UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
CONTRIBUTI ANCHE PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA
02 ABUSI Rapporto Sauvè bis? Politologo cattolico chiede indagini anche sugli abusi spirituali
03ADOLESCENTI Adolescenti e smartphone
05 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 46, 14 dicembre 2022
06 CHIESA DI TUTTI Antonio Spadaro “Il futuro della Chiesa è la suspense”
08 Francia: un tribunale interdiocesano nazionale indagherà sui crimini nella Chiesa
09 CITTÀ DEL VATICANO I risultati del pontificato attuale saranno decisi dai successori di Papa Francesco…….I
10 COPPIE Matrimoni a tempo
12 DALLA NAVATA Quarta Domenica dell’Avvento – Anno A
12 I sogni di Giuseppe sono quelli di Dio
13 DIBATTITI Cattolici, parlate di aborto e fine vita
14 Humanæ Vitæ, cinquant’anni dopo. Il senso di un anniversario”
16 MATERNITÀ Quella madre che non è madre è come un padre. quando il diritto nega la realtà
18 MINORI Il dovere di costruire la felicità dei bambini
22 OMOFILIA L’amore possibile. Il mondo dell’omosessualità e la Chiesa
23 SINODO CONTINENTALE card. Hollerich (Ccee), “spero che ci aiuterà ad essere una Chiesa missionaria
24 mons. Grušas a Praga con 200 i delegati dalle Chiese d’Europa, 390 delegati ”on line”
252 SINODO IN ITALIA Pompei, incontro tra vescovi campani e referenti diocesani
26 Il cammino sinodale di una Chiesa italiana immobile
ABUSI
Un rapporto Sauvè bis? Un politologo cattolico chiede di indagare anche sugli abusi spirituali
Mentre in Italia l’idea di una commissione indipendente che indaghi sul fenomeno degli abusi nella Chiesa è lontanissima dagli obiettivi della Conferenza episcopale italiana, in Francia c’è chi auspica una “seconda puntata” del Rapporto Sauvé, una Commissione Ciase 2 [Commission indépendante sur les abus sexuels dans l’Eglise] sui fenomeni di abuso di coscienza e spirituale: a chiederla è il noto politologo cattolico francese
Yves Hamant [ordinario di lingua russa e dottore in scienze politiche, ha insegnato presso l’Università di Parigi-Nanterre] attivo nella lotta alle derive settarie e sui temi degli abusi nella Chiesa cattolica già dal 2013, quando lanciò il cosiddetto “Appello di Lourdes”(2013), un documento che focalizzava l’attenzione sulle derive settarie all’interno delle comunità o dei movimenti ecclesiali.
Dopo quell’appello «c’è ancora molta strada da fare», afferma in un’intervista a La Vie (7/12). «Il problema principale è che globalmente l’istituzione e i fedeli tendono ancora a minimizzare la gravità dei fenomeni di abuso spirituale. Perché non li ritengono gravi come l’abuso sessuale dal momento che colpiscono in genere gli adulti che, presuntamente, “possono difendersi”».
«Questo genere di discorsi – spiega Hamant – mostra come la maggior parte delle persone non comprenda cosa sia l’assoggettamento della coscienza: un processo di spersonalizzazione in cui l’abusatore prende il controllo della tua volontà al punto da chiederti cose folli. Ad esempio: spogliarti dei tuoi vestiti davanti al Santissimo Sacramento, come nell’affare Santier. È estremamente grave, perché ti distrugge moralmente, psicologicamente, persino fisicamente e spiritualmente. Molte vittime di questo tipo di abusi non credono più a niente e non possono nemmeno più pregare, perché Dio è diventato loro insopportabile».
Per quanto, Hamant ritiene necessaria una Ciase 2, «con teologi, psicologi e canonisti, che permetta di analizzare gli abusi di potere e di coscienza, che qualifichiamo anche come abusi spirituali e che includiamo sotto la denominazione di derive settarie».
Come ormai è noto, si tratta in primo luogo di abusi di potere che possono, a volte, condurre ad abusi sessuali: «La commissione Sauvé è stata incaricata solo dell’indagine sugli abusi sessuali su minori; è ora necessario esaminare gli abusi commessi contro adulti vulnerabili, tenendo conto del fatto che il controllo psicologico può rendere vulnerabile qualsiasi adulto. Ma se i cattolici hanno faticato a riconoscere l’abuso sessuale, hanno ancora più difficoltà a farlo con questo genere di abuso, anche se oggi ci sono testi e testimonianze che lo spiegano».
Già, perché la denuncia di queste derive risale ormai a molto tempo fa, ma non è stata ascoltata: dagli interventi critici di p. Henri Caffarel [α1903-ω1996- fondatore nel 1939 di Le Equipes Notre Dam che, contano oggi circa 60.000 coppie in 70 paesi del mondo] sul Rinnovamento Carismatico, del 1977, a libri e articoli, fino a giungere ad associazioni che si occupano prettamente di questi fenomeni, come l’AVREF [Aide aux Victimes de Mouvements Religeux, et à leurs Familles): aiuto alle vittime di movimenti religiosi, e alle loro famiglie.] Solo nel 2015 la Conferenza episcopale francese ha istituito un ufficio dedicato agli abusi settari.
Oltre a una nuova Commissione Ciase, Hamant auspica un «aumento del rigore delle indagini canoniche, la possibilità per le vittime di costituirsi parte civile nei processi canonici, rendere sistematico il carattere pubblico delle sanzioni. Potrebbe essere utile almeno istituire un database delle comunità problematiche, a uso interno, che ogni vescovo potrebbe consultare prima di invitare nella sua diocesi una comunità che non conosce, accessibile anche ai responsabili della pastorale giovanile incaricati di consigliare l’orientamento delle vocazioni».
Difficile prevedere l’impatto di una indagine sugli abusi spirituali: «Ma come disse il cardinale Stella, ex prefetto della Congregazione per il clero, in un’intervista a Vatican News nel 2018, e come mi disse qualche anno fa anche un funzionario della CEF, l’abuso di coscienza può essere anche più comune dell’abuso sessuale. Basta guardare il numero di persone coinvolte e il numero di allontanamenti dalle comunità!
Questo sconvolge il mondo delle comunità religiose, e non solo le “comunità nuove”, anche se nelle più antiche le Costituzioni sono più adeguate in termini di tutele. Il che mi porta anche a pensare che gli esempi siano troppo numerosi per interrogarsi sulla possibilità di una deriva teologica», soprattutto in quelle comunità i cui fondatori si considerano «degli iniziati che, in quanto tali, non sono soggetti alla morale comune, perché chiamati a qualcosa che va oltre le regole, con sullo sfondo l’idea che la vita fisica è, per così dire, sganciata da quella spirituale. Questo modo di pensare è caratteristico dei fenomeni di controllo psicologico e, sul piano teologico, si avvicina a un approccio gnostico. È compito e responsabilità della Chiesa cattolica analizzare tutto questo in profondità».
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 43 17 dicembre 2022
www.adista.it/articolo/69176
ADOLESCENTI
Adolescenti e smartphone
L’abuso dei cellulari è sempre intrecciato con altre sofferenze che riguardano le relazioni interpersonali e transgenerazionali. Vivere il “gruppo” favorisce la disintossicazione.
Intervista a Piero La Monica, psicologo, psicoterapeuta
Secondo l’Istat, l’85% degli adolescenti tra gli 11 e i 17 anni usa quotidianamente il telefonino; il 72% naviga su internet tutti i giorni, con una media dalle tre alle sei ore di connessione al giorno. Il rischio di sviluppare una dipendenza è alto. Ne parliamo con Piero la Monica, psicologo e psicoterapeuta presso il Centro Diaconale “La Noce” – Istituto Valdese di Palermo che è capofila del progetto “In-Dipendenze” sostenuto dalla Fondazione con il Sud, che sperimenta un modello territoriale di prevenzione e presa in carico dedicato a minori che presentano disturbi da dipendenza da internet o dovuti all’uso eccessivo dei dispositivi tecnologici.
Quali atteggiamenti fanno capire di essere di fronte ad una persona che è dipendente da internet?
«Quando ci approcciamo ad una valutazione diagnostica, è chiaro che la nostra attenzione deve essere più ampia, non ristretta al tema della dipendenza ma alle varie sfumature che possono essere attive nel ragazzo, perché spesso occorre parlare non di dipendenza ma di abuso dei dispositivi elettronici. Una dipendenza è caratterizzata da un eccessivo e cronico utilizzo del dispositivo, in assenza del quale si attivano i cosiddetti fenomeni di astinenza, che nel comportamento di un ragazzo si esprimono con maggiore suscettibilità, irritabilità, nervosismo, aggressività, discontrollo degli impulsi, alterazione del ritmo veglia-sonno, intolleranza alla frustrazione, all’attesa, e alla sospensione di quell’attività».
Quali elementi innescano tale dipendenza?
«Sono i più svariati, e non dobbiamo incorrere nell’errore di decodificare a priori quelli che sono i segni del disturbo perché le cause che scatenano la dipendenza non sono delle invarianti che si riscontrano in qualsiasi storia di ragazzo, ma sono specifiche e hanno dei significati psicopatologici molto personalizzati. Sicuramente però, possiamo dire che gli elementi che conducono alla dipendenza sono delle condizioni di disagio che si trovano all’interno o all’esterno del funzionamento mentale di un ragazzo, che non consentono una continua autoregolazione di propri stati emotivi, affettivi e relazionali».
Nell’ambito del progetto In-Dipendenze è stato attivato Spazio offline, un servizio ambulatoriale di cura e diagnosi rivolto ad adolescenti, aperto 3 volte a settimana e gestito da esperti psicoterapeuti. Quali bisogni esprimono i giovani che incontrate?
«Incontriamo una fetta di popolazione di ragazzi che usano internet e dispositivi non in modo così patologico come il mondo degli adulti è tendente ad evidenziare. Noi in realtà, in un approccio di relazione clinica, stiamo scoprendo delle dinamiche che non sono sempre del tutto di carattere patologico. Quindi c’è un ritorno interessante che ci sta sollecitando come clinici a riflettere su come considerare il rapporto con le attività online».
Può fare qualche esempio?
«Raramente incontriamo un caso puramente di dipendenza da smartphone [composto da telefono cellulare e di un computer palmare.]. La maggior parte delle persone fa un uso problematico o un abuso dei cellulari che è sempre intrecciato con altre sofferenze che riguardano le relazioni interpersonali e transgenerazionali. In genere si tratta di ragazzi in difficoltà a comunicare con gli adulti: poiché nello scambio comunicativo non ci si ascolta, non ci si comprende ma si rivendicano le posizioni personali, i ragazzi scelgono un contesto a loro più consono – l’online – dove si ritrovano con i coetanei con i quali, per effetto di rispecchiamento e di risonanze, c’è comprensione. Ciò che emerge nel corso del setting terapeutico è la difficoltà a comprendersi tra persone, quindi, vanno rivisti i nostri processi comunicativi e il nostro linguaggio, che vanno ad interferire sugli equilibri emozionali. Molto importante è che adulti e ragazzi siano competenti linguisticamente in modo che ci sia quello scambio di pensieri che possono essere divergenti ma non necessariamente conflittuali».
Molto, dunque, si gioca nella relazione intergenerazionale tra adulti e adolescenti?
«Assolutamente sì, tra l’altro noi adulti siamo meno competenti digitalmente e questo gioca a nostro sfavore perché, in questa area (la digitalizzazione, l’online) non siamo aggiornati, non abbiamo contenuti da trasmettere, da condividere con chi è in fase di crescita, quindi non ci sono modelli educativi su questo versante. A noi adulti è richiesto una sorta di aggiornamento del nostro sistema operativo interno: si tratta di aggiornare il computer datato, in modo che supporti il nuovo programma. Questa metafora ci fa capire forse meglio cosa occorre fare in modo che i giovani possano interfacciarsi, comunicare, condividere dei progetti con gli adulti».
Ma come si giunge ad un uso responsabile dei dispositivi elettronici?
«Parlerei piuttosto di un uso consapevole. L’uso responsabile è il prodotto finale di un processo che sta prima, che è quello della consapevolezza. Occorre chiedersi: l’uso che faccio del cellulare porta effetti nocivi o benefici a me e a chi mi sta intorno? L’uso che ne sto facendo è fonte di disagio o, al contrario, è fonte di crescita umana?».
Come ci si “disintossica” dall’uso eccessivo di dispositivi elettronici? Che percorso proponete ai ragazzi?
«Una delle condizioni per disintossicarsi è il gruppo, è creare condizioni in cui più ragazzi si incontrino nello stesso tempo e spazio, e condividano pensieri, emozioni, legami affettivi, tutto ciò che viene attraversato nelle singole menti, per farle confluire poi in una mente più ampia, “gruppale”, dove rispecchiarsi, guardando noi stessi nell’altro/a. Il gruppo ha la funzione di metabolizzare, di dare senso e significato, capacità contenitiva e trasformativa di tutte le difficoltà, le fatiche che nella vita del singolo ragazzo hanno un peso non indifferente. È nel gruppo che si riscopre di nuovo la bellezza di ridere insieme, di piangere, di arrabbiarsi, di perdonarsi, di digerire quei grumi emotivi che possono essere un’interrogazione andata male, un’incomprensione, una delusione d’amore».
L’importanza del gruppo ha risonanze molto forti con il ruolo che le comunità di fede hanno nel sostenere chi vive momenti di difficoltà, di incomprensione, di solitudine.
