UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 980 – 17 settembre 2023
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
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Carta dell’U.C.I.P.E.M. Estratto
.Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979.
1Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica
02 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 32, 6 settembre 2023
04 CHIESA NEL MONDO Svizzera-abusi: l’onda d’urto
07 Gli asiatici accettano la diversità culturale delle religioni, afferma un sondaggio
08 Test psicologici per i futuri preti. Non basta occorre aprire ministero ai preti sposati
08 CITTÀ DEL VATICANO La chiesa e il dilemma degli artisti peccatori
09 CONSULTORI UCIPEM Cremona. Numerose iniziative per giovani e famiglie
10 DALLA NAVATA XXIV domenica del tempo ordinario (anno A)
10 Chi non ha misericordia merita il perdono?
12 DIFESA DI DIO C’è un Dio da non difendere
15 DOTTRINA NELLA FEDE Fede e ragione nella vita
22 DOTTRINE Dottrine definitive o stadi di una evoluzione?
25 ECUMENISMO Gerusalemme siamo noi
28 FRANCESCO VESCOVO di ROMA Perché il Papa non è filo-russo
29 LAICI Superare la divisione tra chierici e laici
30 OMOFILIA Il dibattito nelle Chiese
33 POLITICHE PER LA FAMIGLIA Le promesse alle famiglie tra molti (troppi) paletti
34 SACERDOTI Un prete al servizio della comunità
38 SINODO Le diverse preoccupazioni
39 Il Sinodo e la preoccupazione per le polarizzazioni: tre rimedi
41 Chiesa sinodale è “assemblea dell’ascolto”
42 TESTIMONI Ecco chi era veramente padre Pino Puglisi
CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA
Newsletter CISF – n. 33, 13 settembre 2023
- La paternità nel cinema: “Brado” commentato da Massimo Recalcati a Milano. L’ultimo film diretto e interpretato da Kim Rossi Stuart, che racconta la storia della difficile relazione tra un padre e un figlio
[su YouTube -in più edizioni www.youtube.com/watch?v=WSJrbxEvKmc
sarà proiettato il 20 settembre a Milano, e poi al termine commentato dallo stesso Stuart e dallo psicoanalista Recalcati. Il ricavato della serata sarà devoluto ai percorsi di cura a tariffa sociale del centro Telemaco di Jonas a Milano [info e prenotazioni]. www.jonasitalia.it/eventi/brado/?occurrence=2023-09-20
- Nonni in pensione, bebè in arrivo? Il direttore Cisf, Francesco Belletti, analizza il paper Bankitalia “Pensionamento dei genitori e scelte di fecondità nei diversi regimi di politiche familiari“, che indaga se la scelta di avere un figlio sia influenzata dal pensionamento di uno dei futuri nonni: “I rapporti tra le generazioni sono sempre più decisivi sia a livello microsociale, nelle famiglie, che a livello macrosociale, nei rapporti tra gruppi sociali. Se infatti la vita quotidiana di tanti genitori adulti non può fare a meno del sostegno dei nonni (economico, relazionale, valoriale e di cura), è altrettanto rilevante il modo in cui le politiche pubbliche trattano le singole generazioni, distribuendo tra loro in modo più o meno equo le risorse pubbliche” [l’intero articolo su IlSussidiario.net
www.ilsussidiario.net/news/natalita-alla-merce-dei-nonni-come-non-incide-il-welfare-secondo-bankitalia/2585645/]
- Seminario Cisf – Assistenti Sociali Lombardia su Adozione e Affido. È intitolato “Adozione e affido di minori con special needs: il dialogo tra famiglia e servizi” il prossimo seminario formativo organizzato dal Cisf in collaborazione con l’Ordine degli Assistenti Sociali della Lombardia: l’appuntamento è per il 5 ottobre, dalle ore 9 alle 13, presso l’Auditorium Don Alberione (via Giotto 36, Milano). Il seminario mette in campo diverse voci, tra esperti e testimonianze, per valorizzare la relazione di collaborazione tra famiglie e servizi nell’accoglienza e nel post accoglienza, centrata sui bisogni speciali dei minori (seguiranno a breve le info per perfezionare l’iscrizione).
Il covid ha cambiato per sempre la vita familiare? È la domanda di fondo contenuta in una ricerca comparativa (su 10 diversi paesi nel Mondo, dal Cile al Pakistan, da Taiwan alla Russia) a cura dell’University College London, intitolata “Family Life in the Time of COVID”. Davvero interessanti le diverse timeline dell’evoluzione del Covid nei diversi paesi e gli scenari e le testimonianze delle famiglie nell’emergenza. “Una domanda persistente da considerare“, si legge negli appunti introduttivi del volume, “è se questo periodo di sconvolgimenti creerà cambiamenti duraturi nella vita familiare. Come hanno riflettuto Matthewman e Huppatz (2020), la pandemia ha il potenziale per portare a una “reimmaginazione del sociale” in considerazione di nuove forme di solidarietà e azione collettiva, nel nostro caso a livello familiare” [qui il testo integrale _ 300 pp _ English].
- Quanto fa bene agli anziani partecipare alla chat di famiglia. Una ricerca accademica israeliana ha interpellato oltre 400 persone di età superiore ai 64 anni per valutare il contributo dell’appartenenza a comunità familiari online (WhatsApp). Ne è emerso che stare nella chat familiare, con la sua dimensione di relazione intergenerazionale, comporta per gli anziani di famiglia livelli più elevati di benessere, meno solitudine e una migliore percezione di sé rispetto all’invecchiamento. A livello sociale, lo studio ha dimostrato l’importante ruolo che l’appartenenza alla comunità online familiare gioca nella vita degli anziani: ciò ha implicazioni significative che possono contribuire alla solidarietà emotiva intergenerazionale [qui il testo integrale dell’articolo – English]
- Caro-scuola: una proposta per sostenere le famiglie e il diritto allo studio dei figli. Un appello firmato dal Forum delle Associazioni Familiari, Adiconsum, AIE, Federcartolai e Anarpe chiede al governo che nella prossima Legge di Bilancio venga aumentato lo stanziamento e siano rivisti i criteri di distribuzione per il diritto allo studio per le famiglie in condizioni di povertà (dagli attuali 133 ad almeno 170 euro) e che venga introdotta per tutte le altre famiglie attualmente prive di strumenti di sostegno alla spesa per i libri scolastici, una detrazione fiscale al pari delle spese mediche [qui il testo dell’appello]
www.atnews.it/2023/09/caro-libri-per-lali-e-federcartolai-alcuni-dei-dati-che-circolano-sono-gonfiati-215382
- La pastorale familiare e quella giudiziale. Le indicazioni e gli interventi di Papa Francesco, da Amoris Lætitia in poi, anche a livello di Tribunali ecclesiastici procedono nella direzione di “dare una certa rilevanza alla pastorale giudiziale da integrare maggiormente nella pastorale familiare, al fine rispondere meglio alle esigenze dei fedeli che desiderano fare luce davanti alla Chiesa e a Dio della loro situazione matrimoniale“, scrive mons. Franco Lanzolla, parroco della cattedrale di Bari e docente di morale presso Istituto superiore di scienze religiose San Sabino di Bari. In una riflessione sull’argomento, ricorda che presso l’arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie è attivo dal 2016 un servizio per l’accoglienza dei fedeli separati, che si è recentemente dotato di un regolamento, e che manifesta “la sollecitudine pastorale dell’intera comunità cristiana alla luce del più recente magistero pontificio volto a favorire un clima di accoglienza nei confronti di ogni fedele, qualsiasi sia la sua condizione personale e, specificatamente, matrimoniale“. www.settimananews.it/famiglia/tribunale-ecclesiastico-pastorale-famigliare
- Un corso per gli assistenti spirituali delle coppie sposate. Una proposta di formazione dal progetto Mistero Grande per i tanti (sacerdoti, religiosi ma anche laici) che affiancano le coppie sposate nel loro cammino spirituale e di vita: è il corso “Matrimonio: nuova via di santificazione. La coppia e la direzione spirituale”, previsto un sabato al mese (9.30-12.30) dal 14 ottobre 2023 all’11 maggio 2024, in modalità online [qui per info, programma e iscrizioni]
- Dalle case editrici
- Y. Agid, Invecchiare? È divertente, Carocci, Roma, 2022, pp. 204
- B. Vanzo (a cura di), Il grembo e la mente. Itinerari di maternità, San Paolo, Cinisello B., 2022, pp. 240,
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- Balla, Chiuse in casa. Storie di violenza domestica durante il Covid, Castelvecchi, Roma, 2022, pp. 94,
Le storie contenute in questo breve ma intenso volume parlano da sole, e svelano un lato oscuro purtroppo presente in diverse case italiane, un veleno che contamina le relazioni di coppia e quelle genitoriali, e che durante il lockdown ha trovato facile esca: la violenza domestica. (…) Sono storie ascoltate dal Telefono Rosa, e nella loro apparente semplicità impongono ad ogni lettore di non voltare la testa dall’altra parte, di non sottovalutare i segnali, di non lasciare sole queste donne (…). (F .Be.)
www.famigliacristiana.it/media/pdf/cisf/23cisfnews33allegatolibri.pdf
- Webinar (IT) – 25 settembre 2023 (inizio ore 21). “Adolescenti e genitori, una relazione possibile!“, a cura del centro Kum, coordina la psicoterapeuta Maria Pia Colella [ info e iscrizioni] www.centrokum.it/eventi
- Webinar (IT) – 28 settembre/20 ottobre/10 novembre 2023 (18-20). “Cittadinanza Onlife, Gaming E narrazione web: tre lezioni in Zoom per i genitori“, a cura di Im-Patto Digitale. Il primo incontro – 28 settembre – sarà tenuto da Stefano Pasta, ricercatore del CREmit (“I giovani: non nativi ma cittadini digitali“) [qui per info e iscrizioni]
- Convegno (Barcellona) – 28 settembre 2023 (9-14). “Nuevas miradas para la prevención de la institucionalización de la infancia“, a cura di Familias en positivo [qui per info e iscrizioni]
- Webinar (Toronto, Canada) – 12/13 ottobre 2023. “The international conference of men and abuse: an academic-community approach“, organizzata da Men&Families 2023 [iscrizioni] www.ifalliance.net/?i=1
- Giornata di Studio (Milano) – 14 ottobre 2023 (9.15-18). “FA.G.E. Family Genogram of Emotions: Giornata esperienziale fra teoria e pratica per lavorare con le emozioni in terapia sistemica“, organizzata da SIRTS-Società Italiana di Ricerca e Terapia Sistemica [qui per info e iscrizioni]
www.sirts.org/eventi/seminari-in-programma/51-giornata-di-studio-fa-g-e-family-genogram-of-emotions-giornata-esperienziale-fra-teoria-e-pratica-per-lavorare-con-le-emozioni-in-terapia-s
- Iscrizione http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
- Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.asp
CHIESA NEL MONDO
Svizzera-abusi: l’onda d’urto
La presentazione dello Studio sugli abusi a Zurigo (12 settembre 2023). Un doppio schiaffo per la Chiesa cattolica in Svizzera: la fondata denuncia contro sei vescovi (quattro in esercizio e due emeriti) di insabbiamento degli abusi e la pubblicazione dello Studio sugli abusi sessuali nella Chiesa svizzera.
Dal 1950 ad oggi i casi accertati da abusi sono 1.002; gli abusanti sono 510; gli abusati sono 921. Il termine abuso copre un’area ampia, dai gesti impropri fino alle aggressioni sessuali più gravi e sistematiche. Per il 39% le vittime sono donne, mentre 56% sono maschi (5% senza indicazioni). Per il 74% si tratta di minori (maschi e femmine), per il 14% di adulti (12% senza indicazioni). Gli ambienti e i contesti più favorevoli all’abuso sono la confessione, il servizio all’altare dei bambini e gli ambiti educativi e assistenziali. Le indagini più difficili hanno riguardato i movimenti ecclesiali e le nuove comunità.
Siamo solo all’inizio. Le due responsabili dello Studio,
Monica Dommann e Marietta Meier, storiche dell’università di Zurigo, hanno sottolineato che «i casi identificati sono solo la punta Dell’iceberg», perché mancano ancora i dati di molti archivi (dello stato, di enti diocesani, scuole, collegi ecc.). «Alla luce dei risultati, presumiamo che solo una piccola percentuale dei casi sia venuta alla luce». Il documento sottolinea la scarsità dell’uso del diritto penale ecclesiale, la distruzione dei documenti per due diocesi (cosa legalmente prevista), il ricorso a metodi come i trasferimenti e le temporanee esenzioni dal ministero come soluzioni dei casi. Solo negli ultimi due decenni il clima è cambiato e le procedure si sono precisate.
Il gruppo di ricerca (quattro persone oltre alle due responsabili) ha potuto visionare senza grandi ostacoli gli archivi ecclesiastici e sviluppare numerosi colloqui con le vittime e altri interessati. Il loro compito era di presentare una prima documentazione, indicando le fonti disponibili e accessibili, favorendo l’avvio di altre ricerche. Inoltre, dovevano segnalare quali questioni e quali istituzioni coinvolgere, ascoltando e promuovendo le esigenze informative delle vittime, oltre a specificare le difficoltà incontrate.
Convivere col senso di colpa. In conferenza stampa le responsabili dello Studio hanno sottolineato che la ricerca poteva essere fatta già vent’anni fa, apprezzando tuttavia la progressiva finezza delle indagini in merito nel contesto di lingua tedesca. La responsabile del centro amministrativo della Chiesa (istituto indipendente rispetto ai vescovi), Renata Asal-Steger, ha riconosciuto che «la Chiesa come istituzione ha causato sofferenze indicibili per la cattiva condotta delle persone e per i deficit sistemici», impegnandosi in un necessario cambiamento di cultura. Per il responsabile dei religiosi vi è un colpevole rapporto asimmetrico fra ordine maschili e femminili: «È ovvio che gli istituti di vita religiosa sono parte del problema».
Il presidente della Conferenza episcopale, mons. Felix Gmür (α1966)
era presente fra il pubblico, ma non ha parlato. Fra i relatori c’era
Mons. Joseph Bonnemain, (α1948) vescovo di Coira. Egli ha detto: «Dobbiamo convivere con questo senso di colpa e assumerci le nostre responsabilità», soprattutto in ordine a un cambio di mentalità. Ha promesso l’attivazione di un ufficio di ascolto e informazione a livello nazionale, come richiesto dalle vittime, la proibizione di procedere alla distruzione dei dati archivistici riguardanti gli abusi, l’affinamento delle procedure di assunzione per gli uffici ecclesiastici e il sostegno alla richiesta di aprire gli archivi della nunziatura e del Vaticano. Ha concluso dicendo: «La generazione futura ha diritto a una Chiesa purificata». «Solo una Chiesa mite ha diritto di esistere».
In diverse domande dei giornalisti è riecheggiata la richiesta di dimissioni dell’episcopato, che però non ha ottenuto risposta. Qualche giorno prima, interrogato in merito, p. Hans Zollner (α1966) aveva affermato:
«Le dimissioni non significano automaticamente che ci sarà un chiarimento e che il processo proseguirà bene. Tuttavia è necessario assumersi la propria responsabilità, anche se non si è direttamente responsabili di nulla. Vescovi, provinciali e altri leader rappresentano le rispettive istituzioni nella loro storia. Allo stesso tempo, vale quanto segue: nella Chiesa è necessario un cambiamento di struttura e di mentalità. Nemmeno le dimissioni possono portare tutto ciò da un giorno all’altro».
Una parte dello Studio riguarda alcuni casi. Fra questi uno interessa il defunto vescovo Ivo Fürer, stimato pastore di San Gallo. Avrebbe ignorato sistematicamente le denunce verso un suo prete, supportate dalle testimonianze di diverse mamme, in rapporto alla pedofilia dello stesso. L’indagine preliminare canonica non è mai partita e solo il successore ha provveduto ad avviare un procedimento.
Sei vescovi denunciati. Il 10 settembre appare sul Sonntagsblick una lettera che denuncia alcuni preti e sei vescovi di abusi o di insabbiamento degli stessi. La lettera non era destinata alla pubblicazione, ma è stata indirizzata al nunzio apostolico, mons. Martin Krebs, nel maggio scorso. Il 23 giugno il dicastero dei vescovi ha ordinato l’inchiesta preliminare sui casi, affidando il compito al vescovo di Coira, Joseph Bonnemain ↑, che dovrà chiudere la pratica entro la fine dell’anno. Nella lettera si denuncia un vescovo e tre preti (Losanna, Ginevra e Friburgo) come abusatori e altri cinque vescovi per avere rallentato o oscurato le denunce nei confronti di attori delle violenze. Fra i vescovi ci sono Jean-Marie Lovey, Charles Morerod, Alain de Raemy, Pierre Bürcher e Jaen-Claude Perisset (gli ultimi due sono emeriti). Coinvolto anche il vescovo David Tencer, ex ausiliare di Losanna e ora vescovo a Reykjavik.
Il denunciante è una figura assai credibile. Si tratta di Nicolas Betticher, (α1961)
già portavoce della Conferenza episcopale, cancelliere a Losanna, vicario generale nella stessa diocesi, segretario di nunziatura e ora parroco a Berna. Silenzioso finché la sua lettera non è arrivata ai giornali, ha apprezzato molto lo Studio, sottolineando però la necessità che le pratiche giuridiche canoniche in ordine agli abusatori siano effettivamente messe in opera. Coinvolgendo anche sé stesso nel clima generale di freno e di silenzio, si è deciso al passo della denuncia perché richiesto espressamente dai documenti del papa. «Ho pensato alle vittime. Sono loro al centro e non i ministri ordinati. Questi hanno fallito. Io stesso, come vicario generale, sono fra questi. Lo riconosco. Ma oggi, a distanza di quindici anni (dalla carica) non posso più accettare che si continui così. Ho numerosi rapporti con le persone interessate. Ancora oggi le vittime constatano regolarmente che le loro segnalazioni restano senza conseguenze per gli abusanti. È molto grave». Esistono strutture già in atto, come le commissioni diocesane, ma si limitano spesso a trasmettere i casi al tribunale civile, come richiesto dalle linee-guida interne, senza ulteriori impegni.
Il fatto e il da farsi. Il vescovo Bonnemain ha espresso il suo dispiacere personale e la conseguente fatica ad accettare il compito affidatogli dalla Santa Sede, sottolineando che la sua non è un’inchiesta. Non sta indagando su nessuno. Si tratta solo di verificare i fatti e di scrivere un rapporto. Ben sapendo che le denunce sono già arrivate al tribunale civile. «Avrei preferito rifiutare l’incarico da Roma. Per il bene delle vittime e della giustizia, ho accettato. Ora devo farlo, verificando le accuse».
In Svizzera sono attive da diversi anni le commissioni diocesane per gli abusi e il loro coordinamento attraverso una commissione di esperti. Fra le misure già attuate: i candidati agli ordini e alla vita consacrata devono avere referenze, l’estratto del casellario giudiziario, un esame psicologico e un controllo incrociato fra i diversi istituti formativi. Si sono messi in atto modelli di formazione continua, contratti specifici per i dipendenti, controlli più severi per il personale ecclesiastico proveniente dall’estero, l’obbligo alla segnalazione e, eventualmente alla denuncia, alla procura e un colloquio nazionale annuale per tutte le commissioni diocesane.
È facilmente immaginabile l’onda d’urto dei media che già alla presentazione dell’avvio dello Studio si era messa in moto. Meno misurabile, ma certamente più profonda, la sofferenza delle comunità cristiane.
Lorenzo Prezzi settimana news 13 settembre 2023/ 4 commenti
commento
Ora toccherebbe alla Chiesa italiana fare seriamente i conti con gli abusi e che le coperture che gli abusanti hanno avuto dalla gerarchia. Ma la CEI (mi domando) ha davvero l’intenzione di assumersi tale ineludibile compito oppure preferisce continuare a non fare nulla di concreto per chiarire il passato e riprogettare un presente e un futuro privo di abusi e di cultura della negazione? Forse P. Zollner ha ragione: si tratta di vane speranze senza un cambiamento di strutture, di mentalità e anche (aggiungerei) di persone.
Gli asiatici accettano la diversità culturale delle religioni, afferma un sondaggio
Le persone condividono credenze religiose che attraversano i confini confessionali e pregano gli dei di fedi diverse. Ne riferisce UcaNews. La maggior parte delle persone nei paesi del Sud e Sud-Est asiatico sono tolleranti verso la diversità religiosa e considerano i gruppi religiosi minoritari compatibili con la cultura e i valori nazionali, afferma l’ultimo sondaggio Pew Tutti i principali gruppi religiosi della regione hanno espresso “una generale accettazione della diversità religiosa”, afferma il rapporto del sondaggio pubblicato dal Pew Research Center il 12 settembre 2023. La ricerca ha intervistato persone in tre nazioni a maggioranza buddista – Sri Lanka, Thailandia e Cambogia – e due paesi a maggioranza musulmana – Indonesia e Malesia – oltre alla multireligiosa Singapore.
In tutti e sei i paesi, la maggioranza accetta le persone di altre religioni, pur essendo minoranze religiose, come parte della propria cultura e dei propri valori nazionali, e non esprime un sentimento negativo nei confronti della diversità religiosa, afferma il rapporto del sondaggio.
Ad esempio, in Sri Lanka, il 68% degli intervistati ha affermato che il cristianesimo e l’induismo sono compatibili con la cultura e i valori dello Sri Lanka, nonostante i buddisti costituiscano il 70% dei 22 milioni di abitanti. Nella Malesia a maggioranza musulmana, il 67% afferma che il buddismo è compatibile con la cultura e i valori malesi.
Le persone in tutte e sei le nazioni hanno trovato il cristianesimo compatibile con la loro cultura nazionale, ma a vari livelli. Meno della metà delle persone (44%) in Cambogia ritiene che il cristianesimo sia compatibile con la loro cultura. Ma più persone in Indonesia (60%), Malesia (65%), Sri Lanka (68%) e Tailandia (73%) trovano il cristianesimo compatibile con la loro cultura nazionale. La stragrande maggioranza a Singapore (89%) ritiene che la cultura cristiana sia compatibile con la cultura nazionale.
Accettata la diversità religiosa. Alla domanda se la diversità religiosa renda il loro Paese “un posto migliore in cui vivere”, la maggior parte delle persone ha concordato o ha risposto che non ha importanza. Le persone che affermano che la diversità religiosa rende il loro Paese un posto migliore, e coloro che affermano che non ha importanza, insieme costituiscono più del 90%.
Solo poche persone hanno parlato negativamente della diversità religiosa. Solo il 4% di Singapore e della Malesia ritiene che la diversità religiosa renda il loro Paese “il posto peggiore in cui vivere”. Il 6% di Indonesia e Sri Lanka hanno espresso tale sentimento negativo, ma più persone hanno espresso tale sentimento in Tailandia (11%) e Cambogia (12%).
Le persone appartenenti a tutti i principali gruppi religiosi di questi paesi hanno affermato che sarebbero “disposte ad accettare membri di diverse comunità religiose come vicini”. Nello Sri Lanka gli indù sono accettati come vicini da circa l’81% dei buddisti. Allo stesso modo, circa l’85% degli indù ha affermato di provare la stessa cosa nei confronti dei buddisti.
L’indagine ha anche rivelato che le persone con livelli di istruzione più elevati hanno maggiori probabilità di accettare vicini di altre religioni. Ad esempio, circa l’80% degli indonesiani con almeno un livello di istruzione secondaria ha dichiarato che accetterebbe come vicini di casa i praticanti delle religioni tradizionali cinesi, rispetto al 55% degli indonesiani con un livello di istruzione inferiore.
