newsUCIPEM n. 990-26 novembre 2023

newsUCIPEM n. 990-26 novembre 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le news sono strutturate: notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}. Link diretti e link per pdf -download a siti internet, per documentazione.

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono ripresi nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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Chi desidera connettersi invii a newsucipem@gmail.com la richiesta indicando nominativo e-comune d’esercizio d’attività, e-mail, ed eventuale consultorio di appartenenza. [Invio a 1.262 connessi].

Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

O3 CHIESA IN ITALIA                         Abusi clericali: il progetto della Diocesi di Bolzano e il “coraggio di guardare”

05                                                           Bolzano: il referente diocesano per la tutela dei minori accusa la Cei. Intervista

07 CHIESE RIFORMATE                      Periodo sperimentale per liturgie per coppie omosessuali

08 CONF.EPISCOPALE ITALIANA     Seconda “Rilevazione” sugli abusi della CEI: la “via italiana” è un vicolo cieco

11 DALLA NAVATA                             XXXIV Domenica del tempo ordinario – Anno A

11                                                          Il giudizio del Figlio dell’uomo

12 DONNE NELLA (per la ) CHIESA Quel voto che cambia il domani

13                                                          Il maschile nella chiesa

15                                                           Delle inaccettabili motivazioni contro l’ordinazione delle donne nel Medioevo

18 ECCLESIOLOGIA                             Si vede bianco, ma si crede nero: le “analogie imperfette” del ministero ordinato

20 FEMMINICIDIO                              Cinque fatti essenziali da sapere sul femminicidio Credit: UNWOMEN

22                                                           La violenza di genere, tra legami fragili e senso di vulnerabilità. Alzare lo sguardo

23                                                           Il vero problema non è il patriarcato ma il culto della forza di cui siamo schiavi

25                                                           La violenza un’alternativa al lutto: ti uccido perché non accetto di non essere niente senza di te

26                                                          “Noi genitori responsabili. I nostri figli cresciuti senza conoscere il rifiuto”

27                                                           Nn fidarsi dei maschi è ragionare secondo genetica e tornare al nazismo

29                                                           Noi genitori responsabili. I nostri figli cresciuti senza conoscere il rifiuto”

30                                                          “Non è stato raptus. Bisogna cogliere i segnali, non si diventa un “lupo” in una notte

31 RIFLESSIONI                                   Che cos’è l’uomo?

32  SACERDOTI                                    I preti tremamente soli. Dibattito 

34 SINODO                                           Sinodo in Germania. Ora  spunta una lettera  del cardinale Parolin

35 TESTIMONI                                     Il profeta della pace. (Bettazzi)

40                                                          Il teologo che ha umanizzato dio (Castillo)

41                                                          I Concordati. Una ecclesiologia non evangelica (Piana)

44                                                           Un testimone del vangelo per gli uomini di oggi (Piana)

46  VIOLENZA                                      I-dati-sul-femminicidio-nel-mondo.

47                                                          I dati della volenza di genere in Italia

47                                                          Giulia, la sua morte. I grandi problemi

48                                                          Viva il patriarcato

49                                                          Violenza su donne e domestica. Dal Senato via libera definito alla nuova legge

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n. 43, 22 novembre 2023

 § Come e perchè la Costituzione sostiene la famiglia? Continua la serie di pillole video di alcuni degli autori del Cisf Family Report 2023, che illustrano la questione “politiche familiari” da differenti prospettive disciplinari e metodologiche. Questa settimana, la filosofa del diritto Margherita Daverio (Università Lumsa) spiega perché il dettato costituzionale mette al centro la famiglia e quali sono le questioni di equità alla base di una fiscalità più favorevole ai nuclei familiari [su YouTube – 4 min 13 sec]                             www.youtube.com/watch?v=EBFZBWwha88

§ UE, verso un rafforzamento delle norme di tutela dei minori dagli abusi online. La posizione del Parlamento europeo sulla proposta di regolamento recante norme per prevenire e combattere gli abusi sessuali sui minori è stata o adottata dalla commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE). Un rapporto pubblicato lo scorso anno dalla Internet Watch Foundation denuncia che il 62% di tutti i materiali pedofili a livello globale è ricondotto a uno Stato membro dell’UE. Per proteggere meglio i minori, i deputati europei propongono che i servizi rivolti ai bambini richiedano per impostazione predefinita il consenso dell’utente per i messaggi non richiesti, abbiano opzioni di blocco e disattivazione e rafforzino il controllo genitoriale. Soddisfazione per questo passaggio è stata espressa da FAFCE, che sta monitorando l’iter del regolamento.

§ La povertà vista dai bambini. “Children’s perceptions of poverty in 4 EU Member States” è il report Eurochild che ha raccolto le opinioni dei bambini di 4 Paesi EU (Malta, Bulgaria, Croazia ed Estonia) sulla povertà infantile. Le domande erano dirette a chiarire come, ai loro occhi, la povertà influenzi le loro esperienze a casa, a scuola, nella loro comunità e con i loro amici. I paesi esaminati riflettono i livelli di povertà infantile nell’Unione Europea

https://eurochild.org/uploads/2023/10/Poverty-takes-away-the-right-to-childhood.pdf

§ Novità dalle case editrici

  • AA.VV., Ghiacciaio Italia. Emergenza natalità, la nuova questione sociale, Edizioni Lavoro, Roma, 2023, pp. 96.
  • L. De Santis, Nella nuova epoca. Riflessioni post pandemiche su politica, famiglia e Chiesa, Marcianum, Venezia, 2022, pp. 144.
  • Trulli, Diventerò padre. Tracce di riflessione per un’esperienza che cambia il mondo, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2023, pp. 112.
  • E. Ciccarelli, Diventerò madre. Tracce di riflessione per un’esperienza che cambia il mondo, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2023, pp. 112.

Emma Ciccarelli e Pier Marco Trulli, sposati e genitori di quattro figli, pubblicano per San Paolo due agili volumi che escono insieme, con la stessa copertina, la medesima grafica e, quasi, lo stesso titolo: Diventerò madre, Diventerò padre. Un’unica riflessione a due voci sull’esperienza di essere genitori, (…) una donna e un uomo che camminano lungo la via della fede, con la loro ricerca e la loro fragilità: è in questo che trovano la forza potente ed efficace di una testimonianza che attira e affascina i figli. Li forma, li educa e li avvia al mondo e alla Chiesa. (…) (di Riccardo Mensuali)

§ SAVE THE DATE

  • Evento Internazionale (Bruxelles/Web)28 novembre 2023 (10-13). Rom access to quality and affordable housing” evento sulla qualità dell’abitare delle popolazioni Rom in Europa; nell’ambito della conferenza annuale del network ERGO-European Roma Grassroots Organisations [https://ergonetwork.org/wp-content/uploads/2023/11/Agenda-and-Concept-Note-ERGO-Network-Annual-Policy-Conference-2023.pdf]
  • Convegno (MI) 28 novembre 2023 (18-19.30). Testori, la parola e Milano” convegno a partire da due conferenze inedite dello scrittore, tenute all’Ambrosianeum e ora pubblicate nel libro “Giovani affamati di Cristo”. Presso la Fondazione Ambrosianeum, Sala Falck [qui il programma]
  • Convegno (BS)30 novembre 2023 (13.30-16.30). “L’esperienza dell’Hospice tra dolore e sofferenza” convegno promosso dal Centro di Ateneo di Bioetica e Scienze della Vita e Centro di ricerca sulla filosofia della persona Adriano Bausola-Univ.Cattolica, sede di Brescia.
https://centridiateneo.unicatt.it/bioetica-l-esperienza-dell-hospice-tra-dolore-e-sofferenza
  • Presentazione (Web)4 dicembre 2023 (inizio ore 14.30).Agire insieme. Coprogettazione e coprogrammazione per cambiare il welfare”, il Sesto Rapporto sul secondo welfare, presentato in diretta streaming nazionale [qui per iscrizioni]
  • Evento (Parigi) 9 dicembre 2023 (14-19). “Salon du livre et de la famille” ottava edizione di un evento che anima la città, organizzato da AFC-Associations Familiales Catholiques [qui per info]
https://a4e9e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fgg=wsswt/e-ge=s/fh0=oy_49a1:a=.-4&x=pv&65kac&x=pp&qzb9g6.b9g9h/:i4-7d=vu3tNCLM

Iscrizione    http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio    http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.asp

https://a4e9e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fgg=wsswt/e-ge=s/fh0=oy_49a1:a=.-4&x=pv&65kac&x=pp&qzb9g6.b9g9h/:i4-7d=vu3tNCLM

CHIESA IN ITALIA

Abusi clericali: il progetto della Diocesi di Bolzano e il “coraggio di guardare”

Ha un sapore completamente diverso dalla politica miope della Cei sugli abusi clericali e guarda alla Chiesa tedesca il progetto triennale della diocesi di Bolzano “Il coraggio di guardare” per elaborare e prevenire abusi e altre forme di violenza, presentato il 17 novembre a Bolzano all’interno del convegno annuale della Chiesa altoatesina, anche per il coinvolgimento della componente civile della società: 80 i partecipanti al convegno, tra i quali membri di organizzazioni ecclesiali e non, ma anche rappresentanti delle istituzioni, di magistratura e forze dell’ordine, a sottolineare che gli abusi rappresentano un problema sociale nel senso più ampio e richiede la partecipazione di tutte le parti sociali.

                Il progetto, finanziato interamente dalla diocesi, è innovativo: “Il concetto va oltre gli approcci e le forme precedenti di rilevazione della realtà degli abusi in ambito ecclesiale“, si legge sul sito. Oltre ai criteri socio-storici, quelli del diritto canonico e del diritto civile “necessari per l’indagine e l’elaborazione e orientati verso le vittime e gli abusatori”, il progetto percorre “una nuova via”, con l’intenzione di avviare, “attraverso una visione per il futuro, un completo processo di trasformazione organizzativa”. Dunque coinvolgimento in contemporanea di esperti interni (per promuovere “l’accettazione interna e includere le competenze interne”) ed esterni (che “devono garantire un’attuazione trasparente e scientificamente responsabile del progetto”).

                Inoltre, un comitato consultivo esterno al progetto ha l’obiettivo di fornire “dal di fuori una visione competente e critica, indipendente dalla Chiesa, sull’attuazione del progetto“.

                Due le coordinate da cui il progetto prende le mosse: l’ascolto delle persone che hanno subìto abusi e altre forme di violenza, e il lavoro di indagine indipendente con due studi legali.

                Per affrontare gli abusi, il percorso – portato avanti in collaborazione con l’Istituto di Antropologia della Pontificia Università Gregoriana (IADC), presieduto da p. Hans Zollner *1966 

 che ha dato vita all’idea del progetto in occasione di un incontro informativo nel marzo 2022 a Bolzano – si basa su tre fasi: chiarire, elaborare, prevenire.

                “Con questo convegno la nostra diocesi lancia un chiaro segnale”, ha esordito il vescovo di Bolzano mons. Ivo Muser, *1962    secondo quanto si legge sul sito della diocesi. Muser, con il vicario generale Eugen Runggaldier, Peter Beer, collaboratore dell’IADC e don Gottfried Ugolini (nominato a capo del gruppo direttivo incaricato del lavoro preparatorio) ha concordato obiettivi e punti principali del concetto da sviluppare nel corso del 2022. “Affrontare i casi di abuso è uno dei compiti prioritari e pastorali della Chiesa“, ha sottolineato. “Come diocesi, continuiamo a sforzarci di assolvere questo compito con grande responsabilità”. Muser ha parlato di un “cambiamento di mentalità di tipo culturale e strutturale. Ciò che è richiesto e incoraggiato è un atteggiamento cristiano consapevole e interiorizzato, che garantisca che la Chiesa sia in tutti i suoi ambiti un luogo sicuro per i minori e le persone vulnerabili”. Per questo occorre coinvolgere “il maggior numero possibile di persone”, anche se il vescovo è consapevole delle “incertezze, preoccupazioni e riserve” che il progetto ovviamente incontrerà. “Queste, insieme all’invito a guardare con coraggio e ad imparare dagli errori commessi, devono essere prese in seria considerazione”.

                Cosa si intende per “elaborazione” dei casi? Il progetto parte dall’esigenza che la diocesi sia un luogo sicuro per i minori e le persone bisognose di tutela: “L’ascolto dalla prospettiva delle persone coinvolte, l’indipendenza delle indagini, un approccio trasparente, la considerazione delle particolarità linguistiche e culturali del nostro territorio“, ha spiegato don Gottfried Ugolini, . Un approccio ben diverso da quello della Cei, che rifiuta una inchiesta indipendente (la rilevazione annuale sull’attività dei Servizi diocesani in materia è affidata all’Università Cattolica di Piacenza). E infatti don Ugolini ha rilasciato ad Adista un’intervista molto critica sulle scelte e il percorso che la Cei sta compiendo sul versante degli abusi.

                Il convegno ha preso le mosse dalla testimonianza di tre vittime di abusi: Richard Kick, oggi presidente del Comitato consultivo delle vittime dell’arcidiocesi di Monaco, che ha sottolineato l’importanza di ascoltare i sopravvissuti, coinvolgendoli come esperti nel processo di elaborazione; Roland Angerer di Stilves, che fa parte del gruppo direttivo insediato dal vescovo per accompagnare il progetto e che ha rimarcato la necessità di che i sopravvissuti siano considerati nel loro essere persone, e che ha chiesto alla diocesi di adottare un approccio ai casi “coraggioso e coerente”, senza avere paura dei “venti contrari”; Anna, che ha chiesto alla Chiesa un cambiamento nel modo in cui la Chiesa si pone in relazione con le persone ferite.

La Chiesa altoatesina non teme di guardarsi dentro e ha affidato la guida della prima fase del progetto, ossia l’esame degli archivi diocesani, al rinomato studio legale Westpfahl-Spilker-Wastl di Monaco di Baviera in collaborazione con lo studio legale Kofler-Baumgartner-Kirchler & Partner di Brunico. Il primo è lo studio che ha effettuato l’inchiesta indipendente sugli abusi nell’arcidiocesi di Monaco; il rapporto, con le sue 1.900 pagine, frutto del lavoro di due anni, nel gennaio 2022 sconvolse non solo la Chiesa locale ma arrivò fino a coinvolgere Joseph Ratzinger per questioni di gestione dei casi all’epoca in cui era arcivescovo della città; descrisse un abisso di clericalismo, protezione istituzionale e fallimento della leadership.

                Sulla base dell’inchiesta sugli archivi diocesani, in seguito, verranno raccolte informazioni sui casi di abuso attestati, attraverso questionari e interviste ai testimoni dei fatti. I risultati verranno resi pubblici e costituiranno la base per il lavoro di elaborazione e prevenzione.

Ludovica Eugenio Adista              19 novembre 2023

www.adista.it/articolo/70963

Bolzano: il referente diocesano per la tutela dei minori accusa la Cei. Intervista

                 La Cei, in fatto di abusi, dovrebbe passare dalle parole ai fatti. Al centro delle iniziative della Chiesa italiana, infatti, non c’è quasi mai la persona, la vittima, e questo resta uno dei problemi più seri ancora non affrontato. Ancora: è grave che la Cei non abbia prodotto una propria indagine autonoma su quanto avvenuto in passato, sul modello francese e spagnolo. In effetti in Italia ci sono forti resistenze, soprattutto a livello di vescovi, a farsi carico della piaga degli abusi sessuali. È quanto spiega don Gottfried Ugolini *1958 

 responsabile del “Servizio per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili” della diocesi di Bolzano, una delle poche in Italia ad aver preso sul serio lo scandalo pedofilia che ha travolto la Chiesa negli ultimi decenni. Ugolini, che è anche psicologo, fa parte pure del consiglio di presidenza del Servizio nazionale per la tutela dei minori, organismo della Cei, presieduto dall’arcivescovo di Ravenna Lorenzo Ghizzoni *1955 

che dovrebbe coordinare tutti i servizi diocesani impegnati su fronte degli abusi sessuali.

                Tuttavia, gli incontri del Consiglio di presidenza sono abbastanza rari, tanto che lo stesso Ugolini, quando gli chiediamo quali sono le iniziative messe in campo dai vescovi, spiega: «Non mi è facile rispondere, perché il Servizio nazionale è un bel po’ che non si riunisce; guardi, la mia impressione è questa: che a livello nazionale al di là delle parole si muove poco». Tuttavia, aggiunge, «ho l’impressione che, almeno per quello che ho potuto osservare e constatare io, a livello di base, soprattutto anche grazie all’impegno, al sostegno e alle competenze dei laici si stanno avviando dei programmi di informazione, di sensibilizzazione di formazione in diverse realtà pastorali». In questi casi, prosegue il sacerdote, «almeno riscontro un’apertura, un impegno, soprattutto per quanto riguarda l’ambito formativo sia di collaboratrici, collaboratori pastorali, sia rispetto a seminaristi, a sacerdoti, e a coloro che hanno incarichi di responsabilità». Invece «per quanto riguarda gli istituti religiosi la mia impressione è che quelli che hanno una dimensione internazionale sono più avanti, nel senso che già si sono confrontati, hanno delle linee guida, si sono attivati». Allo stesso tempo «purtroppo, faccio continuamente esperienza di istituti religiosi che non hanno delle linee guida o non sanno come comportarsi con le persone che hanno subìto l’una o l’altra forma di abuso». Insomma «C’è da fare, c’è da fare. Ancora penso che su un’ipotetica scala da 0 a 10, siamo tra l’uno e il due».

                C’è qualche realtà ecclesiale maggiormente impegnata nella formazione e nel contrasto agli abusi sessuali?

Allora, qui nel Triveneto si sono mosse più o meno tutte, anche con una buona partecipazione, almeno per quello che posso osservare io, ai nostri incontri che sono organizzati a livello regionale. Poi ho l’impressione che nel Piemonte si lavori tanto. Qualcosa si muove anche a Napoli, a Chieti e nel meridione. Però è interessante che ogni tanto noi, come centro di ascolto della nostra diocesi, riceviamo l’una o l’altra richiesta da persone che hanno subito degli abusi o avanzano una richiesta di informazioni per sapere anche a chi rivolgersi ecc. Per cui mi sembra che, soprattutto in merito ai centri di ascolto, il farsi carico delle persone che hanno subito abusi nella Chiesa non sia ancora una pratica diffusa, e credo che l’attenzione sia ancora troppo poca. Anche la tematica del convegno nazionale, non mette al centro la persona o le persone vittime sopravvissute agli abusi (il primo incontro nazionale dei referenti dei servizi di tutela dei minori, tenutosi a Roma il 17 e 18 novembre scorso, aveva come titolo: “Dare testimonianza alla luce”, ndr).

Non c’è un eccesso di burocratizzazione di questa vicenda da parte della Cei?

Non so cosa lei intende con burocratizzazione, io direi questo: è vero che sono stati istituiti, almeno in gran parte del Paese, i servizi diocesani regionali, interregionali e i centri di ascolto e, per carità, è già un buon segnale. Tuttavia ho l’impressione che abbiamo troppe parole e troppi pochi fatti, mancano le concretizzazioni, cioè non c’è ancora la mentalità, la cultura per affrontare questa piaga. Penso che questo sia vero soprattutto a livello di responsabili, c’è un deficit di coraggio, di grinta e di responsabilità.

                La Chiesa italiana non ha fatto nessuna apertura all’ipotesi di una ricerca indipendente sul fenomeno degli abusi negli ultimi decenni, sul modello francese o spagnolo

Sì, purtroppo c’è molto molta resistenza rispetto a questo, cioè riguardo a un uno studio, una ricerca accurata, da parte della Chiesa. Era stato anche proposto che l’indagine riguardasse il fenomeno pedofilia in Italia, compresa la Chiesa quindi, ma analizzando la quesitone nel suo insieme, una ricerca da realizzare insieme alle istituzioni pubbliche. Una bella idea, però difficile da mettere in pratica. Per cui penso che come Chiesa abbiamo il dovere sacrosanto di creare un’atmosfera tale che le persone che hanno subìto degli abusi trovino il coraggio e si sentano protette, cioè sostenute nel rivelare quello che gli è successo. In un secondo momento sarà necessario avviare un cambiamento strutturale e anche ideologico perché abbiamo anche delle posizioni teologiche che purtroppo possono favorire l’abuso; purtroppo, invece, ho l’impressione che non si voglia fare un’operazione verità su quello che è successo. Ovviamente la Chiesa italiana è una Chiesa particolare, la Cei ha 220 diocesi e più o meno 400 vescovi. Se prendiamo la statistica mondiale relativa agli abusi sui minori, ci dice che per quanto riguarda i maschi abbiamo una percentuale tra l’8 e il 10% di persone che sono state abusate; vuol dire che anche tra i vescovi abbiamo un bel numero di persone che sono state abusate e probabilmente abbiamo anche l’uno e l’altro aspetto, cioè anche la persona che ha abusato.

                Lei dice che c’è anche tanta paura da parte dell’episcopato…

                Abbiamo bisogno di una posizione molto più chiara dei vescovi e della Cei al riguardo e che non sia soltanto una dichiarazione verbale, penso cioè che i vescovi dovrebbero riunirsi in gruppo per almeno una settimana per confrontarsi con queste realtà sia dal punto di vista delle proprie “risonanze” a livello personale e anche per quanto riguarda l’incarico che ricopre e la responsabilità che comporta; poi sono importanti la dimensione pastorale e spirituale e quindi anche quella del diritto canonico.

Che tipo di cammino si può intraprendere per uscire da una simile situazione?

È necessario smuovere le acque in primo luogo per fare chiarezza, e poi anche per poter dare un sostegno alle persone che hanno subìto abusi. È questo del resto l’esempio che ci viene da Gesù, ovvero porre la nostra attenzione a coloro che sono stati feriti e maltrattati, per cui non dobbiamo inventarci niente di nuovo. Noi, come diocesi, proprio questo venerdì (il 17 novembre, ndr), abbiamo un nostro convegno dal titolo: “Il coraggio di guardare”, che è anche il titolo del progetto triennale avviato dalla diocesi facendo un percorso di trasformazione, guardando con coraggio al passato per rivelare quello che è successo, certo, per capire come mai è accaduto e come si è reagito e che cosa dobbiamo imparare dagli errori fatti. Significa guardare con coraggio al presente per vedere chi soffre, chi ha bisogno di aiuto e che cosa possiamo fare per chi ha subito abusi e anche per le comunità coinvolte, e pure, infine, per coloro che hanno abusato. Possiamo avviare già dei cambiamenti e poi guardare con coraggio al futuro, per elaborare e implementare dei programmi di prevenzione e dei progetti di protezione per i minori e per le persone vulnerabili, dobbiamo cioè essere guidati da una visione.

Francesco Peloso  Adista Notizie n° 40 del 25 novembre 2023

www.adista.it/articolo/70954

CHIESE RIFORMATE

Periodo sperimentale per liturgie per coppie omosessuali

Mercoledì 15 novembre in tutte e tre le Camere (vescovi, clero e laici) del Sinodo generale della Chiesa d’Inghilterra, riunito alla Church House a Londra nei giorni scorsi, è stata approvata la mozione finale in cui si afferma che il Sinodo «riconosce i progressi compiuti dalla Camera dei Vescovi nell’attuazione della mozione su Vivere nell’amore e nella fede (LLF) nel febbraio 2023… e incoraggia la Camera a proseguire il suo lavoro di attuazione».

Dunque, la Chiesa anglicana ha dato il via libera a liturgie che assomigliano alle nozze gay, che rimangono su base volontaria: nessun pastore anglicano è obbligato a celebrarle.

L’iter per introdurre queste “Preghiere di amore e di fede” per celebrare l’unione di coppie omosessuali stabili, già unite civilmente dalla legge britannica, approvate dalla Chiesa di Stato inglese lo scorso febbraio, rimane lungo, fino al 2025. È complesso, perché richiede consultazioni con ogni diocesi e la maggioranza di due terzi in ognuna delle tre camere del Sinodo che, in questo momento, non esiste. Nel frattempo però è stata introdotta una “scorciatoia” attraverso un emendamento – proposto dal vescovo di Oxford, Steven Croft – che propone un periodo sperimentale così che le nuove celebrazioni potranno partire già tra qualche settimana.

L’emendamento di Croft ha ottenuto una maggioranza risicata nelle tre Camere che compongono il Sinodo (100 pastori contro 93; 104 laici contro 100 e 23 vescovi contro 10) e la Chiesa ha rischiato di dividersi. Proprio com’era successo lo scorso febbraio, quando il Sinodo aveva dato il via libera alle nuove liturgie, sempre con una maggioranza limitata, di 250 voti a favore e 181 contrari, e le camere di laici e pastori divise quasi a metà.

Entrambe le parti contrapposte durante il dibattito di mercoledì, che è durato ben nove ore, hanno lamentato scontento: i favorevoli all’introduzione delle “Preghiere di amore e fede” lamentano che le proposte equivalgono a “briciole” e sostengono che i vescovi abbiano ceduto alle pressioni dei conservatori; i rappresentanti dei gruppi “Anglican Orthodox” e “Global South Fellowship of Anglican Churches” hanno invece criticato i vescovi per l’opacità delle loro decisioni ribadendo il loro deciso no alle unioni omosessuali alla luce di un approccio “letterale” alla Bibbia.

