Paolo VI: ricercatore di bellezza e di verità

 

 

 

 

 

Autrice: Giuseppina Mobrici

 

 

Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini, Paolo VI, era un appassionato amante del creato e dell’arte. Nei suoi scritti riecheggia costantemente il tema della bellezza.

Da giovane seminarista osservando il creato scriveva: «Io me ne sto godendo questi bei giorni di vacanza: incomincio finalmente a gustare la meravigliosa bellezza della natura trovandovi la mano del Creatore: se avessi visto in queste sere che luna! Non mi sarei stancato mai di guardarla: quante bellezze in questo mondo! Chissà nell’altro! Abbiamo tanto bisogno di avere attorno a noi la bellezza, ciò che ci piace, ciò che soddisfa la nostra povera anima, che quando troviamo una briciola di ciò che cerchiamo, non finiamo di contemplarla e di sfruttarla per impossessarci totalmente di lei».

Note giovanili che dalla riflessione personale sfociano al pensiero più maturo del magistero pontificio: “Questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente; un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio, e in gloria: la vita, la vita dell’uomo!.”

La bellezza non riguarda dunque solo un universo estetico, ma ci riporta al misterioso linguaggio di Dio, da sondare, studiare, ammirare e attualizzare di volta in volta attraverso la sapiente e amorevole mano dell’uomo.

La bellezza come l’amore sono bisogni essenziali alla felicità dell’uomo che non vanno deturpati dividendo o creando squilibrio tra carne e spirito. Nell’intimità coniugale, gli sposi associando l’umano e il divino, realizzano un libero e mutuo dono di se stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la loro vita, anzi, diventa più perfetto e cresce proprio mediante il generoso suo esercizio (Gaudium et spes, 49).

Come amante dell’arte Montini, poco più che adolescente, scriveva: <I soli nella cui compagnia mi piacerebbe essere ora sono gli artisti e coloro che hanno sofferto; quelli che sanno ciò che sia la bellezza e quelli che sanno ciò che sia il dolore: tolti questi, nessuno mi interessa>.

Da Papa, l’8 dicembre 1965 in chiusura del Concilio Vaticano II, scriveva un messaggio agli artisti:

 

 

 

Ora a voi tutti, artisti che siete innamorati della bellezza e che per essa lavorato: poeti e uomini di lettere, pittori, scultori, architetti, musicisti, gente di teatro e cineasti… A voi tutti la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!

 

Da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con voi. Voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. L’avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere comprensibile il mondo invisibile.

Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo!

Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani…

2. Ricercatore di verità

Il magistero montiniano in proposito è assai articolato, mai dottrinale e inquisitorio e si muove sempre su due piani: da una parte la ricerca della pertinenza e della solidità della parola che descrive la cosa e dall’altra l’esperienza, in cui si colloca il nocciolo costitutivo dell’umanesimo: la realizzazione piena dell’umano, la ricerca di una vera, unica e possibile felicità.

L’Humanae Vitae è promulgata, dopo quattro anni di ricerche, di studi, di valutazioni, di ascolto di pareri. Alla radice vi è l’esperienza personale, osservata, ammirata, contemplata, dell’amore dei propri genitori, Giorgio e Giuditta, un amore pieno, che quasi diviene il modello di una visione della coniugalità che resterà intatta per tutta la vita, ma non solo, la sensibilità per l’affettività di Montini scaturisce anche dall’esperienza di condivisione umana e spirituale delle inquietudini giovanili di studenti universitari cui fu guida spirituale.

L’Humanae Vitae raccoglie e sintetizza insomma una sensibilità straordinariamente viva e vitale, collocandosi in un momento storico travagliato e in un clima culturale segnato da una profonda tendenza alla destrutturazione di ogni legame umano, alla liquefazione di ogni significato, alla mistificazione della parola stessa, che confonde, giustifica, inganna.