Preghiere ad altri dei. Inoltre, secondo il sondaggio, gli uomini sono più propensi ad accettare membri di altre religioni come vicini rispetto alle donne. Anche i gruppi religiosi nella regione hanno mostrato “segni di credenze e pratiche religiose condivise al di là dei confini religiosi”. “Una considerevole maggioranza in quasi tutte le grandi comunità religiose di tutti e sei i paesi affermano che il karma esiste, anche se la fede in esso non è tradizionalmente associata a tutti i gruppi religiosi esaminati”, afferma il rapporto. Il karma, generalmente associato all’Induismo, si riferisce all’idea che le persone trarranno beneficio o soffriranno a seconda delle loro azioni buone o cattive, spesso nelle vite future.
Un’altra scoperta significativa è stata il fatto che molte persone offrono il loro rispetto a divinità o figure fondatrici che non sono tradizionalmente considerate parte della loro religione. Nello Sri Lanka, gli indù (66%) pregano Gesù Cristo, i musulmani (62%) e i cristiani (48%) dicono di pregare la divinità indù Ganesh, considerata colui che rimuove gli ostacoli.
Vedi a destra l’indice giornaliero https://sacerdotisposati.altervista.org
Esami psicologici per i futuri preti. Non basta occorre aprire ministero ai preti sposati
Le diocesi svizzere stanno introducendo nuove misure per prevenire gli abusi – Per Bonnemain,↑ vescovo di Coira, “bisogna ammettere la colpa e lavorare nella giusta direzione”. Bene l’atteggiamento attuato in Svizzera, ma per il Movimento Internazionale dei sacerdoti sposati nn basta. Sono necessarie altre azioni di riforma nella Chiesa che aprano alla possibilità per i preti sposati di essere riammessi al ministero sacerdotale attivo.
Di seguito l’articolo tratto da rsi.ch:“Il corposo rapporto sugli abusi sessuali nelle istituzioni religiose svizzere sta spingendo le diocesi del Paese a intraprendere nuovi passi affinché tutti i casi passati possano emergere e si scongiuri il rischio che altri possano nuovamente verificarsi. Joseph Maria Bonnemain, vescovo della diocesi di Coira, alla RSI ha spiegato che le diocesi svizzere stanno già introducendo una serie di misure, perché “ogni caso è un caso di troppo”. Secondo il vescovo, “bisogna ammettere la colpa, portarla sulle spalle e lavorare nella giusta direzione”. In questo senso, il 75enne spiega che si è già “presa la responsabilità di non distruggere nemmeno una carta degli archivi, perché così i ricercatori potranno lavorare senza difficoltà”. Un nuovo standard che peraltro contraddirebbe un canone del diritto canonico che stabilisce che ogni 10 anni i documenti dei processi conclusi e quelli relativi alle persone decedute siano distrutti.
Inoltre, aggiunge Bonnemain, “vogliamo porre degli standard psicologici per chi desidera entrare in seminario o iniziare un in un ordine religioso in modo da assicurarci che soltanto persone responsabili possano essere ammesse”.
Archivi svizzeri aperti, ma non quelli del Vaticano. Se la Chiesa in Svizzera ha aperto i propri archivi ai ricercatori, altrettanto non è stato fatto dal Vaticano. Le diocesi svizzere vogliono allora “intervenire per far capire perché sarebbe necessario aprire questi archivi. Penso che un primo passo – chiosa il vescovo di Coira – non sarà forse di aprire tutti gli archivi, ma che quando arriva una domanda per un caso concreto, su quel caso siano disposti ad aprire gli archivi”. RG/OCartu
www.informazione.it/a/2C554FE6-8F66-431B-AFA5-EF0D72601030/Test-psicologici-per-i-futuri-preti
CITTÀ DEL VATICANO
La chiesa e il dilemma degli artisti peccatori
Può la Chiesa romana tollerare, nei suoi spazi sacri, opere d’arte composte però da persone che si sono macchiate di comportamenti ritenuti peccaminosi e infami? Il dilemma, un tempo risolto a favore degli artisti, si ripresenta a proposito del (ex) gesuita Marko Ivan Rupnik, autore di mosaici, pur bellissimi, che turbano però profondamente alcune donne che da lui sarebbero state violate.
Il gesuita – sloveno ma da molti anni a Roma dove ha dato vita al Centro Aletti che si prodiga tra l’altro, per i migranti – è stato accusato, con motivazioni che i superiori della Compagnia di Gesù ritengono molto probanti, di aver abusato sessualmente di una quindicina di donne, per lo più suore, infine dando lui l’assoluzione ad almeno una di queste (“delitto” che automaticamente provoca la scomunica papale, dalla quale però, e non si sa da chi, Rupnik sarebbe stato quasi subito perdonato). Avendo egli rifiutato di trasferirsi, come gli veniva chiesto, a metà giugno è stato espulso dalla Compagnia, avendo però un mese a disposizione per fare appello e, nel frattempo, cercarsi un vescovo benevolo disposto ad accoglierlo in diocesi. Il Diritto canonico”, infatti, non accetta presbìteri “vaghi”, cioè senza un superiore al quale debbono obbedire. Ma, a quanto pare, a metà luglio non aveva trovato quel vescovo: era, dunque, in una situazione del tutto anomala. D’altronde, in modo distinto ma parallelo, in questi mesi è sorto un altro problema: donne che accusano il gesuita di averle violentate protestano perché in alcune chiese si mantengono mosaici che hanno per autore proprio Rupnik: «Ma non è scandaloso – dicono – custodire opere di un violentatore seriale?». E queste opere sono un poco ovunque: nella diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo; nel santuario di Lourdes; nel santuario nazionale brasiliano della Madona di Aparecida. In tutti questi luoghi ha operato l’artista, e tutti sanno le accuse che gravano contro di lui (che, finora, ha però evitato ogni pubblico processo). I rispettivi vescovi – desiderosi di rispettare i diritti degli artisti, ma anche di ascoltare il grido delle donne violate – attendono istruzioni da Roma.
D’altronde, il passato non aiuta. Mezzo millennio fa, tutti in Vaticano sapevano che sia Raffaello che Michelangelo, nella loro vita privata, in campo sessuale si comportavano in modo assai difforme dalla morale cattolica ufficiale. Ma i papi non andavano per il sottile, e ritenevano che qualche “tolleranza” verso le “debolezze” di quei sommi artisti fosse assolutamente giustificata, avendo in contropartita opere d’arte che avrebbero sfidato i secoli. E d’altronde… allora non c’era Internet, e le dicerie, che pur correvano, avevano un raggio limitato. Oggi, però, che accadrebbe se, dinanzi ad un mosaico, pur prestigioso di Rupnik, collocato a Lourdes, una donna esclamasse: «quest’uomo mi ha violentata?». Non sarà facile, per la Curia romana, sciogliere il dilemma. L’arte è importante, ma ancora di più la dignità della donna ed i suoi inalienabili diritti.
Luigi Sandri “L’Adige” 11 settembre 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202309/230911sandri.pdf
CONSULTORI UCIPEM
Consultorio Ucipem Cremona – Fondazione Onlus – aggregazioni laicali della diocesi
Numerose iniziative per giovani e famiglie
Finalità: favorire la crescita del singolo e della coppia affinché possano attuare scelte autonome e responsabili. Promuovere l’affermazione e l’attuazione dei valori del matrimonio e della famiglia secondo lo spirito della Costituzione della Repubblica Italiana.
Sede: via Milano, 5/C – 26100 Cremona – tel. 0372 20 751 – 0372 34 402 – email: segreteria@ucipemcremona.it
Presidente: Mantovani dr. Mario Direttore: Antonioli dott.sa Maria Grazia
Da settembre e per i mesi successivi, il Consultorio Ucipem di Cremona propone diverse iniziative a supporto di giovani, famiglie e neogenitori. Una serie di eventi, totalmente gratuiti, online o in presenza, guidati da esperti del settore, che possano offrire un vero aiuto nella gestione dei legami e nel confronto quotidiano con le “novità” della vita adulta.
§ “Prendersi cura di chi si prende cura” è il percorso di gruppo, in modalità online, gestito da uno psicoterapeuta e da una psicologa esperti in materia, rivolto a chi presta assistenza e cura a famigliari anziani che vivono a casa. In programma al mercoledì, il 20 settembre, il 4, il 18 e il 25 ottobre, l’8, il 15 e il 29 novembre, e il 6 dicembre, sempre alle 21, ha l’obiettivo di offrire uno spazio in cui potersi confrontare e valorizzare le proprie esperienze, esprimere i propri vissuti emozionali, recuperare un benessere individuale che giovi oltre a se stessi anche ai propri familiari anziani. Gli incontri, realizzati nel contesto del progetto “Spazi nuovi”, realizzato con il contributo della Fondazione comunitaria della provincia di Cremona, sono gratuiti e necessitano di iscrizione.
§ Alla ricerca del futuro: che cosa ho in mente?“ è il tema di un secondo percorso. Un gruppo di racconto per giovani donne dai 18 ai 26 anni sul tema del futuro. Si tratta per lo più di uno spazio di parola e confronto per condividere emozioni, aspettative, dubbi e timori legati a questa specifica fase del ciclo di vita caratterizzata da percorsi scolastici in chiusura e nuovi inizi formativi o lavorativi. Gli incontri, gratuiti, saranno tenuti dalle psicologhe Gloria Belotti e Miriam Federici, presso la sede del Consultorio Ucipem. Gli appuntamenti sono programmati per martedì 19, mercoledì 20 e martedì 26 settembre, sempre alle ore 19. L’iniziativa rientra all’interno del progetto “Smart – Movimenti al femminile” realizzato con il contributo di Regione Lombardia.
§ “Benessere donna” è il percorso dedicato alle donne in perimenopausa, accompagnate dall’ostetrica Marina Valenti e dalla psicologa Chiara Guarneri. Un’occasione in cui le partecipanti si potranno confrontare su come affrontare con stili di vita salutari questo periodo di cambiamento. Gli incontri, gratuiti, si terranno in presenza presso la sede del Consultorio di via Milano nei seguenti giorni e orari: il 14, il 21 e il 28 settembre e il 5 e il 12 ottobre dalle 19.30 alle 21.
§ Il 21 e il 28 settembre, e il 5, il 12 e il 19 ottobre, dalle 19 alle 20.30, avranno luogo gli appuntamenti online gratuiti del percorso “Diventare mamme”, un’iniziativa di confronto sull’esperienza della maternità, guidata dalla psicologa e psicoterapeuta Maria Lorenzetti e dalla psicologa Michela Paroli.
§ La sede del Consultorio di Cremona ospiterà anche l’iniziativa “Manovre salvavita pediatriche e sonno sicuro”. Un incontro gratuito con iscrizione obbligatoria, tenuto dagli istruttori della Croce rossa italiana, dedicato alle neomamme e alla cura del neonato. Appuntamento mercoledì 27 settembre alle 20.45.
Per maggiori informazioni è possibile contattare il numero 0372-20751 o gli indirizzi formazione@ucipemcremona.it e segreteria@ucipemcremona.it.
Per le iscrizioni, compilare i form dedicati, disponibili sul sito www.ucipemcremona.it.
Gli incontri online saranno fruibili attraverso la piattaforma GoogleMeet.
Fonte: TeleRadio Cremona Cittanova
www.ucipemcremona.it
DALLA NAVATA
XXIV domenica del tempo ordinario – Anno A
Siracide 27, 33. Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro.
Salmo 102, 11. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe.
Paolo ai Romani 14, 09. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti
e dei vivi.
Matteo 18, 21. Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore se il mio fratello…
Chi non ha misericordia merita il perdono?
Terminiamo la lettura del quarto dei cinque grandi discorsi di Gesù nel vangelo secondo Matteo, detto anche discorso ecclesiale o comunitario, perché in esso sono contenuti insegnamenti riguardanti la vita dei discepoli viventi in comunità, nelle chiese. Viene innanzitutto riferito il contesto dell’insegnamento di Gesù contenuto nella sua parabola. Avendo egli enunciato le esigenze della correzione fraterna e del perdono reciproco (cf. Mt 18,15-20), Pietro solleva una questione alla quale Gesù risponde subito in modo perentorio, ma poi rivela “in proposito” (diá toûto) cosa accade nel regno dei cieli, quale comportamento l’azione di Dio ispira ai discepoli. Questa pagina è un insegnamento decisivo nella vita ecclesiale, e dobbiamo confessare che noi cristiani la leggiamo spesso e volentieri, ma poi non riusciamo a metterla in pratica quando siamo coinvolti in dinamiche analoghe.
Pietro dunque si avvicina a Gesù e gli chiede: “Signore, se il mio fratello pecca contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette (numero di pienezza e totalità) volte?”. Domanda comprensibile: si può perdonare senza tenere conto del numero di volte in cui il perdono viene rinnovato? Se uno continua a compiere lo stesso male contro di me, fino a quante volte posso perdonarlo? Certamente Pietro non dimentica che nella Torah sta scritto che Lamech, il sanguinario figlio di Caino, canta la ripetizione della vendetta fino a sette e poi fino a settanta volte sette (cf. Gen 4,23-24). Pietro è già misericordioso, perché in verità non è facile perdonare sette volte lo stesso peccato allo stesso offensore. Ma Gesù gli risponde con autorità: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”, cioè sempre, all’infinito! Senza se e senza ma, il discepolo di Gesù perdona senza calcolare il numero delle volte. Di fronte a una tale dichiarazione l’ascoltatore resta stupefatto, forse anche esterrefatto, perché non è facile né comprendere né assumere questo atteggiamento. Ciò che Gesù chiede non è forse troppo? È possibile per l’essere umano perdonare sempre?
Allora Gesù spiega quelle sue parole così nette attraverso una parabola che, come sempre sulla sua bocca, è rivelazione, è un alzare il velo su Dio e sulla sua azione. Il racconto, che mette in scena un re e due servi debitori, si sviluppa in tre atti, seguiti da un commento conclusivo di Gesù (v. 35):
Il re e il debitore nei suoi confronti (vv. 23-27); il primo debitore e un fratello a sua volta debitore verso di lui (vv. 28-31); il confronto definitivo tra il re e il primo debitore (vv. 32-34). Un re vuole fare i conti con i suoi servi, ed ecco che gliene viene presentato uno il quale è debitore verso di lui di una cifra enorme, iperbolica: diecimila talenti, cioè cento milioni di denari (tenendo conto che un denaro corrisponde alla paga media giornaliera di un operaio), impossibile da rimborsare per un servo! Di fronte alla prospettiva della vendita dei suoi familiari come schiavi e della prigione per sé, quest’uomo si inginocchia davanti al re e lo supplica: “Sii grande di animo con me (sii paziente con me, makrothýmeson) e ti restituirò ogni cosa” (ciò che è impossibile!). Di fronte a tale disperazione e sofferenza il re, “mosso a viscerale compassione” (splanchnistheís), preso cioè da un sentimento di misericordia, lo lascia andare e gli condona il debito. Siamo in presenza di un re che esige l’osservanza della legge ma che, di fronte, a chi soffre perché non può ottemperare alla giustizia, fa regnare la misericordia e non più la legge. Egli ha un cuore capace di lasciarsi ferire dal male patito dal suo servo.
Ma ecco la scena simmetrica. Quest’uomo perdonato, radicalmente salvato insieme alla sua famiglia, esce libero, per vivere in pienezza di libertà e di relazioni; e subito incontra un suo compagno, anzi precisamente un suo con-servo (syndoúlos), debitore nei suoi confronti di una cifra modesta, cento denari, l’equivalente della paga di poco più di tre mesi di un lavoratore nella campagna. Appena lo vede, lo afferra al collo e lo soffoca intimandogli di saldare il debito. L’altro lo supplica con le medesime parole da lui usate in precedenza: “Sii grande di animo con me (sii paziente con me) e ti restituirò”. Ma egli non accetta, perciò lo fa gettare in prigione fino al momento della restituzione del debito. Nella prima scena il re perdona al servo, nella seconda il perdonato non perdona al fratello!
La differenza di comportamento tra i due creditori è messa in luce dalla terza scena. Quando il re viene a sapere dagli altri servi ciò che ha fatto il servo da lui perdonato, lo fa chiamare e lo apostrofa: “Servo cattivo, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà (eleêsai) del tuo con-servo, così come io ho avuto pietà di te?”. Ecco rivelato il fondamento di ogni azione di perdono: l’essere stati perdonati. Il cristiano sa di essere stato perdonato dal Signore con una misericordia gratuita e preveniente, sa di aver beneficiato di una grazia insperata, per questo non può non fare misericordia a sua volta ai fratelli e alle sorelle, debitori verso di lui in modo certo meno grave. In questa parabola – lo ripeto – non è questione di quante volte si deve dare il perdono, ma si tratta di riconoscere di essere stati perdonati e dunque di dover perdonare. Se uno non sa perdonare all’altro senza calcoli, senza guardare al numero di volte in cui ha concesso il perdono, e non sa farlo con tutto il cuore, allora non riconosce ciò che gli è stato fatto, il perdono di cui è stato destinatario. Dio perdona gratuitamente, il suo amore non va mai meritato, ma occorre semplicemente accogliere il suo dono e, in una logica diffusiva, estendere agli altri il dono ricevuto.
Comprendiamo così l’applicazione conclusiva fatta da Gesù. Le parole che egli pronuncia sono parallele, identiche nel contenuto, a quelle con cui chiosa la quinta domanda del Padre nostro – “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12); l’unica, non lo si dimentichi, da lui commentata.
Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, così anche il Padre mio che è nei cieli farà a voi. il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; se non perdonerete di cuore, ma se voi non perdonerete agli altri, ciascuno al proprio fratello, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.
Niente perdono da parte di Dio a noi, se noi non perdoniamo gli altri. O meglio, se non siamo ministri di questa misericordia ricevuta da Dio, che ci perdona sempre e ci ha perdonati una volta per tutte attraverso Gesù Cristo, egli ritira il suo perdono, come l’ha ritirato al servo inizialmente perdonato. Sarebbe una smentita del Dio che si professa e si proclama, l’essere da lui perdonati e poi non perdonare gli altri. La chiesa è una comunità di perdonati che perdonano, per questo al suo cuore c’è l’eucaristia, in cui si vive la remissione dei peccati a parte di Dio affinché siamo a nostra volta ministri di perdono e di misericordia nella chiesa stessa e nella compagnia degli uomini, nel mondo.
Da questa pagina il cristiano deve innanzitutto imparare a discernere il vero volto di Dio, quello che Gesù ci ha narrato (exeghésato: Gv 1,18), e saper sovrapporre questo volto ultimo e definitivo sugli altri che le Scritture stesse ci hanno consegnato. Non bisogna infatti nascondere che talvolta nelle Scritture appare tratteggiato un Dio che castiga e non esaudisce chi chiede pietà, un Dio che non reitera il perdono. Un esempio su tutti, che è una smentita letterale del Nome del Signore consegnato a Mosè (cf. Es 34,6-7), si trova all’inizio della profezia di Naum: “Un Dio geloso e vendicatore è il Signore, vendicatore è il Signore, pieno di collera. Il Signore si vendica degli avversari e serba rancore verso i nemici. Il Signore è lento all’ira, ma grande nella potenza e nulla lascia impunito” (Na 1,2-3).
Ma Gesù ci consegna l’ultima e definitiva narrazione di Dio. Per noi cristiani la misericordia di Dio è il tratto essenziale per conoscerlo ed è l’azione con cui Dio stesso ci mette in comunione con sé: è il modo in cui Dio rivela la sua onnipotenza! Non è facile accettare questo volto di Dio, perché tutte le religioni hanno sempre predicato un Dio che fa giustizia, che punisce il male commesso, che nella sua onnipotenza castiga. Non è facile perché noi umani abbiamo dentro di noi un concetto di “giustizia umana” e pretendiamo di proiettarlo su Dio. Ma Gesù ci ha rivelato il volto di Dio come volto di colui che ci ha amati mentre gli eravamo nemici, ci ha perdonati mentre peccavamo contro di lui, ci è venuto incontro mentre noi lo negavamo (cf. Rm 5,8.10).
Ecco perché Gesù ci chiede addirittura l’amore verso i nemici (cf. Mt 5,43-47), novità del comandamento dell’amore del prossimo (cf. Mt 19,19; 22,39; Lv 19,18) esteso fino al nemico. In obbedienza al Signore Gesù, dunque, l’amore e il perdono del cristiano siano gratuiti, senza calcoli né restrizioni, “di cuore”. Se il cristiano perdona facendo calcoli, svaluta quel perdono che proclama a parole. Perdonare l’imperdonabile: questa l’unica misura del perdono cristiano!
p. Enzo Bianchi Albiano di Ivrea
www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/207783/chi-non-ha-misericordia-merita-il-perdono
DIFESA DI DIO
C’è un Dio da non difendere
La Presidente Giorgia Meloni non è il primo leader politico a dichiarare di voler difendere Dio. La storia conosce da sempre sia politici che si fanno difensori di Dio (come Enrico VIII d’Inghilterra. nominato Defensor fidei da papa Leone X, anche se ciò non gli impedì qualche anno dopo di far decapitare Tommaso Moro), sia uomini di Chiesa che si fanno paladini di obiettivi politici (come Benedetto XVI con i suoi «valori non negoziabili» di vita-scuola-famiglia). Dalla Roma imperiale alla Roma di oggi, dall’antico Israele all’Israele di oggi ostaggio dei partiti religiosi, dalla Russia di Putin e di Kirill all’India di Modi, sono numerosissime le civiltà basate sull’alleanza tra il trono e l’altare, in qualunque modo questi si chiamino. Di solito l’alleanza funziona perché conviene a entrambi, mentre non sempre conviene ai cittadini che infatti qualche volta la fanno saltare: si pensi alla Rivoluzione francese e alla fine dell’Ancien Régime, e si pensi in anni più recenti in Italia ai referendum popolari sul divorzio e sull’aborto, quando la maggioranza dei cittadini scelse un’idea di famiglia diversa da quella del trono e dell’altare, a quei tempi molto più strettamente imparentati di oggi.
Ma quale Dio occorre difendere? E da chi occorre difenderlo, e da che cosa? Si leggono nella Bibbia queste parole di Giobbe ai tre amici teologi venuti a difendere Dio dalle sue accuse: «Volete difendere Dio parlando con menzogna? Sostenere la sua causa con parole di frode?» (Giobbe 13,7).
Il punto vero, quindi, non è difendere Dio (operazione che la teologia e la filosofia praticano da sempre con ciò che la prima chiama «apologetica» e la seconda «teodicea»), ma lo scopo e gli argomenti con cui lo si fa. Per il nostro premier l’equazione non potrebbe essere più netta: Dio = identità; difesa di Dio = difesa della nostra identità. Difendere Dio, quindi, è difendere noi stessi, la nostra patria, l’intera civiltà occidentale. A suo avviso, Dio e la Patria stanno e cadono insieme, e ciò che permette a entrambi di sussistere è la famiglia e la sua natalità.
Io penso che davvero oggi dobbiamo difendere Dio dal nichilismo imperante, addirittura sostengo che anche gli atei dovrebbero difendere la plausibilità del suo concetto, ma ritengo che si tratti di un’operazione spirituale, non politica, che va compiuta dentro di noi, non nei comizi o in tv.
Aggiungo che Dio, patria e famiglia sono valori preziosi, a cui io tengo molto, e che il nostro problema è che la Sinistra non si cura quasi mai di difenderli (dimenticando quanto Dio, patria e famiglia ricorrano frequentemente nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana) e che la Destra li difende nel modo sbagliato.
Ma tornando a Dio, ribadisco che la sua difesa non sia un’azione politica, ma spirituale. Dio rappresenta l’ideale per eccellenza dell’ottimismo metafisico, la speranza che la vita abbia un senso, un destino, una destinazione; la speranza che parole come giustizia, verità, bellezza, armonia non siano un’illusione ma la dimensione più vera dell’essere. Difendere questa speranza, coltivata da sempre dall’umanità, è importante, direi decisivo. Soprattutto lo è oggi, quando è facile verificare cosa significa crescere senza un Dio, senza una religione e una religiosità: nella storia non c’è mai stata società senza religione, e ora che noi siamo rimasti senza religione (perché è evidente che il cristianesimo non ha più presa sulle coscienze dei più) assistiamo allo sfaldamento progressivo della società, non più “insieme di soci” ma sempre più massa amorfa e rissosa di rivali.
