NewsUCIPEM n. 809 – 7 giugno 2020

NewsUCIPEM n. 809 – 7 giugno 2020

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

ucipemnazionale@gmail.com                                                           

 “Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento online. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse, d’aggiornamento, di documentazione, di confronto e di stimolo per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:

  • Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
  • Link diretti e link per download a siti internet, per documentazione.

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

Il contenuto delle news è liberamente riproducibile citando la fonte.        

In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviate una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.com con richiesta di disconnessione.

Chi desidera connettersi invii a newsucipem@gmail.com la richiesta indicando nominativo e-comune d’esercizio d’attività, e-mail, ed eventuale consultorio di appartenenza.               [Invio a 1.391 connessi]

 

 Carta dell’UCIPEM, Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979.

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.                     

 

02 ADDEBITO                                                    Separazione per tradimento: prove

03 AFFIDAMENTO CONGIUNTO               Che differenza c’è tra affidamento e collocazione?

05 AFFIDO                                                         Ogni anno 2000 minori vannofuori famiglia. Il 20% va in affido

06 ASSEGNO DIVORZILE                               Matrimonio breve: assegno di mantenimento

10                                                                          Assegno di divorzio, che succede se lei eredita e lui si risposa

10 ASS. CONSULENTI CONIUGALI            Webinar su Consulenza Familiare a distanza. Aperte le iscrizioni.

11 BIOLOGIA                                                    Nei primi mille giorni di vita la salute del futuro adulto

11 CENTRO INTER.STUDI FAMIGLIA       Newsletter CISF – n. 22, 3 giugno 2020

14 CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA     Educazione sessuale e Oms. Quali regole?

15                                                                          La rivoluzione asessuale: da cosa nasce? Cosa significa?

16                                                                          Viagra Rosa

17 CHIESA CATTOLICA                                  Allontanamento di Enzo Bianchi da Bose

17                                                                          Il nostro cammino         

18                                                                          Il caso Bose. Intervista a Riccardo Larini

20                                                                          Bose: verso la soluzione

22                                                                          Per Bose questi sono i giorni della tribolazione e della prova

23                                                                          Pensando a Bose e alla Chiesa

25                                                                          Autorità-libertà all’eccesso: generazione monastica-il caso Bose

27                                                                          Bose, un “bene comune” ecclesiale

28                                                                          Perché mi è cara Bose

29                                                                          Volti di Chiesa nei giorni della pandemia

30 COMM. ADOZIONI INTERNAZ.            Webinar per la presentazione del nuovo ciclo di formazione CAI

31 CONIUGI                                                      È obbligatorio comunicare i propri redditi al coniuge?

32                                                                          Ricatti economici del marito: come difendersi

34 CONSULTORI UCIPEM                            Roma1. Centro La Famiglia, ripartono le consulenze in presenza

35                                                                          Viadana. Per una ripartenza serena, il consultorio in prima linea

33 CONVIVENZA                                             Come provare la convivenza di fatto

37 DALLA NAVATA                                         Santissima Trinità –  Anno A – 7 giugno 2020

37                                                                          Trinità: Dio è legame, comunione abbraccio                                     

38 FORMAZIONE                                            Corso per Conduttori di Gruppi di Parola – Milano

38 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI    La Germania investe sulla famiglia. E l’Italia? Sogna il Family act

39 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA        La svolta di papa Bergoglio       

40                                                                          Papa coraggioso

41                                                                          “La chiesa di Francesco è politica, non politicante”.

43 MOGLIE                                                        Moglie casalinga: ha diritto a parte dello stipendio del marito?

44 OMOFILIA                                                   Un reportage sui “Cattolici LGBT+. Una mano tesa alla chiesa”

45                                                                          Secondo natura? Neuroscienze e orientamento sessuale

45 POLITICHE DELLA FAMIGLIA                 Family Act. Un modello per l’Italia che va oltre il Covid

47TEOLOGIA                                                     Insieme alla tavola del Signore

49 UTERO IN AFFITTO                                   Commercio di esseri umani che calpesta la dignità della persona

51                                                                          Far west della surrogata: ora l’Ucraina fa autocritica

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ADDEBITO

Separazione per tradimento: prove

Come dimostrare al giudice un’infedeltà coniugale? Nella causa contro l’ex coniuge, con quali prove si può ottenere la separazione per tradimento? La legge elenca le prove tipiche del processo civile: le testimonianze, i documenti e la confessione. Ma se ci dovessimo limitare a tale elenco, sarebbe difficile dimostrare l’adulterio. Si tratta infatti di un comportamento compiuto in segreto, al riparo da occhi indiscreti, del quale non viene lasciato nulla di scritto e che quasi mai viene confessato. C’è però una zona grigia nella quale si inseriscono una serie di elementi: gli indizi (un colletto di camicia sporco di rossetto, la prenotazione di una stanza d’hotel), le chat e gli sms, le email, le fotografie di un detective privato.

1)      Cosa comporta un tradimento? Il tradimento non dà diritto al risarcimento del danno, né al mantenimento. Il nostro ordinamento, infatti, non collega delle generali sanzioni al tradimento. Dall’infedeltà scaturiscono solo due conseguenze nell’ambito dell’eventuale causa tra coniugi:

  • La perdita del diritto all’assegno di mantenimento;
  • La perdita del diritto all’eredità del coniuge.

Così, un coniuge che non vuole versare gli alimenti all’altro o non vuole lasciargli in eredità il proprio patrimonio, può scampare a entrambe le conseguenze dimostrandone l’adulterio. Attenzione però: la perdita del diritto all’eredità del coniuge scatta comunque – e a prescindere dall’adulterio – con il divorzio. La possibilità quindi che l’ex coniuge succeda all’altro è limitata solo nell’ambito del periodo di separazione e sempre che, appunto, non vi sia stato un tradimento.

Quando il giudice accerta che il matrimonio è finito a causa di un tradimento, dichiara il cosiddetto addebito, ossia addossa la responsabilità per la fine dell’unione in capo al coniuge fedifrago. Dall’addebito derivano appunto la perdita del diritto al mantenimento e alla successione ereditaria. Ma se il coniuge tradito non ha diritto al mantenimento perché titolare di un reddito pari o superiore a quello dell’ex, la battaglia sull’addebito è del tutto inutile.

2)      Perché dimostrare un tradimento? Prima di parlare delle prove da portare al giudice in caso di separazione per tradimento è bene domandarsi se valga davvero la pena intentare un giudizio di questo tipo. L’infedeltà brucia, l’orgoglio è leso, ma non sempre il gioco vale la candela: perdere tanti anni in una causa rivolta ad accertare l’adulterio potrebbe avere un’utilità assai ridotta. A tal fine, è bene ricordare che l’assegno di mantenimento spetta a chiunque abbia un reddito inferiore a quello del coniuge e sia in condizione – non dipendente dalla propria volontà – di non potersi mantenere da sé. Facciamo alcuni esempi.

ü  Silvio e Carla si separano perché Carla scopre il marito con l’amante. Nella causa di separazione, Carla chiede un assegno di mantenimento per sé in quanto disoccupata e uno per i figli. Silvio, invece, ha un reddito fisso. Nello stesso tempo, Carla chiede l’addebito a carico del marito per via del tradimento. Quale utilità ha, in questo caso, dimostrare l’infedeltà? Nessuna. Difatti, con o senza tali prove, Carla avrà comunque diritto a ricevere l’assegno mensile in quanto non autosufficiente dal punto di vista economico.

ü  Se, nell’esempio di prima, Carla avesse avuto un reddito superiore a quello del marito, invece, la battaglia sull’addebito avrebbe avuto senso: difatti, dimostrando il tradimento, la moglie eviterà di pagare l’assegno.

ü  Marco e Giovanna si separano. Marco infatti ha trovato una chat segrete tra la moglie e l’amante. Marco fa di tutto per dimostrare il tradimento. Difatti, se riuscirà a fornire le prove, potrà evitare di pagare gli alimenti all’ex moglie, benché titolare di un reddito esiguo.

ü  Luca e Sabrina si separano perché la moglie ha scoperto che il marito la tradisce. Senonché, Sabrina ha uno stipendio pari a quello del marito. Dunque, la battaglia dell’addebito è assolutamente inutile visto che, con o senza tale dichiarazione di responsabilità, Sabrina non potrà mai ottenere il mantenimento né il risarcimento del danno.

      Eccezionalmente, la giurisprudenza ha riconosciuto la possibilità di ottenere il risarcimento del danno se il tradimento si manifesta in modalità plateale e pubblica, tanto da ledere l’onore e la reputazione del coniuge tradito.

3)      Prove del tradimento. Quali sono le prove da portare al giudice nella causa di separazione per tradimento? Ci sono innanzitutto i documenti scritti e firmati dal coniuge fedifrago: una lettera d’amore all’amante o un’ammissione di tradimento firmata e lasciata al coniuge sulla scrivania, ecc. Si tratta di ipotesi piuttosto infrequenti. Ci sono poi le testimonianze di terzi oculari che abbiano visto un atto di tradimento. Non basta il semplice appuntamento o un bacio sulla guancia. Anche in questo caso, quindi, la possibilità che un estraneo possa assistere direttamente a un’infedeltà è piuttosto remota. Il testimone, infatti, deve essere sempre “oculare” e non raccontare ciò che ha saputo da terzi o perché gli è stato raccontato dallo stesso responsabile. Quanto invece a chat, sms, email e messaggi WhatsApp, per quanto la legge non elenchi tali file come prove, la giurisprudenza ha ormai sdoganato il loro ingresso anche nel processo civile. Per acquisire valenza di prova non devono essere “contestati” dalla controparte, ossia quest’ultima non deve insinuare nel giudice il dubbio che tali scritti siano manipolati o non conformi al reale. Si pensi a un messaggio di cui non c’è prova circa la data di spedizione. Proprio a tal fine, il giudice è solito nominare un tecnico informatico che valuti l’attendibilità di tali elementi. Così, il coniuge tradito fa degli screenshot alle chat ed sms per poi farne attestare l’autenticità a un perito di parte. Il problema, anche in questo caso, è che l’acquisizione di prove ottenute violando le norme sulla privacy è illegittima. Così non è possibile far entrare nel processo il cellulare del coniuge sottrattogli con la violenza o l’inganno o le fotografie delle schermate su di esso trovate. Alcune sentenze hanno ritenuto che il cellulare lasciato in casa, privo di protezioni e su luoghi comuni, non è soggetto alle norme sulla privacy come invece potrebbe essere se il dispositivo venisse custodito in un cassetto. Il che significa che si può aprire lo smartphone del coniuge che questi ha dimenticato sul divano o sul tavolo. Foto e filmati possono documentare il tradimento a patto, anche qui, che non siano contestati. Quindi, lo scatto di un appuntamento segreto deve rendere riconoscibili i volti e da esso si deve poter risalire all’epoca in cui lo stesso è stato effettuato. A questo riguardo, ci sono agenzie investigative esperte in tali forme di indagini. I report dei detective invece non hanno alcun valore di prova documentale. Tuttavia, si può chiamare a testimoniare l’investigatore privato affinché dichiari al giudice ciò che ha visto con i propri occhi.

La Legge per tutti     1 giugno 2020

www.laleggepertutti.it/404359_separazione-per-tradimento-prove

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

AFFIDAMENTO CONGIUNTO

Che differenza c’è tra affidamento e collocazione?

     Nel momento in cui marito e moglie decidono di separarsi entrano in gioco una serie di problematiche legate ai figli: dal mantenimento all’affidamento, dalla convivenza al calendario di visite con l’altro genitore. Gli ex coniugi possono regolare tali aspetti in via bonaria, con un accordo da sottoporre al giudice, o, in assenza di intese, rimettendo la questione al tribunale che deciderà all’esito di una regolare causa. Nell’ambito di quest’ultima, il giudice sarà innanzitutto chiamato a definire l’affidamento e, di regola, opterà per l’affidamento condiviso (o congiunto).

  1. Cos’è l’affidamento dei figli? Sono essenzialmente tre le questioni su cui il giudice della separazione e del divorzio è chiamato a pronunciarsi:

1)      L’assegno di mantenimento per i figli minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti: questo viene posto a carico del genitore che non convive con i figli. In particolare, questi deve versare un assegno mensile à forfait per le spese ordinarie e contribuire in misura percentuale (di norma al 50%) alle spese straordinarie;

2)      L’affidamento ossia la responsabilità genitoriale per le decisioni di maggiore importanza relative all’educazione, all’istruzione, alla salute, alle attività del figlio minore. Si parla di affidamento solo con riferimento ai figli che non abbiano ancora compiuto 18 anni;

3)      La collocazione dei figli minorenni, ossia la loro dimora abituale, fermo restando il diritto-dovere, per il genitore non convivente, di far loro visita periodicamente per garantire rapporti stabili, solidi e duraturi con entrambi i genitori. Anche in questo caso il problema si pone solo con i figli minorenni atteso che, dopo la maggiore età, questi possono decidere con quale genitore andare a vivere o se andare a stare da soli.

     La regola vuole che l’affidamento sia, di norma, condiviso (o congiunto), ossia spetti ad entrambi i genitori che lo esercitano di comune accordo, secondo un progetto comune regolato per il bene superiore del figlio stesso. Padre e madre saranno così chiamati a prendere, di volta in volta, le decisioni più rilevanti per il minore inerenti alla sua crescita, educazione, istruzione, salute, ecc. Un genitore può così ottenere dal giudice l’affidamento del figlio ma non essere, nello stesso tempo, collocatario dello stesso. Si pensi, il più delle volte, al padre che, pur non vivendo con i figli, deve essere consultato dalla madre prima di adottare le scelte di particolare rilevanza per i bambini.

     Eccezionalmente, il tribunale può optare per l’affidamento esclusivo, ossia in capo ad un solo genitore. Ciò avviene quando l’altro dimostri di non avere la maturità e la responsabilità necessaria a gestire i propri compiti nei confronti dei figli e, anzi, la sua presenza può addirittura essere di ostacolo per la loro crescita sana ed equilibrata.

  1. Cos’è l’affidamento congiunto? Come abbiamo appena detto, l’affidamento congiunto o condiviso è la prima soluzione che il giudice adotta quando la coppia con figli minori si separa o divorzia. Esso è attuazione del diritto dei figli alla bigenitorialità: i minori devono cioè avere la possibilità di mantenere rapporti solidi, duraturi e affettivi sia con entrambi i genitori che con le rispettive famiglie di provenienza (nonni e zii). Sicché, se un genitore dovesse costituire un ostacolo ai rapporti tra l’altro e i figli potrebbe perdere la collocazione e, nei casi più gravi, l’affidamento (si pensi ai numerosi casi in cui la madre, collocataria dei figli, mette questi ultimi contro la figura paterna sino a creare un vero e proprio conflitto e disconoscimento di quest’ultima). Ciascun genitore deve quindi permettere all’altro di avere rapporti col figlio, nella consapevolezza che la cultura, la personalità e le idee dell’altro genitore possono essere diverse dalle proprie. Il rispetto del principio della bigenitorialità impone che, nonostante la crisi della coppia, entrambi i genitori siano presenti nella vita del figlio minore, che ad entrambi siano garantite una stabile consuetudine di vita e delle salde relazioni affettive nel dovere dei genitori di cooperare nell’assistenza, educazione e istruzione.

     Nell’ambito poi dell’affidamento condiviso non tutte le decisioni devono essere prese di comune accordo tra i genitori ma solo quelle più rilevanti, quelle cioè – per così dire – di “straordinaria amministrazione”. Così, ad esempio, se un bambino vuol andare a fare visita a un compagno per una notte, la madre collocataria non dovrà chiedere il previo consenso del padre, ma dovrà farlo, ad esempio, prima di una gita scolastica di una settimana, al momento della scelta del liceo e così via.

     Del pari, ci sono scelte urgenti che non consentono il previo confronto tra i genitori. Si pensi a una decisione da prendere nell’immediato in caso di rischio per la salute del bambino. In tal caso, il genitore collocatario avrà diritto a chiedere il rimborso delle spese straordinarie pur se non previamente concordate.

     Di regola, la forte conflittualità tra i genitori non è di ostacolo all’affido condiviso. Ciò perché non contano tanto le relazioni tra gli ex coniugi bensì quelle tra questi e i figli. Così, se padre e madre litigano sempre tra loro – a meno che tali episodi non esorbitino in veri e propri maltrattamenti – il giudice opterà comunque per l’affidamento condiviso. Invece, si potrà avere l’affidamento esclusivo non solo nel caso di grave pregiudizio, per il minore, della personalità del genitore (si pensi a un padre tossicodipendente o a una madre con delle gravi patologie psichiche), ma anche nel caso di mancanza di convergenza d’intenti tra i genitori ed elevata difficoltà di adesione ad un programma educativo comune.

  1. Qual è la differenza tra affidamento e collocamento dei minori? Alla luce di quanto abbiamo appena detto è possibile anche comprendere la differenza tra collocamento e affidamento. Il primo concetto attiene alla residenza dei minori e alla dimora abituale, quella cioè che viene fissata per gran parte dell’anno, al netto di eventuali visite fatte presso l’abitazione dell’altro genitore.

     La collocazione viene di norma lasciata alla madre quando il figlio è in età prescolare e scolare. In ogni caso, il figlio con almeno 12 anni deve essere necessariamente sentito dal giudice prima di qualsiasi decisione che lo riguardi; diversamente, la sentenza è invalida e può essere impugnata.

    Anche se la Cassazione ha negato qualsiasi preferenza per la madre, stabilendo che le decisioni devono essere prese caso per caso, nei fatti è sempre la donna ad essere preferita, sicché la collocazione al padre è disposta, oltre che nei casi in cui siano gli stessi figli a chiederlo espressamente, quando la madre si riveli completamente inidonea al compito. Né l’assenza di un’occupazione o di un reddito stabile è di pregiudizio per la donna ad ottenere la collocazione dei figli, atteso che, in ogni caso, è compito dell’ex marito versare l’assegno di mantenimento periodico.

La Legge per tutti     2 giugno 2020

www.laleggepertutti.it/404669_affidamento-congiunto-cosa-significa

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

AFFIDO

Ogni anno quasi 2000 minori finiscono fuori famiglia. E solo il 20% va in affido

Una riflessione per la Giornata Mondiale dei Genitori. Proprio oggi tocca infatti ricordare come ogni anno siano quasi 2000 i minori che si trovano a vivere fuori famiglia. Di questi, tuttavia, solo il 20% viene dato in affidamento famigliare, cioè a dei “genitori affidatari”. Perché una sproporzione di questo tipo? Eppure la legge, in proposito, è molto chiara

Secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia, resi disponibili da questo scorso aprile 2020, nell’anno 2018 sono infatti stati 380 i provvedimenti di affidamento familiare pronunciati dai Tribunali per i minorenni italiani mentre sono stati 1.623 i provvedimenti di affidamento a comunità o istituti, in base all’art.4 comma 2 della legge 184/1983 (affidamento giudiziale, in contrapposizione a quello “consensuale” e cioè disposto con il consenso delle famiglie che acconsentono ad avere un supporto al loro nucleo in difficoltà). Si tratta di una proporzione evidentemente non rispettosa della previsione dell’articolo 2 commi 1 e 2 della stessa legge, ove è previsto che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo“, sia “affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola” (comma 1) e che solo “ove non sia possibile l’affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato”.

Non ci sono abbastanza famiglie disponibili o è solo una prassi? Come noto agli addetti al settore, la prassi degli affidamenti è molto variabile nei diversi territori del nostro Paese, perché i Tribunali per i Minorenni hanno usanze e probabilmente anche risorse diverse in questa materia, a livello di disponibilità della società civile. Ma è purtroppo altrettanto noto che le risorse economiche impiegate per l’affidamento in Comunità e strutture siano sproporzionate rispetto a quelle impiegate nel caso di affidamento a famiglie: una indagine parlamentare conoscitiva nella materia, di pochi anni, fa lasciava emergere il rapporto di oltre 2mila euro\mensili per un affidamento in strutture contro le circa 450 euro mensili per il supporto alle famiglie affidatarie.

Al di là del delicato ma anche annoso tema delle risorse, a proposito delle persone di età minore prive di un ambiente familiare idoneo merita in ogni caso rilievo il documento CRC/C/ITA/CO/5-6 del 28 febbraio 2019 (cfr. paragrafo 24) contenente le ultime Osservazioni del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza rivolte al Governo italiano (disponibili su

 www.gruppocrc.net/Osservazioni-Conclusive-del-Comitato-ONU),

ove allo Stato italiano si raccomanda, tra l’altro, di: persistere nel rivedere le proprie politiche sulle misure alternative di accoglienza per i minorenni privi di un ambiente familiare per diminuire l’affidamento alle organizzazioni della società civile, comprese le organizzazioni religiose, con il fine ultimo di sviluppare un sistema basato sui diritti dei minorenni, più integrato e responsabile che integri le misure tradizionali di accoglienza fornite dalla famiglia allargata con una maggiore attenzione al superiore interesse del minorenne; garantire che le Linee guida nazionali siano applicate in modo efficace, appropriato e su base paritaria e nella stessa misura nelle diverse Regioni del Paese, tenendo conto del fatto che esistono diverse forme di collocamento familiare dei minorenni nelle varie Regioni; garantire che l’allontanamento dei minorenni dalla famiglia, compresi quelli con disabilità, sia consentito solo dopo un’attenta valutazione del superiore interesse riferito al caso individuale e monitorato in modo efficace; adottare misure per ampliare il sistema di affidamento dei minorenni che non possono rimanere con le proprie famiglie, al fine di superare la istituzionalizzazione; istituire un registro nazionale dei minorenni privi di un ambiente familiare, basato su criteri uniformi e chiari su tutto il territorio dello Stato parte.

Sempre in tema di affidamento, altri due altri importanti nodi che annualmente vengono evidenziati dal Gruppo CRC, di cui Ai.Bi. – Amici dei Bambini fa parte da oltre 10 anni, nei rapporti periodici sulla situazione dei diritti dei minorenni nel nostro Paese, sono quello della temporaneità di tale misura, troppo spesso applicata per molti anni attraverso rinnovate proroghe, e quello della presenza di bambini piccoli, in particolare nella fascia 0-3 anni, all’interno di strutture di accoglienza non riconducibili alle “comunità di tipo familiare”, allorché invece la legge 149/2001 prevede i minori di età inferiore a sei anni, se non in famiglie affidatarie, siano inseriti solo presso quelle speciali comunità perché “caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia”.

In questi mesi è in corso di redazione il prossimo rapporto annuale del Gruppo CRC, la cui pubblicazione è prevista per il mese di novembre 2020. Ai.Bi. è già a lavoro insieme alle altre associazioni del Gruppo, ma questi dati disponibili lasciano già presagire un rinnovo di alcune delle raccomandazioni ormai ricorrenti allo Stato italiano perché, purtroppo, molti restano i progressi ancora da fare in materia di affidamento familiare.

AIBInews       1 giugno 2020

www.aibi.it/ita/giornata-mondiale-dei-genitori-ma-ogni-anno-quasi-2000-minori-finiscono-fuori-famiglia-e-solo-il-20-va-in-affido

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ASSEGNO DIVORZILE

Matrimonio breve: assegno di mantenimento

Pochi anni di matrimonio e niente prole: a rischio l’assegno divorzile percepito dalla donna. Sulle connessioni tra matrimonio breve e assegno di mantenimento si è più volte pronunciata la giurisprudenza. Secondo i giudici, la misura degli alimenti da versare all’ex moglie deve innanzitutto essere commisurata alla differenza di reddito tra i due coniugi, ma deve comunque tenere anche conto di una serie di ulteriori elementi tra cui la durata del matrimonio. Questo perché un matrimonio breve non genera né aspettative, né abitudine a un particolare tenore di vita tale da dover essere tutelata dopo la separazione e il divorzio.

   Una recente ordinanza Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza n. 10647, 5 giugno 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_38791_1.pdf

ha ribadito il concetto sottolineando che, in caso di il matrimonio breve, l’assegno di mantenimento è in misura ridotta. Risulta così giustificata la richiesta avanzata dall’uomo e mirata alla revoca, o almeno alla riduzione, dell’assegno in favore dell’ex moglie. Nel caso di specie il matrimonio era durato solo sei mesi. 

     Su binari diversi corre invece l’assegno di mantenimento per i figli che non è invece collegato alla durata del matrimonio o della convivenza tra questi ultimi ed entrambi i genitori ma al tenore di vita di questi ultimi. Padre e madre, sposati o meno, sono tenuti a mantenere i figli dal momento della nascita fino all’indipendenza economica.

     Sono numerose le pronunce della giurisprudenza che hanno riconfermato il legame tra un assegno di mantenimento ridotto o addirittura inesistente e una breve durate del matrimonio.

1)      Assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge: funzione e criteri per attribuzione e quantificazione. Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, richiede ai fini dell’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, l’applicazione dei criteri contenuti nella prima parte della norma, i quali costituiscono, in posizione equiordinata, i parametri cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio, premessa la valutazione comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, avrà ad oggetto, in particolare, contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. Trib. Velletri sez. I, 07/04/2020, n.627

2)      Presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile. In tema di assegno divorzile, l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi ed all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive deve essere saldamente ancorato alle caratteristiche e alla ripartizione dei ruoli endofamiliari, tenuto conto delle scelte e dei ruoli sulla base dei quali si è impostata la relazione coniugale e la vita familiare. E ciò al fine di accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale derivi dal sacrificio di aspettative professionali e reddituali riconducibile eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari e comunque all’assunzione di un ruolo esclusivamente consumato all’interno della famiglia, in relazione alla durata del matrimonio e all’età del richiedente. Corte appello Milano, 06/04/2020, n.878-

3)      Funzione dell’assegno di divorzio e criteri di riconoscimento. Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento della inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, e in particolare alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto. Cassazione civile sez. I, 13/02/2020, n.3662.

4)      Assegno di divorzio: natura e criteri di quantificazione. L’assegno divorzile ha plurime funzioni, ovvero quella assistenziale (in caso di assenza di reddito e di mezzi in capo al coniuge richiedente), quella compensativa (correlata al contributo dato dal richiedente alla formazione delle capacità professionali e di reddito che uno dei coniugi abbia conseguito in costanza di matrimonio anche grazie all’apporto fornito ed ai sacrifici sopportati dall’altro, tenuto conto della durata del matrimonio), quella perequativa (quale ristoro dei sacrifici e delle rinunce condivise cui il coniuge richiedente è andato irreversibilmente incontro, anche tenuto conto dell’età), e quella risarcitoria (qualora sia da individuare nel coniuge forte, ovvero quello in posizione economica migliore, la parte cui è da ascrivere la responsabilità della definitiva crisi coniugale). Tribunale Modena sez. I, 06/02/2020, n.167.

5)      Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. Corte appello Milano sez. V, 07/01/2020, n.23.

6)      In tema di divorzio, il meccanismo divisionale non è strumento di perequazione economica fra le posizioni degli aventi diritto, ma è preordinato alla continuazione della funzione di sostegno economico, assolta a favore dell’ex coniuge e del coniuge convivente, durante la vita del dante causa, rispettivamente con il pagamento dell’assegno di divorzio e con la condivisione dei rispettivi beni economici da parte dei coniugi conviventi. Il criterio della durata del matrimonio fissato dalla L. n. 898/1970, per quanto necessario e preponderante, non si pone come unico ed esclusivo parametro cui conformarsi automaticamente ed in base ad un mero calcolo matematico, potendo essere corretto da altri criteri, da individuare nell’ambito dell’art. 5 L. n. 898/1970, in relazione alle particolarità del caso concreto, nella misura in cui ciò sia necessario per evitare, per quanto possibile, che l’ex coniuge sia privato dei mezzi necessari a mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare (o contribuire ad assicurare) nel tempo l’assegno di divorzio, ed il secondo coniuge del tenore di vita che il de cuius gli assicurava o (contribuiva ad assicurargli). Tribunale Salerno sez. I, 07/01/2020, n.1.

7)      L’assegno divorzile non tiene conto del tenore di vita goduto durante il rapporto di coniugio ma si àncora ad un criterio assistenziale-compensativo- L’assegno divorzile non tiene conto del tenore di vita goduto durante il rapporto di coniugio ma si àncora, in base ad un accertamento da compiersi in concreto, ad un criterio assistenziale-compensativo, in modo da garantire il riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto. Corte appello Perugia, 12/11/2019, n.690.

8)      Assegno divorzile: procedimento di determinazione. Per la decisione sulla domanda di assegno divorzile si deve assumere come punto di partenza della valutazione della domanda, l’analisi dell’attuale situazione economico reddituale delle parti (comprensiva delle potenzialità dell’ex coniuge richiedente assegno di avere adeguati mezzi propri o di essere capaci di procurarli), finalizzata alla comparazione tra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti per verificare l’esistenza di un eventuale squilibrio. Compiuto tale accertamento si dovrà poi accertare se la disparità economico reddituale, lo squilibrio rilevato, siano frutto delle scelte condivise assunte in costanza di matrimonio alla luce del contributo dato da ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e all’evolversi della situazione reddituale e patrimoniale dell’altro, considerando la durata del vincolo coniugale, chiave di lettura di tutti gli altri criteri di valutazione, che assume una rilevanza pregnante. È infatti di immediata evidenza che maggiore sarà stata la durata del matrimonio, più sarà stato rilevante l’apporto di ciascuno alla formazione delle sostanze comuni e allo sviluppo delle capacità reddituali dell’altro coniuge, in una valutazione che impone la piena equiordinazione tra il lavoro domestico, di cura e di accudimento dell’altro e della casa familiare, allo stato privo di concreto riconoscimento reddituale, e il lavoro prestato all’esterno del nucleo familiare. Tribunale Vicenza sez. II, 11/11/2019, n.2328.

9)      Verifiche e valutazioni necessarie ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio. Al fine del riconoscimento dell’assegno di divorzio occorre verificare se vi è rilevante disparità tra la situazione economica precedente al divorzio e quella successiva dipendente da scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio con sacrificio delle aspettative professionali e reddituali delle parti in funzione dell’assunzione di un ruolo rilevante endofamiliare in relazione alla durata del rapporto e alle effettive potenzialità professionali e reddituali; nel corso di tale valutazione deve accertarsi non solo il raggiungimento di un’autonomia economica da garantire l’autosufficienza ma un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare; e se vi è impossibilità di procurarsi mezzi economici equiparabili a quelli avuti in costanza di matrimonio come conseguenza delle predette scelte condivise durante il matrimonio (rilievo causale). Tribunale Perugia, 08/11/2019, n.1726.

10)  Criteri di determinazione dell’assegno divorzile. L’assegno di divorzio ha natura assistenziale, compensativa e perequativa e che ai fini del riconoscimento dell’assegno si deve, pertanto, adottare un criterio composito che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale. I parametri su cui fondare l’entità del mantenimento consistono, in definitiva, nella durata del matrimonio, nelle potenzialità reddituali future e nell’età dell’avente diritto. Il contributo fornito alla conduzione della vita familiare costituisce il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, libere e responsabili che possono incidere sul profilo economico-patrimoniale di ciascuno di essi dopo la fine dell’unione matrimoniale: pertanto, anche al coniuge economicamente più debole va riconosciuto l’impegno e il contributo personale alla conduzione del ménage familiare. Tribunale Rieti, 17/09/2019, n.662. L’assegno divorzile, appurata la sua funzione assistenziale, compensativa e perequativa, deve essere determinato alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto. Cassazione civile sez. VI, 21/06/2019, n.16796.