«Concordo, tant’è che nel nostro progetto in fase di stesura, abbiamo definito l’istituzione scuola come “comunità scolastica”: un insieme di persone, di attori plurali che fanno parte di una comunità in cui risuona forte il senso di appartenenza. È nella comunità che si esprime la funzione contenitiva, supportiva, trasformativa, e di accompagnamento: chi sta avanti non deve trainare chi sta indietro, si tratta di camminare uno accanto all’altro. Marta D’Auria Riforma. It 14 dicembre 2022
CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia
Newsletter CISF – n. 46, 14 dicembre 2022
§ Mamma e papà di sei ragazzi: un quadro di famiglia. La testimonianza di vita, delle scelte, delle soddisfazioni, dei sacrifici di una giovane famiglia numerosa, con sei figli (tutti maschi) dal più piccolo di un mese al più grande adolescente. Una “straordinaria” normalità raccontata da mamma Anna( YouTube – 2 min 26 sec )
§ Francia/sul fine vita si esprimerà una “convention” di 173 cittadini. La Francia, alle prese con un intenso dibattito sul fine vita e sulle prospettive di una normativa dedicata, ha scelto una forma di “interpello” della cittadinanza: 173 cittadini selezionati a sorte dovranno rispondere alla domanda: “Il quadro di supporto di fine vita è adeguato alle diverse situazioni riscontrate o è necessario apportare modifiche?”. Organizzata dal CESE-Consiglio Economico, Sociale e Ambientale, la “Convention Citoyenne” www.lecese.fr/convention-citoyenne-sur-la-fin-de-vie
ha iniziato il suo cammino a partire dal 9 dicembre e proseguirà i suoi lavori fino al 19 marzo. Al termine di questo processo e delle sue raccomandazioni, il governo potrebbe presentare un disegno di legge sul fine vita, volto a revocare il divieto di dare la morte. I 173 cittadini saranno formati e supportati nelle loro riflessioni dal CESE. Preoccupate di questa scelta politico/legislativa, le Associazioni Familiari Cattoliche si domandano se, prendendo persone non preparate su questo argomento e guidando il loro pensiero in un quadro pre-organizzato, sarà possibile aspettarsi una risposta “neutrale” [qui l’articolo].
www.afc-france.org/societe/culture-vie/consultation-citoyenne-sur-la-fin-de-vie-la-mort-nest-pas-un-soin
§ UE/studio, impiego, casa: le condizioni dei giovani nei centri urbani. Un corposo report di ricerca (180 pp) che analizza la situazione in 16 diverse città europee (tra cui Belfast, Bratislava, Corby, Leuven, Tallin; per l’Italia è stata analizzata Bologna) e le condizioni di criticità in diversi ambiti di vita, dall’educazione alle opportunità d’impiego fino all’housing. L’intero studio fa parte del progetto internazionale UPLIFT, https://uplift-youth.eu
che si occupa di dare voce ai giovani europei e di mettere al centro delle pratiche i loro bisogni. Le domande al centro della ricerca sono, in particolare, quali processi socio-economici e politiche di welfare a livello locale influenzano la disuguaglianza sociale; come le crisi e la pandemia hanno stressato il sistema; qual è la relazione causale tra la posizione economica delle località e la natura delle disuguaglianze.
§ Le mamme? Usano in media cinque social. È quanto emerge dalla ricerca “Moms&Kids Outlook”, la quinta edizione dell’osservatorio annuale sul mondo mamme e famiglie, realizzata da Eumetra in collaborazione con Fattore Mamma. Il campione di 2.000 mamme (in gravidanza e/o con figli da 0 a 11 anni) rivela che mentre Whatsapp rimane la app più diffusa per comunicare – seguita da Facebook, Instagram e YouTube -c’è un interesse crescente per TikTok come social, in particolare (secondo le risposte del campione) per ragioni informative, più che di intrattenimento. www.eumetra.com/monitor-mamme/le-mamme-e-tiktok-un-rapporto-in-evoluzione
Risultati, questi, che vanno a confermare un quadro più ampio di “svolta digitale” che dal 2020 a oggi ha investito la famiglia intera, come conferma la ricerca del CISF Family Report 2022:
a questo link lo speciale di Telenova in cui gli autori del volume hanno presentato lo studio e illustrato le dinamiche in ambito familiare. www.youtube.com/watch?v=ip69wqOB7dI
§ ISTAT: un pensionato in famiglia allontana il rischio di povertà. L’Istat ha appena pubblicato il suo report sulle condizioni di vita dei pensionati, mettendo a fuoco la loro situazione e quella delle loro famiglie. Al 31 dicembre 2021 sono stati spesi 313 miliardi di euro per 23 milioni di prestazioni a favore di oltre 16 milioni di pensionati. Il 37,2% dei pensionati vive in coppia senza figli, più di un quarto da solo (27,7%). Per le famiglie con pensionati, i trasferimenti pensionistici rappresentano, in media, il 64% del reddito familiare netto disponibile. Il rischio di povertà delle famiglie con pensionati è del 14,6% (in calo rispetto al 2020) ed è più basso di dieci punti percentuali rispetto alle famiglie senza pensionati. L’intero report è disponibile a www.istat.it/it/archivio/278584
§ Corso di alta formazione alla figura del tutor di classe. Rondine Cittadella della Pace, in collaborazione con il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, promuove la seconda edizione del Corso di alta formazione alla figura del Tutor di classe, un professionista delle relazioni che promuove la coesione tra gli studenti, li supporta nel percorso formativo ed è in dialogo con i docenti. Si tratta di un profilo professionale specifico e unico nel suo genere, un “facilitatore relazionale” che mira a favorire un reale cambiamento nel mondo della scuola. Il corso si sviluppa in 3 distinti moduli formativi e si svolge nell’arco del primo semestre 2023. Iscrizioni entro il 19 dicembre 2022.
§ Dalle case editrici
- , Ventuno, le donne che fecero la Costituzione, Ed. Paoline, 2022, pp. 195
- , Memoriale delle vittime dell’emarginazione sociale. 1962 – 2020 edizione autoprodotta, distribuita gratuitamente, pp. 196, 2022.
- (in memoria), Adozione e bambini senza famiglia. Le iniziative dell’Anfaa, Anfaa ed., 2013.
- Oggi non voglio più morire, voglio vivere! Un medico geriatra accanto ai malati terminali. Esperienze e riflessioni, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2022, pp.176.
Leggere questo libro “fa bene”, scrive mons. Vincenzo Paglia nella prefazione. Fa bene perché affronta il tema della morte mettendo finalmente da parte gli approcci teorici, i discorsi astratti, i vari condizionali che inevitabilmente mettiamo nel discorso sociale sul fine vita, quasi fosse una cosa che non dovesse riguardarci. (B.Verrini)
tutta la recensione.
§ Save the date – dall’Italia e dall’estero
www.population-europe.eu/events/digclass-project-social-classes-digital-age
- – 10 gennaio 2023 (17.30-19). “Un altro mondo fuori dal mondo?“, appuntamento a cura della Pontificia Università Gregoriana.
www.unigre.it/it/eventi-e-comunicazione/eventi/calendario-eventi/salvezza-redenzione
- – 12 gennaio 2023 (9-19.45). “Ethics in AI Workshop – AI and Judgement“, evento sull’intelligenza artificiale nei diversi campi della vita, dalla medicina al diritto, organizzato dall’Institute for Ethics in AI-Università di Oxford.
www.oxford-aiethics.ox.ac.uk/event/ethics-ai-workshop-ai-and-judgement-oxford
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CHIESA DI TUTTI
Il futuro della Chiesa è la suspense
Dubbio, incertezza, precarietà inquieta sono il motore della speranza. E quindi anche i sentimenti guida oggi di un’istituzione che non può rinunciare all’utopia. La Chiesa ha futuro? Tra il 1945 e il 1946 Stig Dagerman (α 1923-ω 1954) pubblicava i suoi primi romanzi. È tutta da leggere una sua magnifica riflessione, nella quale egli dice, tra l’altro: “Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa“. Per lo scrittore svedese mancare di fede significa mancare del futuro. Tutto quel che gli accade di importante e che conferisce alla sua vita il suo “contenuto meraviglioso – l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza – , tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo”, scrive. L’intuizione del meraviglioso si radica in un presente che non ammette altro se non l’ustione, la bruciatura, l’istante. Ecco allora la sfida: proclamare il Vangelo è possibile solamente tenendo viva la convinzione che l’esperienza della grazia e della meraviglia sia ancora possibile come storia, come futuro. Questo è il punto: si è persa la fede nella grazia.
Il tempo della Chiesa è il futuro, l’avvenire, non la semplice gestione organizzativa del presente. Nel momento in cui passato e presente dominano senza l’orizzonte del futuro, il messaggio evangelico si mercifica. Anche la tradizione diventa merce da vendere. Un commercio alto, sia beninteso: di valori e idee, ma pur sempre commercio. Papa Francesco, in un suo Messaggio del 2020, a proposito dei discepoli che seguivano Cristo, scrive: “Lui sta per dare inizio al compimento del suo Regno, e loro si perdono ancora dietro alle proprie congetture“. Oggi come allora: siamo persi tra le congetture, come se fossimo noi a dover “organizzare la conversione del mondo al cristianesimo”, scriveva il Papa, o la stessa vita dello spirito. Se la Chiesa non è una mera organizzazione, allora il sacerdos non può ridursi a un burocrate dello spirito o “funzionario della missione” che commercia salvezza predicando valori. Ma anche per questo Francesco è allergico all’idea del regno di Dio che si solidifica sulla Terra: dal “In hoc signo vinces” di Costantino, al “In God we trust” che leggiamo sul dollaro, al “Gott mit uns” del nazismo. La teologia cristiana della storia non ha nulla a che fare con chi promette il paradiso in terra, finendo per fare della terra un inferno.
La grande sfida della Chiesa oggi è quella di essere capace di pensare un dopo, un domani, qualcosa che deve ancora accadere. Per generare futuro – e dunque sperare – è necessario immaginare, proiettarci in un futuro possibile, riflettere su ciò che non vediamo con i nostri occhi né tocchiamo con le nostre mani. Abbiamo bisogno di una nuova immaginazione.
Ricordiamo che la classicità viveva la propria storia nel senso della ciclicità e dell’eterno ritorno. Il cerchio, infatti, è simbolo della compiutezza e della perfezione. I classici, sospettosi sulle utopie e sul futuro, avevano ancorato la loro identità alle origini e al passato. Essi avevano idealizzato il passato, avevano il mito delle origini. E avevano assolutizzato il presente: carpe diem! Vivi il presente. Al classico manca il futuro e, dunque, manca la speranza, che Seneca intende come “dulce malum”, un incantesimo, perché proietta la vita in un avvenire che non è certo. La classicità aveva bisogno di sicurezza, di stabilità. La speranza nasce con il cristianesimo.
Dunque, non è affatto ovvio parlare di futuro e di speranza. Per parlare di futuro della Chiesa, allora, è necessaria un’apertura all’incertezza. Certo, però, c’è chi pensa che il futuro sia una deduzione: date alcune condizioni, si può dedurre qualcosa di quel che accadrà. E così si moltiplicano le analisi sociologiche e le previsioni. Ma questo non ha nulla a che vedere con ciò che i cristiani chiamano speranza. Il futuro affidato alla statistica non apre alla speranza, ma al calcolo delle probabilità, al pensiero calcolante, capace di fare pronostici più o meno attendibili. Il futuro – anche quello della Chiesa – sarebbe così la logica prosecuzione del presente sulla base del passato. Non c’è salto, non c’è scarto, non c’è abisso, non c’è desiderio, non c’è inquietudine, non c’è rivoluzione. La speranza della Chiesa invece è immersione in una storia che ci arriva, dentro la quale siamo chiamati, senza essere prodotto dei nostri calcoli, e tanto meno di “piani pastorali” realizzati da “operatori”. Se si ha questa attitudine alla fede, allora le porte della speranza possono aprirsi. È possibile generare futuro, “abitare nella possibilità”, come scrive Emily Dickinson in un suo splendido verso: “I dwell in possibility”. Non si tratta di credere nella probabilità, ma nella possibilità, cioè nella possibilità di fare esperienza non legata ai limiti di ciò che è statisticamente probabile. È il territorio della grazia, che implica l’incertezza, l’indeterminazione. Non l’ordine, la codificazione, il solido, ma l’informe, il diveniente, ciò che non è ancora solidificato e definito.
C’è un abisso da superare, dunque, per vivere la speranza. C’è bisogno di una fede. Il suo campo non è quello del calcolo o dell’algoritmo, ma quello della “gratia gratis data”, come dice la teologia classica. L’abisso è quello della fiducia nella possibilità di una storia futura che non conosciamo e che non è deducibile dal presente e dal passato come fosse una logica conclusione. In questo senso il futuro non è la combinatoria delle nostre attese e delle nostre aspettative. Sarebbe pure un abbaglio far risiedere la speranza nella pura proiezione combinatoria dei nostri desideri. La speranza è il non ancora conosciuto, che è capace di sorprenderci. Il motore della speranza è, in definitiva, il timore di non ricevere ciò che si attende, dunque il dubbio, l’incertezza, la precarietà inquieta. Nell’intervista che gli feci nel 2013 per La Civiltà Cattolica Francesco parlò della necessità di essere persone “dal pensiero incompleto”. Una volta il Pontefice pose la domanda: “Mi lascio “scardinare dentro” dal paradosso?“. L’alternativa sarebbe quella di rimanere “nel perimetro delle mie idee”.
In questo senso, Bergoglio non rifiuta l'”utopia” come astrazione. Al contrario, riconosce la sua carica positiva e la sua valenza politica. L’utopia prende forza dall’insoddisfazione e dal malessere generati dalla realtà attuale, ma anche dalla convinzione che è possibile un mondo diverso. Qui c’è un compito radicale: ricostruire l’immaginario della fede e della convivenza umana in una società che cambia, dove i riferimenti simbolici e culturali non sono più quelli di una volta.
Se non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è il dubbio metodico – non quello scettico – , la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c’è esperienza di Chiesa. Se lo Spirito Santo è in azione – ha affermato una volta Francesco – , allora “dà un calcio al tavolo“. L’immagine è felice, perché è un implicito riferimento a Mt 21,12, quando Gesù “rovesciò i tavoli” dei mercanti del tempio. I mercanti si vantano di essere “al servizio” del religioso. Spesso offrono scuole di pensiero o ricette pronte all’uso e geolocalizzano la presenza di Dio, che è “qui” e non “lì”. O futuro o merce. O possibilità o commercio. Per questo il tempo futuro della Chiesa è la suspense.
Antonio Spadaro SJ (α 1966), direttore de “La civiltà cattolica” La Repubblica 13 dicembre 2022
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202212/221214spadaro.pdf
Francia: un tribunale interdiocesano nazionale indagherà sui crimini nella Chiesa
Un tribunale canonico nazionale interdiocesano (TPCN) all’interno della Conferenza episcopale: sulla carta è una novità importante quella che ha visto la luce in Francia (pari solo a una analoga iniziativa già operativa nei Paesi Bassi, che riguarda però solo una parte del Paese) dando seguito a una delle Raccomandazioni contenute nel Rapporto Sauvé sugli abusi nella Chiesa, a un anno dalla sua pubblicazione. Il 5 dicembre, al termine di una messa celebrata da mons.