Il dottor Croft, intanto, in un’intervista al “Church Times” ha detto di essere “sollevato” dal fatto che il suo emendamento, e la mozione nel suo insieme, siano stati approvati, e che la Chiesa sia «ancora sulla buona strada affinché ci siano cambiamenti significativi in termini di inclusione radicale».

Il vescovo di Londra, Sarah Mullally, che ha guidato per sei anni il processo di consultazione su identità e sessualità chiamato Living in love and faith (Vivere nell’amore e nella fede), che ha coinvolto migliaia di fedeli anglicani e ha cercato di aprire uno spazio di dialogo e dibattito che consenta alla Chiesa di Stato inglese di rimanere unita, pur nelle profonde divisioni che l’argomento “unioni omosessuali” scatena, in conclusione dei lavori del Sinodo ha dichiarato: «La verità è, come abbiamo visto ancora una volta oggi, che la Chiesa di Inghilterra non ha un’opinione unica su questioni di sessualità e matrimonio e dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per trovare uno spazio dove possiamo vivere con le nostre differenze perché siamo convinti che è quello che Dio ci chiede di fare».

La mozione approvata così recita: «Questo Sinodo, consapevole che la Chiesa non è unanime sulle questioni sollevate da Vivere nell’Amore e nella Fede, che ci troviamo in un periodo di incertezza e che molti nella Chiesa da tutte le parti sono profondamente feriti in questo momento, riconosce i progressi compiuti dalla Camera dei Vescovi verso l’attuazione della mozione approvata da questo Sinodo nel febbraio 2023, e incoraggia la Camera a continuare il suo lavoro di attuazione e chiede alla Camera di considerare che alcuni culti autonomi per le coppie dello stesso sesso possano essere resi disponibili per l’uso, eventualmente in via sperimentale, nei tempi previsti dalla mozione approvata dal Sinodo nel febbraio 2023».

Redazione  “Riforma –settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi– 24 novembre 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202311/231121redazioneriforma.pdf

CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Seconda “Rilevazione” sugli abusi della CEI: la “via italiana” è un vicolo cieco

Che la “via italiana” di contrasto agli abusi disegnata dalla Cei del card. Matteo Zuppi faccia acqua da tutte le parti è apparso chiaro durante la conferenza stampa di chiusura dell’Assemblea straordinaria della Cei, il 16 novembre ad Assisi. Delle 5 linee che erano state illustrate nel 2022, ben poco è stato realizzato, e quanto lo è stato si è dimostrato – al netto della retorica istituzionale – evidentemente poco efficace. Oltre al fatto che appare sempre molto carente la comunicazione con i media: il testo integrale della “Seconda rilevazione” (guai a chiamarlo “Report”) della Cei sulla rete territoriale per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili è stato consegnato ai giornalisti soltanto a fine conferenza stampa. Una decisione non casuale, dal momento che la sintesi distribuita qualche minuto prima che l’evento prendesse l’avvio è, nella sua semplificazione, chiaramente orientata a fornire un quadro molto più roseo di quello che il documento riflette: a leggere bene i dati, incrociandoli tra loro e con quelli del Report dello scorso anno e a fare le domande giuste, appare chiaro che molte cose non funzionano nella “via italiana” di contrasto agli abusi. Ma andiamo con ordine.

                Metodi e obiettivi. La Rilevazione intende aggiornare i dati relativi ai Servizi diocesani /interdiocesani/regionali per la tutela dei minori e ai Centri d’ascolto. Lo fa elaborando gli esiti di un questionario online somministrato ai referenti diocesani di tali servizi e ai referenti delle Regioni ecclesiastiche, riferito alla natura delle strutture attivate e alle attività in essere. I dati sono stati elaborati, come già lo scorso anno, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore – sede di Piacenza.

La presenza sul territorio. Se i servizi sono presenti in tutte le diocesi, i dati ricevuti sono relativi a 186 risposte corrispondenti a 190 diocesi (al netto di quelle accorpate). Qui il dato è positivo: la copertura è aumentata, passando dal 73% dello scorso anno (con oltre ¼ delle diocesi “latitanti”) al 92,2%: è cresciuta la partecipazione soprattutto delle diocesi del Sud. Il numero dei Centri d’ascolto è cresciuto ma non troppo, passando dai 90 del 2021 agli attuali 108; diversi coprono più diocesi raggruppate. Molta attenzione e spazio sono dedicati alla definizione delle figure dei referenti (ancora per lo più sacerdoti) e alla struttura del Servizio, che rivela una massiccia partecipazione dei laici (soprattutto nelle équipe di esperti di supporto – 70,4%), dove la componente femminile è superiore a quella maschile) quanto alle attività svolte dal Servizio diocesano, sono molto cresciute le occasioni di formazione (quasi 90% del totale, con 23mila partecipanti nel 2022, raddoppiati rispetto al 2021). Molto carente appare la collaborazione con le congregazioni religiose (attive solo nel 3,8%, in diminuzione addirittura rispetto al 2021), con organizzazioni non ecclesiali (16,7%) e con tavoli istituzionali civili (14%). In calo le attività di formazione per i membri del Servizio diocesano (dal 58,8% delle diocesi nel 2021 al 47,3% attuale).

Tra le iniziative, sono in aumento quelle relative a abusi e maltrattamenti, ad abusi di coscienza e psicologici, stalking, abusi e pedopornografia online; in calo quelle inerenti a normative canoniche e civilistiche e all’ascolto delle vittime.

“Punti di forza e debolezza”: le diocesi si bocciano da sole. Chiamate a fare un’autovalutazione sui servizi svolti con un voto da 1 a 10, sono le stesse diocesi a dare complessivamente voti molto bassi: su 18 voci, la metà risulta insufficiente, nella maggioranza dei casi peggiorata rispetto all’anno passato, soprattutto per ciò che riguarda le attività di formazione, le relazioni con il seminario, con le parrocchie, con le associazioni e movimenti ecclesiali e non, con le congregazioni religiose, con gli enti locali. La voce con il voto più alto (un mediocre 6,6) riguarda la sensibilità da parte di educatori e catechisti.

Ancora più severo il giudizio dei Servizi regionali: su 14 voci, soltanto una risulta avere la sufficienza (le relazioni con i referenti diocesani si prendono un 6,7); erano quattro l’anno precedente. Ad avere i voti più bassi sono le relazioni con altre istituzioni, ecclesiali e non, ma persino le attività di formazione – fiore all’occhiello della Cei – si prendono un 5,1.

                Centri di ascolto. Presenti ancora solo nel 77,7% delle diocesi (160 su 206), a guida per lo più laica (76%) con competenze soprattutto di carattere psicologico (28,3%), nell’80% supportati da un’équipe di esperti, vedono un calo nella presenza di giuristi e canonisti. Ma che cosa fanno di preciso i centri d’ascolto? Qui c’è la prima grande mistificazione veicolata: viene esaltato dalla Cei il balzo in avanti, nel 2022, dei contatti ricevuti (86 nel periodo 2020-2021, 374 nel 2022), fino ad affermare in conferenza stampa, che «dove non arriva lo Stato c’è la Chiesa», come ha detto enfaticamente la coordinatrice del Servizio nazionale tutela minori Emanuela Vinai,

 [giornalista, laureata in legge] Occorre affiancare due dati: a livello nazionale, quasi due terzi delle diocesi ha avuto in media zero contatti (con il picco dell’85,7% delle diocesi del sud); è la stessa Rilevazione ad ammettere che «l’incremento così importante nel numero di contatti è da ricondurre a due sole diocesi, una in Sicilia e una in Sardegna». Di cosa stiamo parlando, allora?

Per la Cei, il dato potrebbe addirittura essere positivo, indicando «nessuna necessità di rivolgersi al Centro d’Ascolto», mentre l’ipotesi che sia riferibile a una carenza della struttura o alla reticenza delle persone a rivolgersi ad essa è considerata poco attendibile. Sta di fatto che dei 374 contatti, quelli riferibili a “vittime presunte” sono solo 46. Inoltre, ed è il secondo dato da tenere presente, tali contatti (per l’85% telefonici) hanno cambiato radicalmente motivazione, rispetto allo scorso anno: se nel 2021 riguardavano nel 53,1% una denuncia all’autorità ecclesiastica, ora questa percentuale è scesa al 18,1%, mentre è aumentata la richiesta generica di informazioni (81,9%). Perché? Ancora la Cei: forse è diminuito il fenomeno degli abusi.

                I casi segnalati. Sta di fatto – ed è il dato forse più eclatante della Rilevazione, preso a sé – che il dispiegamento di forze della Cei sul territorio non produce l’effetto sperato di raccogliere segnalazioni: se nel biennio 2020-2021 (peraltro condizionato dalla pandemia) le presunte vittime erano 89 e 68 gli abusatori, nel 2022 sono registrate 54 vittime e 32 abusatori. Anche dimezzando i valori registrati nei due anni di pandemia, l’aumento non si vede: anzi, il numero di casi del 2022 è inferiore alla metà rispetto alla rilevazione precedente. Di questi 32 casi, ben 14 sono riferiti al 2022; gli altri sono raggruppati nella generica categoria «passato» («per noi non esiste prescrizione», ha pontificato il presidente Cei card. Matteo Zuppi in conferenza stampa, omettendo di precisare che, quando i casi di abuso sessuale atterrano al Dicastero per la Dottrina della Fede, la prescrizione di 20 anni c’è eccome; dunque, la mancanza di prescrizione della Chiesa sembra giocarsi su un piano morale e non giudiziario). «La Chiesa ascolta, accoglie, accompagna», gli ha fatto eco Vinai. Ma non risarcisce: nessun cenno infatti è stato fatto in tal senso dopo che nel maggio 2022 l’argomento era stato rapidamente cestinato da Zuppi.

                A parte il fatto che nel report, erroneamente, si fa un pasticcio, mettendo a confronto i dati delle vittime dello scorso biennio con quello degli abusatori del 2022 (p. 59; e non è l’unico strafalcione), appare immediatamente chiaro che le denunce sono in netta diminuzione. Un dato che il report recepisce, compensandolo con il numero (aleatorio, come abbiamo visto) di contatti, e che Vinai in conferenza stampa ha attribuito «ai diversi tempi di maturazione» dell’abuso.

                Le vittime. Le segnalazioni arrivano da 54 persone e si riferiscono soprattutto a «comportamenti e linguaggi inappropriati», toccamenti, molestie sessuali; in crescita gli abusi spirituali, di coscienza, psicologici, le violenze psichiche, lo stalking; il contesto più comune è la parrocchia; 25 avevano tra i 15-18 anni all’epoca dei fatti; un terzo era maggiorenne, 4 avevano tra i 5-9 anni e 4 tra 10-14; due sono bambini molto piccoli, tra 0 e 4 anni (categoria assente nel primo report). Questo nella Rilevazione. Nella sintesi offerta ai giornalisti (e in conferenza stampa), invece, nessuna traccia della fascia 0-14 (che insieme somma 10 delle 54 vittime), che configura la vera pedofilia. 44 su 54 vittime sono di sesso femminile, ma manca nella rilevazione un dato interessante, cioè – come è probabile che sia, come generalmente attestato da studi – se i maschi siano le vittime più piccole. Quanto alle azioni di accompagnamento offerte alle vittime, oltre a quello psicoterapeutico (10 casi su 54), solo in nove casi è stata offerta una informazione sull’iter della pratica. Gli autori L’età media del presunto autore (che in 31 casi su 32 è maschio) è di 43 anni; l’età è più alta al Nord (52) e più bassa al sud (38). Solo in 12 casi i Centri d’ascolto conoscono i passi canonici successivi, tra indagine previa (5 casi), archiviazione per vari motivi (3), provvedimenti sanzionatori (2) e solo in due casi il fascicolo è stato inviato al Dicastero per la Dottrina della Fede. Solo in 6 casi è nota la denuncia in sede civile.

Oltre la Rilevazione: e le altre “strategie”? Un’altra linea di contrasto annunciata era la collaborazione tra CEI e Dicastero per la Dottrina della Fede rispetto ai 613 fascicoli depositati presso quest’ultimo: una indagine la cui elaborazione la Cei avrebbe affidato a due enti indipendenti, l’Istituto degli Innocenti di Firenze e il Centro interdisciplinare sulla vittimologia e sulla sicurezza dell’Università di Bologna. Il condizionale è d’obbligo perché la ricerca, sbandierata dal segretario della Cei mons. Giuseppe Baturi, un anno fa, come “la prima ricerca in programma”, voluta per testare la capacità della Chiesa di far emergere i dati, la cui definizione era imminente, in realtà non è nemmeno partita. «Cei e Dicastero sono in dialogo costante e continuo», è il mantra ripetuto in modo identico dai rappresentanti Cei presenti alla conferenza stampa di Assisi, ma, come ci ha confermato Vinai, un’intesa formale non è ancora stata siglata. E i due istituti scientifici, nel frattempo, possono solo mettere a punto questioni metodologiche: starebbero, viene detto ai giornalisti, «definendo le griglie di lettura». Questa collaborazione con il DDF è cosa ben diversa da quella già siglata con la Pontificia Commissione per la tutela dei minori, che pure fa parte del DDF (la cosiddetta “sesta linea”, messa a punto in tempi recenti).

Lo scorso maggio, poi, la Cei ha dato vita a un Osservatorio di vittime che, a vario titolo «accompagneranno il lavoro del Servizio nazionale per la Tutela dei minori». Si è fatto notare a Vinai che in tale contesto non era stata né informata né consultata, tantomeno invitata l’associazione di vittime Rete l’Abuso, l’unica in possesso di un data base di 13 anni degli abusi clericali (la Cei non ne possiede uno, come ci ha confermato Vincenzo Corrado direttore dell’Ufficio Comunicazioni della Conferenza episcopale), con la quale i vescovi non sembrano interessati a unire le forze. Vinai ha risposto «non entro nel merito dei dati di altri associazioni».

                E un’altra linea riguarda un altro Osservatorio, quello contro la pedofilia e la pedopornografia istituito dal Ministero per la Famiglia, al quale la Cei è stata invitata a partecipare. A oggi, nessun riscontro pervenuto in proposito. Un certo nervosismo, comunque, è stato rilevato di fronte a certe domande scomode. Come quella posta da Federica Tourn di “Domani” (17 novembre 2023)

https:/retelabuso.org/2023/11/17/abusi-e-violenze-nella-chiesa-numeri-e-lacune-dellultimo-report-della-cei

www.editorialedomani.it/fatti/abusi-e-violenze-nella-chiesa-numeri-e-lacune-dellultimo-report-della-cei-gn52uk2t

al card. Zuppi riguardante le sanzioni comminate a vescovi insabbiatori. Zuppi si è riparato dietro al motu proprio di papa FrancescoVos estis lux mundi”, che vincola moralmente i vescovi a denunciare casi di abusi e alla rassicurazione che, nel caso, si sarebbe proceduto a punire il vescovo che copre. Il fatto, però, è che un caso già esiste, quello del vescovo di Piazza Armerina mons. Rosario Gisana che ha ammesso, in una intercettazione agli atti, tale circostanza nel caso del prete don Giuseppe Rugolo, accusato di violenza sessuale aggravata, sotto processo a Enna. «Non so nulla di questo caso», ha detto Zuppi, andandosene via.

Ludovica Eugenio  Adista Notizie n° 40 del 25 novembre 2023

www.adista.it/articolo/70944

DALLA NAVATA

XXXIV Domenica del tempo ordinario (Anno A)

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

Ezechièle                            34, 16. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.

Salmo responsoriale     22,01. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.

Paolo ai Corinzi                15,20. Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.

Matteo                                25,31-40. “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei                                                    fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Il giudizio del Figlio dell’uomo

Nel Vangelo di questa domenica Gesù parla della venuta del Figlio dell’uomo, e il riferimento è al Libro di Daniele, dove si legge: «Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Dn 7,13-14).

                Il suo è un discorso in terza persona, ma non si fa fatica a comprendere che la citazione implicita che fa di Daniele è riferita a lui stesso e al tempo finale, quello della parusia, ovvero del ritorno del Messia per il compimento della salvezza. Ma non vi è davvero salvezza senza giudizio; un giudizio non arbitrario o di parte, ma espressione unicamente di verità.

Tale giudizio, poi, è universale, come dice il testo evangelico, rivolto a «tutti i popoli», al di là del loro credo, della loro cultura. Questa universalità di giudizio è però declinata al singolare, dato che verte sulle azioni di ogni singolo individuo, azioni che sono elencate in modo dettagliato: dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, accogliere gli stranieri, vestire gli ignudi, visitare i malati e i carcerati.

Questo elenco di sei azioni corrisponde alle cosiddette opere di misericordia conosciute e praticate nel mondo ebraico, prima ancora che in quello cristiano, e così riportate nel trattato Sotah 14a: «Rabbi Ḥama, figlio di Rabbi Ḥanina, dice: “Qual è il significato di ciò che è scritto: ‘Seguirete il Signore, vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, ascolterete la sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli’ (Dt 13,5)? Ma è davvero possibile per una persona seguire la Presenza divina? Ma non è già stato detto che: ‘Il Signore tuo Dio è un fuoco divorante, un Dio geloso’ (Dt 4,24), e non ci si può avvicinare al fuoco”? E il rabbi spiega: “Il significato è piuttosto quello di seguire gli attributi del Santo, benedetto Egli sia. Così come Egli [Dio] veste gli ignudi, come è scritto: ‘Il Signore Dio fece ad Adamo e a sua moglie degli abiti di pelle e li vestì’ (Ge 3,21), così anche voi dovete vestire gli ignudi. Così come il Santo, che sia benedetto, visita i malati, come è scritto a proposito dell’apparizione di Dio ad Abramo dopo la circoncisione: ‘Il Signore gli apparve presso i terebinti di Mamre’ (Gen 18,1), anche voi dovete visitare i malati. Proprio come il Santo, che sia benedetto, consola chi è in lutto, come è scritto: ‘Dopo la morte di Abramo, Dio benedisse Isacco, suo figlio’ (Gen 25,11), anche voi dovete consolare chi è in lutto. Come il Santo, che sia benedetto, seppelliva i morti, come è scritto: ‘E fu sepolto nella valle in terra di Moab’ (Dt 34,6), anche voi dovete seppellire i morti”».

                Se torniamo ora al Vangelo capiamo che le azioni che Gesù elenca e che saranno oggetto di giudizio da parte del «Figlio dell’uomo» non sono estranee al suo mondo e a quello dei suoi discepoli, ma anzi costituiscono il «modello» etico da seguire che ha come fondamento l’azione stessa di Dio.

Vi è però un particolare in più di novità: Dio non è solo colui che per primo dà da mangiare, da bere, da vestire eccetera, ma, nelle parole di Gesù, il «Figlio dell’uomo», questa figura messianica, è anche l’affamato, l’assetato, l’ignudo, lo straniero, e tutto questo senza che lo si possa riconoscere: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?», dato che ogni «uno», ogni singola persona che si trova in una delle condizioni elencate e che è oggetto di attenzione o di non attenzione, è in realtà «presenza incarnata» di Dio stesso.

                Tutto questo porta a un’interpretazione, da parte di Gesù, in un certo qual modo rivoluzionaria del «Figlio dell’uomo» di Daniele. Dato che «colui che viene» non è solo il «re dell’universo», il suo farsi presente non è solo un movimento «dall’alto», ma è anche un manifestarsi «dal basso»; il suo giudizio consiste nel far emergere e, allo stesso tempo, restituire quella dignità che è propriamente umana, una dignità che se da una parte appartiene a ogni singolo «uno», indipendentemente dalla condizione in cui si trova, dall’altra è, proprio perché umana, divina. »

                Nell’incarnazione, infatti, come direbbe san Paolo, il Cristo, ovvero il Messia, «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2, 6-7).

Ester Abbattista, biblista

DONNE NELLA (per la ) CHIESA

Quel voto che cambia il domani

Sono stata sollecitata più volte a scrivere sulle donne nel Sinodo dei vescovi che ha appena concluso la sua XVI assemblea ordinaria. Fino ad ora non me la sono sentita, perché percepivo il rischio di dare una lettura che sminuisse i tentativi fatti (della serie «Anche questa volta siamo rimasti ai blocchi di partenza»… senza però considerare seriamente e onestamente quali erano le diverse situazioni di partenza); oppure che esagerasse i risultati raggiunti (della serie «Finalmente riapriamo la questione del diaconato», senza dirci sinceramente che si tratta dell’ennesima riflessione teologica sul diaconato alle donne anche se già sappiamo da tempo non ci sarebbe alcun problema a conferirlo). E così, mentre cercavo di glissare le richieste e i sensi di colpa (perché un po’ mi sembrava doveroso scrivere anch’io visto, il lavoro che faccio), sono andata al cinema a vedere il bellissimo e già più volte celebrato film di Paola CortellesiC’è ancora domani.” Ci sono andata due volte – con mio marito la prima, con due {ne ha 4} dei miei figli (maschio di 19 e femmina di 16) la seconda –, e questo mi ha offerto una prospettiva possibile per poter parlare delle posizioni prese dal Sinodo sulle donne.

Il film mette sulla scena una storia assolutamente realistica: una famiglia nel primo dopoguerra affronta la povertà e l’ignoranza, ma soprattutto le discriminazioni nei confronti delle donne, che possono essere umiliate, picchiate, controllate e sfruttate in ogni modo possibile. Non si respira il dramma della violenza, ma invece la leggerezza data dalla volontà di andare avanti, di fare il bene, di far crescere i figli e di dare loro un domani migliore. Delia, la protagonista, per quanto vessata non è una vittima passiva, ma una resistente, una resiliente, un’eroina del quotidiano. Tutto il film si incentra, anche se non lo si scopre fino all’ultimo, sul diritto di voto alle donne. Gli eventi si svolgono infatti nei giorni immediatamente precedenti alle prime elezioni politiche italiane in cui hanno potuto votare anche le donne, e il dramma personale e familiare di Delia non si scioglie fuggendo, rifacendosi una vita, cercando un uomo migliore (che pure c’era e le aveva offerto una via di fuga); il dramma personale di Delia si scioglie invece nella soluzione politica di andare a votare perché la società si dia altre regole, perché non ci sia più bisogno un giorno di cercare fughe personali né soluzioni improbabili o fortunate dentro un sistema iniquo. Delia sceglie di cambiare l’esistenza di tutte, non la propria, esercitando l’unico strumento che il sistema sociale le offriva esponendo sé stesso al cambiamento, perché il voto di lei – e di tutte le altre – ha il potere di costruire un altro sistema.

Delia non è la sola. Ci sono altre donne, nel film, che vengono tutte presentate relativamente al voto: la (sfumata) consuocera arricchita, la negoziante, la signora benestante. Ciascuna di loro viene zittita dal proprio marito – è quindi una condizione trasversale a tutte le classi – e ciascuna di loro si trova alle urne utilizzando l’unica crepa del sistema che le umilia, una crepa che diventerà una voragine fino a che l’intero sistema andrà ricostruito. Mia figlia ha commentato alla fine del film (il giorno dopo, in realtà: nell’immediato era arrabbiata all’idea che Delia dovesse continuare la propria vita in quella casa – come non darle ragione?): il diritto di voto viene rappresentato come un diritto di parola, finalmente le donne zittite da tutti hanno potuto dire la loro. Finalmente ciò che loro pensavano aveva la capacità di tradursi in potere politico.

Ecco, questo è quanto è accaduto al Sinodo dei vescovi. Le donne (troppo poche, d’accordo) erano sedute insieme a tutti gli altri, alla pari, con diritto di parola e di voto. Inutile anche dar seguito a mormorazioni sui criteri con i quali siano state scelte, anche perché spesso donne impegnate nella Chiesa che si presentano con una fisionomia rassicurante non mancano certo di consapevolezza, argomenti e forza. Ciò che conta davvero è che le donne c’erano e potevano parlare, dovevano essere ascoltate e rispettate; inoltre, se si voleva approvare qualcosa, occorreva anche il loro voto: bisognava convincerle, dunque. I risultati non sono stati eclatanti, non abbiamo una rivoluzione (forse non era nemmeno auspicabile, e comunque il Sinodo non è concluso); ma abbiamo una nuova modalità di radunarsi e di decidere, e in questa nuova modalità anche le donne hanno il diritto di esserci.

Le prime elezioni italiane in cui le donne avevano diritto di voto sono state quasi ottanta anni fa. Questo dice la misura del ritardo ecclesiale, ma dice anche che il sistema ecclesiale è – come la tradizione insegna – sempre in riforma, anche quando si tratta di donne. A volte si soffre e si combatte per tanto tempo senza vedere nulla, finché improvvisamente si apre una crepa e nessuno può valutare più la portata del cambiamento. Delia, la straordinaria protagonista di “C’è ancora domani”, insegna a cogliere l’opportunità di trasformare la propria sofferenza in decisione politica, perché cambi tutto per tutte e tutti e non solo per sé. Forse è un’applicazione della parabola delle dieci vergini che abbiamo ascoltato recentemente nella liturgia domenicale: si può vivere la vita, anche quando è molto faticosa, accumulando saggezza (tenendo con sé l’olio), in modo che quando arriverà il momento opportuno (arriva lo Sposo!) sapremo come agire per non perdere l’occasione di entrare nella vita portando con noi quante più persone possibili. Essere pronte, questo è quanto consegna con grande intelligenza il film di Cortellesi, e forse è ciò che le donne cattoliche oggi devono riscoprire.

