NewsUCIPEM n. 799 – 29 MARZO 2020

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02 ADOZIONI INTERNAZIONALI                In Cina dopo il Coronavirus riprendono gli abbinamenti

02 AFFIDO CONDIVISO                                Coronavirus. Padre separato e visita al figlio. Autocertificazione?

03 ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI             Movimento Per la Vita. È morto l’on. Carlo Casini

04                                                                          Casini: aborto, ogni anno scompare una città come Novara

06                                                                          Da magistratura a politica: la vita di Casini dedicata «al più fragile»

07 AUTORITÀ GARANTE PER I MINORI  Coronavirus, Autorità chiede interventi per ragazzi vulnerabili

08 CENTRO INTER.STUDI FAMIGLIA       Newsletter CISF – n. 12, 25 marzo 2020

10 CHIESA CATTOLICA                                  Uscire dal sonno. Roma e la spinta pastorale del papa

11 CHIESE EVANGELICHE                            Ospiti inospitali

14 CINQUE PER MILLE                                   5 per mille 2020, ecco come iscriversi

16 CITAZIONI                                                   Per un tempo che non si vede ancora

17                                                                          In principio non era così. Dalla parola, alla morale

21 CITTÀ DEL VATICANO                             L’Annuario Pontificio e l’Annuario statistico della Chiesa

22 CONSULTORI CATTOLICI                        Pandemia, il servizio di ascolto e sostegno dei consultori del Lazio

22                                                                          Roma. In compagnia delle emozioni, imparare a gestire l’ansia

24 CONSULTORI UCIPEM                            Messina, due sportelli di ascolto psicologico

24                                                                          Trieste.  Sedute gratuite on line

24 CORONAVIRUS                                          Donazioni contro il Coronavirus: vantaggi fiscali

25 DALLA NAVATA                                         V Domenica di quaresima Anno A – 29 marzo 2020

25                                                                          Le lacrime di chi ama, una lente sul mondo

14                                                                          Il silenzio di Lazzaro

27                                                                          Nell’emergenza rimettere i debiti

28 DIRITTI                                                          Quali diritti non hanno le donne?

30 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA       “Francesco ci insegna a riscoprire il divino che è in noi”

30GENITORI                                                    Coronavirus, ecco il decalogo per i genitori separati

31 NONNI                                                          Nonni e nipoti

33 NULLITÀ MATRIMONIALE                     Sentenza ecclesiastica e effetti su rapporti patrimoniali tra coniugi

34 PANDEMIA                                                  Vivere ai tempi del coronavirus. Interrogativi per un nuovo futuro

38 PASTORALE                                                 Piccola chiesa domestica. Adesso comprendiamo cos’è

39 VIOLENZA                                                    La violenza nella liturgia e nella teologia

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

In Cina dopo la paura per il Coronavirus riprendono gli abbinamenti

Sarà di ben nove coppie il primo viaggio di gruppo post Coronavirus di Amici dei Bambini.

Per la Adozione internazionale è “una luce di speranza in un momento di grande difficoltà, che arriva da dove tutto è partito. Prendiamolo come un segnale importante”. A parlare è Marco Griffini, presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, organizzazione nata da un movimento di famiglie adottive e affidatarie che da oltre trent’anni lotta, in Italia e nel mondo, contro l’abbandono minorile. La luce di cui parla arriva dalla lontana Cina, da dove, nelle ultime settimane, dopo la grande paura per il Coronavirus, è stata inviata agli enti autorizzati per l’adozione internazionale una nuova lista dei bambini dichiarati adottabili.

Una lista compilata secondo il nuovo sistema del CCCWA (China Centre for Children Welfare and Adoption), che non solo, rispetto al passato, garantisce maggiore trasparenza ma anche efficienza. Ebbene, cinque di questi bambini sono stati abbinati grazie ad Ai.Bi. e, insieme agli altri quattro bambini già abbinati ma non partiti a causa del blocco imposto dalla pandemia, costituiranno il primo gruppo di figli adottivi che raggiungeranno le loro nuove famiglie nel post-Coronavirus.

            “Per tutte queste coppie si tratterà – spiega ancora Griffini – come tradizione per la Repubblica Popolare Cinese, di un viaggio di gruppo. Cinque sono i bambini abbinati ad altrettante coppie, più quattro quelli che erano stati abbinati in precedenza poi non partiti per ovvi motivi legati all’epidemia. In totale nove saranno le coppie che partiranno. L’iter adottivo dei bambini cinesi prevede un solo viaggio, della durata media di tre settimane, di cui una nella provincia in cui si trova il bambino e le altre due nella capitale Pechino. In genere, per l’appunto, noi organizziamo viaggi di gruppo. Un modo piacevole per le coppie per affrontare insieme l’esperienza e condividerne gioie e incombenze. Per le coppie che partiranno dopo questa quarantena imposta a tutta l’Italia si tratterà certamente di un’esperienza ancor più indimenticabile. Un bel segnale dunque, che permette di guardare con fiducia, nonostante tutto, al futuro della adozione internazionale. Il nostro invito alle famiglie è, in questo momento di pausa forzata dalle incombenze quotidiane, di informarsi e di approfittare della nostra campagna #Iorestoacasa con Ai.Bi. che offre l’opportunità di raccogliere consigli e notizie sull’esperienza adottiva senza doversi recare fisicamente in alcun luogo”