11)  In tema di assegno divorzile, definitivamente superato il criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, e valorizzato il principio di autoresponsabilità quale cardine dell’intera relazione matrimoniale, sul quale si fonda l’obbligo di assistenza e di collaborazione nella vita familiare così come tratteggiati nell’art. 143 cod. civ., deve procedersi preliminarmente all’analisi dell’attuale situazione economico- reddituale delle parti (comprensiva delle potenzialità dell’ex coniuge richiedente assegno di avere adeguati mezzi propri o di essere capaci di procurarli), ed alla comparazione delle rispettive situazioni al fine di verificare l’esistenza di uno squilibrio tra le stesse (ove infatti uno squilibrio non vi fosse, o fesse irrilevante, sia perché le parti risultino prive di mezzi economici, sia perché le condizioni siano sostanzialmente equivalenti, non dovrebbe procedersi all’accertamento successivo). Quindi deve accertarsi se la disparità economico reddituale, e cioè lo squilibrio rilevato, siano frutto delle scelte condivise assunte in costanza di matrimonio alla luce del contributo dato da ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune (anche attraverso il lavoro domestico, di cura e di accudimento dell’altro e della casa familiare) e all’evolversi della situazione reddituale e patrimoniale dell’altro, considerando in primis la durata del vincolo coniugale e quindi tutti gli altri criteri di valutazione. In tale contesto dovrà essere formulato anche un giudizio ex ante relativo alle aspettative sacrificate rispetto alla situazione che si crea con il divorzio, cercando di valutare quale avrebbe potuto essere il percorso di vita del coniuge richiedente l’assegno qualora non si fosse sposato e raffrontare la situazione che si sarebbe potuta creare in tal caso con quella determinata dal divorzio. Tribunale La Spezia, 06/09/2019, n.555.

12)  L’assegno di divorzio svolge una funzione non solo assistenziale, ma in pari misura perequativa e compensativa, continuando a operare i principi di eguaglianza e solidarietà di cui agli articoli 2 e 29 della Costituzione e il diritto del richiedente va accertato unitariamente, senza una rigida contrapposizione tra fase attributiva (an debeatur) e quella determinativa (quantum debeatur). Il giudice, pertanto, deve procedere – anche a mezzo dell’esercizio dei poteri ufficiosi – alla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti. Il giudice, in particolare, qualora risulti la inadeguatezza dei mezzi del richiedente, o comunque la impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, deve accertarne rigorosamente le cause, alla stregua dei parametri indicati dall’articolo 5, comma 6, della Legge 898/1970 e, deve, quindi, verificare se quella sperequazione sia o meno la conseguenza del contributo fornito dal richiedente medesimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione alla età dello stesso e alla durata del matrimonio. Il giudice, infine, deve quantificare l’assegno senza rapportarlo né al pregresso tenore di vita familiare, né al parametro della autosufficienza economica, ma in misura tale da garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo sopra richiamato (conforme: sezione I, sentenza 9 agosto 2019 n. 21217 ove il rilievo che alla luce degli enunciati principi il percorso argomentativo della sentenza impugnata – che aveva escluso la esistenza di un sostanziale divario nelle condizioni delle due parti, ossia non aveva ravvisato alcuna esigenza assistenziale lato sensu intesa – non presta il fianco ad alcuna critica collocabile nell’alveo del novellato articolo 360, comma 1, n. 5, del Cpc). Cassazione civile sez. I, 09/08/2019, n.21215.

13)  Assegno divorzile: il giudice deve accertare le cause dell’inadeguatezza dei mezzi del richiedente e dell’incapacità di procurarseli. In tema di assegno divorzile il giudice, nello stabilire se e in quale misura esso debba essere riconosciuto, è tenuto, una volta comparate le condizioni economico patrimoniali delle parti e ove riscontri l’inadeguatezza dei mezzi del richiedente e l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, ad accertare rigorosamente le cause di una simile situazione alla luce dei parametri indicati dall’articolo 5, comma 6, prima parte della legge 898/1970, verificando se la sperequazione sia la conseguenza del contributo fornito dal richiedente alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all’età dello stesso e alla durata del matrimonio. Cassazione civile sez. I, 28/06/2019, n.17601

14)  L’assegno divorzile ha carattere assistenziale oltre che perequativo-compensativa. Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. All’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi. Tribunale Firenze sez. I, 26/06/2019, n.2052

La legge per tutti        7 giugno 2020

www.laleggepertutti.it/406004_matrimonio-breve-assegno-di-mantenimento

 

Assegno di divorzio, che succede se lei eredita e lui si risposa

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 10647, 5 giugno 2020

www.studiolegalemartignetti.it/wp-content/uploads/2020/06/Corte-di-Cassazione-Sez.-VI-civile-ordinanza-14-febbraio-5-giugno-2020.pdf

      È la Cassazione a chiarire che ci sono circostanze, come nuove esigenze/obblighi economici in capo a chi emette l’assegno, da considerare per calcolare l’importo.

      La nuova famiglia di lui, l’immobile ereditato da lei. La Suprema Corte si è ritrovata a decidere sul ricorso di un uomo, professione avvocato, che chiedeva la revoca/riduzione dell’assegno divorzile da corrispondere all’ex moglie. Il matrimonio era durato sei anni; lui, in seguito, si era risposato con un’altra donna che doveva mantenere. Mensilmente versava 1.800 euro all’ex consorte, iscritta all’albo dei commercialisti ma senza esercitare la professione. Secondo lui, la Corte d’Appello, che aveva in precedenza respinto la sua richiesta, non aveva considerato che l’ex aveva migliorato il suo tenore di vita, avendo ereditato una somma superiore ai centomila euro e un appartamento. Lui, invece, aveva visto peggiorare le sue condizioni economiche. La Cassazione ha annullato la vecchia sentenza, che non veniva incontro all’uomo, e rinviato la causa alla Corte d’Appello, per ricalcolare l’importo dell’assegno.

     I motivi della decisione. Per la Cassazione ha ragione lui. I giudici, infatti, partono da un assunto: «Si deve verificare se siano sopravvenuti elementi fattuali idonei a destabilizzare l’assetto patrimoniale» [Cass n. 21234 e 21228 del 2019]. In questo caso, sono sopravvenuti; la Corte si riferisce ai nuovi «oneri familiari derivanti dal nuovo matrimonio la cui rilevanza è riconosciuta dalla giurisprudenza quale circostanza sopravvenuta, che può portare alla modifica delle condizioni originariamente stabilite» [Cass. n. 6289 del 2014 e n. 14175 del 2016]. C’è poi l’eredità di lei e il fatto che non siano state accertate sue ulteriori fonti di reddito. Due particolari che, per la Cassazione, non andavano trascurati. Un altro aspetto sul quale i giudici insistono riguarda la durata breve del matrimonio, «criterio rilevante anche ai fini della revisione delle condizioni patrimoniali degli ex coniugi».

     L’ordinanza si inscrive nel solco della recente giurisprudenza in materia di assegno divorzile. Ricordiamo, infatti, che l’orientamento dei giudici su questo tema è cambiato in modo molto consistente negli ultimi anni. In particolare, per fare un po’ di storia, il 2017 è stato un anno decisivo: con una sentenza di tre anni fa [Cass. civ., sez. I, 10/05/2017, n. 11504], infatti, la Cassazione ha ribaltato il precedente orientamento. Se fin dagli anni Novanta e per i trent’anni successivi, parametro di riferimento per calcolare l’assegno era il tenore di vita condotto all’epoca del matrimonio, la sentenza del 2017 ha spazzato via questo criterio, affermando che la somma deve servire a mantenere l’ex coniuge che non è economicamente indipendente. Il calcolo va fatto tenendo conto di una serie di circostanze, compresa tra queste anche il contributo che l’ex coniuge ha dato alla formazione di un patrimonio familiare [Cass. civ. sez. unite del 11/07/2018 n. 18287].

La Legge per tutti     5 giugno 2020

www.laleggepertutti.it/405777_assegno-di-divorzio-che-succede-se-lei-eredita-e-lui-si-risposa

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ASSOCIAZIONE ITALIANA CONSULENTI CONIUGALI E FAMILIARI

Webinar Aiccef sulla Consulenza Familiare a distanza. Aperte le iscrizioni.

 Si svolgerà il 3 luglio 2020, dalle ore 15,00 alle ore 19,00, il webinar organizzato dall’AICCeF sulla Consulenza Familiare a distanza, che tratterà gli aspetti tecnologici, relazionali, deontologici e legali di questo speciale rapporto consulenziale che si crea attraverso un video.

  • Introduzione                                                                                  della Presidente Stefania Sinigaglia
  • Requisiti tecnologici per la Consulenza a distanza.                                         Sabina Catanorchi 
  • Aspetti metodologici: punti di forza e criticità                         Stefania Sinigaglia -Sarah Hawker
  • Ø   Esperienze  di Consulenza al singolo, alla coppia e alla famiglia
  •                    nella modalità a distanza.
                                                                                                  Raffaello Rossi – Patrizia Margiotta 
  • ore 17,30  La supervisione a distanza                                                                                    
                       
    Rita Roberto 
  • ore 18, 00 Aspetti legali, privacy e segreto professionale                                               
                        
    Maurizio Qualiano 

ore 18,30  Conclusioni 

Durante il webinar sarà possibilepossiblile formulare domande ai relatori attraverso un format specifico messo a disposizione dei partecipanti.

    

MODALITA’ DI ISCRIZIONE. 

Le iscrizioni on line saranno aperte da oggi sino al 25 giugno 2020.

Il webinar è riservato ai Consulenti Familiari, iscritti all’Associazione come Soci Effettivi o Aggregati, ma, eccezionalmente, il Consiglio Direttivo ne ha aperto la partecipazione anche agli allievi del terzo anno delle Scuole di formazione per Consulenti Familiari, riconosciute dall’Aiccef.

Il contributo alle spese di organizzazione  del webinar  è di € 20,00.

L’importo dell’iscrizione va versato per intero, prima dell’iscrizione on line,  con bonifico bancario IBAN: IT07 R076 0102 4000 0004 6973 889  o con bollettino postale sul c.c.p. 46973889. Causale: Contributo per webinar del 3 luglio 2020. 

La copia dell’avvenuto versamento, in formato word, pdf o immagine,  va allegato al modulo di iscrizione nel campo obbligatorio  “File pagamento”, senza il quale l’iscrizione non verrà confermata. La conferma dell’iscrizione, dopo le normali verifiche,  sarà inviata  dalla Segreteria  entro il 26 giugno.

All’indirizzo di posta elettronica indicato nel modulo di iscrizione saranno inviate le istruzioni per il collegamento on line al webinar del 3 luglio. La mail della Segreteria Aiccef con le istruzioni sarà inviata il giorno 2 luglio.

Verrà rilasciato un Attestato di partecipazioneprecedente.             www.aiccef.it/pagina_form.php?id=142

Verrà rilasciato un  Attestato di paertecipazione.

L’evento vale  30 Crediti Formativi Professionali per i Soci Effettivi e 4 ore di formazione per i tirocinanti.

www.aiccef.it/it/news/webinar-del-3-luglio-2020-l-aiccef-e-la-consulenza-familiare-a-distanza.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

BIOLOGIA

Nei primi mille giorni di vita la salute del futuro adulto

Corretti comportamenti dei genitori prima del concepimento, durante la gravidanza e fino al secondo anno di vita del bambino sono fondamentali per la salute del nascituro e del suo benessere una volta adulto. Sul magazine digitale “A scuola di salute”, gli specialisti dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù informano i futuri genitori sul sano stile di vita da seguire affinché il bambino nasca e cresca sano. Già prima del concepimento i loro corretti comportamenti influiscono sugli ovociti femminili e gli spermatozoi maschili. In gravidanza e dopo la nascita, fino al secondo anno di età, ambiente, alimentazione, attività fisica e assenza di stress hanno un ruolo fondamentale per lo sviluppo del sistema nervoso e il funzionamento di tutti gli organi del feto. “Mammainforma” è il progetto specifico del Bambino Gesù che fornisce tutte le informazioni necessarie sui primi mille giorni di vita del bambino.

 Intervista al professor Alberto Ugazio, direttore del magazine digitale “A scuola di salute” dell’Istituto Bambino Gesù per la Salute: Ascolta l’intervento

https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2020/06/01/19/135610857_F135610857.mp3

     Si deve partire dal comportamento dei futuri genitori prima del concepimento?

     Certamente, perché è vero che parliamo dei primi mille giorni, in qualche misura questa è una semplificazione perché in realtà la regolazione dei geni da parte dell’ambiente inizia ancora prima del concepimento. Le influenze dell’ambiente iniziano sugli ovociti nelle cellule-uovo materne e sugli spermatozoi del padre e quindi il comportamento di entrambi, durante i periodi che precedono il concepimento, sono molto importanti per la salute e il futuro del bambino.

     Per educare a questi temi, ai comportamenti prima del concepimento fino al secondo anno del bambino, il vostro ospedale ha avviato il progetto “Mammainforma”. Come funziona?

     Mammainforma è un progetto di interazione con i genitori che possono iscriversi e ricevere informazioni, a seconda del periodo che loro hanno indicato: se è prima del concepimento, o durante la gravidanza o i primi due anni di vita del bambini. Vengono dati i consigli più importanti su come far sì che venga fornita al bambino la migliore chance per una buona salute, possono poi anche interagire perché vengono sottoposti loro dei questionari a cui rispondere e questo dà la possibilità di poter cogliere informazioni su come possiamo comunicare al meglio con loro sui temi della salute dei propri figli.

   Questo sul vostro sito?

     Esattamente. Sul sito del Bambino Gesù: www.opbg.net

Eliana Astorri – Città del Vaticano    05 giugno 2020

www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-06/bambino-gesu-neonato-consigli-salute-futuro.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CENTRO INTERNAZIONALE STUDI INTERNAZIONALI

Newsletter CISF – n. 22, 3 giugno 2020

Smile – il sorriso è contagioso. Chi comincia per primo? Un video che ha l’unica pretesa di… strappare un sorriso in meno di un minuto e mezzo (solo “musica”/only “music”)

www.youtube.com/watch?v=glktkl6ZXXo&feature=youtu.be

Famiglie, abitazione, acquisti e costi affitti: vecchie e nuove disuguaglianze emergono. Un’indagine Nomisma. Un commento del direttore Cisf (F. Belletti). “[…] La casa, così preziosa per il benessere delle famiglie, così decisiva nel consentire il successo della Fase 1 nel contrasto al contagio, rimane per molte famiglie un bene di lusso, che mette spesso in discussione scelte economiche e livelli di reddito, evidenziando un’ampia area di vulnerabilità economica familiare che rischia di diventare impoverimento vero e proprio con la pandemia, che di fatto approfondisce il divario: alcuni non sono toccati dalla pandemia (nemmeno sul bene casa), mentre  i più fragili patiscono ripercussioni “anche” rispetto alla casa. […] Serve probabilmente un approccio diverso, più legato alle esigenze delle famiglie reali che non ai modelli economici teorici […] Ma questo purtroppo pare un difetto strutturale di troppe delle misure adottate nel Decreto Rilancio, che ha inseguito singole nicchie di attività economiche con interventi spezzettati, senza mai ricomporre strategie unitarie attorno alla famiglia: che è non solo un ammortizzatore sociale, ma il primo decisore economico di spesa, risparmio e investimento. E sulla casa questo è ancora più evidente. Anche per questo sarebbe ora di capire che “solo se riparte la famiglia, riparte l’Italia”

www.ilsussidiario.net/news/crisi-famiglie-per-una-su-quattro-la-casa-e-diventata-un-bene-di-lusso/2027957    

Il family international monitor è un’indagine internazionale sulla famiglia, promossa (dal 2018) da Cisf, Università Cattolica San Antonio di Murcia e il Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II” per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia. Per essere informato iscriversi alla Newsletter “Inside Families”. Presente anche su Twitter e Facebook.                              www.familymonitor.net

Sotto lo stesso tetto durante la pandemia da Coronavirus: tempo di qualità, solitudine e isolamento. (Under the Same Roof During the Coronavirus Pandemic: Quality Time, Loneliness and Isolation) Molto interessante questa sintetica analisi comparativa internazionale sugli adattamenti delle famiglie nei vari contesti geografici e culturali, con dati dal Canada ai Paesi dell’area arabica, dall’Europa agli Stati Uniti. Il testo è a cura di Anis Ben Brik, collaboratore del Family International Monitor e professore associato presso la Hamad Bin Khalifa University College of Public Policy, Doha, Qatar. “[…] La pandemia porta alla luce le carenze di grandi strutture istituzionali per l’assistenza a lungo termine di famiglie, bambini e anziani. Tutte le società devono trovare nuovi modi per promuovere la solidarietà intergenerazionale con le persone anziane senza metterle a rischio di infezione[…].

www.familymonitor.net/post/sotto-lo-stesso-tetto-durante-la-pandemia-da-coronavirus-tempo-di-qualit%C3%A0-solitudine-e-isolamento?utm_campaign=9790f0cc-59e3-4b45-b950-9eb1aa9f6efb&utm_source=so&utm_medium=mail&cid=1356a656-a2fb-4131-a1f4-ff63c8419ee5

Emergenza coronavirus

  • USA. Dilemmi etici nel triage per l’accesso alle cure contro il Covid-19. I rischi per le persone con disabilità. (“Covid-19 Crisis Triage—Optimizing Health Outcomes and Disability Rights”, by Mildred Z. Solomon, Matthew K. Wynia and Lawrence O. Gostin). Questo breve articolo promosso dall’Hastings Center for Bioethics intercetta un importante tema, emerso in diversi Paesi: la difficoltà di scegliere tra i diversi pazienti in caso di risorse sanitarie scarse. Una scelta dalle evidenti implicazioni etiche, che non accetta facili scorciatoie o opinabili graduatorie di valore sulla vita dei diversi soggetti – come quando si è dovuto scegliere a chi offrire i respiratori e a chi no.

            www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp2008300?query=featured_home

  • La famiglia, un ambiente sano e positivo. L’Istat, si sa, lavora con i freddi numeri, spesso inondandoci di statistiche, indagini, rilevazioni che risultano di difficile comprensione per i non addetti ai lavori. Non in questo caso: in base all’indagine condotta dal 5 al 21 aprile 2020, tendente a misurare comportamenti e percezioni dei cittadini in pieno lockdown, alla richiesta di definire il clima familiare vissuto nel primo periodo dell’emergenza, tre cittadini su quattro hanno usato parole di significato positivo: buono (14,4%), sereno (12,6%), tranquillo (10,4%), ottimo (8,7%), amorevole (3,8%), mentre solo l’8% ha utilizzato termini di significato negativo.  Questo a conferma delle numerose indagini che certificano come la famiglia per gli italiani rimane saldamente in cima alla scala dei valori. Più chiaro di così … [vedi il report integrale, che presenta anche l’opinione degli italiani sull’operato della protezione civile e degli operatori sanitari]

            www.istat.it/it/files//2020/05/Reazione_cittadini_lockdown.pdf

Svezia/Usa. Nato per comandare? Le conseguenze dell’ordine di nascita sulle competenze non cognitive (Born to Lead? The Effect of Birth Order on Non-Cognitive Abilities). Molto interessante questo studio svedese sulle differenze di carattere e di attitudini che possono rilevarsi in funzione dell’ordine di genitura. “[…]  i primogeniti hanno tratti di personalità più positivi, tra cui l’apertura a nuove esperienze, la coscienza, l’estroversione, la cordialità e una maggiore stabilità emotiva […], è più probabile che diventino amministratori delegati e senior manager, mentre i figli nati successivamente, che amano correre rischi, spesso finiscono per diventare lavoratori autonomi. I primogeniti tendono a possedere caratteristiche psicologiche legate alla leadership [… Il “piccolo” della famiglia, invece, è più propenso a correre dei rischi, a ribellarsi […] Ci sono due spiegazioni [….]”

www.nber.org/papers/w23393.pdf

Il valore del vivere con fratelli e sorelle. Una ricerca del CISF in Italia. Su questo tema l’Associazione Nazionale Famiglie Numerose (ANFN) ha recentemente promosso un’indagine a livello nazionale, realizzata dal Cisf in collaborazione con il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del sacro Cuore di Milano, con interviste qualitative a giovani tra i 20 e i 30 anni, [più info sul sito di ANFN]. L’indagine è pubblicata nel volume: Francesco Belletti, Raffaella e Giuseppe Butturini (a cura di), Educazione orizzontale. Il mestiere di sorelle e fratelli nelle famiglie numerose, Edizioni Toscana Oggi, Firenze 2019,

www.famiglienumerose.org/tag/educazione-orizzontale

www.toscanaoggi.it/E-shop/Libri-pubblicazioni/Educazione-orizzontale

UE. Come può l’Europa prepararsi meglio ai prossimi movimenti migratori? (How Can Europe Better Prepare for Future Migration Movements?). Questo breve documento riflette sulle cause dell’immigrazione, con l’obiettivo di verificare le previsioni e stime sui movimenti migratori dei prossimi anni. Si tratta di un documento elaborato all’interno del progetto europeo Horizon 2020 QuantMig: www.southampton.ac.uk/quantmig. Quantificare gli scenari migratori per costruire politiche migliori.

https://population-europe.eu/policy-brief/how-can-europe-better-prepare-future-migration-movements

Rimesse degli immigrati in continuo aumento: oltre 6 miliardi inviati in patria nel 2019. Secondo lo studio della Fondazione Leone Moressa su dati Banca d’Italia, dopo il crollo del 2013 e alcuni anni di sostanziale stabilizzazione, nel 2019 si conferma la crescita già registrata l’anno precedente. Dopo 7 anni, dunque, si torna sopra quota 6 miliardi. Il Bangladesh si conferma la prima destinazione. In aumento India e Pakistan, quasi azzerati i flussi verso la Cina (dati 2019). In attesa di capire l’impatto dell’emergenza Covid-19 (la Banca Mondiale stima un calo del 20% a livello mondiale nel 2020),

            www.fondazioneleonemoressa.org/2020/05/05/rimesse-2019-trend-in-crescita

Famiglie giovani senza mezzi per affrontare la crisi, di Massimo Baldini, Luca Beltrametti e Carlo Mazzaferro). Nella crisi provocata dal coronavirus la capacità delle famiglie giovani di compensare il calo del reddito disponibile con risorse proprie è molto bassa. Anche perché negli ultimi anni è cambiata la distribuzione di reddito e ricchezza fra le generazioni. “Ciò dovrebbe consigliare azioni di politica economica che rafforzino i livelli di protezione sociale delle famiglie più giovani e l’investimento nel capitale umano dei giovani. Purtroppo, lo stesso spostamento della ricchezza e l’aumento del potere elettorale degli anziani determinato dalla transizione demografica non inducono all’ottimismo”.

 www.lavoce.info/archives/67374/famiglie-giovani-senza-mezzi-per-affrontare-la-crisi

Civic action. Un concorso per raccogliere e raccontare esperienze di cittadinanza attiva. “La fase di emergenza scatenata dal Covid-19 ha sfidato duramente il nostro Paese ma, al contempo, è stata un’occasione per mettere alla prova il nostro sistema sociale e ha rivelato un sentimento civico che sembrava sopito da tempo. Centinaia di migliaia di persone si sono messe in moto, nutrendo l’intelligenza collettiva con esperienze ricche di significato e con modelli e strumenti innovativi, alcuni destinati a durare nel tempo. Civic Action [promossa da un Network di grandi aziende e reti associative profit e non profit] vuole individuare le esperienze e le pratiche che hanno il potenziale per svilupparsi anche dopo l’emergenza, per costituire la base di un nuovo e più robusto tessuto civico. Possono partecipare tutti. Cittadini singoli e organizzazioni, senza limiti anagrafici, geografici o di alcun genere. Le esperienze e pratiche potranno rientrare in una di queste track di interesse. Viaggi / Arte e cultura / Formazione scolastica / Ambiente / Economia e lavoro / Salute e benessere / Governance / Media e intrattenimento / Solidarietà in azione (assistenza sociale).               https://action.becivic.it

Tutte le proposte devono essere inviate entro il 16 giugno 2020.Le proposte più interessanti verranno raccolte in una presentazione e rese disponibili a tutti online. Tra queste, 5 verranno selezionate dal team di lavoro, per essere raccontate dai protagonisti in un incontro live su SkyTg24″.          

Dalle case editrici

Mazzucchelli Sara, Nanetti Sara, Scisci Anna, Le nuove dinamiche partecipative delle famiglie in Italia e in Europa, Vita e Pensiero, Milano, 2020, pp. 200.

La retorica della crisi, che ha investito tutti i campi della società, non ha risparmiato l’istituzione familiare e con essa tutti i corpi intermedi, le reti informali e formali di impegno sociale e civile. In contro tendenza rispetto a una visione individualistica della società, il volume (Quaderno n. 32 del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano) presenta due ricerche condotte su fenomeni sociali tra loro diversi, ma accomunati da una stretta aderenza alla matrice familiare e alle forme associative. Da un lato, la prima ricerca – che ha come oggetto le associazioni familiari nel contesto europeo – intercetta le organizzazioni formate da famiglie, che operano in favore degli interessi e del benessere famigliare a più livelli territoriali. Dall’altro, la seconda ricerca – incentrata sul Comitato Difendiamo i Nostri Figli – affronta il complesso tema della libertà di educazione di cui è portatrice la famiglia in quanto istituzione sociale. L’accostamento di queste due prospettive, tra loro eterogenee, propone una lettura trasversale della generatività sociale della famiglia, che si manifesta attraverso la formazione di soggetti collettivi guidati da un interesse congiunto per le tematiche familiari, e inoltre mette in evidenza le potenzialità di cui la realtà familiare è portatrice in un contesto caratterizzato da contraddizioni, conflitti e transizioni.

Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio     http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/giugno2020/5175/index.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CENTRO ITALIANO DI SESSUOLOGIA

Educazione sessuale e Oms. Quali regole?

    Molti genitori sono portati a pensare che l’educazione sessuale all’interno della scuola riguardi banalmente il parlare di sesso ai propri figli o, spesso, si instaura in loro la paura che l’educatore “condizioni al gender”, affermazione che tra l’altro non ha alcun significato, ma che ultimamente è spesso sulla bocca dei genitori “social informati”. L’educazione sessuale interessa l’intero arco della vita di una persona, dall’infanzia all’età adulta e ridurla alla sola genitalità le farebbe perdere il suo valore più ampio e profondo, dato da un concetto molto più vasto di sessualità, che comprende anche le relazioni, le emozioni e i sentimenti.

     L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la sessualità come “qualcosa di più ampio e complesso, è espressione fondamentale della persona, è influenzata dall’interazione di fattori biologici, psicologici, sociali, economici, politici, etici, religiosi, spirituali, che arricchiscono e rafforzano la comunicazione e l’amore tra le persone”.

     Alcuni anni fa l’OMS e il Centro di Educazione alla Salute di Colonia (BZgA) hanno emanato delle linee guida per gli standard sull’Educazione sessuale in Europa. Come viene specificato anche all’interno del documento, queste linee si basano su una concezione olistica dell’Educazione sessuale, ossia sulla capacità di apprendere relativamente gli aspetti cognitivi, emotivi, sociali, relazionali e fisici della sessualità.

    Lo scopo dell’educazione sessuale è quello di fornire a bambini e ragazzi informazioni corrette, competenze e valori positivi allo scopo di comprendere la propria sessualità e goderne, intrattenere relazioni sicure e gratificanti, comportandosi responsabilmente rispetto a salute e benessere sessuale proprio e altrui” (*WHO Regional Office for Europe & BZgA, 2010, pag. 20.)

    L’educazione sessuale, quella indiretta e informale che non viene impartita da un professionista all’interno di un’istituzione, inizia precocemente sin dall’infanzia e continua durante tutto il corso della vita, vecchiaia compresa. Quest’educazione viene appresa dall’individuo nel quotidiano e in maniera indiretta, attraverso i comportamenti, gli atteggiamenti, i giudizi e gli stereotipi che ci circondano.

    Per bambini e ragazzi, essere educati alla sessualità all’interno di una struttura organizzata (questa è quella che viene chiamata Educazione sessuale formale), è di fondamentale importanza poiché permette loro di trovare uno spazio di legittimazione e socializzazione delle tematiche affettive e sessuali. Come sottolineava il Prof. Giorgio Rifelli, (1941-2013) durante i suoi corsi di formazione sull’educazione sessuale, oggi viviamo in una società complessa che tratta con insistenza i temi sessuali e sottopone bambini e ragazzi, ma anche le persone in generale, ad un sovraccarico di informazioni spesso errate o tra loro contraddittorie dinanzi alle quali mancano riferimenti per una valutazione consapevole e critica. Quindi, tutti noi facciamo informazione e disinformazione sessuale.

     Quando, ad esempio, ignoriamo una domanda che un bambino ci fa perché ci imbarazza, gli stiamo implicitamente dicendo che di quest’argomento non si può parlare e stiamo creando in lui dei tabù. Quando commentiamo con un pregiudizio una notizia o un atteggiamento, gli inviando messaggi sbagliati che influenzeranno il suo atteggiamento. È proprio per questi motivi che è fondamentale trasmettere ai ragazzi le conoscenze fondamentali che gli permettano di prendere coscienza dei propri desideri e bisogni, per renderli liberi di fare scelte prive da ansie, paure e pregiudizi per vivere un vero benessere sessuale, ricercare relazioni sicure, nel rispetto di sé stessi e dell’altro.

     Quali sono le regole per un’efficace Educazione Sessuale? Come specificato all’interno della guida, gli insegnanti risulteranno maggiormente efficaci nel trasmettere le informazioni che riguardano la sessualità se innanzitutto si saranno soffermati in prima persona sui propri atteggiamenti, sentimenti, credenze, esperienze e comportamenti rispetto la sessualità e su come questi aspetti influenzino la loro capacità comunicativa.

Per educare alla sessualità è fondamentale avere una buona consapevolezza di sé, dobbiamo sempre ricordare che, nella comunicazione, il linguaggio non verbale e para verbale ricoprono una grande importanza. Qualora ci fossero aspetti d’inibizione o di pregiudizio rispetto ad un determinato argomento, questi aspetti potrebbero essere espressi implicitamente e attivando, ad esempio, l’evitamento dell’argomento. Infatti è fondamentale prestare attenzione ai bisogni e alle richieste di ogni gruppo e utilizzare un linguaggio appropriato per affrontarle.

     L’educatore, inoltre, non dovrà assumere il ruolo di formatore ma di facilitatore, all’interno del gruppo dovrà essere creato un clima di interscambio e condivisione, in modo da permettere agli alunni di creare un proprio punto di vista.

      Altro aspetto importante è la collaborazione tra insegnati e genitori, primi responsabili dell’educazione dei figli, anche sessuale, allo scopo di fornire loro le risposte appropriate.