 Simona Segoloni Ruta      “il Regno delle donne” – www.ilregno.it – 17 novembre 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202311/231120segoloni.pdf

Il maschile nella chiesa

Per cercare di comprendere quale possa essere il valore e l’urgenza di porsi la domanda sulla maschilità, forse è bene partire da un fatto concreto, cioè lo stupro collettivo perpetrato su una ragazzina da ragazzi molto giovani, accaduto nelle settimane passate a Palermo. Mi è parso interessante – anche se è sempre il solito tentativo di scagionare lo stupratore – che fra i molti commenti si cercasse di attenuare le responsabilità di questi ragazzi sostenendo che la ragazza avesse dato il consenso a quanto accaduto. Ora, ammettiamo per un attimo che fosse vero: quali sono i valori di un maschio che decide non di avere un rapporto sessuale consenziente, ma di partecipare a un’azione di gruppo di molti su una, un’azione che diventa sfrenata, violenta e disumana? Quale idea di sessualità ha un uomo che fa questo? Quale idea di donna ha? E quale idea di maschio, cioè quale idea di sé stesso come maschio ha? Questa domanda sulla maschilità non viene mai posta, né esplicitamente né interiormente. Si acquisiscono acriticamente modelli spesso violenti e quasi sempre anacronistici, senza nemmeno immaginare che possano esisterne degli altri, senza porsi il problema di che persona si vuole diventare. Quali azioni sono maschili? Quali modalità di relazione? Quale rapporto con il proprio corpo? In ultima istanza la domanda potrebbe essere: che cosa significa essere maschi? Certo, se la nostra società, nonostante le conquiste femministe e le legislazioni egualitarie (o che almeno tentano di esserlo), ancora vede le donne profondamente svantaggiate in tutti gli ambiti e sotto ogni aspetto sociale e culturale, una ragione ci dovrà pure essere.

Forse il punto è che, mentre le donne si sono interrogate su che cosa significasse essere una donna, hanno fatto i conti con gli stereotipi e i pregiudizi e provato a cambiare qualcosa per sé, per le proprie figlie e per tutti (fallendo anche e ricadendo a volte in prigioni peggiori di quelle da cui volevano uscire, ma comunque mettendo in gioco se stesse e cambiando le regole sociali), gli uomini non si sono interrogati su se stessi e questa mancata riflessione si è cucita con i cambiamenti sociali legati all’emancipazione delle donne traducendosi in risentimento e violenza, in quella che viene normalmente chiamata maschilità tossica.

A dire il vero bisogna ammettere che molti uomini maschi hanno innescato cammini di rinnovamento relazionale con le proprie compagne e i propri figli, nonché assunto stili di vita che non cedono a stereotipi e violenze, ma tutto questo è ancora embrionale e lasciato alla buona volontà dei singoli.

Gli stessi maschi che tentano di non usare certi linguaggi o di non scadere in certi stili vengono marginalizzati o derisi. D’altra parte, le società si sono sviluppate in modo androcentrico e patriarcale per millenni, non potevamo pensare che una svolta epocale come quella del riconoscimento della piena parità per donne e uomini, nonché dello stesso diritto ad accedere a beni e impegni sociali, potesse avvenire senza un ripensamento dei significati, delle rappresentazioni e delle stesse relazioni sociali.

Per andare avanti, però, sulla strada della giustizia e dell’uguaglianza, non basta più parlare della condizione delle donne, occorre parlare del maschile e di quali modelli di maschilità proponiamo nei linguaggi, nei giochi, nei film, di come cresciamo i nostri figli maschi.

Nella Chiesa la situazione che ho appena descritto viene esasperata. Infatti, spesso si pensa che i mutamenti dei ruoli sociali, l’emancipazione femminile o la messa in discussione dei modelli stereotipati, sia un male. Si arriva a pensare persino che fosse nel progetto di Dio che le donne fossero dedite alla casa e ai figli, nonché devote e sottomesse a un marito impegnato su altri fronti, e che sia volontà di Dio che gli uomini abbiano la stragrande maggioranza delle ricchezze, delle opportunità di lavoro retribuito, delle responsabilità sociali ed ecclesiali, persino del tempo libero. Figuriamoci, dunque, se arriviamo ad accorgerci della problematicità dei modelli di maschile che purtroppo soggiacciono agli stereotipi tradizionali.

Ruoli. A questo si aggiunge il fatto che ancora nella Chiesa esiste un ruolo – quello del ministro ordinato – per il quale la maschilità è requisito necessario ed esclusivo. Tale fatto è ulteriormente esasperato da una concezione clericale della Chiesa stessa per cui ogni responsabilità o parola pubblica – nonostante la tradizione ci dia altre testimonianze e possibilità – è stata legata al ministero ordinato. Per essere ministri ordinati, dunque – cosa che nell’attuale struttura ecclesiale è necessaria per l’accesso alla parola pubblica o per qualsivoglia responsabilità ecclesiale – occorre essere maschi.

Se dal clericalismo si sta cercando di uscire – o almeno da più parti si dichiara la necessità di superare questa struttura in cui ogni responsabilità e parola pubblica ecclesiale sia in mano ai ministri ordinati – la questione dell’accesso al ministero ordinato per le donne, anche solo nel grado del diaconato, è più faticosa. Non ci interessa qui discuterne i motivi né proporre un cambiamento nella politica ecclesiale in questo senso, però è bene chiedersi – visto il contesto sulla concezione della maschilità di cui sopra – quale idea di maschio possa interiorizzare un uomo pensando che, proprio in quanto maschio, può essere conforme a Cristo e renderlo presente nel ministero ordinato, mentre un essere umano femmina non può.

Quale idea di maschilità avrà e di conseguenza quale idea di femminilità? E, a cascata, quali relazioni paritarie e reciproche sono possibili? A queste domande vanno aggiunte quelle che riguardano il celibato, non tanto la sua sensatezza, ma le teologie e le spiritualità che sono state usate per sostenerlo e che hanno dipinto il maschio celibe come perfetto, superiore, libero, capace di andare oltre i limiti umani e gli ordinari vincoli affettivi. Tutto questo, un tempo ritenuto pacifico, è divenuto problematico. Occorrono altri significati, altre letture, altre prassi. Per questo è bene cominciare a domandarsi se non sia ora di ripensare qualcosa, proprio a partire dalla concretezza dei vissuti maschili, dei corpi, dei sentimenti, della sessualità maschile e di tutti i condizionamenti culturali di cui sopra ho provato a dare cenno. Magari anche la piaga degli abusi, la cui causa saggiamente è stata ricercata da papa Francesco nel clericalismo, va connessa anche con una concezione della maschilità che, nella struttura ecclesiale, è cementata con la condizione di chierico e con una sua interpretazione sacrale. Che cosa succede se una persona pensa di poter superare ogni limite in quanto persona sacra? E se questa persona sacra, maschio, ha introiettato un modello di maschilità tossica, in cui un maschio è sempre in posizione di dominio su quei soggetti che pensa femminilizzati, cioè, sottomettibili proprio perché non maschi (donne, bambini, omosessuali passivi per esempio)? Abbiamo di fronte, dunque, un compito importante quanto arduo, perché ripensare le rappresentazioni e i ruoli di genere è complicato e scuote i sistemi sociali fino alla radice, ma se vogliamo una Chiesa che testimoni la possibilità di relazioni reciproche e vivificanti è necessario farlo. Non è colpa nostra se la storia che ci ha preceduto ci ha consegnato il grave squilibrio del sessismo, ma è nostra responsabilità attingere al Vangelo per rimuoverlo e ripensare la maschilità è uno dei passi necessari in questa direzione. Magari proprio lo stile di Gesù, che non domina, non agisce di potenza, non viola nessuno, potrebbe essere il punto di partenza non solo per essere umani, ma anche propriamente per pensarsi non conformi a Cristo in quanto maschi, ma, finalmente, maschi conformi allo stile di Gesù, maschi e uomini, secondo il cuore di lui.

Tendiamo a sottovalutare la questione, spesso per paura più che per un giudizio ponderato, il Vangelo però ci insegna il coraggio di rinnegare noi stessi (cioè, ciò che di noi e del nostro vivere ci impedisce la sequela) per camminare nella novità del Vangelo. Per questo la Chiesa è chiamata a essere più coraggiosa di altri nel mettere in discussione tutto ciò che non dona vita, per intraprendere vie nuove in cui tutti e tutte sono nutriti. Non c’è niente da perdere, tutto da guadagnare.

              Simona Segoloni Ruta                  “Mosaico di pace”           ottobre 2023

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Se questa è una donna o delle inaccettabili motivazioni contro l’ordinazione delle donne nel Medioevo

Nella Chiesa antica, le donne ricoprirono vari ruoli ministeriali ordinati al servizio di determinate comunità con specifiche funzioni. Durante i secc. XI e XII però l’ordinazione fu ristretta alle funzioni di presidenza eucaristica e ai maschi. Precedentemente, infatti, il diaconato era considerato un ordine e nel diaconato le donne erano incluse – vi fa riferimento anche il Concilio di Calcedonia. Successivamente esse vennero escluse da ogni ministero e responsabilità sulla base del loro sesso. Anche i toni delle argomentazioni contro l’ordinazione delle donne si inasprirono. Il celibato venne reso obbligatorio per il clero, il cui modello fu fortemente monasticizzato, con conseguente ossessione rigorista sulle leggi di purità.

La marginalizzazione e la denigrazione delle donne presente nelle argomentazioni teologiche coeve fa parte della tattica volta ad incoraggiare la continenza e il celibato. Le precedenti argomentazioni che già insistevano sull’inferiorità naturale delle donne, si arricchiscono di elementi sessuofobici. Pier Damiani (†1072) arriva a descrivere le donne in termini ripugnanti chiamandole incantatrici dei chierici, carne del diavolo, pozione delle menti, materia del peccare, occasione del perdersi, cagne, sanguisughe, vittime dei demoni. A parte alcune eccezioni, come Abelardo o Savonarola, gli autori tra il XII e il XV secolo risultano piuttosto unanimi nell’attribuire alla donna una posizione di inferiorità naturale rispetto all’uomo.

Impedimentum sexus. Le argomentazioni per escludere le donne dai ruoli ecclesiali restavano quelle della cultura patriarcale (la donna è inferiore), ma nuovi accenti intervennero ad esasperare quelle posizioni. Il Decretum Gratiani – una collezione di leggi canoniche redatta tra il 1130 e il 1150 che diventerà normativa in tutta la Chiesa occidentale – afferma che la donna deve velarsi il capo in segno della sua sottomissione perché non è creata a immagine di Dio. Si rafforza l’accusa di essere – in quanto Eva – causa principale del peccato originale. La stessa condizione femminile diventa negativa con la giustificazione lessicografica di Isidoro di Siviglia – ma già di Varrone – secondo la quale mulier (donna) deriva da mollitia (debolezza) mentre vir (maschio) da virtus (forza). Il tutto contribuì a gettare le donne in uno stato di forte sottomissione sociale. Il Decretum stabilì che le donne non avevano il diritto di accusare nessuno in tribunale, né di testimoniare o di intercedere (al pari dei bambini), erano escluse dal ruolo di giudici e dalle funzioni connesse all’avvocatura.

I canonisti riesumano l’impurità cultuale delle donne: Rufino di Bologna († 1191) afferma che le donne mestruate non devono entrare in chiesa. Siccardo di Cremona († 1215) sostiene che dopo un parto le donne non sono ammesse in chiesa; il tempo di esclusione cambia a seconda del sesso del neonato: in caso di una neonata, il tempo raddoppia. Tommaso di Chobham († 1233), afferma l’inferiorità del sesso femminile intrecciandovi l’argomento dell’impurità a causa del mestruo ed esclude le donne dagli uffici liturgici perché possono indurre alla concupiscenza i maschi. Uguccione da Pisa († 1210) afferma che le donne non possono essere ordinate per una legge della chiesa e per il sesso: infatti Dio appare più potente e più glorioso nella creazione del maschio, perché fatto per sé, direttamente da Dio, mentre la donna dall’uomo e quindi deva anche glorificare Dio attraverso la mediazione di un uomo: dunque i maschi devono istruire le donne e non viceversa.

Il semplice fatto di essere donna avrebbe negato la possibilità di esercitare funzioni ministeriali quand’anche fosse stata conferita un’ordinazione (tanto è vero questo che per quanto riguarda gli ermafroditi: se sono più femmine che maschi non possono ricevere gli ordini, ma se hanno una prevalenza del sesso maschile, sì). Anche circa l’insegnamento e la libertà di parola delle donne, i toni diventano sempre più aspri e misogini, probabilmente a causa delle polemiche sollevate dalla libertà di predicazione delle beghine e di quei movimenti – poi dichiarati ereticali – come i valdesi, i catari, i lollardi che permettevano alle donne maggiori spazi all’interno della Chiesa, sulla base del maggiore rilievo dato al sacerdozio comune.

Tutti uguali ma alcuni più uguali di altre. Secondo Duns Scoto († 1308) l’unico argomento per un’esclusione delle donne dal sacerdozio sarebbe un’ipotetica esplicita volontà di Cristo, che sola potrebbe giustificare ciò che altrimenti sarebbe una «maxima iniustitia». Guido da Baisio († 1313) scrive: «La donna non è un membro perfetto della Chiesa: lo è soltanto l’uomo» motivandolo sulla base della colpa nella caduta di Adamo. Egidio di Bellamera († 1407) afferma che «le donne sono escluse dagli uffici civili e da quelli pubblici» perché «sono fragili e meno intelligenti». Le argomentazioni si ripetono: la donna avrebbe una debolezza strutturale. una razionalità meno vivace, una mutevolezza di emozioni, una disposizione instabile e non adatta a governare.

Mulier da mollitia. Nelle leggi ecclesiastiche le donne sono considerate al pari dei bambini o dei servi, soggette alla protezione e alla correzione dei maschi. Intellettualmente inferiori ai maschi, sono ritenute volubili, inaffidabili e ignoranti, devono essere protette, disciplinate e governate dagli uomini maschi. Non sono in grado di comprendere la legge e quindi di applicarla. A Bernardo di Botone († 1266), canonista di Parma, viene attribuita la seguente affermazione: «Che cosa è più leggero del fumo? La brezza. Cosa più della brezza? Il vento. Cosa più del vento? Una donna. Cosa più di una donna? Niente». Le donne sarebbero troppo stupide per conoscere la legge e quindi non possono essere responsabili di fronte a essa. Enrico da Susa († 1272) non interrompe la denigrazione: «Il sesso delle donne è naturalmente più debole, infatti comunemente ella vive meno a lungo poiché ha meno calore naturale e quindi quanto prima finisce quanto prima deve arrivare a completezza […]. Platone dice la verità quando afferma che le piante cattive crescono prima di quelle buone». Nicolao dei Tudeschi († 1453) afferma che la donna non è degna di fiducia, mentre l’uomo è capace di persuadere; la testimonianza degli uomini rispetto a quella delle donne è sempre da preferire: l’uomo è chiamato vir non per il suo sesso, ma perché ha costanza e forza d’animo.

Alle radici del principio mariano. Parallelamente, e paradossalmente, accanto a questa linea svalutativa delle donne, inizia una traiettoria di esaltazione devozionale della donna-angelo e acquista forza quello che oggi si chiama il «principio mariano» fondato su un dualismo antropologico determinista ed essenzialista. L’eterno femminino viene esaltato in Maria, elevata a modello delle donne; modello inarrivabile e schiacciante perché quanto più risulta determinante l’unicità e il privilegio di Maria, tanto più le donne concrete, identificate con Eva, sono relegate a ruoli di subordinazione. Sebbene questa linea di pensiero sembri esaltare l’ideale femminile, di fatto denigra le donne concrete. Bernardo di Chiaravalle († 1153) chiaro esempio di questa traiettoria afferma infatti: «il sesso femminile è il più vile, infatti ha uno spirito lussurioso». Maria, quindi, è perfetta perché casta, feconda, vergine e madre. Nella contrapposizione tra Eva (e in lei tutte le donne e anche gli uomini peggiori) e Maria, la prima è fonte di morte, la seconda è fonte di salvezza, tanto elevata da essere inarrivabile e diventare (quasi) divina, un divino femminile, proiezione dei desideri maschili, che ha poco a che fare con la Maria biblica.

E il Verbo si fece maschio. Nei trattati teologici, a partire dal 1240-50, avanza un’insistenza inedita sull’importanza della sessuazione maschile per l’ordinazione. Bonaventura († 1274) sottolinea che la funzione di potestas spiritualis tipica del Cristo deve essere significata da un maschio perché è il sesso migliore, il più forte, il «più perfetto» e in lui l’imago si ha in modo preminente; la donna è «infirmior». Il maschio è migliore anche per la communicatio idiomatum, perché Cristo ha comunicato all’uomo che ha assunto le sue proprietà divine e queste proprietà sono comunicate maggiormente dal sesso maschile. L’incarnazione di Cristo si è verificata non tanto nell’homo ma nel vir. Anche il «dominio» di cui parla Gen 1,26 si riferirebbe solo al maschio. Così la donna non può essere capo dell’uomo e anche il potere di certe donne, quali Debora, la profetessa giudice del Libro dei Giudici, non va considerato di ordine spirituale, ma solo temporale. Perfino le abbadesse, non potendo in alcun modo assumere il ruolo di guida, sono per lui semplicemente delle sostitute di un abate in una comunità femminile e sono tollerate solo perché un abate non potrebbe abitare con le monache senza rischi. La capacità di significare il potere spetta dunque solo all’uomo maschio, il solo a poter ricevere la grazia di stato perché porta in sé l’immagine di Cristo capo.

Bonaventura utilizza per il vescovo una metafora matrimoniale che suppone chiaramente un subordinazionismo di genere tipico dello schema socioculturale antico: il vescovo-sposo rappresenta Dio, mentre la Chiesa-sposa gli è sottomessa, come le mogli. Inoltre, mentre il collegamento tra il ruolo dello sposo e la mascolinità del vescovo risulta essenziale, non lo è il collegamento tra il ruolo della sposa con la femminilità dei membri della Chiesa che infatti sono anche maschi. Insomma, se nello sposo il legame tra sex e gender risulta determinante, nella sposa è indifferente. La «mascolinità» in quanto significa autorità, libertà e ragione è ritenuta una caratteristica di tutti i maschi per il fatto stesso di essere nati maschi. In questo ambito, si inserisce Tommaso d’Aquino († 1274) che riassume le tendenze di questo contesto, anche teologico. Dall’arcaica biologia di Aristotele egli ricava l’idea che la donna sarebbe fisiologicamente un maschio menomato («vir occasionatus») e poiché alle differenze fisiche devono corrispondere anche differenze psicologiche o spirituali, la donna è anche psicologicamente inferiore. Per lui la creazione della donna non era nemmeno così necessaria se non per la procreazione. Tommaso ritiene che le donne manchino di ragione, requisito necessario a ogni ruolo di presidenza. Cita poi Aristotele dicendo che il potere in mano alle donne conduce alla rovina. Guglielmo Durando († 1296) ripeterà il tema della debolezza del corpo delle donne e della loro imperfezione a livello di ragione. Ecco come le migliori menti del passato non siano state in  grado di individuare gli effetti delle convenzioni sociali sul loro pensiero, identificando in modo errato la subordinazione sociale della donna con la nozione stessa di femminile.

Lascive come Eva. Ugo di San Caro († 1263) afferma che la natura di ogni donna è fatta per la trasgressione. Enrico di Gand († 1293) sostiene che la donna non ha costanza, non è capace di portare a termine qualcosa perché è fragile, non ha autorità quindi non può insegnare perché non ha vivacità di parola. Tuttavia ella può insegnare a casa ai bambini o alle altre donne. Thomas Netter († 1430) afferma che il peccato adesca tramite la voce allettante della donna così da far cadere l’intelletto in una rete di dolci parole. La donna non deve insegnare all’uomo perché il suo sesso è più debole. È lei ad aver portato nel mondo la morte tramite il serpente, infatti ella è incline all’errore e conduce all’errore altri. I teologi del XIV e XV secolo si allineeranno su queste tematiche. Solo Domenico de Dominicis, vescovo di Torcello e Brescia († 1478), ammetterà che le donne possono avere anche un potere di giurisdizione, come i laici e le badesse, in foro esterno e cioè possono ricoprire cariche pubbliche, tuttavia non possono predicare, secondo quanto detterebbero i consueti divieti paolini. Innocenzo III del resto aveva tolto, nel 1210, alle badesse il potere di benedire le monache, udire le loro confessioni, leggere il Vangelo e predicare in pubblico, tutte funzioni previste dalle Regole monastiche antiche. Queste infamanti definizioni delle donne dicono meno delle donne di quanto esprimano di coloro che le pronunciano. Sono infatti definizioni di uomini maschi bisognosi di denigrare l’alterità, disprezzando così anche se stessi.

 Benedetta Selene Zorzi        “Rocca” n. 23 del 1° dicembre 2023

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ECCLESIOLOGIA

Si vede bianco, ma si crede nero: le “analogie imperfette” del ministero ordinato

Come è noto, Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi spirituali, tra le «Regole per sentire con la Chiesa» scrive un testo divenuto quasi proverbiale: «Tredicesima regola. Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica. Infatti, noi crediamo che lo Spirito che ci governa e che guida le nostre anime alla salvezza è lo stesso in Cristo nostro Signore, lo sposo, e nella Chiesa sua sposa; poiché la nostra santa madre Chiesa è guidata e governata dallo stesso Spirito e signore nostro che diede i dieci comandamenti» (I. di Loyola, Esercizi spirituali, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005, 215 [n. 365]).

Sulla famosa espressione con cui S. Ignazio ha espresso la fedeltà al papa e in generale alla “chiesa gerarchica” è interessante notare non soltanto la formula con cui viene comunicata, con la differenza tra “vedere” e “credere”, tra visibilità e invisibilità, ma anche la argomentazione portante che sorregge la affermazione.

L’orizzonte della riflessione è quello “sponsale”. Ma di quali nozze si tratta? Può essere interessante identificare bene come funziona la metafora nell’uso di Ignazio. Cristo sposo della Chiesa sposa, diventa, nelle sue parole, Cristo sposo della Chiesa gerarchica. Nella tradizione abbiamo avuto, però, anche un diverso uso della metafora: il Vescovo sposo della Chiesa sposa. Questo doppio uso della metafora permette di costruire un “sistema” in cui, con due passaggi, si ottiene una duplice configurazione:

– Cristo sposo della Chiesa gerarchica

– Il vescovo sposo della chiesa non gerarchica

                Un altro testo di Ignazio che va nella stessa direzione suona così: «Deposto ogni giudizio, dobbiamo tenere l’animo disposto e pronto per obbedire in tutto alla vera sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra santa madre Chiesa gerarchica.» (I. di Loyola, Esercizi spirituali, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005, 212 [n. 353]).

                Qui, come è evidente, l’uso della “metafora sponsale” corre il rischio di una grande equivocità. Come fa un vescovo (o il papa) ad essere, contemporaneamente, sposa di Cristo e sposo della Chiesa? Con giusta precisazione, papa Francesco ha provveduto a chiarire non poco l’uso disinvolto di queste metafore, che creano di volta in volta campi di istruttiva chiarezza e campi di singolare oscurità. Nella esortazione apostolica Amoris Lætitia mette in guardia dall’utilizzo disinvolto della metafora sponsale definendola “analogia imperfetta”. Leggiamo questo testo: “Benché «l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa» sia una «analogia imperfetta», essa invita ad invocare il Signore perché riversi il suo amore dentro i limiti delle relazioni coniugali” (AL 73).

                Qualche riga sopra aveva scritto, in modo analogo: “Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale” (AL 72)

                D’altra parte non è cosa nuova che si utilizzino con precisione e con cautela le diverse accezioni del termine “nozze” nel linguaggio teologico. Papa Innocenzo III aveva scritto, ai primi del XIII secolo, un breve trattatello sulla “Figura quadripartita delle nozze”, articolandola secondo i quattro sensi della scrittura, che individuano nozze storiche, nozze allegoriche, nozze tropologiche e nozze anagogiche, corrispondenti al rapporto uomo-donna legittima, Cristo-Chiesa santa, Dio-anima giusta e Verbo-natura umana.

Proviamo ora a leggere in parallelo il testo di Ignazio, che utilizza al limite della contraddizione la “metafora sponsale”, e l’uso che ne fa il magistero per escludere la ordinazione sacerdotale della donna. Notiamo subito che, quando la metafora viene applicata non al matrimonio, ma al ministero ordinato, subisce allo stesso tempo una complicazione virtuosistica e una semplificazione disarmante: Nell’uso di Ignazio, Cristo è Sposo della Chiesa gerarchica, che è sposa. Ma Ignazio non pretende affatto che la metafora sponsale conduca alla conclusione che, quindi, la gerarchia, per essere sposa del Cristo, debba essere femminile. Sa bene, e fa bene a saperlo, che l’uso della metafora è compatibile con la “sessuazione maschile” della Chiesa gerarchica.