Il punto però è che il Dio della tradizione è indifendibile. Il Dio che Giorgia Meloni associa alla patria e alla famiglia, il Dio degli eserciti signore della storia e re dell’universo, il Dio reggitore del destino dei popoli e della vita di ogni essere umano, il Dio padre e maschio proiezione del pater familias e del suo potere, questo Dio che è “il nostro Dio” e che come tale ci divide da coloro che ne hanno uno diverso, questo Dio, dopo tutto quello che nella storia è avvenuto (la Shoah, per esempio) e dopo tutto quello che in essa non è avvenuto (il suo intervento liberatore, per esempio), risulta oggi totalmente indifendibile.
Il Dio di cui abbiamo bisogno non è e non può essere più quello della tradizione, il Dio del monoteismo e delle guerre di religione, il Dio nel cui nome è stato compiuto pressoché ogni crimine proclamando «Dio lo vuole». Non può essere il Dio della morale unica e della famiglia unica che mandava all’inferno tutti i conviventi non regolarmente sposati all’altare, considerati pubblici peccatori e quindi soggetti a un doppio peccato mortale (di adulterio e di scandalo). Questo Dio è lontano dal cuore e dall’anima degli esseri umani e invocarlo non può che condurci al fallimento e alla violenza.
Quale Dio ha in mente Meloni quando parla di Dio? Pensare di affrontare i problemi immensi di questo mondo con l’immagine e la teologia del passato significa alimentare lo scontro delle civiltà previsto da Samuel Huntington nel 1993 e purtroppo oggi del tutto potenzialmente reale. Basta un niente, una sola parola, perché essa divampi: si pensi all’incidente di Ratisbona in cui incorse Benedetto XVI nel 2006, tanto per fare un esempio.
Il Dio che dobbiamo difendere può essere solo interiore. Il che significa che le religioni devono fare
un passo indietro e si devono convertire. A cosa? A qualcosa più importante di loro: al bene del mondo. Abbiamo bisogno di un nuovo fondamento della nostra convivenza civile, il quale non può più essere il Dio della tradizione, della Patria e della sua natalità, che Giorgia Meloni dice di voler difendere. Quel Dio è stato consumato dalla storia a prezzo di molto sangue innocente. È lo stesso Dio, per fare un esempio, che a proposito degli omosessuali parla così nella Bibbia: «Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte: il loro sangue ricadrà su di loro» (Levitico 20,13). È questo il Dio che vogliamo difendere? In realtà, da questo Dio dobbiamo difenderci: dobbiamo impedire che ritorni, dobbiamo evitare che ancora si ripresentino la sua violenza, la sua intolleranza, la sua paura, il suo terrore.
Sta scritto che Dio, a Mosè sul Sinai che gli aveva chiesto il nome, rispose così: «Ehyeh ašer ehyeh» (Esodo 3,14), tradotto tradizionalmente «Io sono colui che sono». Il significato più plausibile è quello di «esserci», «io ci sono e ci sarò», e quindi viene spesso tradotto anche «il Dio con noi». Dio con noi in tedesco si dice Gott mit uns: è quanto stava scritto sul cinturone di ogni soldato del Terzo Reich. Prima ancora esso era il motto dei cavalieri teutonici, i monaci guerrieri medievali. Ebbene, io penso che si debba cambiare completamente paradigma e pensare che il vero nome di Dio sia quest’altro: «il Dio con loro». Guardo un albero, una stella, un animale, un essere umano, uno straniero la cui lingua e la cui pelle sono diverse dalla mia, e penso: «Dio-con-loro». È il vero nome di Dio in quanto idea del bene e della giustizia, e coincide con la rottura del cerchio identitario e repressivo del noi contro loro, in cui i monoteismi e le ideologie politiche hanno imprigionato la mente e in cui non ci dobbiamo lasciar trascinare di nuovo.
Vito Mancuso “La Stampa” 16 settembre 2023
www.lastampa.it/cultura/2023/09/16/news/mancuso_ce_un_dio_da_non_difendere_dobbiamo_proteggere_quello_interiore_non_quello_della_tradizione_che_meloni_associa_a_-13251237
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202309/230916mancuso.pdf
DOTTRINA NELLA FEDE
Fede e ragione nella vita
Un dialogo con mons. Víctor Manuel Fernández, detto Tucho, (α1962)
Ho Conosciuto mons. Víctor Manuel Fernández che il 30 settembre sarà creato cardinale – in Argentina, nel settembre del 2014, presso la Pontificia Università Cattolica Argentina, della quale egli era allora rettore. Esattamente un anno dopo mons. Fernández venne nella sede de «La Civiltà Cattolica» a Roma, per tenere una relazione per il seminario internazionale dal titolo «La riforma e le riforme nella Chiesa». In quella occasione egli intervenne sul tema «Il Vangelo, lo Spirito e la riforma ecclesiale alla luce del pensiero di Francesco». Successivamente l’esperienza sinodale ha fatto intrecciare i nostri percorsi.
Ora che sta assumendo l’incarico di Prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, ho sentito importante far ascoltare ai lettori della nostra rivista la sua viva voce per comprenderne meglio la formazione e quali sono le prospettive con le quali si accinge a svolgere il suo compito impegnativo.
* * *
Eccellenza, qual è il rapporto tra la fede e la ragione?
La Chiesa rifiuta il fideismo, difende il valore della ragione e la necessità del dialogo tra la fede e la ragione, che non sono in contraddizione. Ma attenzione, perché talvolta si colloca al centro della Chiesa «una» certa ragione, una serie di princìpi che reggono tutto, anche se si tratta in definitiva di una forma mentis, più filosofica che teologica, alla quale tutto il resto deve sottomettersi, e che alla fine prende il posto della Rivelazione!
Pertanto, coloro che determinano la corretta interpretazione della Rivelazione e della verità sarebbero coloro che possiedono questa forma mentis, questo modo di ragionare, questa unica struttura possibile di princìpi razionali. Soltanto loro sarebbero «seri», «intelligenti», «fedeli». Ciò spiega il potere che si arrogano alcuni ecclesiastici, arrivando a stabilire ciò che il Papa può o non può dire, e presentandosi come garanti della legittimità e dell’unità della fede. In fondo, la forma mentis, di cui essi si considerano guardiani assoluti è una fonte di potere che si vuole salvaguardare contro tutto. Non è la ragione, è il potere.
Quale considera essere il suo «maestro» in teologia?
Benché la formazione che ho ricevuto sia stata strettamente tomista, il mio grande maestro è un altro gigante della scolastica, san Bonaventura. Mi sono addentrato nel suo pensiero da seminarista, ho continuato a leggerlo con profitto e ho dedicato la mia tesi di dottorato alla relazione tra conoscenza e vita nel suo pensiero. Mi ha lasciato un’impronta indelebile l’insistenza, derivata dal background francescano, su una teologia capace di alimentare la vita spirituale e, al tempo stesso, di incidere sull’esistenza concreta delle persone. Risale allo stesso Francesco di Assisi, che ne scriveva a sant’Antonio da Padova: «Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola». Non risentiamo forse questa stessa preoccupazione nell’insistenza di papa Francesco affinché tutto il pensiero cristiano, in ogni sua tappa formativa, sia attraversato dall’annuncio del kerygma volto a provocare un’esperienza di fede?
Ha ritrovato in autori del Novecento una prospettiva simile?
Sì, per esempio ho ritrovato qualcosa di simile nella filosofia, soprattutto in quella di Maurice Blondel e nel suo desiderio di far dialogare la filosofia con le necessità dell’esistenza quotidiana. La relazione tra il pensiero e la vita era una tra le sue massime preoccupazioni. Lo si coglie bene nella sua opera sull’agire umano, dove ha saputo addentrarsi in considerazioni di grande peso esistenziale. Per esempio, la necessità quotidiana di sottrarre le energie personali a un flusso dispersivo e caotico, per incanalarle in un alveo unitario, grazie a un fine determinato che le riunisca e le esprima.
Infatti, egli afferma, in questo modo le energie non si disperdono e non si consumano nell’azione, ma si ravvivano. Pertanto, nella misura in cui l’attività volontaria penetra e domina le potenze del corpo, più riceve da esse. Inoltre, egli propone modalità e vie concrete per giungere a un movente dell’azione che sia capace di ricomporla in unità. Ecco un autore che sa andare oltre una mera «filosofia a tavolino».
Tra i teologi più vicini a noi ho tratto alimento soprattutto dalla precisione argomentativa di Karl Rahner, dalla profondità spirituale di Hans Urs von Balthasar, dall’ecclesiologia di Yves Congar e senz’alcun dubbio dall’opera preziosa di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. In tutti loro sussiste un’intima connessione tra il pensiero e l’esperienza spirituale, sebbene ciascuno la ottenga a modo suo. Vale lo stesso per alcuni filosofi tomisti come Étienne Gilson o Réginald Garrigou-Lagrange.
Se tra la teologia e la vita personale c’è una relazione importante, come considera la relazione tra la spiritualità e la pastorale, che a sua volta sostanzia il pensiero teologico?
Sono latinoamericano e non si stupisca se pongo in risalto autori che esprimono l’aroma e le preoccupazioni della mia terra, come Gustavo Gutiérrez, Lucio Gera e Rafael Tello. Ho potuto conoscerli personalmente e mi hanno trasmesso un grande amore per la Chiesa, la passione per l’evangelizzazione, l’intenso affetto per i poveri e per la loro cultura, la capacità di connettere la teologia con le ansie, i sogni e le speranze del popolo sofferente.
Il pensiero si dipana alla luce della Rivelazione, ma necessariamente s’immerge nel contesto ineludibile della vita del popolo, che viene illuminato dalla Parola rivelata e a sua volta la interpella affinché faccia affiorare sempre di più la propria ricchezza. Al tempo stesso si pensa nel contesto di una prassi, e questa prassi impegnata apre al pensiero nuovi orizzonti.
Prædicate Evangelium si riferisce esplicitamente allo «sviluppo della teologia nelle diverse culture» (n. 71) e chiede che «l’integrità della dottrina cattolica sulla fede e la morale» sia tutelata «ricercandone anche una sempre più profonda intelligenza di fronte alle nuove questioni» (n. 69). La sensibilità pastorale apre strade teologiche in dialogo con il mondo.
La filosofia ci aiuta a valorizzare l’esperienza?
In campo filosofico ho trovato un correlato in Hans-Georg Gadamer, apprezzato e consultato da san Giovanni Paolo II. Da lui ho tratto in particolare due cose: in primo luogo, il valore che attribuisce all’esperienza vitale in quanto possibilità di accedere ad alcuni aspetti della verità. Questo, tradotto in un pensiero latinoamericano, implica per esempio l’apprezzamento della cultura popolare come humus che dà una prospettiva diversa per conoscere la verità sotto un’altra ottica, tanto da potersi parlare di una sapienza propria dei poveri. Ma da questo punto di vista si può spiegare anche, in dialogo con settori agnostici, la legittimità della partecipazione della Chiesa, con il messaggio evangelico, al dibattito pubblico.
In secondo luogo, Gadamer invita anche a porre attenzione agli effetti, e oggi chi fa teologia non può ignorare gli esiti di ciò che dice, giacché si può riconoscere che qualcosa che è corretto nell’intenzione di chi l’afferma forse diventa sbagliato negli effetti che produce su chi lo ascolta. Posso citare anche Jacques Maritain, che fu capace di rielaborare un tomismo in dialogo con i problemi della società del suo tempo.
Lei, infatti, ha scritto un volume di Teologia spirituale sistematica, nel quale si è soffermato sulla sua relazione con la pastorale.
Sì, nel volume “Teología espiritual encarnada. Se «spirito» nelle Scritture non è l’anima immateriale, bensì l’azione dello Spirito divino nel mondo, allora il dinamismo spirituale può essere vissuto non solo nei momenti di raccoglimento e di preghiera privata, ma anche nell’attività esterna. Tutta l’attività nel mondo – dal lavoro manuale a qualsiasi opera evangelizzatrice – può essere impregnata da quel dinamismo e trasformarsi così in una realtà pienamente spirituale. È ciò che san Paolo esprimeva come un «camminare secondo lo Spirito» (Rm 8,4). Per questa ragione la pastorale non va intesa come una degradazione della spiritualità o della teologia, bensì come un ambito in cui è lo Spirito Santo stesso a introdurci, e attraverso il quale può condurci alle profondità della vita spirituale e del pensiero cristiano.
Quanto detto sulla pastorale è specialmente valido se ci riferiamo all’ampia divulgazione dei contenuti teologici.
A questo riguardo, lei ha davvero pubblicato molti saggi divulgativi. Sono opere nelle quali lei ha svolto un interessante lavoro di comunicazione. Come considera questa sua attività?
Mi sono sempre interessate la Teologia delle Persone divine e la nostra relazione peculiare con ciascuna di loro. Ne sono scaturiti, per esempio, un articolo su ciò che è specifico della Persona del Padre, pubblicato sulla rivista Angelicum, e soprattutto vari articoli sullo Spirito Santo, sempre orientati a pensare e ad alimentare una relazione personale. Ma, appunto, non mi paiono meno significativi al riguardo i miei testi di catechesi o di spiritualità popolare trinitaria. Fra questi, le opere di ampia divulgazione – più di 100 – come Los cinco minutos del Espíritu Santo, che, secondo dati recenti, è stato stampato in oltre 350.000 copie in vari Paesi. Ai teologi dico di non vergognarsi di scrivere anche questo tipo di libri, che sanno declinare la teologia in modo che risponda alle necessità popolari, della gente. Per quell’opera ho ricevuto innumerevoli messaggi di gratitudine: persone che leggendola si sono convertite, hanno evitato il suicidio, sono entrate in un monastero o hanno ricomposto il loro matrimonio. In questo caso, con un linguaggio accessibile, la teologia entra in dialogo con la vita concreta, le ansie e le speranze della gente, e così mostra la sua massima fecondità.
Qual è, dunque, il rapporto tra teologia e comunicazione?
Per san Tommaso, «comunicare ciò che si sta contemplando» è quanto di più perfetto possiamo vivere su questa terra, perché combina la perfezione della contemplazione con quella della donazione di sé nell’azione. Allora l’azione acquista una tale qualità interiore che il teologo non si sfinisce quando comunica, non gli dispiace lasciare la sua solitudine riflessiva, perché nella comunicazione contemplativa il suo carisma teologico raggiunge la propria pienezza. Come insegna ancora san Tommaso, l’azione comunicativa a sua volta dispone a una contemplazione migliore. San Bonaventura sostiene la stessa cosa, ma insiste sulla correlazione esistente tra la vita interiore e la comunione con il mondo esterno. Per questo afferma che la perfezione della contemplazione si dà soltanto quando, oltre che contemplare Dio nell’intimità, lo si sa scoprire negli altri.
Questo non è estraneo al metodo teologico. Esprimendo le proprie considerazioni sul metodo, Bernard Lonergan spiegava che la teologia, pur vantando varie specializzazioni funzionali, diversi tipi di operazioni che le consentono di coronare il proprio compito, deve sempre culminare nella comunicazione, ed «è a questo stadio finale che la riflessione teologica porta i suoi frutti». Altrimenti i frutti della teologia «non arrivano a maturazione». Perciò il teologo non cerca nel proprio lavoro soltanto una realtà conoscitiva, ma anche una realtà costitutiva, in grado di creare cose nuove nel mondo e nella Chiesa, di incoraggiarle, di articolarle, e inoltre comunicativa ed efficace, capace di illuminare altri e di aiutarli a vivere. Perciò la teologia entra in dialogo con tutti i saperi del suo tempo, senza però pretendere di imporre loro una cultura antica, medievale o moderna, ma piuttosto partirà dalla cultura degli ascoltatori per comunicare la verità.
La comunicazione spesso usa immagini, metafore per essere maggiormente efficace.
La metafora ha la capacità di mediare tra diverse forme di sapienza, come hanno ben spiegato sant’Agostino e Paul Ricoeur, ciascuno a modo suo. Quando il teologo professionista esprime in termini metaforici o simbolici un contenuto che ha approfondito in un arduo cammino di lettura e di riflessione, questa modalità pedagogica di comunicazione non toglie profondità né qualità speculativa alla riflessione teologica sottostante. Non c’è bisogno di usare parole difficili ed espressioni teologiche per dimostrare il livello teologico di una riflessione. Oggi un teologo che presti effettiva attenzione alla cultura attuale deve servire il banchetto del Vangelo attraverso la bellezza e la seduzione delle immagini, delle figure, degli esempi, delle sensazioni che possono renderlo accessibile alla gente del XXI secolo.
La relazione fra la teologia e la vita del popolo di Dio vale specialmente per la teologia morale. Come intende questo rapporto?
La teologia morale non può ignorare, per esempio, come affrontano la vita le persone più povere, limitate, escluse dai benefici della società, che devono sostenere ogni giorno la lotta per sopravvivere alla bell’e meglio. Perciò Francesco ci avverte: «Nelle difficili situazioni che vivono le persone più bisognose, la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fossero delle pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio da quella Madre che è chiamata a portare loro la misericordia di Dio. In tal modo, invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in “pietre morte da scagliare contro gli altri”».
Su questa linea si colloca una nuova considerazione sul peso dei condizionamenti nel “discernimento”. Al riguardo Francesco ha proposto alla teologia morale un passo molto importante.
Lo ha fatto accogliendo gli orientamenti dei vescovi della Regione Buenos Aires rispetto all’applicazione di Amoris lætitia. Essi parlano della possibilità che i divorziati in nuova unione vivano in continenza, ma aggiungono che «in altre circostanze più complesse, e quando non è stato possibile ottenere una dichiarazione di nullità, l’opzione citata può di fatto non essere fattibile». Quindi affermano che «ciò nonostante, è ugualmente possibile un cammino di discernimento. Se si arriva a riconoscere che, in un caso concreto, ci sono limiti che attenuano la responsabilità e la colpabilità, specie quando una persona consideri che cadrebbe in una mancanza ulteriore danneggiando i figli della nuova unione, Amoris lætitia apre la possibilità di accedere ai sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia». Francesco ha subito inviato loro una lettera formale, confermando che il senso del capitolo VIII dell’AL è questo. Ma ha aggiunto: «Non ci sono altre interpretazioni». Non è necessario attendersi risposte diverse dal Papa. Tanto gli orientamenti quanto la lettera del Pontefice sono stati pubblicati negli Acta Apostolicæ Sedis, insieme a un rescritto che li dichiara «magistero autentico». Di conseguenza non ci sono più dubbi, ed è chiaro che il discernimento che tiene conto dei condizionamenti o fattori attenuanti può avere conseguenze anche nella disciplina sacramentale.
Lei ha un interesse specifico nel rinnovamento della morale?
Per quanto riguarda il rinnovamento della morale, mi spinge anche un’altra preoccupazione più teologale, ma ugualmente pratica: rimarcare il primato della carità, nella teologia morale o, in altre parole, elaborare una teologia morale intimamente trasfigurata dalla carità. Ciò si pone in relazione con la carità non solo intesa come forma o motivazione del discernimento morale, ma anche come suo contenuto proprio, con reale incidenza quando vanno prese decisioni a livello personale o pastorale.
Il Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) ha fatto propria con grande nettezza la legge dell’amore fraterno come una «regola d’oro» (cita Mt 7,12; Lc 6,31; Tb 4,15), un criterio centrale nel discernimento morale, che va applicato «in ogni caso» (CCC 1789; cfr 1970a), specie quando «l’uomo talvolta si trova ad affrontare situazioni che rendono incerto il giudizio morale e difficile la decisione» (CCC 1787).
Ma nella pratica la funzione della carità sparisce dalle posizioni morali concrete se si ritiene che essa fornisca solo una conoscenza connaturale di Dio come fine ultimo – e un orientamento a Lui –, ma non determini in alcun modo i fini prossimi. Perché la carità fraterna, in quanto comandamento principale che si compie tramite la virtù della carità, interviene anche nell’ambito dell’azione e provvede di razionalità il discernimento, posto che questa virtù ha atti esterni propri che diventano paradigmi, riferimenti necessari in ogni discernimento. Per questo la carità, sebbene risieda nella volontà, comprende anche l’ordine della ragione, intervenendo – in parte – nella determinazione del fine prossimo, oggetto della scelta. Il valore supremo e paradigmatico degli atti esterni propri della carità viene riconosciuto da Tommaso quando colloca la misericordia al vertice delle virtù, in quanto essa regola un operare esterno e così produce una somiglianza con l’operare divino.
Insomma, una morale ridotta al compimento dei comandamenti non risponderebbe a questa dinamica?
Assolutamente no.
Il primato della carità ha, a suo avviso, una forte incidenza anche nella riflessione teologica?
Il nostro sforzo per penetrare la verità e l’impegno per comunicarla sono uniti da una cosa: per l’appunto, l’amore. Tanto la scienza quanto la profezia, senza l’amore, «non servono a nulla» (cfr 1 Cor 13,1-3). L’amore ha molto a che fare con la migliore conoscenza teologica, perché produce un contatto diretto con le realtà soprannaturali, e così finisce con il rispecchiarsi nell’intelligenza, sicché chi meglio conosce è colui che più ama. Grazie a un affascinante circolo virtuoso, nel riconoscimento gratuito dell’altro in virtù dell’amore si produce la migliore disposizione per raggiungere una nuova profondità teologica, si aprono meglio gli occhi affinché la speculazione raggiunga una nuova penetrazione del Mistero. A sua volta, lo sforzo speculativo mosso dal dinamismo dell’amore apporta nuove ragioni per amare.
Tutta la realtà scaturisce dall’amore di Dio, è attraversata da quell’amore, e tutto si orienta all’amore, che è il motore che muove l’universo e gli dà senso. Da questo trae origine una logica soprannaturale. Perciò Bonaventura affermava che il frutto più grande di tutte le scienze è la carità (fructus omnium scientiarum). Il fine di qualsiasi conoscenza, e in particolare «di tutta la Scrittura», consiste nel concludersi stimolando un atto di amore. A maggior ragione il fine principale della teologia morale è di motivare una vita sospinta dalla carità.
Questo ci aiuta a comprendere radicalmente perché un buon teologo è sempre preoccupato per il bene del popolo che ama, è capace di soffrire per e con gli altri.
Sono convinto che oggi sia davvero errato pensare che un’autentica e solida teologia possa scaturire da un benessere individualistico, indifferente e apatico, distante dall’impegno della carità. In questo senso possiamo ricorrere a Giovanni della Croce: «Il dolore più puro porta con sé una conoscenza più intima e più pura». «Non si può giungere nel folto delle ricchezze e della sapienza di Dio, se non entrando dove più numerose sono le sofferenze». Tutto questo non è ovviamente possibile senza la Grazia, e quindi il trattato sulla Grazia andrebbe considerato tra quelli centrali. Riflettere sulla Grazia per me è stata una grande festa teologica, e per questo ho dedicato diversi anni a insegnare quel trattato e a redigere un manuale su «la Grazia e la vita intera».
Qual è il suo rapporto come teologo con la Sacra Scrittura?
Prima di svolgere il mio dottorato in Teologia, fui inviato a Roma a studiare Sacra Scrittura. Al Seminario della mia diocesi serviva un professore. Di fatto poi mi furono assegnati tutti i trattati biblici. Mi diedero solo due anni di tempo per tornare con il titolo accademico. Quindi mi iscrissi a Teologia biblica alla Gregoriana, ma svolgevo i corsi presso l’Istituto Biblico. Ho avuto professori eccellenti. In quel periodo non ho conosciuto affatto Roma, ma ho acquisito strumenti esegetici che mi sono serviti per tutta la vita.