     Gli interventi degli adulti devono essere precisi e delicati, devono essere finalizzati alla rassicurazione delle loro ansie ed ampliare le conoscenze: qualora il bambino o il ragazzo, chieda qualcosa di cui non siamo a conoscenza o per cui vorremmo trovare una risposta adeguata, possiamo tranquillamente prendere tempo del tempo per informarci e comunicargli la risposta esatta. È un semplice gesto che racchiude un importante significato soprattutto per ciò che riguarda la sessualità: non siamo onnipotenti e onniscienti, possiamo riflettere, prendere il tempo necessario per parlare di qualcosa d’importante e per fare scelte consapevoli. Non per forza deve esistere un tutto e subito!

     L’educazione sessuale non dovrebbe essere basata su un singolo intervento poiché essa è continuativa: la sessualità è un processo che interessa tutto il ciclo di vita. L’educazione sessuale e` basata sulla sensibilità al genere, ciò permetterà di garantire che bisogni e problemi diversi legati alle differenze di genere trovino risposte adeguate: le diversità di genere nell’affrontare le questioni legate alla sessualità, ad esempio, si rifletteranno nella scelta di metodi appropriati.

      Fortunatamente, negli ultimi anni, sembrerebbe riservato meno silenzio rispetto agli argomenti di natura sessuale e persino il Papa, durante una conferenza stampa sull’aereo di ritorno da uno dei suoi viaggi, ha sottolineato l’importanza dell’educazione sessuale a scuola, descrivendolo come un luogo sicuro e autorevole che può supplire a ciò che la famiglia e l’ambiente esterno non riesce a dare.

     Una frase di Plutarco recita: “gli alunni non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”. In questo pensiero si individua il compito dell’educatore (educare, dal latino educere, tirar fuori), ossia la capacità di comprendere le reali inclinazioni di ogni studente, e fare da ponte tra quello che ognuno di loro ha dentro e quello che c’è fuori. È quello “strumento” che può aiutarli ad elaborare un punto di vista personale, un pensiero critico che li apra al confronto e faccia emergere i migliori aspetti del sé.

Alba Mirabile, psicologa, sessuologa, psicoterapeuta

www.cisonline.net/news/educazione-sessuale-e-oms-quali-regole

La rivoluzione asessuale: da cosa nasce? Cosa significa?

     Molte persone si definiscono “asessuali” e affermano di essere molto diverse da chi decide di astenersi dal sesso per motivi religiosi o morali: la castità è una scelta, l’asessualità è un orientamento sessuale. Come dire: non è qualcosa che scegli di essere, è qualcosa che ti appartiene dalla nascita, che è involontario. Indubbiamente, non è facile capire la persona che sostiene di non provare attrazione sessuale nei confronti degli altri e il primo pensiero che viene alla mente è che potrebbero esserci dei traumi o delle inibizioni che orientano la persona verso l’astinenza sessuale. Gli asessuali tuttavia non la pensano così: ritengono di essere una minoranza sessuale e vogliono essere riconosciuti come tali.

     Un tema scottante, quando si parla di questo argomento, è la masturbazione. Se gli asessuali non sentono desiderio, non dovrebbero masturbarsi… E invece no, si masturbano, ma anche questo viene spiegato: non è che non si senta lo stimolo sessuale, solo che non vi è attrazione per gli altri. Molti asessuali sono infastiditi da questa domanda, considerata intrusiva e apparentemente inutile riguardo alle loro abitudini private. Sicuramente sotto la bandiera dell’asessualità possono nascondersi persone represse o fobiche, ma è anche possibile ammettere che vi siano persone che non sentano attrazione per gli altri e che vivano felicemente, anche senza sesso.

     Forse l’unico consiglio da dare è quello di mettersi in discussione e di non accettare per partito preso le prime conclusioni che vengono in mente, riguardo alla propria sessualità. Occorre controllare che non ci sia una causa sottostante, perché molte persone possono pensare di non essere interessate al sesso, mentre invece hanno un problema psicologico che si traduce in un atteggiamento fobico e di evitamento. Inoltre, anche la depressione e gli antidepressivi possono spesso smorzare la libido.

     In questi ultimi tempi gli asessuali sono usciti allo scoperto ed hanno cominciato a parlare, iniziando la loro “rivoluzione asessuale”. Se pensi di essere un asessuale, può essere utile parlarne con un sessuologo, oppure confrontarsi con altri asessuali, ad esempio sui social.

Walter La Gatta, psicoterapeuta, sessuologo

www.cisonline.net/news/la-rivoluzione-asessuale

Viagra Rosa

     Esiste una pillola in grado di accendere il desiderio sessuale femminile? Ed in cosa consiste? Nel gergo comune si è impropriamente diffuso (per analogia con la più nota “pillola blu” riservata agli uomini) il termine di “viagra rosa”, soprattutto a partire dal 2015, anno in cui la Food and Drug Administration (FDA: l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici) ha approvato negli USA il commercio del Flibanserin (venduto con il nome di Addyi), indicato solo (è bene precisarlo) per le donne in pre-menopausa affette da uno scarso desiderio sessuale: “Hypoactive Sexual Desire Disorder” (HSDD).

     Il Flibanserin appartiene alla categoria degli antidepressivi (anche se non è mai stato commercializzato come antidepressivo) ed è un farmaco “Serotoninergico Multifunzionale Agonista ed Antagonista” (MSAA) (Stahl, 2008, 2015). La molecola agisce in modo differente su alcuni recettori cellulari serotoninergici (recettori noti come 5HT), in particolare attraverso un’azione cosiddetta agonista sui recettori 5HT1A ed un’azione antagonista sui recettori 5HT2A; inoltre ha una moderata affinità per altri recettori serotoninergici (5HT2B e 5HT2C) e per i recettori dopaminergici D4. Flibanserin migliorerebbe il funzionamento sessuale favorendo il rilascio di dopamina e di norepinefrina e riducendo il rilascio di serotonina (Stahl, 2008, 2015).

Nel bugiardino, si legge che il flibanserin è dunque indicato per il trattamento del disturbo da desiderio sessuale ipoattivo (HSDD) nelle donne in premenopausa. La mancanza di desiderio sessuale non dev’essere ricondotto a compresenza di altre patologie o condizioni psichiatriche, problemi nelle relazioni interpersonali, assunzione di farmaci o droghe. Il flibanserin non deve essere usato per incrementare la performance sessuale e non è autorizzato per l’uso nelle donne in post menopausa. Il dosaggio raccomandato è di 100 mg/die di flibanserin in singola somministrazione giornaliera.

     È bene notare che la commercializzazione del flibanserin è stata preceduta da vivaci dibattiti pubblici sull’argomento: da una parte si era schierato in favore del farmaco il movimento Statunitense “Even the score” (letteralmente “pareggiare il conto”, intendendo con ciò reclamare il diritto a “pareggiare il conto” con gli uomini, dal momento che a disposizione di questi ultimi vi sono numerosi farmaci in commercio per le disfunzioni sessuali, diversamente dalle donne), dall’altra si era schierata in aperta opposizione la Prof.ssa Leonore Tiefer di New York, alla guida di un movimento (“New view campaign. Challenging the Medicalization of Sex.”) che sostanzialmente accusa le case farmaceutiche di strumentalizzare la sessualità delle donne. Nel sito della “New view campaign” viene posta infatti la domanda “Sex for our pleasure or their profit?”, dove il “nostro” piacere è quello delle donne, mentre il “loro” profitto sarebbe quello delle case farmaceutiche. La Tiefer sostiene il rischio di “medicalizzare il sesso in nome del profitto”.

     Nel 2016 lo studio di Jaspers e coll. pubblicato su Jama Internal Medicine, rivela tuttavia che i benefici derivanti dall’assunzione del flibanserin appaiono modesti; inoltre lo studio conferma che il medicinale aumenta il rischio di effetti collaterali quali sonnolenza, vertigini, stanchezza e nausea. Le conclusioni di tale studio indicano degli evidenti limiti circa l’efficacia del flibanserin.

     Nel giugno del 2019 la Food and Drug Administration approva un altro farmaco per il trattamento del disturbo da desiderio sessuale ipoattivo (oggi denominato “Disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile”) nelle donne in pre-menopausa: il Bremelanotide, commercializzato solo negli USA con il nome di Vyleesi. Le indicazioni sono dunque le stesse, ma ciò che cambia è la sua modalità di assunzione, che avviene attraverso un’iniezione sottocutanea da effettuarsi circa 45 minuti prima del rapporto sessuale. Il farmaco è un peptide che agisce attivando i recettori della melanocortina MC3 e MC4 (Stahl, 2008). Il farmaco può provocare effetti collaterali come nausea, dolore nel sito di iniezione e mal di testa.  Può anche causare un aumento temporaneo della pressione sanguigna e una diminuzione della frequenza cardiaca.

     Tra i farmaci per le disfunzioni sessuali maschili e femminili esiste dunque un meccanismo di funzionamento diverso: per gli uomini, la disfunzione erettile viene trattata con farmaci inibitori della fosfodiesterasi-5  (PDE-5), che sostanzialmente favoriscono l’afflusso di sangue all’interno dei cosiddetti corpi cavernosi del pene (semplificando grossolanamente, si potrebbe alludere ad un meccanismo “idraulico”); per le donne il desiderio viene acceso con un meccanismo (per molti versi ancora sconosciuto) che agisce sui recettori di cellule cerebrali. Tanto gli uomini quanto le donne condividono tuttavia un aspetto comune che condiziona l’efficacia nel tempo delle terapie farmacologiche. Giorgio Rifelli (1988) considerava infatti le disfunzioni sessuali una “patologia dell’essere” e non una “patologia della funzione”: il loro trattamento, per essere efficace, richiede che ci si rivolga “ad un universo di significati diversi, (…) adottando una lettura antropo-fenomenologica della persona come essere nel mondo”. Più che di sintomi, Rifelli (1995) scriveva infatti di “modalità esistenziali dell’essere”. Le innovazioni tecnologiche introdotte dai farmaci (blu o rosa che siano e al di là delle differenziazioni cromatiche e dei meccanismi farmacocinetici che farmacodinamici che li caratterizzano) saranno efficaci se il clinico sarà capace di integrarle con le altre dimensioni dell’esistere.

Antonio La Torre, psichiatra, psicoterapeuta, sessuologo

www.cisonline.net/news/viagra-rosa

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CHIESA CATTOLICA

Allontanamento di Enzo Bianchi da Bose

La Chiesa italiana è scossa per le notizia, uscita in questi giorni con grande clamore sulla stampa nazionale, dell’allontanamento, deciso dalla Santa Sede, di Enzo Bianchi dalla Comunità di Bose. Comunità fondata da lui subito dopo il Concilio Vaticano II. Un caso clamoroso. Cerchiamo di capire di più, per quanto è possibile 

Speranza nella prova. Come da noi annunciato a suo tempo, in seguito a serie preoccupazioni pervenute da più parti alla Santa Sede che segnalavano una situazione tesa e problematica nella nostra Comunità per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del Fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno, il Santo Padre Francesco ha disposto una Visita Apostolica, affidata al Rev.do P. Abate Guillermo León Arboleda Tamayo, OSB, al Rev.do P. Amedeo Cencini, FDCC e alla Rev.da M. Anne-Emmanuelle Devéche, OCSO, Abbadessa di Blauvac.

            Tenendo conto della rilevanza ecclesiale ed ecumenica della Comunità di Bose e dell’importanza che essa continui a svolgere il ruolo che le è riconosciuto, superando gravi disagi e incomprensioni che potrebbero indebolirlo o addirittura annullarlo, con la Visita Apostolica il Santo Padre ha inteso offrire alla medesima Comunità un aiuto sotto forma di un tempo di ascolto da parte di alcune persone di provata fiducia e saggezza.

            La Visita Apostolica si è svolta dal 6 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020 e, al termine di essa, i Visitatori hanno consegnato alla Santa Sede la loro relazione, elaborata sulla base del contributo delle testimonianze liberamente rese da ciascun membro della Comunità. Dopo prolungato e attento discernimento e preghiera, la Santa Sede è giunta a delle conclusioni — sotto forma di un decreto singolare del 13 maggio 2020, a firma del Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità e approvato in forma specifica dal Papa — che sono state comunicate agli interessati alcuni giorni fa dal Rev.do P. Amedeo Cencini, nominato Delegato Pontificio ad nutum Sanctæ Sedis, con pieni poteri, accompagnato da S.E. Mons. José Rodriguez Carballo, OFM, Segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, e da SE Mons. Marco Arnolfo, Arcivescovo Metropolita di Vercelli.

Tale comunicazione è avvenuta nel massimo rispetto possibile del diritto alla riservatezza degli interessati. Poiché, tuttavia, a partire dalla notifica del decreto, l’annunciato rifiuto dei provvedimenti da parte di alcuni destinatari ha determinato una situazione di confusione e disagio ulteriori, si ritiene necessario precisare che i provvedimenti di cui sopra riguardano Fr. Enzo Bianchi, Fr. Goffredo Boselli, Fr. Lino Breda e Sr. Antonella Casiraghi, i quali dovranno separarsi dalla Comunità Monastica di Bose e trasferirsi in altro luogo, decadendo da tutti gli incarichi attualmente detenuti.

            Con lettera del Segretario di Stato al Priore e alla Comunità, inoltre, la Santa Sede ha tracciato un cammino di avvenire e di speranza, indicando le linee portanti di un processo di rinnovamento, che confidiamo infonderà rinnovato slancio alla nostra vita monastica ed ecumenica.

            In questo tempo che ci prepara alla Pentecoste invochiamo una rinnovata effusione dello Spirito su ogni cuore, perché pieghi ciò che è rigido, scaldi ciò che è gelido, raddrizzi ciò che è sviato e aiuti tutti a far prevalere la carità che non viene mai meno.

Comunicato 26 maggio 2020 della Comunità di Bose

www.monasterodibose.it/comunita/notizie/vita-comunitaria/13892-speranza-nella-prova

 

Il nostro cammino     

All’indomani della solennità della Pentecoste, la Comunità di Bose ha accolto la notizia che il suo fondatore, fr. Enzo Bianchi, assieme a fr. Goffredo Boselli e a sr. Antonella Casiraghi hanno dichiarato di accettare, seppure in spirito di sofferta obbedienza, tutte le disposizioni contenute nel Decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020. Fr. Lino Breda l’aveva dichiarato immediatamente, al momento stesso della notifica.

A partire dai prossimi giorni, dunque, per il tempo indicato nelle disposizioni, essi vivranno come fratelli e sorella della Comunità in luoghi distinti da Bose e dalle sue Fraternità.

Ai nostri amici e ospiti che ci hanno accompagnato con la preghiera e l’affetto in questi giorni difficili chiediamo di non cessare di intercedere intensamente per tutti noi monaci e monache di Bose ovunque ci troviamo a vivere. Pregate per ciascuno di noi, e per la Comunità nel suo insieme, perché possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane, continui a testimoniare quotidianamente l’evangelo in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo.

“Monastero di Bose” 1 giugno 2020

www.monasterodibose.it/comunita/notizie/vita-comunitaria/13903-il-nostro-cammino

   

Il caso Bose. Intervista a Riccardo Larini

Riccardo Larini è un intellettuale molto vicino alla Comunità, avendone fatto parte per undici anni ed essendo sempre rimasto in ottimi rapporti con tutti a Bose. 

 

Professor Larini, questo è il testo del Comunicato Stampa che la Comunità ecumenica di Bose ha diffuso, il primo giugno, dopo i colloqui con il delegato apostolico. Sappiamo, da un articolo di Avvenire, che questo allontanamento sarà a “tempo indeterminato” per Enzo Bianchi, per gli altri sarà dai tre a cinque anni. Qualche commentatore ha scritto che questo è un “addio” per Enzo Bianchi a Bose. Personalmente non penso affatto che lo sia. Qual è il suo pensiero?

            Innanzitutto spero che comprenda che sto parlando di persone che per me sono famiglia, anche se accetto di farlo da “fratello lontano”, che può aiutare a riflettere i propri “genitori” e a rendere la comunicazione attorno al caso meno basata su supposizioni che talvolta sono addirittura maliziose o morbose.

            Sicuramente, sia da quanto mi è dato di sapere personalmente, sia da tutto ciò che è stato pubblicato (e non) in questi giorni, mi pare chiaro che un distanziamento tra le parti si fosse ormai reso necessario. Per quanto si sia persone mature e di grande fede, ci sono momenti in cui la convivenza può essere solo deleteria. Perciò è bene che tutti possano respirare. Il priore ha bisogno di spazio per poter esercitare più liberamente il proprio ministero, ovverosia prendere le decisioni ordinarie riguardo alla vita comunitaria, scegliere i propri collaboratori, accompagnare con i carismi della saldezza e del discernimento, come dice la Regola di Bose, la vita spirituale e monastica dei fratelli e delle sorelle, che sono certo proseguirà secondo il livello di sempre.

            Gli altri membri coinvolti (e non solo quelli allontanati temporaneamente), hanno bisogno di spazio per ripensare a come essere pienamente solidali con il corpo comunitario e con i suoi valori, pur non venendo meno alle loro convinzioni, specie a quelle fondate sul Vangelo.

            Il fondatore ha bisogno di distanza per trovare un modo diverso di essere un “semplice monaco” che tuttavia non sarà mai del tutto un “fratello come gli altri”. Ed è quest’ultimo, in fondo, il vero nodo interno da risolvere.

Ho letto molti cliché su cosa accade o dovrebbe accadere quando avviene una successione, quasi stessimo parlando di un’azienda o di una società sportiva, o della successione tra due abati di una comunità dalla lunga storia. Ma la realtà è che finché un fondatore di un’esperienza religiosa di qualsiasi genere è in vita non potrà mai avere un ruolo identico a quello di tutti gli altri, per la natura stessa delle esperienze religiose.

            Non volendo sottrarmi alla sua domanda, dunque, rispondo che se la distanza sarà accompagnata da un vero processo dialogico, fratel Enzo rimarrà parte dell’esperienza di Bose. Probabilmente vivendo in disparte, ma tornando a essere coinvolto in forme nuove e non invasive nella storia bosina. In assenza di una volontà da parte di tutti di iniziare un processo di tal genere, i cammini del fondatore e di una parte della comunità da un lato e del resto della comunità dall’altro si separeranno definitivamente.

Approfondiamo un poco le “radici” di questo caso. Il provvedimento della Santa Sede è duro. Il tutto è scaturito, cito dal primo comunicato della Comunità, “da serie preoccupazioni pervenute da più parti alla Santa Sede che segnalavano una situazione tesa e problematica nella nostra Comunità per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del Fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno”. Questo comunicato “dice e non dice” al tempo stesso. Le chiedo: è possibile, che per dissapori tra il fondatore e il priore attuale, si arrivi ad un provvedimento assai drastico? Possibile che un uomo carismatico come Enzo Bianchi sia incompatibile con la vita comunitaria? A me sorgono molti dubbi.

Sempre con timore e tremore, togliendomi i calzari come Mosè davanti al roveto ardente, devo dire che la risposta alla sua domanda non può essere data da un processo unicamente interno a Bose. Mi spiego. Sta certamente alla comunità tutta (compresi i membri allontanati) ricomporre le proprie lacerazioni e definire cosa voglia essere e dove debba andare, in maniera fondamentalmente autonoma (purché non contraddica il Vangelo, perché in tal caso ogni credente avrebbe un dovere di correzione fraterna nei suoi confronti). Tuttavia, sia le precisazioni fornite nel secondo comunicato della comunità riguardo alla promessa di restare fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane”, sia le molte, troppe voci che sono trapelate riguardo a ulteriori richieste formulate alla comunità dalla Santa Sede, suscitano seri interrogativi riguardo alle ragioni complessive e la portata globale del provvedimento adottato.

            Ci sono tantissime persone, direi senza paura di esagerare decine di migliaia, in Italia e in tutto il mondo, che, non per il desiderio malsano di spiare ma per il loro cammino spirituale personale, hanno in qualche modo un bisogno profondo di sapere dove voglia e debba andare Bose, se le diatribe interne riguardino anche questo o siano solo questioni di debolezza umana, se il decreto singolare emesso dal Segretario di Stato chieda o meno cambiamenti giuridici e disciplinari tali alla comunità da stravolgere anche solo parzialmente la propria carica profetica.

            C’è tutta una “generazione Bose”, come l’ha definita Massimo Faggioli, che non si compone di persone che sarebbero andate facilmente in altri monasteri e che inoltre si sono riavvicinate alla chiesa e al Vangelo proprio grazie all’unicità della comunità fondata da Bianchi. A loro, credo, la comunità deve risposte, che altrimenti giungeranno loro dal caos mediatico scatenatosi attorno alla vicenda, e saranno risposte distorte.

Proseguiamo nell’analisi. Da quello che si sa non sono state imputate a Padre Enzo nessuna questione dottrinale. Per qualche osservatore, invece, tutta la vicenda assume carattere di una “normalizzazione” dell’esperienza di Bose. Il ché sarebbe in contraddizione con lo spirito fortemente ecumenico del papato di Francesco. Il Papa ha ceduto all’ala conservatrice della Curia romana? Come giudica il comportamento della Santa Sede?

            Chiunque mastichi seriamente un po’ di teologia sa bene che definire Bose una realtà super-progressista o addirittura eretica, oltre a essere un’affermazione lontana dalla verità, è in realtà una costruzione a tavolino molto utile per generare polarizzazioni nella rete e per arruolare il nome di Bianchi e di Bose per fini e lotte di cui non sono mai stati parte. Ovviamente non c’è nessuna questione dottrinale in gioco. Il monachesimo è sempre stato una realtà profetica, in qualche tensione con le istituzioni ecclesiali. Ed è altrettanto chiaro che, proprio per questo, la gerarchia ecclesiale è sempre tentata nella storia di addomesticare le esperienze monastiche, inquadrandole nel diritto. A mio avviso si tratta di una tensione in qualche modo sana, che non mi scandalizza.

A questo va aggiunto (è stata la tesi del mio Master a Cambridge riguardo a Gesù e il I secolo) che ogni nuova esperienza religiosa passa da una fase in cui è unicamente vissuta da una comunità ristretta, a una in cui, specie al morire della prima generazione, l’istituzionalizzazione è inevitabile, e nascono tensioni attorno all’interpretazione delle origini. Basti pensare al capitolo 21 del Vangelo di Giovanni.

Quando lasciai Bose, 15 anni fa, la comunità non era ancora neppure un’associazione di fedeli laici: dal punto di vista giuridico aveva solo delle configurazioni civilistiche. E disponeva solo di una Regola fatta di indicazioni tratte dai Vangeli, un ufficio liturgico di propria composizione e un minimo molto scarno di strutture interne. Eppure era riconosciuta in tutto il mondo e da tutte le chiese come un fulgido esempio di vita monastica. La legge non è tutto. È chiaro che la libertà bosina ha sempre suscitato piccole invidie in alcune esperienze tradizionali di vita religiosa, e che comunque fu la comunità stessa, già in quegli anni, a interrogarsi su un possibile inquadramento istituzionale come associazione di laici. Anche perché questo era molto in linea con la difesa della laicità del monachesimo, dell’essere semplici cristiani, consacrati a Dio in Cristo mediante l’unica consacrazione ricevuta da tutti i cristiani nel battesimo.

            Riguardo a papa Francesco, distinguerei molto il suo sincero afflato ecumenico dalla sua visione delle questioni interne, anche giuridiche, della chiesa. Ritengo del tutto possibile che egli stesso si sia convinto di dover aiutare la comunità di Bose a prevenire problemi futuri chiedendole cambiamenti e un maggiore inquadramento nel diritto canonico. Del resto mi pare non abbia lesinato interventi di tal genere in altri casi.

            Per contro mi sento di essere meno generoso nei confronti del modo in cui la chiesa cattolica più in generale ha trattato la vicenda.  In primo luogo, e non l’ha ancora citato nessuno che io sappia, se Bose è un’associazione di laici di diritto diocesano, trovo per lo meno un fallimento dell’ordinario del luogo [Biella] il non essere riuscito a mediare in una situazione di cui non poteva non essere a conoscenza. È inutile chiedere più sinodalità, una maggiore applicazione del Vaticano II, se i vescovi sono i primi a non credere nelle loro prerogative. È in gioco una genuina applicazione del Concilio.

La Segreteria di Stato è inoltre intervenuta (perché il decreto è suo, non del papa, anche se egli lo ha approvato) applicando, di fatto, la giurisdizione diretta della Santa Sede su ogni singolo credente cattolico. Peccato però che a Bose ci siano anche non cattolici, membri a pieno diritto della comunità, e il ricorso all’unica prerogativa del papato su cui nessuna chiesa cristiana mai concorderà con quella cattolica per dirimere una questione inerente una comunità ecumenica rappresenti un vulnus eccezionale allo spirito ecumenico di cui per contro ci si continua a dichiarare fedeli servitori. E la comunicazione vaticana è stata gravemente insufficiente. Di solito si tacciono le parti di provvedimenti che riguardano le persone, e si parla di ciò che riguarda le istituzioni, per questioni di rispetto. Qui si è fatto il contrario, e sullo stesso Osservatore Romano si è lasciato che a parlare del decreto singolare fosse il comunicato della comunità di Bose.

            Per potere dare maggiori risposte alla sua domanda, perciò, credo si debba attendere a questo punto la doverosissima pubblicazione del decreto singolare, in assenza della quale, anche senza volerlo, si continuerà ad alimentare l’umiliazione di persone e di storie che hanno invece reso un servizio enorme alla chiesa a livello mondiale nonché alla cultura del nostro paese.

Quello che è chiaro che tutta la vicenda non può essere, e non sarà, risolta con soli provvedimenti disciplinari. L’esperienza di Bose è un frutto, grande, del Concilio Vaticano II. Per questo, per quello che rappresenta per l’intera “cristianità” (intesa qui intero ecumene), tutta la vicenda non è banale. Tocca il futuro della Chiesa.  Le chiedo qual è, allora, la vera posta in gioco?

La posta in gioco è molto più grande di quanto non sia stato percepito nei palazzi vaticani e da una chiesa italiana colpevolmente molto silente fino ad ora, anche se c’è tempo per rimediare a questo almeno in parte. Certo, da un lato è palese, dalle immediate reazioni anche virulente, che la vicenda Bose rischi di essere strumentalizzata dai tristi giochi di potere scatenati sia da alcuni alti prelati che si oppongono a Francesco e al Vaticano II che da gruppi di interesse di vario genere. Ma delle beghe di palazzo, sinceramente, non voglio occuparmi.

Un dato più importante è che è in gioco una testimonianza cristiana sui generis di cui il mondo ha un enorme bisogno. Bose è un esempio straordinario di come lo studio, la conoscenza, la profondità e l’ardire del pensiero siano compatibili con la fede cristiana, e anzi la rafforzino. È un laboratorio che ha dato chiara prova, nel corso degli anni, di un eccezionale equilibrio, senza mai ricorrere a cliché, senza utilizzare dogmatismi. Per questo ha conquistato la fiducia di cristiani di ogni confessione e di persone dagli orientamenti culturali e religiosi diversissimi. Nella società delle grida in rete e delle polarizzazioni su tutto, abbiamo bisogno del coraggio e dell’arte del pensare come del pane quotidiano. E Bose ne è stata fino ad oggi un esempio straordinario. Senza esperienze come Bose, la chiesa diventerebbe un luogo molto più arido, buio e triste. Per questo la comunità andrebbe accompagnata dalla chiesa con maggior rispetto e attenzione di quanto è accaduto negli ultimi mesi.

            Sul dialogo ecumenico, che è il campo a cui ho dedicato gran parte della mia vita, devo per contro usare tutta la necessaria parresia evangelica, sia nei confronti delle chiese che della comunità in cui sono vissuto. Sono quasi trent’anni che, a fronte di dichiarazioni pubbliche, nei fatti il movimento ecumenico sta regredendo. Chi come me si è formato nella grande stagione del dialogo della carità e degli straordinari dialoghi teologici culminati in eventi epocali, a partire da Balamand (Libano) ha assistito a un lento e inesorabile declino, al ritorno sempre più insistente di comportamenti (nonché di posizioni teologiche anche ufficiali) nelle chiese che contraddicono pesantemente la ricerca dell’unità tra le chiese e tra i cristiani. Il ricorso alla giurisdizione diretta del papa per risolvere la questione sorta a Bose è uno di tali gesti. Con esso, in un solo colpo, Bose ha perso gran parte della sua credibilità ecumenica agli occhi di tutte le chiese non cattoliche. E per quanto sia doloroso, non posso esimermi dal dirlo. Ci vorrà molto tempo per ricostruire, e forse non sarà possibile. E la responsabilità di un simile gesto è sia della comunità che della Santa Sede.

Ultima domanda: “Normalizzare Bose” o “Normalizzare Francesco”?

Una sola, semplice risposta: risvegliare tutti a maggiore discernimento e vigilanza, per non distruggere tesori preziosi, anche quelli che si amano sinceramente.

Pierluigi Mele Rainews          3 giugno 2020

http://confini.blog.rainews.it/2020/06/03/il-caso-bose-intervista-a-riccardo-larini

 

Bose: verso la soluzione

Un sospiro di sollievo di molti credenti ha accompagnato il comunicato del monastero di Bose che annuncia l’avvio della soluzione del contenzioso comunitario. «All’indomani della solennità di Pentecoste (1° giugno), la comunità di Bose ha accolto la notizia che il suo fondatore fr. Enzo Bianchi, assieme a fr. Goffredo Boselli e a sr. Antonella Casiraghi hanno dichiarato di accettare, seppure in spirito di sofferta obbedienza, tutte le disposizioni contenute nel decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020. Fr. Lino Breda l’aveva dichiarato immediatamente, al momento stesso della notifica. A partire dai prossimi giorni, dunque, per il tempo indicato dalle disposizioni, essi vivranno come fratelli e sorelle della comunità in luoghi distinti da Bose e dalle sue Fraternità». Rimane l’appartenenza comunitaria, cambia il luogo e quindi gli interessati decadono da tutti gli incarichi attualmente detenuti. Si sono avviati i dialoghi per stabilire il dove e il come di questa permanenza fuori comunità.

Ragioni e tensioni. Si scioglie in questo modo il rifiuto che fr. Bianchi, assieme a Boselli e Casiraghi, avevano opposto al decreto e si avvia a soluzione la tensione comunitaria. Secondo alcune cronache giornalistiche, aveva chiesto la sospensione del provvedimento. L’allontanamento si intuisce essere temporaneo in conformità a quanto il fondatore scriveva nel 1985: «Noi non potremo mai mandar via o escludere dalla comunità un fratello, così come nessuno potrà dire di non appartenere più ad essa».

Nei giorni scorsi annotava: «Ho sofferto di non poter più dare il mio legittimo contributo come fondatore. In quanto fondatore, oltre tre anni fa ho dato liberamente le dimissioni da priore, ma comprendo che la mia presenza possa essere stata un problema. Mai però ho contestato con parole e fatti l’autorità del legittimo priore, Luciano Manicardi, un mio collaboratore stretto per più di vent’anni, quale maestro dei novizi e vicepriore della comunità, che ha condiviso con me in piena comunione decisioni e responsabilità».