Diverso, invece, è il modo con cui “Inter Insigniores” nel 1976 (e poi una Nota a del 2018 della Congregazione per la Dottrina della fede) ragionano intorno alla stessa metafora: Il sacerdote, infatti, agisce nella persona di Cristo, sposo della Chiesa, e il suo essere uomo è un elemento indispensabile di questa rappresentazione sacramentale (cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, “Inter insigniores”, n. 5).

www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19761015_inter-insigniores_it.html

L’impiego di una “analogia imperfetta” sembra dover aspirare alla “perfezione” solo quando si riferisce al genere sessuale dei soggetti. Abbiamo potuto sopportare senza battere ciglio, anche senza essere gesuiti, l’ardita metafora impiegata da Ignazio: se Cristo è sposo della Chiesa gerarchica sposa, il sesso maschile dei vescovi non ci turba, forse perché l’azione “in persona ecclesiæ” non sembra richiedere il sesso femminile. Viceversa se rappresentiamo la funzione del ministro ordinato di fronte alla sua comunità, pretendiamo che sia “di sostanza” il sesso maschile, perché la sponsalità non sia svuotata nel suo senso “storico”: abbiamo perso così ogni percezione del senso allegorico, tropologico e anagogico delle nozze. Così l’ “analogia” perde ogni imperfezione e il segno diventa improvvisamente univoco. Forse applicando al ministero ordinato la medesima “imperfezione analogica” di cui siamo consapevoli per il matrimonio, potremmo affidare minore autorità alla interpretazione letterale di una metafora e riconoscere maggiore autorità alle persone delle donne come a quelle degli uomini. Ogni ministro ordinato agisce, allo stesso tempo, in persona Christi e in persona ecclesiæ. Se interpretassimo la “metafora sponsale” sempre in modo rigido, e pensassimo che “agere in persona” significa “impersonare”, dovremmo escludere che gli uomini maschi possano agire in persona ecclesiæ, e che le donne possano agire in persona Christi. Ma siccome da sempre pensiamo che l’uomo maschio possa agire anche in persona ecclesiæ (pur non essendo donna), nulla impedisce di pensare che la donna possa agire “in persona Christi”, pur non essendo maschio. Dovremmo arrenderci al fatto che la consapevolezza di far uso di una “analogia imperfetta”, con tutte queste importanti conseguenze, ha valore non solo per la teologia del matrimonio, ma anche per la teologia del ministero ordinato. Anzi, dovremmo forse ammettere che se la analogia del rapporto Cristo-Chiesa con il rapporto marito-moglie appare “imperfetta”, non sarebbe azzardato pensare che “più imperfetta” dovrebbe risultare sia l’analogia tra Cristo-Chiesa e Cristo-Vescovo, sia quella tra Cristo-Chiesa e Vescovo-Chiesa. Da questo punto di vista, per passare da bianco a nero occorre una analogia meno imperfetta.

Andrea Grillo    blog Come se non           22 novembre 2023

www.cittadellaeditrice.com/munera/quando-si-vede-bianco-ma-si-crede-nero-le-analogie-imperfette-del-ministero-

ordinato

FEMMINICIDI

Cinque fatti essenziali da sapere sul femminicidio Credit: UNWOMEN

Le uccisioni legate al genere (femminicidio) sono la manifestazione più brutale ed estrema della violenza contro donne e ragazze. Definito come un’uccisione intenzionale con una motivazione legata al genere, il femmicidio può essere motivato da ruoli di genere stereotipati, discriminazione nei confronti di donne e ragazze, relazioni di potere ineguali tra donne e uomini o norme sociali dannose. Nonostante decenni di attivismo da parte delle organizzazioni per i diritti delle donne e una crescente consapevolezza e azione da parte degli Stati membri, i dati disponibili mostrano che i progressi nel fermare questa violenza sono stati profondamente inadeguati.

                Con l’obiettivo di galvanizzare l’azione globale contro questo crimine troppo pervasivo, in linea con la visione delle coalizioni d’azione del Generation Equality Forum, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine e UN Women hanno unito le forze per produrre la seconda edizione congiunta di un rapporto sulle uccisioni di donne e ragazze legate al genere. Pubblicato prima della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e dei 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere, i risultati agghiaccianti del rapporto aggiungono maggiore urgenza a un’emergenza globale già esistente.

Ecco 5 risultati chiave:

1. Le donne e le ragazze hanno maggiori probabilità di essere uccise dalle persone a loro più vicine. Nel 2022, circa 48.800 donne e ragazze in tutto il mondo sono state uccise dai loro partner intimi o da altri membri della famiglia (compresi padri, madri, zii e fratelli). Ciò significa che, in media, più di 133 donne o ragazze vengono uccise ogni giorno da qualcuno della loro stessa famiglia. Gli attuali e gli ex partner intimi sono di gran lunga gli autori più probabili di femminicidio, rappresentando in media il 55% di tutti gli omicidi legati al partner e alla famiglia.

Quest’anno si è registrato il numero più alto di omicidi femminili intenzionali, il che indica che il mondo non riesce a fermare morti che potrebbero essere evitate attraverso un intervento precoce, una polizia e una giustizia che rispondano alle esigenze di genere e l’accesso a un sostegno e a una protezione incentrati sulle sopravvissute.

2. Il femminicidio è un problema universale. Come tutte le forme di violenza di genere contro le donne e le ragazze, il femminicidio è un problema che riguarda tutti i Paesi e i territori del mondo. Secondo il nuovo rapporto, nel 2022 l’Africa registrerà il maggior numero assoluto di omicidi femminili legati al partner e alla famiglia, con una stima di 20.000 vittime, seguita da 18.400 in Asia, 7.900 nelle Americhe, 2.300 in Europa e 200 in Oceania.

I dati disponibili, aggiustati per le dimensioni della popolazione totale, mostrano che, nel 2022, 2,8 donne e ragazze ogni 100.000 sono state uccise da un partner intimo o da un familiare in Africa, rispetto a 1,5 nelle Americhe, 1,1 in Oceania, 0,8 in Asia e 0,6 in Europa.

3. La scala reale dei femminicidi è probabilmente molto più alta. I numeri presentati nel rapporto sono allarmanti, ma sono la punta dell’iceberg. Non si contano ancora troppe vittime: per circa quattro omicidi intenzionali di donne e ragazze su dieci, non ci sono informazioni sufficienti per identificarli come omicidi legati al genere, a causa delle differenze nazionali nelle pratiche di registrazione e indagine della giustizia penale.

In molti casi, solo gli omicidi legati al genere perpetrati da un partner intimo o da un membro della famiglia vengono conteggiati come femminicidi, mentre sappiamo che gli omicidi legati al genere avvengono in molti contesti al di fuori della sfera privata. Possono essere legati a stupri o violenze sessuali da parte di persone sconosciute alla vittima; legati a pratiche dannose come le mutilazioni genitali femminili o i cosiddetti delitti d’onore; conseguenza di crimini d’odio legati all’orientamento sessuale o all’identità di genere; oppure connessi a conflitti armati, bande, traffico di esseri umani e altre forme di criminalità organizzata.

Garantire la disponibilità di dati completi e disaggregati è fondamentale per rafforzare le misure di prevenzione, protezione e risposta al femicidio, nonché l’accesso alla giustizia. Per contribuire a superare le attuali limitazioni nella raccolta dei dati, l’UNODC e UN Women hanno sviluppato il quadro statistico per la misurazione delle uccisioni di donne e ragazze legate al genere (“femicidio/femminicidio”), approvato dalla Commissione statistica delle Nazioni Unite nel marzo 2022.

4. Alcuni gruppi di donne e ragazze sono più a rischio. Continuano a esserci limitazioni significative nei dati e nelle informazioni sulle uccisioni legate al genere di alcuni gruppi di donne e ragazze. Le donne in vista, comprese quelle in politica, le difensore dei diritti umani e le giornaliste sono spesso bersaglio di atti di violenza intenzionale, sia online che offline, alcuni dei quali hanno portato a esiti fatali e a uccisioni intenzionali.

Nonostante la limitatezza dei dati, le evidenze disponibili in Canada e Australia suggeriscono che le donne indigene sono colpite in modo sproporzionato da omicidi legati al genere. Con un tasso di 4,3 su 100.000 donne e ragazze, nel 2021 il tasso di omicidi femminili in Canada era cinque volte più alto tra le donne e le ragazze indigene rispetto a quelle non indigene.

Per prevenire il femminicidio, è fondamentale che le autorità nazionali registrino dati completi sulle vittime. Identificando le donne e le ragazze più a rischio, i Paesi possono informare meglio i meccanismi di prevenzione e protezione.

5. Il femminicidio può e deve essere prevenuto. Gli omicidi legati al genere e altre forme di violenza contro donne e ragazze non sono inevitabili. Possono e devono essere prevenuti attraverso iniziative di prevenzione primaria incentrate sulla trasformazione di norme sociali dannose e sul coinvolgimento di intere comunità e società per creare una tolleranza zero nei confronti della violenza contro le donne. L’intervento precoce e la valutazione del rischio, l’accesso a un sostegno e a una protezione incentrati sulle sopravvissute, nonché servizi di polizia e di giustizia che rispondano alle esigenze di genere sono fondamentali per porre fine alle uccisioni di donne e ragazze legate al genere.

Una pratica innovativa che ha il potenziale di rafforzare le riforme necessarie è l’esame approfondito da parte di più soggetti delle uccisioni di donne e ragazze legate al genere. Queste spesso coinvolgono le famiglie e le reti sociali delle vittime, con l’obiettivo di migliorare le risposte istituzionali e prevenire futuri omicidi.

Sono necessarie ulteriori ricerche per capire meglio cosa sta portando all’aumento dei femminicidi in alcuni contesti e quali fattori hanno permesso una diminuzione in altri, per informare meglio le strategie di prevenzione.

Le organizzazioni per i diritti delle donne svolgono un ruolo cruciale nella prevenzione della violenza contro le donne e le bambine, nel promuovere il cambiamento delle politiche, nel chiedere conto ai governi e nel fornire servizi essenziali incentrati sulle sopravvissute. Il rafforzamento del sostegno finanziario alle organizzazioni per i diritti delle donne è fondamentale per ridurre e prevenire gli omicidi legati al genere e tutte le forme di violenza di genere contro donne e ragazze.

Centro Regionale Delle Nazioni Unite                   23 novembre 2023

https://unric.org/it/cinque-fatti-essenziali-da-sapere-sul-femminicidio

Violenza di genere, tra legami fragili e senso di vulnerabilità. L’esigenza di alzare lo sguardo

Cronache e numeri restituiscono una percezione di «insicurezza generalizzata», riflette la sociologa  Chiara Giaccardi *1959 Eppure si fatica a guardare un po’ più lontano. E anche il contributo che come cattolici potremmo portare resta per lo più inespresso

Femminicidi, maltrattamenti, violenze. I dati rimbalzano attraverso i fatti di cronaca, fino all’ultimo, devastante episodio che ha visto la giovane laureanda Giulia Cecchettin uccisa dall’ex fidanzato: dall’inizio dell’anno sono 105, in Italia, le donne uccise da un partner o ex partner, da un altro parente o comunque da conoscenti in ambito affettivo o relazionale. Femminicidi, appunto, ma anche, e in numero crescente, tante forme di violenza, maltrattamenti e atti persecutori contro le donne. Compresi i matrimoni combinati. Reati “spia” della violenza di genere.

Lo dimostrano i dati del Viminale: è donna oltre il 35% delle vittime di omicidio registrate nel 2023. Circa 1 su 3. Percentuale che sale a più del 65% se si guarda agli omicidi maturati in contesto familiare o affettivo: 2 su 3. Sfonda il tetto del 91% infine la percentuale di donne morte per mano di partner o ex partner.

                In una «percezione di insicurezza generalizzata», sono segnali di «una vulnerabilità specifica proprio dove ci si aspetterebbe tutt’altro: nel cuore delle relazioni sentimentali, affettive, amorose», commenta Chiara Giaccardi, docente ordinaria Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Sociologia e Antropologia dei media e dirige la rivista Comunicazioni Sociali. Esperta di trasformazioni culturali legate ai processi di globalizzazione e alla rete, Giaccardi è “esperta” anche di vita familiare: con il marito  Mauro Magatti *1960– anche lui sociologo, anche lui docente alla Cattolica – ha scelto la strada di una famiglia aperta all’affido, all’accoglienza. Alla generatività. E alla domanda se esiste una violenza di genere, risponde: «La risposta non può essere che sì. Femminicidio – spiega – non è un neologismo a effetto, ma una specifica forma di violenza, consumata dentro un legame di fiducia, dove la donna è vittima. Quante volte si è sentito invece di una donna che ammazza il partner perché vuole lasciarla? Questo tipo violenza non è certo nuova, è sempre esistita, solo che ora viene denunciata, ed è l’unica buona notizia. Ma oggi è tanto più assurda, quanto più sono cambiate le condizioni di contesto: apparente libertà e autodeterminazione per tutti».

                Guardando alle cronache che la raccontano, Giaccardi evidenzia «almeno due gravi lacune» nell’analisi del fenomeno: «La prima, generalizzata, la definirei “miopia interpretativa”; la seconda è una vera e propria di “imbarazzo ermeneutico” derivante dalla contrapposizione ideologica in cui è bloccato il dibattito contemporaneo sul concetto di genere, e nella quale anche una buona parte del mondo cattolico rimane ahimè intrappolato».

Alla prima, la miopia, lega l’incapacità di alzare lo sguardo dalla superficie più immediata per vedere un po’ più lontano. «Ogni volta – riflette – ci si stupisce che persone che parevano normali si trasformino in spietati assassini. Al di là delle circostanze contingenti, dei pretesti che scatenano l’efferatezza – prosegue -, c’è una questione ben più complessa: una cultura iperindividualista dove è buono e vero solo ciò che mi fa stare bene, dove libertà è uguale a scelta, e dunque vale solo ciò che si sceglie; dove l’altro non è davvero altro, ma una mia estensione, un mio possesso». E ancora, «dove l’autoreferenzialità è così alta che abbiamo dimenticato che il movimento dell’amore è un movimento fuori da sé e paradossale: volendo il bene dell’altro alla fine facciamo anche il nostro, mentre ossessionati dal nostro bene distruggiamo noi e chi ci sta vicino. È una cultura dove i legami si sono così infragiliti e annacquati che nessuno intorno è in grado di cogliere segnali preoccupanti e tantomeno di intervenire, perché farsi gli affari propri è imperativo».

Nell’analisi della sociologa, insomma, «il dovere di non interferenza fa sì che tragedie evitabili si consumino indisturbate. Ci sono, insomma, responsabilità culturali e sociali che non vengono mai adeguatamente riconosciute, perché ci riguardano tutti. E, forse, non abbiamo molta voglia di metterci in discussione». In più – riguardo all’«imbarazzo ermeneutico» – anche «quello che come cattolici potremmo portare in termini di comprensione e di lotta al fenomeno resta per lo più inespresso, in nome di una incapacità perfino di pronunciare la parola “genere”». In concreto, «mentre si sta ancora a confondere il “distinguere” e il “separare” le dimensioni biologiche e sociali dell’identità, come se i due atteggiamenti fossero l’uno la conseguenza necessaria dell’altro, per paura di cedere a una cultura che non riconosce limiti a nulla si rinuncia a portare il proprio contributo. Eppure le tre persone della trinità non sono forse distinte ma non separate? Riconoscere la distinzione è forse il primo passo verso il politeismo?», domanda.

                Cambiare quello che non va non è facile, ma forse, è la tesi di Giaccardi, «possiamo portare con più audacia la ricchezza che conosciamo a un mondo che ne avrebbe bisogno, senza lasciarci paralizzare da paure che rendono complici, alla fine, delle cose come stanno». Il ruolo sociale delle donne «è cambiato nel tempo, e forse non si è ancora abbastanza disposti a riconoscerlo. E oggi è evidente, nella concretezza della vita vissuta e non nei modelli astratti e ideologici, che le donne possono essere mogli, madri e lavoratrici, soprattutto se c’è una divisione un po’ più equa dei carichi familiari – rileva -. È evidente che la femminilità ha tante sfumature, come testimonia la varietà di figure femminili nel Vangelo. È evidente che le donne possono e devono prendere iniziative, il che significa uscire da casa e andare nel mondo». E come modello, cita Maria: «Incinta, per di più, non se ne va forse da sola, per strade tutt’altro che sicure, ad annunciare la buona notizia alla cugina Elisabetta? Certo, le fosse successo qualcosa, ci sarebbe stato qualcuno pronto a dire che se l’era cercata…». E ancora, «Giuseppe, nella delicatezza con la quale gestisce l’imbarazzante annuncio, nel suo non rimanere intrappolato nella reazione emotiva e nelle convenzioni sociali è un esempio di virilità da cui molti uomini avrebbero da imparare. Accettare con un libero sì quello che non si è scelto non è un fallimento che grida vendetta, la fine di tutto – conclude -, bensì potenzialmente un inizio nuovo, una sfida da accogliere con coraggio.»

                Federica Cifelli                 RomaSette                        26 novembre

www.romasette.it/la-violenza-di-genere-tra-legami-fragili-e-senso-di-vulnerabilita-lesigenza-di-alzare-lo-sguardo

Vito Mancuso “Il vero problema non è il patriarcato ma il culto della forza di cui siamo schiavi

L’altra sera, invitato da mia figlia, ho partecipato con lei e il suo ragazzo alla manifestazione contro la violenza sulle donne organizzata a Bologna da “Non Una di Meno”. C’erano diverse migliaia di persone, per lo più giovani, in maggioranza donne, ma anche noi uomini non eravamo pochi, ho persino intravisto alcuni signori definibili, come me, “di una certa età”. Cartelli, fischietti, alcune trombe, qualche pentola e relativi cucchiai, insomma le solite cose usate da sempre nelle manifestazioni per fare baccano e farsi notare. Di nuovo, per lo meno per me, c’erano le chiavi di casa, agitate da molte ragazze per simboleggiare con il loro tintinnio che neppure in casa si sentono sicure. Le agitava anche mia figlia, però con l’altro braccio si stringeva a me, quindi quel suo gesto non mi preoccupava. Al di sopra ovviamente svettavano gli slogan, gridati con forza e passione dalle giovani donne. Il più ripetuto era il seguente: “Lo stupratore / non è malato, / è figlio sano / del patriarcato”.

                Il patriarcato. Mentre sentivo ripetere centinaia di volte questa parola, per tutti in quella piazza il nemico numero uno, non potevo fare a meno di pensare alla nostra civiltà. Tutto sbagliato? Anche il termine “patria”? E che dire poi della nostra religione? “Padre nostro che sei nei cieli”. “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. “Papa” significa padre, e a Venezia e in altre antiche città il capo della chiesa si chiama “patriarca”. Se poi si apre la Bibbia è un vero e proprio imperversare del patriarcato, a partire ovviamente dai patriarchi biblici Abramo, Isacco, Giacobbe, con le loro mogli e schiave e concubine, per giungere al re Davide, che di mogli ne ebbe una decina, e a suo figlio Salomone che ne ebbe centinaia. Certo, la Bibbia conosce anche donne indipendenti come Rut, Ester, Giuditta, ma si tratta di eccezioni. Il Dio maschile, primo e assoluto patriarca, fondamento di ogni altro patriarcato, si rivolge agli uomini, a loro consegna la sua legge con i dieci comandamenti di cui l’ultimo recita: “Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Esodo 20,17). La donna, qui pensata da subito come moglie, viene collocata tra la casa e gli schiavi e gli animali, cosa tra le cose. E ancora oggi per molti uomini e per molte donne queste parole maschili sono “Parola di Dio”.

Non che nelle altre religioni le cose siano molto diverse, visto che l’invocazione alla divinità sotto il nome di Padre è un fenomeno primordiale, riscontrabile pressoché ovunque: in Mesopotamia, nell’antico Egitto, in Grecia dove Omero sia nell’Iliade sia nell’Odissea chiama Zeus “padre degli uomini e degli dei”, a Roma dove il termine padre è già contenuto nel nome del dio supremo Jupiter, e in India dove ci si rivolge a Krsna, avatara di Viśnu, dicendo: “Tu sei il padre di questo mondo”. Fa eccezione l’islām, per il quale è vietato parlare di Dio come “padre” perché ritenuto troppo confidenziale, ma ciò non ha impedito proprio lì l’instaurarsi di un pesantissimo patriarcato. Insomma: Dio è padre, io sono padre, io quindi sono un dio: questo è il grossolano sillogismo della mente maschile di ogni tempo.

Ho preso in considerazione la religione perché soprattutto in essa veniva condensata l’anima profonda di un popolo con i suoi ideali e i suoi valori. Ma qual è la lezione da trarre dalla prevalenza del patriarcato in tutte le importanti civiltà del pianeta? La risposta, a mio avviso, è la seguente: l’adorazione della forza. Il patriarcato cioè rimanda, ben più che al maschilismo, al prevalere universale della forza. In quanto fisicamente più forte, il maschio è il sommo sacerdote di questa primitiva struttura archetipica la cui logica fondamentale è la forza, con ciò che ne consegue, cioè il potere da un lato e la sottomissione dall’altro. La violenza fisica fino all’assassinio non è che la più eclatante manifestazione di questa struttura, la quale, ancora oggi, pervade ogni ambito vitale. Ancora oggi infatti l’economia, il diritto, la politica, la tecnologia, la cultura, lo sport, la religione, sono esattamente questo in quasi tutte le loro manifestazioni: adorazione della forza.

Se un maschio alza le mani contro una donna lo fa perché vuole che lei gli sia sottomessa, e probabilmente cerca di riscattare così i casi in cui a essere sottomesso deve essere lui, nell’ambito lavorativo, o tra gli amici o in altre cento situazioni. Neppure le donne però sfuggono a questa logica imperante e impersonale della forza. Anzi, oggi non poche di esse tendono sempre più a “maschilizzarsi”: lo si capisce dal linguaggio volgare, prima appannaggio dei maschi e ora non più, e anche dalla vera e propria violenza fisica che alcune di loro riservano ad altre donne, come capita purtroppo di leggere con una certa frequenza nelle cronache quotidiane.

                La vera questione non è quindi il fatto che uno sia maschio e l’altra sia femmina, il patriarcato o il matriarcato, anche perché vi sono uomini che non adorano anzi combattono la forza (vedi Gandhi) e vi sono donne che adorano e usano la forza (vedi Margaret Thatcher). Il punto focale riguarda piuttosto la seconda componente del termine “patri-arcato” o “matri-arcato”, cioè il suffisso “arcato” che rimanda al greco “arché” che in questo caso significa “potere, comando, sovranità”. Il punto focale è la forza, con il potere che essa conferisce.

                Ha scritto una delle più grandi pensatrici del nostro tempo, Simone Weil:La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa”. Continuava dicendo che la forza omicida è solo una forma grossolana della forza, la quale conosce diverse e più sottili manifestazioni, tutte accomunate dal mutare un essere umano in una cosa: “È vivo, ha un’anima; e nondimeno è una cosa”. Il problema deriva dal fatto che “l’anima non è fatta per abitare una cosa”, e per questo, quando vi è costretta, “non vi è più nulla in essa che non patisca violenza”.

  Conclude Simone Weil *1909-1943: “Che un essere umano possa essere una cosa è, da un punto di vista logico, una contraddizione; ma quando l’impossibile è divenuto realtà la contraddizione diventa strazio nell’anima”.

                Per questo, al di là dei sorrisi di circostanza, stiamo tutti male e siamo preda di una sensazione di prigionia. Da qui il nostro linguaggio violento e aggressivo, nei toni della voce, prima ancora che nei termini e nei contenuti. Siamo tutti prigionieri del dio della forza, anche se ovviamente lo sono in primo luogo coloro che alzano le mani, tanto più se lo fanno in modo vigliacco contro chi è più debole.

                Per quanto mi riguarda l’unica liberazione che conosco è la cultura, la quale suscita e fa fiorire dentro di me quella dimensione che Simone Weil chiamava “anima”. Tutto nel nostro mondo avrebbe bisogno di più anima. Concludo a questo proposito con un fatto personale per ricollegarmi con lo spunto personale da cui sono partito. Un giorno un amico iconografo mi volle regalare un’icona dipingendola appositamente per me e mi disse di scegliere il soggetto. Io scelsi Sophia, Hagía Sophía, la divina Sapienza. L’icona che ora è in casa mia la raffigura in trono, circondata dagli angeli. Non il Dio maschile e dominatore, bensì la Sapienza con il volto di donna, perché è la dimensione femminile (presente in ogni essere umano) a esprimere relazione e non forza, armonia e non imposizione di sé. Questa è la vera divinità, il sommo ideale a cui educarci ed educare sciogliendo il nodo di spine del patriarcato, e di ogni altro “arcato”, dentro di noi.

Vito Mancuso, La Stampa 24 novembre 2023

www.vitomancuso.it/2023/11/24/il-vero-problema-non-e-il-patriarcato-ma-il-culto-della-forza-di-cui-siamo-schiavi

www.lastampa.it/editoriali/lettere-e-idee/2023/11/24/news/vito_mancuso_patriarcato-13884039/ Il peso del fallimento e la ferocia di Narciso

La violenza diventa un’alternativa al lutto: ti uccido perché non accetto di non essere niente senza di te

Sappiamo bene chi sono gli uomini che odiano, maltrattano e uccidono le donne. Sono gli uomini che rifiutano la libertà della donna. È questa l’essenza più pura del maschilismo in quanto figlio naturale dell’ideologia del patriarcato. Il suo presupposto è l’idea che la donna sia afflitta da una minorità ontologica, morale e cognitiva che la consegna a non essere altro che un oggetto passivo nelle mani dell’uomo. Per questa ragione, quando la soggettività femminile fa la sua apparizione (attraverso la decisione di interrompere un legame amoroso o quella di intraprendere una carriera professionale indipendente, come è appena accaduto nel caso di Giulia), può provocare reazioni violentissime. Nel fantasma maschilista, infatti, la donna non può esprimere una soggettività libera perché viene concepita come una mera proprietà dell’uomo.