Così, dopo la solidarietà mostrata all’Italia nelle ultime settimane, con l’invio di personale medico e mascherine, la Cina da cui la paura globale per il Coronavirus è partita porta un’altra buona notizia all’Italia, questa volta nell’ambito della Adozione internazionale. “Forse dovremmo prendere esempio da questo Paese – conclude Griffini – non solo per quanto concerne la gestione dell’emergenza, oggi sotto controllo, ma anche per la trasparenza nelle adozioni“. Il riferimento è alla nuova procedura del CCCWA: mentre, in precedenza, i bambini non special focus e i bambini special focus venivano pubblicati sul portale del CCCWA stesso una volta al mese, in un giorno e in un’ora prefissati, lasciando alla velocità di blocco del singolo ente la possibilità per lo stesso di “conquistarsi” il bambino, ora tale procedimento è lasciato per i soli bambini special focus. Per i bambini non-special focus invece l’Autorità Centrale invia a tutti gli enti un elenco di bambini con le corrispondenti schede e sono gli enti a proporre per ogni bambino una famiglia.

AiBinews        marzo 2020

www.aibi.it/ita/adozione-internazionale-in-cina-dopo-la-paura-per-il-coronavirus-riprendono-gli-abbinamenti

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AFFIDO CONDIVISO

Coronavirus. Padre separato e visita al figlio. Cosa scrivere nell’autocertificazione?

Sono un padre separato e devo andare a prendere mio figlio. Mi sembra di capire sia uno spostamento consentito anche con l’emergenza Coronavirus. Tuttavia non ho ben capito cosa devo scrivere nell’autocertificazione.

            Per quanto riguarda le visite all’interno dello stesso comune, con le limitazioni previste per il Coronavirus, lo spostamento rientra nelle “situazioni di necessità”. Su questa questione specifica è intervenuta anche una circolare governativa.

Diversamente, nel caso in cui tu debba raggiungere un comune diverso le cose sono più complesse. Per questo genere di trasferimenti, infatti, le nuove regole parlano di “assoluta urgenza”. Purtroppo non è chiaro se, tra queste fattispecie, rientri anche la visita al figlio di un genitore separato.

Quindi, se un padre separato arriva a visitare il figlio da altro comune, nessuno, avvocati e giudici inclusi, può garantire l’esenzione da una multa. Consigliabile, comunque, è lo specificare nell’autocertificazione il diritto di visita, allegando una copia del provvedimento di separazione o divorzio, e che la documentazione rechi i giorni di visita fissati dal tribunale.

Il consiglio, comunque e sempre, per quanto comprensibilmente e umanamente difficile, è quello di provare a pazientare fino alla fine di questa emergenza, per garantire la sicurezza propria e dei propri figli.

AiBinews         23 marzo 2020

www.aibi.it/ita/coronavirus-sono-un-padre-separato-e-devo-andare-da-mio-figlio-cosa-devo-scrivere-nellautocertificazione

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ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI

Movimento Per la Vita. È morto l’on. Carlo Casini

    Si è spento il 23 marzo a Roma Carlo Casini, magistrato, co-fondatore del Movimento per la Vita. Un cattolico protagonista nella cultura e nella politica.

Al termine di una lunga malattia, che l’aveva costretto all’immobilità, è morto il 23 marzo a 85 anni nella sua casa romana Carlo Casini, co-fondatore del Movimento per la Vita (MpV) italiano. Nato il 4 marzo 1935 a Firenze, è stato, a partire dagli anni 1970, tra i protagonisti del cattolicesimo sociale impegnato nella cultura e nella politica sia nazionale sia europea.

 

 

Fino agli ultimi giorni della sua vita presidente onorario del MpV, l’ex magistrato, giurista, parlamentare ed eurodeputato cattolico, era stato promotore di iniziative pubbliche di rilievo, tra le quali la recente campagna Uno di Noi, una mobilitazione popolare che ha consentito la raccolta di centinaia di migliaia di firme a sostegno della petizione europea per la salvaguardia dell’embrione umano e dei suoi diritti, purtroppo rimasta nei cassetti delle istituzioni di Bruxelles.

Al fianco di Carlo Casini, come sempre e tanto più durante la Sla (Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), malattia di Lou Gehri) che ne ha progressivamente spento le facoltà fisiche, vi sono state la moglie Maria e i figli Francesco, Marco, Donatella e Marina, quest’ultima giurista e bioeticista (professore aggregato di Bioetica presso l’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore), che ne ha raccolto il testimone nell’impegno alla guida del MpV (è stata eletta nel marzo 2018 presidente nazionale).

Casini è stato fra i primi in Italia a mettere in guardia, già a partire dagli anni 1970, sulla deriva ideologica che avrebbe portato di lì a poco all’approvazione della legge sull’aborto (n. 194/1978), a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 27/1975. Co-fondatore nel 1980 del Movimento per la Vita italiano con personaggi di assoluto rilievo come l’avv. Francesco Migliori e altri, ne è diventato presidente nazionale nel 1991. Già dieci anni prima aveva promosso il referendum abrogativo volto a difendere la vita umana nascente fermando gli aborti resi “legali” nel nostro ordinamento a partire dal 1978.

