avrà diritto solo agli alimenti, cioè a ricevere periodicamente una somma di denaro nei limiti di quanto necessario al suo sostentamento.

Quanto all’assegno di mantenimento a favore dei figli il legislatore prevede che ciascun genitore è obbligato al mantenimento dei figli, in misura proporzionale al proprio reddito.

In caso di separazione, il giudice dispone l’obbligo di corresponsione di un assegno di mantenimento e lo determina tenendo conto:

  • delle attuali esigenze del figlio;
  • del tenore di vita tenuto dal minore nel periodo in cui conviveva con entrambi i genitori;
  • della permanenza presso ciascun genitore;
  • della situazione reddituale dei genitori;
  • della valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

Il diritto a percepire l’assegno di mantenimento può essere modificato o estinto mediante apposito ricorso per la modifica delle condizioni di separazione.

Con il D.lgs. 154/2013 il legislatore ha ribadito l’obbligo dei genitori di mantenere i figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo

Nel caso in cui i genitori non abbiano i mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di grado, sono tenuti a fornire ai genitori i mezzi necessari per adempiere ai loro obblighi nei confronti dei propri figli.

Nel caso in cui il coniuge obbligato dovesse risultare inadempiente, il Presidente del Tribunale può ordinare che parte dei redditi dell’obbligato siano versati all’altro genitore a favore dei figli.

Quanto all’assegno di mantenimento a favore dei figli maggiorenni va osservato che detto assegno cessa di essere corrisposto nel momento in cui il figlio diventa maggiorenne. Tale requisito non è sufficiente: è necessario, altresì, che sia economicamente indipendente ed autosufficiente. Nel caso in cui il figlio maggiorenne non sia economicamente autosufficiente il giudice può disporre in suo favore il pagamento di un assegno periodico. Detto assegno potrà essere versato direttamente al figlio. Nel caso in cui i figli maggiorenni siano portatori di handicap grave per loro trova applicazione la disciplina dettata per i figli minori.

Il giudice nel determinare il quantum dell’assegno di mantenimento per il coniuge deve procedere ad una valutazione “comparativa”, ovvero mettere a confronto le risorse dei coniugi per stabilire in quale misura il coniuge obbligato deve integrare i redditi insufficienti dell’altro. Più precisamente deve tenere conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e, altresì, alle circostanze e ai redditi dell’obbligato. Un altro elemento che deve essere valutato dal giudice è l’attitudine a lavorare da parte del coniuge che richiede l’assegno. Il giudice, infatti, dovrà valutare se quest’ultimo abbia la possibilità di svolgere attività lavorativa retribuita tenendo conto di diversi fattori:

– l’età; – l’esperienza lavorativa; – le condizioni di salute; – il tempo che è intercorso dall’ultima prestazione di lavoro; e, sulla base di queste valutazioni, può disporre anche una diminuzione dell’assegno.

Il coniuge “debole” ha, dunque, diritto ad un assegno che gli garantisca la conservazione del medesimo tenore sempre che i redditi del coniuge obbligato lo consentano, perché, in caso contrario, dovrà ridurre le proprie necessità, al pari degli altri componenti della famiglia separata.

E’ possibile la revisione dell’assegno di mantenimento? La risposta all’interrogativo è positiva: è possibile chiedere la revisione dell’assegno di mantenimento nel caso in cui sia mutata la situazione di fatto esistente/accertata al momento della pronuncia del provvedimento. Le circostanze che possono dare luogo alla richiesta di revisione sono due: incremento dei redditi di uno dei coniugi; peggioramento della situazione economica di uno dei coniugi (es.: perdita del lavoro, …).

L’assegno di mantenimento, sia a favore del coniuge, sia a favore dei figli, è rivalutato annualmente secondo gli indici Istat. La domanda di revisione dell’assegno può essere avanzata sia dall’avente diritto, sia dal coniuge obbligato a versarlo.

La costituzione delle parti. Abbiamo visto che il procedimento di separazione ha come atto introduttivo il ricorso che deve essere depositato in Cancelleria. Quanto alla costituzione del ricorrente/attore si tratta di una costituzione a “formazione progressiva” perché l’attore prende parte al procedimento inizialmente con il deposito del ricorso introduttivo, ma la sua costituzione si completa solo a seguito del deposito della memoria integrativa – ex art. 709, comma 3, c.p.c.. La memoria integrativa ha il contenuto dell’atto di citazione, ma manca del requisito della vocatio in ius. Deve contenere: il nome delle parti; l’indicazione del petitum e della causa petendi; l’indicazione dei mezzi di prova; l’indicazione dei documenti di cui l’attore intende valersi; l’indicazione della procura al difensore se già rilasciata. Chi scrive ritiene necessario evidenziare che con la memoria integrativa possono essere formulate domande nuove – per es. la domanda di addebito nella separazione – e le domande accessorie riguardanti ad es. l’assegnazione della casa coniugale e l’obbligo alimentare.

Il resistente/convenuto si deve costituire dieci giorni prima dell’udienza di trattazione fissata dal Presidente avanti al Giudice Istruttore mediante il deposito di comparsa di risposta e documenti. Nella comparsa di risposta il convenuto dovrà proporre tutte le domande riconvenzionali ed accessorie, le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio ed eventualmente chiamare in causa i terzi.

Anche il resistente/convenuto è tenuto ad allegare le ultime dichiarazioni dei redditi. E’ prevista una sanzione in caso di omissione? No. Non è prevista alcuna sanzione, ma un tale comportamento potrà essere valutato negativamente dal giudice ai sensi dell’articolo 116 c.p.c.

L’udienza davanti al Giudice Istruttore. Una volta terminata la fase presidenziale, in caso di mancata riconciliazione, il procedimento prosegue il suo iter davanti al Giudice Istruttore designato dal Presidente. Per la fase istruttoria si ritengono applicabili – in quanto compatibili – le disposizioni che regolano il procedimento ordinario. Nell’udienza di prima comparizione e trattazione il Giudice Istruttore procede alle verifiche preliminari, ovvero verifica la regolarità degli atti introduttivi e del contraddittorio e dichiara la contumacia della parte che non si è costituita depositando la memoria integrativa o la comparsa di risposta. In questa udienza le parti – tramite i loro difensori – possono richiedere la concessione dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. per la fissazione definitiva del c.d. thema decidendum. Così come accade nel processo ordinario il Giudice se ritiene la causa matura per la decisione rimetterà le parti avanti al collegio, in caso contrario sarà chiamato a decidere sull’ammissibilità e la rilevanza dei mezzi istruttori fuori udienza o nell’udienza successiva fissata ai sensi dell’art. 184 c.p.c..

Nel caso in cui le parti – tramite i loro difensori – non richiedono la concessione dei termini ex art. 183, comma 6 c.p.c., le istanze probatorie saranno solo quelle formulate fino alla prima udienza di comparizione e trattazione.Si noti bene: nel caso in cui le parti si accordano sulle modalità della separazione il procedimento si trasformerà da contenzioso a consensuale. In questo caso il procedimento contenzioso si estingue e il verbale di conciliazione passa dal Giudice Istruttore al Collegio per l’omologazione.

Ai sensi dell’art. 709 bis, c.p.c. se il processo dovesse proseguire per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per questioni economiche, verrà emessa sentenza non definitiva sulla separazione.

La legge 55/2015: il divorzio breve. Per concludere questa piccola guida, da ultimo un breve cenno alle novità introdotte dal nostro Legislatore con la Legge 55/2015 meglio conosciuta come “Legge sul divorzio breve ed entrata in vigore il 26 maggio u.s., conformando la disciplina giuridica italiana alla tempistica della legislazione europea.