In seguito, non ho mai smesso di dedicare allo studio delle Scritture tutte le energie possibili, e ciò spiega i numerosi articoli biblici che ho scritto. Ancora una volta, sono questioni correlate alle domande che si pongono le persone: perché Gesù ci ha promesso che avremmo compiuto opere più grandi delle sue (cfr Gv 14,12)? Che cosa significa per noi la promessa di «spostare le montagne» (Cfr Mt 17,20)? In particolare, ho dedicato molti anni allo studio della lettera ai Romani, e per questo mi è stato richiesto di scrivere su quella monumentale opera paolina in un “Commento biblico internazionale”. Questi studi hanno suscitato molte domande, che a loro volta hanno avuto una forte incidenza su varie convinzioni teologiche, e mi hanno orientato a una consistente revisione di alcune di esse. Non poteva andare diversamente, dato che il Concilio ha riconosciuto che il lavoro degli esegeti può far «maturare il giudizio della Chiesa».
Gli studi biblici spalancano prospettive enormi e non possiamo non riconoscere il peso dei progressi nella ricerca biblica riguardo al rinnovamento della Teologia cattolica. Per questa ragione mi pare molto importante che il Dicastero per la dottrina della fede disponga di quella validissima risorsa che è il lavoro della Pontificia Commissione biblica.
Veniamo al lavoro che l’attende. Quali sono le sue prospettive sul Dicastero per la dottrina della fede?
Per prendere coscienza delle prospettive che possono aprirsi nel lavoro della Sezione dottrinale del Dicastero per la dottrina della fede non c’è niente di meglio che glossare ciò che ha detto Francesco nella lettera con cui ha accompagnato la mia designazione. In essa dispiega orizzonti amplissimi e appassionanti per il Dicastero.
Il Papa ha chiesto di «mettere in dialogo il sapere teologico con la vita del santo Popolo di Dio». Nel presentarmi, insieme ai miei titoli accademici, Francesco ha ricordato che sono stato parroco di Santa Teresita. È già evidente che al Papa importa in maniera particolare che il sapere teologico non si pieghi soltanto dall’alto a «illuminare» il popolo di Dio, ma che se ne lasci stimolare, che si lasci ferire e disarmare da esso.
Quindi mi ha chiesto di «custodire l’insegnamento che scaturisce dalla fede». Le parole «custodire» e «curare» sono tra le predilette da Francesco. Non è un caso che egli sia specialmente devoto a san Giuseppe. La cura, per lui, è un atteggiamento fondamentale che scaturisce dal Vangelo. Ma così come ci si prende cura delle persone, si deve fare altrettanto con la dottrina che emerge dalla fede. Ciò comporta innanzitutto un profondo apprezzamento di ciò che va curato, ovvero implica che si ami quella dottrina come un tesoro prezioso, che si sia giustamente orgogliosi di quel dono divino. Non c’è posto per i complessi d’inferiorità nei confronti del mondo: prevalgono il più legittimo apprezzamento e la gratitudine di sentirci toccati dalla Grazia, privilegiati da questo dono fatto dal Signore alla sua Chiesa.
Come era solito dire san Giovanni Paolo II in vario modo, bisogna sviluppare «il massimo dialogo con la massima identità».
Francesco le ha chiesto anche di «accrescere la comprensione e la trasmissione della fede al servizio dell’evangelizzazione».
Custodire qualcosa è anche migliorarlo. Non si tratta ovviamente di migliorare la dottrina, ma la sua comprensione e la sua comunicazione. Su questo punto i decenni passati non ci mostrano un risultato confortante. Quanti teologi possiamo nominare della statura di Rahner, Ratzinger, Congar o von Balthasar? E neanche la cosiddetta «teologia della liberazione» ha teologi al livello di un Gutiérrez. Qualcosa è venuto meno. Ci sono stati controlli, sì, ma pochi sviluppi.
Mi rendo conto che Francesco vuole avviare una tappa in cui la crescita del pensiero cristiano sia di più ampio respiro, perché sa che ciò incide direttamente sul servizio dell’evangelizzazione. I grandi teologi che hanno pensato in dialogo con la realtà hanno apportato ampie ricadute, per vie diverse, perfino sulla pastorale delle parrocchie più piccole e povere. Perciò non possiamo restare indifferenti allo scarso sviluppo che la teologia ha avuto dalla fine del secolo scorso a questa parte.
Come accogliere «le domande poste dal progresso scientifico e dallo sviluppo della società»? Questa mi sembra una sfida molto rilevante.
Riguardo alle scienze, Francesco si è espresso in maniera inequivocabile in “Laudato si’. Lasci che le citi alcune sue affermazioni: «Su molte questioni concrete la Chiesa non ha motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e promuovere il dibattito onesto fra gli scienziati, rispettando le diversità di opinione»; «Il rispetto della fede verso la ragione chiede di prestare attenzione a quanto la stessa scienza biologica, sviluppata in modo indipendente rispetto agli interessi economici, può insegnare a proposito delle strutture biologiche e delle loro possibilità e mutazioni» (LS 132). Tale rispetto ci consente di apprendere e di lasciarci interpellare dallo sviluppo delle varie scienze. Inoltre Francesco ha affermato che «la scienza e la religione, che forniscono approcci diversi alla realtà, possono entrare in un dialogo intenso e produttivo per entrambe» (LS 62) e che «non si può sostenere che le scienze empiriche spieghino completamente la vita, l’intima essenza di tutte le creature e l’insieme della realtà. Questo vorrebbe dire superare indebitamente i loro limitati confini metodologici» (LS 199).
Se vogliamo dare un più ampio ascolto ai problemi posti dalla società, insieme al tentativo di mostrare le ragioni e l’armonia del nostro pensiero cristiano dobbiamo proporci un’ascesi: tollerare con carità la ricorrente aggressività che ci investe. La messa in discussione della società non può essere una mediazione che Dio stesso usa per disarmarci, per aprirci ad altro? Lévinas diceva giustamente che vivere ponendosi domande è essere in Dio].
Non possiamo nasconderci in un limbo e ignorare che la violenza verbale di alcuni gruppi è uno sfogo comprensibile, dopo molti secoli di violenza verbale nostra, di un linguaggio ingiurioso, molto offensivo, o di una manipolazione delle donne come se fossero di seconda classe, molto sprezzante. Francesco è un modello di questa «pazienza» che nasce dal suo cuore di padre. È sperabile che con il tempo si riesca a trovare un equilibrio migliore, si possa riflettere e dialogare su questi temi senza tutta questa acredine, in modo meno aggressivo, con una serenità che ci consenta di trattarne più integralmente e più a fondo.
Lei sa bene che nella Chiesa ci sono «diverse linee di pensiero» e il Papa ritiene che accoglierle possa far crescere la Chiesa. Come intende questa richiesta in un contesto che sembra alquanto polarizzato?
Ciò che Francesco dice del poliedro si applica anche al pensiero della Chiesa. Ma lui è consapevole del fatto che su questo si incontra resistenza: «A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo».
Vorrei ricordare che su questo punto Francesco si ispira alla teologia della creazione di san Tommaso d’Aquino, quando rimarca che «la distinzione e la molteplicità delle cose provengono dal primo agente», il quale ha voluto che «ciò che manca a una per ben rappresentare la divina bontà sia supplito dall’altra». Pertanto, noi dobbiamo cogliere la varietà delle cose nelle loro molteplici relazioni. Per Francesco, ciò si può affermare a maggior ragione se ci collochiamo davanti all’inesauribile mistero del Vangelo, che non si può confinare in un determinato schema mentale, per quanto solido esso possa apparire.
Veniamo al tema della riforma della Chiesa. Lei ha partecipato a un seminario che «La Civiltà Cattolica» ha organizzato nel 2015 proprio su questo tema. Che cosa ne pensa?
Francesco riconosce che «l’uscita missionaria è il paradigma di tutta l’opera della Chiesa» (EG 15). Allora non si può pensare alcuna riforma se non da questa prospettiva. Ciò diventa esplicito in un’altra affermazione del Papa: «La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di uscita» (EG 27). La Chiesa fedele alla sua propria natura è quindi una Chiesa in dialogo con il mondo e decentrata in un’estasi evangelizzatrice. Questa uscita da sé non è il risultato di un puro sforzo della volontà umana, ma è un dinamismo soprannaturale provocato dallo Spirito Santo nelle persone e in tutta la Chiesa.
Tuttavia, il movimento di riforma volto a far uscire la Chiesa da sé stessa non è solo pneumatologico, ma anche cristologico. Infatti, lo Spirito ci introduce alla verità tutta intera (cfr Gv 16,13), Cristo stesso. Pertanto, lo Spirito non ci spinge al di fuori del mistero dell’incarnazione, ma, al contrario, ci introduce sempre più pienamente nel mistero di Cristo e nel suo Vangelo. Perciò lo Spirito e il Vangelo – come fonte paradigmatica oggettiva – sono simultaneamente la radice che rende possibile l’uscita da sé della Chiesa in riforma missionaria. Francesco dice che, quando si torna al cuore del Vangelo, tutto si rinnova, l’evangelizzazione è sempre «nuova» (EG 11) e «la proposta si semplifica» (EG 35). Questa apertura al dinamismo autotrascendente dello Spirito dev’essere al tempo stesso un ritorno all’oggettività del Vangelo, che semplifica, riporta all’essenziale e rende possibile la purificazione e la riforma delle strutture obsolete.
La preservazione della dottrina della fede è stata spesso associata a un meccanismo di «controllo». Il Papa sembra invece puntare sulla crescita armonica della sua comprensione. Questo vuol dire che la funzione di confutare errori è destinata a scomparire?
Se si legge bene la lettera del Papa, è chiaro che in nessun momento egli afferma che la funzione di confutare errori debba scomparire. Evidentemente, se qualcuno dice che Gesù non è vero uomo o che tutti gli immigrati vanno uccisi, sarà necessario un intervento deciso. Ma al tempo stesso questo offrirà l’occasione di crescere, di arricchire la nostra comprensione. Per esempio, in questi casi la persona in questione andrà accompagnata nella sua legittima intenzione di mostrare meglio la divinità di Gesù Cristo, o bisognerà conversare su alcune leggi migratorie imperfette, incomplete o problematiche.
Francesco mi chiede un maggiore impegno per aiutare lo sviluppo del pensiero, anche quando si presentano questioni difficili, perché, se si vuole aver cura della dottrina, è più efficace accrescerne la comprensione che incrementarne i controlli. Le eresie sono state sradicate meglio e più rapidamente quando c’è stato un adeguato approfondimento teologico, mentre, quando ci si è limitati alle condanne, esse si sono diffuse e radicate.
A questo riguardo, un criterio fondamentale da preservare e tenere fermo è che «qualsiasi concezione teologica che in ultimo termine metta in dubbio l’onnipotenza di Dio e, in specie, la sua misericordia» deve considerarsi inadeguata.
L’affermazione che è un «criterio fondamentale» è molto forte. Significa che non lo si può ignorare o prendere alla leggera. Ricordiamo che Francesco riprende questa espressione dalla Commissione teologica internazionale, e così facendo attribuisce alla Commissione una particolare rilevanza. Ma per di più si tratta di un testo riferito alla salvezza dei bambini morti senza il battesimo, per mostrare che l’onnipotenza e la misericordia di Dio, capaci di concedere quella salvezza gratuita, non devono essere negate né oscurate da alcun ragionamento teologico. Se ciò viene applicato in maniera generale, come criterio fondamentale, indubbiamente ci obbliga a ripensare molte altre cose.
Francesco, nella lettera a lei indirizzata, le chiede di sviluppare e promuovere un pensiero che presenti «un Dio che ama, che perdona, che salva, che libera, che promuove le persone e le convoca al servizio fraterno».
Il pensiero cristiano non può essere svincolato dal cuore del Vangelo, che è il kerygma teologico e il kerygma morale. Infatti «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» (EG 165), e al tempo stesso è il messaggio che fa innamorare e che cattura. È l’annuncio che ci aiuta a vivere, ad andare avanti, a lottare, a impegnarci, con un’enorme risonanza pratica ed esistenziale.
D’altro canto, vorrei aggiungere che ciò non implica un’opzione per una teologia meramente pratica che disprezzi uno sviluppo altamente speculativo, perché Francesco chiede anche di assicurare che i documenti della Santa Sede abbiano un «adeguato supporto teologico». Sebbene sia opportuno evitare una «teologia a tavolino», questo non dovrebbe mai indurre al pensiero che la Chiesa non «incoraggi il carisma dei teologi e lo sforzo che pongono nella ricerca teologica». Lo studio, come lo intende san Tommaso, è piena attività. È un aprirsi ricettivo alla verità, ma in totale coscienza e donazione di sé, con desiderio e altissima attenzione, pari a quella di chi dedica tutto il suo interesse ad ascoltare un amico. Questa contemplazione è vita piena.
Sempre alla luce della necessità di sviluppare e promuovere un pensiero che presenti «un Dio che ama», Francesco chiede che si presti attenzione alla gerarchia delle verità, dal momento che «il maggiore pericolo si produce quando le verità secondarie finiscono per mettere in ombra quelle centrali».
Il problema è che risulta relativamente facile sviluppare un tema fuori da ogni contesto, portarlo avanti con una logica ferrea fino a lasciarsi trasportare da un certo fanatismo ossessivo. Per Francesco questo è «il pericolo maggiore». È ben più difficile situare quel ragionamento nel ricco contesto di tutto l’insegnamento della Chiesa e lasciare che si trasfiguri alla luce delle verità centrali, del cuore del Vangelo. Infatti, «tutte le verità rivelate procedono dalla stessa fonte divina e sono credute con la medesima fede, ma alcune di esse sono più importanti per esprimere più direttamente il cuore del Vangelo. In questo nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» (EG 36) e, al tempo stesso, rispetto alla morale, «le opere di amore al prossimo sono la manifestazione esterna più perfetta della grazia interiore dello Spirito» (EG 37).
Francesco, nella sua lettera, pone insieme l’insegnamento perenne della Chiesa e il Magistero recente. Mi sembra un dato interessante.
È significativo che menzioni anche il Magistero recente, oltre a riferirsi all’insegnamento perenne. Si tratta di una precisazione importante, perché è proprio il Magistero recente a dialogare con le circostanze attuali che attraversano il mondo e la Chiesa, con la cultura e le sue sfide. Il Magistero non è un mero «deposito», ma è anche un dono presente che è attivo attraverso Francesco. Se il Magistero riesce anche a illuminarci nel nostro pellegrinaggio in questo momento della storia, dobbiamo lasciarci orientare dai suoi interventi recenti e attuali, ed è indubbio che ciò equivalga a continuare a bere da quel pozzo senza fondo che è la Rivelazione sempre vigente e sempre attuale.
Come immagina il suo lavoro, adesso che siamo all’inizio? La necessità di dare risposte, elaborare documenti…
Per avvicinarci a questi obiettivi, indubbiamente avranno speciale rilevanza le due Commissioni che presiederò: la Commissione teologica internazionale e la Pontificia Commissione biblica. Probabilmente saranno anche opportuni uno sviluppo dell’Accademia di teologia e un dialogo fecondo con le altre Accademie pontificie.
D’altra parte, queste indicazioni di Francesco dovranno orientare e attraversare tutto il lavoro quotidiano della Sezione dottrinale del Dicastero, anche quello di rispondere ad accuse dottrinali o di esprimersi su questioni complesse. Infatti, non basterà più dare rapide risposte in un formato standard, ma bisognerà cercare, insieme con le persone coinvolte, una crescita, un nuovo approfondimento, un certo sviluppo del tema che è stato posto.
Allo stesso tempo, quando fosse necessario emettere un documento, sarà indispensabile sforzarsi di assumere meglio le considerazioni e gli apporti provenienti dall’insegnamento di questo Papa. Non si tratta soltanto di inserire qualche sua citazione, ma di far sì che il pensiero si arricchisca e si sviluppi alla luce dei suoi apporti specifici. Questo richiederà anche di sostenere un dialogo con gli altri Dicasteri.
Vorrei aggiungere che l’augurio inviatomi dal Santo Padre per il mio cardinalato si è soffermato sulla necessità di «inculturare il Vangelo», e in questa linea è previsto che il Prefetto possa riunirsi in varie regioni del mondo con teologi e Commissioni dottrinali degli episcopati. Più avanti forse cercherò di cogliere tale opportunità. Tutto ciò richiede risorse umane, tecniche ed economiche. Vedremo fin dove potrò arrivare, ma la cosa importante, come dice Francesco, è «generare processi», che poi faranno il loro corso.
Le auguro di cuore buon lavoro! Sono certo che non le mancherà.
p. Antonio Spadaro, SI, direttore de “La Civiltà Cattolica” 16 settembre 2023 Quaderno 4158, pag. 498-516
www.laciviltacattolica.it/articolo/vita-e-dottrina-nella-fede
DOTTRINE
Dottrine definitive o stadi di una evoluzione?
Trent’anni dopo “Sacra virginitas” e trent’anni dopo “Ordinatio sacerdotalis”:
In un interessante articolo, comparso sull’ultimo numero della rivista portoghese “Brotéria”, 197(2023), 158-171, il prof. Jerònimo Trigo dedica attenzione al tema: Dottrine definitive?
Gli esempi del matrimonio e del celibato. Il tema della riflessione è la qualità “definitiva” e “irreformabile” di asserzioni che il magistero papale indica esplicitamente in un certo momento storico come dotate di tali caratteristiche. Sappiamo infatti che la lettera apostolica “Ordinatio sacerdotalis”(22 maggio 1994) ha inteso esplicitamente dire una parola autorevole intorno alla riserva maschile del ministero sacerdotale, intendendo esprimere una “sentenza definitiva” e perciò irreformabile.
www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_letters/1994/documents/hf_jp-ii_apl_19940522_ordinatio-sacerdotalis.html
L’articolo, tuttavia, non si occupa nel dettaglio della questione, ma soltanto del suo lato formale, ossia della pretesa di definitività. Se nel 1994 un pronunciamento papale con questo grado di autorevolezza ha espresso esplicitamente una tale sentenza, 30 anni dopo un altro papa, o un Sinodo o un Concilio, potrebbe mai dire una cosa diversa?
Alla domanda l’articolo risponde indirettamente, raccontando nei dettagli un’altra storia, singolarmente parallela e assai istruttiva. Si tratta della vicenda della Enciclica “Sacra virginitas” (25 marzo 1954) con cui papa Pio XII affermava autorevolmente e solennemente la superiorità della verginità/celibato rispetto alla vita matrimoniale. www.vatican.va/content/pius-xii/it/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_25031954_sacra-virginitas.html
Il tenore del testo della enciclica appare inequivocabile, perché muove dalla esigenza di contestare alcuni dubbi sorti nella Chiesa: “Vi sono, però, oggi alcuni che, allontanandosi in questa materia dal retto sentiero, esaltano tanto il matrimonio da anteporlo alla verginità; essi disprezzano la castità consacrata a Dio e il celibato ecclesiastico. Per questo crediamo dovere del Nostro apostolico ufficio proclamare e difendere, al presente in modo speciale, l’eccellenza del dono della verginità, per difendere questa verità cattolica contro tali errori.”
Di fronte a queste negazioni si afferma nel modo più autorevole la superiorità della verginità consacrata sulla vita matrimoniale: “La dottrina che stabilisce l’eccellenza e la superiorità della verginità e del celibato sul matrimonio, come già dicemmo, annunciata dal divin Redentore e dall’apostolo delle genti, fu solennemente definita dogma di fede nel concilio di Trento e sempre concordemente insegnata dai santi padri e dai dottori della chiesa. I Nostri predecessori, e Noi stessi, ogni qualvolta se ne presentava l’occasione, l’abbiamo più e più volte spiegata e vivamente inculcata. Tuttavia, poiché di recente vi sono stati alcuni che hanno impugnato con serio pericolo e danno dei fedeli questa dottrina tramandataci dalla chiesa, Noi, spinti dall’obbligo del Nostro ufficio, abbiamo creduto opportuno nuovamente esporla in questa enciclica, indicando gli errori, proposti spesso sotto apparenza di verità”.
Un dogma di fede appare irreformabile e capace di vincolare per sempre la dottrina ecclesiale nel riconoscimento del primato del celibato e della verginità consacrata sulla vita matrimoniale. D’altra parte nei testi del Concilio Vaticano II questo insegnamento non viene confermato ed è omesso nei passaggi più decisivi (cfr. LG 40-46). Alcuni riferimenti generici si trovano nel magistero di papa Paolo VI.
Ma quasi 30 anni dopo il testo di Pio XII, Giovanni Paolo II parla molto diversamente sullo stesso tema, durante l’ Udienza Generale del 14 aprile 1982: “Nelle parole di Cristo sulla continenza “per il Regno dei cieli” non c’è alcun cenno circa la “inferiorità” del matrimonio riguardo al “corpo”, ossia riguardo all’essenza del matrimonio, consistente nel fatto che l’uomo e la donna in esso si uniscono così da divenire una “sola carne” (cf. Gen 2, 24). Le parole di Cristo riportate in Matteo 19, 11-12 (come anche le parole di Paolo nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7) non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato, in quanto questi per la loro natura consistono nell’astenersi dalla “unione” coniugale “nel corpo”. Su questo punto le parole di Cristo sono decisamente limpide. Egli propone ai suoi discepoli l’ideale della continenza e la chiamata ad essa non a motivo dell’inferiorità o con pregiudizio dell’“unione” coniugale “nel corpo”, ma solo per il “Regno dei cieli”.”
E poi prosegue: “Il matrimonio e la continenza né si contrappongono l’uno all’altra, né dividono di per sé la comunità umana (e cristiana) in due campi (diciamo: dei “perfetti” a causa della continenza e degli “imperfetti” o meno perfetti a causa della realtà della vita coniugale). Ma queste due situazioni fondamentali, ovvero, come si soleva dire, questi due “stati”, in un certo senso si spiegano o completano a vicenda, quanto all’esistenza ed alla vita (cristiana) di questa comunità, la quale nel suo insieme e in tutti i suoi membri si realizza nella dimensione del Regno di Dio e ha un orientamento escatologico, che è proprio di quel Regno. Orbene, riguardo a questa dimensione e a questo orientamento – a cui deve partecipare nella fede l’intera comunità, cioè tutti coloro che appartengono ad essa – la continenza “per il Regno dei cieli” ha una particolare importanza ed una particolare eloquenza per quelli che vivono la vita coniugale. È noto, d’altronde, che questi ultimi costituiscono la maggioranza. Sembra, dunque, che una complementarietà così intesa trovi la sua base nelle parole di Cristo secondo Matteo 19,11-12 (e anche nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7). Non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione, secondo cui i celibi (o le nubili), solo a motivo della continenza costituirebbero la classe dei “perfetti”, e, al contrario, le persone sposate costituirebbero la classe dei “non perfetti” (o dei “meno perfetti”). Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (“status perfectionis”), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici (povertà, castità e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla chiamata di Cristo alla perfezione (“Se vuoi essere perfetto . . .”) (Mt 19, 21). La perfezione della vita cristiana, invece, viene misurata col metro della carità. Ne segue che una persona che non viva nello “stato di perfezione” (cioè in una istituzione che fondi il suo piano di vita sui voti di povertà, castità ed obbedienza), ossia che non viva in un Istituto religioso, ma nel “mondo”, può raggiungere “de facto” un grado superiore di perfezione – la cui misura è la carità – rispetto alla persona che viva nello “stato di perfezione”, con un minor grado di carità. Tuttavia, i consigli evangelici aiutano indubbiamente a raggiungere una più piena carità. Pertanto, chiunque la raggiunge, anche se non vive in uno “stato di perfezione” istituzionalizzato, perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo, sia in un “Istituto religioso” che nel “mondo”.