            Oltre che negli studi, nella formazione, nella politica e nelle leggi, Casini ha sempre creduto nel valore prolife dei Centri e Servizi di aiuto alla Vita (CAV e SAV), grazie al cui lavoro “operativo” e sul campo tante donne sono state accompagnate a diventare madri, migliaia di persone sono venute al mondo e tanti aborti e tragedie familiari sono state evitate.

Casini è stato docente di Diritti umani e bioetica presso l’Ateneo pontificio Regina Apostolorum di Roma e membro della Pontificia accademia per la vita. È stato anche collaboratore del quotidiano Avvenire e, per oltre vent’anni, del giornale ufficioso della Santa Sede, L’Osservatore Romano (dal 1984 al 2006).

            La sua ultima opera, una raccolta di scritti inediti o di difficile reperimento curata dalla figlia Marina, s’intitola La dimensione contemplativa nella difesa della vita umana (Edizione Movimento per la Vita italiano, Roma 2019, pp. 157). Comprende venti interventi, risalenti al trentennio 1985-2019, che toccano con afflato scientifico e religioso i delicati temi del diritto alla vita, della famiglia, della battaglia prolife e della biopolitica in generale. Marina Casini ne firma l’Introduzione (pp. 5-9), il magistrato cattolico Giuseppe Anzani la Prefazione (pp. 11-16) e, infine, il caporedattore di Avvenire Francesco Ognibene la Postfazione (pp. 155-157).

 La tesi di fondo che emerge da questa collezione di scritti è che la “dimensione contemplativa” della battaglia prolife è probabilmente l’unica in grado di ridare oggi vero slancio e determinazione ad un impegno arduo, quello in difesa della vita umana innocente, nell’attuale temperie di cultura della morte e dittatura del relativismo.

La dimensione contemplativa nella difesa della vita umana. Cosa si intende con esattezza per Casini quando si parla di “dimensione contemplativa” nella difesa della vita? Diciamo che sicuramente quella contro l’aborto, l’eutanasia e la fecondazione artificiale è una battaglia razionale (cioè “laica”), combattuta in favore della vita appena comparsa nell’esistenza oppure al tramonto o in vari sensi divenuta “fragile”. È ugualmente vero, però, come scrive Casini, che «l’annuncio della piena umanità del concepito […], il riconoscimento del figlio come figlio è paragonabile al fermarsi, al guardare e al riconoscere il prossimo del buon samaritano. […] La scienza moderna mostra la perfezione del cominciare ad esistere, ci consente di vedere “la meraviglia delle meraviglie”, di assistere al miracolo della creazione in atto. Testimoniarlo è amore per l’uomo. Per il cristiano è carità e misericordia» (Il riconoscimento pubblico di ogni concepito è segno di civiltà, pp. 128-131).

            Molti degli spunti presenti nel libro, sono ripresi dall’enciclica di Giovanni Paolo II Evangelium vitæ «sul valore e l’inviolabilità della vita umana» (25 marzo 1995), che costituisce ancora oggi il manuale più profondo, completo e organico per i prolife di tutto il mondo. Trattando dell’impegno specifico dei prolife italiani, negli appunti inediti datati gennaio 1997, Casini si sofferma poi sulla Giornata nazionale per la vita, una iniziativa voluta dai vescovi fin dal 1979, ma che purtroppo non è celebrata in ogni parrocchia né in ogni centro o scuola cattolica nel giorno previsto, ovvero la prima domenica di febbraio.

            Devo anche confermare, per esperienza personale, che il tema della difesa della vita umana innocente non è così tanto richiamato nelle omelie e neanche nelle intenzioni di preghiera dei fedeli durante la messa. Eppure, come afferma giustamente Casini, «se vogliamo spiegare in profondità la vita, dobbiamo parlare di Dio. Altrimenti tutto precipita nell’assurdo. Assurdo è l’universo con la sia immensità di tempo e di spazio e l’uomo, vertice dell’universo, diviene il vertice dell’assurdo» (Qualche pensiero sulla XIX Giornata per la Vita, pp. 82-83).

Giuseppe Brienza                   Settimana news                                  25 marzo 2020

www.settimananews.it/profili/morto-carlo-casini

 

L’ultima intervista. Casini: aborto, ogni anno scompare una città come Novara

L’ultima intervista (del 22 gennaio 2015) a Carlo Casini è tratta da “Noi Genitori & Figli” in edicola il 25 gennaio 2015 con “Avvenire”.

L’impegno per ciò che è «seminato nella debolezza» Carlo Casini lo conosce a memoria. E ogni giorno lo rinnova con la stessa passione. Sulla scrivania del presidente del Movimento per la vita si accumulano numeri, plichi, fogli: lui li sposta da destra a sinistra ricordando le battaglie, le delusioni, le grandi vittorie. In testa un unico, costante obiettivo: dare dignità a chi non può prendersela da solo. Dare voce e diritti all’essere umano che germoglia nel grembo di una donna.

In pieno inverno demografico, con le scuole destinate a svuotarsi nel giro di pochi anni, l’Italia butta ancora via centomila nuove vite ogni anno. Il numero è in calo, ma è ancora enorme. Quali sono le radici e le conseguenze di questa contraddizione?