Innanzitutto non saranno più necessari 3 anni per dirsi “addio”, ma solo 6 mesi se la separazione è consensuale e, al massimo un anno se si decide di ricorrere al giudice.

Un’altra novità riguarda la comunione dei beni che si scioglie nel momento in cui il giudice autorizza i coniugi a vivere separati o al momento di sottoscrivere la separazione consensuale. Prima, invece, lo scioglimento si concretizzava a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di separazione o con l’omologazione del verbale di separazione. Infine, è prevista l’applicazione immediata di tali norme: le norme sul “divorzio breve” trovano applicazione anche per i procedimenti in corso.

Quanto all’effetto principale la nuova legge riduce i tempi ed anticipa gli effetti del procedimento divorzile. Il termine di 12 mesi, in caso di separazione personale giudiziale e il termine di 6 mesi, in caso di separazione personale consensuale dei coniugi, decorre dalla presentazione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale. Il termine di 6 mesi decorre anche nell’ipotesi in cui il procedimento di separazione nato in via giudiziale contenziosa si trasformi, poi, in consensuale.

L’art. 2 della Legge sul “divorzio breve” anticipa, inoltre, gli effetti dello scioglimento della comunione dei beni:

  • nel caso di separazione giudiziale: lo scioglimento si verifica nel momento in cui il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separatamente;
  • nel caso di separazione consensuale: lo scioglimento si verifica nel momento della sottoscrizione del processo verbale dei coniugi, davanti il Presidente del Tribunale, purché venga omologato.

Lo stesso articolo prevede che l’ordinanza presidenziale – ex art. 708 c.p.c. – venga comunicata all’Ufficiale dello Stato Civile per l’annotazione dello scioglimento della comunione legale. I nuovi termini da quando decorrono? Con l’ingresso nel nostro ordinamento della Legge sul “divorzio breve” ciascun coniuge può proporre la domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio a condizione che la separazione si sia protratta ininterrottamente. Il legislatore ha, dunque, lasciato in vita il requisito della separazione ininterrotta, riducendone di gran lunga i tempi. Difatti, prima della riforma occorreva attendere 3 anni a decorrere dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione personale, ciò anche nell’ipotesi in cui il procedimento da contenzioso si fosse trasformato in consensuale.

Con la riforma i tre anni sono stati ridotti. L’art. 1 della Legge sul “divorzio breve” in merito stabilisce: ” […] dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e dai sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale”. In altri termini, se è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale, oppure è stata omologata la separazione consensuale, in ambedue le ipotesi per la domanda, diretta ad ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, è necessario che le separazioni si siano protratte ininterrottamente per dodici mesi a decorrere dalla data di comparizione dei coniugi avanti il Presidente del Tribunale nel caso di separazione personale giudiziale e per sei mesi nel caso di separazione personale consensuale. Ciò vale, anche, nel caso in cui il giudizio da contenzioso si sia trasformato in consensuale.

Il termine di sei mesi trova applicazione anche nel caso di accordo di separazione concluso davanti all’Ufficiale dello Stato Civile; e, ancora, nel caso di accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da avvocati.

Nel caso in cui venga a verificarsi un’interruzione della separazione, questa deve essere eccepita dalla parte convenuta.

Presupposto indispensabile è la separazione personale dei coniugi che, ai sensi dell’art. 150 c.c., può essere, come abbiamo già visto, consensuale o giudiziale.

Per completezza espositiva e per meglio capire l’argomento vediamo, brevemente, l’iter da seguire per la separazione consensuale e giudiziale:

Iter per la separazione consensuale. Consensuale perché? E’ denominata consensuale perché i coniugi decidono di separarsi di comune accordo. In questo caso su ricorso di entrambi i coniugi il Presidente del Tribunale fissa l’udienza di comparizione degli stessi avanti a sé. In questa udienza li sente e tenta la riconciliazione secondo quanto stabilito ai sensi dell’art. 708 c.p.c.. Se la conciliazione non riesce viene redatto processo verbale nel quale si dà atto del consenso dei coniugi a separarsi e i provvedimenti da adottare nell’interesse dei figli. Perché la separazione consensuale abbia effetto è necessaria sia omologata dal Tribunale che provvede in camera di consiglio su relazione del Presidente.

Iter per la separazione giudiziale. Si ricorre, invece, alla separazione giudiziale quando vi è disaccordo tra i coniugi. Il ricorso va depositato al Tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto è residente o ha domicilio. Il Presidente procede, poi, a fissare con decreto la data di comparizione dei coniugi davanti a sé e il termine per la notificazione del ricorso unitamente al decreto. All’udienza il Presidente sente i coniugi prima separatamente e, poi, congiuntamente tentando la riconciliazione. Se la riconciliazione riesce il Presidente fa redigere processo verbale; in caso contrario, anche d’ufficio, pronuncia con ordinanza: – i provvedimenti temporanei ed urgenti nell’interesse dei coniugi e dei figli; – procede alla nomina del Giudice Istruttore; – e, infine, fissa la data dell’udienza di comparizione davanti a questo.

L’addio al Comune. Dirsi “addio” è diventato più facile e veloce, ma a determinate condizioni. Quali?

La Legge n. 162 del 10 novembre 2014 ha introdotto una grossa novità, ovvero la possibilità di richiedere la separazione consensuale o il divorzio congiunto e la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio innanzi al Sindaco, quale Ufficiale dello Stato Civile del Comune di residenza di uno dei coniugi o del Comune presso cui è trascritto l’atto di matrimonio. Vediamo brevemente qual è l’iter da seguire e i protagonisti della procedura. Organo incaricato a ricevere e seguire la procedura è il Sindaco in qualità di Ufficiale dello Stato Civile il quale può anche farsi sostituire. Il Sindaco, o chi per lui, riceve da ciascun coniuge la dichiarazione con la quale manifesta la volontà di separarsi o di far cessare gli effetti civili del matrimonio o, ancora, la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Nel caso di separazione personale, ai coniugi, a seguito dell’accordo, è consentito vivere separatamente e, ancora, si viene a determinare lo scioglimento del regime di comunione legale dei beni – ex art. 177 e segg. c.c.

Quanto alla richiesta del divorzio congiunto – a seguito dell’introduzione della novella sul “divorzio breve” – si ritiene che l’abbreviazione dei termini trova applicazione anche nel caso in cui la richiesta venga avanzata davanti al Sindaco. Ciò significa che il termine di 6 mesi – previsto per la separazione consensuale – decorre dall’accordo di separazione personale raggiunto innanzi al Sindaco o chi per lui.

E’ sempre possibile dirsi “addio” in Comune? Il Legislatore ha previsto che non è possibile ricorrere a questa procedura breve e veloce in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave, ovvero economicamente non autosufficienti. Altro limite è rappresentato dal divieto “di patti di trasferimento patrimoniale”. Il legislatore in questo modo non riconosce all’Ufficiale di Stato Civile la competenza a decidere su questioni aventi natura economica o finanziaria; si pensi, ad esempio, all’assegnazione della ex-casa coniugale, alla determinazione dell’assegno di mantenimento. In presenza di questi limiti potranno seguire questo iter solo i coniugi privi di figli e che non hanno alcuna pendenza di natura economica.

E’ obbligatoria l’assistenza di un avvocato? L’assistenza di un avvocato in questo iter comunale è facoltativa. Si ritiene che l’assistenza di un avvocato sia, invece, necessaria prima di raggiungere l’accordo.

Quale il costo di questo iter comunale? Davvero esiguo: una marca da bollo da 16 euro!!