Questo discorso è stato ripreso, nel 2016, dal testo di “Amoris Lætitia(159-160)
“159. La verginità è una forma d’amore. Come segno, ci ricorda la premura per il Regno, l’urgenza di dedicarsi senza riserve al servizio dell’evangelizzazione (cfr 1 Cor 7,32), ed è un riflesso della pienezza del Cielo, dove «non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30). San Paolo la raccomandava perché attendeva un imminente ritorno di Gesù e voleva che tutti si concentrassero unicamente sull’evangelizzazione: «Il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7,29). Tuttavia rimaneva chiaro che era un’opinione personale e un suo desiderio (cfr 1 Cor 7,6-8) e non una richiesta di Cristo: «Non ho alcun comando dal Signore» (1 Cor 7,25). Nello stesso tempo, riconosceva il valore delle diverse chiamate: «Ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor 7,7). In questo senso san Giovanni Paolo II ha affermato che i testi biblici «non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato» a motivo dell’astinenza sessuale. Più che parlare della superiorità della verginità sotto ogni profilo, sembra appropriato mostrare che i diversi stati di vita sono complementari, in modo tale che uno può essere più perfetto per qualche aspetto e l’altro può esserlo da un altro punto di vista. Alessandro di Hales, per esempio, affermava che in un senso il matrimonio può considerarsi superiore agli altri sacramenti: perché simboleggia qualcosa di così grande come «l’unione di Cristo con la Chiesa o l’unione della natura divina con quella umana».
160. Pertanto, «non si tratta di sminuire il valore del matrimonio a vantaggio della continenza» e «non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione […]. Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (status perfectionis), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici». Tuttavia una persona sposata può vivere la carità in altissimo grado. Dunque «perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo».”
Come è evidente, la sequenza tra i testi del 1954 e quelli del 1982 e poi del 2016 mostra bene come la pretesa asserzione definitiva e irreformabile del testo di Pio XII abbia subìto una rilettura profonda, con un superamento esplicito della “superiorità” nella “complementarità”. In effetti la superiorità affermata è diventata la superiorità negata. Dopo trent’anni dal primo documento si è giunti ad una riformulazione e ad una esplicita riforma della posizione precedente. Perché mai ciò che è avvenuto con Sacra virginitas non potrebbe accadere, ancora una volta esattamente trent’anni dopo, anche per “Ordinatio sacerdotalis?”
Dottrine dichiarate come definitive, in un determinato momento, possono forse non esserlo più in un momento successivo? Il caso della superiorità della verginità sul matrimonio, prima affermata e poi negata, è un esempio inaggirabile di revisione successiva rispetto ad una affermazione ritenuta definitiva. Si deve notare, per finire, che l’esempio è tanto più istruttivo per il fatto che Sacra virginitas (1954) poteva basarsi su un esplicito canone dogmatico espresso sul tema dal Concilio di Trento, cosa che manca invece alle fonti di supporto di Ordinatio sacerdotalis (1994).
Se una dottrina che era stata definita “dogma di fede” ha potuto essere riformata, come potrebbe non esserlo una dottrina che mai era stata così esplicitamente considerata? L’articolo del prof. Trigo si conclude con questa importante affermazione: “l’enciclica Sacra Virginitas di papa Pio XII, nel 1954, riafferma la dottrina dei due stati di vita cristiana, la verginità e il matrimonio, indicando la superiorità e la perfezione della prima, definita solennemente come dogma di fede dal Concilio di Trento. Essa ha fondamento biblico e fu elaborata e trasmessa dalla Tradizione e dai Papi. Il Concilio Vaticano II e i documenti pontifici posteriori non si pronunciano in proposito. Il papa Giovanni Paolo II si pronuncia in senso contrario. Conseguentemente si pone la questione più generale sulla continuità, discontinuità e persino sulla rottura rispetto a dottrine definite, in un determinato momento, come definitive” (169-170).
Andrea Grillo blog Come se non 15 settembre 2023
www.cittadellaeditrice.com/munera/trentanni-dopo-sacra-virginitas-e-trentanni-dopo-ordinatio-sacerdotalis-dottrine-definitive-o-stadi-di-una-evoluzione/
ECUMENISM0
Gerusalemme siamo noi
Certo, ora è più facile essere pessimisti. Perfino per due portatori di speranza come Éric-Emmanuel Schmitt e Matteo Maria Zuppi. Lo ammettono, collegati online dai loro studi. Eccoli in dialogo, lo scrittore e il cardinale. Il drammaturgo franco-belga che da ateo si è convertito al cristianesimo e il presidente della Cei, emissario del Papa per la pace in Ucraina (il tema della guerra in corso aleggia pesante durante tutta la conversazione, ma proprio per la delicatezza del ruolo di Zuppi si è deciso di non sollevarlo). Insieme grazie a una serie di circostanze «fortunate».
La prima, la proposta arrivata dal Vaticano a Schmitt: un viaggio in Terra Santa per farne un diario, che è poi il La sfida di Gerusalemme, intimo e universale, appena pubblicato da e/o e Libreria Editrice Vaticana.
(L’autore è in arrivo in Italia per un tour di presentazioni, prima tappa a Pordenone). Seconda occasione: il Festival francescano, in cui i due si incontreranno (questa volta dal vivo, il 23 settembre a Bologna, in piazza Maggiore).
Tema del dibattito: Gerusalemme, «sogno di fraternità». Perché c’è un mondo visto da Gerusalemme. E un mondo dentro Gerusalemme. Città santa e martoriata, che ci rappresenta tutti, credenti e non. Piccola città che sembra contenere ogni storia, tutta la storia. E dove, tra divisioni e muri, possono ancora germogliare i semi di una nuova umanità, «più fraterna».
Perché Gerusalemme è una sfida?
Éric-Emmanuel Schmitt (α1960)
— È una città unica, verticale e orizzontale. Verticale perché lì Dio ha parlato, lì sono nati l’ebraismo e il cristianesimo, da lì Maometto è asceso al cielo. Verticale perché Dio ha parlato a uomini e donne dicendo «ascoltatemi». Ma anche orizzontale perché allo stesso modo Dio dice agli uomini e alle donne «comprendetevi e capitevi. Sappiate essere al tempo stesso uno e molti». Bisogna che i tre monoteismi e l’ateismo si riconoscano fratelli, ecco la sfida di Gerusalemme. Anche se siamo tutti diversi, con percorsi individuali, la nostra storia è comune. Gerusalemme lo ricorda costantemente a cristiani, ebrei, musulmani, anche agli atei.
Matteo Maria Zuppi (α1955)
— Gerusalemme rappresenta la memoria e il futuro. Tutti noi aspettiamo Que lla nuova. Paola Caridi, un’amica, ha scritto il libro “Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele”, nel quale ha esaminato la Gerusalemme della storia. Titolo provocatorio. Gerusalemme, però, è anche una città piena di visioni in cui si scorge, come diceva il vescovo Pietro Rossano, il retro del tappeto, si distinguono le trame, si intuisce la fatica di stare insieme, basti pensare alle risse che scoppiano da secoli nel Santo Sepolcro. Ma in questo dimora la sua grandezza. Vediamo i nodi del tappeto e anche la faccia, la bellezza, che consiste nel fatto che le tre religioni monoteistiche lì si ritrovano faticosamente. Quindi Gerusalemme è anche la città della pace, in cui le radici del Cielo sono un po’ più vicine a quelle della Terra.
Città dei muri o dei ponti?
Éric-Emmanuel Schmitt — Purtroppo oggi Gerusalemme è città più di muri che di ponti. Penso che rappresenti il fallimento dell’umanità tutta, non solo di israeliani e palestinesi. Gerusalemme afferma la nostra comune difficoltà nel cercare di essere contemporaneamente noi stessi ed empatici con gli altri. Quando sono a Gerusalemme sento che devo affermare il mio cristianesimo e al tempo stesso so che devo compiere il lavoro contrario, entrare in sintonia con le altre religioni e anche con l’assenza di fede. Dunque: per il momento sono muri, ma credo che ci sarà sempre la richiesta di costruire ponti.
Matteo Maria Zuppi — Gerusalemme è davvero lo specchio del nostro vivere, con tutta la difficoltà dello stare insieme, quel retro del tappeto di cui vediamo le lacerazioni. Sì, tanti muri sono cresciuti in una città dalle varie appartenenze che una volta trovavano un equilibrio: oggi, invece, assomiglia più a un insieme di ghetti, c’è meno dialogo, meno incontro, e direi che anche questa è una sfida, l’andare verso quella Gerusalemme che viene dal cielo bella come una sposa o quel Monte Santo dove saliranno tutte le genti. Possiamo vederla come un grande alfabeto per imparare a stare insieme. E dobbiamo cominciare a viverla nello spirito di Pentecoste, non ritrovando i piccoli frammenti di Babele, ma pensando che si tratti dell’inizio di un solo popolo santo. Alla “Fratelli tutti”. L’enciclica di Papa Francesco che porta questo nome ha come immagine la sua naturale ambientazione a Gerusalemme.
A proposito di «Fratelli tutti», siamo pronti per questo messaggio così semplice e così difficile da mettere in atto?
Éric-Emmanuel Schmitt — Gerusalemme ci chiama alla fratellanza pur essendo la città del fratricidio. Mentre la attraversavo mi chiedevo: in quale momento i fratelli iniziano a uccidersi? E rispondevo: quando dimenticano la loro origine comune. Siamo fratricidi nella dimenticanza del padre: i tre monoteismi sono i tre figli del padre. Se ogni religione pensa di essere all’origine di tutto, certo che è la guerra. Se invece prendiamo coscienza di appartenere a una storia comune allora c’è fraternità.
Matteo Maria Zuppi — Sono d’accordo. Aggiungerei che non solo diventiamo fratricidi quando dimentichiamo il padre, ma anche quando dimentichiamo il prossimo. Anzi, alcune volte ritrovi il padre ripartendo dal prossimo. Se poi mi si chiede se siamo pronti a ricevere il messaggio di «Fratelli tutti». Diciamo così, che stiamo ricevendo lezioni severe e per certi versi anche Gerusalemme è segnata dalla violenza. Dunque la domanda si pone: quando impareremo? Dopo il Covid? Dopo la guerra? Quando capiremo? La «Fratelli tutti» tutti ci ricorda l’inevitabilità di questo concetto: non c’è futuro senza pensarci insieme.
Ma allora qual è il sentimento prevalente? Ottimismo o pessimismo?
Matteo Maria Zuppi — Io coltivo la speranza, perché se dovessi scegliere tra ottimismo e pessimismo… Sarei pessimista. Michel Houellebecq dice: quando impareremo? Mai. Del resto non abbiamo raccolto la lezione della pandemia, ci siamo dimenticati la tragedia del secondo conflitto mondiale. Parliamo di riarmo mentre i nostri genitori ci richiamano alle parole di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra». Poi resto di speranza, certo che lo sono. E in questo Gerusalemme aiuta a trovare le radici della pace.
Éric-Emmanuel Schmit — Io, invece, sono un ottimista tragico: per me è il male il fattore di progresso nella storia. In questo sono allievo di Immanuel Kant: per lui quando il male diventa intollerabile gli uomini sono costretti a trovare soluzioni per uscirne. Penso che il motore della storia sia l’odio per il male piuttosto che l’amore del bene.
Ogni religione, scrive Schmitt nel libro, mette al primo posto una virtù: per gli ebrei è il rispetto, per i cristiani l’amore, per i musulmani l’obbedienza, per i buddhisti la compassione. Schmitt, cosa intende quando dice che la proposta cristiana è la più folle?
Éric-Emmanuel Schmitt — È la più folle, la più esigente, la più impossibile, la più profondamente romantica. Nel mio libro “Il figlio di Noè” ho scritto che i cristiani sono degli «ebrei sentimentali». Voglio dire che la chiamata all’amore oltrepassa la ragione. Come diceva Hegel, l’amore non si deduce, non è un concetto: è un valore vissuto, un’aspirazione. Questo elemento profondamente irrazionale del cristianesimo lo rende unico, forte. In un certo senso il cristianesimo è perfino impossibile, visto che l’imitazione di Gesù è sempre limitata. Pensiamo a questo: se vogliamo essere cristiani abbiamo come obiettivo la santità. Certo, qualcuno ce la fa, ma la più parte di noi è miserabile rispetto a questo traguardo. È, questa, una sollecitazione che amo profondamente.
Eminenza il cristianesimo è folle?
Matteo Maria Zuppi — È folle perché ci vuole far vivere quello per cui siamo stati fatti e ce lo fa scoprire. È vero che l’amore cristiano può apparire impossibile, ma in realtà è impossibile vivere senza amore. Il sentimento è ciò che permette di andare in profondità, di trovare sé stessi. Schmitt nel libro dice di sé a Gerusalemme: «Io sono io come non mai». Mi ha molto colpito, è sentimentale, sì, ma capisce l’amore e vi si abbandona. Poi il cristianesimo è folle, certo, perché deve scontrarsi con il male, con la logica delle divisioni, con l’egoismo, ma noi siamo fatti per stare insieme, per volerci bene.
Però continuiamo a dividerci, a ucciderci, a farci la guerra. Perché?
Matteo Maria Zuppi — Perché c’è il male. Anche i primi due fratelli si ammazzano… Noi teniamo molto poco conto del male e la nostra generazione ancora di più. In un recente incontro con alcuni storici dell’arte mi è stata fatta la domanda: perché gli artisti contemporanei non sanno raffigurare il male? Perché facciamo più fatica. Crediamo di essere padroni di noi stessi mentre siamo vittime del nostro istinto, come Caino. La realtà è che c’è il male. E lo scontro con il male è la vera lotta. E spesso la perdiamo. Del resto anche Gesù perde. Anche lui viene ucciso, non a caso. E non smette di volere bene anche da sconfitto.
Éric-Emmanuel Schmitt — Per me il male è ridursi allo stato animale, in una sorta di materialismo assoluto, rifiutando la trascendenza e dunque una parte della propria umanità.
Giuda incarna il male, ma Schmitt in questo libro, come nel precedente «Il Vangelo secondo Pilato», lo descrive come il discepolo che accetta di tradire, che si sacrifica perché Gesù glielo chiede. Per amore. Perché?
Éric-Emmanuel Schmitt — Non pretendo di dire la verità, ma amo la finzione che fa riflettere. La mia tesi su Giuda viene dal fatto che non ho mai sopportato l’antisemitismo cristiano. Non sopporto nessun antisemitismo, ma in particolare quello cristiano, basatosi molto sulla figura di Giuda, l’ebreo che ha tradito per denaro. Avevo voglia di «correggere» la storia ricordando le radici ebraiche di Gesù e mostrando che non c’è un tradimento di Giuda, ma un sacrificio.
Matteo Maria Zuppi — Giuda è nostro fratello, come ci ha restituito con tanta intelligenza don Primo Mazzolari. Poi noi facciamo come nei regimi sovietici, dove quando qualcuno cadeva in disgrazia si tagliava il suo volto dalle fotografie… Giuda è il nostro tradimento. Ed è suggestiva l’ipotesi di Éric. Certamente è il discepolo deluso. È tragico. È un mistero che affidiamo al mistero.
Schmitt scrive anche che l’indifferenza è atea.
Matteo Maria Zuppi — Ha ragione. L’indifferenza è la resistenza all’amore, è svuotarlo di significato. Dio ne è l’esatto contrario.
Schmitt, perché ha voluto esporsi nel libro parlando di sé davanti a Dio?
Éric-Emmanuel Schmitt — Non si può essere sinceri a metà. Ho preso questo rischio pensando a me come portatore di temi importanti. E per diventare un buon portatore dovevo essere nudo, senza maschera, libero di esprimere la mia collera, la mia indignazione anche nei confronti di alcune forme di devozione, di un certo bigottismo. È stato un percorso in cui all’improvviso, al Santo Sepolcro, nel momento in cui ero più cinico, ironico e più allievo di Voltaire, sono stato attraversato dalla tenerezza, dall’amore del cristianesimo. In Francia, Paese profondamente volteriano, scettico, dove un intellettuale «deve» essere ateo, il libro è stato accolto meravigliosamente per la sua autenticità: penso di avere reso ascoltabile la mia fede.
Schmitt si rammarica, sorridendo, che nei Vangeli spesso alcuni personaggi non siano spiegati come vorrebbe. Qual è il vostro Vangelo preferito?
Matteo Maria Zuppi — Ognuno ha un tratto personale e questo è bellissimo. Si arriva alla completezza attraverso la diversità. È il punto di vista di ogni evangelista a renderli straordinariamente umani e spirituali. Però se devo rispondere, direi che quello di Luca, in cui si ritrovano in particolare le sottolineature della misericordia e quindi anche della sofferenza, in cui c’è il Samaritano, è insomma… Però è difficile dirlo. Giovanni ti fa misurare con la profondità della dimensione umana. Ma diciamo Luca.
Éric-Emmanuel Schmitt — Il mio preferito è il quinto, cioè quello che costruiamo noi stessi quando abbiamo letto gli altri quattro. La forza dei Vangeli sta nella diversità, nel non essere sempre d’accordo e per questo ci forzano a un lavoro di riflessione e integrazione.
Matteo Maria Zuppi — Sono d’accordissimo sul quinto, che è anche quello più complicato da scrivere.
Gerusalemme continuerà a essere insieme la città della pace e della guerra? Che futuro vedete?
Éric-Emmanuel Schmitt — Bisogna accettare la crisi perpetua. Che non va soppressa, come vorrebbero alcune personalità pericolose, invocando una soluzione semplice, per esempio i totalitarismi. Essere democratici significa invece accettare la crisi perpetua: politica è gestire le forze antagoniste. Riguardo a Gerusalemme, poi, non sono né ottimista né pessimista: la città incarnerà sempre questa crisi che in fondo siamo noi, che è l’espressione di quello che profondamente siamo. Dunque non farò Cassandra, non farò previsioni e fiction geopolitica. Purtroppo il realismo ci obbliga a pensare all’umanità in uno stato di crisi permanente. Dal mio punto di vista sono molto inquieto: mi sembra che le forze identitarie, estremamente aggressive, abbiano la meglio su quelle «fraterne». Credo che sia un pessimo momento della storia e della storia di Gerusalemme.
Matteo Maria Zuppi — A Gerusalemme vediamo tutte le contraddizioni dell’umanità, il «tutti contro tutti». Però vediamo anche il «fratelli tutti». Dipende da ognuno di noi scegliere come vivere. E vedere anche nelle difficoltà l’immagine del futuro, la nuova Gerusalemme. Poi certo, Gerusalemme rappresenta il mondo di oggi. E aggiungerei anche per fortuna, pur sapendo che qualcuno potrebbe scandalizzarsi per questa mia frase. Ma mentre vedi la difficoltà della fraternità, capisci anche come in quel tessuto c’è la straordinaria ricchezza della fraternità universale.
Schmitt insiste sulla frase di Gesù «E voi chi dite che io sia?» che è anche il titolo di un progetto del dicastero vaticano della Cultura per favorire il dialogo tra scrittori e Chiesa. La Chiesa ha bisogno degli scrittori?
Éric-Emmanuel Schmitt — Non so se la Chiesa abbia bisogno di scrittori, di certo gli scrittori hanno bisogno della Chiesa. C’è qualcosa che mi ha colpito incontrando Papa Francesco (il libro si conclude con il racconto del loro colloquio e con una lettera del pontefice a Schmitt, ndr) e cioè l’importanza che il Santo Padre attribuisce a ogni credente: lo vede come un testimone legittimo del cristianesimo. Ognuno con la sua voce. È importante riformulare in ogni epoca la fede cristiana con termini nuovi, così come è fondamentale che il pittore la raffiguri con il suo immaginario. Il problema del cristianesimo è che ha già duemila anni e ha usato molte parole, ha usurato molti concetti, e non lo ascoltiamo più. Credo che sia interesse degli scrittori raccontarlo con parole fresche, ascoltabili.
Matteo Maria Zuppi — Abbiamo bisogno dei poeti. Ci aiutano a esprimerci con intensità, ma anche a non dovere spiegare tutto. Qualche volta nel difendere il Vangelo lo si allontana dalla vita e dalle sue contraddizioni, pensiamo di farne un distillato, ma il Vangelo non è mai un distillato. Il motivo è chiaro: è profondamente unito all’umano.
colloquio con É. E. Schmitt e M. M. Zuppi a cura di Annachiara SacchI “la Lettura” 10 settembre 2023
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Perché il Papa non è filo-russo
Fin dall’inizio del conflitto russo-ucraino, Papa Francesco è stato accusato di non essere sufficientemente chiaro nella condanna dell’aggressore e nei giorni scorsi inabilitato a qualsiasi arbitrato tra i contendenti perché ritenuto “filorusso”. Alcune sue parole sulla Russia – “un grande e illuminato Paese di grande cultura e di grande umanità” – hanno destato irritazione nella chiesa ucraina greco-cattolica che sta celebrando a Roma il suo sinodo. Nell’incontro con il Papa i vescovi ucraini hanno criticato con forza l’atteggiamento di Francesco, giudicato incapace di comprendere l’Ucraina e di condannare il neocolonialismo della guerra russa che dura ormai dal febbraio 2022, una guerra tra cristiani.
In realtà Papa Francesco ha continuato a chiedere la cessazione della guerra e l’inizio di dialoghi per la pace, inoltre nessuno può dire che le sue posizioni siano filorusse e tanto meno filo putiniane. La realtà in Ucraina più che difficile da decifrare è complicata da affrontare e Francesco come successore di Pietro – il cui compito è il servizio dell’unità non solo della chiesa ma di tutte le chiese – cerca possibilità di tregua dal conflitto in vista della pace. Il Papa non agisce e non può agire come i poteri politici di questo mondo perché il suo compito è profondamente diverso. In Ucraina è presente una chiesa cattolica non latina ma appunto greco-cattolica, conforme alle chiese ortodosse ma in comunione con Roma da alcuni secoli. Chiesa uniate , viene definita senza disprezzo, ma segnata fin dalla nascita nel XVII secolo dal metodo dell’uniatismo che la chiesa cattolica ha praticato nei confronti delle chiese ortodosse: avendo come obiettivo l’unità della chiesa, concepita come ritorno o graduale assimilazione alla chiesa cattolica romana, venivano incorporate porzioni delle chiese ortodosse dando origine a chiese parallele cattoliche. Questo metodo però non solo è stato condannato da cattolici e ortodossi riuniti insieme a Balamand (1993), ma è giudicato da Papa Francesco «oggi non più lecito … non più da ritenersi via per l’ecumenismo».
La chiesa greco-cattolica ucraina è una chiesa grande e santa, di martiri, che ha sofferto la persecuzione e sotto Stalin ha sfiorato la possibilità dell’annientamento. La chiesa cattolica romana non può non sentirla come membro privilegiato per il dialogo con gli ortodossi, ma certamente non le è possibile favorirla ponendola in contrapposizione a quella ortodossa. Per questo Papa Francesco ha promesso agli ortodossi che Roma non acconsentirà a un patriarcato ucraino-cattolico nonostante gli ucraini lo chiedano.
Solo la profezia nel servizio papale alle chiese potrà sbloccare la situazione e offrire una via d’uscita. Oggi siamo condannati a un pregiudizio cattolico nei confronti di una chiesa che, sebbene cattolica, nei fatti è tentata dal nazionalismo come molte chiese ortodosse. Ma Papa Francesco, fedele allo spirito del Concilio, non può tollerare il metodo dell’uniatismo perché resta convinto servo della comunione tra molte contraddizioni, poca comprensione e raro sostegno. Pensa alla comunione delle chiese tutte, non alla difesa della propria chiesa cattolica, e questo in obbedienza al Concilio, ma soprattutto al Vangelo.
Enzo Bianchi “la Repubblica” 11 settembre 2023
www.repubblica.it/rubriche/2023/09/11/news/altrimenti_11_settembre_2023-413998894
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LAICI
Superare la divisione tra chierici e laici
Il tempo consuma molte cose, ma prima di tutto consuma le parole. In certi passaggi epocali, poi, questo consumo diventa velocissimo e vorace. Laici è una di queste parole velocemente consumate e divorate, fuori e dentro la Chiesa, ma non ce ne siamo ancora accorti. Parlare della Chiesa suddividendola, distinguendola, ordinandola tra laici e chierici (ministri ordinati) non aiuta a capire cosa sia oggi la Chiesa né la sua dinamica spirituale. La distinzione laici/non-laici, rafforzata e radicalizzata dalla Controriforma e non superata dal Concilio Vaticano II, ha la sua origine nei primi tempi del Cristianesimo ma è eredità del mondo ebraico e di quello romano e della loro idea di ‘sacerdozio’, che i Vangeli avevano abbandonato – non risulta ci fossero sacerdoti tra i primi discepoli, e se c’erano il non menzionarli in quanto sacerdoti sarebbe ancora più rivelativo.