<Questa Enciclica — spiega Paolo VI pochi giorni dopo la pubblicazione — risponde a questioni, a dubbi, a tendenze, su cui la discussione, come tutti sanno, si è fatta in questi ultimi tempi assai ampia e vivace, e su cui la Nostra funzione dottrinale e pastorale è stata fortemente interessata. Il primo sentimento è stato quello di una Nostra gravissima responsabilità. Esso Ci ha introdotto e sostenuto nel vivo della questione durante i quattro anni dovuti allo studio e all’elaborazione di questa Enciclica. Vi confideremo che tale sentimento Ci ha fatto anche non poco soffrire spiritualmente”. Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato.>

Ancora oggi HV rappresenta quasi una pietra di scandalo di difficile e faticosa metabolizzazione teologica, morale pastorale e anche sociale. Ciò dipende dall’approccio di partenza utilizzato per la sua lettura. Spesso le parole utilizzate sono male interpretate, anche in buona fede. L’incipit di Humanae vitae: “Il gravissimo dovere di trasmettere la vita”, è stato contestatissimo perché letto come un’imposizione! Il testo originale dell’enciclica è però in latino e inizia con le parole: “Humanae vitae tradendae munus gravissimum” Una migliore traduzione in italiano del termine latino “munus”, è: “impegno-compito-dono-premio” e del termine “gravissimum”: “serio – di notevole importanza”.

L’incipit dell’Enciclica diventerebbe: “L’importantissimo dono di trasmettere la vita”. Queste parole non sono certamente un’imposizione ma descrivono una prerogativa dell’essere umano

Ma anche la parola “dovere”, letta da una prospettiva diversa assume un significato di libertà e non di imposizione. Un giornalista scrittore dei nostri giorni, Felice Magnani, scrive a proposito del dovere: “è il senso del dovere che dà significato alla nostra libertà… richiede sempre un piccolo sforzo ma, ci mette alla prova, ci pone di fronte a noi stessi, scuote la nostra natura, la sollecita, la fortifica…, fare il proprio dovere è bellissimo fa scoprire la forza e la bellezza che portiamo dentro.”

Leggendo, infatti, HV in chiave moralistica, soffermandosi cioè solo sulla norma, si perde tutto il vero e il bello del messaggio che essa vuol trasmettere.

Nell’Humanae Vitae, bellezza e verità si fondono come colori-prospettive-ombre-luci di un’opera pittorica, e realizzano una grande opera d’arte: l’amore vero, atto cosciente e volontario verso il bene, dove istintività e sensitività diventano volontà.

Come dice Montini «si tratta di una duplice operazione: la scelta e la forza.»

 

 

 

L’amore coniugale diventa grande e bello quando al dono della sessualità, con cui Dio ha dato origine al matrimonio, la donna e l’uomo rispondono con l’impegno alla pienezza del loro amore, alla sua totalità, esclusività, fedeltà e fecondità.

Nella parte seconda di HV, nei punti 8 e 9, l’amore umano e le sue caratteristiche, come descritte da Paolo VI, sono liberanti dalla schiavitù di una sessualità vissuta in maniera distorta come quella che imperava negli anni in cui veniva scritta l’Enciclica e ancora oggi. Le parole «Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore e il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità. Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare quanto questa dottrina sia consentanea alla ragione umana.» (HV 12), mettono in evidenza che Paolo VI, nello scrivere l’Enciclica, abbia voluto anche confrontarsi con le esperienze delle coppie di sposi e di quanto aveva imparato frequentando i giovani. È stata proprio una donna, Maria Colpani Poloni, a suggerire al Papa, con parole molto semplici, l’interpretazione incarnata del significato unitivo e procreativo dell’atto coniugale vissuto nel suo matrimonio. Rispondendo ad una domanda di Paolo VI, disse che aveva sposato il marito non solo per fare l’amore con lui e nemmeno solo per avere dei figli, ma che lo aveva amato per entrambe le cose insieme, semplicemente, e che era stato bello così.

 

 

 

 

 

L’atto coniugale diventa bello, nel senso che permette ai due di trascendere, solo quando si realizza come reciproca donazione personale.

Scrive Paolo VI in HV: «Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite.» (HV 8).