Ma la violenza che trova il suo apice nel femminicidio scaturisce sempre da una cultura fatta di umiliazioni e di offese quotidiane, di mortificazione e di negazione della libertà della donna. Può avvenire non solo come esercizio di un potere sadico, ma anche nel nome dell’amore. È questo un altro paradosso che andrebbe mostrato in tutta la sua crudeltà: nel nome dell’“amore” si può arrivare a sopprimere la libertà della donna. Nella violenza degli uomini sulle donne c’è sempre un intento fantasmaticamente pedagogico: disciplinare, regolare, purificare la loro naturale e irresponsabile peccaminosità. È il delirio moralistico che troviamo frequentemente al cuore degli uomini che maltrattano le donne: piegare con la forza e il ricatto la donna, renderla servizievole come dovrebbe essere ogni donna secondo la cultura del patriarcato.

Non a caso nella lunga storia dell’Occidente la donna che rivendicava la sua libertà veniva identificata con la strega. Si riguardi “Comizi d’amore” di Pasolini per cogliere quanto la libertà femminile sia vissuta dagli uomini, in una cultura che non aveva ancora conosciuto i movimenti di liberazione femministi e la rottura benefica del ’68, come una minaccia al loro posticcio prestigio fallico. Nella Recherche di Proust Albertine, che incarna l’essenza del femminile, viene descritta come un essere perennemente in fuga, inappropriabile, irraggiungibile, impossibile da catturare, tale da sconcertare il protagonista sino a sospingerlo a intraprendere il progetto geloso del suo imprigionamento. Più l’uomo incontra il carattere indomito della libertà della donna e più è incentivato a reprimerla brutalmente. Nondimeno non è mai possibile impadronirsi di quella libertà. È la constatazione disperata che muove diversi autori di femminicidi ad accanirsi sul cadavere delle loro vittime per provare ad afferrare in extremis la dimensione, in realtà inafferrabile, della loro libertà.

La spinta all’appropriazione, al controllo e al sequestro della libertà della donna da parte degli uomini vorrebbe scongiurare il rischio della perdita. In gioco qui sono i destini del dolore legato all’esperienza della separazione che spesso troviamo, come nel caso di Giulia, alla base del passaggio all’atto femminicida. Di fronte alla fine di una relazione amorosa esistono due vie: la prima è quella del dolore del lutto, del trauma della perdita, del fallimento e della solitudine. L’uomo abbandonato o tradito è messo di fronte a una ferita narcisistica che deve riconoscere ed elaborare. La seconda via è quella della violenza che rigetta il lavoro del lutto per ribadire un diritto di proprietà e, di conseguenza, l’esistenza di un legame che esclude per principio la separazione. È questo il nesso profondo che unisce narcisismo e depressione: “Non sopporto di non essere più tutto per te, dunque ti uccido perché, in realtà, non posso riconoscere di non essere niente senza di te”. Questa dipendenza assoluta, di natura simbiotica, alimenta fantasmi di gelosia estremi dove la spinta a una possessività che vorrebbe sopprimere la libertà del partner si unisce alla sensazione di un profondo vuoto interno. In gioco è, cioè, un tipo di legame che non riguarda l’amore tra due adulti, ma una dipendenza anaclitica primaria che non può non evocare il legame originario con la madre.

Non a caso anche per l’assassino di Giulia non è difficile ipotizzare un lutto dei legami primari mai avvenuto. È un insegnamento che dovremmo sempre tenere presente: la violenza è un’alternativa all’esperienza dolorosa del lutto. Vale per gli individui come per i processi collettivi: la violenza viene al posto di un lutto impossibile. Nel caso di Giulia, come in diversi altri casi di femminicidio, la vittima si è trasfigurata in un prolungamento fantasmatico della madre senza la cui presenza la vita del soggetto è destinata a sprofondare nel nulla. È l’altra faccia del patriarcato: non quella dell’ ayatollah che perseguita sessuofobicamente la donna in quanto incarnazione del peccato, ma quella del figlio imbozzolato in legami primari senza essere in grado di viverne il lutto e che, come hanno raccontato recentemente i genitori di Filippo, per addormentarsi deve tenere regressivamente accanto a sé un orsacchiotto per non sentirsi cadere in un abisso di fronte ad una separazione che non è in grado di soggettivare.

È questa una cifra generale del nostro tempo: l’accudimento prolungato dei figli vorrebbe scongiurare il trauma benefico della separazione. La carenza simbolica della legge paterna che dovrebbe favorire il distacco dai legami primari si mescola qui con la tendenza a rendere la dipendenza da quei legami interminabile.

 Massimo Recalcati *1959       La Repubblica       25 novembre 2023           

www.repubblica.it/dossier/cronaca/25-novembre/2023/11/25/news/maschilismo_violenza_donne_femminicidio-421217607

Crepet: non fidarsi dei maschi è ragionare secondo genetica e tornare al nazismo

La tragedia di Giulia Cecchettin alimenta un dibattito pericoloso. Occorrono un’assunzione di responsabilità e la costruzione di relazioni autentiche. La tragica vicenda ha lasciato il segno, forse più di altre in cui le vittime sono donne uccise dal loro compagno, marito o fidanzato che sia. E ha innescato un dibattito che però – dice Paolo Crepet, *1951,  psicologo specializzato in problematiche educative giovanili – non è stato incanalato nella giusta direzione.

Più che interrogarsi sugli omicidi in quanto atti commessi dagli uomini, bisognerebbe spostare l’obiettivo sulla violenza che segna il nostro modo di vivere, su quella mancanza di relazioni interpersonali sane che fanno crescere i ragazzi e anche gli adulti. Occorre un’assunzione di responsabilità da parte di tutti. Anche l’idea di un’ora di sentimenti, in cui parlare, a scuola, di educazione affettiva, lascia il tempo che trova. Meglio, sostiene Crepet, una settimana bianca in cui i ragazzi possano stare con gli altri. L’educazione ai sentimenti si fa anche in parrocchia, nella squadra di calcio o di basket, nelle esperienze con gli amici: bisogna ricominciare dalla vita e imparare, lì, il rispetto.

A cosa ci pone di fronte una vicenda come quella di Giulia Cecchettin?

A tanti fallimenti. Prima di tutto quello educativo, non solo nei confronti dei bambini, dei ragazzi, ma anche tra di noi. Una reazione così forte come quella che si è verificata in seguito a questa tragedia non ci porta grandissima speranza. La teoria per cui non c’è da fidarsi perché noi maschi, nel migliore dei casi, siamo dei precursori delle violenze, se non degli assassini, quindi o assassini o inconsciamente assassini, mi sembra una teoria nazista: i nazisti ragionavano così, ovvero secondo genetica. Tutti i maschi sono tali geneticamente parlando, ma sono diversi tra loro per tutto il resto. Leopardi è diverso da Lucky Luciano: non è genetica, è cultura. Se questa diversità non esiste, tuttavia, allora vuol dire che anche le donne sono tutte uguali.

È questo il messaggio che è venuto fuori da questa vicenda?

Sì. Non è stato così, invece, nel caso di Cogne: credo che una donna non si identifichi in una madre assassina.

Cos’è che non funziona in questa lettura dei fatti?

                Rispetto a quello che è uscito mi aspetterei una donna che dicesse: “Non è esattamente così”. C’è una schizofrenia tra una parte politica che dice “Vogliamo l’ora di buoni sentimenti” e i maschi che, però, sono considerati tutti potenzialmente assassini. La violenza inizia sempre con le parole e allora bisogna stare attenti alle parole, perché sono pietre: vogliamo lapidare il maschio? In realtà ci vorrebbe un’assunzione di responsabilità da parte di tutti e due, uomini e donne. È una questione complessa che va risolta come tale. Oppure va bene così, e allora torniamo ai grembiulini rosa da una parte e a quelli azzurri dall’altra. Che lo si dica, però.

Qual è allora la discriminante tra un uomo capace di relazioni rispettose e uno che diventa omicida?

È l’esperienza di vita che ce lo dice, non l’appartenenza genetica.

Per quale motivo allora ci ritroviamo puntualmente a registrare femminicidi?

                Le statistiche dicono che, in maniera molto moderata, i casi sono in calo. I numeri non mi bastano: se anche gli episodi sono 103 o 104, finendo l’anno a 110, siamo di fronte a una quantità enorme. Il fatto che siano meno di dieci anni fa, insomma, non mi consola. Il problema vero è cosa facciamo. Dobbiamo andare oltre: non credo che il problema sia solo il femminicidio, ma la violenza, all’interno della quale c’è l’orrore dell’orrore che è l’omicidio. Nel caso della ragazza (Giulia Tramontano, nda) uccisa dal fidanzato (Alessandro Impagnatiello, nda) mentre era incinta, la donna aveva parlato con l’amante del suo uomo. È stata trucidata, ma non mi pare che dopo quel colloquio qualcuno sia andato dai carabinieri. Non lo dico per colpevolizzare, è per capire. Evidentemente è una situazione complicata.

Quanto complicata?

Ho avuto una paziente che mi ha stalkerizzato per anni, lo so quanto è difficile. Sono andato a denunciare, ma non è che questo risolve. Non basta andare al centro antiviolenza. Quando lo hai fatto va via l’ansia? Io avevo l’ansia di uscire di casa. Ce l’avevo ovunque andassi, avevo le guardie del corpo. Non voglio farla troppo semplice e concludere che anche le donne stalkerizzano, ma sottolineare che questo discorso non può essere ideologizzato. Che poi sono gli uomini che agiscono in maniera più definitiva e violenta lo so, ma il fenomeno non è maschile. La violenza è maschile, in gran parte forse, ma anche femminile. Vogliamo andare a vedere in una separazione in Tribunale chi tra l’uomo e la donna è più crudele, più aggressivo, chi fa più ricatti?

Di cosa c’è bisogno per comprendere la complessità del fenomeno?

C’è bisogno di tutto fuorché di ulteriore violenza. Questa ragazza che è morta davvero avrebbe voluto dividere il mondo con un pregiudizio così profondo, così totalizzante? Secondo me non avrebbe voluto essere motivo di tutto questo. Invece c’è questa vittimizzazione maschile per cui siamo tutti lì con il capo cosparso di cenere e non possiamo dire niente. E non faccio questo discorso perché sono un maschio. Se si parla di una figura come la madre che può diventare negativa, poi, apriti cielo. E perché? Non posso parlare male di una madre diseducativa? Non ho detto “di tutte le madri”. Nella mia esperienza ne ho vista una quantità esorbitante. Sto dicendo madre ma potrei dire padre, ovviamente. Sto dicendo che nessuno si può tirare indietro.

Da cosa possiamo cominciare?

Cominciamo dai bambini: pensiamo che sia meglio metterli insieme perché crescendo la loro sessualità possa essere concepita meglio? Allora pensiamo in modo positivo le nostre relazioni, ma così non posso arrivare alla conclusione di prima. Facciamo qualcosa di bello per i bambini senza pensare che il maschietto diventerà un assassino: è un problema culturale, educativo, non genetico.

C’è un problema di educazione alla relazione, sia in famiglia che fuori?

Un problema enorme.

Anche l’ora di relazione a scuola rischia di lasciare il tempo chi trova?

Cambiamo la scuola per quello che è. Favoriamo una scuola che duri più tempo, che sia a tempo pieno. Cosa significa il rientro pomeridiano di un’ora e mezza ogni tanto? Questo evento tragico ha aperto i cancelli a cose che mai mi sarei immaginato potessero essere dette, dal governo all’opposizione, senza soluzione di continuità. Come il rientro un’ora e mezza due volte al mese per questi corsi. Un’attrice nota mi ha detto: “Da qualche parte bisogna pure cominciare”. Cosa vuol dire? Che si va a caso? Siamo un Paese alla deriva. La mia paura è che qualcuno metta un mental coach [allenatore della mente]al liceo classico. Ho sentito con le mie orecchie che fra i candidati a questa accademia dei buoni sentimenti ci può essere un influencer [chi ha la capacità di influenzare]. Mi vengono i brividi. Non so se qualcuno abbia una vaga idea dell’universo degli influencer, degli o delle youtuber. Sono delle teste vuote.

                Ma questa educazione alle relazioni allora da dove comincia? Dalla famiglia? Dalla vita: un po’ in parrocchia, un po’ a basket, un po’ in discoteca, al baretto, a scuola. Anche giocare a pallone ti insegna i sentimenti: se dai un calcio alla tibia a quello davanti lui piange, hai fatto una cosa scorretta, te ne penti, chiedi scusa. C’è rispetto.

I sentimenti si imparano condividendo esperienze con gli altri. Però viviamo in un mondo che ti porta a pensare a te stesso e basta: un ostacolo che si può superare?

                Non si fanno più neanche le gite scolastiche: i ragazzi non ci vogliono andare, perché è una rottura di scatole, anche sabato e domenica preferiscono stare in camera. Tutto quello che era per generazioni e generazioni libertà, occasione di incontro, svago, gioia, adesso è orrore. I genitori sono ancora più contenti perché così non si fanno male, non devono preoccuparsi con chi dormono, né di cosa possono fare in albergo in montagna se fanno la settimana bianca con la scuola. Quindi meglio che stiano in camera da letto con il telefonino. In questa realtà, in cui famiglia e scuola si mettono d’accordo per non fare niente, arriva l’idea della Schlein e della Meloni dell’educazione sentimentale. La settimana bianca è educazione sentimentale: dovrebbe essere obbligatoria, e se c’è una famiglia che non ha i soldi dovrebbe pagarla lo Stato. Ci sarà casino alle 2 di notte? Possibile. Poi a volte è difficile anche trovare insegnanti che si prestano alle gite, perché rischiano una denuncia. Se ci sono ragazzi che si danno quattro schiaffi per via di una ragazza, il padre di chi le ha prese denuncia soprattutto il professore che non è stato vigile. Il risultato più ovvio, allora, è stare a casa.

                Paolo Rossetti                  Il sussidiario      23 novembre 2023

www.ilsussidiario.net/news/giulia-cecchettin-crepet-non-fidarsi-dei-maschi-e-ragionare-secondo-genetica-e-tornare-al-nazismo/2621825

Paolo Crepet “Noi genitori responsabili. I nostri figli cresciuti senza conoscere il rifiuto”

Cercare di spiegare l’inspiegabile. Identificarsi nei panni di chi ha vissuto e sta vivendo il più atroce degli incubi, ma non avere gli strumenti per gestire dolore, stupore, rabbia. Tutta Italia è rimasta atterrita dalla storia di Giulia a un passo dalla laurea, da Filippo che chissà come pensava di far perdere le sue tracce.

                Paolo Crepet, psichiatra e sociologo, come è possibile non saper più gestire una lite con la fidanzata? Da dove arrivano tutta quella rabbia e quella violenza che non siamo più in grado di controllare?

                «I nostri ragazzi non sanno gestire la frustrazione. Si mollano con la ragazzina e vanno fuori di testa, senza proporzione. Ma questa è colpa dei genitori che non glielo hanno insegnato. O meglio, che non li hanno lasciati liberi nella vita di impararlo con le loro esperienze, correndo sempre a proteggerli».

Cosa sbagliamo nell’educazione dei nostri figli?

«Pretendiamo di proteggerli da tutto, non permettiamo che si creino gli anticorpi per affrontare sfide e delusioni. Da quando sono piccoli. Cascare dal cavallino a dondolo e farsi un po’ di male fa parte della vita. Noi, da idioti, che facciamo? Mettiamo la gomma piuma attorno al cavallino».

Troppa gomma piuma, insomma.

«È come chiedere a Jannik Sinner di giocare una partita di tennis senza punteggio. Che senso ha eliminare i voti, le pagelle, le bocciature? Stiamo crescendo ragazzi che non sono più in grado di affrontare la sconfitta. Gli facciamo noi lo zaino, come se non fossero in grado. Del resto – parlo ovviamente in generale – sono i genitori i primi a voler essere eternamente giovani. E quindi è ovvio che i loro figli a loro volta non crescano».

Ultimamente dietro a molti femminicidi c’è il bravo ragazzo che di colpo diventa omicida. Cosa succede?

«Non mi pare ultimamente. Succede che non ascoltiamo. Non impariamo mai dal passato. Dietro al delitto del Circeo chi c’era? Un bravo ragazzo. Pasolini lo aveva detto a suo tempo, totalmente ignorato».

Allora cosa dovremmo imparare dal passato?

«Smettiamo di ragionare in base allo schemino dell’uomo assassino e della donna vittima. Non è così. C’è un film di Marco Ferreri del 1963 intitolato “Una storia moderna. L’ape regina”, parla di una donna che ha ridotto il marito a una specie di fuco. L’avevano capito pure i greci. Basta con l’idea del maschio fallocratico. Andiamo oltre».

Però siamo arrivati a 105 femminicidi.

                «Le madri hanno insegnato alle figlie a sopportare. Ma perché? Ci sono donne che hanno sopportato l’insopportabile: mariti violenti o alcolizzati. Ma perché hanno trasmesso questo concetto alle figlie come fosse un valore da tramandare di generazione in generazione? È ovvio che l’amore debba essere il contrario della galera. È ovvio che solo una mente illiberale possa partorire l’idea di geolocalizzarmi»

E allora che consiglio dà ai genitori?

«Mamme, papà siate rivoluzionari. Insegnate ai vostri figli a essere liberi. Lasciateli sbagliare, altrimenti non cresceranno e a 22 anni non sapranno gestire cose che avrebbero dovuto imparare a gestire a 16. Discostatevi dall’idea che la società ha di normalità. Cosa vuol dire avere un figlio normale? Vuol dire avere il bravo ragazzo che si fidanza con la ragazzina carina con la gonna corta ma non troppo, che sembra Taylor Swift?

Gli adulti dovrebbero per primi discostarsi dal concetto di «normale»?

                «Pensiamo che aver raggiunto uno stato di vita in cui andiamo fuori città il fine settimana, abbiamo la jacuzzi e quattro soldi in tasca sia una sorta di paradiso che ci rende felici. Questo vuol dire banalizzare. E allora poi abbiamo bisogno di distruggere e chiamiamo la violenza amore».

                Cosa pensa dell’introduzione dell’ora di affettività nelle scuole e dell’idea di formulare una legge?

                «No visto la proposta della Schlein e sto seguendo quel che dice la Meloni. Bello, bello, se vogliamo metterci la coscienza a posto. Ma poi chi va a insegnare queste cose all’istituto di Gorgonzola? L’affettività e i sentimenti non si insegnano a scuola. Si imparano per strada, in famiglia, ovunque».

Maria Sorbi          il giornale                             20 novembre 2023

www.ilgiornale.it/news/politica/noi-genitori-responsabili-i-nostri-figli-cresciuti-senza-2243892.html

Paolo Crepet: «Non è stato un raptus. Bisogna cogliere i segnali, non si diventa un “lupo” in una notte»

Lo psichiatra: “Abbiamo creato dei ragazzi che non conoscono la frustrazione, che non sanno che esistono anche i no”

Paolo Crepet premette: «Non conoscendo quel ragazzo, non mi avventuro in nessuna diagnosi». Lo psichiatra e sociologo, autore di tantissimi libri sui giovani, è però certo di una cosa: «Non credo che sia nato tutto quella sera, non è stato un raptus. I raptus sono nei fumetti».

Professor Crepet, dopo una settimana è stato trovato il corpo di Giulia Cecchettin e l’indiziato è il suo fidanzato Filippo Turetta.

«Non posso dire niente del caso specifico, spero solo che non si cominci con la solita storia di periti e controperiti, sarebbe insopportabile per chi ha voluto bene a quella povera ragazza».

Chi lo conosceva dice che Filippo era ancora innamorato di Giulia.

«In questo contesto la parola innamorato proprio non la userei. Il solo pensare che una ragazza sia come una motocicletta, una proprietà, non c’entra niente con l’innamoramento. È una concezione medievale».

Però succede.

«Appunto, ed è successo in Veneto, in una delle zone più produttive e ricche del paese, in quella che è stata definita la locomotiva d’Italia. Non è successo in una periferia del Meridione catalogata con il solito bla-bla».

E questo cosa significa?

«È la prova provata che la violenza e il pregiudizio nei confronti della donna non hanno nulla a che vedere con quello che dicono i soliti quattro sociologhi. Qui siamo nel cuore del Nordest. Ci sono le villette, i giardini ben curati, un mondo che pensavamo essere privilegiato. È felice. Invece no. Abbiamo i soldi, ma non la felicità. Ci sono giovani che non sanno distinguere i sentimenti: come si può parlare di amore quando fai quaranta telefonate a una ragazza?».

In genere, in cosa sbagliano i genitori?

«Sbagliano a giustificare sempre e comunque i figli. I ragazzi vanno male a scuola? Poverini. Prendono un’insufficienza? Colpa dei professori. Vengono bocciati? Ricorso al Tar. Abbiamo creato dei ragazzi che non conoscono la frustrazione, che non sanno che esistono anche i no».

Le famiglie, dunque.

«È da trent’anni che lo dico. Così come ho detto che la scuola è il luogo dei ragazzi e dei loro insegnanti e che i genitori neanche dovrebbero entrarci. Già questa sarebbe una rivoluzione».

Quanto hanno influito i social?

«Tantissimo. Ho coordinato una ricerca sul rapporto tra social e generazione Zeta, è emerso che quello che i giovani temono di più è il “ghosting”. Chatti con il Lorenzo di turno e a un certo punto Lorenzo sparisce. Non lo reggono. Capitava anche alle generazioni precedenti quando non c’erano i social, ma non erano drammi».

Cosa dice ai genitori italiani?

«Anche ai genitori europei, perché non è che negli altri paesi la situazione sia tanto diversa: smetterla di tutelare i loro figli. Sa che cosa rispondo a quei padri e a quelle madri che mi chiedono un consiglio? Di fare l’esatto contrario di quello che stanno facendo».

Perché i genitori hanno questa ansia di tutelare i figli?

«Perché hanno sensi di colpa. Su tutto. Pensano di non avere difeso abbastanza le loro creature. E invece dovrebbero dire: arrangiatevi».

Tornando a Filippo e Giulia, pensa ci sia stata premeditazione?

«Non faccio il mago, ma credo che non sia nato tutto quella sera, i raptus sono solo nei fumetti. Non si diventa lupo in una notte».

                Ci sono segnali che si possono cogliere?

«Certo. Ma bisogna farsi aiutare. Il che non significa andare dallo psicanalista. Basta un’amica, ma serve tempo. E non ci si aiuta in chat, ci si aiuta andando a fare una passeggiata, stando assieme, parlando. Vale anche per l’ultimo appuntamento: non si va mai da sole, si va con qualcun altro, ma questo comporta essere complici. La complicità nelle relazioni – gli amici, i familiari, l’allenatore, l’insegnante – è la salvezza».

Maria Sorbi        Il giornale           20 novembre 2023

www.ilgiornale.it/news/politica/noi-genitori-responsabili-i-nostri-figli-cresciuti-senza-2243892.html

RIFLESSIONI

Che cos’è l’uomo?

Per la prima volta nella storia l’umanità è costretta a uscire dalla logica della guerra tra i popoli e del depauperamento incondizionato dell’ambiente. Sembra che possa iniziare un’inversione di tendenza con l’assunzione di consapevolezza che così non si può andare avanti, pena la distruzione dell’umanità e la desolazione della terra. Se negli ultimi decenni avevamo constatato in maniera crescente di procedere a grandi passi verso la barbarie (e lo abbiamo denunciato più volte su queste colonne!), sembra ora emergere una reazione che non è ancora quell’“insurrezione delle coscienze ” invocata da Pierre Rabhi, ma è un ribadire nuovamente il bisogno urgente di umanizzazione.

Sono significativi, a questo proposito, i titoli di alcuni saggi filosofici e sociologici che chiedono di umanizzare la modernità, la politica, la società… Di fronte alle crisi globali che si sono abbattute su di noi, come affermare un umanesimo che sia un obiettivo perseguito dalle diverse umanità che sono parte di un tessuto della vita, della comunità globale?

La domanda seria, urgente che dobbiamo porci non è su Dio ma sul mondo umano: “Che cos’è l’umano?”. Domanda in realtà antica, che significativamente ritroviamo all’inizio e alla fine del Salterio ebraico: “Che cos’è l’uomo?”.

Dobbiamo rifarci queste domande soprattutto oggi, perché l’umano è schiacciato tra l’inumano e il post-umano. L’inumano lo conosciamo bene come possibilità di depredazione e negazione dell’umano stesso: quando l’uomo è ridotto a res, cosa, umiliato e ridotto al nulla, stravolto dall’odio e dalla violenza, misconosciuto nei migranti che invocano solo compassione, l’inumano regna e nega il volto alla persona. Certamente resta sempre un impegno il discernimento del disumano anche nella nostra vita quotidiana, nei rapporti personali tra familiari e conviventi, là dove viene a mancare la parola indirizzata, il rispetto che sa riconoscere l’altro, la mitezza che può assicurare la pazienza reciproca.