Nel 1998 aveva scritto che una fondazione ha forza profetica per i primi 50 anni, poi subentra una crisi: «Bose potrebbe anche finire». Quattro anni prima era stato anche più esplicito: «La Chiesa normalmente “cattura” la comunità religiosa nella seconda generazione» ed essa perde il contatto con il mondo e diventa elemento significativo nel sistema istituzionale. Una lettura esplicitamente sociologica e difficile da applicare frettolosamente con quanto sta succedendo.

La reazione della comunità è intuibile nell’omelia del priore per la festa della Pentecoste, quindi prima della decisione dei “resistenti”. Commentando Gv 20,20-22 egli diceva: «Questa comunità [dei discepoli] che, come sempre ogni comunità, è una povera comunità che vive una comunione ferita, che ha conosciuto lacerazioni, impara dal Crocifisso risorto che le ferite possono divenire le feritoie attraverso cui passa il dono vivificante, il dono dell’amore. Il corpo ferito e risorto di Gesù è, per i discepoli, memoria della storia d’amore vissuta insieme, è attualizzazione di tale storia non interrotta dalla morte, ed è donazione di futuro per continuare una storia di amore (Gesù dona loro lo Spirito). Proprio come lo è l’eucaristia». E aggiunge: «Perdonare è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subìto l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti». «Tuttavia il dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso».

Le molte voci esterne. La sostanza della tensione comunitaria è quella espressa nel comunicato del monastero del 26 maggio: «Come da noi annunciato a suo tempo, in seguito a serie preoccupazioni pervenute da più parti alla Santa Sede che segnalavano una situazione tesa e problematica nella nostra comunità per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno» il santo padre ha disposto la visita canonica. Fra i numerosi commenti raccolti in queste giornate ne sottolineo alcuni come emblematici. Il primo, della pastora evangelica Lidia Maggi, interpreta l’affetto e la vicinanza di molti: «La comunità di Bose non ha rappresentato per me l’incontro con l’esotico (con quella dimensione monastica che le Chiese della riforma hanno per lo più espulso dal loro orizzonte) o con una risorsa utile per coltivare lo spirito ecumenico. Più radicalmente, la forma della fede vissuta a Bose mi ha interpellata nella mia identità più profonda, a proposito di quel marcatore identitario che caratterizza il cristianesimo riformato, ovvero la centralità della Parola». E conclude: «Per tutto questo sento Bose come parte del mio corpo. Per questo la sua ferita è la mia».

Approcci marcatamente critici verso i provvedimenti vaticani e poco rispettosi verso i fratelli e le sorelle della Comunità sono invece quelli di G. Ruggieri e A. Melloni. Il primo scrive: «Hanno ucciso il padre mediante interposta persona… Enzo è il fondatore, quella è una sua creatura. È impossibile pensare Bose senza Bianchi». Melloni parla ironicamente di «reato di caratteraccio» e di «faida vaticana contro Francesco». Un’operazione «che infilza l’anomalia di Bose, il priore, l’ex priore, il mancato priore, l’ecumenismo, la terza loggia vaticana, i vescovi italiani, un lembo della tonaca del papa».

Tutt’altra lettura e un invito all’obbedienza sono invece presenti nelle parole di Raniero La Valle e di p. Bartolomeo Sorge. La Valle afferma che «non c’è nessuna intenzione punitiva o di repressione nei confronti di Bose. Papa Francesco ha sempre apprezzato il cammino intrapreso dalla comunità piemontese. Se si è resa necessaria una decisione come quella che ci ha addolorato evidentemente non è per porre fine o stroncare questo carisma, ma per difenderlo, preservarlo e farlo crescere». Per Sorge: «A questo punto Enzo Bianchi deve accettare con amore la sofferenza della prova. La ribellione e la resistenza sarebbero un errore fatale perché in questi casi si accetta la croce anche senza capirne le ragioni».

Tradizione pre-benedettina. Mentre si avvia a soluzione il contenzioso, la comunità viene confermata nel suo cammino e nella sua identità, voluta dal fondatore, ma è anche resa possibile un’evoluzione. Fra i molti indirizzi, accenno a due soli elementi: l’identità monastica e il tema dell’obbedienza. Bose canonicamente è un’associazione privata di fedeli, non è censita nell’Ordo monasticum. Con genialità si è imposta per quello che è. Si è sempre considerata tuttavia comunità monastica e i suoi membri sono monaci e monache. La presentazione a Bose del decreto è avvenuta con la presenza di mons. Carballo, segretario del dicastero dei religiosi. Questo fa presumere un cammino di riconoscimento formale, che non richiede di per sé la rinuncia a nessuna delle particolarità di Bose: dalla liturgia, al “doppio monastero”, dalla Regola alla dimensione ecumenica. Se così fosse, la corrente monastica occidentale e benedettina sarebbe arricchita dal flusso delle memorie basiliane e del monachesimo pre-benedettino. Fra le sue caratteristiche si può ricordare: la centralità e la signoria della Scrittura, l’unicità della vocazione cristiana, la dimensione non clericale, la preminenza del binomio celibato-vita comune rispetto al trinomio dei voti (povertà, castità, obbedienza).

A Bose l’obbedienza è verso la comunità piuttosto che verso il priore. Anche questo è un portato della tradizione basiliana che affida al responsabile un compito di amalgama e di fedeltà al Vangelo piuttosto che un profilo di autorità vincolante. L’autorità è occasione di obbedienza a Dio. «Credo che la cosa più faticosa sia proprio l’obbedienza – ha scritto Bianchi nel 1997 – per come noi la pratichiamo a Bose, come la pensiamo. Non è tanto obbedienza ai superiori quanto obbedienza come sottomissione reciproca». Coerentemente si sono sviluppati gli organismi del priore, del consiglio della comunità (i monaci e le monache che hanno fatto professione monastica), del «discretorio» (una struttura più snella per i casi personali), del capitolo (tutti quelli accolti liturgicamente in comunità) e dell’assemblea (tutti quelli che hanno ricevuto l’abito). I fatti recenti mostrano che un affinamento del tema è possibile e prezioso.

Le indicazioni del decreto della Santa Sede, l’indirizzo largamente prevalente della comunità e il gesto di obbedienza del fondatore convergono nel dare futuro a una comunità che è monastica, formata da cristiani, chiamati a vivere radicalmente l’Evangelo nella vita comune e nel celibato. Comunità mista (uomini e donne) e interconfessionale. Un dono prezioso per la Chiesa italiana. E non solo.

Lorenzo Prezzi                       Settimana news           4 giugno 2020

www.settimananews.it/vita-consacrata/bose-verso-la-soluzione

 

Per Bose questi sono i giorni della tribolazione e della prova.

La Chiesa universale, la Chiesa italiana, il cammino ecumenico, la ricerca liturgica, la lectio divina (che vuol dire la centralità della Parola), i molti che negli oltre cinquant’anni di vita della comunità sono passati e spesso tornati a Bose e nelle altre fraternità (Assisi, Cellole, Ostuni, Civitella), tutti dobbiamo molto a questa realtà frutto del Concilio e al suo fondatore Enzo Bianchi.

            Di fronte a quanto di poco comprensibile sta accadendo alla e nella Comunità, si viene presi da molti sentimenti contrastanti e da un forte sconcerto, acuito in particolare per una scarsa trasparenza informativa che non sembra giovare a una presa di coscienza del Popolo di Dio. Superato il turbamento iniziale, la ragione ci aiuta a tenere in primo piano il senso di gratitudine per il cammino di Chiesa che quanto si vive a Bose ci lascia intravvedere. Un futuro possibile, che intercetta nel profondo i segni dei tempi (non la moda del tempo), che anticipa – come è proprio di chi nella Chiesa vuole essere segno del “già e non ancora” – linguaggi e pratiche che dovrebbero farsi strada per consentire alla Chiesa di ritornare a parlare alle future generazioni.

            Speriamo che l’atto di sofferta obbedienza compiuto da Bianchi e dai suoi tre confratelli possa riportare serenità a Bose. Certo è che in mancanza di precise informazioni non può non preoccupare quanto si legge nel comunicato del 26 maggio in questo passaggio: “Con lettera del Segretario di Stato al Priore e alla Comunità, inoltre, la Santa Sede ha tracciato un cammino di avvenire e di speranza, indicando le linee portanti di un processo di rinnovamento, che confidiamo infonderà rinnovato slancio alla nostra vita monastica ed ecumenica”. Forse almeno il testo di questa lettera potrebbe/dovrebbe essere reso pubblico.

In attesa di avere le necessarie informazioni per capire, ci sembra utile considerare quanto fino ad ora conosciamo e proporre i commenti che possono essere di aiuto al formarsi un’opinione.

Viandanti        4 giugno 2020                                     www.viandanti.org/website/bose

 

 

 

Pensando a Bose e alla Chiesa

Per Bose questi sono i giorni della tribolazione e della prova. La Chiesa universale, la Chiesa italiana, il cammino ecumenico, la ricerca liturgica, la lectio divina (che vuol dire la centralità della Parola), i molti che negli oltre cinquant’anni di vita della comunità sono passati e spesso tornati a Bose e nelle altre fraternità (Assisi, Cellole, Ostuni, Civitella), tutti dobbiamo molto a questa realtà frutto del Concilio e al suo fondatore Enzo Bianchi.

            Turbamento e gratitudine. Di fronte a quanto è accaduto si viene presi da molti sentimenti contrastanti e da un forte sconcerto, acuito in particolare dalle scarse informazioni ufficiali e dal silenzio dei vescovi italiani, che non sembrano giovare a una presa di coscienza del Popolo di Dio. Ogni questione di grande rilievo che riguarda una comunità, come questa di cui stiamo scrivendo, non può mai essere una questione privata. Interessa tutta la Chiesa. Superato il turbamento iniziale, la ragione ci aiuta a tenere in primo piano il senso di gratitudine per il cammino di Chiesa che Bose ci lascia intravvedere. Un futuro possibile, che intercetta nel profondo i segni dei tempi (non la moda del tempo), che anticipa – come è proprio di chi nella Chiesa vuole essere segno del “già e non ancora” – linguaggi e pratiche che dovrebbero farsi strada per consentire alla Chiesa di parlare alle future generazioni e di ritornare ad essere una. Non si può che sperare che l’atto di sofferta obbedienza compiuto da Bianchi e dai suoi tre confratelli possa riportare serenità a Bose e che il tempo aiuti la necessaria riconciliazione.

            Il futuro in una Lettera. Al momento l’attenzione più che alle dinamiche interne, per le quali occorre rispetto più che una ricerca inquisitoria che a poco servirebbe (si veda in proposito intervista a prof. Larini), si dovrebbe appuntare su ciò che interessa la dinamica ecclesiale che in un certo senso supera Bose e il suo fondatore. Centrale, in proposito, è quanto si legge nel comunicato di Bose del 26 maggio in questo passaggio: “Con lettera del Segretario di Stato al Priore e alla Comunità, inoltre, la Santa Sede ha tracciato un cammino di avvenire e di speranza, indicando le linee portanti di un processo di rinnovamento, che confidiamo infonderà rinnovato slancio alla nostra vita monastica ed ecumenica”. Lo stesso comunicato informa anche del fatto che uno dei visitatori apostolici, il padre canossiano Amedeo Cencini, è stato nominato delegato pontificio con pieni poteri, non è fuori luogo, pertanto, ritenere che le “linee portanti di un processo di rinnovamento” contenute nella lettera del cardinale Parolin, troveranno una loro puntuale realizzazione.

            L’affermazione “processo di rinnovamento” senza la precisazione dei suoi contenuti può lasciare adito ad interpretazioni completamente opposte: una nel segno dell’innovazione e un’altra nel segno della conservazione o della “normalizzazione”. È anche questa ambivalenza che renderebbe opportuna la pubblicazione del testo della Lettera o quantomeno, per restare negli standard di riservatezza della comunicazione della Santa Sede, un comunicato che presenti i contenuti di questo “rinnovamento”.

            Un rinnovamento nel segno di Francesco? Rinnovamento è una parola chiave dei documenti e dei discorsi di papa Francesco. Nel suo testo programmatico, “La gioia del Vangelo” (Evangelii gaudium), il rinnovamento ricorre spesso e viene messo in relazione con l’esigenza di una riforma; le esemplificazioni poi sono sempre in contrapposizione alle visioni statiche e superate della pastorale, con un esplicito invito a non restare “ancorati alla nostalgia di strutture e abitudini che non sono più portatrici di vita nel mondo attuale”. Il rinnovamento è perciò definito con una direzione precisa. Francesco sogna un cambiamento profondo che trasformi “le consuetudini, gli stili, il linguaggio”. E l’invito è “ad essere audaci e creativi in questo compito” (nell’ordine Evangelii Gaudium 26, 108, 27, 33).

            Di e su Bose/Enzo Bianchi si possono dire molte cose, non certamente che non sia stato audace e creativo nel realizzare il cambiamento dando vita ad una comunità monastica mista e interconfessionale. Anche nel rinnovamento del linguaggio (liturgia, salterio, …), che è una vera emergenza per la trasmissione della fede. Annota in proposito il Vescovo di Roma: “gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità. […] ascoltando un linguaggio completamente ortodosso, quello che i fedeli ricevono […] è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo. […] In tal modo, siamo fedeli a una formulazione ma non trasmettiamo la sostanza. […] il rinnovamento delle forme di espressione si rende necessario per trasmettere all’uomo di oggi il messaggio evangelico nel suo immutabile significato” (EG 41).

            Il “processo di rinnovamento” di cui parla la Lettera avrà questo respiro? Tutti ce lo auguriamo, anche se per ora la domanda non ha una risposta.

Normalizzazione o un rinnovato slancio? Ogni atto creativo ed audace facilmente, nella sua fase originaria (e 50 anni per un’istituzione si può dire siano ancora l’infanzia), ha bisogno di definizioni istituzionali “leggere” per non imbrigliare il suo spirito in forme vetuste alle quali vuole, invece, portare nuova linfa. Questo è forse il vero nodo al quale Bose viene posta di fronte, come prima ancora altre forme innovative, una per tutte quella di Francesco d’Assisi. La preghiera nella vicinanza alla quale ci invitano i fratelli di Bose (Il nostro cammino – 1.6.2020) sembra indicarci proprio questo nodo. Ci chiedono di pregare affinché la “Comunità nel suo insieme possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane”.

Ogni grande istituzione, la Chiesa per particolare che sia è una di queste, cerca di “normalizzare”, cioè di riportare nell’alveo di norme e regole precise il nuovo; questo avviene a volte in senso negativo e repressivo, a volte, dipende dalla lungimiranza di chi detiene il potere, nel positivo intento di assicurare al nuovo la possibilità di svilupparsi e di portare frutto a tutti. Il “rinnovato slancio” in cui si confida a Bose.

Un rinnovamento di cui ha bisogno anche la Chiesa. “Rinnovare” Bose sembra una tautologia, in quanto Bose è già di per sé il rinnovamento. La Chiesa, il Vescovo di Roma (che sembra essersi esposto anche personalmente nella vicenda) impegnandosi in un “processo di rinnovamento” di questa comunità non può contemporaneamente non impegnarsi in un processo analogo per le norme della Chiesa. Se Roma vuole veramente, e non abbiamo ancora motivo per dubitarne, portare un aiuto a Bose “tenendo conto della rilevanza ecclesiale ed ecumenica della Comunità… e dell’importanza che essa continui a svolgere il ruolo che le è riconosciuto” non può pensare di restare nella sola prospettiva del diritto costituito e “proteggere” Bose traghettandola da “Associazione privata di fedeli” alle forme di monachesimo già conosciute.

            La sfida non riguarda invece l’esigenza di una riforma delle leggi vigenti per accogliere il nuovo che in questi cinquant’anni ha dato buona prova di sé? Occorrerà, forse, avere il coraggio di percorrere la strada di un diritto che segue e accompagna l’esperienza, cioè del “diritto costituendo” (de iure condendo) di cui parlano i giuristi, al fine di dare la giusta collocazione a Bose.

Una questione di otri. Il problema non è nuovo già nelle comunità cristiane dei primi tempi, per le quali scrive Luca, doveva esserci una questione analoga. Luca, infatti, alla parabola in cui parla del vino nuovo che fa scoppiare gli otri vecchi e pertanto “il vino nuovo va messo in otri nuovi!” (5,38), aggiunge questa sentenza: “Colui che beve vino vecchio non vuole il nuovo, perché dice: il vecchio e migliore” (5, 39). E il commentatore annota “L’esigenza di un salto di qualità per un’esperienza cristiana autentica è sottesa a quest’ultima sentenza”. Infatti al sommelier lucano sembra sfuggire che per poter bere del buon vino vecchio occorre conservare bene il nuovo.

Rimanda vagamente alla diatriba degli otri anche quanto Francesco, vescovo di Roma, scrive al numero 26 de La gioia del Vangelo: “Ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore; ugualmente, le buone strutture servono quando c’è una vita che le anima, le sostiene e le giudica”. Una vitalità ben presente a Bose, della quale in molti (battezzati-laici, vescovi, cardinali e i massimi esponenti delle altre confessioni cristiane) sembrano essersi accorti in tutti questi anni. In attesa che si trovi l’otre giusto, noi dobbiamo vigilare e anche accogliere l’invito di Bose a pregare affinché “possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane”.

Franco Ferrari                       Presidente Associazione Viandanti                10 giugno 2020

www.viandanti.org/website/pensando-a-bose-e-alla-chiesa

A) DOCUMENTAZIONE [1]                                                               LINK         in https://www.viandanti.org/website/bose

Dicembre 2019 – Un tempo di grazia e di ascolto (Comunicato di Bose sulla Visita apostolica in corso)

26 maggio 2020 – Speranza nella prova              (Comunicato di Bose sugli esiti della Visita apostolica)

27 maggio 2020 –                                                  Comunicato ufficiale di fr. Enzo Bianchi

1 giugno 2020 – Il nostro cammino                       (Comunicato di Bose che annuncia l’accettazione delle disposizioni del Decreto

                                                                               della Santa Sede del 13 maggio 2020)

B) DOCUMENTAZIONE [2]

Settembre 2011 – Vita fraterna, antidoto a una Chiesa depressa (intervista a E. Bianchi a cura di V. Prisciandaro, “Jesus”, n 9/2011).

Un’ampia intervista sulla realtà e sulla vita di Bose)

30 novembre 2014 – Lettera agli amici. (Il testo informa sulla visita fraterna, secondo la tradizione monastica, voluta da Bianchi

 come priore, pur essendo “Bose una comunità nuova, non appartenente a un ordine o a una congregazione”)

6-26 gennaio 2017 – Comunicato del fondatore Enzo Bianchi (Un duplice testo con il quale si comunicano le dimissioni di Bianchi da

                               priore e l’elezione del nuovo priore, Manicardi)

27 gennaio 2017 – Comunicato del priore, Luciano Manicardi

28 gennaio 2017 – Chi porta il peso (Articolo di Enzo Bianchi  “L’Osservatore Romano” nel quale si presenta l’avvenuta successione)

11 novembre 2018 – Lettera di papa Francesco al fondatore del monastero di Bose in occasione del cinquantesimo anniversario

                                della comunità monastica

C) UNA REGOLA PER LA VITA                                  Commento alla Regola di Bose del priore Luciano Manicardi

D) ALCUNI COMMENTI (in ordine di data)

Nicolas Senèze, Bianchi costretto a lasciare Bose (“La Croix” , 27.5.2020)

Luigi Bettazzi, Bianchi fa bene a chiedere le prove (A. Corlazzoli in “il Fatto Quotidiano”, 28.5.2020)

Alberto Simoni, Interrogarsi, guardando a Bose dal di fuori (“Koinonia-forum”, 29.5.2020)

Bartolomeo Sorge, “Accetta questa croce “(L. Moia in “Avvenire”, 29.5.2020)

P. Ruggieri – R. La Valle, Opinioni contrastanti: la curia ha voluto normalizzare, nessun intento punitivo (A. Corlazzoli in “il Fatto

                                        Quotidiano”, 30.5.2020)

P. Boffa Sandalina – M. Marchiori, Adesso occorre chiarezza (P. Guabello in “La Stampa”- Piemonte, 1.6.2020)

Lidia Maggi, Perchè mi è cara Bose (“www.finesettimana.org”, 1.6.2020)

Luigi Accattoli, E’ necessario conoscere il decreto su Bose (“il blog di L.A., 4.6.2020)

Amedeo Cencini, Intervista di A. Corlazzoli (“il Fatto Quotidiano”, 8.6.2020)

Ugo Basso, Riconoscenza e speranza (“Il Gallo”, luglio-agosto 2020)

E) BOSE NELLA CHIESA. QUESTIONI, INTERROGATIVI E GRATITUDINE (in ordine alfabetico per autore)

Massimo Faggioli, La Comunità di Bose: banco di prova per nuove comunità e movimenti (“La Croix International”, 10.6.2020)

Fulvio Ferrario, L’autorità nella Chiesa, le forme e i rischi (“Riforma”, 12.6.2020)

Andrea Grillo, Autorità e libertà all’eccesso: generazione monastica e il caso Bose (blog “come se non”, 7.6.2020)

Luciano Guerzoni, Bose, un “bene comune” ecclesiale (“Adista”, 5.6.2020)

Marie-Lucile Kubacki, I fondatori e la spinosa questione del passaggio di potere (“La Vie”, 29.5.2020)

Ghislain Lafont, Un conflitto tra Santi (“Munera” / blog Des moines et des hommes, 11.6.2020)

Andrea Lebra, Bose: non riesco a capire… (“settimananews”, 12.6.2020)

Pierluigi Mele, Il caso Bose. Intervista a Riccardo Larini (blog “Confini”, 3.6.2020)

Alberto Melloni, Dietro il “mistero” di Bose (“la Repubblica”, 28.5.2020)

Claudio Monge, Poche soluzioni alternative per uscire dall’impasse Bose! (dal profilo facebook, 4.6.2020)

Lorenzo Prezzi, Bose: verso la soluzione (“Settimananews”, 4.6.2020)

Alberto Simoni, Bose dopo Bose. Leggendo l’intervista di Larini (“Koinoni-forum”, n. 567/8.6.2020)

           

Autorità e libertà, all’eccesso: generazione monastica e il caso Bose

Non appartengo alla “generazione Bose”. Appartengo, piuttosto, alla “generazione Camaldoli” o alla “generazione Santa Giustina”. Ciò non dipende semplicemente da motivi di età, ma da quelle contingenze e da quelle circostanze che sempre determinano l’”essere generati”, fenomeno corporeo che non è mai soltanto fatto elettivo o opzionale, ma sempre anche occasione propizia e contingenza indebita. Resta comunque interessante che una forma di identificazione delle diverse generazioni di cristiani cattolici accada e si dica in relazione a “luoghi monastici”.

Io non sono mai stato a Bose. Conosco solo alcuni monaci, e le loro opere, che apprezzo e stimo. Per questo forse sono affettivamente meno implicato nelle dolorose vicende che gli ultimi giorni hanno attraversato il corpo personale ed ecclesiale di tanti tra noi. Proprio perciò vorrei fermarmi su alcuni aspetti di fondo, che mi paiono piuttosto dimenticati in ciò che viene detto sulla vicenda recente: ossia la eterogeneità originaria tra “chiesa apostolica” e “tradizione monastica”. Questo a me pare il punto su cui dovremmo riflettere, anche per recuperare quella serenità che, sine ira ac studio, può permetterci di capire davvero che cosa sta accadendo.

Provo a fare alcune considerazioni preliminari e del tutto provvisorie:

  1. La forma elementare della vita monastica. Il monachesimo è, ecclesialmente, forma di vita elementare: che porta al massimo della evidenza due aspetti opposti, polari, della fede cristiana: la vocazione alla singolarità, il lavoro su di sé, e la struttura comune, la forza aggregante e accorpante di linguaggi e gesti condivisi. Potremmo dire che nel monachesimo, almeno per come lo viviamo dopo Napoleone, cioè dopo che Napoleone aveva cercato di cancellarne la presenza in Europa, troviamo due elementi in tensione con il mondo moderno: una pre-moderna potenza di autorità e una post-moderna aspirazione alla iperlibertà.
  2. La regola e la libertà. In effetti non è difficile scorgere come una mediazione fondamentale, nel monachesimo, è costituita dalla “regola”. Essa è, allo stesso tempo, codice di comportamento, orientamento morale, principio ascetico, spazio mistico, regolamento giuridico. Viene da un mondo che non c’è più e va verso un mondo che non c’è ancora. In ragione di un dono, relativizza diritti e doveri. E crea spazi impensabili di “autorità totale sull’altro” e di “libertà radicale coram Deo”. Descrivendo una communitas vitæ, lo fa nel dettaglio di una “communitas ictus, orationis, cantus, laboris et dormitionis”.
  3. Conflitti e collaborazioni. Questo mondo, che è allo stesso tempo radicalmente chiuso e radicalmente aperto, che si iperstabilizza per non dipendere da nessun luogo, che si ipertemporalizza per attraversare tutti i tempi, è stato, da sempre, in una certa tensione con la “medietas” che la chiesa diocesana e parrocchiale, curiale e vaticana, ha dovuto inevitabilmente elaborare. La “successione apostolica” e la “vocazione monastica” non si intrecciano spontaneamente. La pertinenza al Vangelo “fondata istituzionalmente” e “riconosciuta spiritualmente” sono vie diverse, non necessariamente antitetiche, come spesso vorremmo, ma neppure ovviamente armoniche. E la storia è piena del loro conflitto.
  4. Una lunga storia che non è finita. La vita battesimale prende forme sorprendenti. E lo ha fatto da sempre. Noi tendiamo a semplificare troppo questa storia, sulla base degli sviluppi più recenti. Ma se ci guardiamo intorno scopriamo le infinite variazioni di una “esperienza di autorità” che si lega alla fede in modi non ecclesialmente univoci. Se, per fare solo alcuni esempi, si studia la storia delle città di Padova, di Bologna, di Bari o di Conversano, si scoprono abissi di conflitti e di collaborazioni, in cui tradizioni diocesane e tradizioni monastiche/religiose si contendono il campo: l’Abate di S. Giustina aveva più parrocchie del Vescovo di Padova; la basilica di S. Petronio era (ed è ancora) patrimonio comunale e non episcopale; sulla Chiesa di S. Nicola non il Vescovo, ma l’imperatore, poi il re e poi lo Stato italiano aveva autorità, per mediazione di una presenza monastica; infine la Badessa del monastero di Conversano aveva diritto di veto sulla elezione del Vescovo. Sono tutti esempi di quella “pluralità di fori” che la modernità ha semplificato, ma che l’esperienza ecclesiale non può mai del tutto superare, senza venir meno a se stessa.
  5. Il caso della “penitenza”. In modo ancora più netto, e ancor più dimenticato, si staglia la differenza tra monachesimo e successione apostolica sul piano della penitenza. Ci siamo convinti, lungo i secoli, che si possa affrontare la questione del peccato solo con il “potere delle chiavi”. Ma la tradizione ci dice, contemporaneamente, un’altra verità. Che nel rapporto con il peccato la autorità non è semplicemente quella “formale” garantita dalla ordinazione, ma quella “sostanziale” assicurata dalla vita santa. L’uomo santo, l’uomo che ha sperimentato su di sé la potenza della grazia, l’uomo che ha scoperto l’abisso del proprio peccato, è l’autorità ecclesiale che rende presente Cristo misericordioso. La riduzione “secolare” di questa tradizione ad “atto giuridico” è uno dei fenomeni più gravidi di conseguenze nel rapporto con il monachesimo e nella autosufficienza della logica istituzionale, almeno in occidente.
  6.  Il ruolo di una “regolata profezia”. I monasteri sono luoghi paradossali: dove è maggiorata tanto la autorità quanto la libertà e dove, pertanto, gli equilibri sono delicatissimi, sottili come un capello e alti come montagne. Per questo il surplus di autorità e di libertà, che il monachesimo deve sperimentare e comunicare, esige forme di autocontrollo su cui la “regola” è accuratissima garanzia. La cura della interiorità e lo stile della “forma esteriore”, che sono sempre in tensione, non possono entrare in contraddizione. Quando ciò accade non è raro che il rimedio, inevitabilmente, possa venire anche dall’esterno. Una regolata profezia, con la sua differenza, annuncia una Chiesa possibile e la rende simbolicamente reale. Per questo ci sono oggi “generazioni” di cristiani cattolici che hanno tratto da “luoghi monastici” la loro identità più intima e forse anche quella più esteriore.

Il monachesimo correla in radice vangelo e vita. Lo fa a rischio di una forma di vita. La sua vocazione è anche il suo limite: come accade nelle famiglie domestiche, anche le famiglie monastiche non possono gestire le crisi solo “diplomaticamente”. Questa è la differenza rispetto alla Chiesa non monastica: quanto più è decisiva una concreta forma di vita, tanto minore è lo spazio delle formalità e dei formalismi. Per questo, quanto maggiore è lo slancio profetico, tanto minore è lo spazio della mediazione. Da sempre è così. Ma è proprio questa differenza precaria e ferita ciò di cui abbiamo bisogno tutti. Nei passaggi più difficili può valere come orientamento di fondo una indicazione della Piccola Regola della Annunziata: “…in ogni ora, ambiente e circostanza, con la mansuetudine, la mortificazione della curiosità, la riduzione abituale delle cose che verrebbe spontaneo dire, la rinuncia a parlare di sé, la preferenza progressiva per le parole e i concetti più semplici, più sereni e più pacificanti.”

Andrea Grillo                         “Come se non”           7 giugno 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/autorita-e-liberta-alleccesso-generazione-monastica-e-il-caso-bose

 

Bose, un “bene comune” ecclesiale

     L’accettazione – “seppure in spirito di sofferta obbedienza” – da parte del fondatore della comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi, e degli altri tre confratelli, di “tutte le disposizioni contenute nel Decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020”, non risolve il “mistero” (Melloni) e la reticente opacità di quanto accaduto. Né risponde alla diffusa attesa di capire. Anzitutto la dimensione umana. A Bose, in oltre un cinquantennio, un centinaio di giovani – donne e uomini di nazionalità, culture e confessioni diverse – hanno dato vita, dopo un lungo e severo noviziato e nell’incondizionata sequela del progetto e del magistero del fondatore, a una quotidiana, intensa, esemplare fraternità di vita. Accogliente e gioiosa nell’ospitalità e nell’ascolto.

      Negli ultimi tempi, però, nel contesto delle dimissioni da priore del fondatore e dell’elezione del nuovo priore, Luciano Manicardi, è proprio il clima fraterno che progressivamente si è incrinato, con “gravi disagi e incomprensioni”. La comunità è internamente ferita nella sua costitutiva dimensione relazionale, con sofferenza di tutti. Al punto che, dall’interno stesso del monastero, ci si appella all’autorità pontificia per un intervento dirimente. Una chiamata incauta, certo, ma rivelatrice. Non ci si appella al Papa per dissapori o tensioni, quand’anche acuti, dell’ordinaria convivenza. Né la condizione monastica esime dall’umana fragilità. C’è l’impossibilità, di fatto, del nuovo priorato e della seconda generazione di monaci – verosimilmente per la compresenza nella comunità dell’ex priore e fondatore (e che fondatore!) – di dar corso alla non celata intenzione di aggiornare l’originario e consolidato progetto. Commentando per la comunità, in una lettura domenicale continuativa, il testo della regola monastica, il priore Manicardi ne illustra il paragrafo 16 (dedicato alle “crisi”, ai tempi in cui “la comunità conosce giorni cattivi”) focalizzandone l’enunciato secondo cui “queste crisi invero sono salutari”, nella loro natura di “prova” che chiede alla comunità un “rinnovamento”, un “ricominciamento”, un “adeguamento alla situazione personale nuova che ora viviamo, alla nuova fase anagrafica ed esistenziale in cui siamo entrati”. Se non un manifesto programmatico, l’indicazione chiara di un’esigenza condivisa e, nei fatti, frustrata. E’ la sostanza del contrasto: “l’esercizio dell’autorità, la gestione del governo e il clima fraterno”.