L’esperienza dell’appartenenza, della bellezza e della trascendenza che derivano dall’atto coniugale dei due amanti è presente nella Bibbia ed è stata descritta da anche da molti artisti e poeti. La “sigla musicale” del Cantico dei Cantici è in quella folgorante esclamazione della donna: dodî lî wa’anî lô, «il mio amato è mio e io sono sua» (2, 16). Esclamazione reiterata e variata in 6, 3: ’anî ledodî wedodî lî, «io sono del mio amato e il mio amato è mio». È la formula della pura reciprocità, della mutua appartenenza, della donazione vicendevole e senza riserve.

 

 

 

 

Ed ancora David Maria Turoldo: «Toccheremo le più alte vette della mistica, pur restando sul letto lussureggiante dove si consuma il più intenso degli abbracci. Tutto avverrà con delicatezza, lasciando intatta la carne, profumati i corpi. Si attraverserà il mare della sensualità conservando candida la veste… Ma per questo bisogna avere i sensi lavati e limpida la mente. È allora che potrai entrare in questo santuario, nel vero ‘Santo dei santi’ del mondo».

Anche in ambito laico, il bellissimo testo della canzone di Gino Paoli “Il cielo in una stanza”:

Quando sei qui con me
Questa stanza non ha più pareti
Ma alberi,
Alberi infiniti
Quando sei qui vicino a me
Questo soffitto viola
No, non esiste più.
Io vedo il cielo sopra noi

Che restiamo qui, abbandonati
Come se non ci fosse più
Niente, più niente al mondo.
Suona un’armonica
Mi sembra un organo
Che vibra per te e per me
Su nell’immensità del cielo.
Per te, per me
Nel cielo

 

I francesi usano l’espressione “la petite mort”, la piccola morte, per indicare quel momento particolare del rapporto intimo, che possono apprezzare solo l’amante e l’amato disposti a consegnarsi l’uno all’altro tanto da oltrepassare la dimensione dello spazio e del tempo, un po’ come morire. Un vero e proprio stato di estasi che coinvolge il corpo e la mente e che consente di immergersi pienamente nell’istante presente gustando l’eternità.

Nel campo artistico il gruppo scultoreo “Amore e Psiche” di Antonio Canova, che rappresenta Psiche risvegliata dal bacio di Eros, nell’attimo precedente al bacio per dare rilievo alla dolcezza e bellezza del gesto d’amore.

Se però il rapporto intimo dei coniugi è privato della fecondità, che fa intrinsecamente parte del dono primordiale del Creatore (“siate fecondi”), allora non sarà possibile godere fino in fondo l’esperienza della trascendenza generata dall’atto sessuale. Mi riferisco alla fecondità intrinseca dell’atto d’amore, che deve rimanere sempre aperto alla vita, anche se in quel momento non procreativo per una infertilità naturale, ma mai reso volontariamente infecondo con l’atteggiamento di chiusura alla vita o con l’uso di mezzi contraccettivi.

Benedetto XVI nel suo messaggio al Congresso Internazionale “Humanae Vitae: Attualità e Profezia di un’enciclica” (Roma, 3-4 Ottobre 2008) scrive:

<Se, infatti, ogni forma d’amore tende a diffondere la pienezza di cui vive, l’amore coniugale ha un modo proprio di comunicarsi: generare dei figli. Così esso non solo assomiglia, ma partecipa all’amore di Dio, che vuole comunicarsi chiamando alla vita le persone umane. Escludere a priori questa dimensione comunicativa mediante un’azione che miri ad impedire la procreazione significa negare la verità intima dell’amore sponsale, con cui si comunica il dono divino. Benedetto XVI continua citando Paolo VI: “se non si vuole esporre all’arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato sia rivestito di autorità, è lecito infrangere” (Humanae vitae17). E’ questo il nucleo essenziale dell’insegnamento che il mio venerato predecessore Paolo VI rivolse ai coniugi e che il Servo di Dio Giovanni Paolo II, a sua volta, ha ribadito in molte occasioni, illuminandone il fondamento antropologico e morale.>

I punti 11 e 16 di HV sono stati forse i più criticati da parte degli oppositori dell’Enciclica.

Questi punti, tuttavia, se letti da una diversa prospettiva e meditati, sono liberanti per le coppie che vogliono vivere la bellezza della sessualità come creata e voluta da Dio.

 

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