L’interessante Instrumentum Laboris del Sinodo ricorre poco alla parola laici (solo otto volte) e molto a quella di ‘battezzati’, ma alla sua radice ritroviamo ancora l’ecclesiologia laici/chierici. Lo vediamo da alcuni suoi passaggi-chiave: «È possibile che, in particolare in luoghi in cui il numero di Ministri ordinati è molto scarso, i Laici possano assumere il ruolo di responsabili della comunità?» (B2.4). Una domanda, questa, che oltre a mostrare una natura subalterna dei non-chierici (intesi come ‘supplenti’), rivela soprattutto l’antica teologia incentrata sul culto, sui sacramenti e i suoi ministri, categoria distante dalla novità del Cristianesimo che ha trasformato il tempio nel mondo intero – stupenda, a questo riguardo, la conclusione del libro de “L’apocalisse”: nella nuova Gerusalemme ‘non vide in essa alcun tempio … In mezzo alla piazza della città, e da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita’ (Ap 2122;22.2).
La griglia teologica laici/chierici impedisce poi di affrontare veramente anche l’enorme e urgentissimo tema della donna nella chiesa cattolica. Anche se inserissimo le donne tra i sacerdoti (o diaconi), se prima non si ripensa profondamente la laicità di tutta della chiesa e del sacerdozio, l’eventuale sacerdozio o diaconato delle donne non farebbe altro che aumentare il clericalismo di tutti. È urgente de-clericalizzare i maschi e la chiesa cattolica nel suo insieme, non clericalizzare anche le donne.
Altrimenti avverrebbe qualcosa di simile all’operazione fatta in questi anni nelle grandi imprese: si sono finalmente inserite donne nei CDA senza però discutere profondamente la cultura del governo e del lavoro nelle imprese tutte disegnate sul registro maschile. E così l’arrivo di donne ha lasciato nella sostanza intatta (o quasi) la cultura aziendale. Il sacerdozio va rifondato sulla antropologia evangelica, che significa ribadire l’uguaglianza radicale di tutti i cristiani e l’uguale dignità e reciprocità di tutti i carismi (1 Cor, 12). Solo ad un secondo livello, pastorale e non ontologico, i ministri potranno ritrovare il loro giusto posto.
Con le parole noi chiamiamo le cose, il mondo, gli angeli, e questi ci rispondono. Il giorno in cui ci accorgiamo che non rispondono più, occorre cambiare subito le parole ormai mute di ieri, altrimenti a risponderci saranno solo i dèmoni.
Luigino Bruni Il blog di madrugada 1° settembre 2023
OMOFILIA
Il dibattito nelle Chiese
L’Arcivescovo di Berlino Koch: “non procederò contro chi benedirà le coppie dello stesso sesso”
Lettera dell’Arcivescovo di Berlino Heiner Koch (α1954) ai presbiteri, ai diaconi a tutte le collaboratrici e i collaboratori nel servizio pastorale dell’Arcidiocesi di Berlino (Germania) del 21 agosto 2023,
Cari confratelli, care sorelle e fratelli, il giorno 11 marzo 2023, a Francoforte sul Meno, è giunta al termine la quinta e ultima assemblea sinodale del Percorso Sinodale. L’esortazione del Santo Padre a percepire e configurare la Chiesa come comunità sulla strada della sinodalità è tuttavia ancora lontana dall’avverarsi. In diversi circoli, comunità e commissioni dell’arcidiocesi di Berlino stiamo cercando di capire come realizzare la sinodalità in modo responsabile a favore del bene delle persone nella Chiesa e in unità con tutta la Chiesa.
Con questa premessa, nelle commissioni sinodali della nostra Diocesi già previste dal diritto canonico, nel Consiglio presbiterale, nel Consiglio pastorale diocesano, ma anche in altri gruppi, vogliamo cercare di capire quali proposte concrete, fra gli auspici del Percorso Sinodale, possiamo prendere in considerazione nella nostra diocesi, come e in che misura possiamo e vogliamo renderle calarle nella realtà.
I testi approvati dal Percorso Sinodale non hanno di per sé alcun carattere vincolante per le Diocesi, le commissioni, i consigli, le associazioni o le comunità. In base all’adesione al Percorso Sinodale, tuttavia, abbiamo il dovere di ponderare coscienziosamente gli impulsi e gli stimoli che abbiamo ricevuto da esso e consigliarne l’attuazione in modo trasparente, attraverso una comunicazione costruttiva improntata al rispetto.
All’inizio del Percorso ho già detto che ero intenzionato a trasferire nelle nostre commissioni sinodali diocesane tutte le delibere del Percorso Sinodale e a inserire nella vita della nostra Arcidiocesi le indicazioni risultate da quelle consultazioni e dalla mia decisione, per come le delibere del Percorso Sinodale sarebbero state rese operative, in tutto o in parte, e persino nel caso in cui si fosse rinunciato alla loro attuazione pratica.
Allo stesso modo, ho dichiarato in anticipo che mai avrei attuato delibere in contrasto con le intenzioni e le indicazioni del Santo Padre. Come vescovo ho l’alto compito di mantenere l’unità con la Chiesa universale, ma anche di portare con me in questa unità le nostre domande.
Molto velocemente è divenuto oggetto di discussione nella nostra Arcidiocesi soprattutto le linee guida del Percorso Sinodale “Benedizioni per coppie che si amano”. La proposta di introdurre anche da noi la celebrazione di benedizione per coppie che si amano, ma non possono o non vogliono sposarsi sacramentalmente, ha suscitato controversie e discussioni, in parte accompagnate da grande durezza e forti emozioni: per esempio, in occasione della conferenza delle operatrici e degli operatori pastorali della nostra diocesi, il 26 aprile, o alla sessione del Consiglio Presbiterale il 27 aprile, all’incontro del Consiglio Pastorale Diocesano il 13 maggio e in occasione di una conferenza digitale aperta, il 24 maggio, a cui hanno partecipato molti fedeli.
Con le loro differenti argomentazioni si sono confrontate e confrontati rappresentanti di diversi approcci teologici e diverse prospettive ecclesiali. In quelle serie discussioni sono emersi da parte di tutti un grande amore per la Chiesa e una grande passione per l’annuncio evangelico. Ma non di rado è venuta alla luce la convinzione che solo il proprio punto di vista sia adeguato a proteggere la Chiesa da gravi conseguenze.
Sull’esempio delle unioni omosessuali vorrei citare alcune motivazioni addotte da coloro che sono contrari alla benedizione di coppie che si amano ma non possono o non vogliono sposarsi sacramentalmente. Essi dicono: Siamo convinti che i legami fra le persone dello stesso sesso non sono “ordinati ai piani di Dio, inscritti nella creazione e pienamente rivelati da Cristo Signore”. Ma se «la realtà da benedire» non è «obiettivamente e positivamente» ordinata ai piani di Dio, allora questa realtà, questo legame concreto non può essere nemmeno benedetto. «Dio non benedice il peccato né può farlo. Benedice i peccatori perché riconoscano che sono parte del suo progetto di amore e si lascino cambiare da Lui».
Vogliamo proteggere e promuovere il sacramento del matrimonio e il matrimonio come li intende la Chiesa Cattolica. Ma il valore del matrimonio verrebbe indebolito se la benedizione delle relazioni omosessuali «in un certo modo rappresentasse un’imitazione o un rimando analogico alla benedizione nuziale che viene invocata sull’uomo e sulla donna che si uniscono nel sacramento del matrimonio».
Non va escluso che, se vengono concesse le benedizioni, diventi più aggressiva anche la richiesta di permettere il matrimonio sacramentale alle coppie omosessuali. Crediamo che «non sia consentito impartire una benedizione a relazioni o persino a unioni stabili che implichino l’esercizio della sessualità al di fuori del matrimonio».[Responsum ad dubium della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla benedizione di legami fra persone dello stesso sesso, 22 febbraio 2021.]
www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20210222_responsum-dubium-unioni_it.html
Ma anche quelli che sono favorevoli a una benedizione di coppie che si amano ma non possono o non vogliono sposarsi sacramentalmente, nuovamente sull’esempio delle unioni omosessuali, hanno elaborato e presentato le loro motivazioni. Essi dicono:
“Siamo convinti che la Chiesa continua sempre a evolvere e progredire nella conoscenza di Dio e in tal modo anche nella conoscenza dell’ordine che il creatore ha collocato nella sua creazione. Anche nelle scienze sono stati raggiunti, negli ultimi decenni, grandi progressi nella comprensione della sessualità umana che hanno effetto anche sulla comprensione teologica dell’omosessualità.
La Chiesa dovrebbe riconoscere quando in una relazione vi è del bene, innanzitutto quando in essa vengono vissuti l’amore e la fedeltà, il sostegno vicendevole “nella buona e nella cattiva sorte”, la disponibilità “ad accogliere le debolezze e gli errori dell’altro”. La Chiesa ha il diritto di proclamare come dono di Dio questo bene obiettivo attraverso la benedizione. Il riconoscimento del bene in una relazione è una forma anche per parlare bene di Dio a queste persone.
Auspichiamo pertanto che alle persone che vogliono vivere un legame di coppia, venga assicurata la protezione di Dio. Noi riteniamo queste persone capaci di orientare la loro vita secondo il messaggio di Dio e di crescere nella vita grazie alla fede. Anche il Santo Padre si è più volte interessato a queste diverse motivazioni e al loro retroterra, principalmente dell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris Lætitia sull’amore nella famiglia (2016), dove, con grande intensità, Papa Francesco invita al discernimento pastorale: «Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante […] Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere valori insiti nella norma morale o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa» (Amoris Lætitia nr. 301). Certo, anche in Amoris Lætitia il Santo Padre rifiuta l’equiparazione giuridica delle unioni omosessuali con il matrimonio. Ma alle Chiese locali, alle operatrici e agli operatori pastorali concede un ampio spazio di manovra per trattare le persone in situazioni così dette “irregolari”: «Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia immeritata, incondizionata e gratuita» (Amoris Lætitia nr. 297).
«È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari» (Amoris Lætitia nr. 304). Per questo ha forza l’idea che «siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (Amoris Lætitia nr. 37).
Ciò che Papa Francesco afferma nel suo scritto Evangelii Gaudium (2013) sul sacramento dell’Eucarestia vale per tutti i sacramenti, anche per il matrimonio, e di certo tanto più anche per un sacramentale come la benedizione: essa «non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (Evangelii gaudium nr. 47).
A noi esseri umani, che siamo e rimaniamo deboli, ogni benedizione assicura la Grazia e l’aiuto di Dio. Benedire non ha perciò il significato di “legittimare, approvare, autorizzare”. Anche se siamo benedetti, tutti noi rimaniamo comunque esseri umani e peccatori e per il nostro percorso di vita abbiamo bisogno della Grazia di Dio che ci forma e ci costruisce. Questo principio fondamentale associa tutti gli esseri umani, anche coloro che invocano una benedizione per le loro relazioni che non sono state o non possono essere strette sacramentalmente.
Per quanto detto, vi prego di seguire nella nostra diocesi questa via per la quale mi sono deciso dopo un intenso processo di confronto su tale questione:
Per le operatrici e gli operatori pastorali a pieno incarico mi aspetto, sulla base delle differenti posizioni e motivazioni favorevoli o contrarie alla benedizione delle coppie, che essi prendano per sé stessi una decisione accuratamente ponderata.
Per me stesso come arcivescovo questa è la mia decisione: finché, riguardo alla benedizione delle coppie che non possono o non vogliono celebrare il sacramento del matrimonio, non venga presa dal Santo Padre alcuna altra decisione diversa da quella presentata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel marzo 2022, io non benedirò queste coppie. Come Conferenza Episcopale Tedesca facciamo di tutto per intensificare i colloqui con il Papa e i suoi collaboratori verso ulteriori chiarimenti. Il futuro prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, l’arcivescovo Victor Manuel Fernández, si è mostrato, per esempio, aperto alla possibilità di riflettere su una benedizione, a patto che questa si configuri in modo da evitare ogni confusione riguardo alla essenziale differenza rispetto al matrimonio fra uomo e donna, dal momento che non vi è nulla di paragonabile al matrimonio fra un uomo e una donna che sia in condizione di generare nuova vita in forza della differenza fra i sessi.
Finché sulla questione della benedizione per coppie che non possono o non vogliono sposarsi sacramentalmente persiste lo status quo, io non procederò sul piano disciplinare contro operatrici o operatori pastorali che per motivi spirituali benediranno le coppie nelle loro specifiche situazioni personali dopo un colloquio pastorale volto alla formazione della coscienza e al discernimento.
Mi aspetto che la decisione di operatrici o operatori pastorali a favore o contro una benedizione venga rispettata.
Questa accoglienza rispettosa delle diverse posizioni comporta anche che le benedizioni non vengano strumentalizzate né politicamente né mediaticamente. Questo significa soprattutto non sfruttarle per dare di sé una presunta immagine migliore, in quanto persona che benedice o no, nella comunità, nelle commissioni ecclesiali, nella stampa, etc.
Nel caso di queste benedizioni si tratta di un atto che trova la sua collocazione nel quadro confidenziale della cura pastorale personale.
Ove, nell’ambito di una parrocchia, all’interno di un gruppo pastorale o di una istituzione ecclesiale vi siano divergenti posizioni o pratiche riguardo la benedizione delle coppie, mi aspetto da voi -soprattutto dai parroci come guide di una parrocchia- di rispettarle, in base allo spirito che ho descritto e ai limiti che ho tracciato. Se non doveste trovare alcuna soluzione condivisa, vi prego di coinvolgermi nella consultazione.
La via da me descritta è di tipo pastorale, non amministrativa o giuridica, per la quale mi sono deciso sulla base delle affermazioni dell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris Lætitia.
Dal momento che vi sono motivazioni favorevoli e contrarie alla benedizione di coppie che si amano ma non possono o non vogliono sposarsi sacramentalmente, vorrei incoraggiarvi a riflettere sulla questione in modo differenziato e a decidere in modo responsabile.
Nella speranza che su questa strada riusciamo a mantenere l’unità nella diversità all’interno della nostra arcidiocesi, vi saluto e vi benedico di cuore.
Vostro Heiner Koch, Arcivescovo di Berlino
traduzione da Antonio De Caro
www.gionata.org/larcivescovo-di-berlino-koch-non-procedero-contro-chi-benedira-le-coppie-dello-stesso-sesso
POLITICHE PER LE FAMIGLIE
Le promesse alle famiglie tra molti (troppi) paletti
Il quadro economico incerto e la congiuntura obbligano il Governo alla prudenza. Tuttavia la legge di bilancio dovrà contenere misure irrinunciabili. L’attività politica, ormai dimentica della pausa agostana, è tornata velocemente al centro dell’attenzione, complice la prossima legge di bilancio, gli equilibri politici della maggioranza e anche la galassia delle opposizioni.
Quello che sembra sempre più chiaro è che la maggioranza dovrà inevitabilmente scontrarsi con la realtà di conti dello Stato che non permettono di dar seguito alla lista dei desideri dei partiti che sostengono il Governo. Se da un lato il Governo ha, finalmente, posto l’attenzione sul calo demografico, iniziando ad ipotizzare (e in qualche caso ad applicare) misure per favorire chi ha figli (con l’obiettivo di agevolare anche chi figli non ne ha ma vorrebbe metterli al mondo), dall’altro ci sono alcuni ostacoli che obbligano l’esecutivo a percorrere la via della prudenza.
Sembra scontato che alcune risorse saranno impiegate per cercare di combattere la denatalità, tenendo presente come questa sia collegata al problema dell’occupazione femminile (è bene ricordare che una più alta natalità non è causa di minor lavoro femminile, accade in Europa nei Paesi che hanno adottato politiche familiari): l’obiettivo del Governo, a detta del premier Giorgia Meloni, è quello di “lavorare per costruire una società nella quale ci sia un forte legame tra il lavoro femminile e la possibilità di mettere al mondo dei figli” (Intervista al Corriere della Sera, 8 settembre 2023).
Altre risorse dovranno essere applicate per confermare l’estensione del taglio del cuneo adottato dal Governo nella scorsa Manovra: in questo caso ne va della credibilità dell’esecutivo stesso, perché eliminare un taglio introdotto solo un anno prima, della durata di sei mesi, sarebbe una pessima figura. Già questi due temi riducono molto la possibilità di agire su altro, e questo per diverse questioni. La prima riguarda il superbonus, costato molto più di quello inizialmente calcolato dal Governo Conte 2; certamente ha avuto delle ripercussioni positive nel mercato, almeno inizialmente, con una ripresa del lavoro, ma la realtà mostra come, per lo Stato, il costo del bonus facciate sia di 26 miliardi (contro i 5 inizialmente previsti) e quella del superbonus 110% di 93 miliardi (contro i 30 previsti, dati del Corriere della Sera, 3 settembre 2023): in pratica queste due politiche sono costate rispettivamente 5 e 3 volte tanto (dati di agosto), portando anche ad un aumento legato ai costi del materiale (di fatto drogando il mercato).
Legate al discorso dei bonus sono le decisioni in campo europeo circa il Patto di stabilità, sospeso per la pandemia Covid e che dal 2024, a meno di modifiche, tornerà in auge: esso prevede che il rapporto deficit/Pil non superi il 3%, e questo è fonte di problemi per il Governo, che spera di trovare un aiuto da parte di Eurostat, l’agenzia statistica europea che potrebbe computare le uscite del superbonus tutte il primo anno (quando cioè si forma il credito d’imposta) o anno per anno (quando si sconta): se dovesse vincere la prima ipotesi, il deficit andrebbe dal 4,5% previsto al 6%, lasciando però aperti più spazi per intervenire nelle leggi di bilancio degli anni successivi. Al contrario, se la computazione avvenisse anno per anno, le spese legate al 110% bloccherebbero, in parte, le scelte di politica economica nelle Manovre dei prossimi anni, a prescindere dal colore politico del Governo.
In questo quadro già complesso si aggiunge anche l’inflazione, che, come già ricordato, è in diminuzione, secondo i dati di agosto, a livello macroeconomico, rimanendo invece molto alta per quanto riguarda i prezzi di consumo: questo fa sì che il potere d’acquisto (aumentato dal taglio del cuneo) venga bruciato tutto o in parte. In altre parole, il carrello della spesa è sempre più vuoto e si spende sempre di più. Anche a causa di questo quadro economico incerto e per niente favorevole, è difficile ipotizzare che si riesca a fare la riforma fiscale riducendo gli scaglioni Irpef, proprio a causa della mancanza di risorse.
Vista la situazione globale, che mostrano un rallentamento dell’economia (a parte l’India, che l’anno prossima si prevede farà ancora meglio di quest’anno), il prolungarsi della guerra in Ucraina, la sempre maggior competitività della Cina e le elezioni Usa (che si preannunciano particolarmente agitate) l’augurio è che questa Manovra sia fatta da pochi, piccoli e sicuri passi, su un terreno fin troppo accidentato, seguendo quella che sembra la parola d’ordine del ministro dell’Economia: prudenza.
Andrea Mobiglia, α1992 il sussidiario 11 settembre 2023
SACERDOTI
Un prete al servizio della comunità
La revisione del modo di essere chiesa ha (e non può che avere) implicanze dirette sulle varie componenti del tessuto ecclesiale, in particolare sui carismi e sui ministeri che vanno sempre più ripensati in un’ottica comunitaria e con l’obiettivo di far crescere partecipazione e corresponsabilità. La comunità cristiana non può essere concepita come una massa di individui, che ricercano ciascuno la soddisfazione del proprio bisogno religioso, ma come una realtà viva e articolata in cui ogni fedele è chiamato a fornire il proprio insostituibile apporto all’edificazione della casa comune.
Nel contesto di questa visione di chiesa va inserito anche il ruolo del prete, che riveste una rilevante importanza in ragione del particolare servizio che è chiamato a svolgere. L’ecclesiologia del Vaticano II, con l’introduzione delle due grandi categorie di “popolo di Dio” e di “comunione” ha segnato con chiarezza l’ambito e la modalità di esercizio di tale servizio, mettendo l’accento sulla necessità di inscriverlo all’interno (non dunque al di fuori o al di sopra) della comunità e di finalizzarlo alla sua crescita.
Le difficoltà attuali. La perdita di autorità. Le due categorie accennate sono al centro della costituzione “Lumen gentium”, dove l’aver anteposto il capitolo sul “popolo di Dio” a quello dedicato alla gerarchia – una vera “rivoluzione copernicana” secondo alcuni – ha determinato il passaggio da una concezione verticistica di chiesa a una concezione di chiesa “dal basso”, radicata nel sacerdozio comune dei fedeli che scaturisce dal battesimo; mentre a sua volta, l’aver messo al centro della riflessione il concetto di “comunione” ha reso trasparente l’esigenza di sviluppare una forma di unità differenziata e pluralistica, frutto del contributo responsabile di tutti i fedeli. Una chiesa dunque non più egemonizzata da una élite di eletti, la ecclesia docens, e costituita da una pletora assai più numerosa di fedeli, la ecclesia discens, il cui compito è quello di sottostare agli orientamenti dottrinali e alle direttive pastorali dettate dai primi.
Le difficoltà ad accettare di fatto questa visione da parte di chi riveste un ruolo gerarchico – dal papa ai vescovi e ai preti – dopo secoli di clericalismo si è ben presto manifestata. Alla perdita del ruolo sociale assai rilevante nell’ambito di una società chiusa come quella preindustriale si è accompagnata, grazie alle scelte fatte dal Concilio, il venir meno di un supporto istituzionale, che garantiva al prete l’attribuzione di una indiscussa autorità dalla quale ricavava autoaffermazione, gratificazione e sicurezza. L’abbandono dei ruoli del passato ha dunque lasciato il posto all’esercizio di una funzione, che oltre a sminuirne il potere decisionale, esige l’acquisizione di particolari attitudini, quali l’autorevolezza personale, la capacità di dialogo e lo spirito di servizio.
Le conseguenze della secolarizzazione. A questo si devono aggiungere i problemi che vengono dai cambiamenti socioculturali in corso, provocati in modo speciale dal processo di secolarizzazione, che ha raggiunto negli ultimi decenni livelli sempre più accentuati, con la conseguenza di una forte attenuazione – qualche volta persino di una radicale scomparsa (si pensi a una fascia estesa del mondo giovanile) – della domanda religiosa, e dunque una maggiore difficoltà a dare efficacia all’annuncio evangelico, i cui valori sono peraltro in controtendenza rispetto alle logiche individualiste dominanti, che esaltano la ricchezza, il successo e il potere quali criteri di valutazione del comportamento umano. Questo indubbio stato di impotenza genera in molti sacerdoti un senso di frustrazione, al quale alcuni reagiscono cercando di ricuperare in modo illusorio il potere del passato attraverso la messa in atto di atteggiamenti autoritari, che finiscono per accrescere la distanza dai fedeli; altri ricercando compensazioni affettive clandestine che li sottraggano alla condizione di isolamento in cui sono precipitati, con ripercussioni negative sull’esercizio del ministero; altri, infine, abbarbicandosi a tradizioni devozionali del passato divenute anacronistiche: celebrazioni liturgiche fastose in cui a contare non è tanto il messaggio che si trasmette o il coinvolgimento partecipativo dei fedeli quanto la ricerca di un estetismo del tutto formale o ritorno folkloristico all’uso della talare, che denuncia un bisogno di distinzione dagli altri espressione della volontà di difendersi dal mondo circostante, considerato malvagio, alla ricerca del perseguimento di una falsa sicurezza.