      L’ intervento della Santa Sede prende avvio con la “visita apostolica” al monastero – dal 6 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020 – di tre inviati pontifici e la loro relazione, “elaborata sulla base del contributo delle testimonianze liberamente rese da ciascun membro della Comunità”. Si conclude, il 13 maggio, con due atti.

  1. Il decreto della Segreteria di Stato, che dispone – accogliendo l’indicazione della più gran parte dei membri della comunità – la “separazione” dalla stessa del fondatore e di tre confratelli. Lo accompagna una lettera del card. Parolin al priore che impegna la comunità in un processo di revisione complessiva, indicandone dettagliatamente ambito, modalità e obiettivi.  Ad opera di un’apposita commissione – promossa dal priore, con la vigilanza di un delegato pontificio, ad nutum Sanctæ Sedis, dotato di pieni poteri – si dovranno rivedere gli statuti della comunità e la sua forma giuridica di “Associazione di fedeli”, per adeguarli alla tradizione monastica e al diritto canonico, fatta salva la successiva approvazione dell’autorità ecclesiastica. Nonostante la mancata pubblicità degli atti, lesiva del senso comune del diritto, il provvedimento pontificio è giuridicamente legittimo, sia perché le associazioni di fedeli, quand’anche “private”, sono soggette al governo e alla vigilanza ecclesiastica (cann. 323 e 305 Cic), sia per la natura propria del “decreto singolare” (cann. 49-58), sia per i poteri attribuiti alla Segreteria di Stato (can. 41). Ma il problema non è giuridico, su cui pur molto ci sarebbe da dire, bensì ecclesiologico. Dal grave vulnus allo spirito ecumenico (Larini), insito nel pronunciamento autoritativo della S. Sede su una comunità di cui sono membri a pieno titolo anche non cattolici, fino all’estraniante emarginazione della silente chiesa italiana e del suo episcopato.
  2. A meno di una sapiente capacità di resilienza del priore e della comunità, l’esito è la normalizzazione dell’esperienza di Bose, con la probabile trasformazione da “Associazione privata di fedeli” in “Istituto di vita consacrata”, sottoposto non più all’ordinario diocesano ma alla Congregazione pontificia dei religiosi. La fine della “extraordinarietà” di Bose, sia come unicità dell’innovativa figura istituzionale – nell’irriducibile “laicalità” voluta dal suo fondatore – sia come straordinaria esperienza di inveramento del Vaticano II sul fronte monastico, liturgico, ecumenico.

     La palla di neve incautamente lanciata è rotolata in valanga. Ci si è variamente interrogati sulla posizione del Papa, fino a supporre che una manina vaticana abbia confezionato il dossier per colpirne la credibilità. Ma vale, in diritto e in fatto, la presunzione che un provvedimento a firma del cardinale Segretario di Stato, stretto collaboratore di Francesco, e “approvato in forma specifica dal Papa”, li abbia visti entrambi consapevoli. Del monastero di Bose si trattava, non di ordinaria amministrazione. E’ sfuggito a tutti gli attori che Bose, per l’unicità del carisma che ha storicamente incarnato nella chiesa post-conciliare, è da considerare alla stregua di un “bene comune” ecclesiale, cioè di tutti i fedeli, della chiesa e dell’intera cristianità. Come tale, indisponibile e non alterabile da alcuno. Né si è percepito che, nel cattolicesimo italiano, c’è una “generazione Bose” (Faggioli) comunque incancellabile.

Luciano Guerzoni    www.adista.it     5 giugno 2020

bose-bene-comune-ecclesiale-l.-guerzoni-adista.pdf

 

Perché mi è cara Bose

     Cosa vuol dire Bose per me, pastora evangelica? E, insieme a me, per chi vive la fede in una chiesa protestante? Il faticoso momento attuale mi ha sollecitato a pormi queste domande. La comunità di Bose non ha rappresentato per me l’incontro con l’esotico (con quella dimensione monastica che le chiese della Riforma hanno perlopiù espulso dal loro orizzonte) o con una risorsa utile per coltivare lo spirito ecumenico. Più radicalmente, la forma delle fede vissuta a Bose mi ha interpellata nella mia identità più profonda, a proposito di quel marcatore identitario che caratterizza il cristianesimo riformato, ovvero la centralità della Parola. Su quell’aspetto a proposito del quale ad un protestante verrebbe spontaneo dire: su questo non ho bisogno di sollecitazioni esterne, mi basta la mia tradizione.

      E invece quante volte ho sperimentato lo stupore di apprendere dalle sorelle e dai fratelli di Bose l’arte dell’ascolto della Parola attestata nelle Scritture. Sono grata a Bose per avermi illuminata ed educata alla ricchezza della Parola. Se c’è un merito che mi sento di riconoscere a questa comunità è quello di aver creato un ambiente che fa da cassa di risonanza alla voce plurale delle Scritture e alla loro infinita interpretazione. A Bose ho sperimentato una buona acustica, in grado di far risuonare la Parola nei tanti linguaggi di cui è capace lo Spirito. Ho udito il suono spesso dimenticato della radice ebraica delle Scritture. Penso con ammirazione e gratitudine al prezioso lavoro di scavo operato da Alberto Mello. Come anche al contributo di Sabino Chialà per la comprensione dell’ebraismo apocalittico. Ho gustato il tono profetico e l’intelligenza spirituale dell’insegnamento di Enzo Bianchi. Mi ha incantata la ricca lettura esistenziale delle Scritture offerta da Luciano Manicardi. Per non parlare della sapienza di Daniel Attinger, capace di ricomporre la comunione infranta tra l’interpretazione biblica protestante e quella cattolica.

     Parlando della mia esperienza, non posso che ricordare solo alcuni nomi. Ho fin da subito intuito che a Bose l’ecumenismo non era una questione di buona educazione o diplomazia. Le diverse chiese dell’ecumene cristiana sono altrettante esegesi dell’unica Parola necessaria. Per una pastora protestante, il mondo ortodosso è quanto di più distante si possa immaginare nel dare forma all’esperienza di fede. È stata Bose a farmi scoprire il fascino del mondo ortodosso, colto nella sua pluralità. Il cristianesimo non è certo iniziato nel XVI secolo – come siamo tentati di ritenere, noi protestanti. Lo sapevo, certo, ma è stata Bose a mostrarmi le ricchezze delle tradizioni patristiche e monastiche. Ricordo ancora lo stupore nel leggere i detti dei padri e delle madri del deserto, accompagnata dalla lettura sapiente di Lisa Cremaschi; come anche per quel cantiere di forme cristiane che sono le diverse regole, verso cui ha indirizzato il mio sguardo Cecilia Falchini ed Edoardo Arborio Mella. Anche se potrà sembrare incredibile, persino un mondo evangelico a me poco noto è stato disvelato solo a Bose. Penso alla sorprendente curiosità intellettuale e spirituale di Guido Dotti, al respiro internazionale dei convegni organizzati dalla comunità.

     E poi, la bellezza della liturgia, con quella traduzione del Salterio che coniuga rigore, ritmo e linguaggio evocativo. Le sorelle e i fratelli di Bose, tutte e tutti, mi hanno insegnato l’arte della preghiera comunitaria, la poesia della fede. Una bellezza che si irradia dal culto per innervare ogni aspetto, attingendo alle ricchezze della letteratura, della pittura, della musica. Bellezza dialogica, capace di far entrare in risonanza mondi diversi.

     Sono stata a Bose poche volte, introdotta dalla cura di Lino Breda. Ma la mia frequentazione della comunità è andata ben oltre la presenza fisica. Libri, conferenze, contributi che mi sono giunti grazie ad amici e ai suggerimenti di mio marito, hanno tessuto un legame profondo con queste sorelle e fratelli che mi mostrano un altro volto del monachesimo, capace di coniugare la spiritualità più profonda con le inquietudini dell’esistenza e gli scenari politici. Bose rappresenta un dono preziosissimo e ad ampio raggio di divulgazione della Parola; una generosità che si traduce in disponibilità ad animare incontri parrocchiali, partecipazione a convegni, interventi puntuali nel dibattito pubblico. Un esempio di chiesa in uscita, grazie al primato dell’ascolto della Parola. Per tutto questo sento Bose come parte del mio corpo. Per questo la sua ferita è la mia. Nel giorno di pentecoste invoco su questa bellissima comunità lo spirito di guarigione, di riconciliazione e consolazione.

Lidia Maggi   “www.finesettimana.org”  1 giugno 2020                                200601maggi.pdf

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202006/200601maggi.pdf

 

Volti di Chiesa nei giorni della pandemia

Una teologa della Chiesa greco-cattolica rumena riflette sul modo in cui si è reagito alla sospensione delle liturgie, sulle occasioni mancate e su quelle che ancora siamo in tempo a cogliere.

 

     I tempi di crisi rivelano quello che portiamo dentro, come persone e come comunità. Lo abbiamo sperimentato in tanti durante questo periodo. Pure chi all’inizio ha manifestato una certa bravura o trovato un modo di anestetizzare il proprio vissuto. I mostri delle nostre paure (individuali o collettive) si sono presto o tardi svegliati. Abbiamo anche avuto modo di constatare in noi e negli altri un rinforzamento di certe inclinazioni e comportamenti, spesso non i migliori. Siamo stati in ogni caso provocati a riconoscere i contrasti che ci caratterizzano e a farci i conti. Come l’intera società, anche la Chiesa in questo periodo si è trovata a confronto con sé stessa; ha manifestato le proprie angosce, le proprie consuetudini, le proprie (in)sicurezze ecc. Questi sono infatti elementi che anche a livello comunitario tendono ad acutizzarsi, più o meno consapevolmente, nei tempi difficili, al pari delle posizioni antagonistiche. E l’immagine che la Chiesa offre di sé stessa ne risente; forse anche perché siamo tutti noi a formarla e a portarci dentro qualcosa di tutto questo.

     Quali immagini di sé ha manifestato la Chiesa al tempo della pandemia? Con quale siamo più in sintonia? Proverò a offrire una prospettiva, a partire da alcuni fatti la cui selezione è inevitabilmente soggettiva e tenendo conto che la paura può deformare la percezione della realtà e le conseguenti risposte, ma ciononostante questi fatti restano sintomatici per i vari orientamenti ecclesiali, e vanno pertanto analizzati, dai propri aderenti prima di tutto, con la consapevolezza che sono strettamente collegati alla prospettiva che proponiamo su Dio stesso. Essi infatti ci invitano a riflettere su ciò che la Chiesa è e su ciò che può diventare, e a metterci personalmente in discussione, in gioco, in cammino. Senza la pretesa di aver raggiunto la meta.

     Tentazione del potere e chiamata al servizio. Direi che un contrasto essenziale che è emerso è quello tra la tentazione del potere e la chiamata al servizio. La prima si è manifestata fin dall’inizio: basta ricordare il pronto intervento di un vescovo per cristianizzare il diffusissimo slogan: “Andrà tutto bene”; un messaggio ampiamente rilanciato, che ha rischiato di apparire come lo spasimo di una Chiesa che sentiva perdere qualcosa della sua rilevanza sociale nel contesto della sospensione dei servizi pubblici e che si è trovata subito indotta a esercitare il proprio potere in un altro ambito, impossessandosi del linguaggio più comune. Anche a costo dell’essenza del Vangelo e della realtà della croce. Anche i toni rivendicativi di certi vescovi riguardo alla riapertura delle chiese nel momento della transizione verso la fase due dell’emergenza sanitaria difficilmente si potrebbero conciliare con lo spirito del cristianesimo. Ma che prospettiva su Dio stesso nasconde tutto questo? Forse quella di un Dio dominatore che ci ha delegato qualcosa della sua onnipotenza e della sua onniscienza?

     E se l’opportunità di questo periodo fosse stata invece per tutta la Chiesa proprio quella di ritrovare la vocazione al servizio e la via della mitezza, a partire della cooperazione con le autorità, in spirito di obbedienza? L’obbedienza autentica, insegnataci da Cristo, non quella servile o strumentale a ottenere poi dei privilegi. Seppur dolorosa per tanti, la chiusura delle chiese (come il suo prolungamento) poteva essere vissuta come la partecipazione ai sacrifici che tutti hanno accettato per il bene comune. In quanto al servizio, non sono mancati quelli che, anche a nome della fede, hanno assunto volontariamente vari incarichi a favore del prossimo, a partire dal più debole. Uomini e donne che hanno continuato a compiere il proprio lavoro nel campo medico, educativo, sociale, amministrativo, pastorale ecc. con dedizione, trasformando il tutto in preghiera. Persone che, piuttosto che rimpiangere la vita sacramentale, hanno dato la propria vita per gli altri. Non che i sacramenti non siano importanti e non nutrano la nostra esistenza. Ma, in queste condizioni (come sempre), tutto poteva diventare eucaristia e ognuno di noi benedizione per gli altri.

     Cosa dà consistenza ai riti? Questo periodo sarebbe stato una buona occasione per ricordarci ciò che ci unisce nel sacerdozio comune. Ma, paradossalmente, la cessazione dei servizi pubblici religiosi è diventata l’occasione di un’espansione celebrativa. Più che mai la Chiesa è sembrata definirsi tramite il rituale/-ismo. Non soltanto perché le funzioni liturgiche hanno invaso lo spazio virtuale – fino ad un certo punto con grande utilità. Ma anche perché i mezzi di comunicazione sono diventati lo spazio per molte devozioni, supplendo, certo, l’assenza delle liturgie usuali, ma anche favorendo nei fedeli un certo consumismo spirituale a scapito di altri elementi che avrebbero potuto nutrire la fede e che valeva la pena riscoprire. Il tutto è servito probabilmente anche a una maggiore identificazione dei preti con il proprio ruolo di celebranti, visto che – con lodevoli eccezioni – essi si sono preoccupati più che altro di assicurare la Messa per i credenti. E se invece avessimo tutti colto l’occasione per riflettere su cos’è che dà consistenza ai nostri riti?

     Nemmeno le celebrazioni papali del Triduo pasquale sono state esenti da un certo ritualismo. Per fortuna ha rimediato in gran misura la semplicità delle messe mattutine in Santa Marta, che sono sembrate più delle altre consone allo stile di Francesco. Lì è stata decisamente proposta la centralità della Parola di Dio che ci chiama tutti alla conversione; coerente con le proprie scelte precedenti, Francesco ha presentato al mondo intero l’immagine di una Chiesa debole, in balia della tempesta come tutti. Specialmente nella preghiera del 27 marzo, ma anche ogni singolo giorno. Una Chiesa tutt’altro che giovane, forse un po’ claudicante, la cui forza sta tutta nella preghiera e nella fiducia nel Signore.

     Il rischio di un’identità chiusa. Ed è il mondo intero che il papa ci ha insegnato a comprendere nell’orazione, complessivamente e pezzo per pezzo, in questi due mesi di messa aperta a tutti, come nelle altre occasioni. È con il mondo intero che ci ha invitato a pregare il 25 marzo e poi il 14 maggio 2020. Ma siamo pronti a cogliere il significato di tale apertura, a coltivarla nello spirito della fraternità? O richiuderemo velocemente tutto negli schemi consueti? Quest’ultima è un’opzione a portata di mano, come abbiamo potuto vedere, per esempio, il 25 marzo dopo la preghiera del Padre nostro quando, tramite la recita successiva dell’Angelus e del Rosario trasmessa dalla basilica di san Pietro, un evento di grande portata ecumenica ha rischiato di essere prontamente cattolicizzato. Vista la congiuntura, le meditazioni proposte avrebbero potuto centrarsi, con una maggiore sensibilità verso le altre confessioni, sul mistero dell’Incarnazione. Sono diventate invece una preghiera mariocentrica e, un’occasione di riaffermare anche altri elementi fortemente identitari: il papato, un dogma che ha suscitato controversie, una rivelazione privata ecc. Ci possiamo chiedere in che misura la premura per la propria identità può impedire la custodia della fratellanza e quale immagine sulla paternità divina suppongono.

     Il tempo delle scelte. Al di là dei nostri limiti, a ognuno di noi sta adesso scegliere con quale immagine di Chiesa vogliamo identificarci dopo questo periodo e, anzi, quale Chiesa vogliamo costruire: una Chiesa del potere e dei privilegi o una del servizio, della disponibilità; una Chiesa definita esclusivamente dalle sue cerimonie o una nutrita anche dalla Parola di Dio, dalla preghiera silenziosa, dalla carità; una Chiesa rinchiusa nelle proprie sicurezze oppure una aperta a tutti in spirito di fratellanza. Perché se i tempi di crisi sono in verità rivelatori per quello che siamo, come individui e comunità, sono ugualmente decisivi per ciò che diventiamo.

Simona Stefana Zetea             Il Regno delle donne                            01 giugno 2020

www.ilregno.it/regno-delle-donne/blog/volti-di-chiesa-nei-giorni-della-pandemia-simona-stefana-zetea

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

Webinar di lancio per la presentazione del nuovo ciclo di formazione CAI – IDI 2020

     La Commissione per le Adozioni Internazionali e l’Istituto degli Innocenti in collaborazione con gli Enti Autorizzati organizzano un webinar per la presentazione dei nuovi corsi di formazione a distanza sull’adozione internazionale dal titolo “l’adozione si trasforma” – Un progetto formativo che si sviluppa su tre percorsi specifici

  1. Area giuridica per avvocati, giudici onorari, magistrati e operatori della giustizia;

www.commissioneadozioni.it/formazione-cai-idi-2020/area-giuridica

  1. 2.       Area psico-sociale per assistenti sociali, psicologi, educatori, operatori socio-sanitari, del privato sociale che si occupano di adozioni internazionale, operatori degli Enti Autorizzati e i volontari dell’associazionismo;     www.commissioneadozioni.it/formazione-cai-idi-2020/area-psico-sociale
  2. Area scuola specificamente indirizzato a insegnanti e operatori della scuola come assistenti sociali, psicologi, educatori, operatori socio-sanitari del privato sociale, operatori degli enti autorizzati e volontari dell’associazionismo che si occupano di adozione e scuola.

 www.commissioneadozioni.it/formazione-cai-idi-2020/area-scuola

23 giugno 2020 ore 10:00 – 12:30

Iscrizione al webinar                                                   https://event.webinarjam.com/register/48/yy4gvf7l

      Il programma prevede i saluti istituzionali e una presentazione per area tematica, sarà possibile intervenire attivamente nel corso dell’evento ponendo domande in chat ai relator

  Programma          www.commissioneadozioni.it/media/1778/23_giugno_2020.pdf

www.commissioneadozioni.it/notizie/lancio-della-formazione-a-distanza-cai-idi-2020

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CONIUGI

È obbligatorio comunicare i propri redditi al coniuge?

     Qualcuno l’ha già ribattezzata con il termine infedeltà finanziaria: si tratta della bugia detta al coniuge in merito alle proprie capacità economiche. Perché mai? Da un lato c’è la speranza che, così facendo, in caso di separazione, i risparmi non vengano divisi (problema che si porrebbe tuttavia solo nel caso di coppia in comunione dei beni). Dall’altro lato c’è il timore di rappresentare un alto tenore di vita e, sempre in caso di separazione, dover corrispondere un assegno di mantenimento elevato. In ultimo c’è sempre la speranza di poter spendere il denaro secondo i propri capricci, senza dover renderne conto alla famiglia.

      Ma è reato il conto corrente nascosto al coniuge?

  1. A chi appartiene il conto corrente? Se il conto corrente è cointestato, esso appartiene a entrambi i coniugi. Questi pertanto ne restano contitolari anche in caso di successiva separazione, fino al momento in cui decideranno di scioglierlo o dividerlo. La cointestazione può però essere il frutto di un accordo simulatorio e non di una volontaria donazione. Si pensi al marito che cointesta alla moglie il conto su cui gli viene accreditato lo stipendio per consentirle di prelevare e fare la spesa. In tale ipotesi, all’atto di un’eventuale separazione, il conto resta di proprietà di chi lo ha alimentato.

    Se il conto corrente non è cointestato bisogna distinguere tra:

  • Coppia in separazione dei beni: il conto è di proprietà dell’intestatario e questi ne resta tale anche dopo la separazione e il divorzio. Sicché, il denaro non verrà mai diviso e potrà essere speso liberamente in qualsiasi momento;
  • Coppia in comunione dei beni: il conto resta di proprietà individuale finché la coppia è regolarmente sposata, sicché il titolare potrà spendere il denaro per come preferisce senza renderne conto al coniuge. Al momento della separazione però i risparmi residui sul conto andranno divisi al 50% tra moglie e marito. Ecco perché si dice comunemente che, per lasciare all’asciutto il coniuge bisognerebbe spendere tutti i soldi in banca prima della separazione.
  1. Si può nascondere il conto corrente al coniuge? Detto ciò, nascondere il conto corrente al coniuge finché si resta regolarmente sposati non costituisce alcun illecito né tantomeno un reato. Difatti, come detto, sia in caso di comunione che di separazione dei beni, il denaro resta di esclusiva pertinenza di chi se lo è guadagnato e lo ha risparmiato. Questi potrà spenderlo anche di nascosto o decidere di accumularlo nel tempo. Insomma, non c’è alcun obbligo di comunicare le proprie consistenze patrimoniali al coniuge. Viceversa, quando la coppia si separa, ciascun coniuge ha innanzitutto l’obbligo di comunicare al giudice la propria dichiarazione dei redditi affinché questi valuti la ricchezza di entrambi e proceda a quantificare l’assegno di mantenimento. Anche in questa ipotesi, non ci sarà bisogno di dichiarare l’esistenza di conti segreti a meno che il giudice non lo richieda espressamente (circostanza che non avviene quasi mai). Sicché, ancora una volta, nascondere il conto corrente non costituisce comportamento vietato. Se però la coppia è in comunione dei beni, dovendosi procedere a dividere tutti i beni, quindi anche il residuo del conto corrente, sarà necessario comunicarne l’esistenza e la consistenza (ossia il saldaconto). La violazione di tale obbligo, se imposto dal giudice, può costituire reato, quello cioè di inottemperanza al provvedimento del pubblico ufficiale. Viceversa, in assenza di una precisa disposizione del tribunale, l’occultamento del conto potrebbe dar luogo, in caso di successiva scoperta, a una revisione della sentenza di separazione ma non anche a un reato.
  2. Diritto di accesso agli atti e privacy. In ultimo, bisogna accennare che la giurisprudenza ha ammesso la possibilità, al coniuge che si sta separando, di chiedere all’Agenzia delle Entrate l’accesso all’Anagrafe tributaria, ossia all’archivio dove risultano i redditi di tutti i contribuenti e, in una apposita sezione detta Registro dei rapporti finanziari, anche i conti correnti. Questo significa che la questione relativa all’occultamento del conto corrente al coniuge potrebbe non porsi già in radice stante la possibilità di presentare una domanda di accesso agli atti amministrativi. Questa possibilità, però, come anticipato, può essere giustificata solo in presenza di un giudizio all’interno del quale si controversa in merito alla quantificazione dell’assegno di mantenimento.

La Legge per tutti           7 Giugno 2020

www.laleggepertutti.it/405832_conto-corrente-nascosto-al-coniuge-e-reato

 

Ricatti economici del marito: come difendersi

    Maltrattamento economico del coniuge: come riconoscerlo e con quali azioni prevenirlo, come evitare la violenza economica. Sei tu a tenere pulita e in ordine la casa, a cucinare, lavare, fare la spesa e soprattutto ad occuparti dei figli: per via delle difficoltà nel conciliare la vita familiare con l’attività lavorativa, hai deciso di non lavorare, o di lasciare il tuo lavoro, spinta anche da tuo marito. È lui, ogni volta, a darti i soldi per ciò che acquisti e per le spese che devi sostenere per la famiglia. La situazione, però, inizia a pesarti: tuo marito ti lascia giusto il minimo indispensabile e hai difficoltà a comprare qualsiasi cosa per te al di fuori dello stretto necessario. Anche se così non fosse, vorresti comunque non dover sempre domandare e rendere conto a lui di ogni acquisto. Tra l’altro, il coniuge ti fa pesare sempre più spesso che è lui a “portare il pane a casa”, senza considerare tutto ciò che fai per la famiglia: il tuo lavoro vi consente di non assumere una colf e una babysitter, per le quali avreste speso oltre mille euro al mese! In sintesi, questa situazione ti ha stancato e vorresti sapere come non dipendere economicamente dal coniuge. Ma in caso di ricatti economici del marito: come difendersi?

Purtroppo, non sei la sola a subire questo genere di ricatti: di violenza economica sono vittime donne di ogni età e di ogni ceto sociale. Dire basta non è facile, ma è indispensabile: prima riesci ad uscire da questa situazione, che degenera e peggiora col passare del tempo, meglio sarà per te. Questa situazione, in alcuni casi, può riguardare anche gli uomini: in generale, ma non sempre, riguarda il coniuge più “debole” dal punto di vista economico, ad esempio privo dello stipendio e di entrate personali. Talvolta, però, anche il coniuge che lavora e ha un suo reddito può essere costretto a mettere tutto il denaro nelle mani dell’altro, che ne dispone a suo piacimento ed in modo inadeguato ai bisogni del partner e della famiglia.

  1. Coniuge senza lavoro. La maggior parte dei ricatti economici sono subiti dal coniuge che non svolge un’attività lavorativa, o, più precisamente, che non svolge un’attività lavorativa al di fuori delle mura domestiche. Perché pulire la casa, occuparsi del bucato, preparare i pasti, accompagnare i figli ed accudirli, curare persone anziane sono tutte attività lavorative, peraltro impegnative, certamente non di svago. Si tratta però di attività non remunerate, se prestate a favore dei propri familiari, spesso ingiustamente “svalutate”. La violenza psicologica del coniuge trova terreno fertile nell’assenza d’indipendenza economica del partner, utilizzando il denaro come arma di ricatto. Mariti e conviventi mettono in atto una serie di comportamenti scorretti e lesivi verso la moglie o partner priva di reddito, portandola alla sottomissione economica, all’impossibilità di agire autonomamente ed all’isolamento sociale. Come uscirne? Potrei risponderti, in modo banale e scontato, “trovando un lavoro”. Il lavoro è l’occasione che ti permetterebbe di uscire dall’isolamento in cui il partner che ti maltratta vorrebbe tenerti.  Ma non è così semplice, purtroppo. Non è semplice, innanzitutto, ottenere un’assunzione con l’attuale crisi del mercato del lavoro. Ed è ancora più difficile per chi, del mercato del lavoro, non fa parte da anni. Attenzione: non ti sto dicendo di gettare la spugna. Trovare un lavoro non è facile, ma è importante per ottenere la tua indipendenza ed un rapporto “alla pari”. Ci vorrà sicuramente del tempo, che dovrai utilizzare per formarti e aggiornarti nei settori di tuo interesse, in pratica per imparare o reimparare un mestiere. Ad ogni modo, l’assenza di lavoro non è l’unica causa dei ricatti economici del partner: la base principale della violenza psicologica ed economica è l’assenza di autostima. Che, spesso, va “a braccetto” con l’assenza di un impiego al di fuori delle mura domestiche, ma che non si esaurisce nella mancanza di lavoro.
  2. Assenza di autostima. Se ti trovi tutto il giorno all’interno delle mura domestiche, non hai delle amicizie al di fuori delle frequentazioni in comune col tuo partner, non hai un’occupazione al di fuori della famiglia, puoi essere facilmente vittima di un calo dell’autostima. La scarsa stima di sé trova delle ottime basi nell’isolamento. Puoi evitare gli effetti negativi dell’isolamento, oltreché svolgendo un’attività lavorativa all’esterno della tua abitazione, anche frequentando delle amicizie, praticando uno sport, un hobby fuori casa, del volontariato. Anche un’attività non lavorativa può aiutarti a ritrovare fiducia in te stessa. Ma il coniuge potrebbe impedirti anche questo, o comunque un’attività “extra” potrebbe essere impossibile da svolgere a causa dei pressanti impegni familiari, che non ti lasciano spazio. Peraltro, potresti essere vittima di ricatti economici anche se hai un’occupazione che svolgi al di fuori dell’ambiente domestico.
  3. Gestione del denaro e dell’amministrazione domestica da parte del coniuge. Ci sono molte donne che, nonostante siano occupate e percepiscano uno stipendio, vengono estromesse dal partner dalla gestione delle proprie entrate. È facile che tu abbia scarsa autostima, a prescindere dal fatto che lavori o meno, se il coniuge ti inibisce ogni minima occasione di agire autonomamente: dispone del 100% dei redditi, dispone del tuo conto corrente, si occupa delle utenze e di tutti gli aspetti amministrativi…Senza di lui pensi di non valere niente e di non essere capace di amministrare alcunché. Niente di più sbagliato, ovviamente, ma l’autostima non si acquista dall’oggi al domani. Devi conquistarla a piccoli passi, iniziando ad amministrare anche tu le entrate della famiglia, occupandoti pian piano della gestione amministrativa. Ogni “missione compiuta” (hai chiamato il tecnico per far riparare un tubo e lo hai pagato, hai saldato una bolletta, la tassa sulla spazzatura…) costituirà un passo avanti, verso la fine della sudditanza psicologica. Ma se tuo marito insiste nel non volerti far gestire nulla? Parla apertamente con lui, spiegagli che anche tu vuoi e devi essere partecipe della gestione dei redditi e del patrimonio, che è un tuo pieno diritto. Estromettere il partner dalla gestione del denaro è uno strumento di controllo indiretto ma incisivo, che priva dell’autonomia e distrugge la fiducia in sé. Ma quali sono i campanelli di allarme, come capire che la situazione è degenerata?
  4. Ricatti economici: quando. Le “sentinelle” della violenza economica sono tante e non si esauriscono nel negare al coniuge la possibilità di lavorare, di svolgere delle attività al di fuori delle mura domestiche e di gestire le sostanze della famiglia, anche se si tratta dei campanelli di allarme più rilevanti. Ce ne sono tanti altri:
  • Tuo marito ti vieta di avere un tuo conto corrente;
  • Ti nasconde ogni informazione sulla situazione patrimoniale della famiglia;
  • Ti nega l’accesso alle finanze familiari;
  • Ti requisisce lo stipendio o altre entrate personali usandoli a proprio vantaggio;
  •  Se lavorate insieme, non ti paga uno stipendio;
  • Ti riconosce giusto una paghetta settimanale della quale ti chiede conto.  

Come comportarsi in questi casi? Cosa prevede il Codice civile, riguardo ai diritti e doveri dei coniugi.