Avv. Luisa Camboni – Newsletter Giuridica studio Cataldi           10 ottobre 201

www.studiocataldi.it/articoli/19674-la-separazione-personale-tra-i-coniugi.asp

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

SINODO DEI VESCOVI SULLA FAMIGLIA

            Saluto d’apertura, Francesco invoca ancora collegialità e parresia per i lavori dell’assise.

Il Sinodo “non è un convegno o un ‘parlatorio”, tantomeno “è un parlamento o un senato, dove ci si mette d’accordo”, dove “per raggiungere un consenso o un accordo comune si occorre al negoziato, al patteggiamento o ai compromessi”. Papa Francesco chiarisce subito la natura dell’assise che, da oggi fino al 25 ottobre, dovrà riflettere sulle sfide della famiglia di oggi. Come l’anno scorso, nel suo saluto d’apertura, il Pontefice chiede a vescovi e cardinali di “camminare insieme con spirito di collegialità e di sinodalità, adottando coraggiosamente la parresia”, ovvero “lo zelo pastorale e dottrinale, la saggezza, la franchezza”, e “mettendo sempre davanti ai nostri occhi il bene della Chiesa, delle famiglie e la suprema lex, la salus animarum”.

            Per questo il Sinodo non va osservato in un’ottica umana, ma va considerato come “un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio”, sottolinea il Vescovo di Roma. “È la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita”.

            Il Sinodo inoltre “è uno spazio protetto ove la Chiesa sperimenta l’azione dello Spirito Santo”, che parla “attraverso la lingua di tutte le persone che si lasciano guidare dal Dio che sorprende sempre, dal Dio che rivela ai piccoli ciò che nasconde ai sapienti e agli intelligenti”. Ovvero il Dio che – rammenta Papa Bergoglio – “ha creato la legge e il sabato per l’uomo e non viceversa”, e “che lascia le 99 pecorelle per cercare l’unica pecorella smarrita, dal Dio che è sempre più grande delle nostre logiche e dei nostri calcoli”.

            Tutto questo sarà possibile – evidenzia il Santo Padre – “solo se noi partecipanti ci rivestiamo di coraggio apostolico, umiltà evangelica e orazione fiduciosa”. Il coraggio apostolico, cioè, “che non si lascia impaurire né di fronte alle seduzioni del mondo, che tendono a spegnere nel cuore degli uomini la luce della verità sostituendola con piccole e temporanee luci, e nemmeno di fronte all’impietrimento di alcuni cuori che – nonostante le buone intenzioni – allontanano le persone da Dio”.

L’umiltà evangelica “che sa svuotarsi dalle proprie convenzioni e pregiudizi per ascoltare i fratelli Vescovi e riempirsi di Dio” e “che porta a non puntare il dito contro gli altri per giudicarli, ma a tendere loro la mano per rialzarli senza mai sentirsi superiori ad essi”. L’orazione fiduciosa, infine, ovvero “l’azione del cuore quando si apre a Dio, quando si fanno tacere tutti i nostri umori per ascoltare la soave voce di Dio che parla nel silenzio”.

“Senza ascoltare Dio tutte le nostre parole saranno soltanto ‘parole’ che non saziano e non servono”, afferma Francesco. E avverte che “senza lasciarci guidare dallo Spirito tutte le nostre decisioni saranno soltanto delle decorazioni che invece di esaltare il Vangelo lo ricoprono e lo nascondono”. L’unico metodo del Sinodo è, dunque, “quello di aprirsi allo Spirito Santo”, affinché “sia Lui a guidarci, a illuminarci e a farci mettere davanti agli occhi non i nostri pareri personali, ma la fede in Dio, la fedeltà al magistero, il bene della Chiesa e la salus animarum”.

Ringraziando tutti i Padri e i diversi partecipanti, Bergoglio vuole indirizzare uno speciale ringraziamento ai giornalisti presenti in aula e quelli che seguono l’assise da lontano: “Grazie per la vostra appassionata partecipazione e per la vostra ammirevole attenzione”. Quindi invoca l’aiuto dello Spirito Santo e l’intercessione della Santa Famiglia di Nazareth per iniziare questo difficile ma necessario cammino.

Salvatore Cernuzio               zenit.org         05 ottobre 2015

www.zenit.org/it/articles/il-papa-il-sinodo-non-e-un-parlamento-non-si-patteggia-e-non-si-scende-a-compromessi

testo              http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/october/documents/papa-francesco_20151005_padri-sinodali.html

            Il cardinale Péter Erdő apre i lavori.

Nella Relazione introduttiva dell’arcivescovo ungherese, in primo piano i temi di: indissolubilità matrimoniale, divorziati risposati, procreazione, aborto, eutanasia, unioni civili.

Apre i battenti il tanto atteso Sinodo ordinario dei vescovi sul tema: La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo. Oggi la prima Congregazione generale, in Aula del Sinodo, alla presenza di Francesco, con la presentazione della Relazione introduttiva da parte del cardinale Péter Erdő, relatore generale dell’assise. Sul tavolo, l’arcivescovo di Esztergom-Budapest mette i diversi temi su cui dovrà concentrarsi l’attenzione dei 270 Padri e dei circa 90 esperti, uditori e delegati di altre chiese cristiane fino al prossimo 25 ottobre. Ovvero i temi indicati dall’Instrumentum Laboris elaborato dopo la Relatio Synodi dell’assemblea 2014 ed emersi dalle risposte delle Conferenze Episcopali del mondo. Quindi: comunione a divorziati risposati, preparazione di giovani coppie al matrimonio, denatalità, assistenza a famiglie in crisi, discriminazione di omosessuali, aborto, eutanasia, unioni civili. Argomenti scottanti e questioni spinose, riguardo alle quali la Chiesa è invitata ad esprimere il proprio punto di vista. E a farlo con lo stesso sguardo di Cristo: uno sguardo – spiega Erdő – che non è “di un sociologo o di un fotoreporter”, ma quello degli “occhi del cuore”.

Cambiamenti antropologici. L’arcivescovo ungherese parte da una riflessione sull’attualità, nella quale si intrecciano le sfide che riguardano la famiglia: dagli effetti di ingiustizie sociali, violenze e guerre, che spingono milioni di persone a lasciare la loro terra d’origine, fino a problematiche come i salari così bassi da permettere a malapena a un uomo di sopravvivere, figuriamoci a creare una famiglia. Il cardinale analizza anche un altro fenomeno: “il cosiddetto ‘cambiamento antropologico’ che corre il rischio di risolversi in un ‘riduzionismo antropologico’”, per cui la persona “alla ricerca della propria libertà, cerca spesso di essere indipendente da ogni legame”: dalla religione, quale “legame con Dio”, ai legami sociali, specialmente quelli connessi a “forme istituzionali della vita”.

Fuga dalle istituzioni e dalle responsabilità. Si assiste quindi ad una “fuga delle istituzioni” – dice il cardinale – che spiega la “crescita del numero delle coppie che vivono insieme stabilmente, ma non vogliono contrarre nessun tipo di matrimonio né religioso né civile”. D’altro canto, anche chi manifesta il desiderio di sposarsi è risucchiato da cambi antropologici che “toccano gli strati più profondi dell’essere umano”. “È diventata moda – osserva infatti Erdő – di progettare fino ai minimi dettagli le nozze, prevedendo tutto, dalla musica, al menù, fino alle tovaglie per le tavole. Si vedono i giovani nubendi completamente presi dall’ansia per la preoccupazione di realizzare nel migliore dei modi questi dettagli, ma che allo stesso tempo trascurano il vero significato del matrimonio”. In tal contesto, si inseriscono anche l’innalzamento dell’età in cui ci si sposa, ossia la paura dei giovani di assumersi delle responsabilità e degli impegni definitivi, come appunto matrimonio e famiglia. E soprattutto una crescente “instabilità istituzionale” che si manifesta nell’alta percentuale dei divorzi.