Il numero degli aborti è davvero enorme. Secondo l’ultima relazione ministeriale quelli noti, certificati dagli ospedali, sono stati 107.192 nel 2012 e 102.644 nel 2013, ma quest’ultimo dato è incompleto. Ciò significa che ogni anno scompare una città grande pressappoco come Novara, Bergamo, Piacenza, Trento, Forlì, Siracusa, più grande di Pisa, Lecce, Catanzaro… Se poi facciamo la somma di tutte le interruzioni volontarie di gravidanza dall’entrata in vigore della legge 194, cioè dal 22 maggio 1978, otteniamo la cifra di 5.541.421. È un numero più alto della popolazione di Roma e Milano messe insieme. Il problema vero però – e non mi stancherò mai di dirlo – è che si tratta di cifre molto inferiori alla realtà. Pe valutare appieno la tragedia bisogna aggiungere gli aborti clandestini chirurgici e quelli – ormai innumerevoli – “chimici” prodotti dalle varie pillole (del giorno dopo, dei cinque giorni dopo). Senza contare, poi, il facile uso di medicamenti antiulcera, che hanno lo stesso effetto della pillola Ru486. Insomma, la diminuzione degli aborti registrati ufficialmente non dimostra una reale diminuzione nella misura che viene propagandata come prova della “bontà” della legge. Basti pensare, come dimostra l’ultimo Rapporto del Movimento per la vita, che – a causa del crollo delle nascite – il numero delle donne di età in cui è massima la fertilità, tra i 20 e i 35 anni, è diminuita tra il 1983 e il 2011 di ben 2.083.335 unità. Il che, ovviamente, determina una minor quantità di concepimenti e quindi di aborti.

Quindi se tutti questi figli, o almeno la maggior parte di essi, fossero sopravvissuti non vi sarebbe l’attuale preoccupazione per il crollo demografico?

Certo, peraltro l’argomento demografico è debole nel contrastare l’aborto perché è di tipo economico e riguarda il futuro mentre molti pensano soltanto al proprio tornaconto individuale e attuale. Naturalmente vi è una contraddizione, ma la più grave è quella che ha denunciato Papa Francesco con poche parole al Parlamento Europeo, ricordando i «bambini uccisi prima di nascere». Il concepito è un essere umano: egli deve essere considerato un bambino proprio come quello che, ritrovato in un cassonetto, fa inorridire tutti.

A proposito di contraddizioni, in questi ultimi mesi si è infiammato nel nostro Paese il dibattito sulla fecondazione artificiale eterologa: a una cultura riduttivistica dell’aborto (per cui si vogliono pillole fai da te dispensate addirittura in farmacia e interruzioni di gravidanza autorizzate in consultorio) si contrappone quella del figlio ad ogni costo, con ogni mezzo.

La dispersione di ovuli fecondati non è altro che la morte provocata di embrioni appena concepiti in provetta. Perciò è un rischio inerente ad ogni fecondazione in vitro, omologa od eterologa che sia. La legge 40 del 2004 aveva cercato di limitare tale rischio disponendo che ad ogni embrione dovesse essere data una speranza di vita mediante il suo immediato trasferimento nel seno materno. Purtroppo la “cultura dello scarto” ha prevalso nella Corte Costituzionale che ha molto attenuato questa disposizione: ora, con la legittimazione dell’eterologa, è intervenuta una demolizione ancora più grave del confine che la legge aveva costruito. Ogni bambino ha diritto ad avere un padre ed una madre certi ed ha diritto di conoscerli. Ridurre il figlio ad un prodotto, commercializzarne l’origine, peggio ancora: tradire la maternità nella sua prima iniziale fase, che è un continuo abbraccio che più intimo non si può, cuore a cuore, fra madre e figlio, è davvero qualcosa di inaccettabile.

Le parole dei vescovi nel “messaggio” sembrano raccontare quello che ogni giorno accade negli oltre 300 Cav sparsi lungo la Penisola, che accolgono, aiutano, accompagnano le donne nell’esperienza straordinaria che è la maternità. Un’opera ancora solitaria, ma quanto efficace?

Non bisogna mai dimenticare che la Giornata per la vita è stata istituita all’indomani della approvazione della legge che ha legalizzato l’aborto per dimostrare che «la Chiesa non si rassegna e non si rassegnerà mai». A proposito del rifiuto di rassegnarsi io ricordo con commozione le parole del Presidente della Cei, il cardinal Bagnasco, nella prolusione della assemblea generale dei Vescovi nel maggio 2011: «Il Movimento per la vita ha avuto una fondamentale funzione nel tenere sveglia la coscienza degli italiani (…). Se nella cultura italiana l’opzione abortiva non è divenuta un normale dato di fatto molto lo si deve all’iniziativa di questo volontariato». Il servizio dei Cav ha lo scopo di salvare il figlio non contro la madre, ma insieme alla madre. La nostra esperienza ci dice che il comune denominatore dell’aborto è quasi sempre la solitudine. Bisogna risvegliare il naturale coraggio e l’istinto di accoglienza della donna. Ma, certo, non bastano le parole. Occorre una efficace condivisione delle difficoltà in un contesto di durevole affettuosa amicizia. Questo può essere fatto principalmente dal volontariato. I risultati ci sono.

Nel 2013 salvati dai Cav oltre 10mila bambini.