Eric de Moulins-Beaufort, arcivescovo di Reims e presidente dei vescovi francesi, i tredici giudici scelti per questo tribunale hanno prestato il loro giuramento. Si tratta di otto preti e cinque laici, tra cui quattro donne: p. Albert Jacquemin, alla guida dell’organismo, sarà affiancato da due vicari, p. Philipe Toxe e p. Denis Baudot, dal promotore di giustizia p. Bruno Gonçalves (professore di diritto penale presso la Facoltà di Diritto Canonico dell’Istituto Cattolico di Parigi) e dai promotori aggiunti p. Bruno Gerthoux e dall’avvocato, esperto di finanza, Alexandre Bordenave. I giudici sono Elisabeth Algier-Girault, magistrato e canonista, p. Hervé Queinnec, Laurence de Valbray, giudice ecclesiastica in Normandia, p. Joseph Domingo, Chantal Chaussard, giurista, cancelliera della diocesi di Lione, p. Emmanuel Boudet e Sabine Claeyssens, cancelliera della diocesi militare francese.
Quali competenze?
Il nuovo tribunale, però – la cui operatività inizia a gennaio – non è competente su tutto. Esso risponde alla raccomandazione numero 40 del rapporto Ciase guidato da Jean-Marc Sauvé, che chiedeva di «Istituire senza indugio il Tribunale penale canonico interdiocesano annunciato nel marzo 2021, assicurando l’efficacia e l’aspetto della sua competenza e imparzialità, in particolare attraverso una reale collegialità e l’integrazione al suo interno, non solo di sacerdoti esperti, ma anche di giudici laici appositamente formati». Risale proprio a marzo 2021, infatti, prima dell’uscita del Rapporto Sauvé, la decisione dei vescovi di istituire un tribunale del genere, ribadita poi all’assemblea episcopale dell’autunno dello stesso anno.
Quali sono le reali competenze di questo tribunale?
Dovrà trattare tutti i reati canonici commessi da preti o laici battezzati (violenze sessuali, abusi spirituali, reati finanziari), sostituendo così i tribunali diocesani o interdiocesani, ma non i “delicta graviora”, ossia gli atti di pedocriminalità (e quelli “contro la fede e i sacramenti”) che restano di competenza del Dicastero per la Dottrina della Fede a Roma.
Nel caso di un prete giudicato colpevole di violenza sessuale, il TPCN potrebbe, come un tribunale ecclesiastico locale, imporre sanzioni canoniche, come il divieto di presiedere o concelebrare la Messa in pubblico, di ricevere la Comunione, di usare un titolo onorifico, o la dimissione dallo stato clericale. In generale, il TPCN avrebbe il compito di giudicare tutti i casi “criminali” all’interno della Chiesa: abusi sessuali e reati finanziari, per esempio. Non i casi di pedofilia, come si diceva, né quelli in cui sono coinvolti direttamente i vescovi.
Un rimedio alla carenza di giudici competenti
Riassumiamo brevemente la procedura di denuncia di un caso di abuso nella Chiesa. Quando un vescovo viene informato di una denuncia contro un sacerdote, deve condurre un’indagine diocesana preliminare (indagine previa) per stabilire che i fatti siano credibili, quindi inviare il dossier in Vaticano, che darà istruzioni per l’indagine di un processo diocesano, che potrà essere di carattere “amministrativo” o “penale giudiziario”; in generale, la forma amministrativa è preferita perché più rapida e semplice ed è il vescovo stesso a prendere la decisione finale, supportato da due consiglieri.
Il processo penale prevede un collegio di giudici, ma molti vescovi non hanno una competenza sulla materia penale, e spesso per mancanza di giudici esperti i tribunali ecclesiastici sono già “interdiocesani”. «A forza di occuparsi principalmente di cause matrimoniali, questi tribunali hanno perso l’abitudine di praticare il diritto penale, e quindi di formarsi in materia penale», osservava p. Gonçalves lo scorso anno (Le Figaro, 13 ottobre 2021). E poi c’è una questione di imparzialità: poiché è il vescovo ad avviare la procedura canonica, spesso riguardo a qualcuno che lui stesso ha ordinato come sacerdote, il vescovo è talvolta giudice e giuria.
Con il nuovo tribunale, i processi diocesani potrebbero essere “spostati” a livello nazionale; i giudici, impiegati a rotazione, dovrebbero garantire che un accusato non venga giudicato da un collega della stessa diocesi. Ecco perché l’accento sulla collegialità richiesta dalla Ciase, e la presenza di donne, allo scopo di evitare che preti giudichino preti.
Di questa disfunzione ha fatto le spese Bénédicte Draillard, che fu giudice istruttore a Lione durante il processo contro Bernard Preynat. Nel 2017 si è dimessa, a metà processo, perché non legittimata dal clero lionese: «Come laici, non abbiamo avuto voce in capitolo, e ancor meno una donna. Non siamo stati informati di nulla. Tutto ciò che riguardava i chierici veniva trattato solo dai chierici» (Le Figaro).
Di qui la necessità di esperti ed esperte di diritto canonico, ambito ancora estremamente maschile.
Ludovica Eugenio Adista Notizie n. 43 del 17 dicembre 2022
www.adista.it/articolo/69175
CITTÀ DEL VATICANO
I risultati del pontificato attuale saranno decisi dai successori di Papa Francesco, come il cardinale Kasper
Il teologo e cardinale tedesco Walter Kasper α1933,
uno dei porporati che hanno contribuito maggiormente all’elezione di Bergoglio nel conclave del 2013, parla dell’azione riformatrice che Papa Francesco ha avviato negli ultimi dieci anni, che nella pratica dovrebbe essere destinata a cambiare il rapporto tra Chiesa e Magistero.
Per Kasper «Il successo dell’attuale pontificato sarà deciso dai successori al papato attuale. Spero solo che il pontificato attuale non sia un incidente ma l’inizio di una nuova epoca» e che «riusciremo a tenerlo ancora per qualche anno». «Un tale processo di trasformazione non può̀ essere realizzato da un giorno all’altro, ma richiede tempo e un respiro lungo. Non si può̀ fare in un solo pontificato, ci vorranno due o tre pontificati”. Questo perché il percorso riformatore si presenta accidentato e necessità di tempi lunghi per incidere su un duraturo mutamento culturale. Per Kasper parlare del concetto di sinodalità̀ “significa la fine del vecchio clericalismo gerarchico»
A raccogliere queste riflessioni è Franca Giansoldati del Messaggero che riporta ancora una parte del pensiero kasperiano espresso ad un incontro di formazione dell’Ordine dei Giornalisti. «Francesco è un Papa evangelico, non nel senso confessionale ma nel senso originale del termine. La priorità̀ assoluta per lui non è la dottrina, ma il Vangelo, il messaggio vivo di Dio Padre misericordioso, che ci ha redenti attraverso il suo Figlio ed è permanentemente presente nella Chiesa nello Spirito Santo. Adesso nel Prædicate evangelium il dicastero dell’evangelizzazione ha la precedenza sul dicastero della dottrina della fede. Non predica più il Dio che minaccia, condanna e punisce, ma il Dio che accoglie, accetta, perdona e riconcilia tutti nell’amore. Si tratta di un nuovo tono, che fa bene alla Chiesa, ma che non piace a tutti e talvolta va anche frainteso come relativismo che non vuole seguire dottrine, ma solo il Vangelo?
www.ilmessaggero.it
COPPIE
Matrimoni a tempo
Cosa rappresenta meglio la caratteristica dei tempi moderni? La fluidità. Quello che è vero oggi, domani non lo è più, tutto viene costantemente aggiornato e rivisto (il telefono, la storia, i valori), le categorie si mescolano e si dissolvono. Perfino il DSM e le encicliche papali nell’arco di pochi decenni rivedono e mutano i loro enunciati. Le cose durevoli sono ormai fuori moda. Eppure c’è un’istituzione sociale che vorrebbe sopravvivere “vita natural durante”, ma si infrange contro lo spirito dei tempi: il matrimonio. Questa discrepanza fra aspettative e realtà provoca una serie di complicanze legali e psicologiche che si concretizzano nei percorsi di separazione, iter che viene vissuto spesso con un esborso di denaro e un senso di rabbia e fallimento. Prendendo atto della situazione attuale (un matrimonio su due finisce in separazione), non sarebbe più sensato istituire il matrimonio a tempo determinato?
Incredibile a dirsi, questa istituzione esiste davvero: la troviamo nel contesto islamico sciita e si chiama mut’a [ﻣﺘﻌـة] ovvero matrimonio temporaneo [anche di 99 anni], ed è regolato dal codice civile iraniano. L’essenza di questa particolare forma matrimoniale è che si tratta di un contratto con una data di scadenza decisa dai coniugi. Storicamente il mut’a era un modo per far sì che un uomo avesse compagnia femminile quando viaggiava per lunghe distanze; ora invece il mut’a porta delle vere novità soprattutto per la donna, perché può godere di diritti che attraverso il matrimonio islamico tradizionale non sono concessi.
Nel nostro contesto culturale, dove i diritti di uomini e donne sono equiparati, a che cosa potrebbe servire un matrimonio a tempo determinato? Come cambierebbe la vita di coppia se i matrimoni fossero 4+4 (tacitamente rinnovabili), come i contratti d’affitto?
Secondo quanto mi capita di osservare nel lavoro quotidiano con le coppie, uno degli elementi che al giorno d’oggi fa fallire i matrimoni è la trappola dell’amore romantico: quando ci innamoriamo di qualcuno sentiamo che “siamo speciali”, che siamo due corpi e un’anima, che “No, a noi non succederà mai di divorziare”. “Purtroppo” – dico purtroppo, perché, sì, è bellissimo essere innamorati” – l’innamoramento in realtà sembra un escamotage che ha inventato Madre Natura per garantire la sopravvivenza della specie. Mai come nel periodo dell’innamoramento vorremmo sposarci ed avere un figlio dalla persona di cui ci siamo innamorati per creare un legame visibile e indissolubile, e infatti è anche l’unico periodo in cui siamo “naturalmente” fedeli.
In molte storie di coppia, dal momento in cui ci si innamora a quando ci si sposa passano dai tre ai cinque anni, poi si mettono al mondo uno o due figli e dopo una decina d’anni dal matrimonio ci si accorge che portare avanti un rapporto di coppia è difficile, richiede impegno, molte volte sacrificio, e sembra che le soddisfazioni siano poche. I coniugi sentono che le limitazioni alla libertà personale diventano molte, si resta insieme per far crescere i figli, si fa meno sesso (e si trova l’amante) e un po’ alla volta ci si allontana dall’ideale amore romantico o erotico che ognuno aveva in mente. I coniugi dedicano meno tempo ed energie al rapporto di coppia, diventano più bravi ad organizzare il quotidiano che una serata a due, si parla poco, ci si indispettisce facilmente, sembra che l’altro non sia più capace di capire e di soddisfare il partner. Il rapporto di coppia si inaridisce e, se non viene annaffiato con costanza, muore. Nel migliore dei casi si diventa dei buoni amici conviventi, nel peggiore dei casi nemici in guerriglia quotidiana su tutto. Ciò che prende il sopravvento è la noia, la prevedibilità, l’indifferenza e/o il rancore.
Il “per sempre” spesso fa da tomba al naturale evolvere della relazione di coppia, perché dal giorno del matrimonio, psicologicamente è come se mettessimo un punto di non ritorno, come se la relazione nella nostra testa avesse raggiunto il suo apice e da quel momento non avesse più bisogno di essere nutrita perché ormai “siamo sposati”.
Immaginiamo per un attimo un mondo parallelo in cui esiste il matrimonio a tempo determinato: le coppie si sposano e firmano un contratto che dura cinque anni. Lo stare assieme, a questo punto non è dato per scontato, ma allo scadere del quinquennio si deve decidere se continuare il matrimonio o meno. Se entrambi o uno dei due non volesse più stare assieme, si andrebbe verso una separazione, anzi un esaurimento del contratto senza dover ricorrere a giudici e avvocati (e con gran risparmio economico); semplicemente ci si lascerebbe, senza il senso di fallimento che permea oggi le separazioni, perché diventerebbe un’alternativa naturale. L’opzione a tempo introdurrebbe nella coscienza delle persone che la prosecuzione del matrimonio dipende da loro: dalla loro capacità di integrazione tra elementi di novità e stabilità, dal loro impegno costante nel tempo e da quanto riescono a mantenere vivo il legame d’amore.
Il matrimonio a tempo determinato potrebbe indurre nella vita dei partner l’idea che bisogna aver cura dell’amore, che per fare andare avanti la relazione bisogna impegnarsi in due. Perché, se per sposarsi è necessario essere d’accordo in due, per separarsi basta la volontà di uno.
Bibliografia
Maurizio Andolfi (1999), La crisi della coppia. Una prospettiva sistemico-relazionale, Cortina Raffaello editore, Milano
Todesco Lorenzo (2009), Matrimoni a tempo determinato, Carocci, Roma
Susan Gadoua, Vicki Larson (2014), The New I Do: Reshaping Marriage for Skeptics, Realists, and Rebels, Seal Press (USA)
Dott.ssa Antonella Besa, psicologa, psicoterapeuta, Pordenone
www.cisonline.net/news/matrimoni-a-tempo
DALLA NAVATA
QUARTA DOMENICA DI AVVENTO – ANNO A
Isaia 07, 13. Allora Isaia disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la
vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele».
Salmo 23, 03. Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli.
Egli otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Paolo Romani 01,01, Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!
Matteo 01,22. Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.
I sogni di Giuseppe sono quelli di Dio
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore. (….).