Indissolubilità matrimoniale. A tal proposito, il relatore generale parla di indissolubilità del matrimonio, da non intendere come “‘giogo’ imposto agli uomini” bensì come “dono”. In virtù del sacramento del matrimonio, sottolinea infatti Erdő, “la famiglia cristiana diventa un bene per la Chiesa”, e, al contempo, essa trae beneficio dal suo inserimento nel contesto ecclesiale, perché “aiutata a livello spirituale e comunitario nelle difficoltà” e nel “custodire l’unione matrimoniale”.

Unioni civili e preparazione al matrimonio. La stessa attenzione “misericordiosa e realistica” – afferma l’arcivescovo – la Chiesa deve rivolgerla ai fedeli che convivono o vivono nel solo matrimonio civile “in quanto non si sentono preparati a celebrare il sacramento”. Occorre, secondo il cardinale, una “sana pedagogia”, perché “se la comunità riesce a dimostrarsi accogliente verso queste persone, nelle varie situazioni della vita, e presentare chiaramente la verità sul matrimonio, essa potrà aiutare questi fedeli ad arrivare ad una decisione per il matrimonio sacramentale”.

Accoglienza e vicinanza per matrimoni e famiglie in crisi. Da questa “intima” connessione del sacramento del matrimonio con la realtà della Chiesa discende che la comunità ecclesiale “ha il dovere di farsi carico anche di quanti vivono in convivenze o situazioni matrimoniali e familiari che non possono trasformarsi in matrimonio valido e tanto meno sacramentale”. Dunque i divorziati e risposati civilmente, la cui integrazione nella vita della comunità ecclesiale – evidenzia Erdő – “può realizzarsi in varie forme, diverse dall’ammissione all’Eucarestia”. È doveroso – prosegue – “un accompagnamento pastorale misericordioso il quale però non lascia dubbi circa la verità dell’indissolubilità del matrimonio insegnata da Gesù Cristo”.

Comunione a divorziati risposati. “La misericordia di Dio offre al peccatore il perdono, ma richiede la conversione”; tuttavia il peccato non è il naufragio del primo matrimonio, perché “è possibile che nel fallimento le parti non siano state ugualmente colpevoli”, precisa il cardinale, bensì “la convivenza nel secondo rapporto”. È questo “che impedisce l’accesso all’Eucarestia”, anche se “tutto ciò richiede, però, un’approfondita riflessione”.

Via penitenziale; continenza per divorziati e risposati. Per quanto riguarda la cosiddetta via penitenziale, l’arcivescovo di Budapest richiama la Familiaris consortio di san Giovanni Paolo II, e spiega che questa espressione si riferisce “a quanti divorziati e risposati, per necessità dei figli o propria non interrompono la vita comune, ma che possono praticare in forza della grazia la continenza vivendo la loro relazione di aiuto reciproco e di amicizia”. “Questi fedeli potranno accedere anche ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucarestia evitando però di provocare scandalo”, dice il cardinale. E precisa che “tale possibilità è lontana da essere fisicista e non riduce il matrimonio all’esercizio della sessualità, ma riconoscendone la natura e la finalità, l’applica coerentemente nella vita della persona umana”.

Aiutare separati e divorziati non risposati; figli “vittime”. Ci sono poi i separati e i divorziati non risposati, che la Chiesa può aiutare “nel cammino del perdono e se possibile della riconciliazione”. Soprattutto, la comunità ecclesiale deve contribuire all’ascolto dei figli, “vittime di queste situazioni”, e “incoraggiare i coniugi rimasti soli dopo un tale fallimento, di perseverare nella fede e nella vita cristiana”. A tal fine, esorta Erdő, “è importante avere, almeno a livello diocesano, centri di ascolto” che possono aiutare nel momento sia antecedente che successivo alla crisi.

Sostegno materiale a famiglie “povere”. Oltre all’aiuto spirituale, il cardinale esorta a creare “strutture economiche di sostegno” per famiglie particolarmente colpite da povertà, disoccupazione, precarietà lavorativa, mancanza di assistenza socio-sanitaria o vittime dell’usura. “Tutta la comunità ecclesiale deve cercare di assistere le famiglie vittime di guerre e persecuzioni”, dice.

Omosessuali. Sì ad accoglienza e rispetto. In tema di accoglienza e vicinanza, Erdő sposta poi l’attenzione alla questione di persone con tendenza omossessuale: tema che non riguarda direttamente la famiglia, ma che può influenzarne la vita. Il Sinodo ribadisce che “ogni persona va rispettata nella sua dignità indipendentemente dalla sua tendenza sessuale” e auspica “che i programmi pastorali riservino una specifica attenzione alle famiglie in cui vivono persone con tendenze omossessuali ed a queste stesse persone”.

No a unioni tra persone dello stesso sesso. Tuttavia, il cardinale rimarca che “non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”. Uomini e donne omosessuali devono essere accolti “con rispetto e delicatezza” e bisogna evitare nei loro confronti “ogni marchio di ingiusta discriminazione”, ma – afferma il cardinale – è “inaccettabile” che “che i Pastori della Chiesa subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il ‘matrimonio’ fra persone dello stesso sesso”.

Sfruttamento corpo femminile; genitorialità violata. Nella Relazione introduttiva c’è spazio anche per una denuncia contro “lo sfruttamento e la violenza esercitati sul corpo delle donne”, che in paesi in via di sviluppo si traduce in “aborti e sterilizzazioni forzate”, in altri in “conseguenze negative con pratiche legate con la procreazione”, come affitto dell’utero e gameti, forzate dal “desiderio di avere un figlio ad ogni costo”. La cosiddetta “rivoluzione bio-tecnologica” – dice il porporato – “ha introdotto nuove possibilità di manipolare l’atto generativo”, rendendo la vita umana e la genitorialità “realtà componibili e scomponibili”.

Immaturità affettiva. Pornografia. Commercializzazione corpo umano. In tal ambito, l’arcivescovo ungherese inquadra anche la problematica delle immaturità e fragilità affettive, “effetto di una vera mancanza di educazione effettiva ed affettiva in famiglia, in quanto i genitori non hanno tempo per i figli, ovvero divorziano”. E i figli “non vedendo l’esempio degli adulti, si confrontano solo con il comportamento dei loro coetanei”. Così – soggiunge – “la maturità affettiva rimane tarpata e non le viene permesso di svilupparsi”. Si colloca in questo contesto la pornografia e la commercializzazione del corpo favorita da un uso “distorto” di internet: “Così – avverte Erdő – la crisi della coppia destabilizza la famiglia ed indebolisce i legami tra le generazioni”.

Procreazione e natalità. Causa di tale indebolimento, ammonisce il cardinale, può diventare anche una “visione individualista della procreazione” a cui consegue un forte calo della natalità. Rimarcando che “l’apertura alla vita è un’esigenza intrinseca dell’amore coniugale” e che “la generazione della vita non si riduce ad una variabile della progettazione individuale o di coppia”, il porporato chiede una maggiore divulgazione dei documenti del Magistero della Chiesa “che promuovono la cultura della vita di fronte alla sempre più diffusa cultura di morte”.

Contraccezione e adozione. Quanto alla responsabilità generativa, l’arcivescovo afferma che “non si può scindere la sessualità dalla procreazione” e che “va riscoperto il messaggio dell’Enciclica Humanae Vitae del beato Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità”. Inoltre, aggiunge, “l’adozione di bambini, orfani e abbandonati, accolti come propri figli, è una forma specifica di apostolato familiare”, incoraggiata dal magistero.