Nel 2013 i 205 Cav hanno aiutato a nascere 10.291 bambini su cui pendeva un rischio di aborto. La cifra è inferiore alla realtà perché gli altri 133 Cav che non hanno inviato l’informazione, lavorano anche essi spesso in modo molto esteso. Ma la strada da percorrere è ancora lunga. «Ho sempre ripetuto – spiega Carlo Casini – che i Cav devono essere l’espressione di una intera comunità che accoglie. Penso a quella parrocchia che chiede ad ogni parrocchiano 5 euro al mese per realizzare Progetti Gemma («Adotta una mamma, salvi il suo bambino») ed espone nella chiesa le foto dei bimbi così nati di cui tutta la comunità si sente co-genitrice. Penso che se ogni parrocchia d’Italia ogni anno facesse un solo Progetto Gemma sarebbe raddoppiato il numero di bambini salvati dall’aborto».

Uno di noi”, 2 milioni di firme. E la battaglia va avanti.

 “Uno di noi” si proponeva di bloccare i finanziamenti Ue alle organizzazioni che propagandano l’aborto e la ricerca distruttiva di embrioni umani. Abbiamo raccolto più di due milioni di adesioni nei 28 paesi Ue, ma la Commissione esecutiva ha deciso di non dare seguito alla nostra iniziativa. Da parte delle istituzioni non c’è stata una presa di coscienza. Ma il bilancio dell’iniziativa è tutt’altro che negativo. Se le istituzioni hanno ancora una volta chiuso gli occhi, molti cittadini li hanno, invece, aperti. La stessa iniziativa respinta dalla Commissione di Bruxelles e non è terminata: è in atto un ricorso alla Corte europea di Giustizia e stiamo preparando una petizione – testimonianza di medici, (quelli che conoscono la vita), di giuristi (i servitori della giustizia), di politici (che dovrebbero perseguire il bene comune, cioè di tutti) affinché il nuovo parlamento europeo e la nuova Commissione riprendano in esame l’iniziativa.

Viviana Daloiso                      Avvenire        23 marzo 2020

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/cinque-milioni-di-bimbi-non-nati-intervista-casini-noi-genitori-e-figli

 

Dalla magistratura alla politica: la vita di Casini dedicata «al più fragile»

Nato a Firenze il 4 marzo 1935, Carlo Casini era ottavo di nove figli in una famiglia semplice, molto unita e profondamente religiosa, con la madre Marina, casalinga, e il padre, manovale delle ferrovie, Fiorentino, che morì per un incidente sul lavoro quando Carlo aveva appena 3 anni e mezzo. Un lutto al quale seguirono quelli per una sorella (Anna, di sette anni) e di un fratellino di pochi mesi. «La mia famiglia di origine è stata eccezionale – dirà molti anni più tardi in un’intervista -. Il nome di Dio che mi ha fatto conoscere è Provvidenza. Colui che provvede, per cui non ci si deve preoccupare del futuro». E i fatti lo hanno dimostrato, perché nonostante la miseria, povertà, fame, malattie anche gravi, la casa colpita dalle granate dei tedeschi, Carlo e i tre fratelli maschi hanno potuto studiare e laurearsi brillantemente e le sorelle trovare un impiego.

Impegnato dall’adolescenza nella parrocchia e nell’Azione Cattolica, dal 1958 al 1964 fu presidente diocesano e consigliere nazionale della Gioventù italiana di Azione cattolica (Giac). Amante della montagna, del teatro, della bicicletta e del calcio, partecipò a campi scuola al Cimone e al Pian degli Ontani come educatore responsabile dei ragazzi più giovani. Tra le sue letture preferite Michael Quoist, Thomas Merton, Carlo Gnocchi, Chesterton, Bruce Marshall, Pollien, Sertillange. Allievo di Giorgio La Pira, si laureò in giurisprudenza entrando in magistratura. Maria Nitti, che diventa sua moglie, condivide tutto il suo crescente impegno sociale che lo vide impegnato anche nel referendum per abrogare la legge sul divorzio. Nel 1974 gli venne conferita, dal Ministero della Giustizia la Medaglia d’argento al merito della redenzione sociale per l’assistenza ai detenuti e alle loro famiglie.

È di quegli anni avvenne l’incontro nell’esercizio della sua professione di magistrato con la tragedia dell’aborto. Carlo Casini, uomo di profonda spiritualità, vi scorge una “chiamata”: dall’attenzione per l’uomo ferito incontrato nelle di giustizia e nelle carceri la sua sensibilità lo porta a rivolgere l’attenzione per l’uomo “invisibile” ma presente nel grembo della madre, minacciato dall’oblio e dal veder negata la piena umanità. Di qui il suo totale e generosissimo impegno nel Movimento per la Vita che ha guidato per 35 anni (dal 1990 al 2015) con grande saggezza, coerenza, dedizione, benevolenza verso tutti e di cui è stato dal 2015 presidente onorario. Insignito del premio “Servant Leader 2011” a St. Louis negli Stati Uniti, nel suo discorso disse che “la cultura della vita ha una sola, ma solidissima motivazione: ogni essere umano è “Uno di noi”. In questa visione planetaria ed epocale, per quanto mi riguarda, lavorerò molto per costruire una alleanza solida, strategica ed operativa tra i movimenti pro-life nel mondo”.