Tra i testimoni che ci accompagnano al Natale appare Giuseppe, mani callose e cuore sognante, il mite che parla amando. Dopo l’ultimo profeta dubbioso, Giovanni Battista, di domenica scorsa, ora un altro credente, un giusto anche lui dubbioso e imperfetto, l’ultimo patriarca di una storia mai semplice e lineare. Giuseppe che non parla mai, silenzioso e coraggioso, concreto e sognatore: le sorti del mondo sono affidate ai suoi sogni. E lì sono al sicuro, perché l’uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio. La sua casa è pronta, il matrimonio è già contratto, la ragazza abita i suoi pensieri, tutto racconta una storia d’amore vero con Maria. Improvvisamente, succede: Maria si trovò incinta e Giuseppe pensò di ripudiarla in segreto, insieme a quel figlio non suo. L’uomo “tradito” cerca comunque un modo per salvare la sua ragazza che rischia la vita come adultera; il giusto “ingannato” non cerca ritorsioni contro di lei, vuole ancora proteggerla, perché così fa chi ama. Ripudiarla…
Ma Giuseppe è insoddisfatto della decisione presa. Si dibatte dentro un conflitto emotivo e spirituale: da un lato l’obbligo di denuncia e dall’altro la protezione della donna amata. A metà strada tra l’amore per la legge di Mosè: toglierai di mezzo a te il peccatore (cfr Dt 22,22), e l’amore per la ragazza di Nazaret. E accade un secondo imprevisto, bello e sorprendente. Giuseppe ha un sogno, in cui il volto di Maria si mescola a quello degli angeli. Prima decide, poi arriva da Dio un sogno, arriva solo dopo, senza esimerlo dalla fatica e dalla libertà: “Non temere di prendere con te Maria”.
Tu vuoi già prenderla con te, solo che hai paura. Non temere di amarla, Giuseppe, chi ama non sbaglia. Dio non interviene a risolvere i problemi con una bacchetta magica, non ci salva dai conflitti ma è con noi dentro i problemi, e opera in sinergia con la nostra testa e il nostro cuore, con l’intelligenza e l’empatia, ma insieme anche con la nostra capacità di immaginare e di ipotizzare soluzioni nuove. È l’arte divina dell’accompagnamento, che cammina al passo con noi, verso l’unica risposta possibile: proteggere delle vite con la propria vita. Da chi ha imparato Gesù a ribaltare la legge antica, a mettere la persona prima delle regole, se non ascoltando da Giuseppe il racconto di come si sono conosciuti con Maria, di come è stato il loro fidanzamento e poi il matrimonio, ai figli piace sentire queste storie. Da chi ha capito il piccolo Gesù che l’amore viene prima di tutto, che è sempre un po’ fuorilegge? Maria e Giuseppe, poveri di tutto, ma Dio non ha voluto che fossero poveri d’amore, perché sarebbero stati poveri di Lui.
p. Ermes Ronchi, OSM, α1947
www.avvenire.it/rubriche/pagine/i-sogni-di-giuseppe-sono-quelli-di-dio
DIBATTITI
Cattolici, parlate di aborto e fine vita
Ha ragione Vladimiro Zagrebelsky a segnalare l’incapacità italiana di affrontare il tema del fine vita. In una indifferenza quasi generale, infatti, Marco Cappato rende pubbliche la morte di malati gravi che accompagna in Svizzera, sfidando lui stesso la denuncia. Tutto questo mentre in Francia si cerca di discutere seriamente sulla questione in una Convention citoyenne, in corso dal 9 dicembre, che prevede nove incontri di tre giorni con la partecipazione di 173 cittadini scelti per sorteggio. Per sottolineare che è un problema che riguarda tutti, e non solo gli esperti o i politici. Da noi una delle ragioni di questa mancanza di dibattito è, negli ultimi anni, il silenzio dei cattolici sui temi etici. Un silenzio rotto in rare occasioni solo da papa Francesco, sempre circondato da un intangibile alone progressista e del quale vengono dunque dimenticate le affermazioni di tenore ben diverso, proprio sui tanto discussi diritti. Ad esempio in tema di aborto. A proposito del quale il pontefice si è più volte pronunciato con la solita franchezza, ma con altrettanta durezza, ripetendo che abortire è come «affittare un sicario per risolvere un problema».
Questa assenza nell’attuale dibattito delle voci dei cattolici aperti al confronto con i laici è però un fatto grave che impoverisce tutta la cultura e la politica italiana. Esso è la conseguenza della storia degli ultimi decenni, che ha visto l’istituzione ecclesiastica prendere una serie di posizioni rivelatesi sbagliate. La prima si ebbe quando il cardinale Camillo Ruini, avendo giustamente individuato l’importanza delle nuove questioni bioetiche che si stavano ponendo alle società moderne, decise che era opportuno che la cultura cattolica prendesse posizione. Ma quali risposte dare alle nuove domande veniva dettato ai cattolici dall’alto, cioè da una gerarchia orientata in senso dogmatico. È accaduto così che le questioni bioetiche, invece di diventare terreno di discussione e confronto con i laici, e soprattutto con chi opera nella sanità, hanno finito per essere trattate sul piano teologico.
Infatti, anche se Pio XII si domandava, ancora nel 1957, se una persona che riprendeva a respirare grazie a un macchinario fosse realmente rianimata, arrivando perfino a supporre che forse l’anima avesse già lasciato il corpo, in seguito hanno prevalso risposte improntate a una assoluta nettezza. Risposte formulate sulla base del concetto astratto di “bene maggiore” – ovviamente sempre la vita – perdendo l’effettiva concretezza dei problemi medici. Ai cattolici che partecipavano al dibattito e non appartenevano al clero veniva dunque chiesto in pratica di essere semplici portavoce obbedienti a quanto stabilito dai teologi, quasi sempre ecclesiastici.
Soffocare questo dibattito – che all’inizio era nato dall’interesse generale e dalla necessità di prendere decisioni ponderate, e che tra i cattolici si era rivelato interessante e vivace – ha significato impoverire tutta la cultura italiana, dove di conseguenza si sono contrapposti, a lungo, quasi solo radicali aggressivi e vescovi obbedienti. Situazione che perdura in questi ultimi anni, quando papa Francesco, ben consapevole dello scarso consenso che questo modo di condurre le cose aveva portato alla chiesa, ha invitato intellettuali e politici cattolici a lasciar cadere la discussione bioetica, per dedicarsi a temi più facilmente condivisibili, come i poveri e i migranti. Come ha fatto la Comunità di Sant’Egidio, unica organizzazione cattolica ormai presente e attiva nella politica italiana.
Così oggi, nel panorama politico, di fronte alle questioni dell’aborto, dell’eutanasia, delle famiglie gay e dell’utero in affitto sono rimasti sulla scena solo i gruppi cattolici più conservatori, che non hanno obbedito al papa e hanno continuato a parlare, cioè a presentare proposte molto rigide, non essendo interessati ad aprire un dialogo. La politica ha dunque cessato da tempo di essere quello che deve essere, cioè luogo di discussione e di mediazione, per diventare solo occasione di scontri frontali e di reciproche demonizzazioni. Diversamente da quello che accade in altri paesi europei, dove sui temi così sensibili dei diritti sono stati aperti dibattiti fruttuosi e dove tutte le posizioni hanno diritto di essere ascoltate.
Lucetta Scaraffia* “La Stampa” 12 dicembre 2022
α1948), è una storica e giornalista italiana. Docente di Storia contemporanea – Università La Sapienza di Roma.
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202212/221212scaraffia.pdf
Humanæ Vitæ, cinquant’anni dopo. Il senso di un anniversario
Introduzione. L’avvicinarsi dei 50 anni dell’enciclica Humanæ Vitæ (Paolo VI, 25 luglio 1968) va suscitando una serie di iniziative e mettendo in campo un lavorio di discussione, talvolta anche controverse. La ricorrenza viene presa da diverse parti come occasione per finalità del tutto contrastanti. C’è chi esprime il desiderio di ribadire la dottrina espressa in quella enciclica nel rifiuto della liceità morale del ricorso alla contraccezione. C’è chi opterebbe per una ‘riscrittura’ dell’enciclica, alla luce di sviluppi dottrinali e pastorali più recenti. Non manca chi vedrebbe come atteggiamento adeguato quello di uno spostamento di enfasi nella morale coniugale e sessuale, non fissandosi più cosi acutamente sul problema specifico della contraccezione.
La varietà delle posizioni fa trasparire in realtà una diversità di opzioni, relativamente a un più ampio scenario teologico ed ecclesiale che per alcuni deve essere condotto all’intreccio tra testo dell’enciclica e contesto dell’insegnamento del Concilio Vaticano II. In alcune frange, al contrario, esso mira addirittura a prendere la ricorrenza dei 50 anni dell’Humanæ Vitæ (HV) come occasione per ‘fare i conti’ con l’attuale leadership nella chiesa, in un giudizio sommario sul pontificato di Francesco e sugli orientamenti di episcopati e teologi ad esso più vicini.
Non si può non vedere la tentazione e il tentativo di un uso ‘politico’ dell’anniversario dell’enciclica, come se essa, nella materialità del suo dettato dottrinale debba essere considerata come criterio di valutazione di verità e di giudizio di ortodossia dei credenti, pastori, teologi o semplici fedeli. Se questo può sembrare una aspirazione acuita negli ultimi anni, in realtà va riconosciuto che proprio questa focalizzazione sull’adesione all’HV sia stato il criterio di giudizio nei decenni scorsi (soprattutto negli anni ’70–’95). La genesi di un certo fondamentalismo etico, emergente nella chiesa cattolica proprio in quell’epoca, non potrebbe essere compresa senza individuare nelle questioni di etica sessuale (e della contraccezione, in particolare) un ambito specifico di attenzione, anche da parte delle istituzioni di verifica e di controllo, sulla attendibilità di singole persone o di gruppi, relativamente alle loro posizioni teologiche e etiche. Per esemplificare tutto questo ci si può riferire alla cosiddetta “Kölner Erklärung” (1989) e più tardi al Momorandum “Kirche 2011 – ein notwendiger Aufbruch”. Sebbene ambedue sorti in ambiente teologico-ecclesiale di lingua tedesca, essi hanno avuto una rilevanza ben più al di là e hanno generato un atteggiamento aperto, consapevole della complessità dei problemi e del bisogno di riforma.
In questa nota noi intendiamo proporre uno spunto di riflessione da sviluppare ulteriormente, preferendo a un uso politico della ricorrenza, un uso più apertamente ‘ermeneutico’ di essa. Vogliamo, cioè, indicare due percorsi su cui orientarsi, per cogliere l’importanza del carattere dinamico di un insegnamento morale in movimento. In realtà questo atteggiamento, con sfumature ed intensità diverse, riguarda ogni impianto dottrinale e mette in guardia dal rischio di fossilizzarlo o dalla tentazione di usarlo per scopi indebiti; nell’uno o nell’altro caso, in definitiva, per tradirlo.
Ri-contestualizzare la genesi di HV. In questi ultimi 50 anni di prassi di vita cristiana e di lavoro di riflessione teologica sono emersi luoghi di ricognizione dell’impianto etico, sul cui sviluppo oggi nessuno più potrebbe chiudere gli occhi. Due di questi vanno esplicitamente menzionati.
Il primo riguarda il concetto di natura, su cui massimamente HV centra la sua cadenza argomentativa.
Il secondo, evidentemente connesso al primo, tocca l’orizzonte di senso e di funzioni della sessualità umana.
All’epoca della scrittura di HV diversi motivi portarono ad adottare un concetto di natura fortemente condizionato dalla sua indole biologica (biologistica). Sebbene non mancassero anche all’epoca approcci aperti, con valenze antropologiche più marcate, nondimeno HV sviluppò una lettura etico-normativa legata all’approccio deontologico, dove giocava un ruolo decisivo il criterio della conformità alla natura, intesa come insieme di intenzionalità e di strutture vincolanti, iscritte nella costituzione dell’essere umano, espressa nelle sue funzioni biologiche. Su questa scia anche la sessualità veniva colta massimamente in rapporto alla sua funzione procreativa, senza evidentemente negare la presenza di altre dimensioni, quali quella affettiva, quella relazionale, quella sociale, ma senza assumere una visione di unitarietà dinamica e differenziata che porta a cogliere lo specifico umano nella sessualità della persona.
Ora la consapevolezza dell’intreccio di questa duplice ottica non può essere messa da parte, quando si va a considerare l’origine di HV. Oltre tutto a questa consapevolezza dei limiti enunciati hanno portato in modo sinergetico sia l’azione di magistero dei pastori (si pensi alla teologia del corpo di Giovani Paolo II, per es,.), sia l’impegno di riflessione e di sviluppo della teologia. Determinante – e non più revocabile – è l’apporto delle scienze umane in senso esteso e in particolare dell’antropologia filosofica e teologica, delle scienze biologiche e comportamentali.
Di più: a un concetto di natura biologicamente cristallizzato e chiuso nella stretta di uno sguardo essenzialistico-individuale, si è andato accostando negli stessi decenni, che compongono questi 50 anni di HV, un concetto di natura che recupera la dimensione ecologica di essa, riferita sulla scala sia del macro-cosmo (l’universo e la sua sopravvivenza), sia del micro-cosmo (l’organismo e il suo benessere). Ora proprio questa ottica ampliata fa capire da una diversa prospettiva l’importanza del rispetto della sfera naturale e l’urgenza di non esporre la corporeità a impatti manipolativi che possono alterarne l’equilibrio. Non è detto, quindi, che il rifiuto di ricorrere a prassi contraccettiva di tipo chimico (pillola) debba passare attraverso l’impianto stretto e problematico dell’argomentazione deontologico-essenzialistica. Assumersi la responsabilità della propria sfera corporea, sviluppare una vera e propria ecologia del corpo può avere in sé elementi utili, produttivi, vincolanti per orientare la scelta operativa, rispetto al problema posto. Ma questo rimanda alla dinamica della scelta responsabile, dove al centro si pone ancora e inevitabilmente la persona e la sua visione di vita.
E sul fronte della sessualità è di irrevocabile importanza la consapevolezza delle de-centralità dell’atto sessuale, a favore della dinamica relazionale, di cui la sessualità di coppia diventa luogo e linguaggio. Ora noi dobbiamo essere riconoscenti proprio alla cultura sviluppata dalle donne, in questi stessi decenni dell’HV. Essa ci ha resi sensibili al rischio di manipolazione del corpo femminile a vantaggio dell’accaparramento e del dominio maschile. Una non equilibrata liberalizzazione della scelta di contraccezione farmacologica non esclude il rischio della dominanza maschile, di cui il corpo delle donne paga il conto. Un conto che, per altro, però, viene richiesto alle donne, anche attraverso il rifiuto categorico della contraccezione, ritardando i processi di educazione sessuale come educazione del soggetto alla responsabilità. Si può ben capire, quindi, che anche attraverso questa cultura emergente dalle storie di donne e della loro coscientizzazione, il concetto di natura acquista una dimensione più spiccatamente relazionale e lo sguardo sulla sessualità si apre a una intensificazione di valenze umanizzanti, critiche rispetto a poteri dominanti e cariche di energia di emancipazione.