Aborto e eutanasia: vita umana è sacra. Compito della famiglia è dunque di “accogliere la vita nascente e prendersi cura della sua fase ultima”. Riguardo al dramma dell’aborto la Chiesa – sottolinea Erdő – “riafferma il carattere inviolabile della vita umana”, “offre consulenza alle gestanti, sostiene le ragazze madri, assiste i bambini abbandonati e si fa compagna di coloro che hanno sofferto l’aborto ed hanno preso coscienza del loro sbaglio”. Ugualmente “riafferma il diritto alla morte naturale, evitando allo stesso tempo sia l’accanimento terapeutico che l’eutanasia”. Perché “la morte, nella realtà, non è un fatto privato ed individuale”.

Conclusione: lo Spirito Santo ci indichi la strada. Affidando i lavori alla Santa Famiglia di Nazareth, il cardinale invoca un risveglio comunitario per affrontare la sfida della famiglia oggi, chiedendo “la luce dello Spirito Santo affinché ci indichi anche i passi concreti da fare”.

Salvatore Cernuzio    zenit.org         05 ottobre 2015

http://www.zenit.org/it/articles/sinodo-erdo-apre-lavori-accoglienza-a-divorziati-no-comunione-rispetto-per-gay-no-matrimoni-per

testo  https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/10/05/0759/01629.html

            Il Sinodo e la cultura dello scarto

Resistenza al cambiamento e “cultura dello scarto” nella relazione Erdő. La relazione Erdő che data aveva? Quando è stata scritta? Nel tenore del testo e nei riferimenti interni poteva essere tranquillamente di 30 o 40 anni fa. E i riferimenti alle parole di Papa Francesco apparivano, nel tono stesso con cui venivano pronunciati, del tutto esteriori e “di facciata”.

Ma vi è un punto su cui il testo è rivelatore: quando si attribuisce agli stessi “divorziati risposati” la impossibilità di accedere alla comunione. E’ un sistema perfetto: la Chiesa non può nulla perché sono “loro” a mettersi fuori! Siccome non rinunciano agli atti sessuali nella “nuova unione”, non possono essere riconciliati. La “cultura ecclesiale” diventa “cultura dello scarto”, ma con l’aggravante di spostare sugli scartati la responsabilità. E’ un sistema che si autoimmunizza dal problema e lo scarica sugli altri. Possono dormire sonni tranquilli solo quelli che dormono soli. Non sorprende che il presule magiaro si sia distinto, nonostante il suo titolo di Relatore già del Sinodo straordinario, nel non aver fatto circolare il questionario di consultazione nella sua Arcidiocesi di provenienza! Non aveva bisogno di consultare nessuno. Non aveva bisogno di un rapporto con la realtà. Era tutto chiaro prima ancora di iniziare il “sinodo”. Per questo il suo discorso di apertura è un “non evento”: la Chiesa in uscita non può passare in alcun modo per queste parole.

 Andrea Grillo           in “Come se non” – http://www.cittadellaeditrice.com/munera      5 ottobre 2015

www.cittadellaeditrice.com/munera/il-sinodo-e-la-cultura-dello-scarto

Un Sinodo nel solco del Concilio Vaticano II.

Durante la relazione introduttiva della prima Congregazione Generale, il cardinale Baldisseri sottolinea l’importanza dell’unità dell’assemblea sub Petro e cum Petro in questo momento cruciale per la Chiesa di Roma.

È stata la Gaudium et Spes il punto di partenza del relazione introduttiva del cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei Vescovi, in occasione della prima Congregazione Generale dell’assemblea sinodale ordinaria sul tema La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo. L’attuale Sinodo, infatti, cade proprio nel 50° anniversario della costituzione apostolica conciliare che assimilava “le gioie e le speranze, i dolori e le angosce degli uomini del nostro tempo” con quelle di tutti i discepoli di Cristo. Baldisseri ha anche citato le parole di papa Francesco durante la veglia di preghiera per il Sinodo straordinario dello scorso anno, in cui il Santo Padre sottolineava il “bisogno essenziale di stabilità” anche in un’epoca in cui la “cultura individualista snatura e rende effimeri i legami”.

Salutando i padri sinodali e descrivendo la composizione “ampia e composita” dell’Assemblea, “un affresco mirabile della cattolicità della Chiesa, in cui si riflettono le sensibilità e risuonano le voci di tutti i continenti”, seppure “cum Petro et sub Petro, capo e custode dell’unico Gregge di Cristo”. È stato lo stesso papa Francesco, ha ricordato il cardinale, a richiamare all’unità tutti i pastori del mondo in un paio di occasioni durante la sua recente visita pastorale negli Stati Uniti.

Il Sinodo appena iniziato, ha proseguito il porporato, cade nel 50° anniversario della chiusura del Vaticano II, ma anche nel 50° dell’istituzione dello stesso Sinodo dei Vescovi da parte del beato Paolo VI, affinché anche dopo il Concilio, “continuasse a giungere al Popolo cristiano quella larga abbondanza di benefici” derivata dall’assemblea conciliare. C’è poi l’imminenza del Giubileo Straordinario, che conferirà al Sinodo “una particolare luce e un preciso orientamento”, avendo la “misericordia” come “architrave che sorregge la vita della Chiesa”.

Il cardinale Baldisseri ha quindi ripercorso le principali tappe del cammino sinodale, a partire dalla convocazione dell’assemblea straordinaria da parte di papa Francesco, il 23 agosto 2013, in occasione dell’Udienza Generale. Il successivo 8 ottobre, l’emissione dei Lineamenta ad opera del Consiglio Ordinario della Segreteria del Sinodo. Poi, un anno dopo, finalmente la III Assemblea Generale Straordinaria (5-19 ottobre 2014) sul tema Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione. Procedendo nella ricostruzione della preparazione del Sinodo, il cardinale Segretario Generale, ha anche menzionato l’“ampio numero di pubblicazioni e convegni sul tema della famiglia, affrontato sotto molteplici punti di vista: storico, antropologico, culturale, psicologico, sociologico, biblico, dogmatico, morale, giuridico, politico, economico, solo per menzionare i principali ambiti di riflessione”, tra i quali “quelli del Pontificio Consiglio per la famiglia, come pure quelli di altre istituzioni della Curia Romana e di diverse Conferenze Episcopali”. Fondamentale è stato anche il contributo del Santo Padre in persona che, in particolare nelle “Udienze Generali del mercoledì e in numerose altre occasioni ha autorevolmente accompagnato il cammino comune nel corso di quest’anno”. Commentando la pubblicazione del doppio motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus e Mitis et misericors Iesus, il Segretario Generale del Sinodo ha spiegato che, con questo documento, il Pontefice non favorisce la nullità dei matrimoni ma “la celerità dei processi” e la trattazione delle cause “per via giudiziale, e non amministrativa”, per “la necessità di tutelare in massimo grado la verità del sacro vincolo”. (…)

Luca Marcolivio        zenit.org         5 ottobre 2015

www.zenit.org/it/articles/un-sinodo-nel-solco-del-concilio-vaticano-ii

testo  https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/10/05/0758/01628.html

            Papa Francesco martedì 6 ottobre 2015, prese la parola.              estratto

            Il testo di questo suo intervento fuori programma non è stato reso pubblico, ma solo riassunto oralmente da padre Federico Lombardi e per iscritto da “L’Osservatore Romano”.