            Per questa sua vocazione all’unità si spende per la costruzione di un impegno condiviso nel mondo cattolico attorno all’accoglienza della vita nascente. E’ stato membro del direttivo di Scienza & Vita”, del Forum delle associazioni familiari, del Forum delle associazioni e movimenti di ispirazione cristiana operanti nel campo socio-sanitario, tre associazioni che ha contribuito a fondare, oltre che componente del Comitato nazionale di Bioetica e dello European Group on Ethics, oltre che membro della Pontificia Accademia per la vita.

            Avvertì sempre l’urgenza di una presenza pubblica sui grandi temi dove il valore dell’uomo è in discussione. Nel 1979 decide di entrare in politica per difendere e promuovere il diritto alla vita e alla dignità di ogni essere umano, specie il più fragile. È stato deputato per la Democrazia Cristiana alla Camera dal 1979 al 1994 e in quello europeo, dal 1984 al 2014 (con una interruzione dal 1999 al 2006 durante la quale è tornato alla sua professione di magistrato). All’interno del Parlamento Europeo è stato presidente della Commissione per i diritti dei cittadini, della Commissione giuridica e della Commissione affari costituzionali e membro della Delegazione all’Assemblea parlamentare paritetica Acp-Ue e membro sostituto della Delegazione interparlamentare Ue-Cina. Il lavoro politico è stato condotto con una duplice ferma convinzione: la questione della vita non è “una” delle questioni, ma “la” questione fondamentale, quella centrale, da cui deriva tutto il resto; ed è, nonostante le apparenze, terreno di unità.

            Il suo impegno, però, non si può ridurre alla sola azione pratica. Egli è stato sempre ben consapevole dell’importanza della riflessione, la ricerca, la diffusione delle idee. Sono numerosissime le sue pubblicazioni, libri, articoli (innumerevoli sulle pagine di Avvenire, quotidiano col quale ha sempre avuto un legame profondo e speciale di amicizia, ricambiata) e interventi su riviste scientifiche. Impossibile avere un numero complessivo di conferenze, relazioni in convegni, meeting e interventi nella radio e la televisione.

            In tutto questo lavorio frenetico, ha saputo mantenere sempre lo sguardo focalizzato sulla sua vocazione d’impegno pubblico: la vita. E ha saputo lasciarsi illuminare sempre dalla luce del Vangelo e del Magistero della Chiesa, vicino a tutti i Papi che ha conosciuto personalmente. Intenso anche il legame con i pastori della Chiesa italiana e mondiale, con l’intenzione umile e sincera di discernere sulle opzioni e le azioni più opportune e convenienti, in situazioni complesse. L’amore per la famiglia e la forza interiore hanno formato la base per rapporti di amicizia e condivisione estesi, solidi, duraturi. Tra le figure che hanno accompagnato e sostenuto l’autentica vocazione per la vita di Carlo Casini ci sono san Giovanni Paolo II, santa Madre Teresa di Calcutta, Chiara Lubich, Jerome Lejeune.

            Nell’ultimo tragitto della sua esistenza Carlo Casini ha affrontato la prova di una lunga e difficile sofferenza, accolta sempre cristianamente ed offerta per la Chiesa e per la causa della vita, come ha ripetuto finché la Sla, diagnosticata nel 2017, gli ha lasciato voce. Fino all’ultimo istante, insieme alla sua famiglia che amorevolmente gli è stata accanto, la sua accettazione della croce e lo sguardo costante su Gesù, ha davvero testimoniato in questo mondo il Vangelo della Vita.

            Il 6 aprile 2014 papa Francesco in apertura dell’udienza al Movimento per la Vita italiano lo salutò così: “Saluto l’onorevole Carlo Casini e lo ringrazio per le sue parole, ma soprattutto gli esprimo riconoscenza per tutto il lavoro che ha fatto in tanti anni nel Movimento per la Vita. Gli auguro che quando il Signore lo chiamerà siano i bambini ad aprigli la porta lassù!”

Giuseppe Grande       Avvenire         lunedì 23 marzo 2020

www.avvenire.it/attualita/pagine/quando-papa-francesco-disse-a-carlo-casini-i-bambini-ti-apriranno-la-porta-del-cielo

{Durante la Presidenza dell’UCIPEM il redattore non riuscì a convincerlo del tutto dell’importanza del consultori familiari nella prevenzione dell’ivg “ci devo pensare” rispondeva. Il riferimento è agli artt. 2, 4 ,5 della L. n. 194, 22 maggio 1978, che non inficiano l’obiezione di coscienza del medico, come acclarato dalla Magistratura italiana. Ndr}.

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AUTORITÀ GARANTE

Coronavirus, l’Autorità garante chiede a Conte interventi per bambini e ragazzi vulnerabili

            L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (Agia), magistrato Filomena Albano, ha scritto al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, chiedendo interventi urgenti per bambini e ragazzi che in questi giorni sono alle prese con le misure di contenimento dell’epidemia causata dal coronavirus.

       www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/nota-agia-coronavirus_1.pdf

“La vita ai tempi dell’emergenza è cambiata per tutti. In particolare per i più vulnerabili che – costretti a casa, senza andare a scuola, senza contatti sociali, talora senza supporto educativo, psicologico e didattico – vivono o rischiano di vivere in condizioni difficili, spesso drammatiche, di isolamento, di pericolo e di emarginazione” dice Filomena Albano.