Quali candidati e quale iter formativo. Altri problemi nascono poi dai soggetti che scelgono di accedere al ministero sacerdotale e dall’iter formativo che viene loro proposto. Uno degli effetti della secolarizzazione è stato la drastica riduzione, almeno in Occidente, del numero dei sacerdoti con la necessità di affidare la cura di più parrocchie allo stesso sacerdote o di favorire l’istituirsi della compresenza di più sacerdoti in una parrocchia centrale della zona, dove fare vita comune e fornire il proprio servizio a più comunità. Questo non manca di creare situazioni di disagio non solo nella popolazione abituata ad avere il proprio parroco residente sul territorio, ma anche negli stessi sacerdoti educati per molto tempo a vivere da soli, e dunque incapaci di adattarsi alla vita comune. Senza dimenticare un fatto singolare riguardante la provenienza di una parte piuttosto consistente di clero. Mentre infatti fino agli anni 70-80 del secolo scorso le diocesi italiane inviavano sacerdoti in vari Paesi del Terzo mondo, specialmente in Africa e in America Latina – è sufficiente ricordare qui l’esperienza dei preti Fidei donum – oggi siamo in presenza di una radicale inversione di tendenza; ad esercitare il ministero da noi sono sempre più sacerdoti provenienti dal Terzo mondo, con la possibilità di un arricchente scambio culturale, ma anche con le inevitabili difficoltà di inserimento in un contesto assai diverso da quello di partenza.
Quanto all’iter formativo si deve riconoscere che molte cose sono cambiate rispetto al passato in cui a prevalere era il modello tridentino. Il Concilio ha fornito al riguardo indicazioni preziose, che hanno trovato riscontro in interventi della Santa Sede e delle Conferenze episcopali, quella italiana in primis: da una maggiore attenzione alla maturità umana alla coltivazione dello spirito di servizio; dal superamento di una proposta rigidamente dogmatica a una visione del cristianesimo più capace di confrontarsi con le correnti culturali dell’attuale momento storico, fino all’offerta di una spiritualità più radicata nel vivo dell’azione pastorale propria del ministero sacerdotale. Non mancano tuttavia, anche a questo riguardo, oggettive difficoltà legate al fatto che molti candidati al sacerdozio provengono dalle fila dei movimenti, con il rischio (non infrequente) che tendano ad impostare la loro attività pastorale sulla base della spiritualità del movimento, non tenendo in considerazione la varietà delle esigenze proprie delle persone che compongono la comunità parrocchiale.
Un ministero di comunione. Le funzioni da esercitare. Le difficoltà segnalate non devono rappresentare un ostacolo insormontabile all’esercizio di un ministero, che conserva ancor oggi un ruolo imprescindibile per la vita della comunità cristiana. Deve diventare piuttosto stimolo a ridefinirne le finalità e le modalità di esercizio. La forte riduzione del numero dei sacerdoti, la provenienza di alcuni da aree geografiche lontane e la stessa nuova e variegata composizione delle persone che accedono a tale ministero possono rappresentare una occasione opportuna per uscire da una situazione perpetuatasi per molto tempo nella quale al prete veniva assegnata, oltre ad un ruolo di comando, una miriade di compiti che nulla avevano a che fare con la missione cui è chiamato e che anzi finivano talora per sottrarlo ad essa.
È allora importante individuare con precisione, quali funzioni vanno ascritte come essenziali al sacerdote. Dall’ecclesiologia di “comunione” del Vaticano II ne discendono soprattutto tre che vanno fatte oggetto di particolare considerazione, perché evidenziano la identità specifica del ministero sacerdotale: l’edificazione della comunità, l’evangelizzazione e l’attività liturgico-sacramentale e, infine, la testimonianza personale.
- La prima funzione (e la più importante) è quella di concorrere alla formazione della comunità. Va detto anzitutto che la messa in atto di tale funzione non è certo appannaggio esclusivo del prete; è un processo complesso che si costruisce dal basso e che implica il coinvolgimento di tutti i fedeli, chiamati a mettere a disposizione i propri talenti, le proprie competenze e le proprie esperienze, convergendo in unità. Da questa confluenza nasce e si sviluppa una realtà assai ricca, nella quale si intrecciano relazioni diverse, più o meno intense, attraverso le quali si attivano forme di partecipazione, che determinano una vera mediazione tra l’espressione della propria identità e il servizio agli altri. Acquisisce in tal modo consistenza reale (ovviamente senza la pretesa di esaurirlo) il concetto di “comunione”. Il rapporto tra “comunità” e “comunione” è un rapporto di interdipendenza dialettica: si va infatti dalla “comunione” alla comunità”, in quanto è la prima a orientare la seconda; e, inversamente, dalla “comunità” alla “comunione”, perché attraverso l’attuazione del tessuto comunitario si dà un volto concreto alla “comunione”, senza eliminare per questo la distanza mai del tutto colmabile tra le due e sollecitando, di conseguenza, la “comunità” ad una costante forma di metanoia. Un’analoga dialettica si ripropone peraltro sul fronte del rapporto tra la vita interna della comunità e la sua proiezione all’esterno. I legami che occorre di continuo approfondire tra i fedeli per consolidare la reciproca appartenenza non devono essere vissuti in modo chiuso e autoreferenziale, ma devono diventare il trampolino di lancio per un’apertura sempre maggiore al mondo circostante al quale le comunità cristiane devono offrire il proprio contributo per la promozione dell’unità e della pace. Il compito del sacerdote è quello di orientare il cammino dei fedeli in questa direzione. Per dare efficacia all’esercizio del proprio servizio egli deve stare anzitutto “dentro” (non sopra) la comunità, deve farsi fedele tra i fedeli, in ascolto delle loro esigenze e con la disponibilità a dare loro una risposta plausibile. L’attuazione di questo compito esige, capacità dialogica di confronto con tutti; esige la coltivazione di un’attitudine a rimettere. di volta in volta, in discussione le proprie opinioni, uscendo da un dogmatismo autoritario, che è all’origine del clericalismo. Ma esige anche l’adozione di strategie adeguate e di strumenti istituzionali che consentano la messa in atto del progetto partecipativo delineato. Nel primo caso è indispensabile rintracciare momenti costanti di incontro, che consentano l’acquisizione di atteggiamenti di rispetto, stima e amicizia, valori che creano il clima di una vera collaborazione e rendono evidente l’importanza della corresponsabilità. Nel secondo occorre dare vita a strutture con poteri decisionali – gli attuali consigli pastorali hanno carattere esclusivamente consultivo, riservando la decisione ultima al parroco – che rinsaldano la partecipazione, mettendo tutti nella condizione di vedere riconosciuto il proprio apporto.
- La seconda funzione ha come oggetto l’evangelizzazione. Qui l’impegno del sacerdote occupa un ruolo centrale, anche se non esclusivo. L’annuncio del vangelo, che è missione di tutta la comunità, ha nel sacerdote un perno fondamentale. L’itinerario formativo di carattere teologico-pastorale lo mette infatti in grado di offrire un contributo peculiare alla crescita della coscienza religiosa. L’esercizio di questa funzione è oggi particolarmente importante. La situazione di secolarizzazione cui si è fatto cenno rende necessaria una vera ricostruzione della coscienza cristiana, a partire dalla risuscitazione della domanda di trascendenza e di assoluto – in questo senso si parla oggi di rievangelizzazione – non dando per scontato quello che scontato non è. Si tratta dunque di partire da lontano ricreando o rigenerando quel tessuto valoriale – dalla gratuità alla disponibilità a ricevere, dalla solidarietà all’ospitalità fino al ricupero del senso del mistero – che costituisce la precondizione per aprirsi all’accoglienza del dono divino: la fede ha bisogno di un humus entro cui radicarsi e svilupparsi. Ma si tratta soprattutto di proporre il messaggio evangelico in tutta la sua radicalità e la sua bellezza, facendolo risuonare come “buona notizia” per l’uomo odierno, mettendolo perciò in stretto rapporto con le dinamiche socioculturali proprie dell’attuale situazione. La proposta cristiana non può (e non deve) certo venir fatta in modo arido e astratto; deve diventare un messaggio esistenziale che tocca le corde dell’interiorità della persona e la coinvolge in un processo di cambiamento. Spetta in particolare al sacerdote, grazie all’iter culturale percorso (anche se oggi fortunatamente è sempre più numeroso il numero di laiche e di laici che frequentano le facoltà teologiche o i corsi di scienze religiose), mettere a disposizione della comunità la propria competenza, raccogliendo le suggestioni che vengono dall’esperienza variegata dei fedeli, che ha origine in mondi diversi: dalla famiglia al lavoro, fino all’impegno sociale ed ecclesiale. La Parola di Dio, che è oggi giustamente ricollocata al centro dell’annuncio, ha a che fare con la vita quotidiana di ciascuno, spingendo nella direzione di un cambiamento di mentalità e di condotta, al cui centro vi è la ricerca del Regno di Dio come Regno di giustizia, di pace e di carità. La scelta fondamentale che occorre fare, se si intende dare corso a questa prospettiva, è quella di passare da una “pastorale dei sacramenti” a una “pastorale dell’annuncio”, non rinunciando certo all’azione sacramentale, ma non facendo di essa la prima preoccupazione – ancor oggi sembra essere questo il principale assillo della maggior parte dei sacerdoti (si pensi soltanto alla moltiplicazione delle messe) – ma inserendola all’interno di un cammino di crescita interiore e di impegno etico e civile, dando alla celebrazione, in particolare a quella eucaristica, il carattere espressivo della convergenza di una comunità vera attorno alla mensa comune per rendere trasparente il senso di una forma di comunione in cui la carità vissuta nel quotidiano trova piena espressione nell’inserimento entro la pasqua del Signore e trae da quest’ultima una rinnovata energia per proiettarsi nel mondo come strumento di unità e di solidarietà concreta. Il sacramento, ogni sacramento sia pure in forma diversa, diviene in questo modo celebrazione di una sacramentalità esercitata nella esistenza e stimolo a rendere l’esistenza una realtà sempre più sacramentale; e l’azione del sacerdote acquisisce il significato di mediazione dei misteri divini al servizio della comunità e del mondo.
- Da ultimo (ma non in ordine di importanza) – è questa la terza funzione – un posto del tutto singolare va assegnato alla testimonianza personale. Qui accanto agli habitus già ricordati, funzionali soprattutto a dare il proprio contributo alla crescita della comunità, due virtù meritano di essere particolarmente ricordate: la povertà e la dimensione contemplativa.
- La prima – la povertà – ha un vasto raggio di implicazioni che vanno dalla sobrietà di vita, con una limitazione dei beni materiali e un ridimensionamento dei bisogni, come condizione per aprirsi ai doni divini e come via per dare corso a una maggiore giustizia verso le classi più povere, fino alla rinuncia al potere inteso come esercizio del dominio per fare propria la logica della gratuità e del servizio. Quanto queste due attitudini siano attuali è del tutto evidente. Il consumismo dilagante e la ricerca sfrenata della ricchezza, nonché la volontà di potenza sono gli idoli perseguiti da molti. Il che spiega, da una parte, l’accentuarsi delle diseguaglianze sociali, e, dall’altra, il ritorno degli assolutismi economici e politici, dei nazionalismi e dei sovranismi, che non sono soltanto appannaggio di chi governa ma godono di un consenso popolare sempre più ampio.
- La seconda virtù – la dimensione contemplativa – è oggi avvertita da molti, consciamente o inconsciamente, come un bisogno fondamentale di fronte al dilagare del frastuono assordante che ammorba la vita. Il disagio che cresce nelle grandi metropoli, soprattutto nelle periferie sovrabitate e anonime, manifesta la presenza di uno stato diffuso di malessere ontologico, che non raramente assume sembianze patologiche. L’accento contemplativo di una spiritualità che non ha nulla di sacrale o di magico, ma che rende trasparente il senso del mistero e della trascendenza diviene alimento prezioso che soddisfa in chi si accosta a chi lo vive il bisogno ricordato, perché rivela il volto di Dio, la cui ricerca, per dirla con Agostino, è la radice dell’inquietudine del cuore umano.. Questo è tanto più vero quanto più ad avere il predominio nell’interpretazione della realtà sono ai nostri giorni le logiche scientiste e utilitariste, che rischiano di inaridire l’anima, sottraendola all’appagamento che viene dalla poesia e dalla contemplazione; in una parola, dalla tensione mistica. , che è il momento più alto dell’esperienza religiosa.
Un prete, in definitiva, quello di oggi che, accanto alla rinuncia al ruolo autoritario del passato per servire la comunità, attraverso l’impegno a costruirla e ad evangelizzarla, deve rendere con la propria vita omaggio alla bellezza del messaggio evangelico.
Giannino Piana Esodo, n. 4/2021 “Tantum aurora est” pp. 38-43 ripubblicato 11 settembre 2023
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/09/un-prete-al-servizio-della-comunita.html
SINODO
Le diverse preoccupazioni
La paura del «cambiamento». Mentre si stanno mettendo a punto varie iniziative per l’apertura dell’Assemblea sinodale – la XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione» (Roma, 4-29 ottobre) – e in particolare una veglia ecumenica, è interessante registrare come diversi vescovi stanno dando una lettura dell’assise su cui tanto si è lavorato in questi ultimi due anni, da quando nel 2021 è stato ufficialmente aperta dal papa e sin qui celebrata con le consultazioni parrocchiali, diocesane, nazionali e continentali. Stante la comune preoccupazione sui toni della discussione non solo interna all’aula sinodale che – come ha ribadito Francesco nella consueta conferenza stampa in aereo di ritorno dal viaggio in Mongolia – sarà a porte chiuse, ma anche esterna, rispetto a ciò che se ne racconterà, il papa (come abbiamo tematizzato qui) ha chiesto aiuto ai giornalisti.
La preoccupazione di una discussione polarizzante è reale. Specie in ambito anglofono, dove sono all’opera associazioni che stanno facendo massicce campagne contro il «cambiamento»
Il Sinodo, strumento della tradizione. Tiene presente questo sfondo il cardinale di Chicago, Blaise Cupich, quando nella breve lettera alla diocesi del 30 agosto scorso dice a quanti temono che il Sinodo «modificherà radicalmente l’insegnamento e la pratica della Chiesa, allineando entrambi con le idee secolari e provocando uno scisma», che non c’è motivo di avere «paura».
Il Sinodo infatti ha come «domanda principale» quella sul come rimanere «fedeli al piano di Cristo per la Chiesa», secondo quanto già pensava Giovanni Paolo II. Ed è lo strumento, per altro non nuovo nella storia della Chiesa, per raggiungere quell’obiettivo. Mette poi in guardia quanti volutamente «travisano totalmente l’obiettivo del sinodo sulla sinodalità» con atteggiamenti partigiani e apocalittici e si rivolge loro usando lo stesso epiteto di Giovanni XXIII, «profeti di sventura»: vennero chiamati così nell’allocuzione d’apertura del Vaticano II coloro che si opponevano alla celebrazione stessa del Concilio.
Sulla polarizzazione. Certo la pubblicazione del dialogo del papa con i gesuiti portoghesi avvenuto nel corso del viaggio per la Giornata mondiale della gioventù lo scorso agosto, che contiene un giudizio molto netto sulla polarizzazione della Chiesa statunitense, ha contribuito a mettere in primo piano questa divisione.
www.laciviltacattolica.it/articolo/qui-lacqua-e-stata-smossa-per-bene
Vi torna anche il nunzio apostolico negli Stati Uniti (nonché futuro cardinale),
Christophe Pierre, (α 1946) un’intervista a Vatican news amplia la prospettiva affermando che la polarizzazione è purtroppo una caratteristica sociale diffusa, dove le persone in nome di un’idea perdono di vista il motivo concreto della discussione: «La polarizzazione nella Chiesa è un pericolo perché può uccidere anche la Chiesa, e la allontana molto da ciò che dovrebbe essere. Anche se le persone non condividono la tua idea, non sono tuoi nemici. Ed è per questo che il santo padre ha (…) lanciato questa idea di sinodalità, per camminare insieme attraverso il metodo del dialogo, dell’ascolto, del discernimento e anche dell’ascolto dello Spirito Santo».
Maggiore o minore fiducia. D’altra parte, se vi è chi continua a diffondere l’idea «che il papa sia stato eletto solo per distruggere la Chiesa e per distruggere la bellezza della Chiesa», il dialogo diventa impossibile. Ma complessivamente mons. Pierre si dice fiducioso rispetto al Sinodo: «Penso che funzionerà. È un’impresa non da poco. Quando Giovanni XXIII ha lanciato il Vaticano II, è stata un’impresa. E se si vuole essere cristiani oggi, bisogna correre dei rischi».
Non altrettanto fiducioso è invece un altro esponente dell’area anglofona e segnatamente della Chiesa irlandese, l’arcivescovo (oggi emerito) di Dublino Diarmuid Martin, (α1945) ma per un motivo opposto: perché teme che le aspettative che provengono anche dalla sua pur piccola ma vivace Chiesa locale non siano realizzate, in particolare sul tema della maggiore partecipazione delle donne; si è detto infatti «preoccupato» per il fatto che le tante consultazioni avviate nel popolo di Dio abbiano creato molte «aspettative» che però saranno quasi sicuramente «frustrate», almeno nel breve periodo.
Non dimenticate le Chiese orientali! Infine, si esprime ufficialmente dalla sua sede «in esilio» di Erbil (Kurdistan iracheno) il cardinale Louis Raphaël Sako, (α1948) patriarca dei caldei, con un testo su che cosa aspettarsi dal Sinodo: «In un tempo di instabilità, di difficoltà incontrate dalla cultura attuale in questioni difficili, e in particolare di predominio del liberalismo secolare, la Chiesa, madre e maestra, e il papa successore di Pietro, roccia su cui poggia la Chiesa e che garantisce la sua unità, deve avvalersi della sua autorità magisteriale nel processo di autorinnovamento e delle sue strutture con piena convinzione, conservando fedelmente il deposito della fede e della morale di base. Occorre distinguere tra ciò che è reale ed esprimere lo spirito che non si può abbandonare, e ciò che è immediato-pratico legato alle condizioni del tempo e dello spazio, che va aggiornato». E dopo aver ricordato che «le speranze dei fedeli cristiani attendono un nuovo orizzonte aperto dal cammino sinodale nella vita della Chiesa», si augura che il Sinodo abbia «un’attenzione particolare alle Chiese orientali, culla del cristianesimo, che sono minacciate nella propria esistenza!».
Maria Elisabetta Gandolfi “re-blog.it” 11 settembre 2023
Il Sinodo e la preoccupazione per le polarizzazioni: tre rimedi
“…come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa.” Giovanni XXII
In un bel testo, appena pubblicato su “Re-blog” ↑ M. E. Gandolfi sintetizza alcune delle principali preoccupazioni in vista della Assemblea del Sinodo dei Vescovi che si aprirà ad ottobre. Ci sono “diverse preoccupazioni” che possono essere sintetizzate in due atteggiamenti polari: da un lato la preoccupazione che la tradizione dal Sinodo venga modificata e tradita, dall’altro la preoccupazione che la tradizione dal Sinodo non venga modificata e resti spenta. Si può essere profeti di sventura in due modi: o perché si crede che tutto sarà distrutto dopo il Sinodo, o perché si crede che nulla cambierà dopo il Sinodo.
La questione è: come si potranno evitare queste polarizzazioni? Si possono indicare tre piccoli rimedi contro la sfiducia strisciante dei profeti di sventura.
La tradizione vivente. La tradizione della Chiesa vive di un delicato equilibrio: nel suo nucleo è “ricevuta”, non “posta” dalla Chiesa. Per questo tutti coloro che “insegnano” – ossia che esercitano un magistero – lo devono intendere come un “ministero”, come un servizio ad un sapere che non dominano. Perciò la tradizione, che è la presenza nella storia di questa Parola di Dio, per restare davvero sé stessa, ossia una parola libera e non controllabile, esige di rimanere equidistante da due poli: da un lato il polo della autosufficienza delle testimonianze del passato (ossia dalla Scrittura e di monumenti scritti o non scritti in cui la tradizione si è espressa); dall’altro della autosufficienza delle evidenze del presente. Siccome la Tradizione è vita in Cristo, comunione con Dio, relazione fraterna nello Spirito, chiede di essere alimentata dalla proposizione significativa e dalla interpretazione avveduta della Scrittura e dei documenti della storia. Questo è l’equilibrio che non permette né di rifugiarsi nelle interpretazioni del passato né di fuggire nelle evidenze del presente. Sono “profeti di sventura”. tutti coloro che pensano mediante questa polarizzazione sul passato o sul presente. Entrambi chiudono la tradizione al suo futuro, che le appartiene di diritto e che non può essere appiattito né sul passato autorevole né sul presente evidente.
La relazione con i segni dei tempi. Perché la tradizione resti viva, si deve alimentare di una nuova lettura dei detti e dei fatti attestati nella storia, alla luce delle nuove evidenze che la cultura contemporanea offre alla meditazione della Chiesa. Con “segni dei tempi” si vuole indicare propriamente questa “regione spirituale”, che non arriva alla esperienza ecclesiale dalle attestazioni scritte o vissute del passato, ma dalle forme di vita, di relazione e di pensiero del presente, non privi di legami col passato, ma legami tutt’altro che evidenti e spesso contraddittori. La Chiesa, che è maestra in modo ministeriale, può imparare qualcosa di nuovo su di sé proprio dalla considerazione attenta di questi “segni”, che la provocano ad una postura nuova. Può “restare sé stessa” soltanto cambiando alla luce di questa nuova lettura che i segni suggeriscono a tutta la tradizione. Perdere la tradizione, in questo caso, non deriva dal cambiamento, ma dalla stasi. Prudente è cambiare, non stare fermi. E non sarà certo opportuno trasformare in “deposito della fede” una sua interpretazione contingente per tentare di salvare la Chiesa e il Sinodo da nuove e pericolose polarizzazioni. Perché il “depositum” è autosufficiente, ma la Chiesa resta “esposta” ai segni dei tempi e alle nuove interpretazioni del depositum che questi segni hanno potuto e ancora possono indurre.
La funzione della teologia. La tradizione vivente e i segni dei tempi chiedono un lavoro teologico specifico, che consiste da un lato nello studio della Scrittura e dei Monumenta mediante nuove categorie, che sono, allo stesso tempo, interne ed esterne al testo e al documento. Da un lato scopriamo nuovi significati potenti all’interno dei testi classici, che sentiamo risuonare di nuovi timbri e brillare di nuovi colori; dall’altro apriamo i testi ad una nuova intelligenza della tradizione mediante il riferimento dovuto ai “segni dei tempi”, prima non considerati o inauditi addirittura. Questo “meraviglioso scambio” tra dottrina cristiana e cultura comune ha permesso alla Chiesa di camminare lungo la storia e di “creare cultura”, lavorando con la interpretazione dei dati rivelati in relazione con i principi del sapere universale. In questo ambito appare del tutto decisivo riconoscere e avviare un coraggioso percorso teologico, di cui ha bisogno un reale “ascolto sinodale” e una efficace “deliberazione sinodale”. Alla tradizione vivente appartiene anche una necessaria elaborazione teologica, capace di uscire da evidenze ritenute “rivelate”, ma che appartengono piuttosto all’ordine contingente delle convinzioni storiche, rispettabili ma superabili. Una certa differenziazione delle interpretazioni del depositum fidei, caratterizzata dalla diversità storica e geografica, non è l’inizio di uno scisma, ma la risposta al segno dei tempi di una Chiesa cattolica su 5 continenti. Nei quali la rivelazione di Dio è passata e passa ancora attraverso una interpretazione parzialmente differenziata della Scrittura e dei monumenti della tradizione. Custodire la universalità non nella uniformità ma nella differenziazione: ecco il compito. Le diverse lingue in cui oggi decliniamo la fede cattolica non sono soltanto rivestimenti esteriori, ma forme di vita originarie dell’atto di fede. Proprio il percorso sinodale, nello scoprire questo grande tesoro che si è aperto alla Chiesa da solo 60 anni, assume il compito di offrire, teologicamente, una sintesi più profonda e più libera della relazione tra tradizione rivelata e interpretazione della Scrittura e dei Monumenti, che mediano, in modo mai definitivo, la ricchezza di grazia che la Chiesa ha il compito di custodire, senza chiuderla in cassaforte, ma facendola camminare per il mondo, con fedele libertà. La comunione e la differenziazione non sono in contraddizione: un Sinodo non resta vittima delle polarizzazioni solo quando e solo in quanto è capace di pensare in modo più profondo e più polifonico la tradizione come vita in Cristo del popolo di Dio.