            “Il pontefice ha voluto riaffermare che l’attuale sinodo è in continuità con quello celebrato lo scorso anno. Riguardo all”Instrumentum laboris’, Francesco ha sottolineato che esso risulta dalla ‘Relatio synodi’ integrata con i contributi giunti successivamente, che è stato approvato dal consiglio postsinodale – riunitosi alla presenza del pontefice – e che è la base per continuare il dibattito e le discussioni dei prossimi giorni. In questo contesto, importanza essenziale assumono i contributi dei vari gruppi linguistici. Il papa ha anche ricordato che i tre documenti ufficiali del sinodo dello scorso anno sono i suoi due discorsi, iniziale e finale, e la ‘Relatio synodi’. Il pontefice ha sottolineato che la dottrina cattolica sul matrimonio non è stata toccata e ha poi messo in guardia dal dare l’impressione che l’unico problema del sinodo sia quello della comunione ai divorziati, invitando a non ridurre gli orizzonti del sinodo”.

A questo resoconto de “L’Osservatore Romano” padre Lombardi ha aggiunto che “anche le decisioni di metodo sono state condivise e approvate dal papa, e quindi non possono essere rimesse in discussione

            la repubblica 12 ottobre 2015

www.repubblica.it/vaticano/2015/10/12/news/sinodo_cardinali_scrivono_lettera_a_papa_contro_il_metodo_dell_assemblea-124921862

testo              http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/october/documents/papa-francesco_20151005_padri-sinodali.html

E se Gesù entrasse in Sinodo?

Il sinodo sulla famiglia iniziato da una settimana, e per certi versi sembra docilmente intento a eseguire lo spartito confezionato nei mesi di pre-tattica dai “lobbisti delle agende”. Si percepiscono le manovre più o meno dissimulate di chi è entrato in Sinodo con l’intenzione di farne una partita di politica ecclesiastica. Mentre molti appaiono concentrati a posizionarsi rispetto alla griglia dei mantra e dei codici dialettici offerti in dotazione attraverso i media («bisogna coniugare misericordia e verità», «la dottrina non può cambiare», «bisogna curare le ferite», «valorizziamo il ruolo della donna», «comunque gli africani respingeranno la colonizzazione dell’ideologia gender»). Così, nessuno batte ciglio quando nell’aula o nei testi sinodali si scolpiscono affermazioni inesorabili e convinzioni perentorie, che pure appaiono lontane dalla dinamica nuova entrata nel mondo col Vangelo, che la Chiesa suggerisce con la sua predicazione da duemila anni.

Uno di questi assiomi dalla meccanica tipica delle clausole contrattuali si trova ad esempio nella relatio del cardinale Peter Erdo. In quel testo letto in apertura del Sinodo, il porporato ungherese cita il paragrafo 41 dell’Instrumentum laboris sinodale, dove proprio riguardo agli incontri evangelici di Gesù con la samaritana e l’adultera, si dice letteralmente che in quegli episodi Gesù, «con un atteggiamento di amore verso la persona peccatrice, porta al pentimento e alla conversione (va’, e non peccare più), condizione per il perdono». Ora, nel punto in cui pone la conversione come condizione previa del perdono, l’Instrumentum laboris sinodale sembra quasi rovesciare il dinamismo proprio dell’esperienza cristiana, dove è semmai il perdono di Cristo che rende possibile riconoscere davvero e fino in fondo il proprio peccato, sentirne dolore, piangerne e convertirsi. È questo l’evento inaudito di salvezza che San Paolo descrive nella Lettera ai Romani: «Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. (Rm 11, 6-11).

            Anche il Vangelo di Luca, quando racconta l’incontro di Gesù con la peccatrice perdonata e le reazioni dei farisei (Lc 7, 36-52), riporta le parole del Signore, che perdona i peccati di lei non davanti a una dichiarazione di previa conversione, ma per i gesti d’amore che lei ha avuto nei suoi confronti, baciandolo, rigandogli i piedi con le sue lacrime, cospargendolo di olio profumato: «le sono perdonati i suoi molti peccati» dice Gesù a Simone il fariseo «poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». E poi aggiunge, rivolto a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: “Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?”. Ma egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

            La stessa dinamica raccontata da San Paolo e descritta da san Luca si ritrova in incontri e parole che attraversano tutto il Vangelo. È quella dinamica nuova, imparagonabile ai modelli delle dottrine religiose e dei codici morali partoriti dall’umanità nel corso della storia, che la Chiesa racconta agli uomini e alle donne da duemila anni, nel suo camminare nella storia.

            Lo diceva anche l’allora cardinale Joseph Ratzinger, a Giubileo del duemila già iniziato, per spiegare cosa muoveva in quel tempo giubilare la Chiesa a chiedere perdono per le colpe del passato: «È la certezza del perdono che permette la franchezza della confessione. Se non c’è il perdono che cosa rimane? Anche il peccato non ha più una spiegazione e possiamo forse trovare rifugio nella psicoanalisi per ridare pace alla nostra anima abbattuta. Mi sembra invece che solo il perdono, il fatto del perdono, permetta la franchezza di riconoscere il peccato».

            È il perdono assaporato o almeno presentito come promessa nelle nostre vite che fa fiorire anche il dono gratuito del dolore dei peccati e quindi della conversione. Che nell’esperienza cristiana è sempre anch’essa una grazia da accogliere con gioia e gratitudine, e non l’effetto di un proprio sforzo di coerenza con una disciplina, o – peggio – di auto-purificazione, come dovrebbe sperimentare chiunque si avvicina al confessionale. La sorgente della conversione è il gesto gratuito del Signore sulle nostre vite, e non un presunto, ancestrale “senso del peccato” di cui occorrerebbe riattivare a tutti i costi il meccanismo colpevolizzante, nel mondo confuso e spappolato in cui ci troviamo a vivere. Nell’esperienza cristiana, la percezione stessa dei propri peccati si desta davanti all’amore gratuito di Cristo, quando ci accorgiamo di averlo tradito, e non come senso di mancata sintonia rispetto a una qualche concezione antropologica o a un qualche codice morale. Come accadde a Pietro, che pianse lacrime di purificazione solo quando incrociò lo sguardo misericordioso di Gesù, nel cortile della casa del Sommo Sacerdote.

            Anche al sinodo, l’unica chance per relativizzare le operazioni delle conventicole organizzate e la collezione di asserzioni e posizionamenti astratti, è quella di guardare con sguardo cristiano elementare le dinamiche dell’agire morale che configurano la vita familiare. Tale sguardo ha sempre riconosciuto che nella condizione storica concreta, segnata dal peccato originale, tutti gli uomini sono feriti in naturalibus, nelle proprie facoltà naturali. E quindi, alla lunga e nel vissuto concreto, con tutti i suoi condizionamenti, può annebbiarsi – e di fatto si annebbia – anche il riconoscimento di ciò che sarebbe naturalmente evidente.

            Un tale sguardo, realista e pieno di speranza nei doni della grazia, aiuterebbe a affrontare in modo diverso anche la lista delle “questioni calde”, a partire dall’ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati. E sgombrerebbe il campo anche dal simulacro ideologico della “famiglia cattolica perfetta”, compiaciuta della propria robustezza alimentata a dosi di teologia del matrimonio, da spendere sul fronte delle “battaglie culturali” anti-relativiste. Un simulacro evocato anche da chi mostra insofferenza per l’immagine di «Chiesa ospedale da campo» che si china a «curare le ferite», e dice che bisogna pensare ai sani, non soltanto agli ammalati.

Ecco: uno sguardo cristiano alla vocazione e alla missione della famiglia, invece di dividere il mondo in «sani e malati», potrebbe far tesoro dell’esperienza quotidiana per cui noi mortali non siamo capaci mai di manifestare pienamente la fedeltà di Dio, il quale è fedele anche se il popolo è sempre infedele. Uno sguardo cristiano potrebbe far tesoro dell’esperienza di tanti matrimoni “sani” e “riusciti”, dove si tocca ogni giorno con mano che la fedeltà per tutta la vita è di fatto impossibile senza l’aiuto della grazia di Dio. E quando ciò accade, c’è solo da ringraziare il Signore in ginocchio, piangendo di gioia, per un grande dono (per-dono) che non si è meritato.