  1. Diritti e doveri dei coniugi. Se faccio la casalinga mio marito può accusarmi di non contribuire ai bisogni della famiglia? La risposta risiede nel Codice civile [Art. 143 cod. civ.]: la legge prevede che ciascuno dei coniugi sia tenuto a contribuire ai bisogni della famiglia. Se tu accudisci i figli, i genitori anziani, ti occupi della casa, stai contribuendo senza dubbio ai bisogni della famiglia. Tieni presente anche che per determinare l’entità della contribuzione occorre considerare le condizioni finanziarie dei coniugi, avendo riguardo anche agli apporti effettuati da ciascuno al momento del matrimonio [Cass. 16 marzo 1977 n. 1047]. L’abitazione della famiglia è di tua proprietà? Anche questo è un contributo. Il contributo alle necessità familiari, difatti, deve essere proporzionale alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo. Se tuo marito, dunque, ti fa pesare di essere l’unico che “porta dei soldi a casa”, ma tu contribuisci col lavoro a favore della famiglia e per di più hai contribuito mettendo a disposizione la casa di abitazione, sappi che si sta comportando in modo scorretto. E dal comportarsi male al comportarsi “peggio”, magari commettendo anche un reato, il passo è breve. Vediamo come.
  2. Rifiuto di contribuire ai bisogni del coniuge. Tuo marito ti dà i soldi “contati” per la spesa, per i figli, ma poco o niente per quanto riguarda le tue esigenze personali? Devi sapere che l’obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia è diretto a soddisfare le comuni e reciproche esigenze dei coniugi, garantendo a entrambi un unitario tenore di vita. Questo significa che il partner non può destinare il suo reddito solo ai bisogni dei figli o della famiglia in senso ampio ma anche dello stesso coniuge, qualora abbia bisogno di assistenza. In altri termini tu, lavorando per la famiglia, presti assistenza materiale, evitando al partner di dover pagare una colf o una babysitter; il coniuge, potendo disporre di uno stipendio, deve contribuire ai bisogni della famiglia partecipando alle spese e conferendo del denaro anche per le tue esigenze.
  3. Squilibrio nella divisione dei ruoli. In ogni caso, pagare le spese non comporta che il partner non debba alzare un dito in casa: deve partecipare anche lui alle attività di cura della famiglia, in proporzione alle proprie possibilità ed al proprio tempo libero. Vale anche il contrario: sei casalinga ma puoi disporre di entrate personali, magari percepisci un affitto da un immobile di proprietà? Devi contribuire in relazione alla tua disponibilità economica, al contributo materiale che offri lavorando come casalinga ed alle necessità della famiglia. La famiglia non può funzionare “a senso unico”, o con grossi squilibri nei diritti e doveri reciproci. E il ricatto economico del coniuge nasce proprio da una disparità di fondo.
  4. Ricatto economico del coniuge: conseguenze. Ma come ci si può ribellare concretamente a una situazione familiare in cui uno dei coniugi è estromesso completamente dalla gestione del denaro? E se il coniuge che gestisce redditi e patrimonio si rifiuta di contribuire alle spese della famiglia? Abbiamo osservato quali sono i rimedi sostanziali per ritrovare autostima e indipendenza economica, ma da un punto di vista giuridico si può fare qualcosa? La violazione del dovere di contribuzione è un atto contrario ai doveri che derivano dal matrimonio, quindi è una violazione del Codice civile [Art. 143 cod. civ.]. Questo comporta che, in caso di separazione, il coniuge inadempiente, che non ha contribuito a soddisfare i bisogni familiari, possa subire l’addebito: si tratta della dichiarazione di responsabilità pronunciata dal giudice, che comporta, tra le altre cose, l’impossibilità di ricevere l’assegno di mantenimento. Ma le conseguenze dei ricatti economici del coniuge possono essere ben più gravi. Se, difatti, l’omessa o insufficiente contribuzione ai bisogni familiari è volontaria e ha comportato uno stato di bisogno dell’altro coniuge, il responsabile di questo comportamento può essere denunciato per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare [Art. 570 cod. pen.]. A seconda del comportamento tenuto, il coniuge “ricattatore”, che ha tenuto il partner in stato di sudditanza economica e psicologica, può essere accusato anche del reato di “maltrattamento in famiglia” e di “violenza privata”.
  5. Ordine di protezione. Denunciare non è facile, così come ricominciare da zero. Per fortuna, la legge [Artt. 342 bis e ter cod. civ.] prevede, a favore della vittima di violenza domestica ed economica, lo strumento dell’ordine di protezione, una misura cautelare che può essere adottata dal giudice. Con l’ordine di protezione il giudice può adottare a carico del coniuge colpevole di maltrattamento misure accessorie come l’obbligo di pagare periodicamente una somma di denaro a favore dei familiari, se a causa dell’allontanamento risultino privi di mezzi di sussistenza. Può anche prevedere l’intervento dei servizi sociali o di associazioni di sostegno alle vittime di violenza privata.
  6. Centri antiviolenza. Puoi comunque decidere, come primo passo e senza bisogno dell’impulso del giudice, di rivolgerti ad un centro antiviolenza. I centri antiviolenza sono luoghi in cui vengono accolte le donne che hanno subito violenza, anche economica. Grazie all’accoglienza telefonica, ai colloqui personali, all’ospitalità in case rifugio e ai numerosi altri servizi offerti, le donne maltrattate sono aiutate nel loro percorso di uscita dalla violenza. Questi centri offrono inoltre assistenza legale e psicologica ed orientamento al lavoro, sostegno alla genitorialità e laboratori per minori.

Noemi Secci          La legge per tutti        7 giugno 2020

www.laleggepertutti.it/406075_ricatti-economici-del-marito-come-difendersi

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Roma1. Centro La Famiglia, ripartono le consulenze “in presenza”

     “Stiamo uscendo da un lungo periodo di grave crisi e si è aperto un secondo tempo di questa fase di “confronto” con un “ospite inatteso” e angosciante. Una seconda fase caratterizzata dalla ripresa della vita ordinaria pur con tutte le cautele richieste da una situazione che non ha ancora visto la sua conclusione.  Siamo stati sottoposti a diversi traumi e a nuovi problemi che si sono sovrapposti a quelli precedenti che affrontavamo di giorno in giorno”. Padre Alfredo Feretti, direttore del Centro La Famiglia – fondato nel 1966 da padre Luciano Cupia, con sede a via della Pigna 13a – riflette con preoccupazione sulla situazione attuale e rilancia l’impegno del consultorio accanto a famiglie, giovani e singoli, che riparte dopo la fine del lockdown. “Adesso ripartiamo, abbiamo una grande voglia: ripartire è necessario, soprattutto per il lavoro e in generale per le relazioni; non c’è dubbio, tuttavia può esserci qualcosa che ci trattiene – scrive padre Feretti – perché non riusciamo a districarci dai problemi, dai traumi, dalle fragilità e dalle vulnerabilità che hanno assillato e assillano noi, la nostra coppia, la nostra famiglia, i nostri figli e le nostre relazioni. Sentiamo e viviamo ancora le nostre paure, le nostre ansie, le delusioni, le seccature, le solitudini e gli scoraggiamenti. Che fare? Prendersi cura di noi. È necessario ritrovare e ricostruire una forte consapevolezza e capacità di discernimento ed essere capaci di generare e ricostruire sani collegamenti tra ciò che sentiamo, pensiamo ed agiamo”.

     Il consultorio socio-educativo Centro La Famiglia dal 3 giugno 2020 riprende, con le opportune misure di prevenzione e di sicurezza, le consulenze “in presenza” mettendo a disposizione la propria équipe “per poter essere di aiuto in questa fase delicata di ripresa della normalità di un’esistenza e del senso delle cose, che forse rischiano di essere accantonati nell’urgenza di ritornare in corsa”.

Redazione online   Romasette   1 giugno 2020

www.romasette.it/centro-la-famiglia-ripartono-le-consulenze-in-presenza

 

Viadana. Per una ripartenza serena, il consultorio in prima linea

     Iniziativa per il sostegno psicologico per gestire incertezza, ansia e stress legati al Covid-19.  Ho paura, ma devo tornare al lavoro”. “Riuscirò a stare concentrata?”. “Posso fidarmi dei miei colleghi?”. “I miei bambini sono al sicuro?”. Sono solo alcune delle domande e preoccupazioni che tanti cittadini si fanno in questi giorni: la famosa “ripartenza”, con la possibilità di tornare finalmente a uscire di casa dopo il lockdown imposto dall’emergenza sanitaria, rischia insomma di diventare fonte di stress e malessere.

     Il Centro di consulenza familiare Ucipem di Viadana tende una mano con il progetto “Per una ripartenza serena. Sostegno psicologico per gestire incertezza, ansia e stress legati al Covid-19”. “Vuol essere – spiegano i promotori – uno spazio di accoglienza e ascolto delle perone che, tornate al lavoro, rischiano di vivere situazioni di ansia e paura”. Confrontarsi con esperti potrebbe aiutare a prevenire lo stress e ad attivare quelle risorse di resilienza che sono radicate in ciascuno di noi, “per cominciare così a guardare al futuro con coraggio e fiducia”.

     Le consulenze offerte dal centro Ucipem sono gratuite: gli incontri si svolgeranno su appuntamento nella sede di via Garibaldi 52, ma sono possibili anche colloqui telefonici.

     Il Centro di consulenza famigliare onlus è stato fondato anni fa su impulso delle parrocchie del territorio viadanese. Lo staff è composto da volontari che dispongono di competenze professionali negli ambiti di riferimento: consulente famigliare, psicologa, psichiatra, assistente sociale, pedagogista, legale, educatrice, ostetrica, assistente spirituale. In occasione dell’emergenza pandemica, gli operatori si sono messi a disposizione anche per fornire sostegno agli operatori sanitari, a chi ha affrontato l’esperienza del confinamento domestico e a chi ha perso un proprio caro a causa del contagio.

     Riccardo Negri      TeleRadio Cremona Cittanova                        01 giugno 2020

www.diocesidicremona.it/blog/per-una-ripartenza-serena-il-consultorio-di-viadana-in-prima-linea-01-06-2020.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CONVIVENZA

Come provare la convivenza di fatto

    Grazie alla nota legge Cirinnà del 2016 oggi anche i conviventi possono ottenere una tutela giuridica che, seppur non equiparabile a quella derivante dal matrimonio, rappresenta comunque un passo in avanti rispetto al totale vuoto normativo che regnava precedentemente all’entrata in vigore di detta legge. In pratica, oggi le persone conviventi ma non sposate possono registrare la propria situazione in Comune, ottenendo così alcune delle prerogative che sono proprie delle coppie convolate a nozze. Il problema è che per ottenere la registrazione in Comune occorre provare la convivenza di fatto. Capirai che si tratta di un adempimento non previsto nel caso di nozze: dopo il matrimonio, infatti, si presume che marito e moglie stiano insieme. Nel caso della convivenza di fatto, invece, c’è bisogno di dimostrare tale situazione. Come si fa a provare la convivenza di fatto tra due persone? È sufficiente un’autocertificazione? Quali sono i diritti che sorgono dalla registrazione di una convivenza di fatto?

Convivenza di fatto: cos’è? Un tempo per convivenza di fatto si sarebbe intesa la relazione sentimentale tra due persone che vivono sotto lo stesso tetto senza essere sposate e, dunque, senza ricevere alcuna tutela giuridica. A seguito dell’entrata in vigore della legge Cirinnà [Legge n. 76 del 20.05.2016], per conviventi di fatto si devono intendere due persone maggiorenni (dello stesso o di diverso sesso) unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.

Convivenza di fatto: caratteristiche. Dunque, la legge ha finalmente stabilito cosa deve intendersi per convivenza di fatto, individuando le seguenti fondamentali caratteristiche:

  • La convivenza deve intercorrere tra due persone maggiorenni;
  • Il sesso dei conviventi è indifferente, potendo trattarsi sia di coppia omosessuale che eterosessuale;
  • La coppia deve essere legata da un vincolo affettivo stabile;
  • La coppia non deve essere legata da alcun vincolo parentale, di affinità o di coniugio, né deve essere sposata o aver contratto un’unione civile (valida solo per persone dello stesso sesso).

Come si diventa conviventi di fatto per legge? Affinché la legge possa considerare due persone che abitano insieme come dei conviventi di fatto (e, di conseguenza, riconoscere i benefici previsti dall’ordinamento giuridico), occorre formalizzare questa particolare situazione. Nello specifico, la legge Cirinnà dice che la convivenza di fatto tra persone può essere attestata da un’autocertificazione, redatta in carta libera e presentata al Comune di residenza, nella quale i conviventi dichiarano di convivere allo stesso indirizzo anagrafico. Il Comune, fatti gli opportuni accertamenti (riguardanti principalmente il requisito della stabile convivenza), rilascerà il certificato di residenza e lo stato di famiglia. Si ritiene tuttavia che non vi è obbligo per i conviventi di presentare la predetta autocertificazione, in quanto la convivenza può essere provata con ogni strumento, anche con dichiarazioni testimoniali. Vediamo di cosa si tratta.

     Convivenza di fatto: come si prova? Per provare una convivenza di fatto è sufficiente una semplice autocertificazione ove, sotto la propria responsabilità, si dichiara che le persone che vivono insieme costituiscono una coppia legata da vincolo affettivo stabile. A seguito dell’autocertificazione, il Comune potrebbe disporre idonei controlli, affinché si possa effettivamente accertare che la convivenza sia realmente sussistente. In luogo (o accanto) all’autocertificazione è possibile fornire ulteriori prove, quali ad esempio testimonianze e documenti (fotografie, stato di famiglia, certificazione nascita dei figli, contratto di mutuo, ecc.).

    Autocertificazione convivenza di fatto: come funziona? L’autocertificazione che attesta la convivenza di fatto è una vera e propria dichiarazione anagrafica [D.P.R. n. 223 del 30 maggio 1989] che va resa all’ufficiale di Stato del Comune ove la coppia risiede. Per la precisione, l’autocertificazione è sottoscritta dall’interessato (o dagli interessati) direttamente in presenza del dipendente comunale addetto al registro dell’anagrafe. In alternativa, è possibile sottoscrivere la dichiarazione e presentarla poi unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore. Secondo la legge, l’autocertificazione può essere inviata al Comune di residenza anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento, mediante fax oppure posta elettronica certificata. In tutti e tre i casi, occorre allegare copia del documento d’identità.

Se le dichiarazioni sono state rese da un unico convivente, ai fini dell’applicazione dei benefici di legge, il dichiarante ne deve dare comunicazione all’altro partner a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento.

L’autocertificazione segna la costituzione della convivenza di fatto. Ovviamente, nel caso di cessazione della convivenza, occorrerà inviare nuova autocertificazione di segno contrario, cioè occorrerà attestare che la convivenza non sussiste più.

Convivenza di fatto: si può provare per testimoni? Qualora il Comune lo richiedesse, si potrebbe provare la sussistenza della convivenza di fatto anche attraverso le testimonianze di persone che possono provare che la coppia è in effetti convivente e legata da rapporto affettivo stabile e duraturo. Pensa ad esempio alle testimonianze dei genitori della coppia, oppure degli amici; potrebbero perfino testimoniare i figli della coppia convivente. A tal proposito, secondo la giurisprudenza [Trib. Milano, ordinanza del 31/05/2016] antecedente alla legge Cirinnà, il fatto stesso che i conviventi abbiano avuto due figli è sintomo di un habitat familiare formatosi al di là del vincolo matrimoniale.

Quali documenti provano la convivenza di fatto? La convivenza di fatto può essere provata anche mediante l’esibizione di documentazione idonea: si pensi al contratto di mutuo stipulato da entrambe le parti per l’acquisto della casa in cui vivono, oppure la polizza assicurativa rc auto intestata al convivente. Se i conviventi ne sono già in possesso, come prova può essere fornito anche lo stato di famiglia. Secondo la legge, infatti, agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune. Una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona.

Convivenza di fatto riconosciuta: quali conseguenze? Il riconoscimento formale della convivenza di fatto comporta l’attribuzione di specifici doveri e diritti. Tra i più significativi si ricordano:

  • Al convivente spettano gli stessi diritti previsti per il coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (diritto di visita al convivente detenuto, ecc.);
  •  In caso di malattia grave tale da comportare un deficit della capacità di intendere e volere, il convivente può delegare l’altro a rappresentarlo in tutte le decisioni che lo riguardano in ambito di salute;
  • Al convivente è riconosciuto altresì il diritto di visita e di assistenza nelle strutture ospedaliere;
  • Il convivente superstite succede nel contratto di locazione al convivente defunto, e può anche essere inserito nelle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi popolari;
  • Al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato;
  • La coppia ha la possibilità di stipulare dei veri e propri contratti di convivenza con i quali disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune;
  • In caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. In tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza, in proporzione alla capacità patrimoniale dell’obbligato.

Unioni civili e convivenze di fatto: quali differenze? Abbiamo sinora spiegato cos’è una convivenza di fatto legalmente riconosciuta, come si dimostra e quali sono i vantaggi che derivano dalla formalizzazione dell’unione. Nei primi paragrafi abbiamo detto che i conviventi di fatto non possono essere avvinti da vincolo matrimoniale né da unione civile. Qual è la differenza tra le convivenze di fatto e le unioni civili? In effetti, entrambi gli istituti giuridici sono novità introdotte dalla legge Cirinnà. Ebbene, le differenze tra convivenze e unioni sono presto dette. Le unioni civili sono state concepite per la tutela delle coppie omosessuali le quali a lungo sono state destinatarie di un trattamento differente rispetto alle coppie eterosessuali. Anzi, in effetti nessuna tutela specifica era per loro prevista. Pur non potendo essere equiparata in tutto e per tutto al matrimonio, l’unione civile è ciò che più si avvicina ad esso. La convivenza di fatto, invece, è rivolta a tutte quelle persone, indifferentemente omosessuali o eterosessuali, che hanno deciso di non contrarre matrimonio né di sancire il loro legame attraverso l’unione civile, ma che comunque sono meritevoli di una tutela rispetto a determinati aspetti della vita, così come visto nel paragrafo dedicato alle conseguenze della convivenza di fatto legalmente riconosciuta.

Mariano Acquaviva    La legge per tutti        5 giugno 2020

www.laleggepertutti.it/380448_come-provare-la-convivenza-di-fatto

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

DALLA NAVATA

Santissima Trinità –  Anno A – 7 giugno 2020

Esodo              34, 06. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà»

Daniele           03, 52. Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri. Benedetto il tuo nome glorioso e santo.

2Corinzi           13, 13. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

Giovanni         03, 17. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.

 

Trinità: Dio è legame, comunione abbraccio

In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

I nomi di Dio sul monte sono uno più bello dell’altro: il misericordioso e pietoso, il lento all’ira, il ricco di grazia e di fedeltà (Es 34,6). Mosè è salito con fatica, due tavole di pietra in mano, e Dio sconcerta lui e tutti i moralisti, scrivendo su quella rigida pietra parole di tenerezza e di bontà.

Che giungono fino a Nicodemo, a quella sera di rinascite. Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Siamo al versetto centrale del Vangelo di Giovanni, a uno stupore che rinasce ogni volta davanti a parole buone come il miele, tonificanti come una camminata in riva al mare, fra spruzzi d’onde e aria buona respirata a pieni polmoni: Dio ha tanto amato il mondo… e la notte di Nicodemo, e le nostre, s’illuminano.

Gesù sta dicendo al fariseo pauroso: il nome di Dio non è amore, è “tanto amore”, lui è “il molto-amante”. Dio altro non fa che, in eterno, considerare il mondo, ogni carne, più importanti di se stesso. Per acquistare me, ha perduto se stesso. Follia della croce. Pazzia di venerdì santo. Ma per noi rinascita: ogni essere nasce e rinasce dal cuore di chi lo ama.

Proviamo a gustare la bellezza di questi verbi al passato: Dio ha amato, il Figlio è dato. Dicono non una speranza (Dio ti amerà, se tu…), ma un fatto sicuro e acquisito: Dio è già qui, ha intriso di sé il mondo, e il mondo ne è imbevuto. Lasciamo che i pensieri assorbano questa verità bellissima: Dio è già venuto, è nel mondo, qui, adesso, con molto amore. E ripeterci queste parole ad ogni risveglio, ad ogni difficoltà, ogni volta che siamo sfiduciati e si fa buio.

Il Figlio non è stato mandato per giudicare. «Io non giudico!» (Gv 8.15) Che parola dirompente, da ripetere alla nostra fede paurosa settanta volte sette! Io non giudico, né per sentenze di condanna e neppure per verdetti di assoluzione. Posso pesare i monti con la stadera e il mare con il cavo della mano (Is 40,12), ma l’uomo non lo peso e non lo misuro, non preparo né bilance, né tribunali. Io non giudico, io salvo. Salvezza, parola enorme. Salvare vuol dire nutrire di pienezza e poi conservare. Dio conserva: questo mondo e me, ogni pensiero buono, ogni generosa fatica, ogni dolorosa pazienza; neppure un capello del vostro capo andrà perduto (Lc 21,18), neanche un filo d’erba, neanche un filo di bellezza scomparirà nel nulla. Il mondo è salvo perché amato. I cristiani non sono quelli che amano Dio, sono quelli che credono che Dio li ama, che ha pronunciato il suo ‘sì’ al mondo, prima che il mondo dica ‘sì’ a lui.

Festa della Trinità: annuncio che Dio non è in se stesso solitudine, ma comunione, legame, abbraccio. Che ci ha raggiunto, e libera e fa alzare in volo una pulsione d’amore

Padre Ermes Ronchi OSM

www.avvenire.it/rubriche/pagine/trinita-dioe-legame-comunioneabbraccio

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FORMAZIONE

Corso di Alta Formazione per Conduttori di Gruppi di Parola – Milano

            Partirà a ottobre 2020 la settima edizione del Corso di Alta Formazione per diventare “Conduttori di Gruppi di Parola”. Il Corso si rivolge a mediatori familiari, psicologi, assistenti sociali ed educatori con esperienza nel campo della conflittualità familiare. Il numero massimo di partecipanti è di 25.

Il Corso si svolgerà da ottobre 2020 ad aprile 2021 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano.                      Iscrizioni online fino al 12/10/2020

https://formazionecontinua.unicatt.it/formazione-conduttori-di-gruppi-di-parola-p220mi003814-01

 

Corso di Alta Formazione per Conduttori di gruppi di coppie e genitori – Bari

Partirà il 23 ottobre 2020 a Bari il Corso di Alta Formazione sui Percorsi di Enrichment Familiare per diventare “Conduttore di gruppi di coppie e genitori”, organizzato grazie alla collaborazione tra il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia e l’Associazione L’Arcolaio di Bari, con la Direzione scientifica della prof.ssa Anna Bertoni. Il Corso di Alta formazione mira a fornire conoscenze e competenze nell’ambito dell’Enrichment Familiare, una modalità di intervento preventivo-promozionale rivolta alla famiglia che utilizza il gruppo come strumento di lavoro. In particolare il Corso intende offrire uno spazio di riflessione sulle proprie modalità operative, già acquisite nel campo degli interventi con la famiglia, e l’implementazione di una specifica professionalità in questo settore. La proposta formativa si colloca nel panorama attuale degli interventi per la famiglia e fa riferimento a un approccio teorico sull’identità della famiglia e sui suoi cambiamenti (il modello relazionale-simbolico di Scabini e Cigoli, 2000). La proposta sottolinea, inoltre, la natura profondamente sociale dei legami familiari e l’importanza di potenziare tali legami per promuovere le relazioni tra le generazioni, anche a livello comunitario e sociale.

https://unicatt.us15.list-manage.com/track/click?u=0f5dd21902d92eb53261271c9&id=67b2a9f1b6&e=abcc73a8ff

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

La Germania ritorna “uber alles” e investe sulla famiglia. E l’Italia? Sogna il “Family act”

Mentre la Germania investe sulla famiglia con un bonus figli di 300 euro, il nostro “family act” resta solo nei sogni del Ministro Bonetti. L’amaro commento di Gigi De Palo, Forum delle Famiglie.

            La Germania fa scuola destinando alle famiglie tedesche un bonus di 300 euro a figlio per nucleo familiare. Con lo stanziamento di altri 130 miliardi di euro in aiuti, pari al 4% del PIL, la Germania è il Paese dell’Unione europea che sta investendo di più dall’inizio dell’emergenza e certamente sembra essere tra quelli che hanno più a cuore le politiche legate alla famiglia. Con un bonus di 300 euro a figlio per ogni nucleo familiare, il cui pagamento sarà effettuato in tre rate da 100 euro l’una e che non si sostituirà ma andrà a sommarsi ad un altro aiuto per la famiglia, il Kindergeld, introdotto dal 2004, per ogni bambino fino al 18esimo anno d’età, la Germania si colloca certamente tra i Paesi che hanno maggiormente a cuore le politiche legate alla famiglia. Per il primo ed il secondo figlio lo Stato federale, elargisce così ogni mese 204 euro, arrivando progressivamente a 210 euro per il terzo figlio e raggiungendo quota 235 dal quarto.

L’Italia è ancora in attesa del Family Act. Mentre la Germania viaggia veloce, in Italia la situazione è ben diversa, a dimostrazione di un’Europa che si muove a due velocità.  Il Family Act fortemente voluto dal Ministro Bonetti e contenente misure a sostegno della famiglia è infatti ancora in attesa del passaggio in Consiglio dei Ministri e i tempi di attesa sembrano destinati a dilatarsi ad oltranza. Sull’argomento si è pronunciato anche Gigi De Palo. Il Presidente del Forum delle Associazioni Familiari, di cui anche AiBi fa parte, in un post apparso su Facebook ha sottolineato: “Ormai siamo proprio gli unici a non aver compreso che per aumentate il Pil e far ripartire i consumi serve mettere in tasca alle famiglie con figli soldi reali e non bonus inutili. Non si tratta di fare l’elemosina ma di un investimento. “

“Altro che pandemia – conclude De Palo- Ci aspetta di peggio. Molto di peggio. Ma in questo caso ce lo stiamo cucinando con le nostre stesse mani. E non potremo prendercela con il covid o con il capro espiatorio di turno. Serve politica. Quella seria, quella che riesce ad andare oltre. Quella che non gestisce solo le emergenze, ma sa seminare futuro”.

AIBInews  6 giugno 2020

www.aibi.it/ita/coronavirus-germania-ritorna-uber-alles-e-investe-sulla-famiglia-italia-sogna-family-act

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

La svolta di papa Bergoglio

Durante le settimane di coronavirus, papa Francesco ha acquistato rinnovato risalto, non fosse che per la trasmissione quotidiana della messa che, solo sul TG1, ha raccolto un milione e mezzo di ascolti. Sono passati sette anni dall’elezione di un Papa che «viene dalla fine del mondo»: una svolta in una Chiesa colpita dal trauma delle dimissioni di Benedetto XVI, motivate da forte senso di responsabilità più che da gravi questioni di salute. Nel 1978, c’era stata la svolta dell’elezione del Papa «straniero», proveniente dal mondo comunista. In realtà Wojtyla, per soli due anni, non era nato suddito asburgico, come Pio X e Pio XI (e i lombardi Roncalli e Montini venivano, anni dopo, da terre prima asburgiche). Ratzinger poi non era distante dal cuore centroeuropeo del cattolicesimo. I Papi europei sono stati convinti del ruolo religioso del Continente per la Chiesa nel mondo. Ma anche del ruolo politico: Pio XII favorì l’integrazione europea comprendente i protestanti, superando l’Europa latino-cattolica; Wojtyla fece dell’unità europea il suo orizzonte.

Con Bergoglio, c’è un salto nel papato. I commentatori hanno faticato a collocare Francesco nel panorama cattolico. C’è talvolta un diffuso fastidio, piuttosto irrazionale, di fronte a una figura che si smarca dalla continuità nella gestione del potere politico dei Papi, specie in aspetti esteriori e protocollari. Pure i predecessori dopo il Vaticano II si sono mossi in tal senso, pur con altro passo. È una tensione antica, tanto che Bernardo di Chiaravalle criticava Eugenio III, Papa nel 1145: «tu sembri essere succeduto non a Pietro ma a Costantino». Per il teologo conciliare, padre Chenu, era arrivata la «fine dell’era costantiniana» con una Chiesa missionaria, amica dei poveri, in cui «vive» il Vangelo, più che diritto o filosofia.

Francesco, con scarna semplicità, si presenta come prete e vescovo. È segnato dalla storia argentina e dalla formazione gesuitica. È stato protagonista del documento di Aparecida, con cui i vescovi latinoamericani hanno rilanciato la Chiesa nel Continente. Soprattutto colpisce l’evangelismo che vibra in lui, con il richiamo alla conversione, impastato dalle Scritture. Chi l’ascolta percepisce un Vangelo vivo, più che ideologia o visione del mondo. Questo crea ovviamente simpatie e antipatie. Costante è l’insistenza sui poveri: la Chiesa dei poveri del Vaticano II vissuta nel contatto con i feriti della vita, ma anche congiungendo mistica del povero (evangelica) e impegno sociale con ben altra vibrazione dalla prassi istituzionale delle grandi organizzazioni assistenziali cattoliche. Migranti e rifugiati, cui spesso il Papa si riferisce, sono un tema ostico ai settori nazional-cattolici. La lettura della Exsul familia di Pio XII sui migranti (1952) mi colpisce. Pacelli afferma un sorgivo «diritto a uno spazio vitale» della famiglia migrante: è più radicale di Francesco, anche se in situazione diversa.

Bergoglio, come posizione sociale, si colloca in una postura «terza», estraneo alle suggestioni marxiste, ma critico del capitalismo globale. Nel 1981, proprio Giovanni Paolo II confidò ad Andreotti che pensava per la Polonia futura: «né capitalismo né marxismo». Per l’Urss post ’89, consigliava di non appiattirsi sul capitalismo. Come Bergoglio guarda l’Europa? Su questo, Ferruccio de Bortoli lo interrogò nella prima intervista. Non richiamo poi i vari interventi ufficiali, ma solo l’ultima operazione di pressione, da lui fatta, in tempo di Covid-19 (culminata nell’appello di Pasqua), per un’Ue solidale con il Sud, che ha il punto di forza nel rapporto con Angela Merkel, sensibile al pensiero del Papa.

Per quel che riguarda il governo del primo Papa globale in un mondo scomposto, gli accorpamenti e gli aggiustamenti non hanno creato una nuova architettura d’istituzioni. Il centralismo romano, spiacente a varie Chiese locali, s’è moderato, ma il governo romano resta punto di coesione. Il Papa, accessibile a molti, governa con uno stile che ad alcuni ricorda in qualcosa il preposito generale, cui fa capo immediatamente l’azione della Compagnia di Gesù. In realtà, come la società globale, la Chiesa vive un’incerta transizione: non si delineano già le istituzioni di domani. Intanto il Papa pone al centro il confronto personale e ecclesiale con il Vangelo. E, percorrendo questa strada, si colloca come un autorevole leader globale e spirituale. Un tempo si parlava di alternanza tra Papi religiosi e politici. Bergoglio, Papa religioso o politico? La distinzione non può reggere oggi, come del resto forse mai.