Coscienza, verità e storia. Una seconda pista di riflessione allarga, ma non distoglie, l’arco di considerazione. Proprio nelle più recenti discussioni sull’anniversario di HV, ricorre spesso la controversia tra chi si riferisce all’esperienza sincera di coniugi credenti che hanno vissuto o vivono il conflitto tra coscienza e norma contenuta nell’enciclica. Per questi attenti lettori e sensibili pastori, la considerazione della storia di vita di tanti credenti è una fonte di conoscenza sulla verità della norma stessa che non può essere disattesa. Il fronte opposto si accanisce nel rimproverare costoro, affermando la verità ‘oggettiva’ della norma, in quanto contenuto di un pronunciamento magisteriale. La somma del disagio, seppur stimabile, non scalfisce, dicono, la verità morale della norma.
L’impianto di questa controversia fa capire la necessità di riflettere su due cose. La prima: tra cosiddetto ‘ordine oggettivo’ della norma e presunta ‘deriva soggettiva’ del singolo e della sua coscienza va considerata una categoria che declina ugualmente il tema della verità in ambito morale. Essa è la ‘verità della vita’ (Veritas vitæ è un termine antico che risale a papa Adriano VI, sec. XVI). Chi riduce il vissuto a mera fatticità, non correlata alla sua capacità espressiva di quella autenticità morale che emerge dalla storia vissuta e dall’esperienza riflessa dei credenti, deve porsi la questione del senso della verità morale, senza confonderla con la verità di fede o, più in generale, con la verità teoretica. La confusione dei due piani rivela ancora una volta la matrice essenzialistica dell’impianto e porta a esigere dalle verità pratiche la stessa dinamica di genesi e di validazione delle verità speculative. Appiattire sullo stesso metro di misura ragion pratica e ragione teoretica non ignora soltanto un’istanza qualificante dello spirito della modernità (Kant), ma prende le distanze da un tracciato di tradizione cristiana espressa nella visione scolastico-medievale di Tommaso d’Aquino.
La seconda cosa da considerare riguarda il significato profondo, creativo e rigenerante del sensus fidelium. Nel sapere intorno a cose di fede e di morale, la comunità dei credenti, in tutte le sue articolazioni, vive di un istinto di comprensione e di ricognizione che non isola l’uno dall’altro, non produce formazione di fronti contrastanti e non si affida a logiche di potere e di dominio. Il sensus fidelium stima l’esperienza che autenticamente viene fatta e viene messa in circolazione. Essa trova espressioni talvolta più articolate e sonori, talvolta, invece, si lascia captare con i toni sommessi di chi soffre per il conflitto e neppure riesce a denominarlo.
Non è la somma quantitativa, demoscopica delle opinioni, ma la volontà di ascoltare quella verità che emerge dalla vita vissuta a farci capire non solo l’opportunità, ma anche il dovere di comprendere diversamente un insegnamento del passato. Diversamente significa anche andando oltre! E questo potrebbe essere il senso di un anniversario. Ma soprattutto è fedeltà alla tradizione che ci rende vivi.
Antonio Autiero* “concilium” 7 maggio 2020
* α 1948 professor emerito, University of Münster (Germany), docente di Teologia morale 1991–2013.
MATERNITÀ
Quella Madre che non è Madre è come un Padre. Quando IL DIRITTO nega la realtà
I figli della coppia lesbica di Anghiari unita civilmente e la sentenza del Tribunale di Arezzo Discriminazione verso le persone LGBT o in primo luogo verso le donne.
Una coppia lesbica vuole un figlio e pensa di rafforzare non solo la relazione di coppia ma la relazione di ciascuna componente con il futuro figlio ricorrendo a una soluzione inusuale. La donna che partorirà non offrirà alla creatura in progetto l’apporto genetico ma solo quello della gravidanza e del parto, facendo impiantare nel proprio utero un ovulo della propria compagna, col consenso di questa, e ricorrendo alla fecondazione eterologa in altro stato (in Italia la Legge 40/2004 non lo consente in caso di coppia omosessuale). Sembra loro l’uovo di Colombo, ma la realtà sarà un’altra.
Nascono due gemelli in Italia e le due donne fanno richiesta di riconoscimento dello status di madre per ciascuna di loro, a cui conseguirebbe l’attribuzione ai bimbi del cognome di entrambe. L’Ufficiale di Stato civile del comune di Anghiari si rifiuta e la coppia si rivolge al Tribunale di Arezzo. Chiamato a una valutazione del problema, il Tribunale rigetta il ricorso.
Ora, è possibile che qualcuno manifesti anche per il caso specifico delle riserve, a causa della pratica innaturale di espianto a cui si è sottoposta una delle due donne, nonché del bombardamento ormonale innaturale a cui si è esposta l’altra, ma non si può sottacere che le due donne hanno fatto tutto ciò non per un progetto a loro estraneo ma per una decisione spontanea e interna alla coppia, scelta che avrebbe dovuto apportare un beneficio a ciascuna delle due, nonché al bambino (che in questo caso sono due gemelli). Qualunque cosa se ne voglia pensare, non è possibile esimersi da alcune valutazioni particolari che per obiettività vanno fatte.
1 – Non siamo dinanzi a un caso di utero in affitto, giacché la donna partoriente non ha affrontato la gravidanza e il parto per altri ma per se stessa e per l’altro membro della coppia, dunque non è stata resa né si è resa puro strumento, non ha subito nessuna alienazione. Ha voluto farlo per essere fisicamente inclusa nella relazione genitoriale, della quale si sarebbe presumibilmente sentita meno partecipe se a partorire fosse stata la compagna, ovvero la stessa donna cui apparteneva l’ovulo. Infine, la donna partoriente si prenderà cura personalmente del bimbo messo al mondo e non lo cederà a una qualche committenza. In pratica, il figlio non verrà mai amputato della naturale relazione psicofisica con la gestante, che assumerà a tutti gli effetti il ruolo di Madre. La differenza con i casi di Gpa [Gestazione Per Altri] è radicale;
2 – il fatto che la fecondazione eterologa sia ammessa per una coppia eterosessuale fa sì che una donna eterosessuale a cui sia stato impiantato un ovulo estraneo, fecondato con gameti che non sono del compagno o marito, possa essere considerata madre del bimbo partorito – e fin qui la situazione corrisponde a quella di cui stiamo trattando;
3 – il fatto che la fecondazione eterologa sia ammessa per una coppia eterosessuale permette che un uomo la cui compagna o moglie abbia fatto ricorso a questo tipo di fecondazione sia considerato padre del figlio partorito dalla compagna (e automaticamente all’interno di un rapporto matrimoniale), anche se il nato avrà ricevuto metà del suo patrimonio genetico da un altro uomo, ovvero da un membro estraneo alla coppia – e qui la situazione differisce profondamente (con l’appoggio della legge 40/2004 non sufficientemente impugnata) da quella di cui stiamo trattando;
4 – qualsiasi cosa possa decidere un Tribunale, il fatto che quel bimbo sarà collegato per una metà del suo patrimonio genetico a quello della compagna-donatrice della coppia considerata non potrà essere negato o dimenticato;
5 – il fatto che un uomo possa riconoscere un figlio non riconosciuto alla nascita solo in quanto responsabile di una metà del patrimonio genetico del bimbo e che questo riconoscimento può essere effettuato perfino in caso di opposizione della madre di quel figlio, giungendo anche all’attribuzione del cognome se avallata da un giudice, è un fatto noto; è un diritto garantito all’uomo, che nessuno può sottrargli.
Ne conseguono alcune domande.
a – perché un uomo può effettuare un riconoscimento se solo da un esame del DNA risulterà che egli sia colui da cui il figlio ha avuto una metà del suo patrimonio genetico, mentre una donna nella sua stessa situazione (il bimbo del caso di Arezzo ha indiscutibilmente per metà un patrimonio genetico avuto dalla donatrice) non può essere considerata genitrice di quel figlio, pur essendo peraltro legata alla partoriente da uno stabile rapporto di coppia?
b – Forse i gameti maschili sono più importanti, pregiati o autorevoli di quelli femminili? La genetica ci dice di no.
c – Forse è necessario che la donna a cui apparteneva l’ovulo si dichiari Padre e non Madre? Ciò servirebbe a far quadrare il cerchio?
d – Dove sta la ratio, dunque la base logica e scientifica – che contrasta con quella giuridica attuale – in virtù della quale considerare eticamente accettabile quella sentenza? Deriva da queste considerazioni un giudizio di incompetenza del Tribunale di Arezzo? Se consideriamo la minuziosità con cui le giudici hanno esaminato le sentenze della Cassazione, della Corte costituzionale e perfino della CEDU in proposito, si dovrebbe concludere che no e tuttavia qualcosa non convince.
Alla base di quelle sentenze c’è la considerazione che la legge 40/2004 consente il ricorso all’eterologa come rimedio a un difetto funzionale della coppia eterosessuale, dovuta all’impossibilità di uno dei suoi componenti di generare un figlio, per una qualche anomalia che non sussiste invece nel caso di una coppia omosessuale, i cui membri hanno la piena possibilità di esercizio delle caratteristiche generative del proprio sesso di appartenenza. La valutazione sembrerebbe inoppugnabile, se non fosse che quel che ne consegue viene applicato solo nel caso di lesbiche e non di gay. A un gay che ha generato ricorrendo alla Gpa, vietata in Italia come lo è il ricorso all’eterologa per coppie lesbiche, non viene disconosciuta la sua paternità ma solo il diritto di conferire analogo statuto al compagno che non ha dato nessun contributo biologico per la nascita del figlio, ovvero al cosiddetto genitore intenzionale. Nel caso delle due donne del comune di Anghiari, invece, alla donna che esattamente come un gay che ricorre alla Gpa ha “erogato” i suoi gameti, lo status di genitrice viene negato contro ogni evidenza.
In altri termini, qui non si tratta, o non si tratta solo, di discriminazione nei confronti dell’omosessualità ma in primo luogo di discriminazione radicale nei confronti della donna, i cui gameti sono valutati in modo difforme – e per lei penalizzante – dai “sacri lombi” generativi del maschio, eterosessuale o omosessuale che sia.
Ricordiamo che le conclusioni di un procedimento giudiziale sono sempre condizionate dai termini in cui è stata formulata la richiesta. È possibile che riproporre la questione da un punto di vista più appropriato – quale ad esempio la denuncia di una discriminazione nei confronti della donna con riferimento alle situazioni sopra esaminate –, lasciando dunque in sordina al momento la 40/2004 che tanto intralcia, possa indurre un Tribunale ordinario a sollevare eccezione di costituzionalità su questo aspetto specifico, ottenendo finalmente una differente pronuncia della Consulta o, a un livello superiore, della CEDU.
Iole Natoli, scrittrice e cineasta Noi donne 7 dicembre 2022
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MINORI
Il dovere di costruire la felicità dei bambini
Uno sguardo d’insieme, attingendo da varie scienze, sul significato profondo di ciò che costituisce la felicità dei e per i bambini
1. La felicità con i bambini. Sin dal 2012 l’ONU pubblica un Rapporto annuale sulla felicità nel mondo e ha istituito la Giornata internazionale della felicità il 20 marzo di ogni anno “consapevole di come la ricerca della felicità sia uno scopo fondamentale dell’umanità, […] riconoscendo inoltre la necessità di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone” (Assemblea generale delle Nazioni Unite, Risoluzione A/RES/66/281).
“L’idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra […]. Raramente pensiamo alla felicità quando votiamo o mandiamo un figlio a scuola, ma solo quando comperiamo cose inutili, e pensiamo in tal modo di aver soddisfatto il nostro diritto al perseguimento della felicità” (Umberto Eco in “Il diritto alla felicità”). Il diritto alla felicità comincia dall’infanzia, è l’infanzia stessa, come espresso sin dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959.
Lo psichiatra ungherese Sandor Ferenczi scriveva nel 1932: “Se ai bambini che attraversano la fase della tenerezza si impone più amore o amore di altre specie di quello che essi desiderano, ciò può avere conseguenze altrettanto patogene della frustrazione amorosa”. I bambini non devono essere né asfissiati né adorati né abbandonati a se stessi. Hanno bisogno di amore equilibrato e di equilibrio nell’amore. Non a caso nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge che “il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione”, ove l’amore è collocato tra felicità e comprensione. Quell’amore annoverato nei vari decaloghi dei diritti o dei bisogni o dei desideri dei bambini, come formulati dagli esperti, tra cui il formatore montessoriano tedesco Claus Dieter Kaul che al n. 1 del suo decalogo ha scritto: “Dateci amore. Concepiteci per amore, chiamateci alla vita per il desiderio di esprimere la vita. Solo l’amore consente, infatti, di crescere provando l’amore per la vita, per gli altri, per gli animali, per il sapere, per le regole e per il rispetto”.
Lo psicoterapeuta Alberto Pellai scrive: “[…] la formula della felicità non si basa solo su mille attività coinvolgenti e un amore incondizionato […]. Secondo gli autori del best seller “Il metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni” (Newton Compton) la felicità da bambini può essere conquistata solo grazie a sei ingredienti:
[…] Per diventare sorridenti ci vuole leggerezza e divertimento: ci si fa le coccole, ci si rincorre e si gioca a nascondino, si va alla scoperta del mondo, insomma si diventa complici nell’allegria. È questa “intimità allegra” […] che va conquistata”.
Oggi si assiste alla “mediatizzazione dell’esperienza e delle relazioni. […] la cosiddetta rivoluzione digitale, nel giro di pochi decenni, ha modificato profondamente istituzioni sociali e apparati economici su scala globale tanto quanto molte delle nostre abitudini quotidiane più familiari” (il sociologo Piermarco Aroldi nel Rapporto Cisf 2017). Nonostante la mediatizzazione dell’esperienza e delle relazioni non si deve dimenticare e trascurare che il bambino ha necessità di poche, semplici, dirette, naturali cose, quali il con-tatto, lo sguardo, l’ascolto, l’attenzione, anche il diniego. I bambini non hanno bisogno che si diano loro cose materiali (tante, troppe!) ma che si preservi in loro la felicità che sono capaci di suscitare, provare e trovare nelle cose più semplici e naturali. Per esempio la motricità nei bambini è fondamentale perché è fonte di felicità e potenzia ogni capacità.