Tuttavia oggi l’umano è sfidato anche dal post-umano, da quel nuovo stadio evolutivo dell’umanità nel quale l’intreccio tra biologia e tecnologia diventa sempre più onnipresente. Dovremmo nutrire molta trepidazione di fronte a queste nuove opportunità che potrebbero arrivare a negare il corpo per sostituirlo con strutture artificiali munite di elementi di intelligenza umana. All’homo sapiens succederà la macchina sapiens? E questo non è forse segno di un delirio di onnipotenza che vorrebbe essere capace di transumanesimo fino a negare la mortalità? Nutro una tale fiducia nell’umanità da non credere possibile tale deriva e resto convinto che ancora una volta l’homo sapiens saprà rispondere in modo vitale alla domanda che lui solo sa porsi: che cos’è l’uomo?

Perché c’è nell’umanità un sigillo che può essere calpestato e negato, ma che è indistruttibile e giace come indistruttibile nel suo profondo: la fraternità. Questa ha la forza di emergere così come la terra dopo l’acqua, il fuoco, il vento, lascia spuntare l’erba e riprendere la vita.

Enzo Bianchi      “la Repubblica”               20 novembre 2023

www.repubblica.it/rubriche/2023/11/20/news/altrimenti_del_20_novembre_2023-420769591

SACERDOTI

I preti “tremendamente soli”. Dibattito

L’articolo della settimana scorsa sulle fatiche e le solitudini del prete oggi ha suscitato molti commenti. Ho chiesto ad alcuni amici di rispondere alle questioni poste. Queste sono una parte delle loro risposte

Si parla di ministero. Non si parla di noi. Ho letto e riletto con interesse… condivido. Tra noi sacerdoti c’è una fraternità ministeriale ma non umana… Ci troviamo sempre per parlare del ministero ma ce ne guardiamo di parlare di noi… Siamo forse limitati da una… deformazione professionale. Chiamati spesso a dire la nostra su tutto, forse temiamo il giudizio. Non c’è come il sentirsi giudicato che impedisce ad una persona di aprirsi. Non credo che siano i tanti impegni, per quello basta sapersi organizzare, come fanno le famiglie…

I preti giovani spesso sono senza regole e senza orari. Condivido l’analisi. In questo anno, negli incontri dei preti, ai quali peraltro partecipa un terzo del clero, si affrontano problemi esterni (veri certamente) ma si fatica a parlare di sé stessi. Ritengo comunque che si debba intervenire con una terapia rapida perché la malattia è seria. Vedo preti giovani che mangiano ora qua ora la; la loro casa è grande ma vuota. Non hanno orari. Un marito che ha l’amante deve tornare a casa ad una certa ora perché altrimenti la moglie lo strilla! Ma il prete se torna alle due di notte, chi lo strilla? Come si può vivere così? In una diocesi che conosco bene ci sono i presbiteri che vivono insieme; non è tutto oro colato tuttavia è più umano.

Si finisce per “bruciare” per via dell’obbedienza, della fatica a pregare, dell’affettività. Ho sentito per la prima volta parlare di burnout all’inizio del mio cammino di prete, durante gli incontri appositamente pensati per noi, da poco entrati nel “ministero sul campo”. Ce ne parlò don Luigi Castellazzi, psicologo e psicoterapeuta con ampie e profonde competenze. Ma questo termine, e la concreta realtà che porta con sé, l’ho sentivo come una minaccia lontana per me, che ero carico dell’entusiasmo degli inizi. La parola ha a che fare col “bruciare”… ma io mi sentivo di bruciare di amore per Dio e per i fratelli da servire (nello specifico dell’oratorio), proprio come la nostra formazione in seminario ci aveva proposto e motivato a fare. Poi gli anni passano, una certa maturità si trova ad andare a braccetto con una realtà che non è sempre rosea (in merito al tema della fede ma non solo…) o apportatrice di prospettive positive. Il bruciare diventa allora uno scottarsi a contatto con quei “fuochi incustoditi” che sono ora la questione dell’ obbedienza (ai superiori ma anche ad una vita quotidiana che comincia a diventare “impegnativa”), ora la fatica del pregare e coltivare il mondo interiore, ora la faccenda dell’affettività nelle sue varie e “corporee” sfaccettature, ora la domanda sull’efficacia di una certa pastorale fatta di ritmi serrati, tradizioni che perdono di significato e molteplici incombenze… Col rischio che lo “scottarsi” diventi un vero e proprio bruciarsi definitivo, il burnout appunto!

Il troppo lavoro e il troppo potere ci schiaccia. Urge intervenire. Provo a mandarti alcune sensazioni dopo averlo letto un paio di volte. La prima sensazione ascoltandolo è di sollievo, cioè una conferma “non è solo una mia percezione” ma un dato di realtà, un dato di fatto che non solo condivido ma vivo! Interessante e necessario il “funzionario supervisore pastorale”. Mi domando: ma è mai possibile che uno nominato parroco diventa automaticamente presidente di una scuola d’infanzia? Si trova sulle spalle un’azienda da gestire (sicuramente – se ci sono… – i volontari fanno una buona parte) senza competenze e corre disperatamente alla ricerca di figure che possano gestire… ma poi la responsabilità rimane del parroco. Troppo “potere” in mano ai parroci e veniamo schiacciati da questo… Da quando sono prete questi temi (gestione dei beni, burocrazia, ecc… che oggi si moltiplica x 1,2,3,4,5 parrocchie) sono stati SEMPRE sollevati… È necessario e doveroso non solo affrontarli ma prendere scelte concrete. Non si può più aspettare… chi gestisce 1 – 2 … 10 chiese? 2/3 case parrocchiali oratori e via discorrendo? I1 parroco! O cambiamo impostazione e il modo di “essere e fare il prete” altrimenti uno sceglie un’altra vita. Come chiesa bergamasca siamo vicini a tutti… e ai preti? ma uno “sportello” per i preti con SPECIALISTI non solo PRETI siamo carenti e sfuggenti… uno deve procurarselo se ha ancora il tempo e la voglia di farlo…

Ho trovato collaboratori capaci. Mi sono fidato di loro e loro si sono fidati di me. Amo profondamente la mia solitudine, che spesso devo cercare e a volte difendere. La sento come una compagna necessaria per affrontare l’aspetto spirituale della mia vita, tanto quanto le questioni più esterne a me e riguardanti la mia comunità. Ci sono senz’altro passaggi veri: in primis il carico di impegni che si presenta al prete uscendo dal seminario, e soprattutto la loro varietà; la maggior parte dei quali non appartiene affatto allo specifico del prete. Spesso ci si sente come quelli che dovrebbero saper fare tutto e il contrario di tutto. Tuttavia la mia esperienza, forse sono stato particolarmente fortunato, mi ha fatto incontrare parrocchie dentro le quali ho trovato gente capace, disponibile alla collaborazione, e che sempre mi ha supportato se non addirittura sostituito in molti di quegli impegni sui quali non avevo proprio alcuna competenza. Ovvio, delegando non ti sgravi della responsabilità. Quella resta. Ma su questo si gioca la fiducia con le persone e con i collaboratori. D’altra parte anch’essi si fidano del prete. D’altra parte questa è anche una delle radici della fede. D’altra parte fede e fiducia sono la stessa parola.

Ascoltarsi, ascoltare, essere ascoltati. Tra noi preti di Bergamo ci sono tanti (e a volte silenziosi) gridi inascoltati o problemi indirizzati verso soluzioni non adatte, non adeguate… C’è ancora forse troppo il legame ad una istituzione intesa come struttura rigida, che rallenta le prospettive o i progetti “altri”, i tentativi di una pastorale “diversa” e diversificata, le idee che nascono dalla fantasia dello Spirito operante nei singoli… Non so dire quale sia la strada giusta, non ho risposte… ma ho voglia, come tanti altri, di essere contento del mio essere uomo, e del mio sacerdozio che ne è parte integrante! Sento il bisogno di spazi di confronto e di condivisione e di scelte concrete che scaturiscano dal nostro esserci parlati, chiariti, a volte scontrati in vista di un bene maggiore! Cerco di impegnarmi in una formazione continua ed integrale (spirituale, culturale, sociologica, aperta ai temi attuali, umana…) per non rischiare di cadere in quella mediocrità che abbassa tutti i livelli. E mi auguro che in questo possa sempre (io come i miei confratelli) essere affiancato e supportato da qualcuno che ha a cuore la causa dei preti… ascoltarsi, ascoltare, essere ascoltati!

Parroci troppo clericali, preti giovani troppo “sacrali”. Serve una Chiesa più leggera e noi preti dovremmo imparare a convertirci (e non solo chiedere la conversione degli altri). Mi guardo in giro e vedo un clero bergamasco troppo individualista e un clero giovane troppo sacrale… I miei confratelli parroci sono troppo accentratori e, lasciamelo dire, clericali. Servono parroci capaci di valorizzare i numerosi carismi, capaci delegare, delegare, delegare. In fondo, la vigna non è nostra, è di tutti i battezzati. Sarebbe bello coinvolgere anche i laici in questa discussione. Non basta parlare di Sinodo, bisognerebbe imparare ad esercitare lo stile della sinodalità. Con i confratelli è raro avere profondi rapporti di amicizia e confronto. Ma non abbiamo scelto di diventare monaci. Siamo preti diocesani e se solo lo volessimo l’offerta formativa, quella di sostegno personale, spirituale, psicologico e tecnico dalla diocesi non manca. A volte siamo un po’ troppo ritrosi nei confronti di queste proposte.

                Servirebbero dei preti fanno visita ai preti. Grazie per aver scritto un articolo su argomenti che noi preti sentiamo e che tuttavia, forse perché rassegnati, preferiamo non affrontare perché siamo fondamentalmente convinti che siano inutile parlarne. Non è vero. Una prima cosa. A volte ci sono preti che si lamentano per poco ma si sa benissimo che la vita è fatta anche di impegni che non sempre sono aderenti al Vangelo e alle mani giunte. Siamo nel mondo e dobbiamo vivere anche di queste cose. Che è lo stesso che capita ogni giorno alle mamme e ai papà di famiglia. Serve uno sguardo di realismo per non desiderare una vita che sta solo nel mondo dei sogni. Tante volte i preti anche quelli giovani hanno la presunzione di sapere tutto, di farcela sempre da soli. In realtà appena si rendono conto che le difficoltà sono tante ripiegano su cose che piacciono a loro, i loro hobby, le loro stranezze (la sagrestia tra queste) e stanno su questi aspetti marginali. Fammi dire una cosa sulla fraternità. È buona la riforma diocesana in atto però tutto questa organizzazione ha senso se ci sta dietro una cura, una premura. Trovo strano che non si sia mai preso in seria considerazione  immaginare di avere uno o due confratelli  che non fanno altro che girare e incontrare preti. In questo modo si creerebbe quel terreno e quei legami che rendono significative le proposte finalmente comprese e non subite come imposte. Bisogna creare legami e relazioni.

Il molto fare pesa. Ma pesa di più il non percepire il motivo per fare. La questione del burnout è molto citata ma non sono del tutto convinto che questa sia dovuta al sovraccarico reale di cose da fare quanto la percezione che se ne ha. È vero che dobbiamo fare molte cose ma spesso tante di queste non riescono a trovare una cornice di senso sufficientemente motivante e appagante che dà l’impressione che le cose abbiano una loro sensatezza, un loro scopo. Questo mi pare oggi il vero problema del ministero. Il riconoscimento sociale non c’è più e non è certo da cercare ma manca un riconoscimento del ruolo e dello scopo. Paradossalmente questa interlocuzione è più facile con chi sta fuori la chiesa piuttosto che con chi è dentro. Ti senti poco rilevante per la vita delle persone. A meno che tu non ti senta il prete dell’arte, della pace, dell’animazione.. A volte, nel disorientamento, ti viene la domanda: per cosa vale la pena far fatica? Sto mantenendo in piedi un’istituzione e basta? Certo che il Regno di Dio merita fiducia ma in che forma lo si coglie? A questa domanda è oggettivamente difficile dare risposta. Soprattutto oggi, tempo di transizione. Ma verso dove? Anche perché quasi sempre te la devi cavare da solo, in una specie di delega che senti, a volte, come abbandono e dove le parole che usiamo spesso – fraternità e presbiterio in primis – rischiano di essere parole vuote.

Siamo incapaci di lavorare insieme e di formarci reciprocamente. Condivido. Mi stupisce che non saltino fuori le aspettative che ci sono sul prete anche da parte di una comunità che comunque chiede di tutto e di più e non è stata educata ad accettare che se il prete non fa una cosa non è perché è un fannullone. Serve cambiare l’idea di comunità cristiana e di chiesa. Una forma adeguata al presente dove capisci che non puoi più tener dentro tutto. Altrimenti è una giungla dalle quale difenderti ogni giorno. Ti può aiutare – e per me è stato così – la vita comune con i preti anche se è evidente la nostra incapacità di lavorare insieme e di formarci. È evidente che non c’è amicizia né fraternità tra i preti. Temo che non siamo capaci di relazionarci, di volerci bene, di prenderci cura uno dell’altro. C’è sempre il sospetto fortissimo che l’altro – il confratello – ti giudichi. Credo poi che oggi non sia vero che non si voglia più fare il prete: non si vuole più fare il parroco! Bisogna anche qui trovare un’altra forma. Ma vedo in giro poco disponibilità a farlo…

Daniele Rocchetti           16 novembre 2023https://labarcaeilmare.it/rubriche/i-preti-tremendamente-soli-dibattito/

SINODO

Sinodo in Germania, ora spunta anche una lettera del cardinale Parolin

Il Tagepost pubblica un testo del 23 ottobre scorso

 Una settimana fa Papa Francesco aveva scritto in una lettera quello che pensava di certe derive del “Cammino sinodale” della Chiesa cattolica in Germania. Ora grazie a CNA Deutsch, il partner di notizie in lingua tedesca di CNA, conosciamo anche una lettera del 23 ottobre scritta dal cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, e indirizzata al Segretario generale della Conferenza episcopale tedesca, Beate Gilles, che è stata condivisa con tutti i vescovi tedeschi.

                La lettera del Cardinale Parolin che si occupa per mandato del Papa del Sinodo in Germania è stata pubblicata il 24 novembre dal quotidiano Tagespost. La lettera ricorda che in Vaticano è in corso il Sinodo sulla sinodalità e “considerando il corso della cammino sinodale in Germanio finora, bisogna prima rendersi conto che si sta svolgendo una via sinodale universale, convocata dal Santo Padre” ed è “quindi necessario rispettare questo percorso della Chiesa universale ed evitare l’impressione che siano in corso iniziative parallele che sono indifferenti allo sforzo di “viaggio insieme”.

                Sul tema del sacerdozio femminile verso il quale spinge il “Sinodo” in Germania la lettera ha ricordato ai vescovi tedeschi che Papa Francesco ha ripetutamente e “espressamente riaffermato” ciò che Papa Giovanni Paolo II scrisse in “Ordinatio Sacerdotalis” che la Chiesa non aveva “nessuna autorità di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne“.

www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_letters/1994/documents/hf_jp-ii_apl_19940522_ordinatio-sacerdotalis.html

La lettera cita Papa Francesco sull’importanza di riconoscere il ruolo e la dignità delle donne – dato che “una donna, Maria, è più importante dei vescovi“, come ha detto il Papa in “Evangelii Gaudium” – la lettera ha anche avvertito di “conseguenze disciplinari” per coloro che contravvengono alla dottrina, compresa la potenziale scomunica per “tentativo di ordinare una donna”.

                A proposito della questione omosessuale nella lettera di Parolin si legge che questa è “un’altra questione su cui una Chiesa locale non ha la possibilità di avere una visione diversa“. e aggiunge: “Perché anche se si riconosce che da un punto di vista soggettivo ci possono essere vari fattori che ci chiedono di non giudicare le persone, questo non cambia in alcun modo la valutazione della moralità oggettiva di questi atti“.

                La nota del Vaticano fa anche riferimento alla lettera del 2019 di Papa Francesco ai cattolici in Germania. In esso, il Papa ha messo in guardia contro “il grande peccato della mondanità e dello spirito mondano anti-evangelico“.

                Intanto sul sito della Conferenza episcopale tedesca le ultime notizie sul “Cammino” sono del 16 novembre con la costituzione della Commissione sinodale di cui il Vaticano ha negato il diritto all’esistenza.

E intanto i capi dei dicasteri per la Dottrina della fede, per la Promozione dell’unità dei cristiani, per i Vescovi, per la disciplina dei Sacramenti e per i Testi legislativi hanno in programma degli incontri con i  rappresentanti dei vescovi tedeschi a gennaio, aprile e giugno 2024 per discutere su ciò che nella dottrina e nella disciplina della Chiesa è immutabile e ciò che può essere cambiato.

Angela Ambrogetti         ACI Stampa Berlino                       25 novembre 2023

www.acistampa.com/story/sinodo-in-germania-ora-spunta-anche-una-lettera-del-cardinale-parolin?utm_campaign=ACI%20Stampa&utm_medium=email&_hsmi=283957228&_hsenc=p2ANqtz-90J-qlzdXzwl8sVgwbCtRMwoTxb4oH3LWX3DxrPOCC2dhQsgI_YRsVlYQ7ZCmdyHHsXd94ht8H-oDhw-OGI2H-tI3BYw&utm_content=283957228&utm_source=hs_email

TESTIMONI

Il profeta della pace

La storia di un uomo di 100 anni è impossibile da raccogliere in poche righe. Bettazzi, che è mancato a pochi mesi dal traguardo del secolo (che avrebbe raggiunto il 26 novembre 2023), è stato un gigante del nostro tempo. C’è una vita lunga di seminatore di speranza nel segno di Gesù e del Vangelo, con i passaggi cruciali della vita della società e della Chiesa nella storia contemporanea: da Treviso a Bologna, da Roma a Ivrea, dall’Italia al mondo. La sua vita è stato un colloquio, corale, disteso e famigliare nella logica del noi e non dell’io. Una vita nella quale emergono alcune parole chiave, realtà e domande, speranze e sofferenze spesso inevase.

Un viaggio introspettivo nella memoria di un uomo di fede che ha saputo e ancora riesce a sorprendere e sorprendersi a parlare di Cristo e della sua Parola di salvezza in un modo plurale, diviso, spesso indifferente ma sempre alla ricerca di un senso delle cose e soprattutto del vivere. Fiumi di parole sono stati spesi per raccontare la nostra società liquida e globalizzata dove confini e riferimenti sociali si perdono e si ricompongono in modo fluido e precario, mentre il potere s’allontana dal controllo delle persone. Eppure, da tutta questa generale indefinita struttura sociale, ecco materializzarsi e moltiplicarsi in tutto il mondo solidi muri di pietra o di filo spinato, vigilati dagli uomini e dalla tecnologia.

Pellegrino sulle strade del mondo. Mons. Luigi Bettazzi, per tutta la sua esistenza, è stato uomo del dialogo. Si è raccontato con pudore e sapienza, coraggio e ironia ma si è soprattutto interrogato. Ha sperato e pregato e ha continuato a domandarsi il senso della vita fino all’ultimo respiro: per dare forma e sostanza all’essere uomini e donne del proprio tempo. La famiglia, le sue città e poi le speranze e gli orizzonti: il Concilio, la pace, il dialogo, sono queste le parole chiave di un libro intenso e semplice nella sua profondità. Nella linearità e nella dolcezza felice ma mai banale delle parole del vescovo del Concilio è significativa la stagione dell’impegno culturale nella FUCI vissuta a Bologna, città rossa per antonomasia, stretta nell’antinomia tra il sindaco comunista Giuseppe Dozza e il cardinale Lercaro.

Così come il suo legame con la piccola diocesi di Ivrea, millenaria per la sua storia, negli anni del postconcilio, in cui Bettazzi si confronta con il mondo nel suo microcosmo locale e nello stesso tempo attratto e plasmato dalla sua dimensione globale. A Ivrea, in una Chiesa interna a un tessuto industriale e sociale che ancora resiste dalla morte dei suoi fondatori, Camillo e Adriano Olivetti, si apre il campo d’azione pastorale, spirituale e politico del giovane vescovo.

E più della paura, Bettazzi mette sul piatto della bilancia il coraggio della speranza, il coraggio del pluralismo democratico e della rottura d’uniformità calate dall’alto. Sospinto dalla «spes contra spem», una locuzione latina cara a Giorgio La Pira, Bettazzi osava l’attraversamento del guado, accompagnato da una Chiesa in ascolto dei segni dei tempi, inciampi e ritardi compresi. Del resto, il suo sacerdozio non è mai arretrato dinanzi alle situazioni complesse.

La famiglia e gli anni della formazione. Nato a Treviso da una famiglia in parte piemontese e in parte emiliana, in Veneto matura la sua vocazione che diventerà tale a Bologna, la sua terra di formazione che per trent’anni l’avrebbe cresciuto e dove la sua famiglia è rimasta, a San Lazzaro di Savena. È il mondo di Lercaro, Dossetti, il cattolicesimo sociale e culturale della dotta Bologna ma dentro la temperie del fascismo e della guerra, mentre Luigi studiava teologia a Roma e filosofia a Bologna. È nel mondo della FUCI e dei Laureati cattolici che dal 1946 don Luigi muove i passi del pastore assistente: i congressi, le settimane teologiche a Camaldoli, i viaggi nelle università e nei gruppi, egli diventa per la sua intraprendenza e la capacità innata di dialogo un riferimento.

                Nel 1963, la svolta grazie a papa Montini e mons. Lercaro, il biblista genovese, cresciuto negli ambienti della stagione del rinnovamento della Chiesa locale degli anni Trenta del cardinale Carlo Dalmazio Minoretti, primo tra i grandi della riflessione ecclesiologica del Novecento – come don Giuseppe Siri, don Franco Costa e don Emilio Guano –. Il 10 agosto Paolo VI lo nomina vescovo titolare di Tagaste e ausiliare di Bologna. Il 4 ottobre successivo riceve l’ordinazione episcopale, e diventa il primo collaboratore del card. Giacomo Lercaro.

Il fondamento dell’esistenza di Luigi Bettazzi è sicuramente rappresentato dal Vaticano II, che cercherà di testimoniare per tutta la sua vita. All’annuncio di Giovanni XXIII del 25 gennaio 1959, e poi all’indizione nel 1962, Bettazzi non poteva ancora conoscere il suo destino e il suo percorso di testimonianza. Comprese fin da subito che stava per accadere qualcosa di epocale, un cambiamento profondo di cui forse non si resero conto neppure i futuri padri conciliari. Allora monsignor Luigi Bettazzi aveva 39 anni. Avrebbe partecipato direttamente al Concilio a partire dalla seconda sessione, come ausiliare del card. Lercaro, arcivescovo di Bologna.

Il Vaticano II vissuto in prima persona. Quando entrò in Concilio Bettazzi stava per compiere 40 anni. L’assemblea era raccolta in lunghi banchi a gradini nel corridoio centrale della Basilica, con il posto assegnato secondo la data della propria nomina vescovile: presso l’altare i cardinali e i patriarchi, poi, verso l’ingresso, gli arcivescovi e i vescovi; ovviamente agli inizi lui era tra gli ultimi. Bettazzi si trovò così immerso nell’episcopato mondiale, con vescovi dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina, e comprese perché la Chiesa si definiva cattolica, cioè universale, mentre fino ad allora in molti pensavano quasi che la Chiesa coincidesse con Roma.

Bettazzi ha raccontato nei sessant’anni successivi lo spirito di libertà e novità nella Chiesa: le discussioni nei corridoi laterali lungo le soste (c’erano pure due bar di analcolici), ma anche al centro, nel corso dei dibattiti sui documenti che venivano man mano distribuiti. Era stato lo stesso papa Giovanni a incoraggiare questa libertà di discussione, rimandando di qualche giorno la votazione per le commissioni dei vescovi circa i vari argomenti, contro quelle proposte dalla Segreteria – praticamente dalla curia vaticana – e rimandando d’autorità a rifare il documento sulla rivelazione, rifiutato da una maggioranza troppo esigua per essere accettata dalle norme imposte alla discussione.

L’assemblea si rese conto, e il giovane vescovo Bettazzi ancora di più, che ad avviare le discussioni erano in genere i vescovi più organizzati, come i tedeschi e gli olandesi, abituati a dialogare con i protestanti, o i francesi e i belgi, abituati a muoversi in ambienti laici. Gli americani del Nord insistevano sulla libertà religiosa, i latinoamericani per una Chiesa attenta ai poveri. Al termine del Concilio Bettazzi fu l’unico italiano tra i 50 padri conciliari che firmarono il Patto delle catacombe per una Chiesa povera e dei poveri

Del Vaticano II, dove contribuì anche alla riforma liturgica, fortemente voluta da uno dei suoi mentori, il card. Lercaro, e al cambio d’approccio della Chiesa verso la società – non più arroccamento e scontro, ma solidarietà e dialogo –, don Luigi è stato nei decenni successivi un instancabile e appassionato testimone e divulgatore.

Ironico e tagliente, anche a colpi di barzellette rimaste iconiche nella memoria di chi ha avuto la fortuna d’ascoltarlo in giro per l’Italia. Una su tutte, quella che ha per protagonista il cardinale Alfredo Ottaviani, mastino dell’ex Sant’Uffizio, che prende il taxi per andare al Concilio. Dove? «Ma a Trento e dove sennò?», è la domanda retorica dell’alto prelato al povero tassista.