“Penso ai minorenni con disabilità – prosegue la Garante – a quelli che vivono fuori famiglia, in affido o in comunità. E a quelli che versano in condizioni di povertà economica ed educativa o di marginalità sociale, ai figli dei genitori detenuti, a quelli che hanno famiglie problematiche, ai figli di genitori separati e ai ragazzi inseriti nel circuito penale. Per tutti questi bambini e ragazzi non dobbiamo dimenticare che l’esigenza prioritaria di tutelare il diritto alla salute deve essere contemperata con il principio del superiore interesse del minore e con i diritti all’uguaglianza e alla non discriminazione”.

            “Per i bambini e i ragazzi segnati dall’epidemia, i cui genitori sono stati colpiti dal coronavirus, occorre definire tempestivamente interventi di protezione e tutela che favoriscano la continuità affettiva con i familiari più vicini e offrano un adeguato supporto materiale e psicologico”.

            L’Autorità garante, nella nota a Conte, ha chiesto la tempestiva attuazione delle misure già adottate dal Governo e ha sollecitato indicazioni chiare per garantire interventi coordinati e omogenei. Vanno inoltre assicurate, adeguate risorse economiche e umane. A livello regionale, poi, è opportuno dare vita a cabine di regia locali per fare rete – come già avviene in alcuni territori – così da garantire continuità agli interventi urgenti e riorganizzare i servizi per mezzo dell’online e della valorizzazione delle attività domiciliari. Servono misure in un’ottica di sistema – quindi non frammentata – ad esempio per i bambini e i ragazzi con disabilità, per le loro famiglie e per gli operatori del settore.

            Bisogna pensare anche al dopo emergenza per i minorenni che versano in condizioni di povertà o marginalità affinché il divario educativo sia colmato tempestivamente. Per rendere poi effettivo il diritto all’istruzione occorre attivare tempestivamente la scuola a distanza per tutti e fare in modo che chi è privo di pc o tablet connessi ne sia dotato. Auspicata, inoltre, una cabina di regia unitaria a livello centrale e dei coordinamenti a livello locale con il duplice obiettivo di monitorare quanti studenti sono effettivamente raggiunti.

            Per i figli di detenuti si auspica che siano rafforzate modalità per attivare incontri a distanza, seppur rispondenti alle esigenze di sicurezza. Per i ragazzi del circuito penale, ove possibile, dovrebbe essere invece agevolato il ricorso a misure alternative alla detenzione in istituto e dovrebbero essere limitate le misure di aggravamento delle custodie cautelari più lievi. Nuovi ingressi in istituto penale sono attualmente da ritenere un rischio, anche sanitario. 

            Chi poi tra i più piccoli vive in situazioni familiari a rischio vede aumentare il pericolo di trovarsi esposto a violenza diretta o assistita. Bisogna prevedere dunque procedure semplificate per attivare l’intervento delle forze dell’ordine e rassicurare chi si trova a vivere queste situazioni sul fatto che il sistema di tutela e la rete antiviolenza sono pienamente operativi anche durante l’emergenza. Occorre sensibilizzare la popolazione rispetto all’importanza di avvisare prontamente le autorità di polizia di fronte al sospetto di situazioni di violenza.

            Infine, secondo l’Agia, per i minori stranieri non accompagnati e neomaggiorenni è indispensabile garantire la stabilità dell’accoglienza, evitando trasferimenti non strettamente necessari e consentendo agli stessi di restare nelle comunità e nei centri anche oltre il compimento dei 18 anni e dopo la conclusione dell’emergenza. Va garantita la nomina dei tutori volontari e vanno supportati gli operatori dei centri e delle comunità, assicurando che siano dotati dei dispositivi di protezione e che gli spazi siano adeguati e sanificati.

Autorità Garante Infanzia e Adolescenza      27 marzo 2020

www.garanteinfanzia.org/news/coronavirus-lautorita-garante-chiede-conte-interventi-bambini-e-ragazzi-vulnerabili

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CISF – CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA

Newsletter CISF – N. 12, 25 marzo 2020

La solidarietà non va in quarantena! Prosegue l’attività di solidarietà del caso della settimana di Famiglia Cristiana. Un’iniziativa dell’associazione don Giuseppe Zilli Onlus. Il prolungarsi dell’emergenza Coronavirus non deve interrompere tutte le catene di solidarietà esistenti nel nostro Paese. Per ciascun caso, opportunamente verificato con rigore sul territorio, viene chiesta ai lettori di Famiglia Cristiana una donazione; così, anno dopo anno, a partire dal 1980 ogni settimana una famiglia riceve un contributo economico, che le consente di resistere, di affrontare una difficoltà e di rimettersi in gioco. Oggi però la difficoltà di distribuzione del giornale fa sì che le donazioni vengano messe a rischio. Per questo vogliamo ricordare qui a tutti i destinatari della Newsletter Cisf che è possibile sostenere le attività dell’Associazione don Zilli, e il sostegno ai singoli casi della settimana, anche con donazioni on line (l’ideale, in tempi di quarantena).     www.associazionedonzilli.it/donazione-stripe

Un video speciale – Inno di Mameli. Una versione speciale per testimoniare la voglia di resistere, insieme. In questi tempi di clausura domestica “Fratelli d’Italia” ha conquistato da subito la vetta della “HIT Balconi”. E anche quando non si ha la voce per cantare a squarciagola la nostra voglia di appartenenza e di condivisione, in questo tempo di “distanziamento sociale”, l’Inno conserva un potente valore simbolico. Riprendiamo quindi la versione dell’Inno di Mameli per non udenti, con le splendide ragazze della nazionale femminile italiana non udenti alle Olimpiadi dei Sordi/Deaflympics (in Turchia – a proposito: Argento olimpico, per le nostre ragazze, nel 2017!).