Andrea Grillo blog “Come se non” – 11 settembre 2023
www.cittadellaeditrice.com/munera/il-sinodo-e-la-preoccupazione-per-le-polarizzazioni-tre-rimedi
Chiesa sinodale è “assemblea dell’ascolto”
Per la prima volta, in questo Sinodo, la Chiesa cattolica ascolta il mutamento e la novità avvenuta.
Avendo finora seguito puntualmente il cammino sinodale in atto dall’ottobre del 2021 in tutta la Chiesa cattolica, abbiamo vissuto un’attesa piena di speranza per la pubblicazione dell’Instrumentum laboris, elaborato sulla base dei contributi pervenuti dalle singole Chiese nazionali e quindi continentali. Il documento, reso pubblico alla fine del giugno scorso, sarà lo strumento di lavoro, la traccia per il discernimento, nella prossima celebrazione del Sinodo a Roma, nel mese di ottobre. Quello che più rincresce – e lo posso dire sulla base di quello che ho potuto ascoltare e constatare in molte Chiese dell’Italia e dell’Europa – è la ricezione di questo documento: non ha suscitato molto interesse. E non se n’è fatta neppure menzione nella vita ecclesiale, come se si trattasse di un evento che riguarda non il popolo di Dio, i cristiani quotidiani, ma solo alcuni, quelli che nelle Chiese hanno una funzione rilevante.
Quante volte, in occasione di mie conferenze o interventi in diverse parrocchie italiane, quando chiedevo cosa i fedeli pensavano del Sinodo, ricevevo come risposta solo il silenzio, o qualche richiesta fatta a me di spiegare cos’era e cosa significava. E se prendevano la parola gli “addetti ai lavori” o quelli che sono impegnati in parrocchia, le domande erano tutte sulla possibilità di avere presbiteri sposati, che le donne siano ammesse al ministero e sulle novità possibili in materia di morale sessuale. E ciò manifesta come sul Sinodo i fedeli abbiano ascoltato più i media che i pastori.
Ora l’Instrumentum è stato pubblicato, tutti possono leggerlo, ma quanti lo faranno? Il documento è lungo, troppo lungo (65 pagine!) e resta imprigionato in un linguaggio che il cristiano comune non comprende e da cui non si sente attratto. Certamente per i membri del Sinodo, vescovi, religiosi e laici nominati dal Papa, l’Instrumentum laboris è una buona traccia per il confronto, l’ascolto e le parole scambiate, il dialogo e il discernimento ai quali sono chiamati nelle tre settimane di celebrazione del Sinodo a Roma.
Ma cerchiamo di dire alcune parole che aiutino a comprendere il documento che inizia con il precisare, ancora una volta, la sinodalità, quella forma che dà il volto veritiero e fedele alla Chiesa di Cristo, in cui tutti i battezzati fanno lo stesso cammino e lo fanno insieme, vivono tra loro una comunione profonda e vivendo l’Evangelo evangelizzano. Una Chiesa sinodale è innanzitutto “assemblea dell’ascolto”, come già definita dalle Scritture sante: ascolto della parola di Dio, ascolto degli uomini, ascolto della storia. Una Chiesa che non ama l’uniformità ma esalta le differenze, non avendo paura delle diversità e nella signoria dello Spirito santo le rende non conflittuali ma armoniche e multicolorate come la sapienza di Dio.
Non c’è spazio per la philautía [auto-riconoscimento]in una Chiesa del genere, perché ognuno si esprime con il “noi” e sente Dio come “nostro Padre” e gli altri come fratelli, tutti fratelli. Se la Chiesa sinodale è questa, è richiesto alla Chiesa un processo incessante di conversione, cambiamento concreto nel modo di vivere e stare nel mondo: perciò non è sufficiente invocare lo Spirito santo in modo quasi ossessivo, come spesso fa il documento rimandando all’azione dello Spirito ciò che oggi, ora e qui la Chiesa deve realizzare. Ormai rischia d’essere un metodo ecclesiastico quello di rimandare a una responsabilità dello Spirito ciò che è possibile realizzare da parte della Chiesa. Anche questa esaltazione e citazione frequente della “conversazione nello Spirito” che si estende per dieci paragrafi (32-42) poteva essere indicata come un metodo tra diversi altri, è infatti un metodo della scuola gesuitica.
Purtroppo di fronte a quelle che appaiono “novità”, sovente si è rimasti abbagliati e di esse restano slogan o imperativi che anziché arricchire impoveriscono.
Ma se nella prima parte vengono presentate le priorità del Sinodo (comunione, missione, partecipazione) – dove di fatto si riprendono i contributi già prodotti e pubblicati a livello di Segreteria generale – nella seconda parte, che si presenta sotto forma di Schede di lavoro, si è sorpresi dall’audacia, perché leggendole si può constatare come esse effettivamente rispettino e testimonino il contenuto delle sintesi continentali.
Va riconosciuto che la Segreteria generale del Sinodo, guidata dal cardinal Grech, ha mostrato di non nascondere, di non lasciar cadere nel vuoto nessuna delle questioni sovente brucianti e difficili da accogliere dalla maggioranza dei cattolici delle diverse Chiese. Per la prima volta, in questo Sinodo, la Chiesa cattolica ascolta il mutamento, la novità avvenuta: nella Chiesa ci sono oggi diverse sensibilità, non sulla fede ma soprattutto sull’etica e sulla forma ecclesiæ nei diversi contesti culturali. Non vale più la legge che la parola di Roma risolve ogni conflitto allo stesso modo in Africa come in Germania. Si tratta, oggi, di mettere in ascolto reciproco i fedeli di aree culturali diverse, di chiedere loro un confronto per giungere insieme a un discernimento che il Papa potrà indicare come via di unità e non di scisma o di conflitto. Non è un cammino facile, ma il Sinodo a ottobre lo dovrà percorrere. E sono sicuro che lo scontro sarà tra queste Chiese di diverse culture e non tra tradizionalisti e innovatori, come molti si aspettano. Anche perché i tradizionalisti, purtroppo, non saranno presenti al Sinodo perché non invitati o non intervenuti nel cammino percorso.
Leggendo le quindici domande principali, la prima impressione è che siano in realtà fin troppe per il lavoro sinodale nell’assemblea di ottobre, ma certamente tutte pertinenti e puntuali. Alcune domande, come quella sul servizio della carità e della giustizia, sulla cura della casa comune, unita alla seconda sul tema della pace sono domande che già di per sé, per l’ampiezza della problematica evocata, potrebbero essere oggetto di un Sinodo. Altre domande riguardanti la Chiesa sinodale sono il tema proprio del Sinodo, ma restano domande molto diverse da quelle che seguono riguardanti la missione. Ed ecco, in tono minore, la domanda sulla partecipazione delle donne alla vita della Chiesa, sulla possibilità che possano essere presenti nei processi decisionali e accedere ai ministeri a tutti i livelli della Chiesa. E si rammenti che la maggior parte delle assemblee continentali ha chiesto di considerare nuovamente l’accesso delle donne al diaconato.
È un grappolo di domande che richiederanno un confronto nel Sinodo e certamente potranno almeno avviare un processo che potrebbe avere conclusione nella seconda sessione del Sinodo dell’ottobre 2024.
Infine, non manca una domanda che molti si attendevano più chiara, più esplicita e più impegnata. Invece di tante proposizioni sull’accoglienza dei diversi per rendere credibile la promessa del Salmo 85,11: «Amore e verità si incontreranno», si dice anche: «Come possiamo creare spazi in cui coloro che si sentono feriti dalla Chiesa e sgraditi alla comunità possano sentirsi riconosciuti, accolti, non giudicati e liberi di fare domande?». E poi si dice chiaramente che ci si riferisce a divorziati risposati, alle persone Lgbtq ecc. Mi sembra veramente un modo di esprimersi che tutti quelli che ne sono implicati rigetterebbero con sdegno.
No, si poteva usare un linguaggio più aderente alla realtà che viviamo, non così devoto e pio!
Comunque il tema è presentato al dibattito sinodale…
Sul documento vi ritorneremo.
Enzo Bianchi Vita Pastorale settembre 2023
www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/209058/chiesa-sinodale-%C3%A8-%E2%80%9Cassemblea-dell%E2%80%99ascolto%E2%80%9D
TESTIMONI
Ecco chi era veramente padre Pino Puglisi
«Lo incontrammo in una cabina telefonica nei pressi della chiesa di San Gaetano. Si pensò allora di attuare subito il delitto. Andammo a prendere l’arma, una 7,65 munita di silenziatore. Decidemmo di attenderlo sotto casa. Lui arrivò, noi siamo scesi dall’auto. Il padre si stava accingendo ad aprire il portoncino di casa. Aveva il borsello nelle mani. Fu una questione di pochi secondi».
Salvatore Grigoli, l’assassino di padre Pino Puglisi, (α1937-ω1993)
reo confesso e collaboratore di giustizia, ha raccontato così l’omicidio del parroco della borgata palermitana di Brancaccio, avvenuto la sera del 15 settembre 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. Il complice del killer, che al tempo era uno spietato membro di Cosa Nostra, direttamente agli ordini dei boss di Brancaccio, si avvicinò, «gli mise la mano nella mano per prendergli il borsello. Poi gli disse piano: “Padre, questa è una rapina”. Lui si girò, lo guardò, sorrise – una cosa questa che non posso dimenticare, che non ci ho dormito la notte – e disse: “Me l’aspettavo”. Non si era accorto di me, che ero alle sue spalle. Io allora gli sparai un colpo alla nuca». Nell’intervista che mi rilasciò nel settembre 1999 nel carcere di Alessandria, dove era detenuto, mi confermò che quel sorriso lo aveva sconvolto e che da allora se lo portò addosso, impresso nella retina.
Che aveva fatto quel prete per costringere la mafia a decretare un’esecuzione in piena regola? La risposta la troviamo nella sua vita, e soprattutto nel suo apostolato. Giuseppe Puglisi nasce nella borgata palermitana di Brancaccio il 15 settembre 1937, figlio di un calzolaio e di una sarta. Entra nel seminario diocesano di Palermo nel 1953 e viene ordinato sacerdote dal card. Ernesto Ruffini il 2 luglio 1960. Nel 1961, a 24 anni, viene nominato vicario cooperatore presso la parrocchia del Santissimo Salvatore, nella borgata di Settecannoli, limitrofa a Brancaccio, e rettore della chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi. Nel 1963 è nominato cappellano presso l’istituto per orfani Roosevelt e vicario presso la parrocchia Maria Santissima Assunta a Valdesi. Al Roosevelt, tra quei ragazzi orfani, maturerà e affinerà la sua profonda vocazione pedagogica, che non abbandonerà mai. I ragazzi, i giovani, i bambini sono sempre stati la sua ragione di vita. Per questo la scena che più mi è rimasta impressa nella memoria, nel bel film di Roberto Faenza “Alla luce del sole” a lui dedicato, è quella della processione di «picciriddi» spauriti ma risoluti, che al ritmo di un tamburino di latta sfilano per le strade deserte di Brancaccio ondeggiando tra i fuochi d’artificio sparati dai mafiosi. Più ci penso e più mi convinco che Puglisi era l’incarnazione terrena di un angelo, un angelo custode impegnato a proteggere anima e corpo i ragazzi di strada, gli orfani, i diseredati, oppure i poveri di spirito, o ancora quei ragazzi magari ricchi materialmente, ma aridi dentro, oppure sul baratro di qualche deriva nichilista. Puglisi cercava di proteggerne l’innocenza, spesso violata da una mentalità violenta, spregevole e omertosa, una mentalità che toglieva un futuro a chi ha gli anni ancora in tasca. La mafia bucava quelle tasche e faceva scivolare via gli anni dell’innocenza. Proprio per questa sua inflessibile azione pedagogica, la sua strada finirà per incrociarsi inevitabilmente con quella della mafia.
Puglisi, soprattutto nell’ultima fase del suo apostolato, strappava giovani, adolescenti e bambini ai vivai di Cosa Nostra, mi spiegò una delle sue collaboratrici del Centro Padre Nostro. Per la cosca dei fratelli Graviano era troppo. «Quel prete rompeva le scatole, dava fastidio», disse di Puglisi un imputato al processo, membro del commando incaricato di ucciderlo. Il suo assassino, detto per inciso, mi raccontò di avere la quinta elementare. Se Grigoli, che aveva 20 anni di meno di Puglisi, lo avesse incontrato, se fosse stato incoraggiato a proseguire gli studi, almeno quelli dell’obbligo, le cose avrebbero preso una piega diversa? È una domanda forse un po’ assurda che a volte mi torna in mente.
Sin da primi anni della sua vita il sacerdote di Brancaccio segue dunque in particolar modo i giovani e si interessa delle problematiche sociali dei quartieri più emarginati della città. Anch’egli rimarrà poi coinvolto, come un’intera generazione di sacerdoti, dal vento del Concilio. Puglisi ne seguirà con attenzione i lavori e ne diffonderà subito i documenti tra i fedeli, con speciale riguardo al rinnovamento della liturgia, al ruolo dei laici, ai valori dell’ecumenismo e delle chiese locali. Il suo desiderio fu sempre quello di incarnare l’annunzio di Gesù Cristo nel territorio, assumendone quindi tutti i problemi che tale annunzio comportava, per farli propri della comunità cristiana. Senza sconti sulla sua coerenza, a prezzo della vita. Chi lo ha conosciuto testimonia di una frase di Simone Weil che ripeteva spesso: «A Cristo piace che a lui si preferisca la verità. Poiché, prima di essere Cristo, egli è la Verità. Se ci si allontana da lui per andare incontro alla verità, non si farà molta strada prima di cadere nelle sue braccia». Se il martirio è coronamento di una vita vissuta nell’esercizio eroico delle virtù, allora il martirio si incarna in don Pino Puglisi, martire della fede.
Quando, a un mese dalla morte del sacerdote, sono stato inviato dal mio giornale e dalle Edizioni Paoline di suor Ida Spinucci – che aveva preso immediatamente a cuore quella storia con incredibile preveggenza – per ricostruire la vita di quest’uomo, mi trovai di fronte a una realtà per molti aspetti disarmante, ma anche ricca di speranza e di tentativi di riscatto. Puglisi aveva fondato un centro di ascolto per i giovani alloggiato in poche stanzette di un vecchio edificio, il cui mutuo veniva pagato con le rate del suo stipendio di professore di religione. Lo aveva chiamato Padre Nostro, come la preghiera che Gesù ci ha insegnato. Si faceva doposcuola, attività ricreativa. Il sabato sera si cuocevano le pizze in un forno che stava nel giardino. Ogni tanto si andava in gita con tutti i «picciriddi» ed erano pomeriggi memorabili.
Ma dopo l’omicidio la maggior parte dei giovani che gli stavano al fianco come volontari se ne era andata. Alcuni avevano abbandonato Palermo, altri ancora vivevano addirittura sotto il programma di protezione dei testimoni. C’era come un senso di sbandamento: del resto la morte del sacerdote era stata preceduta da una serie di attentati e intimidazione, l’aria che si respirava era ancora molto, molto pesante. Le sorelle che lo aiutavano vennero ben presto trasferite fuori da Palermo per motivi di sicurezza. Ma vennero organizzate numerose manifestazioni contro la mafia e molti studenti delle borgate «ricche» di Palermo affluirono a Brancaccio per prendere il testimone dei ragazzi che se ne erano andati. La Chiesa di Puglisi crebbe negli anni fino a proclamarlo beato, con una manifestazione che radunò centomila persone al Foro Italico. Anche se è un paragone un po’ ardito, mi ricorda lo stesso destino del cristianesimo delle origini, quando all’indomani della morte di Cristo gli apostoli e la piccola comunità ebraica di nazorei sparirono anche per timore che venissero arrestati e subissero la stessa sorte del suo “rabbi”, per poi ricomparire poco tempo dopo e crescere in altre comunità di Israele e dell’impero romano, fino a conquistarlo e a debellare la religione pagana.
ricostruito la figura del sacerdote da mille testimonianze, come da un coro greco di una tragedia che ormai aveva valicato i confini della Sicilia. Una figura che mi apparve immediatamente nitida in tutta la sua grandezza umana e spirituale. Non è infatti possibile capire appieno la sua vita e la sua morte se non gli si restituisce, oltre al suo impegno contro la mafia e soprattutto contro la «mafiosità», la sua grande dimensione mistica, la sua opera di apostolato intimamente legata alla parola di Dio, la sua povertà francescana. A questo proposito riporto un aneddoto della sua vita. A Baida, al tempo in cui era rettore di una comunità vocazionale (spiritualità e impegno pastorale sono state sempre in lui un connubio indissolubile), al ritorno di una delle tante giornate vissute coi suoi ragazzi «per farsi tutto a tutti», non riuscì a entrare in casa. Aveva dimenticato le chiavi. Suonò al citofono dei vicini, ma nessuno gli aprì. Scelse di dormire nella sua piccola utilitaria, segno anche quello di una vita davvero francescana. Al mattino, stanco, fece colazione. Non ebbe rimproveri per nessuno, né si lamentò. Salì sulla sua Fiat 126 e si diresse verso la città per andare a insegnare. Puglisi aveva un’indifferenza quasi totale per la sua persona, vestiva in modo estremamente trascurato (anche se dignitosamente), viveva di scatolette di Simmenthal o di tonno (che gli provocarono un’ulcera fastidiosa), dormiva poche ore per notte, non aveva passatempi se non le letture e gli studi legati alla sua missione sacerdotale (la sua abitazione era piena di libri di ogni tipo, e di tanti altri volumi, soprattutto letteratura per l’infanzia, volle che fosse arricchito il centro Padre Nostro). L’attore Luca Zingaretti, che lo rappresentò con straordinaria intensità nel film di Faenza, mi raccontò che per rendere questa trascuratezza si era ingrassato appositamente per non so quanti chili.
Il 1° ottobre 1970 Puglisi viene nominato parroco di Godrano, un piccolo paese del Palermitano – segnato da una sanguinosa faida – dove rimane fino al 31 luglio 1978, riuscendo a riconciliare le famiglie con la forza del perdono. Il 9 agosto 1978 è nominato prorettore del seminario minore dì Palermo e il 24 novembre dell’anno seguente direttore del Centro diocesano vocazioni. Nel 1983 diventa responsabile del Centro regionale vocazioni e membro del Consiglio nazionale. Agli studenti e ai giovani del Centro diocesano vocazioni ha dedicato con passione lunghi anni realizzando, attraverso una serie di campi scuola, un percorso formativo esemplare dal punto di vista pedagogico e cristiano. Raffinato intellettuale, la sua preoccupazione era quella di esporre in modo chiaro la fede cristiana, cercando di adattarsi alla mentalità degli adolescenti. Trascrivo un passo di una lezione pronunciata durante uno dei campi-scuola: «La purezza di cuore non è solo castità; per gli ebrei il cuore era la sede dell’intelligenza, del pensiero, quindi anche la sede delle scelte: del bene e del male. Purezza di cuore significa avere pensieri retti, agire conseguenzialmente, vivere nella coerenza con questi pensieri retti. Il puro di cuore è colui che pensa secondo Dio, secondo verità, che ha sede e origine in Dio, e agisce secondo questa verità».
Don Giuseppe Puglisi è stato docente di matematica e poi di religione presso varie scuole. Ha insegnato al Liceo classico Vittorio Emanuele II a Palermo dal ’78 fino alla sua morte. Molti dei suoi allievi, rampolli della Palermo bene, finivano nella borgata di Brancaccio per aiutare i bambini più sfortunati e i nuclei più bisognosi. Un’osmosi sociale che ha contribuito a migliorare la borgata e migliorare le condizioni di tante famiglie, facendo maturare in quegli studenti il senso autentico della missione della classe dirigente di cui faranno parte. Puglisi non ha mai dimenticato l’associazionismo: a Palermo e in Sicilia è stato tra gli animatori di numerosi movimenti come Presenza del Vangelo, Azione Cattolica, FUCI, Équipes Notre Dame. Il suo era un amore a 360 gradi, totale, coinvolgente, integrale. Dal marzo del 1990 ha svolto il suo ministero sacerdotale anche presso la Casa Madonna dell’Accoglienza dell’Opera pia cardinale Ruffini in favore di giovani donne e ragazze madri in difficoltà, salvando tante giovani e piccole vite, magari ancora nel grembo materno: iI 29 settembre 1990 viene nominato parroco a San Gaetano, a Brancaccio, la borgata dove era nato e nel 1992 assume anche l’incarico di direttore spirituale presso il seminario arcivescovile di Palermo. Il 29 gennaio 1993 inaugura a Brancaccio il centro Padre Nostro, che diventerà il punto di riferimento per i giovani e le famiglie del quartiere, un’oasi nel deserto dell’omertà, una stella polare nella notte di Palermo, la Palermo degli anni Novanta devastata dagli attentati di Capaci e via D’Amelio.
Padre Puglisi non si riteneva un parroco antimafia, il solo appellativo lo faceva ridere. Gli piacevano poco i proclami, preferiva lavorare con discrezione, gettando semi di società civile nel quartiere. Ma non si tirava centro indietro quando si decideva di organizzare manifestazioni. «Palermo dice sì alla vita e no alla mafia» fu lo slogan di una di esse. Promosse anche la fondazio Comitato intercondominiale, che tanto fastidio dava alla mafia, incontrastata padrona del territorio. Per la borgata più dimenticata della città voleva una scuola media, un asilo nido, un consultorio, un po’ di verde. Voleva che si bonificassero dei locali della borgata che venivano usati come porto franco della mafia. E per questo «rompeva le scatole». Per Puglisi Vangelo e società civile non erano in disaccordo. La sua attenzione si rivolse al recupero degli adolescenti già reclutati dalla criminalità mafiosa, riaffermando nel quartiere «una cultura della legalità illuminata dalla fede».
Questa sua attività pastorale e civile – come è stato ricostruito dalle inchieste giudiziarie – ha costituito il movente dell’omicidio. Anche se non si è mai chiarito in quale ambiente, in quale contesto, è germinato quell’omicidio. Ci sono infatti ancora diverse zone d’ombra in quel delitto. «Certe cose di quello che faceva Puglisi ce le venivano a riferire, mica le sapevamo direttamente», mi disse Grigoli nell’intervista. Tanto è vero che il pubblico ministero al processo disse che Puglisi «ha avuto giustizia ma non verità».
Puglisi è stato un seme per tutta la diocesi palermitana. A partire dal 1994 il 15 settembre, anniversario della sua morte, segna l’apertura dell’anno pastorale della diocesi di Palermo. Il 15 settembre 1999 il card. Salvatore De Giorgi ha insediato il tribunale ecclesiastico diocesano per il riconoscimento del martirio, che ha iniziato ad ascoltare i testimoni. Nel sito Internet che lo ricorda, la sua biografia si conclude con queste parole di Giovanni Paolo II: «II credente che abbia preso in seria considerazione la propria vocazione cristiana, per la quale il martirio è una possibilità annunciata già nella rivelazione non può escludere questa prospettiva dal proprio orizzonte di vita. 12000 anni dalla nascita di Cristo sono segnati dalla persistente testimonianza dei martiri». Questo è stato Giuseppe Puglisi, un puro di cuore che è entrato nella gloria dei martiri e nel Pantheon dei grandi uomini e dei «giusti» di Palermo, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Francesco Anfossi Famiglia Cristiana 14 settembre 2020
www.famigliacristiana.it/articolo/ecco-chi-era-veramente-padre-pino-puglisi.aspx
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