“[…] cosa sarebbe la vita senza il gioco? Ne hanno bisogno i bambini per crescere e i grandi per trovare un po’ di serenità. Ma giocare per i soldi può diventare una dipendenza che fa male, perché rinchiude in una visione miope della felicità, legandola alla facile ricchezza. Nel gioco d’azzardo si perde sempre. Si perdono l’autostima, la speranza e, spesso, anche i beni di famiglia” (cit.). Bisognerebbe educare e educarsi al gioco data la rilevanza, plurivalenza e insostituibilità del gioco da bambini e a tutte le età e per non andare incontro, poi, a dipendenze (per es. da videogiochi) o alla ludopatia. Dovrebbero riflettere in particolare i genitori italiani che, a livello europeo, sono quelli che dedicano meno tempo al gioco con i figli, appena 15 minuti al giorno.
Il pedagogista Daniele Novara precisa: “La condivisione nel contatto affettivo è sempre, e non solo da piccoli, lo strumento che consente di attivare tutte le proprie risorse e di trovare il coraggio necessario per affrontare le loro [dei bambini] inevitabili paure”. Gli abbracci, il contatto fisico stimolano gli “ormoni della felicità”, per cui giovano alla salute e alla speranza, fiducia, progettualità. “La promozione della salute sostiene lo sviluppo individuale e sociale fornendo l’informazione e l’educazione alla salute, e migliorando le abilità per la vita quotidiana. In questo modo, si aumentano le possibilità delle persone di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e sui propri ambienti, e di fare scelte favorevoli alla salute” (dal paragrafo “Sviluppare le abilità personali” della Carta di Ottawa per la promozione della salute). I genitori, perciò, sono anche promotori della salute.
Il sociologo Francesco Belletti spiega: “Le rilevanti trasformazioni oggi riscontrabili per la paternità (e per la genitorialità in senso lato) devono fare i conti con la riscoperta del valore del concetto di “legame”, nelle relazioni familiari, di fronte ad una progressiva individualizzazione narcisistica dei progetti di vita. Senza il desiderio consapevole di “costruire la propria felicità attraverso i legami”, anche le responsabilità paterna e materna diventano obiezione alla propria autorealizzazione, anziché entusiasmante esperienza di cura, dono circolare e crescita della propria personalità”. La genitorialità, tanto nella maternità quanto nella paternità, non è: realizzazione di sé, soddisfazione di un proprio bisogno o desiderio, completamento di un proprio vuoto o altro ancora che riguardi la propria persona o qualche caratteristica del proprio partner, oppure, in senso negativo, per le donne deturpamento del corpo, del seno e successivamente corsa tra palestre e trattamenti estetici per riprendere la forma fisica e per gli uomini abbandono sgradito delle partite e dei ritrovi con gli amici o di altri interessi. Genitorialità è il superamento di sé e altro da sé. La genitorialità non è fonte di piacere personale ma fonte di felicità generale, anzi ha in sé il senso della felicità. Da tener conto della disciplina dell’art. 144 cod. civ. dove si parla di esigenze preminenti della famiglia e del Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia ove si legge che la famiglia è “ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli”.
La serenità e l’affiatamento tra i genitori è già la principale fonte di felicità per un bambino cui arriva tutto ciò dentro e vi rimane per sempre. In caso contrario, quando non esiste una sana coppia genitoriale, il bambino subisce dei veri danni.
“[…] pur nella desolazione, ci sarà sempre un bambino che speranzoso ci guarderà, attendendosi qualcosa” (lo scrittore Bruno Ferrero). Quando la coppia è in crisi dovrebbe superare i propri limiti ed egoismi e guardare negli occhi i figli il cui sguardo è depositario delle vere emozioni e delle più genuine soluzioni che portano all’agognata felicità. Quando nell’art. 18 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si dice che “Nell’assolvimento del loro compito essi [i genitori] debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo”, l’interesse superiore non è riferito solo nei rapporti con gli altri ma anche a ciò che c’è in mezzo (“inter”) tra i genitori stessi e i figli. “I figli hanno il diritto alla spensieratezza e alla leggerezza, hanno il diritto di non essere travolti dalla sofferenza degli adulti. I figli hanno il diritto di non essere trattati come adulti, di non diventare i confidenti o gli amici dei loro genitori, di non doverli sostenere o consolare. I figli hanno il diritto di sentirsi protetti e rassicurati, confortati e sostenuti dai loro genitori nell’affrontare i cambiamenti della separazione” (punto n. 2 della Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, ottobre 2018).
Per crescere bisogna avere un buon esempio, qualcuno che indichi la strada e inciti a seguirla con libertà e gioia in modo tale che quando, da adulti, ci si gira verso il passato si trovi dietro alle spalle un bambino sereno che sorrida e che si sia rialzato da ogni caduta pur con le ginocchia sbucciate e le mani sporche. Per ogni bambino bisogna coniugare “felicità” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e “potenzialità” (dalla lettera a dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), perché ogni bambino è portatore di felicità e potenzialità.
I bambini non sono tanto il futuro quanto hanno diritto al futuro che non è astratto ma è sostanziato di diritto al presente, di diritto presente cominciando col far sentire presente ogni bambino dandogli ascolto e attenzione (che non è adorazione o devozione), innanzitutto in famiglia. Al n. 10 del Decalogo per proteggere i nostri bambini (2018), lo psicoterapeuta dell’età evolutiva Alberto Pellai ha scritto: “Diritto a un futuro. Ovvero uno spazio di progetto in cui dare senso alla loro fatica di crescere, alla loro motivazione a impegnarsi, a studiare, a fare fatica. In questi ultimi anni, chi cresce si sente già da piccolo derubato del proprio futuro. E di tutti i diritti negati, forse questo è quello che fa più male a chi è nato e sta crescendo nel terzo millennio”.
La felicità dei bambini si basa su una giusta protezione nel presente e una serena proiezione per il futuro, e uno strumento per trovare la strada e la misura è dato dal dialogo. Infanzia e felicità formano un binomio imprescindibile. L’infanzia: quella casetta che rimane sempre dentro la testa, dietro la testa e cui volgere lo sguardo quando tutto il resto sembra non andare per il verso giusto.
La sociologa Marina D’Amato afferma (nel libro “Ci siamo persi i bambini. Perché l’infanzia scompare”, 2014) che, “ancora prima che di attenzione il bambino è oggetto di preoccupazione”, cioè letteralmente si tende a occupare prima tutti gli spazi destinati al figlio fino all’età giudicata adatta alla sua uscita dall’orbita familiare, cioè persino verso i… cinquant’anni. La preoccupazione primaria è che il figlio non sia povero, che è la suprema sventura, dal he l’ascensore sociale in Italia si è fermato, cioè chi è povero sembra destinato a restarlo. E quella più allarmante è proprio la povertà educativa minorile (che secondo un’indagine demoscopica del 2019 è soprattutto causata dalla disattenzione dei genitori) che, a sua volta, in un vischioso circolo vizioso, incide direttamente sullo sviluppo del Paese.
Genitori: non solo dare la vita ma trasmettere il senso della vita, ovvero la felicità che è diffusiva e pervasiva come il sole che esiste anche dietro le nuvole o dall’altra parte della Terra quando gira.
2. La felicità per i bambini. Laddove si fa veramente famiglia c’è la felicità. Felicità è quotidianità, normalità (ovvero quella regolarità fatta anche di abitudini e orari da rispettare), umanità (e non solo device e mondi virtuali), domesticità, avere delle possibilità, essere ed esserci. Peccato che ci si accorga di ciò nell’infelicità! Perché “Può sembrare paradossale, ma per essere felici dobbiamo abbracciare l’infelicità: più cerchiamo di sfuggire dal dolore e dalla sofferenza, più cerchiamo di eliminarli dalla nostra vita, più li amplifichiamo” (lo psichiatra Tonino Cantelmi e lo psicoterapeuta Emiliano Lambiase in “Psicologia della compassione. Accogliere e affrontare le difficoltà della vita”).
Se ai bambini che attraversano la fase della tenerezza si impone più amore o amore di altra specie di quello che essi desiderano, ciò può avere conseguenze altrettanto patogene della frustrazione amorosa” e alle cose decisive” (cit.). Casa: calore, carezze, castità d’amore, candore dello sguardo, camere del cuore in cui ritirarsi e serbare ogni cosa, castelli di idee da progettare insieme, caselle in cui scrivere emozioni condivise, cassetti in cui conservare preziosità, cantiere di vita…
“Perché la felicità – secondo lo scrittore Alessandro D’Avenia – non sta nell’avere sempre successo, ma si ha successo perché si è felici. È felice in latino è l’aggettivo che si usava per indicare l’albero che porta frutto: e questo vuol dire accettazione della realtà. Da dove vieni, che limiti hai… ma nessuno direbbe che radici e terra siano limiti. Sono legami. E i legami, anche in ambito umano, sono proprio ciò che ci permette di dare frutto, di essere veramente liberi: scegliere per chi e per che cosa dare la vita senza illudersi di poter essere o fare qualsiasi cosa”.
“Nessuna generazione ha diritti di proprietà su quella a venire” (Thomas Paine, “I diritti dell’uomo”, 1791). I figli non sono una proprietà ma la prosperità della vita, come affermano pure alcuni genitori di bambini con disabilità che non riuscirebbero più a concepire la loro vita senza quei figli con quelle peculiarità perché rappresentano la loro ragione di vita e perché da loro hanno imparato il vero senso di felicità, l’autenticità della vita.
“Il bambino vuole imparare la saggezza del vivere, quella dignità che nessuna malattia o epidemia può strapparci via. A ogni passo il figlio apprende la lealtà, inorridisce per il cinismo ipocrita, respinge la vendetta del taglione, assapora doni e relazioni imprevisti («c’è un altro bambino come me; lo devo vedere; ne ho bisogno!»), dà credito alle promesse di una nuova famiglia, che decide di adottarlo proprio lì, ai confini della terra, dove cielo e mare si toccano” (il bioeticista Paolo Marino Cattorini sul film “The Road”, 2009). Ogni bambino ha diritto ad una famiglia che è il suo principale bisogno e sogno, che gli dia fiducia, forza, fantasia, felicità e futuro. Così la legge 4 maggio 1983 n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia” (come modificata dalla legge 28 marzo 2001 n. 149), cosiddetta nuova legge sull’adozione.
I bambini non danno la felicità ma sono la felicità perché sono frutto della fecondità della vita. Loro hanno diritto alla felicità che, spesso, è il contrario di quello che cercano, rincorrono, danno o distruggono gli adulti. “Felicità non vuol dire soddisfare ogni genere di desiderio, ma quei bisogni fondamentali che rendono la vita bella. Ed essa dipende dalla nostra capacità di relazione, dai valori della convivialità, della cultura” (cit.).
In passato bastava poco ai bambini (e non solo a loro) per assaporare la felicità: un paio di scarpe nuove. L’acquisto era atteso come un grande evento, la mamma andava a prendere il/la figlio/figlia da scuola senza alcuna formalità o autorizzazione per recarsi insieme al mercato del paese (e, poi, tornare a scuola), la scelta delle scarpe era mediata (o condizionata) dalla mamma, le scarpe erano almeno di un numero più grandi per poterle calzare anche l’anno dopo, le si inaugurava in un’occasione importante e le si metteva quasi esclusivamente la domenica e successivamente passavano al fratello o alla sorella minore… La famiglia deve (ha il dovere di) trasmettere la vera felicità fatta non di cose, del tutto, dell’avere ma dell’essere, dell’esserci, dello stare insieme, di riti, della condivisione delle opportunità e delle avversità che costituiscono la vita.
Lo scrittore Simone Perotti evidenzia: “Quante volte un ragazzino manifesta una propensione, magari verso un mestiere come il meccanico, il falegname, l’elettricista, e dai suoi genitori si sente rimbrottare: «Devi studiare. Laurearti. Trovare un lavoro in un’azienda o in un ente pubblico». Non sono consigli sbagliati, certo. Chi studia si evolve, come uomo e come lavoratore, e le sue chance aumentano. Ma il motivo di questa avversione non è univoco. Una delle leggi del decalogo è acquisire un ruolo sociale, «diventare qualcuno», e la via da percorrere per farlo non è casuale, ma segnata. Ci risulta, poi, che vi sia una corrispondenza direttamente proporzionale tra laurea e felicità? A me no. A scuola dovremmo già ragionare su quel che avverrà. Per tutta la vita saremo costretti ad affannarci per trovare un lavoro, fare soldi, garantirci le cose che ci servono e ci piacciono”. “Il bambino possiede in lui importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso” (dalla Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance, Parigi, giugno 2007). Ogni bambino è una risorsa della sua vita e per la vita; “risorsa” è ciò che risorge, che si tira fuori e, pertanto, va scoperta e non occlusa con il superfluo, troppi agi, congegni, omologazione, massificazione.
“Il bambino non è proprietà dei genitori, né della scuola, né dello Stato. Quando nasce ha diritto alla felicità. L’uomo libero non è proprietà di nessuno e non possiede nessuno” (il “maestro” Mario Lodi in un convegno internazionale del 1976) “[…] ogni bambino ha un diritto innato alla vita” (art. 6 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), è la vita stessa e ha bisogno solo di cura e non di essere soffocato o bloccato.
I bambini possiedono il segreto della felicità: aspettarsi altro e ancora, stupirsi, cogliere il bello.
Margherita Marzario, insegnante/docente/ricercatore universitario – 8 dicembre 2022
www.altalex.com/documents/news/2022/12/08/dovere-costruire-felicita-bambini
OMOFILIA
L’amore possibile. Il mondo dell’omosessualità e la Chiesa
Non esiste l’amore perfetto e non esistono situazioni personali uguali per tutti
“Di fronte alla sofferenza delle persone omosessuali lasciate ai margini delle nostre comunità ecclesiali «un pastore deve interrogarsi su come accompagnare, discernere e integrare tutti, nessuno escluso».
Lo sottolinea Marcello Semeraro, già vescovo di Albano, autore della prefazione al libro di don Aristide Fumagalli α1962 (teologo morale), “L’amore possibile. Persone omosessuali e morale cristiana” (Cittadella, Assisi).
Per la cronaca Marcello Semeraro è Presidente del quotidiano della CEI, Avvenire, e ha ricevuto la berretta cardinalizia da Papa Francesco, nel concistoro il 28 novembre 2020.