Gianni Valente           da Il Sismografo, 10 ottobre 2015.

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/e-se-gesu-entrasse-in-sinodo.html

«Omofobia o cibofobia?» Alla fine anche il Papa sorrise.

Si parla anche di accoglienza delle persone omosessuali alla terza Congregazione generale, quella di ieri mattina. Intervengono vari padri sinodali. Poi la parola passa a un vescovo africano che argomenta: «Quando vado in carcere, incontro e abbraccio molte persone, ma non per questo approvo quello che hanno fatto». Lo stesso atteggiamento, sostiene, si può legittimamente adottare nei confronti delle persone omosessuali. Si accolgono le persone, nel pieno rispetto della loro dignità, ma non per questo si dev’essere d’accordo sulle loro scelte sessuali.

            «E dico questo senza paura di essere accusato di omofobia». E qui parte una similitudine curiosa: «Se non mi piace qualche cibo, forse rischio di finire sotto processo per cibofobia? Non lo so, in ogni caso mangio lo stesso». Ilarità generale. Anche il Papa, che segue con attenzione tutti gli interventi, non riesce a trattenere un sorriso. E sarà l’unico della mattinata. Ma bisogna capirlo. Non tutti i vescovi hanno la simpatica capacità di sintesi del presule africano. E non tutti gli interventi si mantengono sul piano della leggerezza. Alcuni, per condannare le nuove tendenze culturali, evocano apertamente il demonio.

            Altri invece – soprattutto i vescovi di Francia, Belgio e Germania – si sforzano di cogliere anche in un contesto sempre più scristianizzato, qualche seme di bene. La loro riflessione segue una traccia comune. Anche se la proposta cristiana del matrimonio è in caduta libera – purtroppo non solo nel Nord Europa – il fatto che ci siano giovani disposti comunque ad impegnarsi in una relazione seria, il fatto che ci si apra alla vita e ci si impegni ad educare i figli, dimostra che esiste un punto importante da cui ripartire.

            Da qui la necessità di valorizzare questi aspetti, perché solo nella vicinanza umana e nella partecipazione sorridente c’è la possibilità di trasmettere valori importanti, anche in contesti culturali ostili. Posizioni da prima linea dell’annuncio, non semplici da armonizzare con chi parte da posizioni di rigorosa adesione alla dottrina. Ma siamo soltanto al secondo giorno. Il dialogo non si ferma.

            Luciano Moia             avvenire         7 ottobre 2015

www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/diario-del-sinodo-2.aspx

La famiglia visita i padri sinodali. Il piccolo Davide al Sinodo sulla Famiglia.

Davide si aggiudica un titolo prestigioso: il più giovane partecipante al Sinodo. Ha 4 mesi e in carrozzina oggi ha assistito assieme ai genitori, uditori del Sinodo sulla Famiglia, avvolto nella sua copertina. I suoi genitori, Massimo e Patrizia Paloni, sono infatti una delle 17 coppie di uditori, chiamati per volontà del Papa a portare la loro testimonianza nel dibattito sulla famiglia ai Padri Sinodali. I due coniugi vengono da Roma (provengono dalla parrocchia San Luigi Gonzaga nella zona dei Parioli) ma dal 2004 sono in missione in Olanda, nella diocesi di Roermond, a Maastricht, con il Cammino Neocatecumenale. Davide è il più piccolo di dodici fratelli, sei maschi e sei femmine; il primogenito della coppia, 19 anni, frequenta l’università, poi a scalare fino ad arrivare a lui. Stamattina i genitori, Patrizia e Massimo, impegnati insieme nella pastorale missionaria della famiglia, hanno varcato l’Aula del Sinodo con la carrozzina.

            Lucandrea Massaro/Aleteia 6 ottobre 2015           

http://it.aleteia.org/2015/10/06/la-famiglia-visita-i-padri-sinodali/?utm_campaign=NL_it&utm_source=topnews_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it-10/07/2015

                        Una proposta pastorale per il sinodo.

            Quando mancano solo poche ore all’inizio del Sinodo della Famiglia, crescono e salgono di tono nella Chiesa le voci allarmate che parlano di “scisma bianco”, “scisma rosso” (Jorge Costadoat). O chi, come è il caso del cardinale Kasper, arriva ad insinuare che stiamo entrando in uno “scisma pratico”, ossia (se ho capito bene) uno scisma che nessuno formula in teoria, ma che nella pratica quotidiana della vita funziona dividendo i cattolici e spaccando la Chiesa.

Per questo, ora più che mai, è il momento di chiedersi: cosa può fare il papa in questa questione, poiché le cose stanno così? Come è logico, si dovrà aspettare e vedere come si svolgerà il Sinodo e soprattutto dovremo sapere quello che, dopo il Sinodo, dice e decide il papa. Ma è proprio per questo, per segnalare quello che, secondo la mia modesta opinione, considero come la cosa più opportuna che il papa potrebbe – e forse dovrebbe – fare nella situazione che stiamo vivendo nella Chiesa in questo momento. Per questo oso presentare la proposta seguente.

Prima di tutto, considero che è fondamentale avere molto chiaro il fatto che sul tema della famiglia non siamo di fronte ad una questione di Fede. Per la semplice ragione che, se pensiamo e parliamo della famiglia a partire dalla Fede dogmatica professata dalla Chiesa, non esiste alcuna definizione dogmatica nel Magistero della Chiesa su questa problematica. E, se qualcuno trova un documento magisteriale definitorio sul modello di famiglia o persino sull’indissolubilità del matrimonio, lo dica.

Inoltre, i testi biblici di Mt 19, 1-9 e di Mc 10, 1-12, ampiamente studiati e discussi dall’esegesi meglio documentata, hanno dimostrato abbondantemente che non si riferiscono alla problematica attuale se il matrimonio sia o no indissolubile. In questi testi, Gesú si oppone al diritto unilaterale che, secondo Dt 24, 1, aveva l’uomo per ripudiare la donna, soprattutto se faceva tale cosa “per qualsiasi motivo” (Mt 19, 3). Questo indica chiaramente che Gesú non si riferisce all’indissolubilità del matrimonio, ma al diritto unilaterale dell’uomo nei confronti della donna che, secondo la legge di Mosé, non aveva questo diritto. Una mancanza di protezione della donna, che si aggravava a causa degli insegnamenti della scuola di rabbi Hillel, che arrivava a permettere il ripudio della sposa “per qualsiasi motivo” (Mt 19, 3).

D’altra parte, il fatto che per secoli si erano conservate tra i cristiani alcune pratiche ed alcune determinate abitudini su questa questione, non è (né può essere) un argomento determinante per obbligare il papa a conservare, in maniera irrevocabile, alcuni determinati usi o pratiche, per quanto queste pratiche e questi costumi si considerino inamovibili. E per quanto rispettabili siano le persone che hanno la pretesa di conservare un determinato modello di famiglia.

Coloro che affermano che la Chiesa non può in nessun caso ammettere il divorzio, dimostrano un’ignoranza incomprensibile, poiché, nel dire questo, ignorano che la Chiesa per secoli ha ammesso il divorzio in determinati casi. Per esempio, nella risposta che il papa Gregorio II, nell’anno 726, inviò al vescovo san Bonifacio (PL 89, 525). Così come nella risposta del papa Innocenzo I a Probo (PL 20, 602-603). Doctrina che fu raccolta nel Decretum Gratiani nel secolo XI (R. Metz – J. Schlick, “Matrimonio y divorcio”, Salamanca 1974, 102-103; M. Sotomayor, “Tradición de la Iglesia con respecto al divorcio. Notas

históricas”: Proyección 28 (1981) 55).