            Andrea Riccardi                    “Corriere della Sera” 1 giugno2020

www.corriere.it/opinioni/20_maggio_31/a-confronto-il-vangelo-5253ff04-a353-11ea-8193-03ffea7ed6db.shtml

 

Papa coraggioso

Jorge Mario Bergoglio, dopo le dimissioni di Benedetto XVI, diventa papa della Chiesa cattolica il 13 marzo 2013 assumendo il nome di Francesco. Decide subito di risiedere a Santa Marta invece che nell’appartamento papale del palazzo apostolico. Le direzioni del suo pontificato in questi sette anni sono state molteplici. Ha pubblicato diversi documenti su temi fondamentali di natura teologica, etica, ambientale, sociale, umana ed ecumenica. Ha istituito diverse commissioni per la difesa dei fanciulli dalla pedofilia e per le riforme della Curia, dello Ior, del Codice penale Vaticano, delle istituzioni economiche ed ecclesiastiche, della pena di morte nel Catechismo. Su talune sue encicliche ed esortazioni apostoliche, come la «Laudato si’» o «Amoris lætitia» ma soprattutto sulla sua decisa volontà di riforma della Chiesa, su comportamenti ordinari e su diverse dichiarazioni sono nate controversie di natura teologica ed istituzionale in particolare da parte di frange di un cattolicesimo integralista preconciliare, spesso legato a gruppi di potere economico e politico a livello mondiale.

Ad essere sinceri fino in fondo in certe dispute, anche da parte di taluni cardinali, la sensazione avuta al riguardo è quella di chi, per cercare il capello, rovescia dal piatto la minestra per non mangiarla. Rispetto a tali contrasti le posizioni emergenti sembrano fondamentalmente tre.

C’è chi mitizza la figura del papa, taluni lo criticano violentemente, altri, che Antonio Gramsci definiva gli «indifferenti», sarebbero favorevoli alla linea di Francesco, ma non si esprimono pubblicamente mantenendo l’ambiguità di chi vuol rimanere nel limbo forse per non compromettere posizioni acquisite in ruoli diversi nella stessa Chiesa.

La prima cosa da fare a nostro avviso è uscire dalla trappola della personalizzazione del conflitto sgonfiandone anche le esasperazioni e spostando piuttosto la riflessione sui contenuti annunciati e incarnati. È del tutto evidente che, per fugare certe posizioni semplicistiche o precostituite di natura interessata o di tipo ideologico e perfino pseudo politico, la via migliore è quella di porre l’opinione pubblica davanti a tali questioni suggerendo una lettura personale approfondita dei documenti del pontefice analizzandone in particolare i riferimenti al Vangelo. Questo chiede lo stesso papa ricordando a tutti, come ha fatto nell’omelia durante la celebrazione eucaristica a Santa Marta il 4 maggio 2020, che il confronto è del tutto legittimo mentre non è accettabile la divisione perché l’unità umile e dialogante nella fede è superiore ai conflitti. Solo il giorno successivo ha poi elencato alcuni atteggiamenti che ci impediscono di essere cristiani credibili: la schiavitù delle ricchezze, la rigidità nell’interpretare la Legge, il clericalismo, l’accidia, la mondanità nella pratica della fede sostenendo che senza libertà non possiamo camminare verso Gesù.

La Chiesa missionaria. Bergoglio sta provando a liberare parte nei dicasteri, negli organismi diocesani e parrocchiali che francamente non ci sembra possano avere più legittimità. Le innovazioni delineate dall’ultimo Concilio sono rimaste sulla carta o si sono bloccate. Papa Francesco sta cercando opportunamente di cancellare alcuni aspetti di mondanità nella Chiesa e di spostare l’impegno verso l’idea del servizio umile in particolare nella direzione degli emarginati che lui definisce «gli scartati». In questa direzione crediamo occorrerà guardare sempre più all’esempio della Chiesa missionaria e di quanti anche nelle comunità diocesane e parrocchiali cercano di vivere la fede con la testimonianza dell’amore di Dio attraverso la condivisione dei beni con il prossimo che nel lessico cristiano non è il vicino ma ogni persona sentita come fratello o sorella. Tale necessità di cambiamento è stata sottolineata dal papa in una dichiarazione decisa nella sostanza e chiara nel suo abituale linguaggio penetrante: «La Chiesa deve parlare con la verità e anche con la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare. Questa è la prima tentazione». È comprensibile come la volontà di superare l’idea di potere nella Chiesa sia difficilmente accettabile per chi lo ha esercitato da sempre.

Il cuore della riforma. I riferimenti di papa Francesco sul piano dottrinale sono nel Vangelo, su quello istituzionale nel Concilio Vaticano II e sul modello di stile di vita nell’esempio dell’atteggiamento del buon samaritano. Sulle riforme strutturali della comunità dei credenti egli agisce per ora con precauzione, pazienza e discernimento fondando l’impegno di ogni cristiano sull’opzione per i poveri, l’apertura missionaria, uno stile di vita sobrio, il dovere per la giustizia, la lotta alla corruzione ma soprattutto alla pedofilia, la collegialità episcopale, la sinodalità con la promozione del laicato e del ruolo della donna, l’attenzione per la fragilità nelle condizioni di sofferenza, l’impegno ecumenico e la cura della natura nell’ambiente e nel territorio dei quali non siamo padroni sfruttatori, ma solo usufruttuari momentanei con il dovere di trasmetterli integri alle nuove generazioni. Sono schematicamente le finalità presenti in quanto finora abbiamo letto nelle sue profonde encicliche ed esortazioni apostoliche. La prospettiva dell’amore e della condivisione verso gli emarginati ci appare il cuore della riforma di papa Francesco verso la quale una parte della Chiesa, costituita dai nuovi farisei tradizionalisti, conduce una dura resistenza nell’incapacità di rinunciare a privilegi, degenerazioni di potere e una gerarchizzazione del clero che davvero non ci sembra avere più alcun senso in una Chiesa che stenta a diventare realmente «popolo di Dio».

Non crediamo affatto di essere paradossali scrivendo che da cristiani abbiamo la necessità di far rompere molti nostri schemi mentali dall’insegnamento di Gesù, dei suoi discepoli e delle prime comunità cristiane il cui stile di vita e le forme aggregative sono state riproposte per l’attualizzazione dal Concilio Vaticano II ed ora da questo pontefice. Il conflitto aperto nella Chiesa da un certo integralismo cattolico è ancora in atto e non esclude effetti che potrebbero creare problemi di difficile soluzione. Papa Francesco fa benissimo a tenere una posizione molto saggia che non manca d’interventi mirati per chi li sa leggere all’interno del suo magistero.

Fede genuina e profonda umanità. La sua figura non solo rappresenta una guida importante per i credenti, ma sta diventando carismatica per quanti, atei o agnostici, ne apprezzano il buonsenso e la razionalità nella definizione di una convivenza tra gli esseri umani capace di promuovere una qualità accettabile dell’esistenza per tutti. È un pontefice che sempre più appare lento nei movimenti, segnato nel volto, stanco, ma altrettanto fermo e radicato in una fede genuina e in una profonda umanità che emozionano e riescono a coinvolgere chiunque nella riflessione sul senso della vita. Se questo, come noi crediamo profondamente, corrisponde ad una osservazione oggettiva, non è concepibile alcun silenzio e, pur mantenendo la libertà di pensiero, lo spirito critico e il continuo riferimento al Kerigma, abbiamo al contrario il dovere e la necessità di stare vicini al pontificato di Francesco per sostenerne sistematicamente l’azione avendo come criterio di riferimento alla sua riforma della Chiesa il Vangelo ed il Concilio Vaticano II.

Umberto Berardo       Rocca n. 11, 1 giugno 2020

www.rocca.cittadella.org/pls/rocca/v3_s2ew_consultazione.redir_allegati_doc?p_id_pagina=604&p_id_allegato=1237&rifi=&rifp=&p_url_rimando=%2Frocca%2Fallegati%2F604%2FBERARDO.pdf

 

“La chiesa di Francesco è politica, non politicante”. Intervista a Massimo Faggioli

Da poco più di due mesi è iniziato l’ottavo anno di pontificato di Papa Francesco. Sono passati sette intensi anni dalla sua elezione che ha sorpreso molti a partire da coloro che aspettavano il nuovo vescovo di Roma in Piazza San Pietro. Dal dialogo ecumenico alla riforma della Chiesa, dall’attenzione ai giovani e alle famiglie alla vicinanza alle periferie dell’umanità, il pontificato di Bergoglio è ricco di spunti che permettono di riflettere su di un bilancio provvisorio della sua azione pastorale.

Discutiamo di questo tema con Massimo Faggioli. Storico e teologo, Faggioli è docente ordinario nel dipartimento di Theology and Religious Studies alla Villanova University (Philadelphia, USA). Vive negli Stati Uniti dal 2008 e nei suoi studi si occupa principalmente di storia del cristianesimo, di cattolicesimo contemporaneo, di storia delle istituzioni ecclesiastiche, dei nuovi movimenti cattolici e del nesso fra religione e politica.

Professore, possiamo azzardare un bilancio dei primi sette anni del pontificato di Francesco? Se sì, quali sono le principali peculiarità di questo periodo?

Difficile fare un bilancio del pontificato in corso, anche se questo periodo di pausa e sospensione dovuta alla pandemia si presta a una riflessione. Credo che il punto forte, il momento in cui il pontificato ha lasciato un segno indelebile, si sia avuto tra 2014 e 2016, con il Sinodo in due parti su famiglia e matrimonio seguito da Amoris Lætitia, e poi Laudato Si’. Francesco non ha avuto timore di esplicitare la pastoralità della dottrina su questioni-bandiera per un certo cattolicesimo militante e intransigente, e lo ha fatto tenendo ben presente la carica ideologica e partitica che una certa cultura cattolica usa quando parla di famiglia e matrimonio, ma anche sui rapporti tra economia e potere in Laudato Si’. Questo è secondo me il portato più importante del pontificato e infatti è quello che ha causato maggiori tensioni.

Tutto questo in una spinta a una nuova visione globale del cattolicesimo, non più identificato con un retroterra culturale europeo e un modello sociale borghese. Una delle peculiarità del pontificato è anche il tipo e la violenza verbale della resistenza contro l’insegnamento del papa, proveniente specialmente da settori del cattolicesimo negli Stati Uniti legati alla grande finanza. Questo ha mostrato uno dei tratti tipici del nostro tempo, il razzismo: che l’opposizione a Francesco negli USA è anche l’opposizione al primo papa latinoamericano, dal sud del mondo. La fase due del pontificato ha aperto la questione sinodale nella chiesa, con una fase centrale (dai Sinodi di Francesco al Sinodo sulla sinodalità programmato per il 2022 in Vaticano), ma anche momenti locali molto importanti, come in Germania e in Australia. La seconda fase è ancora in corso, e risente di un rallentamento dovuto alla pandemia.

Con l’Evangelii gaudium, la Laudato si’, l’Amoris lætitia, la Gaudete et exsultate, Francesco ha dato un contributo sia teologico sia pastorale all’interpretazione e alla concretizzazione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II. A suo parere, quali sono le principali caratteristiche della riforma spirituale e culturale proposta da Francesco?

Rispetto ai predecessori Francesco ha un rapporto diverso col concilio perché non è uno dei padri né dei teologi del concilio, ma ne è figlio. La sua ermeneutica conciliare non ha bisogno di citare il concilio troppo spesso; tutta la sua teologia respira e ispira il Vaticano II. Al tempo stesso, Francesco ha anche un rapporto diverso col post-concilio, più libero e risolto, meno antagonistico rispetto a questo o quel singolo aspetto delle turbolenze postconciliari. In parte si deve alla provenienza latinoamericana, ma anche al suo essere gesuita. Qui si vede l’interpretazione di Francesco del rinnovamento conciliare: non come ripetizione alla lettera del dettato conciliare, ma come momento genetico di una visione di chiesa.

Non è solo una chiesa più attenta al sociale come esso è e come esso c’è, ma anche alla dimensione pastorale nel senso della pastoralità della dottrina. Evangelii gaudium, Amoris lætitia, e Gaudete et exsultate proseguono una traiettoria conciliare nell’ecclesiologia, la teologia della famiglia, e la chiamata universale alla santità; Laudato Si’ rappresenta un passo in avanti radicale rispetto alla tradizione precedente, specialmente per quanto dice sui rapporti tra potere e conoscenza, e sulla posizione inequivoca della chiesa rispetto alle grandi questioni ambientali come questioni sociali. La pandemia in corso mostra chiaramente e conferma l’importanza cruciale di Laudato Si’.

 Intanto con Francesco pare superarsi in modo definitivo il modello di Chiesa dirimpettaia alle istituzioni governative per avanzare una forma più dialogica di presenza pubblico-politica rispetto al passato. Concorda?

Credo che quello che caratterizza Francesco nel suo rapporto con le istituzioni governative e internazionali sia un superamento del blocco delle questioni “non negoziabili”, come si vede per esempio dai messaggi e discorsi di Francesco alle istituzioni europee. Il magistero della chiesa su quelle questioni non è cambiato, ma non si pretende che si possa aspettare a collaborare col mondo fino a quando il mondo non si convertirà al magistero della chiesa. Il messaggio della chiesa può essere annunciato anche in modi diversi e può cambiare la realtà in modi diversi.

Da un lato, Francesco ha detto parole coraggiose sulla necessità di collaborazione tra chiesa e istituzioni dello stato laico, per esempio durante la pandemia che pure solleva questioni delicate sulla libertà religiosa. Dall’altro lato, Francesco ha anche chiaramente rifiutato la tentazione di una chiesa al servizio di un certo progetto o patto politico strategico – in Italia come altrove. È un impegno forte al dialogo, ma anche una concezione alta di laicità, in un momento in cui un certo cattolicesimo militante (anche qui negli USA) respinge il concetto stesso di laicità. Allo stesso tempo, la chiesa di Francesco non è neutrale ma chiaramente dalla parte dei poveri e di coloro che sono senza voce: è una chiesa politica ma non politicante.

 Specialmente in Europa, le numerose spinte nazionaliste si legano ad un concetto identitario di cristianesimo. Questo fattore pare contraddire gli insegnamenti proposti da Francesco. Spinte che sembrano sempre più connesse, in modo diretto o implicito, all’opposizione ecclesiale a Bergoglio. È così?

Credo che sia così, e fin dall’inizio del pontificato. Però dal punto di vista politico-globale il pontificato ha goduto di una prima finestra di tempo propizio fino al 2016, in cui Francesco gode di una situazione meno sfavorevole, almeno in occidente. Poi col 2016 arriva prima Brexit e poi l’elezione di Trump, e poi tutto il resto: il pontificato deve remare contro vento, anche perché certi movimenti politici danno voce e forza ad alcune voci dentro la chiesa. Dietro ai movimenti neo-nazionalisti che animano Brexit e Trump (come anche in Brasile o in Europa orientale) ci sono settori significativi della chiesa cattolica che non sono esattamente sulla stessa linea d’onda di Francesco su molte questioni. Su questo ha ragione lo studioso cattolico britannico Terry Eagleton: la questione centrale diventa quella identitaria attorno a una certa concezione di “cultura” –cultura occidentale contro orientale, bianca-europea contro globale, gay contro straight [eterosessuale], etc.

A parole i movimenti nazionalisti e identitari sembrano combattere contro la globalizzazione economica, ma in realtà mirano a colpire la globalizzazione culturale che è quella che mette in difficoltà una idea identitaria di religione ridotta a “cultura”. Francesco è un radicale anche nel senso che rifiuta di ridurre la fede cristiana a “cultura” o a “valori morali”: il che significa smentire tutta una serie di ideologie nazional-religiose che declinano il cattolicesimo in senso identitario, come oggi in Ungheria, negli Stati Uniti, ma anche in Italia.

 Con il suo magistero, Francesco ci ricorda che l’intero messaggio cristiano ha una dimensione sociale. In tal modo, il Papa pare aver aggiornato la riflessione sulla dottrina sociale della Chiesa registrando la valenza sociale del kerygma. Negli Stati Uniti d’America come è stato recepito questo insegnamento?

Francesco incontra molto favore tra i cattolici e gli statunitensi che hanno visto negli ultimi tre decenni l’ascesa di un cattolicesimo “culturale” e politico organico al Partito repubblicano, che dal punto di vista della dottrina sociale però è più vicino al protestantesimo evangelico che alla dottrina sociale della chiesa. Da questo punto di vista, Francesco ha liberato e ridato cittadinanza a componenti importanti della chiesa cattolica negli USA, per lungo tempo marginalizzati (da Dorothy Day negli anni cinquanta fino ai missionari cattolici attivi nella chiesa latinoamericana della teologia della liberazione). Ma la sfida è ancora aperta. Gli Stati Uniti sono uno scenario particolare per comprendere questo pontificato, perché Francesco è il successore di due papi particolarmente popolari nel cattolicesimo conservatore nordamericano, per motivi diversi. Francesco invece è il primo papa globale in quanto proveniente dal “global south” [sud del mondo] e questo rappresenta una sfida per gli Stati Uniti: per Francesco gli Stati Uniti sono un paese non più eccezionale o al centro del mondo, e il cattolicesimo nordamericano non rappresenta più il modello per la ripresa della chiesa nel mondo secolarizzato.

In un certo senso, il rapporto difficile tra il Vaticano di Francesco e gli USA di Trump sono solo l’aspetto più superficiale di una divergenza profonda: il cattolicesimo che si globalizza a partire dal Vaticano II ma in modo più cosciente dal Vaticano di papa Francesco da un lato, e gli Stati Uniti e il cattolicesimo degli Stati Uniti che hanno perso la leadership mondiale a favore dell’Asia. Da un certo punto di vista, la chiesa cattolica negli USA è una chiesa occidentale, ma da altri punti di vista è una chiesa del “global south”. Ha un futuro incerto. Quel che è certo è che non sarà la stessa immaginata dai neo-conservatori negli anni novanta, né quella sognata dai teologi del progressismo radicale degli anni settanta. Francesco rappresenta un modello terzo rispetto a queste due grandi correnti nella chiesa degli USA.

Rocco Gumina            aTuttaviaW    1 giugno 2020

www.tuttavia.eu/2020/06/01/la-chiesa-di-francesco-e-politica-non-politicante-intervista-a-massimo-faggioli

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

MOGLIE

Moglie casalinga: ha diritto a parte dello stipendio del marito?

Dovere di assistenza tra coniugi: il marito può limitarsi a comprare ciò di cui la moglie ha bisogno o deve consegnarle il denaro? Non sono più numerose come un tempo le famiglie monoreddito. Oggi, la donna percepisce uno stipendio al pari del marito, stipendio che le consente di rendersi indipendente dal punto di vista economico e soddisfatta sotto l’aspetto lavorativo. La carriera insomma non è più una prerogativa del sesso maschile. Ciò nonostante c’è ancora una larga fetta di mogli che, d’accordo con il coniuge, preferisce badare alla casa e ai figli. Attività questa che, per quanto nobile, non è produttrice di un reddito diretto. Di qui una domanda che spesso attanaglia le coppie giovani e meno giovani: la moglie casalinga ha diritto a parte dello stipendio del marito?

La casalinga è un lavoro? La giurisprudenza ha elevato il lavoro di casalinga al rango di qualsiasi altro lavoro. Lo si denota da due aspetti.

a)       Il primo: se la casalinga si infortuna in un incidente stradale, il marito ha diritto a un risarcimento anche di natura economica, per aver perso il supporto in famiglia ed essere costretto a ricorrere a una collaboratrice esterna. La giurisprudenza ha, infatti, riconosciuto il danno patrimoniale per la perdita del contributo domestico (anche se solo per un periodo limitato di tempo) che la moglie è in grado di dare.

b)      Il secondo: al momento della separazione della coppia, la donna che ha svolto il ruolo della casalinga ha diritto a un assegno di mantenimento proporzionato al sacrificio e al contributo da questa prestato alla famiglia. Questa importante precisazione è stata fornita dalla Cassazione a Sezioni Unite nel luglio del 2018.

Attenzione però: il lavoro di casalinga è tale solo se concordato con il marito. In buona sostanza, non deve risultare che l’attività domestica sia solo la scusa per evitare gli impegni lavorativi. Ecco perché, afferma la Cassazione, gli alimenti alla casalinga vanno riconosciuti solo nel momento in cui tale attività è il frutto di una scelta condivisa dall’intera coppia.

I diritti della moglie casalinga. La moglie casalinga è innanzitutto una moglie e, come tale, ha gli stessi diritti di qualsiasi altra donna sposata. Il fatto di non lavorare non ne deprime il ruolo e l’importanza. Anzi, al contrario, come vedremo a breve, ha il diritto ad essere mantenuta.  Per la coppia in comunione o separazione dei beni esiste un obbligo comune: quello di prendersi cura del proprio coniuge.

 Tra i doveri del matrimonio, il Codice civile elenca quello della collaborazione alle esigenze della famiglia e dell’assistenza dell’altro coniuge, assistenza che deve essere sia morale che materiale. Quanto alla collaborazione, la casalinga la presta non già con un supporto economico ma in natura, ossia tramite il lavoro domestico. Quanto all’assistenza, questa non deve essere necessariamente materiale ma anche morale.

Quest’ultima consiste nell’impegno dei coniugi a sostenersi, proteggersi e aiutarsi nella vita quotidiana. Il diritto è sospeso nei confronti del coniuge che si allontana senza giusta causa dalla residenza familiare e rifiuta di tornarvi.

            L’assistenza morale può essere sintetizzata con queste parole: ciascun coniuge deve rispettare la personalità, la cultura e il temperamento dell’altro. Da questo dovere discende anche l’obbligo di comunicare tutte le informazioni che possono influire sulla vita familiare e sul suo indirizzo. Rientra nell’assistenza morale, ad esempio, il dovere di riconoscere all’altro coniuge il libero esercizio dei diritti personali inviolabili e il sostegno reciproco nella sfera affettiva, psicologica e spirituale.

            Veniamo infine all’assistenza materiale. Ciascun coniuge può pretendere dall’altro un sostegno economico per assolvere i compiti di cui si è fatto carico nella ripartizione degli oneri familiari e per soddisfare le esigenze di carattere primario (proprie e dei figli) come il cibo, il vestiario, i trasporti, lo studio, la cura in caso di malattie. Per soddisfare tali esigenze, i coniugi devono mettere a disposizione il denaro occorrente o, eventualmente, ricorrere all’opera di terzi. In caso di malattia di uno dei coniugi, l’alterazione dell’equilibrio coniugale e l’impossibilità della convivenza possono essere determinate dallo stato patologico dello stesso non implicando necessariamente una violazione del dovere di assistenza.

La moglie casalinga ha diritto a una parte dello stipendio del marito? Detto ciò, la soluzione al quesito di partenza viene anche più agevole. Seppure lo stipendio resta solo “di proprietà” di chi lo guadagna, ciò non toglie che questi abbia comunque l’obbligo di mantenere materialmente l’altro coniuge qualora questi non disponga di risorse economiche proprie. Ne deriva che la moglie casalinga ha diritto a una parte dello stipendio del marito, che la legge chiaramente non quantifica né in termini assoluti né percentuali; si deve comunque trattare di una quota pari a quanto necessario a mantenere lo stesso tenore di vita del coniuge. Questo significa che la legge non ammette che tra moglie e marito ci siano disparità. Non è possibile che l’uomo faccia uno stile di vita elevato, lasciando la moglie invece in ristrettezze.  

Attenzione però: il marito può assolvere all’obbligo di contribuire alle esigenze della donna provvedendo alle spese in prima persona: non è infatti obbligato a consegnarle i soldi, ben potendo pagare egli stesso la spesa, il vestiario, il divertimento e tutto ciò di cui la moglie ha bisogno. L’importante è che, in relazione alle proprie capacità economiche, non le faccia mancare nulla.

Violazione del dovere di assistenza. Se il marito non presta assistenza alla moglie, è responsabile. La sua responsabilità, però, è solo di natura civilistica e si sostanzia nell’addebito in caso di separazione. La moglie non ha poteri coercitivi per imporre al marito l’assistenza materiale, salvo che questi la lasci “morire di fame”. Nel qual caso, infatti, si presenterà il reato di violazione degli obblighi familiari.

            La Legge per tutti                              7 giugno 2029

www.laleggepertutti.it/405916_moglie-casalinga-ha-diritto-a-parte-dello-stipendio-del-marito

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

OMOFILIA

Un reportage sui “Cattolici LGBT+. Una mano tesa alla chiesa”

Nel numero di giugno 2020 del mensile cattolico Jesus l’inchiesta “Credenti lgbt. La mano tesa verso la chiesa “, otto pagine di interviste ai cristiani LGBT, ai loro genitori e agli operatori pastorali che li accompagnano, raccolte da Eleonora Vio ed accompagnate da un bel reportage fotografico di volti e luoghi di Daniela Sala.                                                                   

 www.jesusonline.it/numero-6-2020

 “Oggi c’è più apertura verso gli omosessuali, ma per il Magistero le relazioni tra persone dello stesso sesso rimangono “disordinate”. Fra legittimazione e accoglienza, c’è ancora tanto da fare: «La Chiesa è madre, dunque non è infallibile. Ma facciamo parte della stessa famiglia».

www.gionata.org/sul-mensile-jesus-di-giugno-2020-un-reportage-sui-credenti-lgbt-una-mano-tesa-alla-chiesa

 

Secondo natura? Neuroscienze e orientamento sessuale

Le riflessioni sul rapporto tra neuroscienze ed etica, riportate durante l’anno nel blog Moralia, hanno evidenziato le sfide che gli studi sul cervello umano pongono alla riflessione teologico-morale.

Che cosa può dirci tutto ciò riguardo all’annoso tema dell’orientamento sessuale? La riflessione magisteriale ci presenta le variabili alternative all’eterosessualità come «inclinazioni disordinate» le quali, indipendentemente dalla loro eziologia – genetica o culturale –, non sarebbero «secondo natura».

Al di là del binomio natura-cultura. Recentemente Andrea Ganna ha pubblicato, sulla nota rivista Science, una ricerca nella quale ha dimostrato che non esiste un singolo gene legato all’omosessualità, ma una serie di migliaia di varianti genetiche, ognuna delle quali ha un suo effetto sull’orientamento omosessuale. La genetica, pertanto, non spiegherebbe da sola la variabilità del comportamento sessuale umano.

Inoltre, secondo la teoria EBE (Exotic becomes erotic) di D. J. Bem, esisterebbe una sorta di connessione «indiretta» tra fattori biologici – come il genotipo, gli ormoni prenatali e la neuroanatomia cerebrale – e il successivo orientamento sessuale di un individuo. Indiretta perché l’influenza del genotipo sarebbe da rintracciare sul temperamento infantile. Quando esso assume nel bambino/a comportamenti non conformi al ruolo di genere che la società attribuisce al maschio/femmina l’orientamento sessuale, nella maggior parte dei casi rilevati, approderebbe a forme alternative come, per esempio, l’omosessualità.

Certo, si tratta solo di alcune voci, ma sono sufficienti per porci l’interrogativo sulla genesi dell’orientamento sessuale: parliamo di un dato fissato una volta per tutte e per sempre o di una realtà più duttile«totipotente» –, che partirebbe da una bisessualità di fondo e si orienterebbe successivamente in base al vissuto (nella maggior parte dei casi in senso eterosessuale, mentre in forma minoritaria verso altri orientamenti)?

Sembra quasi crollare il mantra del «contro natura». È difficile – e oserei dire contraddittorio – parlare del «dato naturale» della sessualità umana: nella genesi del comportamento sessuale, infatti, fattori genetici e biologici e fattori culturali sono così strettamente legati tra loro da rendere impercettibili i confini. La vecchia contrapposizione natura-cultura non ha più alcuna ragion d’essere.

Una nuova riflessione sull’orientamento omosessuale. Per questo motivo la questione omosessuale non può essere risolta troppo sbrigativamente, ricorrendo solo al concetto di legge naturale o a certe limitate interpretazioni della Scrittura o dell’antropologia cristiana che individuano nella dualità sessuale maschile e femminile l’unica forma in grado di realizzare le dimensioni essenziali (unitiva e procreativa) della relazione coniugale.

La relazione eterosessuale possiede certamente la capacità di realizzare in pienezza queste proprietà: «L’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono» (Deus caritas est, n. 2. Benedetto XVI 25 dicembre 2005).

www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20051225_deus-caritas-est.html

Ma che si tratti di un archetipo non esclude a priori che altre forme di relazione – come quella omosessuale – possano presentare, seppur in modo «imperfetto», alcuni elementi di positività.

S’impone, pertanto, la necessità di una riflessione ad ampio raggio che, proprio partendo dagli studi sul cervello umano, sostenga le persone omosessuali nell’accettazione di sé e nella ricerca di una vita cristiana pienamente realizzata e integrata nella comunità ecclesiale. Il rischio – come annota lo stesso papa Francesco nell’esortazione apostolica Christus vivit, 25 marzo 2019 è che la morale sessuale continui a essere considerata «causa di incomprensione e di allontanamento dalla Chiesa, in quanto è percepita come uno spazio di giudizio e di condanna» (n. 81).

www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20190325_christus-vivit.html

 Roberto Massaro, docente di Teologia morale presso l’Istituto «Regina Apuliæ, facoltà teologica pugliese.

3 giugno 2020

http://www.ilregno.it/blog/secondo-natura-neuroscienze-e-orientamento-sessuale-roberto-massaro

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬ POLITICHE PER LA FAMIGLIA
Family Act. Un modello «comunitario» per l’Italia che va oltre il Covid

Solo un vero protagonismo delle famiglie incoraggiato dallo Stato può liberare tutte le energie sociali necessarie a far cogliere l’occasione di un profondo cambiamento

            Gentile direttore,                                 ci troviamo a festeggiare l’anniversario della nascita della nostra Repubblica in un tempo di sconvolgimento del vivere sociale, umano ed economico. Il Paese ha dovuto fare scelte drammatiche che avevano avuto precedenti tanto gravi solo prima di quel 2 giugno del 1946. In qualche modo, il tempo che ci apprestiamo a vivere ha la stessa connotazione di responsabilità e insieme di coraggio e speranza che allora il nostro Paese ha saputo incarnare. È opinione diffusa che la crisi radicale che abbiamo vissuto possa dare origine a un nuovo slancio. Ma è altrettanto chiara la consapevolezza che questo accadrà solo se sapremo mettere in campo strumenti nuovi, come nuova è la sfida che ci attende.

Si tratta di facilitare scelte di investimento personale e comunitario che ci proiettino nel futuro con una fiducia rinnovata. Sono scelte che riguardano i percorsi di formazione dei giovani, di innovazione nell’ambito lavorativo e imprenditoriale, ma anche scelte familiari. Lo scenario, che già prima del diffondersi dell’epidemia avevamo davanti, è un crollo demografico che rischia di aggravarsi irrimediabilmente se non diamo concretezza a riforme oggi ancora più necessarie. Il coronavirus ci ha obbligato alla consapevolezza, dimostrando che solo una società integrata può essere all’altezza delle sfide del nostro tempo: non può più funzionare un modello sociale in cui economia, ambiente, salute pubblica, educazione, innovazione, ricerca, solidarietà, relazioni umane siano considerati ambiti distinti e trattati come tali. Il modello che si delinea davanti ai nostri occhi è al contrario un sistema unitario, in cui ciascuno di questi elementi concorre, in piena armonia con gli altri, a uno sviluppo integrale. Così come ne esce sconfitta l’immagine dell’uomo come individuo solo, diviso in categorie in base al ruolo sociale o al lavoro che svolge. La visione di società che abbiamo sperimentato in questi mesi è fondata su connessioni profonde tra il vivere personale e quello comunitario, un modello sociale in cui il lavoro e le responsabilità familiari si uniscono nella quotidianità di ciascuno, nel concreto vivente della persona.