“Nessuno escluso”
Non sono un teologo, né un moralista, ma il libro in questione me lo sono letto tutto e secondo le mie possibilità vi lascio queste semplici riflessioni. Interessante come il vescovo Marcello Semeraro è l’autore della prefazione del libro in questione e più interessante ancora come in questa introduzione scrive con chiarezza: un pastore deve interrogarsi su come accompagnare, discernere e integrare tutti, nessuno escluso.
Mi sembra che il libro di Aristide Fumagalli sia un eccellente testo per riuscire a comprendere come accompagnare, discernere e integrare nelle nostre comunità il mondo lgbt. Il libro in questione non procede per slogan, per principi, ma propone un’analisi attenta della questione dal punto di vista biblico, della dottrina del magistero e della proposta di una prospettiva morale che parte da un principio fondamentale. Questo: Il giudizio morale non può essere astratto ma deve far riferimento alla condizione concreta delle persone e ai risultati scientifici.
Il giudizio morale non può essere astratto ma deve far riferimento alla condizione concreta delle persone. Il catechismo della chiesa cattolica, ricollegandosi alla Lettera della Congregazione per la dottrina della fede, La cura pastorale delle persone omosessuali (1986), definisce l’orientamento omosessuale intrinsecamente disordinato. Tuttavia lo stesso catechismo non rifiuta l’idea che l’orientamento sessuale possa corrispondere «all’identità personale della persona, esserle connaturale. Tant’è che non esige il cambiamento dell’orientamento omosessuale». Il testo non mette in atto nessun principio, nessun arbitrio, semplicemente “… l’interazione di fattori biologici, ambientali e personali» che rimandano a fattori complessi. Tanto «che non esiste sotto il profilo eziologico e strutturale una sola omosessualità̀, bensì̀ molteplici e diverse omosessualità̀».
www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19861001_homosexual-persons_it.html
Tensione verso l’ideale. Responsabilità. Mi sembra che possiamo così riassumere alcune questioni che il testo pone:
Mi sembra che possiamo concludere con questa osservazione. Questo è un testo audace, dove l’autore prende, con coraggio, una posizione chiara: «La questione morale riguardante l’amore omosessuale non e “se” sia possibile, ma “come” possa essere vissuto» (175).
Così rafforzando la convinzione di molti studiosi secondo cui il riconoscimento ecclesiale di questo «amore possibile» non sia questione di se, ma di quando.
Alessandro Sesana La barca e il mare dicembre 2022
{Sono anche da tenere presenti rischi biologici} www.pazienti.it/contenuti/condizioni/sesso-anale
SINODO CONTINENTALE
card. Hollerich (Ccee), “spero che ci aiuterà ad essere una Chiesa missionaria
“Spero, e non sono solo io, che il Sinodo ci aiuterà ad essere una Chiesa missionaria, perché abbiamo un declino del cristianesimo in Europa”. Lo ha detto il card. Jean-Claude Hollerich SI α1958 (Lussemburgo), vicepresidente del Ccee, presidente della Comece e relatore generale del Sinodo,
presentando oggi a Roma, presso la Sala Marconi della Radio Vaticana, l’Assemblea continentale del Sinodo, che per l’Europa vedrà riunirsi a Praga, dal 5 al 12 febbraio 2023, 200 delegati in presenza più 390 delegati “on line”. “Questo Sinodo non dovrebbe privarci dall’essere nuovi missionari”, ha proseguito il cardinale, secondo il quale “la missione della Chiesa è di proclamare Cristo, di proclamare il nostro impegno per la creazione, ma anche per la giustizia e la pace, e un impegno di tutto il popolo di Dio. Una Chiesa sinodale è prima tutto una Chiesa missionaria”. Nel suo intervento, il card. Hollerich ha notato che il lavoro fatto finora è stato un lavoro di ascolto. “Mi sento sempre consolato – ha detto – quando penso a quel tempo di preparazione. Un gruppo di uomini, donne, religiosi, vescovi, si incontrano e sanno che devono mettere da parte le loro idee e desideri per ascoltare quello che il popolo di Dio ha detto”. “Il frutto di questa lettura di discernimento è il documento che avete letto”, ha aggiunto il porporato: “Sono stato molto colpito da quanti punti in comune sono venuti dai differenti continenti. Lo avevo immaginato molto differente, pensavo che ci sarebbero stati problemi chiaramente europei, latinoamericani o asiatici. Naturalmente si sente il tocco della cultura e le relazioni hanno toni differenti, ma molto è in comune e ora questo documento deve essere letto in un atteggiamento di preghiera”. Hollerich ha inoltre rivelato di trovare “entusiasmante che il Papa voglia che viviamo davvero il Concilio Vaticano II e la Lumen Gentium”. “Non è un Sinodo sull’omosessualità o sulla poligamia”, ha precisato: “è un Sinodo che vuol essere fedele a ciò che la gente dice, ascoltandola e lavorando insieme per la Chiesa del futuro. Siamo Chiesa insieme: anche le tensioni sono necessarie, perché appartengono a questo processo. Non ci sono risposte pronte: è un unico processo di ascolto e discernimento, e il risultato dovrebbe essere qualcosa di nuovo, suggerito dallo Spirito”.
(M.N.) AgenziaSIR 14 dicembre 2022
www.agensir.it/quotidiano/2022/12/14/sinodo-card-hollerich-ccee-spero-che-ci-aiutera-ad-essere-una-chiesa-missionaria-di-fronte-al-declino-del-cristianesimo-in-europa
mons. Grušas (Ccee), a Praga con 200 i delegati dalle Chiese d’Europa, 390 delegati ”on line”
“Siamo consapevoli che questo Sinodo si celebra mentre in Europa sperimentiamo la tragedia della guerra. Sono passati quasi dieci mesi dall’inizio dell’attacco e, non solo, non è arrivato nessun cessate il fuoco ma il rischio di una escalation del conflitto è sempre più incombente: pensiamo al missile caduto in Polonia poco tempo fa”. Lo ha detto mons. Gintaras Grušas, α 1961) arcivescovo di Vilnius (Lituania) e presidente del Ccee, Consiglio Conferenze Episcopali Europee –
presentando oggi l’Assemblea continentale del Sinodo, che vedrà riunirsi a Praga, dal 5 al 12 febbraio le Chiese cattoliche che sono in Europa. La prima parte dell’Assemblea, dal 5 al 9 febbraio 2023– ha reso noto il presidente del Ccee – sarà un’assemblea ecclesiale e vedrà la partecipazione di 200 persone. Di queste, 156 sono i delegati delle 39 Conferenze episcopali, membri del Ccee: ogni delegazione nazionale è composta dal presidente della Conferenza episcopale e da altri 3 delegati, rappresentanti di tutto il popolo di Dio. 44 saranno gli ospiti invitati direttamente dalla presidenza del Ccee, quali esponenti delle realtà ecclesiali più rappresentative a livello europeo. Parteciperanno ai lavori anche alcuni delegati fraterni di altre confessioni cristiane. Inoltre, per consentire una partecipazione ai lavori più ampia possibile, 390 delegati online si aggiungono ai 200 delegati in presenza. Gli ultimi due giorni, dal 10 al 12 febbraio, si incontreranno solo i presidenti delle Conferenze episcopali.
“La morte delle persone non può essere mai considerata un effetto collaterale della guerra”, ha affermato Grušas riferendosi alla purtroppo tragica attualità: “Ancora una volta, condanniamo con fermezza l’invasione armata dell’Ucraina e chiediamo ai Responsabili delle Nazioni di lavorare al dialogo politico che metta fine a questo conflitto”. Per i giorni dell’evento, insieme all’Ucesm (Unione delle Conferenze europee dei/lle Superiori/e maggiori), sono state invitate le comunità di vita contemplativa di tutta Europa a unirsi ai delegati noi, in modo particolare con l’adorazione silenziosa continua. “Di fronte alla guerra, i Paesi europei hanno risposto con una rete di solidarietà incredibile, a testimonianza che la persona e la dignità umana sono ancora un valore inestimabile”, ha proseguito il presidente del Ccee, secondo il quale “non si tratta semplicemente della risposta a un’emergenza imposta dalla guerra: noi sappiamo che questo è lo spirito di solidarietà dei popoli europei. Una solidarietà che scaturisce, nella maggior parte dei casi, dall’idea che ogni uomo è fatto ad immagine di Dio, e per questo va accolto, protetto, aiutato. L’Europa vive e respira questa idea profonda in cui trovano cittadinanza le radici cristiane dell’Europa. L’Europa è ancora cristiana, anche quando non sa di esserlo. A noi il compito di proclamare, ancora una volta, che Cristo è la speranza dell’Europa e del mondo intero”.
(M.N.) Agenzia SIR 14 dicembre 2022
www.agensir.it/quotidiano/2022/12/14/sinodo-mons-grusas-ccee-a-praga-dal-5-al-12-febbraio-200-delegati-dalle-chiese-deuropa-390-delegati-on-line
SINODO IN ITALIA
Pompei, incontro tra vescovi campani e referenti diocesani
Nel pomeriggio del 12 dicembre i vescovi della Conferenza episcopale campana (Cec) hanno incontrato, presso la sede della Conferenza episcopale regionale a Pompei, i referenti diocesani del cammino sinodale. “Esperienza forte di preghiera, di dialogo, condivisione, ascolto tra un laicato fortemente motivato e i pastori delle Chiese della Campania – si legge in una nota diffusa oggi -.L’ascolto e il dialogo vicendevole hanno registrato, innanzitutto, i segnali positivi di una risposta all’appello di mettersi insieme in cammino. Nella Regione i cantieri di Betania hanno prodotto interesse e hanno suscitato nuovi laboratori di incontro e di ascolto: la questione ambientale, il dialogo come via di crescita, la pietà popolare, la legalità, il mondo dei giovani”.
Pastori e referti hanno ancora una volta riaffermato “la necessità di non vivere il cammino sinodale come strategia o rifacimento esteriore di vecchi modi di governare, piuttosto come vera proposta di una nuova esperienza di Chiesa”.
Non poteva mancare, ricorda la nota, “il racconto della Chiesa di Ischia, duramente provata dalla tragedia dei movimenti franosi e dalla perdita di vite umane, in quel contesto il camminare insieme è diventato aiuto, sostegno e solidarietà”.
Da più parti è stato condiviso “il rinnovato appello dei giovani per una Chiesa più prossima alle loro attese, con un linguaggio comprensibile e senza pregiudizi”.
Il presidente della Conferenza episcopale campana, mons. Antonio Di Donna, α1952
ha poi concluso con una riflessione sulla “Chiesa per essere ancora casa accogliente”, sottolineando che “lo sforzo di rivitalizzare gli organismi ordinari di comunione e di partecipazione” può essere “il segno di una rinnovata sinodalità”. Inoltre, ha ricordato che “è urgente abitare il presente con i suoi limiti, ma anche con le sue opportunità, senza essere ossessionati dai risultati”. “Ciò che sta emergendo con forza è la questione giovanile, il recupero del dialogo con categorie professionali e gruppi di persone, con i quali è necessario non perdere di vista la radicale questione del nostro tempo: l’impegno dell’evangelizzazione, l’amore e la prossimità di Dio e la Chiesa come luogo per fare esperienza dell’unità e della comunione”, conclude la nota..
(G.A.) Agenzia SIR 14 dicembre 2022
Il cammino sinodale di una Chiesa italiana immobile
Qui l’introduzione a questo testo Stiamo sperimentando la bellezza di uno “stile di vita sinodale”; ma si fa sentire anche la fatica a realizzarlo. […] È stata evidenziata una situazione in chiaroscuro: lo “stile sinodale” non può dirsi ancora pienamente entrato nello spirito e nell’azione pastorale delle nostre comunità; permangono ancora divisioni tra parrocchie, e tra clero e laici. Molto spesso non vi è un “noi”, ma un “noi” ed un “voi”.
Questo mina la stessa credibilità della testimonianza delle nostre comunità. Pur tuttavia, non vi è solo il negativo: bisogna anzi riconoscere che a partire dal Sinodo questo “stile comunionale” è più presente, e oggi vi è una maggiore consapevolezza che esso è essenziale per potersi dire autentiche comunità cristiane». Questo brano potrebbe appartenere a uno dei documenti dell’attuale sinodo 2021-2023 (o prolungato al 2025?) che sempre più numerosi si affastellano, tra preparatori, assembleari e di sintesi. Il tono e il concetto non stonerebbero. Si tratta invece della lettera pastorale per l’Avvento che un fedele poteva leggere già nel 2009 (Lettera pastorale per l’Avvento 2009 di mons. Gennaro Pascarella, vescovo di Pozzuoli, Gesù Cristo: Via, Verità e Vita. Tema del nostro pensare, argomento del nostro parlare, motivo del nostro vivere). Oggi, nella sintesi nazionale italiana della fase diocesana del sinodo leggiamo: «Non va sottaciuta la fatica a suscitare un coinvolgimento cordiale di una porzione non trascurabile del clero, che ha visto il Cammino sinodale con una certa diffidenza. In alcuni passaggi, inoltre, non è risultata scontata la sintonia tra le modalità ordinarie di esercizio del ministero episcopale e l’assunzione di uno stile pienamente sinodale, a cui il Cammino punta».
Cosa cerco di dire? È che mi sto permettendo il semplice rimprovero che si stia allo stesso punto da molti anni, che si giri la stessa ruota, che – nella maniera indimenticabile con cui Madame de Staëlrampognava i neoclassicisti – si vada «razzolando nelle antiche ceneri». È un rimprovero che i miei orizzonti limitano all’operato italiano, il quale, com’è stato già rilevato, per ora si limita a raccogliere posizioni e condizioni già ampiamente note, vissute e prevedibili dal corpo della nostra Chiesa nazionale, senza peraltro garantire percorsi concretamente risolutivi, riavvicinamenti alla vite reali delle persone, un «progetto di proposta missionaria futura», e nemmeno un superamento delle difficoltà di organizzazione interne.
Se ci guardiamo attorno, altre comunità cattoliche dimostrano una capacità di dialogo tra popolo di Dio e episcopato molto più facile, innovazione e coraggio nel fare i conti con i propri traumi, comprensione nell’accompagnare l’ascolto del sensus fidei con progetti di riforma effettivi. La Chiesa francese, con la sua commissione indipendente sugli abusi sessuali, non ha solo fatto una scelta di autenticità e di credibilità, ma ha fornito alla Chiesa universale un modello e degli strumenti per la comprensione profonda e non meramente superficiale e moralistica dei rapporti personali, dei ruoli ecclesiali e dell’esercizio del potere . La Chiesa tedesca ha individuato con immediatezza nuclei di riflessione e di riforma, senza vergognarsi di immaginare una Chiesa futura strutturalmente diversa da quella presente, nella partecipazione femminile, nella morale sessuale, nel sacerdozio, nella corresponsabilità nella guida della comunità.