Stando cosí le cose, la cosa più ragionevole che si possa suggerire in questo momento, è che il papa debba sentirsi libero per prendere una decisone pastorale che aiuti la Chiesa intera e nel suo insieme a far maturare la dottrina teologica da seguire. E, soprattutto, la pratica pastorale che si deve adottare, almeno finché le cose non si vedano con più chiarezza e precisione. Detto ciò e ammesso il confronto che di fatto esiste nella Chiesa su questo problema, mi pare che la cosa più ragionevole da suggerire al papa sarebbe – al momento, almeno – lasciare i pastori ed i fedeli nella Chiesa nella libertà di procedere secondo la propria coscienza. In maniera tale che nessuno si senta, né possa sentirsi con il diritto ed il dovere di imporre il proprio punto di vista, in una questione sulla quale non esiste un insegnamento biblico, né una dottrina magisteriale che lo possano imporre a partire dalla Fede. Così come non esiste nella storia della Chiesa un insegnamento o una pratica uniforme, chiara e ferma con riferimento alla difesa dell’indissolubilità del matrimonio, come ora hanno la pretesa di imporre alcuni vescovi ed altre cariche ecclesiastiche.

Siamo, quindi, di fronte ad una questione sulla quale sappiamo che esiste un notevole pluralismo tra i credenti in Gesù Cristo, in maniera tale che, esistendo tale pluralismo, il papa non potrebbe prendere la decisione di pronunciare una definizione dogmatica su di un tema sul quale la “Fede della Chiesa” non è uniforme né ha le condizioni necessarie per il pronunciamento di una definizione dogmatica, come è stato detto nella definizione dell’infallibilità pontificia del concilio Vaticano I (DH 3074) e nella precisazione che su questo punto capitale ha fatto il Vaticano II (LG n. 25).

José M. Castillo “Religion Digital” del 2 ottobre 2015

www.periodistadigital.com/religion/opinion/2015/10/02/una-propuesta-pastoral-para-el-sinodo-religion-iglesia-matrimonio-papa-francisco-castillo.shtml

Traduzione di Lorenzo Tommaselli

http://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/francesco/commenti_1444064963.htm

            Il vero nemico è la dottrina astratta.

“I padri sinodali si vanno lentamente orientando verso l’accoglimento della visione di papa Francesco, ribadita ancora una volta domenica scorsa all’apertura dell’importante assise, di una Chiesa cioè non società-fortezza, che si chiude, ma società-famiglia, che si apre con misericordia alla situazione concreta vissuta dalle famiglie del mondo”. Ce lo hanno confidato , ieri sera, alcuni autorevoli padri sinodali, che erano rimasti molto delusi e preoccupati all’ascolto della relazione introduttiva del cardinale Erdő, che, con un colpo solo, ha contravvenuto non soltanto alle parole introduttive del papa, ma è riuscito nella doppia impresa di “cancellare” sia il sinodo ordinario, che in quel momento iniziava, negando ogni possibilità di aperture o di novità sui temi portanti dell’assise, sia il sinodo straordinario dello scorso ottobre e il lavoro di tutto l’anno intercorso, che sono stati letteralmente spazzati via, misconoscendo quanto era stato affermato nell’Instrumentum laboris, e che cioè i lavori del secondo sinodo partivano da quanto acquisito nel primo: l’atteggiamento di misericordia come valore portante.

            E così, mentre l’Assise del 2014 lasciava aperta la possibilità della comunione ai divorziati-risposati, ora Erdő sprangava la saracinesca del no. In linea con l’intenso lavoro di lobbying portato avanti, nell’intervallo tra i due sinodi, dai tradizionalisti, che sono riusciti ad arruolare tra le loro fila il conservatore cardinale ungherese. Qualche porporato del settore dei resistenti a Francesco, come Pell, si è addirittura spinto a gridare al complotto ordito dalla Segreteria del sinodo, e dunque dal papa (!), per condizionare il dibattito. E’ stato così che Francesco, armato di santa pazienza, è intervenuto in aula ribadendo tre cose ovvie: che la dottrina sul matrimonio non era stata intaccata, che il documento-base del lavori rimaneva l’Instrumentum laboris, e che occorreva respingere l'”ermeneutica complottista” come non degna del sinodo.

Grazie al tempestivo e forte intervento del papa, la discussione ha potuto tornare su binari normali e il clima si è fatto più sereno all’interno dei circoli minori. Dove, ci dicevano diversi padri, il lavoro procede in un’atmosfera più armoniosa e proficua. In alcuni circoli si è raggiunta, ad esempio, l’unanimità nel correggere l’impostazione troppo negativa nei confronti della modernità, mentre si va definendo un atteggiamento più pastorale e di maggiore apertura alla misericordia da parte della maggioranza dei padri, e in particolare tra i vescovi africani. “Se non possiamo attenderci delle novità, non si capisce perché siamo impegnati in questo lungo processo sinodale”, ha fatto notare in conferenza stampa l’arcivescovo Bruno Forte al cardinale tradizionalista Vingt-trois, che negava qualsiasi apertura. E da parte sua, il cardinale Francesco Coccopalmerio ha fatto notare che non c’è opposizione tra dottrina e pastorale. Semmai – ha chiosato – c’è conflitto tra dottrina astratta e pastorale. Certo, il dibatti nei circoli minori riguarda ancora il primo dei tre punti in cui è articolato l’Instrumentum laboris, quello del “vedere” la situazione di vita delle famiglie. Più difficile sarà l’esame del secondo punto, quello del “giudicare”, e più ancora quello dell'”agire”.

            Ma il nuovo clima e l’orientamento pastorale verso un’attitudine ispirata alla misericordia sembrano dati acquisiti che fanno moderatamente ben sperare.

Raffaele Luise                        http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/il-vero-nemico-e-la-dottrina-astratta.html#more

La prima relazione dei 13 Circuli minores.

L’Osservatore romano, nell’edizione datata 11 ottobre 2015, ha presentato una sua traduzione in italiano delle relazioni dei 13 Circuli minores sull’Instrumentum laboris.

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/la-prima-relazione-dei-13-circuli_10.html#more

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

INFORMATIVA IN MATERIA DI PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI

Siamo consapevoli che e-mail indesiderate possono essere oggetto di disturbo, quindi La preghiamo di accettare le nostre più sincere scuse se la presente non dovesse essere di Suo interesse. In conformità con le nuove disposizioni italiane in materia d’invii telematici in vigore dal 1° gennaio 2004 (Testo Unico sulla tutela della privacy emanato con D.Lgs 196/2003 pubblicato sulla G.U. n. 174), con la presente chiediamo l’autorizzazione a spedirLe via posta elettronica ucipem news. La vostra autorizzazione s’intende approvata tramite silenzio assenso, al contrario, se vorrete essere cancellati dal nostro sistema informativo vogliate gentilmente inviarci un messaggio con oggetto cancellazione nominativo.

Il titolare dei trattamenti è l’Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali Onlus (UCIPEM onlus)via Serviliano Lattuada 14, 20135 Milano.

Le comunichiamo che I trattamenti sono effettuati manualmente e/o attraverso strumenti automatizzati e i suoi dati personali sono trattati per le finalità connesse alle attività di comunicazione di newsUCIPEM. Il responsabile dei trattamenti è il dr Giancarlo Marcone. – via Favero 3-10015-Ivrea.

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

Condividi, se ti va!