                Dall’Italia del postconcilio alle trasformazioni sociali, dal terrorismo alla criminalità organizzata, dalla mutazione profonda della società nazionale alla secolarizzazione, dalla politica all’economia, dal globale al glocale, Bettazzi non ha mai rinunciato a essere in prima fila, anche quando la sua esposizione rischiava d’essere fraintesa.

Il postconcilio e la nuova Italia. Come accadde nel 1976, quando inviò una lettera a Enrico Berlinguer, segretario del Partico comunista italiano (PCI), il più grande partito comunista dell’Occidente. Quella missiva suscitò un’eco profonda nel mondo politico e nella Chiesa. Berlinguer confidò privatamente e poi pubblicamente il suo interesse ad aprire la finestra di un dialogo inedito con un vescovo di santa romana Chiesa, nel momento in cui era maturato nel paese il «compromesso storico» tra il PCI e la Democrazia cristiana guidata dal pensiero di Aldo Moro. Il vescovo di Ivrea rifiutò. La sua non fu una scelta personale. Dalla curia romana gli era arrivato l’ordine perentorio di fermarsi. Berlinguer aveva risposto nell’ottobre dell’anno successivo assicurando, in estrema sintesi, che il suo partito non era contro la religione e la Chiesa.

Bettazzi ricordava spesso la lettera aperta al segretario comunista e come essa avesse potuto pregiudicare la sua carriera all’interno della Chiesa. Poco male, il dialogo era tra due uomini veri: «Il rapporto con Berlinguer, che aveva espresso a un sacerdote toscano la volontà d’incontrarmi, non ebbe seguito per l’intervento pubblico del cardinale Albino Luciani. Il futuro papa Giovanni Paolo I era stato severamente esplicito nel ricordare che io, monsignor Bettazzi, non potevo parlare a nome della Chiesa. Seppi poi la ragione di questa sorta d’ammonimento. Incontrai una volta sul treno per Assisi il cardinale Luciani, che m’intrattenne per un’ora sull’esigenza di non turbare la serenità dei fedeli».

                Bettazzi è stato definito «progressista» in un quadro di riferimento novecentesco per il suo impegno sociale, politico e, non ultimo, pastorale. Tuttavia, nel suo camminare nella vita, si è sempre lasciato alle spalle un ingombrante e polveroso passato ispirandosi al Vangelo e non alle incrostazioni della storia e della tradizione, che mutano.

Il costruttore di pace e l’abile comunicatore. Bettazzi è stato il simbolo della Chiesa che cambia il paradigma per sempre e torna al dettato evangelico della pace e del «porgi l’altra guancia». Non una resa, un votarsi al martirio, ma una lotta interiore ed esteriore per estirpare la guerra dalla storia, la violenza dal cuore d’ogni uomo, per fare crescere e affermare, contro tutti i venti e i mali del mondo, la pace. Era partito ispirandosi all’enciclica “Pacem in terris” di papa Giovanni XXIII e alla “Gaudium et spes”, per essere vicino agli uomini e ai popoli proprio cominciando dai più poveri. Perché se ci si muove dai più ricchi e dai più potenti si continua a divaricare la visuale: da una parte chi è ricco e potente lo diventerà sempre di più, e dall’altra chi è povero diventerà sempre più povero. Nel 1967 papa Paolo VI pubblica l’enciclica “Populorum progressio”, in cui affermava che il nuovo nome della pace è lo sviluppo dei popoli.

Nel 1968 Bettazzi è nominato presidente nazionale di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace, e nel 1978 ne diventa presidente internazionale. Nel 1985 gli viene assegnato il Premio internazionale dell’UNESCO per l’Educazione alla pace. Le sue missioni di pace sono in tutto il mondo: Bosnia, Kosovo, El Salvador, Guatemala, Australia, Vietnam. Bettazzi ha predicato e praticato la pace in ogni modo, senza paura delle polemiche, delle incomprensioni e persino delle minacce.

                Mentre piovevano le bombe su Sarajevo e Belgrado, Bettazzi organizza con mons. Tonino Bello, suo fraterno amico, una marcia nei Balcani chiedendo alla NATO di non bombardare le città e chiedendo a tutti i belligeranti che smettessero di martoriare le terre della ex Iugoslavia e nel resto del mondo, fino all’ultimo testimoniando la pace nei giorni della guerra in Siria, in Ucraina, nello Yemen, in Congo. Globale e locale, ante litteram.

                Anche nel campo della comunicazione mons. Bettazzi è stato un innovatore. Egli ha sostenuto per molti anni, soprattutto collaborando con riflessioni coraggiose e puntuali, il settimanale della diocesi “Il Risveglio popolare”, divenuto negli anni Settanta un riferimento come lo furono “La Voce del popolo” di don Franco Peradotto, ”L’Eco del Chisone di don Vittorio Morero, “Il Nostro tempo” di don Carlo Chiavazza e Il Popolo di Tortonadi don Pier Giovanni Agnes. Preti e vescovi del Concilio in dialogo con il mondo.

                Dagli anni Sessanta fino a che ha potuto ha marciato per la pace, ha dialogato con tutti, religioni, culture, filosofie differenti, ha scritto negli anni Ottanta ai giovani chiedendo perché fossero atei e a Berlinguer per avvicinare le culture materiali e spirituali. E poi, negli anni successivi, ha continuato a tenere conferenze e incontri in ogni diocesi italiana e anche all’estero.

La morte come compimento. Non a caso, tra le sue affermazioni preferite ve n’è una ripresa da Norberto Bobbio: «La vera distinzione non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti». Una frase diventata drammaticamente attuale negli ultimi decenni. Don Luigi è stato un profeta del nostro tempo, un coraggioso testimone, nonostante le sue paure e le sue debolezze: «Non sono un leader», «a volte ripenso alla mia lunga vita e mi rammarico per aver pensato troppo, mi sento più studioso che pastore», diceva agli amici. Ma sempre con il sorriso e quegli accecanti occhi azzurri.

«La morte… è un fatto biologico e naturale, ma io provo a dire per fede che cosa significa nella sua dimensione più tragica e gloriosa. Fuori dal peccato originale eravamo in uno stato edenico. Quando uno giunge al termine della vita dovrebbe affermare “me ne vado”. Il che non significa la distruzione totale, ma un arrivederci, in una dimensione diversa: “Io vado di là e poi arriverete anche voi”. L’uomo moderno è troppo aggrappato alla dimensione della vita terrena. La nostra società, poi, ha perduto il senso della fine e del limite, dunque della morte», affermava il vescovo della pace.

                Una prospettiva che diventa speranza di quello che sarà: «In fondo noi siamo come i bambini del grembo della madre. Stiamo bene qui ma è una casa diversa che ci attende per sempre». Una realtà fuori dal tempo e dalla dimensione umana, la casa di Dio per ogni uomo.

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La vita in breve

Luigi Bettazzi nasce a Treviso il 26 novembre 1923 da una famiglia di origini piemontesi. Il padre è iscritto al Partito popolare, ma non può dichiararlo apertamente. Luigi, con i genitori, i fratelli e le sorelle trascorre l’infanzia in Veneto, dove il padre lavora, e decide d’entrare in seminario in tenera età. Con il trasferimento a Bologna, città d’origine della madre, prosegue il suo cammino di preparazione al sacerdozio negli anni difficili della guerra, tra Bologna e Roma.

                Il 4 agosto 1946 è ordinato presbitero dal cardinale Giovanni Battista Nasalli Rocca di Corneliano, arcivescovo metropolita di Bologna. Si laurea in Teologia alla Pontificia università gregoriana e poi in Filosofia all’Università di Bologna. Gli anni della formazione sono all’interno del movimento cattolico intellettuale della FUCI e dei Laureati cattolici, desiderosi di un rinnovamento e di un rapporto diverso con il mondo, la cultura e il pensiero moderno.

Il 10 agosto 1963 è nominato da Paolo VI vescovo ausiliare di Bologna, cui seguì il 4 ottobre la consacrazione episcopale. Una settimana dopo il giovanissimo mons. Bettazzi entra al concilio Vaticano II e partecipa, accanto al cardinale Giacomo Lercaro, a tre sessioni, iniziando dalla seconda: quell’esperienza segna per sempre la sua vita.

                Conclusa l’assise conciliare, Bettazzi è nominato vescovo di Ivrea ed entra in diocesi il 15 gennaio 1967, iniziando una sorta di laboratorio d’applicazione conciliare nel quale la dimensione globale è unita a quella universale: la Chiesa dei poveri, la pace, i diritti, la dignità del vivere e del morire, la secolarizzazione e il desiderio di senso, con una serie infinita di convegni, incontri, viaggi e una prolifica attività editoriale per promuovere il Concilio.

Vive gli anni della trasformazione sociale più profonda del Novecento – il Sessantotto, il terrorismo, le grandi leggi d’emancipazione sociale – dentro una realtà, come quella piemontese, in cui si sfidano i due modelli industriali dell’Olivetti e della FIAT e la Chiesa della lettera pastorale “Camminare insieme” dell’arcivescovo di Torino Michele Pellegrino, di cui Bettazzi è amico e collaboratore, spesso in serrato confronto con le posizioni più orientate a frenare le coraggiose intuizioni del Concilio.

                La testimonianza cristiana in campo ecumenico e interreligioso lo porta a essere nominato da Paolo VI, nel 1968, presidente di Pax Christi nazionale e poi internazionale, vivendo in maniera così profonda quell’incarico da ricevere il premio internazionale dell’UNESCO per l’educazione alla pace. Il passaggio di testimone del movimento della pace cattolico internazionale da Bettazzi a Tonino Bello fa diventare il vescovo emerito di Ivrea un punto di riferimento per il cattolicesimo dialogante con il mondo.

                Nel 1992 partecipa alla marcia pacifista organizzata dai Beati costruttori di pace e da Pax Christi, insieme a mons. Bello, durante la guerra civile in Bosnia ed Erzegovina. Il 20 febbraio 1999 papa Giovanni Paolo II accoglie la sua rinuncia al governo pastorale della diocesi d’Ivrea per raggiunti limiti di età; gli succede Arrigo Miglio, [ora cardinale] fino ad allora vescovo di Iglesias. Da emerito si trasferisce nel castello di Albiano. Continua, negli anni successivi, a scrivere un libro all’anno e soprattutto a viaggiare, fino all’età di 98 anni, in tutto il paese, per raccontare il Concilio e creare ponti di dialogo con il mondo laico e con le altre fedi.  Le sue profetiche idee innovative e le sfide coraggiosamente orientate al futuro testimoniate nel corso della sua intera esistenza hanno un compimento negli anni di Francesco. Il 4 aprile 2016 la città di Bologna conferisce a mons. Bettazzi la cittadinanza onoraria. L’anziano Bettazzi, ultimo testimone del Concilio, vede realizzarsi l’idea di una Chiesa in uscita, china sull’umanità e pervasa dalla dimensione di un Dio e una Chiesa misericordiosa nel pontificato di Bergoglio.

Luigi Bettazzi muore domenica 16 luglio 2023 alle 4.30 nella casa di Albiano e viene seppellito nel Duomo di Ivrea.

Segue un elenco dei suoi libri e si quelli su di lui e una intervista www.youtube.com/watch?v=wkpUUZTAfes

                     Luca Rolandi * 1966, giornalista

https://ilregno.it/attualita/2023/18/luigi-bettazzi-il-profeta-della-pace-luca-rolandi

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José Marìa Castillo, il teologo che ha umanizzato dio

È stato uno dei maggiori teologi europei del post-Concilio (letto, conosciuto e apprezzato anche in America Latina); gesuita; teologo profondamente radicato nel Concilio, la sua vita si è spesso fecondamente intrecciata con le esperienze ecclesiali di base in Italia, sin da quando, nel 1969, fu tra i presbiteri che si alternarono nella celebrazione dell’eucarestia domenicale nella piazza dell’Isolotto, dopo la cacciata di Enzo Mazzi dalla parrocchia, quando tutta la comunità aveva deciso di celebrare di fronte alla chiesa in solidarietà con don Enzo e con gli altri preti dell’Isolotto vittime della repressione della Curia guidata dal card. Ermenegildo                       

                José María Castillo è morto il 12 novembre scorso, a 94 anni. Nato nel 1929 in un piccolo centro dell’Andalusia, entrò come novizio nella Compagnia di Gesù nel 1946, per uscirne pochi mesi dopo, a causa di una malattia. Nel 1947 entrò nel seminario diocesano di Guadix, nella provincia di Granada. Venne ordinato prete nel 1954 e inviato a fare il parroco in un paese di Granada, dove rimase tre anni. Intanto conseguì la laurea presso la Facoltà di Teologia di Granada (1955) ed entrò nuovamente nella Compagnia di Gesù (1956).

Nel 1962 si recò a Roma per il dottorato in Teologia presso l’Università Gregoriana, completando gli studi nel 1964. Partecipò ai lavori del Concilio Vaticano II come perito del card. Vicente Enrique y Tarancón. Iniziò la sua attività di formazione e di insegnamento prima a Córdoba poi, dal 1968, a Granada, come professore di Teologia Dogmatica presso la Facoltà di Teologia.

                Gli anni ‘70 segnarono significativi cambiamenti nella vita di Castillo, influenzato dal dibattito teologico e pastorale del post-Concilio, dal generalato di padre Pedro Arrupe alla guida della Compagnia di Gesù, dai cambiamenti politici che stavano avvenendo in Spagna, dal contatto con le giovani generazioni di gesuiti. In quegli anni si unì alle Comunità Cristiane Popolari (le CdB spagnole), vicine alle comunità di base latinoamericane e iniziò la produzione dei suoi famosi “Quaderni di teologia popolare”, che ottennero grande diffusione, ma suscitarono anche preoccupazione e disappunto nella gerarchia episcopale spagnola. Nel 1980 fu tra i fondatori dell’Associazione dei Teologi Giovanni XXIII, i cui congressi di teologia sono stati e sono un importante fucina di elaborazione di una teologia progressista, pluralista e non vaticanocentrica.

Proprio nel 1980, poco dopo l’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, venne dapprima limitata la sua possibilità di insegnare; poi, nel 1988, la Facoltà di Teologia di Granada gli revocò definitivamente, su disposizione della Congregazione per la Dottrina della Fede, la venia docendi, ossia la possibilità di insegnare nelle facoltà ecclesiastiche del Paese, assieme a Juan Antonio Estrada, professore della stessa facoltà.

La Compagnia di Gesù, allora nel mirino della Curia romana (che, con la scusa della malattia del padre generale Pedro Arrupe, tra il 1981 e il 1983 era arrivata a commissariare la Compagnia), cercò di aggirare il provvedimento, trasferendo Castillo in America Centrale e affidandogli la cattedra di Teologia presso l’Università Centroamericana “José Simeón Cañas” di El Salvador, conosciuta semplicemente come UCA, dove Castillo diverrà negli anni punto di riferimento per la Teologia della Liberazione. In quella università, Il 16 novembre 1989, vennero assassinati dai militari salvadoregni sei suoi confratelli: Ignacio Ellacuría, rettore dell’Università, Segundo Montes, Ignacio Martín-Baró, Amando López, Juan Ramón Moreno e Joaquín López y López); e due domestiche (Elba Ramos e sua figlia Celina). Castillo fu uno dei professori che sostituirono in cattedra i gesuiti assassinati.

Nel 2007, su sua richiesta, lasciò la Compagnia di Gesù, «per igiene mentale», disse lui stesso, dopo tanti anni di ostracismo e conflitti con la gerarchia, per dedicarsi con maggiore autonomia allo studio, alla scrittura, all’organizzazione e all’insegnamento di corsi, convegni, congressi e seminari in Spagna, Italia e America Latina.

Negli ultimi anni aveva salutato con particolare entusiasmo il pontificato di papa Francesco, che lo aveva ricevuto nel 2018 a Santa Marta (gli aveva precedentemente scritto una lettera e avevano parlato al telefono). Una “riabilitazione” nello stile di Francesco, ossia in forma assolutamente privata. «Ho letto i suoi libri con grande piacere, fanno molto bene alle persone», aveva in quella occasione detto il pontefice. Castillo, commosso fino alle lacrime, ringraziò il papa per il suo gesto mentre donava a Francesco due delle sue ultime opere in italiano: L’umanizzazione di Dio (Edizioni Dehoniane) e L’umanità di Gesù (La Meridiana). In essi Castillo afferma che quando si parla del mistero dell’incarnazione, non si tratta di dire che l’uomo è divinizzato, piuttosto che Dio ha rinunciato alla sua condizione divina e si è identificato con l’umanità. Soltanto la laicità è comune a tutti gli esseri umani. Per questo, solo trovando l’umanità di ciascuno e secondo il rapporto che abbiamo con l’umanità, possiamo trovare Dio.

E, a proposito delle opere di Castillo, tra le più significative, oltre a quelle citate dal papa, ci sono Teologia per le  – comunità (1990), I poveri e la teologia. Cosa resta della teologia della liberazione? (1997), i suoi Commentari al Vangelo quotidiano, pubblicati per i tre cicli liturgici e L’ultimo, La religione di Gesù (2021).

Valerio Gigante  Adista Notizie n° 40 del 25 novembre 2023

www.adista.it/articolo/70957

I Concordati. Una ecclesiologia non evangelica

La questione dei Concordati stipulati dalla chiesa con diversi Stati torna di tanto in tanto alla ribalta suscitando accesi dibattiti sui media e, più in generale, nell’opinione pubblica, sia cattolica sia laica, con l’assunzione di opposte posizioni. Questo è avvenuto in misura consistente nel 1929 in occasione della stesura del Concordato tra la Santa Sede e il nostro Paese, si è ripetuto, sia pure con minore intensità, durante la celebrazione del Vaticano II e persiste tuttora come problema aperto nella coscienza religiosa e civile di molti italiani anche dopo la riscrittura del 1984.

Va detto, come doverosa premessa, che l’istituto concordatario non rappresenta di per sé una novità della modernità, ma ha ascendenze remote in un passato lontano. Il primo è il Concordato di Worms (1122) tra papa Callisto e il sovrano del Sacro Romano Impero Enrico V, con il quale si concluse la lotta per le investiture. Diversi Concordati furono poi stipulati nel 1700-1800 e attualmente ve ne sono ancora una ventina in vigore. Non potendo esaminarli tutti, fermeremo l’attenzione su quello italiano del 1984 confrontandolo con quello precedente del 1929 e limitandoci ad alcune osservazioni di carattere teologico-etico.

Una ecclesiologia non evangelica. Prima di entrare nell’analisi del Concordato italiano non si può tuttavia prescindere dall’esprimere un giudizio generale sul significato complessivo del regime concordatario. Si tratta di un regime che presuppone una visione di Chiesa, nella quale a prevalere sono gli aspetti giuridico-istituzionali; una Chiesa che si presenta con il volto mondano di uno Stato, rivendicando il proprio spazio di potere. Il confronto è dunque tra due Stati, che non hanno soltanto come obiettivo quello del riconoscimento della propria autonomia, ma anche del reciproco sostegno. L’inizio di questo processo va ascritto alla cosiddetta “pace costantiniana”, che pone fine alle persecuzioni subite dai cristiani nei primi secoli di diffusione del cristianesimo e segna il passaggio a una situazione di reciproco rispetto, ma anche, per alcuni aspetti di reciproca dipendenza: il riconoscimento dello Stato implica infatti l’adesione della Chiesa a regole – si pensi all’obbligo del servizio militare e all’ammissione della legittimità della guerra – che non sono sempre in piena sintonia con gli orientamenti originari del messaggio evangelico.

Ma il momento in cui si consolida il potere assoluto della Chiesa è costituito dall’epoca medioevale con la nascita del Sacro Romano Impero. L’affermarsi della tesi secondo la quale ogni potere viene da Dio rende del tutto dipendente il potere civile da quello religioso, conferendo alla Chiesa una funzione politica di prima grandezza.

La “questione romana” e il Concordato del 1929. Una svolta importante rispetto a questa visione si verifica in epoca moderna con l’avanzare del fenomeno della secolarizzazione, che coinvolge anche la politica la quale rivendica la propria autonomia dalla religione. La Chiesa non rinuncia tuttavia del tutto all’esercizio del potere temporale. Accanto al costituirsi in Italia di una serie di piccoli Stati guidati da famiglie nobiliari – ducati e granducati in particolare – prende corpo lo Stato pontificio, la cui persistenza dura fino al 1870 con l’occupazione di Roma e la nascita dello Stato unitario italiano. Questo ultimo evento dà origine a una situazione profondamente conflittuale tra Santa Sede, ridotta a un piccolo territorio – la Città del Vaticano – e Stato italiano; situazione che si traduce, per protesta nel ritiro dei cattolici dalla vita politica a seguito del famoso Non expedit, e che viene sbloccata dopo alcuni decenni grazie alla stipulazione del “patto Gentiloni”.

Ma il ritorno dei cattolici alla vita politica non risolve la “questione romana”, la cui asprezza si accentua con la presa del potere da parte del fascismo, che, soprattutto nella prima fase, non esita ad assumere provvedimenti repressivi nei confronti di preti, religiosi e associazioni cattoliche, in primo luogo dell’Azione cattolica. Nel 1929 il presidente del Consiglio Benito Mussolini, preoccupato delle tensioni che ostacolano la stessa attività di governo, decide di ricercare una soluzione al problema, facendosi promotore del Concordato che viene stipulato con il rappresentante della Città del Vaticano, il cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato. Il presupposto di partenza è il riconoscimento della religione cattolica come “religione di Stato”. Da tale presupposto discendono una serie di provvedimenti destinati non solo ad assicurare alla Chiesa la piena autonomia nell’esercizio della propria missione, ma anche a garantirle alcuni privilegi in diversi campi di intervento: dalla riforma degli enti e dei beni ecclesiastici con l’esenzione dalle normali tassazioni pubbliche, all’introduzione della congrua per il sostentamento del clero come compenso del debito contratto dallo Stato per l’incameramento dei beni ecclesiastici; dalla rinuncia dello Stato ad intervenire nella nomina dei titolari di uffici ecclesiastici, al riconoscimento delle festività religiose anche sul piano civile; dal conferimento alla scuola cattolica di pieno diritto di cittadinanza, all’obbligo dell’insegnamento della religione nella scuola pubblica fino alla conferma del matrimonio concordatario con effetti civili. E l’elenco potrebbe continuare.

Il Vaticano II e il Concordato del 1984. Un acceso dibattito sul regime concordatario ha luogo nell’immediato dopoguerra in occasione della elaborazione della Carta costituzionale con posizioni fortemente divergenti, che trovano a maggioranza soluzione, con l’assenso del Partito comunista, nella conferma all’art. 7 dei Patti Lateranensi come strumento di regolazione dei rapporti tra Stato e Chiesa. A provocare l’esigenza di un cambiamento del regime concordatario è stata la celebrazione del Vaticano II, soprattutto con la Costituzione sulla Chiesa “Lumen gentium”, e con il decreto sulla libertà religiosa “Dignitatis humanæ”. Con la prima – la Lumen gentium – viene proposta un’immagine di Chiesa, che conferisce il primato all’aspetto carismatico e misterico rispetto a quello istituzionale-giuridico, sottolineando come l’unico potere di cui la Chiesa può disporre è quello spirituale e introducendo, sia pure un po’ timidamente, l’adozione di uno stile di povertà. Il secondo – il Dignitatis humanæ – sancisce il pieno riconoscimento delle libertà moderne, tra le quali quella religiosa, la quale non deve tuttavia godere di particolari privilegi. A seguito di questo evento si riapre la discussione attorno al Concordato del 1929 considerato da molti – cattolici e laici – obsoleto e anacronistico evidenziando la necessità della sua revisione che, dopo una lunga e laboriosa trattativa, culmina il 18 febbraio 1984 con l’accordo di Villa Madama, che reca la firma del Presidente del Consiglio Bettino Craxi e del Segretario di Stato della Santa Sede cardinale Agostino Casaroli. Ha origine così il nuovo Concordato, che regola tuttora i rapporti tra Stato e Chiesa.

Diversi sono gli aspetti di novità che tale istituto presenta rispetto a quello del 1929, a partire dalla cancellazione della religione cattolica come “religione di Stato”. Si tratta di un accordo-quadro di principi fondamentali che si configura come un patto di reciproca autonomia e indipendenza nei rispettivi ordini, con l’attenzione a garantire la sovranità della Santa Sede in campo internazionale.

La maggiore (e più significativa) innovazione riguarda l’abbandono del sistema della congrua per il sostentamento del clero e la sua sostituzione con un sistema di partecipazione comunitaria, legato alla concessione fatta dallo Stato ai cittadini del versamento dell’8 per mille delle proprie dichiarazioni dei redditi alle chiese – quella cattolica in primis – e ad altri enti religiosi.

Non mancano tuttavia, anche in questa nuova edizione del Concordato aspetti negativi, che denunciano la chiara volontà della Chiesa cattolica di conservare alcuni privilegi. Si pensi soltanto al riconoscimento degli effetti civili dei matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico – i cosiddetti matrimoni concordatari – e al dovere della Repubblica italiana di dichiarare efficaci anche sul piano civile le sentenze di nullità di matrimonio emesse dalla Sacra Rota; o ancora alla piena libertà della scuola e al diritto della Chiesa cattolica di istituire liberamente le proprie scuole con parità di diritti; o ancora, e infine, all’impegno dello Stato ad assicurare nelle scuole pubbliche, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica, sia pure rispettando la libera scelta dei genitori negli anni della scuola dell’obbligo e degli studenti nell’ambito delle scuole superiori.