In Italia la sensazione è di un corpo ecclesiastico che tenti di passare il più indenne possibile la fiumana degli stimoli pontifici. Certo, non è solo l’Italia a presentare contraddizioni e resistenze, ma rimane notevole l’apparente inerzia con cui si fa smuovere il meno possibile. La fatica ecclesiale e politica dei cattolici si avverte anche nel documento della fase diocesana del sinodo, da poco pubblicato. I cattolici, ricevuta la parola, non vanno al di là di una forse in fondo corretta descrizione dello stato delle cose e dei suoi punti più critici, ma senza afflato operativo, apostolico. È la fatica, la spossatezza comune con cui si arriva a questo momento.
Tutto il potere alla gerarchia. Nonostante qualche timida lettura positiva, la sintesi presentata dalla Cei ad agosto si limita a presentare diligentemente le difficoltà note a tutti e ormai non oscurabili, e le diluisce in dieci parole-chiave. D’altra parte, si guarda bene dal virare con decisione su punti forti di riforma, che invece dovrebbero logicamente sorgere da un quadro tanto problematico. Nell’episcopato italiano alcuni di questi possibili punti sono accennati con il preciso scopo di depotenziarli, o non sono citati affatto. D’altra parte già il Documento preparatorio del sinodo correva a rassicurare: «I Pastori, costituiti da Dio come “autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la Chiesa”, non temano perciò di porsi all’ascolto del Gregge loro affidato: la consultazione del Popolo di Dio non comporta l’assunzione all’interno della Chiesa dei dinamismi della democrazia imperniati sul principio di maggioranza, perché alla base della partecipazione a ogni processo sinodale vi è la passione condivisa per la comune missione di evangelizzazione e non la rappresentanza di interessi in conflitto. In altre parole, si tratta di un processo ecclesiale che non può realizzarsi se non “in seno a una comunità gerarchicamente strutturata”. È nel legame fecondo tra il sensus fidei del Popolo di Dio e la funzione di magistero dei Pastori che si realizza il consenso unanime di tutta la Chiesa nella medesima fede. Ogni processo sinodale, in cui i Vescovi sono chiamati a discernere ciò che lo Spirito dice alla Chiesa non da soli, ma ascoltando il Popolo di Dio, che “partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo” (LG, n. 12), è forma evidente di quel “camminare insieme” che fa crescere la Chiesa».
Questo passo si confortava del pronunciamento della commissione teologica internazionale: «La seconda precisazione riguarda la funzione di governo propria dei Pastori. Non si dà esteriorità né separazione tra la comunità e i suoi Pastori – che sono chiamati ad agire in nome dell’unico Pastore –, ma distinzione di compiti nella reciprocità della comunione. Un sinodo, un’assemblea, un consiglio non può prendere decisioni senza i legittimi Pastori. Il processo sinodale deve realizzarsi in seno a una comunità gerarchicamente strutturata. In una Diocesi, ad esempio, è necessario distinguere tra il processo per elaborare una decisione (decision-making) attraverso un lavoro comune di discernimento, consultazione e cooperazione, e la presa di decisione pastorale (decision-taking) che compete all’autorità del Vescovo, garante dell’apostolicità e cattolicità. L’elaborazione è un compito sinodale, la decisione è una responsabilità ministeriale. Un pertinente esercizio della sinodalità deve contribuire a meglio articolare il ministero dell’esercizio personale e collegiale dell’autorità apostolica con l’esercizio sinodale del discernimento da parte della comunità».
L’invito è chiaro: al di là dell’appello all’ascolto e alla comunione spirituale, che in quanto tali rimangono nella disposizione individuale, la gerarchia può lasciarsi coinvolgere senza timore dal sinodo, perché i dispositivi giuridici e istituzionali rimangono di suo esclusivo appannaggio. Non è un discorso interno all’episcopato italiano, che pure non ha mancato di accoglierlo, ma internazionale, il quale non si è limitato a questo ma ha colto l’occasione per segnare la differenza e il distacco tra processo sinodale e la moderna democrazia rappresentativa. Nella sintesi italiana, con ogni evidenza di mano presbiterale, inevitabilmente ritroviamo: «In ordine alla corresponsabilità, si registra poi il mancato o inefficace funzionamento degli organismi di partecipazione: diverse comunità ne sono prive, mentre in molti casi sono ridotti a una formalità, a giustificazione di scelte già definite. Perciò se ne invoca il rilancio come spazi di concreta esperienza della corresponsabilità ecclesiale, lo sviluppo di leadership allargate e l’acquisizione di uno stile sinodale in cui le decisioni si prendono insieme, sulla base dell’apporto di ciascuno a comprendere la voce dello Spirito, nella chiave del discernimento e non della democrazia rappresentativa».
Queste espressioni forniscono gli strumenti culturali per evitare una riflessione su una corresponsabilità ecclesiale condotta a coerenza fino in fondo, che richiederebbe una redistribuzione nei poteri di governo della Chiesa tra consacrati e laici, sulla base delle competenze e dei ruoli invece che di sottintese ma sempre vigenti precedenze sacrali e addirittura, senza dirlo troppo, “ontologiche”. Riflessioni di questo tipo non sono assenti ma per la costruzione di cui sopra vanno riconosciute ai margini della discussione sinodale.
Vade retro democrazia! La visione peggiorativa della democrazia rappresentativa, come luogo di conflitti e di interessi, da una parte esclude a priori dalla Chiesa un elemento fondamentale del mondo contemporaneo, che permette di incanalare la violenza del confronto in un processo di avvicinamento e ricomposizione in nome del bene collettivo. Impedisce così di vedere nella democrazia una potenzialità sinodale che pure esiste, al contempo dà una priorità gerarchica al cammino ecclesiale, dove quindi di fatto non solo non vi saranno eguali ma neppure pari. D’altra parte quindi costringe il credente a una vera condizione di nevrosi, perché invitato a conformarsi all’ubbidienza gerarchica nella vita ecclesiale, mentre è spinto alla costruzione del bene comune nell’agone civile democratico, di cui anzi è ritenuto, secondo la vecchia dottrina del cattolico come miglior cittadino, il più dotato edificatore. La soluzione a una discrasia così lampante non può che essere una ricomposizione del Corpo Mistico fuori dall’orizzonte gerarchico.
Sia detto qui per inciso, un problema culturale così rilevante trova parte delle sue ragioni nell’egemonia nel pensiero della Chiesa di discipline astrattive quali la teologia, la filosofia e le scienze sociali. Ritengo scontato che non sia emerso dal territorio, ma una più stretta aderenza al pensiero storico-critico porrebbe la Chiesa in grado di dismettere rappresentazioni mistificatorie e prescindenti dalla successione spazio-temporale, e accettare finalmente in tutta la sua misura la propria condizione temporale e esistenziale, di piena incarnazione. È noto che l’intelligenza storico-critica e filologica è uno spauracchio della gerarchia, perché ne vede minate basi narrative e valoriali del proprio apostolato18 sarebbe tuttavia una coraggiosa compagna di verità umana e di fede: fu clamoroso l’articolo di Benedetto XVI apparso su Klerusblatt nel 2019, sulla Chiesa e gli scandali sessuali. Prescindendo da qualunque fonte e attendibilità storica, ma in piena adesione con uno schema ideologico oppositivo alla modernità, per il pontefice emerito i casi di pedofilia nella Chiesa sarebbero stati da collegarsi alla liberazione sessuale che negli anni Sessanta penetrò anche nei seminari, dove si formarono gruppi di pressione omosessuali. La morale sessuale, per esempio, praticamente assente nella sintesi italiana ma in realtà grande divaricatrice tra prassi sapienziale del popolo di Dio e dottrina, riceverebbe grande sollievo da studi filosofici vecchi e nuovi e dagli apporti storiografici.
L’incapacità o la riottosità a concedere reali margini di mutamento è visibile, nella sintesi della fase diocesana, nel modo aleatorio e non specifico in cui si parla della parrocchia – non ci si domanda neppure se è un formato territoriale ancora sufficiente –: sulla partecipazione femminile c’è solo un vago riferimento alla “corresponsabilità”, parola passe-partout (corresponsabilità dei laici), mentre non è minimamente presente una pur logica considerazione sul potere, sul dialogo e sull’inclusione: quali percorsi, quale accoglienza, quali strumenti?
Il silenzio sugli abusi. È un altro però il punto sconcertante a dimostrazione della precisa inclinazione sacerdotale verso il sinodo. Laddove altre Chiese nazionali hanno favorito un reale percorso di riconoscimento, ricostruzione, comprensione, penitenza e ascolto sul tema degli abusi – che, come gli studi, le inchieste e gli addetti ecclesiali ripetutamente dimostrano, è l’unico modo per concedere alla Chiesa e alle persone una via d’uscita a memorie e identità altrimenti irrimediabilmente corrotte – nel comunicato finale (p. 5) dell’Assemblea Generale della Cei del 23-27 maggio 2022 troviamo: «I Vescovi hanno anche deciso di realizzare un primo Report nazionale sulle attività di prevenzione e formazione e sui casi di abuso segnalati o denunciati alla rete dei Servizi diocesani e interdiocesani negli ultimi due anni (2020-2021). I dati saranno raccolti e analizzati da un Centro accademico di ricerca. I report avranno poi cadenza annuale e costituiranno uno strumento prezioso per migliorare, in termini di qualità ed efficacia, l’azione formativa dei Servizi e quella di accoglienza e ascolto dei Centri. Daranno poi un segnale di trasparenza, dal momento che saranno resi pubblici. Le Chiese che sono in Italia hanno accolto così l’invito rivolto da Papa Francesco alla Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, che ha chiesto “un rapporto sulle iniziative della Chiesa per la protezione dei minori e degli adulti vulnerabili”. Quello che scaturirà sarà un monitoraggio permanente dei dati, via via raccolti, e dell’efficacia delle attività messe in campo. Grazie a un nuovo spazio di collaborazione aperto negli ultimi mesi con la Congregazione per la Dottrina della Fede, sarà possibile poi conoscere e analizzare, in modo quantitativo e qualitativo, i dati custoditi presso la medesima Congregazione, garantendo la dovuta riservatezza. Tali dati fanno riferimento a presunti o accertati delitti perpetrati da chierici in Italia nel periodo 2000-2021. L’analisi verrà condotta in collaborazione con Istituti di ricerca indipendenti, che garantiranno profili scientifici e morali di alto livello, e consentirà di pervenire a una conoscenza più approfondita e oggettiva del fenomeno. Ciò permetterà di migliorare le misure di prevenzione e contrasto, di accompagnare con più consapevolezza le vittime e i sopravvissuti e di affinare i criteri per altre ricerche».
Accanto al lodevole impegno di estendere capillarmente centri di ascolto e di prevenzione con figure professionali, la Cei dimostra di non riuscire a superare l’inibizione ecclesiocentrica che ha condotto all’insabbiamento pluridecennale degli abusi in nome del bene superiore della Chiesa, anche davanti a quello delle persone, in quanto istituzione millenaria custode della salvezza ultraterrena. La pubblicazione di un report sugli abusi limitato agli ultimi due anni, la «riservatezza» sui dati forniti fino al 2000 (dovuta a chi?) dimostrano, accanto alla volontà di intervenire per il futuro, il desiderio di appianare il passato prima possibile celandolo dietro una coltre istituzionale, piuttosto che risolverlo in una liberazione della memoria certamente dolorosa ma concludente.
Analogamente nella sintesi della fase diocesana del sinodo: «Con chiarezza le Chiese che sono in Italia hanno messo in luce la necessità di porsi in ascolto dei giovani, che non chiedono che si faccia qualcosa per loro, ma di essere ascoltati; delle vittime degli abusi sessuali e di coscienza, crimini per cui la Chiesa prova vergogna e pentimento ed è determinata a promuovere relazioni e ambienti sicuri nel presente e nel futuro; delle vittime di tutte le forme di ingiustizia, in particolare della criminalità organizzata; dei territori, di cui imparare ad accogliere il grido, grazie all’apporto di competenze specifiche e all’impegno di “stare dentro” a un luogo e alla sua storia. L’ascolto chiede di far cadere i pregiudizi, di rinunciare alla pretesa di sapere sempre che cosa dire, di imparare a riconoscere e accogliere la complessità e la pluralità. […] La partecipazione e la corresponsabilità hanno bisogno della linfa vitale di una comunicazione trasparente, della condivisione delle informazioni e della cura nel coinvolgere i diversi soggetti parte nei processi. Proprio la mancanza di trasparenza, secondo alcuni, ha favorito insabbiamenti e omissioni su questioni cruciali quali la gestione delle risorse economiche e gli abusi di coscienza e sessuali».
Si accetta di lavorare «nel presente e nel futuro» ma il passato non è nominato, e gli abusi sessuali sono messi in parallelo con quelli «di coscienza», secondo la morale tradizionale che vede più grave la corruzione spirituale che quella fisica; inoltre vi è davvero poco spazio tra la nominazione degli abusi e il passaggio a «tutte le forme di ingiustizia», esterne alla Chiesa. Un tic sintattico che ha il suo significato. Gli abusi sono poi di nuovo nominati – per la seconda e ultima volta – a proposito della comunicazione. La poca trasparenza di questa, «secondo alcuni» – quindi persino su questo vi è una presa di distanza – ha causato problemi su «questioni cruciali» come gli scandali economici e gli abusi – anche qui appaiati a quelli di coscienza e messi in coordinato con problemi di altro ordine come quelli economici.
Se altre Chiese nazionali hanno fatto dell’indagine sugli abusi sessuali uno dei pilastri per il riconoscimento dell’urgenza del cammino sinodale, mirato a modificare e in fretta, il documento italiano dedica solo due spazi alla parola «abusi», diluendola sintatticamente con questioni di altro ordine, ostentatamente disinteressandosi della questione del passato, della memoria, della storia. C’è solo da sperare – la speranza è virtù teologale; ma, restando gli uomini con le loro inclinazioni culturali e di governo, non si sa bene cosa.
Marco Tarallo Adista Documenti n° 43 del 17 dicembre 2022
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