Una società resiliente è una società che si fonda su relazioni strutturali solide e al tempo stesso dinamiche. Nel nostro Paese le famiglie hanno dimostrato di poter contribuire da protagoniste e maestre a questa struttura. D’altra parte, è questa l’idea stessa che nasce dal pensiero dei padri costituenti, come Aldo Moro aveva rimarcato parlando della necessità di dare corpo a legami e relazioni sociali: «Vogliamo dei collegamenti, vogliamo che queste realtà convergano, pur nel reciproco rispetto, nella necessaria solidarietà sociale». È questa la sfida che oggi abbiamo davanti. Ho molto apprezzato e condiviso l’impegno del Presidente del Consiglio a ripartire dal Family Act, proponendo un vero e proprio cambio di paradigma nel modo in cui progettiamo le politiche familiari. È un passo inedito, che farà la storia del Paese. Il Family Act nasce da un’idea di fondo: riconoscere le famiglie come comunità capaci di contribuire al bene e allo sviluppo della società, non semplicemente somme di individui a cui destinare sussidi in risposta a esigenze particolari. Un serio progetto di riforma per il Paese deve infatti riconoscere un ruolo primario alle cellule sociali fondamentali su cui siamo strutturati come comunità nazionale.

Riconoscere le famiglie come soggetti che, nel loro essere comunità, contribuiscono allo sviluppo di tutti significa quindi costruire una struttura (fatta di servizi, fiscalità, organizzazione sociale e lavorativa) coerente a tale scopo. Paesi come la Francia hanno impresso una svolta alle politiche familiari quando le hanno impostate non come semplice erogazione di sussidi, ma strutturando una leva fiscale adeguata che valorizzasse le scelte familiari, insieme alla promozione di una solida rete di servizi a sostegno delle famiglie stesse. È tempo che anche nel nostro Paese superiamo una visione di politiche fatte da contributi unidirezionali, che non attivano il protagonismo fattivo nella società e nel mondo del lavoro che le stesse famiglie svolgono. È tempo per uno Stato che sappia liberare e connettere energie. È tempo che l’Italia si doti di vere e proprie politiche familiari, con quella connotazione che le distingue dalle politiche sociali e sa affiancare le une alle altre anziché sovrapporle. È tempo di un piano per le famiglie di cui i cittadini conoscano con nitidezza la direzione e le diverse articolazioni, perché nelle nostre case possa tornare ad abitare la fiducia.

La sfida del Family Act proposto da Italia Viva è quella di investire nelle relazioni fondamentali come motore di speranza e di futuro per il Paese, sostenendo dinamiche positive nelle famiglie a servizio della società e nella società per le famiglie. Interventi per attivare scelte di progettualità sul lungo termine, come l’assegno unico e universale per i figli. Ma contemporaneamente un sostegno alle spese educative delle famiglie attraverso una forma adeguata di fiscalità, la riorganizzazione dei congedi parentali (mai come in questo periodo ne abbiamo imparato l’importanza), la promozione del lavoro femminile per permettere alle donne la libertà di scegliere e di realizzarsi senza dover mettere in antitesi lavoro e famiglia, la promozione di protagonismo giovanile favorendo scelte progettuali di vita, a partire dall’abitazione e i percorsi formativi.

Il metodo proposto dal Family Act, che è una legge delega, si fonda su 3 princìpi: attivazione, semplificazione, connessione, introducendo strumenti che sappiano attivare processi positivi. Si supera la logica frammentaria e a tempo determinata dei voucher, introducendo stabilità negli interventi economici. Si propone l’utilizzo del credito di imposta per le spese sostenute dalle famiglie nei loro compiti fondamentali (come quello educativo), riconoscendo che attraverso queste azioni le famiglie generano valore sociale, valore che perciò va detassato. Si investe nel lavoro e nella costituzione di una rete sociale che sappia sostenere le famiglie e con esse cooperare.

Promuovere nuove connessioni è far crescere legami di solidarietà sociale, perché realmente ciascuno possa concorrere al bene spirituale e materiale cui ci richiama la Costituzione. Investire nelle famiglie significa nutrire dalle radici questa solidarietà come responsabilità condivisa e darle una possibilità di concretezza storica. Il tempo di questo passo è adesso. «Adesso – insegnava don Primo Mazzolari – non domani».

Maria Elena Bonetti, ministra per la Famiglia           Avvenire 2 giugno 2020

www.avvenire.it/opinioni/pagine/un-modello-comunitario-per-litalia-che-va-oltre-il-covid

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

TEOLOGIA

Insieme alla tavola del Signore

Le somiglianze raggiunte nella comprensione della Cena del Signore/Eucaristia e nel ministero tra le Chiese cattolica romana ed evangelica sono sufficienti per invitarsi reciprocamente a celebrarla insieme. Il Gruppo di lavoro ecumenico di teologi evangelici e cattolici (ÖAK) in Germania è giunto a questo parere in un nuovo studio, intitolato Insieme alla tavola del Signore. Prospettive ecumeniche nella celebrazione della Cena e dell’Eucaristia del Signore, pubblicato l’11 settembre 2019 dopo un’elaborazione decennale, che ha esaminato i risultati dei dialoghi ecumenici e dei più recenti approcci delle discipline bibliche e teologiche. Il Gruppo di lavoro, nello specifico, non appoggia «una nuova forma concordata di liturgia eucaristica al di là delle tradizioni cresciute nel corso della storia», ma ritiene si debba presupporre «il riconoscimento del battesimo come vincolo sacramentale della fede e come presupposto nella partecipazione».

Il tema, dato l’alto numero di famiglie interconfessionali, è particolarmente avvertito in Germania: nel 2018 la Conferenza episcopale cattolica ha affrontato la questione della comune partecipazione all’eucaristia per le coppie interconfessionali ed è entrata in conflitto con una minoranza interna e con la Santa Sede.

1. Introduzione

     1. Il Gruppo di lavoro ecumenico di teologi evangelici e cattolici, fondato nel 1946 a Paderborn sotto la presidenza dei vescovi Lorenz Jaeger e Wilhelm Stählin, si è occupato spesso e intensamente della tematica «Cena/Eucaristia e ministero» in prospettiva ecumenica. In numerosi dialoghi ecumenici internazionali e nazionali si sono raggiunte convergenze che ora occorre raccogliere. Recentemente anche altri organismi ecumenici hanno cercato di compendiare e presentare i risultati raggiunti su comprensione della Chiesa, Cena/Eucaristia e ministero.

     2. Da alcuni anni nell’ermeneutica ecumenica è cominciata l’epoca della raccolta dei frutti dei dialoghi ecumenici tenuti finora. Questa richiesta si collega con la decisione di dotare gli accordi teologici raggiunti di conseguenze vincolanti sul piano dell’azione. Nel nostro contesto, la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (1999) può essere sia una guida sia un ammonimento: gli sforzi tesi a vagliare lo stato dei dialoghi in via – sulla strada verso la comunione delle Chiese – intravvidero a livello di recezione la possibilità di un accordo. Al tempo stesso si deplorò la loro presunta mancanza di conseguenze a livello della vita ecumenica locale, nelle comunità cristiane, nelle associazioni e nelle famiglie.

     3. Gli interessi ecumenici che guidano il nostro contributo sono i seguenti.

 1) Si deve riconoscere che nei decenni passati nei dialoghi teologici svoltisi in chiave ecumenica si è riusciti a raggiungere, su tutte le questioni che nel XVI secolo furono oggetto di controversia in materia di Cena/Eucaristia, un livello di accordi che non permettono più di considerare divisive della Chiesa le differenze che restano.

 2) Si ribadisce e sottolinea con forza che sul contenuto del significato teologico di Eucaristia/Cena c’è accordo e che su questa base si apprezza la varietà delle tradizioni liturgiche.

3) Deve apparire chiaramente che tutte le discipline teologiche (esegetica, storica, sistematica e pratica) aprono un accesso di volta in volta specifico ai temi relativi a Cena/Eucaristia, di cui si tiene conto nella comprensione teologica complessiva qui sviluppata; essa ambisce a rappresentare per ciascun approccio lo stato attuale della ricerca.

4) La varietà della prassi liturgica nella storia e nell’attualità della celebrazione della Cena/Eucaristia è il punto di riferimento costante di tutte le nostre considerazioni. Il loro scopo è quello di apprezzare e sostenere, riconoscendoli, tutti gli sforzi che rafforzano il contenuto del significato teologico e di condividere, su questa base, la richiesta di celebrare insieme la Cena/Eucaristia.

5) La nostra presentazione si concentra sulla tradizione occidentale e considera solo occasionalmente l’Ortodossia; solo per gradi si possono raggiungere avvicinamenti nell’ecumenismo nel suo complesso. Tuttavia l’ecumenismo deve perseguire sempre anche una prospettiva multilaterale, se non vuole perdere di vista il suo scopo: l’unità della Chiesa nel senso della tradizione confessionale comune.

     4. Nel titolo parliamo consapevolmente della celebrazione comune della Cena/Eucaristia. Eucaristia è la lode di ringraziamento per l’azione di Dio come creatore e redentore. Nell’ultima Cena questa promessa divina della sua presenza viene espressa con parole e gesti simbolici per tutti i tempi. Noi sappiamo di essere chiamati insieme alla memoria viva di questo testamento di Gesù Cristo.

     5. Il nostro studio presenta questa struttura tematica:

a)       Il punto di partenza delle considerazioni è una testimonianza comune alla luce del contenuto del significato teologico della celebrazione della Cena/Eucaristia (sezione 2).

b)      Nella fondazione biblico-teologica presentiamo la varietà delle forme di celebrazione dei pasti, riconoscibile nei testi del Nuovo Testamento, collegati dai primi cristiani con l’avvenimento della morte e risurrezione di Gesù (sezione 3).

c)       Un viaggio attraverso la storia delle forme di celebrazione permette di familiarizzarsi con le molteplici forme della pratica liturgica (sezione 4).

d)      Descriviamo quindi le controversie ecumeniche e le convergenze raggiunte (sezione 5).

e)       Prestiamo un’attenzione specifica alla questione della presidenza (ministeriale) della celebrazione della Cena/Eucaristia (sezione 6)

f)        Riflettiamo sulla relazione fra comunione della Chiesa e comunione eucaristica (sezione 7).

g)      Alla fine presentiamo il nostro parere riguardo all’apertura delle celebrazioni della Cena/Eucaristia confessionali alle cristiane e ai cristiani di altre tradizioni (sezione 8).

2. Testimonianza comune

3. Fondamenti biblico-teologici 

4. Pluralità storica delle forme di celebrazione

5. Concezioni ecumeniche nella teologia della Cena/Eucaristia

6. La presidenza delle celebrazioni eucaristiche      

7. Il rapporto fra comunione ecclesiale e comunione eucaristica

8. Parere per la partecipazione alla celebrazione della Cena/Eucaristia

     1. Il Gruppo di lavoro ecumenico di teologi evangelici e cattolici considera teologicamente fondata la pratica della partecipazione reciproca alla celebrazione della Cena/Eucaristia nel rispetto delle tradizioni liturgiche altrui. Essa è pastoralmente opportuna specialmente nella situazione di famiglie di confessione mista. Sia in vista del caso singolo sia anche come normativa generale, nessuno può accontentarsi delle soluzioni finora esistenti. Questo parere implica il riconoscimento delle rispettive forme liturgiche, nonché dei servizi di presidenza, così come dati dalla comunità che celebra e invita alla celebrazione, in nome di Gesù Cristo, battezzati di altre confessioni.

     Non si auspica una nuova forma concordata di liturgia eucaristica al di là delle tradizioni cresciute nel corso della storia. Nella prassi da noi proposta si presuppone il riconoscimento del battesimo come vincolo sacramentale della fede e come presupposto nella partecipazione. Sulla base di questo presupposto possono essere rispettate anche quelle autorità per le quali si prega nella Chiesa cattolica romana (ossia i vescovi del luogo e il papa). Una tale pratica dell’invito a tradizioni già vissute include che in futuro si proseguano i dialoghi ecumenici per continuare a cercare risposte alla domanda sulla forma dell’unità visibile piena della Chiesa di Gesù Cristo nel tempo terreno e negli ambienti di vita degli uomini.

     Noi basiamo il nostro parere su argomentazioni di teologia biblica, storia, teologia sistematica e teologia pratica, che qui sono state presentate in dettaglio. Al riguardo, sono preminenti le considerazioni che seguono.

     2. Oggi il contenuto delle celebrazioni della Cena/Eucaristia può essere descritto in modo condiviso a livello ecumenico. Il loro fondamento e il loro scopo sono identici. Noi celebriamo nella speranza pasquale la memoria fondata da Gesù Cristo stesso della sua vita e morte redentrice per noi in un’azione liturgica, nella quale la sua presenza diventa sperimentabile ed efficace nella forza dello Spirito Santo nella Parola proclamata e nel pasto. Perciò le parole di Gesù sul pane e sul vino (verba testamenti) sono al centro della liturgia eucaristica: i cristiani annunciano la morte di Gesù, credono che egli viva e sperano che egli venga per la salvezza del mondo. La disponibilità interiore dei credenti a celebrare il mistero rivelato da Dio, di poter riconciliare chi è disponibile alla conversione e alla penitenza, è una componente costitutiva in tutte le liturgie confessionali, anche se la forma concreta varia.  

     3. In molti dialoghi ecumenici si è approfondito il riconoscimento che i diversi contenuti teologici e le diverse forme delle celebrazioni liturgiche della Cena/Eucaristia non devono essere un ostacolo per la reciproca partecipazione alle celebrazioni di questo mistero sacramentale. Alcuni testi magisteriali nella tradizione cattolica romana riconducono per lo più la separazione alla tavola del Signore a differenze nella comprensione della presidenza ministeriale. A tal riguardo s’invoca la salvaguardia della partecipazione all’invio apostolico. Nel frattempo in numerosi dialoghi ecumenici nazionali e internazionali si è potuta raggiungere una comprensione comune e differenziata della successione apostolica, che permette di considerare il ministero legato all’ordinazione nelle sue diverse forme confessionali come apostolicamente fondato.

     Negli scritti del Nuovo Testamento con il termine «apostoli» non si indicano solo i dodici apostoli, ma anche i testimoni e le testimoni del Cristo risorto. La supposizione di una catena ininterrotta di imposizioni delle mani dagli apostoli fino a oggi è motivata fin dall’inizio in senso apologetico e non può essere dimostrata storicamente.

     Il legame fra l’origine apostolica e la vita di fede delle comunità cristiane di oggi avviene nella forza dello Spirito Santo e viene preservato da essa. Avviene attraverso la proclamazione del Vangelo conforme alla Scrittura in parola e sacramento in forza dello Spirito di Dio. Anche oggi, ogni ministero della Chiesa deve essere provato in base al soddisfacimento o meno dei criteri dell’azione dello Spirito promessa nell’esercizio del servizio: la comunità cristiana deve essere edificata e fortificata, le coscienze devono essere consolate, i bisognosi devono restare bene in vista e la speranza pasquale deve essere rinforzata.

     Corrisponde all’attuale comprensione ecumenica l’attribuzione di una particolare importanza nella valutazione di questi criteri al ministero sovra-comunitario della supervisione (episkope), sia esso ordinato in modo personale o in modo presbiterale-sinodale. La cura che già oggi nell’ecumene si presta alla formazione, promozione e scelta delle vocazioni spirituali, nonché all’affidamento del ministero nell’ordinazione con la preghiera e l’imposizione delle mani a tutela della proclamazione del Vangelo, autorizza ad aver fiducia nel fatto che i partner ecumenici, quando affidano il ministero, sono consapevoli della loro responsabilità davanti a Dio (8.4).

     La sensibilità ecumenica richiede che nella configurazione delle celebrazioni liturgiche si tenga conto, per quanto possibile nel senso della propria tradizione, delle esigenze delle altre confessioni. In questo contesto possono influire nella prassi le conoscenze acquisite nei dialoghi ecumenici. I due gesti del pasto, che Gesù ha istituito, devono essere compresi come una doppia azione fortemente espressiva attraverso la quale viene rappresentata la sua volontà di alleanza nonostante i peccati degli uomini. Corrisponde alla volontà di Gesù che tutti coloro che celebrano il pasto mangino il pane spezzato e bevano dall’unico calice.

     Secondo la convinzione ecumenica, la presenza di Gesù Cristo è promessa per i doni del pasto fin quando è riconoscibile il loro uso conforme all’istituzione; di conseguenza è fondato anche l’accurato trattamento dei doni rimasti al termine del pasto. Singole preghiere liturgiche devono essere esaminate per evitare la possibilità che si fraintenda il termine sacrificio; non deve sorgere l’impressione che sia la comunità cristiana a offrire Gesù Cristo a Dio, perché è Dio che apprezza i doni – materiali e spirituali – della comunità per farli servire alla celebrazione della donazione della vita di Gesù Cristo. Nell’ecumenismo del futuro sarà utile mettersi d’accordo su una precisazione vincolante e concordare su determinate regole fondamentali della prassi liturgica.

     4. Molti battezzati sono caratterizzati dalla propria tradizione confessionale, per cui praticamente non conoscono il modo in cui viene celebrata la Cena/Eucaristia in altre Chiese. La celebrazione di questo sacramento può essere considerata non solo come un vertice della vita di fede nella comunicazione delle Chiese già esistente. L’esperienza depone a favore del fatto che sperimentare la comunione eucaristica nella celebrazione della Cena è anche una sorgente di speranza nel cammino verso la meta voluta da Dio: la piena unità visibile della Chiesa nel presente del regno di Dio. Nel cammino verso di essa le persone già collegate sacramentalmente nel battesimo possono attingere forza nella celebrazione del pasto per confermare la loro vita quotidiana, nonché trovare incoraggiamento per il servizio al prossimo nel mondo.

Il Regno Documenti, n. 11/2020, 01 giugno 2020, pag. 358

www.ilregno.it/documenti/2020/11/insieme-alla-tavola-del-signore-gruppo-di-lavoro-ecumenico-di-teologi-evangelici-e-cattolici-in-germania

Chi desidera il testo integrale (riservato) lo richieda a newsucipem@gmail.com

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

UTERO IN AFFITTO

Commercio di esseri umani che calpesta la dignità della persona

Decine di neonati “parcheggiati” in un hotel a Kiev, frutto di maternità surrogata e in attesa dei genitori-acquirenti che non li possono “ritirare” a causa del lockdown imposto dal Covid-19. Di “nuova schiavitù” e “commercio di esseri umani” che “calpestano la dignità della persona” parla la presidente del Movimento per la vita, sostenendo l’appello di alcuni politici al governo italiano e auspicando una nuova visione antropologica per “superare il male con la forza persuasiva del bene”

Una pratica disumana e degradante che sfigura la dignità della donna calpestando quel misterioso legame che dal primo istante si crea tra una madre e la creatura che giorno per giorno le cresce in grembo; una pratica aberrante che annulla la dignità e i diritti del bambino riducendolo a oggetto di scambio. Nei giorni scorsi hanno fatto il giro del mondo le immagini di diverse decine di bimbi – e ogni giorno se ne aggiungono altri – nati da maternità surrogata in Ucraina grazie alla BioTexCom, clinica specializzata nella medicina riproduttiva e nella sostituzione mitocondriale, “parcheggiati” nelle loro culle in un hotel di Kiev perché a causa del lockdown imposto dal Covid-19 i loro “committenti”, residenti in altri Paesi, non possono “ritirarli”. Come una merce qualsiasi, stoccata in magazzino in attesa di arrivare a destinazione.

            In Italia la maternità surrogata è vietata esplicitamente dalla legge 40/19 febbraio 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, ma molte coppie aggirano il divieto trasferendosi per il tempo necessario nei Paesi in cui è ammessa. Oltre che in Italia, la maternità surrogata è vietata in Spagna, Francia, Germania, Danimarca, Irlanda, Ungheria, Grecia, Olanda. Nel Regno unito questa è legale, ma limitata ai cittadini britannici e consentita solo a titolo gratuito (maternità surrogata altruistica). Ad avere le leggi in materia più permissive d’Europa sono Ucraina e Russia che consentono di pagare una “madre surrogata” per il suo servizio. Un pacchetto tutto compreso che può costare, si legge sul sito della clinica BioTexCom, dai 39mila euro se è “standard”, fino a 65mila se è “Vip”. E alle donne vanno le briciole, di solito l’1 o il 2 %. E sono le più povere e svantaggiate, spesso analfabete – come accade anche in Cambogia e in India -, ad essere le prime vittime di questa moderna forma di schiavitù. Negli ultimi anni alcune agenzie hanno attivato una sezione dedicata specificatamente alle coppie omosessuali maschili.

            “Vedendo queste immagini ho provato tristezza e tanta amarezza pensando a quello che c’è dietro: sfruttamento, miseria, pretesa di possesso, commercio di esseri umani, cosificazione della vita umana sin dal suo venire all’esistenza, progettazione dei figli come beni di consumo da fabbricare su ordinazione per coppie etero o omosessuali che li commissionano”, dice al Sir Marina Casini, presidente nazionale del Movimento per la vita.

Connessa ad un giro di affari che implica anche eugenismo, traffico di gameti e di embrioni umani, distorsioni del legame di filiazione, della genitorialità e della famiglia. Questo approccio alla vita che inizia è un approccio a tutta la vita, segnala un modo di guardare l’altro calpestandone la dignità.

Del resto, sia Papa Benedetto XVI sia Papa Francesco, lo hanno ribadito: “Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono”. Nel caso di Kiev, non c’è atteggiamento di accoglienza, ma di prepotenza. Un caso eclatante, ma queste logiche sono implicite ogni volta che sull’inizio della vita umana si rivendicano soppressioni e manipolazioni; basti pensare all’aborto preteso addirittura come diritto fondamentale e alle varie forme di distruzione degli esseri umani appena concepiti (pillole del giorno dopo e dei cinque giorni dopo, sperimentazione, diagnosi genetica pre-impianto…). Il vero antidoto è partire dal chiaro, fermo e forte riconoscimento del concepito come “uno di noi”.

            Quale paradigma antropologico può legittimare un malinteso – e inesistente – diritto al figlio a tutti i costi?

L’assolutizzazione della libertà individuale e del principio di autodeterminazione. Quando non si riconosce la piena umanità dell’altro, la sua uguale dignità dal concepimento alla morte, si aprono istanze che riducono l’uomo a oggetto. È stato così per gli schiavi, per secoli oggetto di compravendita e contrattazione. È stato proprio il progressivo riconoscimento dei diritti umani, basati sul principio di uguaglianza nella dignità, che ha abolito la considerazione degli esseri umani come merce. Oggi, purtroppo, stiamo assistendo al rinnovarsi di antiche tendenze che vanno contro il progresso civile pretendendo di legittimare presunti diritti.

Se è nobile il desiderio di divenire madre e padre, un figlio non può essere considerato oggetto di diritti altrui da ottenere a tutti i costi, ma soggetto titolare egli stesso di diritti.

“Maternità surrogata” per dire “utero in affitto”. Una sottile ipocrisia per lavarsi la coscienza?

Certamente. L’etica comincia dalla semantica. Per far passare istanze contrarie al rispetto della vita si usano espressioni edulcorate che attutiscono il male oggettivo, ingannano e seducono. La pratica dell’utero in affitto viene chiamata anche “gestazione per altri” (Gpa) e “gestazione solidale”: chiaro l’intento di trasformare lo sfruttamento commerciale in qualcosa di lodevole perché “altruistico”. Un fenomeno noto anche in altri campi che riguardano la vita nascente: interruzione volontaria della gravidanza al posto di aborto; contraccezione di emergenza al posto di pillole abortive, clonazione terapeutica per indicare il concepimento in provetta di esseri umani clonati al fine di essere usati – e distrutti – a scopo terapeutico.

            Qui entra in gioco una sorta di rapporto di forza tra benestanti aspiranti genitori e gestanti poverissime. Ma chi si preoccupa delle devastanti conseguenze psicologiche ed emotive che un “contratto,” subito magari in un momento di fragilità o addirittura disperazione, può avere su una donna che sentendo “suo” il figlio con l’avanzare della gravidanza non voglia più separarsene?

La logica economica, contrattuale, commerciale, del profitto esclude in partenza ogni considerazione per le conseguenze psicologiche ed emotive delle vittime, per il rispetto della vita e della maternità. Però il “grido” della donna che ospita in grembo il figlio commissionato da altri a volte si fa sentire. Il legame madre-figlio durante la gestazione è forte, intenso, ricco di scambi e non è un caso che più voltesi siamo aperte vicende giudiziarie riguardanti i rapporti tra committenti e “madre surrogata” perché i sentimenti materni suscitati dalla gestazione avevano determinato nella donna partoriente la decisione di violare gli accordi e non consegnare il figlio, oppure il rifiuto di abortire in caso di feto “non perfetto”. Un caso emblematico e commovente è stato quello di Pattaramon Chambua, giovane donna thailandese, sposata e madre di due bambini, che si era rifiutata di abortire il bimbo in grembo perché affetto dalla “sindrome di Down” come invece prevedeva il contratto con la facoltosa coppia australiana committente. La donna ha tenuto il figlio, Gammy, e quando per questo ha ricevuto a Parigi il premio “Uno no noi” da parte della federazione europea “One of us”, ha detto: “Ogni individuo ha diritto alla vita. Sono arrivata a questa convinzione attraverso le esperienze che ho vissuto con Gammy. Si tratta di un bambino che ha bisogno di amore, come tutti gli esseri umani. È socievole, gentile e amato da tutti. Voglio dire alle famiglie in attesa di un bambino con trisomia 21 che avranno una perla tra le perle, un dono che vi farà vedere le cose in modo diverso e vi farà conoscere l’amore con la A maiuscola”.

            Come contrastare questo fenomeno?

Anzitutto è da condividere l’appello di alcuni politici al Governo italiano di intervenire sul Governo ucraino per consentire l’adozione dei bambini abbandonati in Ucraina per dare loro una famiglia, nel rispetto delle leggi dello Stato italiano e di quelle sulle adozioni internazionali. In questo modo si uscirebbe dalla logica della genitorialità come affare di mercato. In generale, non è sufficiente dire dei “no”, ma è necessario proclamare dei “sì”. Occorre edificare l’avvenire su un più alto livello di civiltà e di umanità superando il male con la forza persuasiva del bene. Occorre promuovere una visione antropologica che faccia leva sulla bellezza di ciò che è vero e giusto in ordine alla vita umana, alla maternità, alla famiglia, alla meraviglia dell’esistere come figli generati e non commissionati. Tutti siamo responsabili, credenti e non credenti, perché la questione riguarda tutti. Dobbiamo prendere sul serio le parole di San Giovanni Paolo II nell’ “Evangelium vitæ”, la cui attualità è disarmante: “Urgono una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita”.

Giovanna Pasqualin Traversa                        Agenzia SIR    4 giugno 2020

www.agensir.it/italia/2020/06/04/maternita-surrogata-marina-casini-mpv-commercio-di-esseri-umani-che-calpesta-la-dignita-della-persona

 

I neonati in lockdown. Far west della surrogata: ora l’Ucraina fa autocritica

Che fine hanno fatto le decine di neonati partoriti da madri surrogate e parcheggiati in un hotel di Kiev a causa del lockdown? Dopo il clamore sollevato dal video dell’azienda specializzata BioTexCom, della loro sorte si sa poco, tranne il fatto che numerose coppie committenti stanno raggiungendo l’Ucraina con permessi speciali per ricongiungersi ai bambini. Prima è stata la volta di un jet privato affittato da due svedesi, poi il 30 maggio 2020 è atterrato un aereo charter dall’Argentina con 11 coppie che sono andate letteralmente dall’altra parte del mondo per concludere il contratto di surrogazione di maternità, economicamente più vantaggioso che altrove. Gli argentini, che per entrare nel Paese stretto dal lockdown hanno goduto di un permesso speciale del ministero degli Esteri ucraino, ora dovranno attendere la riapertura delle frontiere in Sudamerica.

            Sul fronte interno si registra qualche piccolo segnale positivo: in Parlamento è stata presentata una proposta di legge per regolare e «rendere trasparente» l’operato delle cliniche, che per il 70% lavorano in una zona grigia, come ha notato il deputato 40enne Oleksandr Danutsa. La proposta prevede tra le altre cose l’obbligo di una licenza quinquennale. Danutsa non è l’unico ad aver sollevato obiezioni: la stessa Commissaria per i diritti umani, Liudmyla Denisova, che sta seguendo in prima persona la vicenda dei neonati della surrogata finiti nel limbo, si è appellata alla Polizia nazionale, al ministro della Salute e a quello per le Politiche sociali perché uniscano le forze per aggiornare la legislazione ed escludere gli stranieri dalla tecnologie riproduttive, in modo da stroncare il traffico incontrollato di bambini ucraini. Attualmente non esistono leggi specifiche che regolino il settore, ma nel Codice di famiglia c’è il divieto da parte di una madre surrogata di contestare la maternità della madre intenzionale. In altre parole, il bambino nato da utero in affitto è considerato figlio dei genitori committenti fin dal suo concepimento, e la madre «portatrice» non ha alcun diritto su di lui.

            Sulla situazione in Ucraina ci sono da registrare infine due forti prese di posizione. La prima arriva dalla Coalizione internazionale per l’abolizione della maternità surrogata (www.abolition–ms.org), che raccoglie 200 associazioni in tutto il mondo: una petizione chiede al presidente ucraino Zelensky di lavorare per un bando a «ogni forma di commercio di donne e bambini».

La seconda è italiana: una lettera aperta alla ministra dell’Interno Lamorgese, firmata dalla Rete contro l’utero in affitto, per chiedere che il divieto nazionale alla “gravidanza per altri” sia reso efficace anche nei confronti di chi si reca all’estero, con un opportuno inasprimento delle pene.

Antonella Mariani      Avvenire 4 giugno 2020(

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/far-west-della-surrogata-ora-lucraina-fa-autocritica

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

Ricevi questa comunicazione in quanto sei presente nella mailing list di newsUCIPEM.

Le comunichiamo che i suoi dati personali sono trattati per le finalità connesse alle attività di comunicazione di newsUCIPEM. I trattamenti sono effettuati manualmente e/o attraverso strumenti automatizzati. I suoi dati non saranno diffusi a terzi e saranno trattati in modo da garantire sicurezza e riservatezza.

Il titolare dei trattamenti è Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali Onlus

Corso Diaz, 49 – 47100 Forlì               ucipemnazionale@gmail.com

Il responsabile è il dr Giancarlo Marcone, via Favero 3-10015-Ivrea.           newsucipem@gmail.com

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

Condividi, se ti va!