Sono soltanto alcuni esempi – non ho la competenza giuridica per entrare nel merito di tutti i provvedimenti assunti – che denunciano una commistione della Chiesa in ambiti propri della società civile; provvedimenti che vengono in seguito aggravati dai successivi decreti con norme precise concordate tra le parti mediante laboriose trattative sviluppatesi in seno a una commissione mista, pervenendo a soluzioni machiavelliche come quella di inserire nella destinazione dell’8 per mille lo Stato (che è l’autore della concessione) e di ridistribuire ciò che non viene destinato tra gli enti coinvolti sulla base della percentuale del destinato; o quella di ottenere che la presenza della religione cattolica (e non delle religioni) nella scuola pubblica sia direttamente controllata dalla Chiesa attraverso la nomina degli insegnanti.

Come si vede si tratta di forme di pesante ingerenza della Chiesa, che lasciano chiaramente intravedere la volontà di mantenere privilegi acquisiti o di acquisirne altri, offrendo un’immagine di sé incentrata su una visione di potere, che non contraddice soltanto – come si è accennato fin dall’inizio – la logica evangelica, ma anche l’ecclesiologia del Vaticano II, respingendo (o almeno ridimensionando) il cammino da esso inaugurato verso una Chiesa povera e libera. Sono queste le ragioni che rendono inaccettabile il nuovo Concordato, anche perché – ed è un ultimo motivo non secondario – non viviamo sotto un regime autoritario ma democratico, dove a regolare i rapporti tra Stato e Chiesa è sufficiente una Convenzione che garantisca ad ambedue il pieno esercizio della libertà.

         Giannino Piana in “Il Gallo” del febbraio 2023

                Una ecclesiologia non evangelica – il Gallo (ilgallo46.it)

                                               Un testimone del vangelo per gli uomini di oggi

La figura del prete è divenuta oggi anacronistica. Sono molti i fattori che hanno concorso (e concorrono) a provocare tale situazione. Quello principale è senz’altro costituito dall’avanzare del fenomeno della secolarizzazione (trasformatosi in molti casi in secolarismo) che rende evanescente ogni sentimento religioso. Dio non è contestato – come avveniva con l’ateismo ottocentesco –; è, più semplicemente, ignorato. Di Lui non rimangono che sterili vestigia di un passato in cui a prevalere, secondo molti, era una visione mitica della realtà del mondo e della vita – quella neoilluminista – radicalmente sconfessata da una forma di razionalità onnicomprensiva e oggi soprattutto dai successi della scienza e della tecnologia, che assumono carattere di sacralità e di assolutezza, fino a configurarsi come la “nuova religione”.

La percezione dell’inutilità del ruolo. Nel contesto di questa cultura il prete appare come il portatore di una visione arcaica dell’esistenza destituita di ogni credibilità. Le indagini sociologiche sulla “religiosità” degli italiani confermano la verità di questo assunto. Il mondo giovanile, che rappresenta il futuro della nostra società, non è soltanto del tutto assente dalla pratica religiosa, ma non è neppure più scalfito dalla domanda su Dio e sull’al di là. I giovani vivono, in larga maggioranza, “come se Dio esistesse”, e non avvertono in questo alcun senso di malessere. La loro vita ha altri riferimenti e la domanda di senso, quando si pone, riceve risposte sufficienti nell’adesione a criteri valoriali (o almeno ritenuti tali) di ordine mondano. Non vi è dunque spazio per la logica evangelica, che si presenta come alternativa e controcorrente, e il suo annuncio, che ha nel prete il proprio più diretto messaggero, rischia di cadere totalmente nel vuoto. La giusta rivendicazione dell’autonomia delle realtà terrestri, fatta peraltro propria anche dalla chiesa con la celebrazione del Vaticano II, è sempre più interpretata in termini di radicale autosufficienza, con il rifiuto di qualsiasi riferimento religioso (e spesso persino etico) in nome dell’emancipazione dell’uomo e della sua liberazione da ogni forma di alienazione, compresa quella derivante dalla adesione alla religione.

Un uomo alla deriva della solitudine. Questa situazione descritta nelle tinte più fosche, non tenendo conto della presenza di fenomeni positivi, sia pure minoritari, che meritano in ogni caso attenzione, costituisce tuttavia, nell’insieme, lo scenario prevalente sul quale l’attività del prete deve esercitarsi. Ad avere un peso decisivo in questi cambiamenti non è soltanto la perdita di ogni ruolo sociale di cui in passato il prete godeva, ma è la distanza che egli avverte essersi creata tra sé e la gente, la quale non ha soltanto abbandonato la tradizionale pratica di partecipazione alla messa domenicale, e – sia pure con minore intensità – anche il ricorso ai riti che in passato scandivano i momenti più significativi dell’esistenza dalla nascita alla morte. Si assiste infatti a una consistente (e continua) diminuzione dei battesimi, delle prime comunioni, delle cresime e dei matrimoni (per non dire della confessione che appare ormai una pratica fuori uso). Un vero crollo della pratica religiosa rimasta retaggio della popolazione anziana che va progressivamente scomparendo. Tutto questo provoca nei prete un inevitabile senso di frustrazione accentuato da uno stato di solitudine, che trova sbocco in molti casi nella ricerca di compensazioni affettive vissute nella clandestinità, e dunque a loro volta frustranti, perché frutto di accomodamenti che avvengono nel segno della doppiezza; o, inversamente, in forme di arroccamento, con l’assunzione di un atteggiamento di rifiuto di tutto ciò che è stato prodotto dalla modernità; rifiuto che si traduce nel dedicarsi a pratiche sacro-rituali – si pensi all’enfasi data a forme esteriori nella celebrazione liturgica – o provoca il ritorno ad abitudini del passato – è sintomatico il ritorno all’uso della talare – che, oltre ad offrire una apparente sicurezza, esprimono l’esplicita volontà di non contaminarsi con il modo considerato fonte di pericolo.

C’è ancora spazio per la missione del prete? Da una parte, ad essere messa in discussione è la preoccupazione di una azione sacramentale diffusa che raggiunga il più elevato numero di persone – Dio non sa che farsene, osservano i profeti, di un culto materiale che non si accompagna all’esercizio della giustizia, che non ha cioè riscontro nelle opzioni della vita quotidiana – per fare spazio ad un’opera di evangelizzazione finalizzata a raggiungere un numero magari ristretto di persone che si impegnano a fare concretamente propria la logica evangelica.

Dall’altra, obbliga a ripensare l’esercizio del ruolo sacerdotale, abbandonando atti di supplenza divenuti spesso esorbitanti per lasciarne la gestione alla responsabilità dei laici e concentrare l’attenzione su ciò che è davvero specifico ed essenziale, cioè il servizio all’edificazione della comunità nella prospettiva di una comunione che ha il suo momento più alto nella celebrazione eucaristica. Questo implica come condizione prioritaria il pieno inserimento del prete nella vita della comunità. Il che può verificarsi soltanto laddove la scelta della persona chiamata ad esercitare tale ministero avviene all’interno della comunità e da parte di essa. L’essere catapultati dall’esterno – come ancor oggi normalmente avviene – rende difficile l’inserimento e rischia di far percepire il prete come un “corpo estraneo” imposto dall’alto, dunque non pienamente inserito nel contesto ambientale in cui è destinato ad operare. Inoltre tale inserimento può soprattutto verificarsi soltanto laddove il criterio che presiede alla scelta è la presenza come requisito fondamentale della capacità di creare comunità, cioè di intessere e consolidare rapporti vicendevoli, superando le resistenze negative e sviluppando forme di solidarietà e di fraternità, che favoriscano la partecipazione e la cooperazione.

Una situazione ancora ambigua. I preti sono oggi in linea con questa visione, peraltro suggerita, nelle sue linee essenziali, dall’ecclesiologia del Vaticano II? L’iter formativo proposto corrisponde adeguatamente all’esercizio dei compiti cui si è fatto riferimento? E, infine, quale progetto pastorale viene loro prospettato dalle chiese locali? La risposta a questi quesiti non è facile. La prima difficoltà è legata all’identikit di coloro che accedono al presbiterato. La riduzione sempre più consistente da noi (e più in generale in Occidente) del numero dei candidati a tale ministero si accompagna a un mutamento piuttosto radicale della figura di coloro che entrano in Seminario. La scomparsa, quasi ovunque, del Seminario minore ha comportato (e comporta) una mutazione della tipologia dei seminaristi, che sono in larga misura giovani in adolescenza avanzata, diplomati o laureati, che provengono da precedenti esperienze ecclesiali fatte in movimenti e/o in associazioni, e che hanno perciò già compiuto un itinerario formativo e spirituale. A questo si deve aggiungere – e non è cosa di poco conto – che, negli ultimi decenni, al numero sempre più esiguo di seminaristi italiani fa riscontro una costante crescita di seminaristi stranieri, provenienti in particolare dal Terzo Mondo – Africa, America Latina e Paesi dell’Est europeo – e dunque con visioni culturali diverse che si riflettono anche nell’idea della missione della chiesa e dell’esercizio del ministero presbiterale. Nonostante un certo rinnovamento dei seminari avvenuto nel post-concilio, sia sul piano culturale che spirituale, le difficoltà segnalate persistono. Non è infatti infrequente che si assista – come già si è ricordato – a ritorni involutivi e a rigurgiti integralisti, all’assunzione cioè di atteggiamenti difensivi e di chiusura spesso motivati da una fragilità psicologica, che induce a ricercare appoggi esteriori per la tutela della propria identità.

Le priorità di papa Francesco. La estrema fluidità della situazione attuale – la liquidità cui allude Bauman  si verifica anche su questo piano – rende impossibile prefigurare quale sarà la fisionomia del prete negli anni che verranno. Le osservazioni fatte non sembrano fare spazio ad un grande ottimismo. Più agevole è la delineazione di come tale fisionomia dovrebbe essere, dei tratti che la dovrebbero qualificare. L’enucleazione di questi tratti è stata in questi anni di pontificato una delle maggiori preoccupazioni di papa Francesco. Egli è più volte intervenuto ad indicare l’identikit del presbitero, mettendone di volta in volta aspetti diversi e complementari. Tre sono, al riguardo, le priorità messe in evidenza dal pontefice.

  1. La prima è la capacità di immedesimarsi nelle situazioni esistenziali della gente, condividendone le gioie e le fatiche quotidiane – papa Francesco sottolinea l’importanza di “sentire l’odore delle pecore” – e divenendo in tal modo partecipi del mistero dell’incarnazione.
  2. La seconda priorità è costituita dalla scelta della povertà come sobrietà di vita e come rinuncia ad ogni tentazione di potere, così da conquistare quella libertà interiore, che consente di diventare pienamente solidali con il mondo dei poveri e di impegnarsi per la loro liberazione.
  3. La terza priorità è, infine, il ricupero di una spiritualità autentica, non formale o devozionale, ma connotata da una forte tensione mistica, capace di interpretare il bisogno di trascendenza che alberga anche oggi nel cuore di molti e di diventare in tal modo testimoni credibili del mistero di Dio.

Sono queste le condizioni preliminari, che vanno poste alla base dell’esercizio del proprio ministero, e che adempiute danno efficacia all’azione pastorale, alla capacità cioè di rendere trasparente la novità e la bellezza del messaggio evangelico.

                               Giannino Piana                viandanti           16 settembre 2021

www.viandanti.org/website/un-testimone-del-vangelo-per-gli-uomini-di-oggi

www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/139817

VIOLENZA

I-dati-sul-femminicidio-nel-mondo.

UNDOC: pubblicati i dati sul femminicidio nel mondo

                Il numero più alto registrato negli ultimi due decenni. Nel mondo sono state circa 89.000 le donne e le ragazze uccise intenzionalmente nel 2022, secondo quanto scrive l’Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine (UNODC) e l’UN Women, nel rapporto presentato il 22 novembre, intitolato “Gender-Related Killings of Women and Girls (Femicide/Feminicide)”.

Il 55% di tutti gli omicidi è stato commesso da partner o familiari e, quindi, l’abitazione familiare – ha scritto l’UNODC – non è spesso un rifugio sicuro tenendo conto che, in media, più di 133 donne sono uccise ogni giorno in casa propria. “Il numero allarmante di femminicidi – ha scritto il direttore esecutivo dell’UNODC – ricorda a tutti che l’umanità è ancora alle prese con diseguaglianze e violenze profondamente radicate contro donne e ragazze”.

Gli Stati sono chiamati a fare di più investendo in istituzioni più inclusive e attrezzate per porre fine all’impunità, rafforzare la prevenzione e aiutare le vittime. Tutto il mondo è colpito da questa piaga e nel 2022, per la prima volta, l’Africa ha superato l’Asia per il numero di vittime [registrate]. Nel Nord America i femminicidi sono aumentati del 29% tra il 2017 e il 2022. Un aumento che potrebbe anche essere legato a un miglioramento delle pratiche di registrazione che ha permesso di fare venire alla luce casi che prima non erano classificati.

 In Europa si segnala una riduzione media del 21%, riduzione che è in gran parte dovuta a una sensibile diminuzione nel Regno Unito, mentre una riduzione più modesta si è verificata in Spagna e in Italia tra il 2010 e il 2019. Per quanto riguarda l’Italia, a pagina 12 del rapporto sono indicati i dati raccolti dall’ISTAT. Di tutti gli omicidi femminili del 2021 (119 in totale), l’84% è avvenuto all’interno della sfera domestica, con il 59% delle vittime colpite dal partne

Prof. Marina Castellaneta                          Università di Bari            24 novembre 2023

www.marinacastellaneta.it/blog/undoc-pubblicati-i-dati-sul-femminicidio-nel-mondo.html

Giulia, la sua morte. I grandi problemi

Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha provocato molti commenti e svariate richieste. Tra queste, la domanda di una formazione ai rapporti con gli altri da parte della scuola. Ma la scuola non può fare tutto. Ed è illusorio chiedere che la scuola faccia quello che non riescono a fare e la famiglia e la società

                Si parla molto del nuovo femminicidio di Giulia Cecchettin, tanto più ora che Filippo Turetta, l’assassino, è stato arrestato. In mezzo alla valanga di dichiarazioni, si è sentita quella di Elly Schlein, la quale ha chiesto che sia la scuola a insegnare agli alunni il rispetto degli altri. Richiesta prevedibile e, a modo suo, rivelatrice.

Le relazioni buone con gli altri si imparano vivendole. Alla scuola si chiede tutto. Sarebbe impressionante la lista delle cose che la scuola “deve” fare. Me ne vengono in mente solo alcune: educazione alla socialità, alla politica, allo sport, all’uso dei media, alla sessualità, al codice stradale, al pronto soccorso, eccetera eccetera. Poi, se ci sarà tempo, si potrà studiare anche italiano e matematica.

Ci sono però dei “modi di fare”, degli “stili di vita” che si assimilano come si assimila il cibo che mangia. O si assimilano così, goccia a goccia, o non si assimilano mai. Lo stesso rispetto degli altri non è una cosa da imparare, ma è uno stile che si porta in tutte le cose che si imparano. Non è una materia scolastica o l’oggetto di una iniziativa estemporanea accanto alle altre, ma è un modo di studiare tutte le materie e di fare tutte le cose. Dappertutto, e anche a scuola.

Il rispetto degli altri non è una cosa da imparare, ma è uno stile che si porta in tutte le cose che si imparano. Per “far passare” il rispetto ci vuole perciò la società, e ci vuole la famiglia, soprattutto. I sociologi hanno certo molto da dire sul rapporto fra scuola e famiglia, ma è evidente che ognuna delle due ha bisogno dell’altra. La famiglia non può fare quello che fa la scuola. Non insegna, propriamente parlando, non dispone di gruppi e di strutture, non può socializzare, soprattutto, come può fare la scuola. Ma la scuola, da parte sua, non può fare la famiglia. I rapporti “plurali” che si vivono nella scuola non hanno nulla, e non possono avere nulla, dei rapporti calorosi che segnano le relazioni familiari.

Le relazioni “corte” degli affetti sono in difficoltà. Poi ci dovrebbero essere tutti i rapporti non particolarmente definiti di parentele, amicizia, vicinato. Qui potrebbero entrare anche i buoni, gloriosi oratori, dove ci sono e dove funziono. Famiglia e società, insomma, fanno il molto che la famiglia non fa e non può fare.

                Famiglia e società fanno il molto che la famiglia non fa e non riesce a fare. Nel caso del femminicidio di Giulia Cecchettin sono le relazioni corte, quelle affettive, più calorose, e, con esse, quelle delle famiglie che ci stanno dietro, a entrare in crisi. La società è troppo vaga per tirarla in causa. E allora ci si rivolge, spontaneamente, al mondo alternativo sufficientemente chiaro per essere interpellato: la scuola.

Ma è un’illusione e non serve a nessuno. Di sicuro la scuola non ce la farà a “insegnare” anche questo. La voragine che si vorrebbe riempire resterà vuota. E l’invocazione alla scuola non farà altro che confermare quel vuoto.

Alberto Carrara                 La barca e il mare           Bergamo             20 novembre 2023

Viva il patriarcato

È in atto un assalto al patriarcato e alla famiglia patriarcale, dopo la morte di Giulia Cecchettin. Ma si ha la sensazione che non c’è troppo patriarcato, ma ce n’è troppo poco. E non è una battuta

                Il dramma di Giulia Cecchettin e la follia di Filippo Turetta continuano a far discutere. Uno dei temi che ha invaso giornali, siti e tv è il processo a quella che viene sommariamente definita famiglia patriarcale. Tutto è nato da un’accusa di Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che ha affermato: “Quelli come Turetta non sono mostri, sono figli del patriarcato”. Dietro a quella affermazione si sono infilati un esercito di soldati e soldatesse agguerriti, guidati da generali di corpo d’armata, Lilli Gruber e compagnia, tutti impegnatissimi a battere in breccia la vecchia famiglia patriarcale.

La famiglia e i suoi ruoli sono in crisi. Ho assistito, dal mio angolino di osservazione, a questi assalti, ne ho visto la ferocia, ma ho faticato a capire sia la loro frequenza sia la loro ferocia. Ero fermo – e lo sono tuttora – a una constatazione per me sconsolante. “Non si sposa più nessuno”, si dice: i matrimoni sono crollati, quelli civili e, soprattutto, quelli religiosi. Trionfa ovunque la convivenza. Anche dove la famiglia c’è, è vistosamente smagrita: marito, moglie, uno o due figli. Il tasso di natalità italiano è il più basso al mondo, pari, se non ricordo male, a quello del Giappone. Si parla più di riconoscimento dell’omosessualità e di possibilità di matrimonio per gli omosessuali che di matrimonio “tradizionale”: oddio che brutto termine, così vicino a quello battuto in breccia dagli eserciti in guerra di questi giorni. Tradizionale facilmente confina con patriarcale e patriarcale è sempre tradizionale.

Non solo non c’è più famiglia patriarcale, ma non c’è più famiglia. Se io, sempre, ripeto, dal mio angolino di osservazione, dovessi riassumere la mia sensazione nei riguardi della famiglia moderna, sarei tentato di dire che, non solo non c’è più famiglia patriarcale, ma non c’è più famiglia. Sulla base di che cosa si proclama il pericolo gravissimo del persistere in questa scassata società italiana, di un “patriarcato”? Dove si trova questo invasivo patriarcato?

Quello che manca a Filippo Turetta è il senso del ruolo. Torno a pensare a Giulia e al suo assassino, al suo assassino soprattutto. Mi pare – devo moderare le mie sensazioni per evitare qualche plotone di esecuzione – mi pare Filippo Turetta non è afflitto da un di più: il maschio dominante che brutalizza la sua donna. Filippo Turetta non è un di più, ma un di meno. Non sente un ruolo ma non sente nulla. Infatti: dopo aver ammazzato a quel modo la sua ragazza non ha avuto il coraggio di suicidarsi: “non ne ho avuto il coraggio”, ha detto.

                Da un eccesso di ruoli si può guarire, da una loro totale mancanza si può morire. Ho pensato a una cosa strampalata. Filippo Turetta non ha bisogno di liberarsi dagli schemi forti della famiglia patriarcale, per il semplice motivo che non li ha. Al contrario: dovrebbe fare di tutto per acquisirli. Dovrebbe, cioè, imparare che, in una famiglia, il padre è diverso dalla madre e che i figli non sono genitori d non devono sopraffarli. Che i buoni genitori non sono fratelloni maggiori, ma genitori che impongono e si impongono. In altre parole: nella famiglia esistono dei ruoli che vanno rispettati e il rispetto dei ruoli diversi fra loro fa crescere proprio perché aiuta a guardare in faccia alla realtà. Imparo, in quel modo, che il mio mondo non è il mondo. Se Filippo avesse preso atto che Giulia non lo voleva più, non l’avrebbe ammazzata. Ma per prendere atto bisogna abituarsi a rispettare ruoli, mondi diversi.

                Per cui ho finito per maturare, sempre nel mio angolino, che non si deve abolire la famiglia patriarcale, ma la si deve, in parte ristabilire. Da un eccesso di ruoli si può guarire, da una loro totale mancanza si può morire. Il dramma di Giulia insegna

Alberto Carrara                La barca e il mare           Bergamo             24 novembre 2023

Violenza su donne e domestica. Dal Senato via libera definito alla nuova legge

Il Senato ha approvato in via definitiva la nuova legge contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. Il voto è stato unanime così come era accaduto nel passaggio alla Camera a fine ottobre 2022. Le nuove norme si inseriscono in una serie di interventi che a partire dalla Convenzione di Istanbul del 2013 hanno cercato di porre un argine a un fenomeno drammatico le cui radici profonde, però, sono educative e culturali.

Le novità vanno soprattutto nel senso di anticipare la soglia della tutela penale, puntando sui cosiddetti “reati spia”, e di specializzare e velocizzare l’azione della magistratura, con tempi certi e stringenti. L’uso del braccialetto elettronico e la possibilità di praticare l’arresto in “flagranza differita” sono altri due elementi che caratterizzano la nuova legge, così come la fattispecie della “violenza assistita” – commessa cioè in presenza di minori – e la possibilità di “vigilanza dinamica”, vale a dire la sorveglianza svolta in forma mobile e continuativa da autopattuglie nei pressi dell’abitazione della vittima e dei luoghi frequentati dalla stessa.

                L’articolo 1 estende l’ambito di applicazione dell’ammonimento da parte del questore, sia d’ufficio sia su richiesta della persona offesa, e gli obblighi informativi verso le vittime di violenza.

L’articolo 2 consente l’applicabilità delle misure di prevenzione anche ai soggetti indiziati di alcuni gravi reati che solitamente ricorrono nell’ambito dei fenomeni della violenza di genere e della violenza domestica.

L’articolo 3 assicura priorità assoluta alla trattazione dei processi per violenza, anche di quelli relativi ai reati di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di costrizione o induzione al matrimonio, di lesioni personali aggravate, di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, di interruzione di gravidanza non consensuale, di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e di stato di incapacità procurato mediante violenza.

L’articolo 4 prevede che nei procedimenti per i casi di violenza di genere e domestica sia assicurata priorità anche alla richiesta di misura cautelare personale e alla decisione sulla stessa.

L’articolo 5 introduce misure per favorire la specializzazione degli uffici delle procure in materia di violenza di genere e domestica.

L’articolo 6 prevede iniziative formative per tutti gli operatori.

L’articolo 7 interviene sul procedimento di applicazione delle misure cautelari

L’articolo 8 impone un monitoraggio sistematico sul rispetto dei tempi a livello di procure.

L’articolo 9 innalza le pene relative alla violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, attribuendo rilevanza penale anche alla violazione degli ordini di protezione emessi dal giudice civile.

L’articolo 10 consente l’arresto in flagranza differita, in presenza di documentazione video-fotografica o equivalente.

                L’articolo 11 permette al pm di disporre l’allontanamento urgente dalla casa familiare, con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti della persona gravemente indiziata ove non sia possibile per la situazione di urgenza attendere il provvedimento del giudice.

                L’articolo 12 interviene in materia di misure cautelari e in particolare di applicazione del braccialetto elettronico, imponendo alla polizia giudiziaria il previo accertamento della fattibilità tecnica dell’utilizzo dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici di controllo e prevedendo l’applicazione della misura cautelare in carcere nel caso di manomissione.

L’articolo 14 stabilisce l’obbligatorietà dell’immediata comunicazione alle vittime di violenza di tutti i provvedimenti che riguardano l’autore del reato.

L’articolo 15 stabilisce che, ai fini della sospensione condizionale della pena, non è sufficiente la mera partecipazione ai percorsi di disciplina la possibilità di corrispondere in favore della vittima di taluni reati, oppure degli aventi diritto in caso di morte della vittima, una provvisionale, ossia una somma di denaro liquidata dal giudice come anticipo sull’importo integrale che le spetterà in via definitiva.

                Stefano De Martis           Agenzia SIR                        22 novembre 2023

www.agensir.it/italia/2023/11/22/violenza-su-donne-e-domestica-dal-senato-via-libera-definito-alla-nuova-legge

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