www.famigliacristiana.it/video/nazionale-volley-sorde-mimano-inno-di-mameli.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_25_03_2020

Decreto cura Italia, 17 marzo: la famiglia è prioritaria, ma la coperta è corta. Un intervento del direttore Cisf (F. Belletti) sulle misure a sostegno delle famiglie contenute nel Decreto del Governo con i primi interventi di supporto economico al sistema Paese per reagire all’emergenza Coronavirus. “[…] Bene il Decreto quindi, ma ci vorrà ancora molta attenzione per la famiglia. In particolare è fondamentale il supporto alle relazioni e il contrasto all’isolamento domestico, che tanti operatori delle relazioni di aiuto stanno inventando utilizzando con creatività e fantasia le potenzialità della Rete: non solo scuola e lezioni universitarie a distanza, ma anche demo e tutorial per continuare in qualche modo le relazioni della piscina, del corso di inglese, per bere una birra “insieme”, in videoconferenza…. E persino sperimentazioni di colloqui psicologici di sostegno via skype, da parte di consultori, psicologi, consulenti familiari ecc. […]”

www.famigliacristiana.it/articolo/decreto-marzo-la-famiglia-e-prioritaria-ma-la-coperta-e-corta-.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_25_03_2020

Una riflessione autobiografica sulla paternità, in occasione del 19 marzo (san Giuseppe) (Francesco Belletti, direttore Cisf – dal sito di Famiglia Cristiana). “[…] Perché il padre, oggi come duemila anni fa, è colui che per primo deve introdurre i propri figli alla conoscenza della realtà, al riconoscimento dei limiti che la realtà impone con forza alla incomprimibile voglia di libertà e di autorealizzazione che ogni persona porta con sé. Tocca ai padri prima di tutto aiutare i nostri figli adolescenti e giovani a comprendere il valore del bene comune, e a gestire il “piccolo-grande” sacrificio del non poter uscire. Tanti padri (anche tante madri!) lo stanno già facendo, tanti lo devono fare con ancora più tenacia e convinzione. E soprattutto con la testimonianza, perché i nostri figli imparano con gli occhi, più che con le orecchie. Per primi, da padri, rispettiamo il vincolo del distanziamento sociale, a protezione di se stessi, dei propri figli, delle proprie famiglie, dei propri anziani, dell’intera comunità […]”

www.famigliacristiana.it/articolo/un-neo-nonno-doppiamente-papa-riflette-su-san-giuseppe_5573971.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_25_03_2020

v   “How is life?” international report on well-being (.”Come va la vita?” Report internazionale OCSE sul benessere delle persone). Si tratta del quinto Rapporto sul benessere delle persone (il primo è del 2011), con una ricca serie di dati, con tabelle e grafici di facile comprensione, che consentono comparazioni tra circa 70 Paesi dei diversi continenti. Di particolare interesse la definizione dei fattori rilevanti (o dimensioni) che qualificano e favoriscono una migliore o peggiore condizione di benessere alle persone.                                                       www.oecd.org/sdd/How-is-Life-2020-Highlights.pdf

#Iorestoacasa, ma non vittima dei violenti. Per alcune donne, la propria casa non è affatto sinonimo di sicurezza, anzi spesso è proprio il luogo dove subiscono violenza, fisica e/o psichica. Purtroppo, è noto anche che in periodi di crisi come quella che stiamo vivendo, e che giustamente ci costringe a lunghe convivenze forzate, le dinamiche familiari violente facilmente si acuiscono. Per questo, l’associazione romana Lucha y Siesta. Casa delle donne, costretta a sospendere gli incontri e i colloqui di persona, ha reso le proprie operatrici reperibili h 24 per ascolto e accompagnamento, attraverso colloqui telefonici (risponde il numero 3291221342), o attraverso mail, all’indirizzo nonseisola.lucha@gmail.com.

www.redattoresociale.it/article/notiziario/_non_sei_sola_anche_una_chat_dedicata_per_le_vittime_di_violenza_che_devono_stare_a_casa?UA-11580724-2

I luoghi dell’abbandono. Non dimenticare chi è in carcere (e le loro famiglie).  Una riflessione dal Centro la famiglia, Roma.  Questa attenzione alle specificità del mondo del carcere è diventata ancora più importante durante l’emergenza Coronavirus. Anche questo tema, così come tanti altri, non potrà più essere dimenticato, una volta usciti dall’emergenza. “[…] Nel carcere si incontrano tante storie, visi che portano dentro un vissuto e che rimandano, non solo alla storia personale, ma anche a un tessuto familiare fortemente compromesso. Dietro ogni detenuto c’è un’esistenza complessa, una famiglia, legami coniugali e genitoriali. Compito del percorso riabilitativo non è solo quello di far scontare una pena e reinserire nella società ma di prendersi carico di tutto il tessuto relazionale che il detenuto porta dentro di sé. […] Occorre quindi chiedersi come porsi in ascolto di queste famiglie senza aprirsi al giudizio e al pregiudizio. Occorre accompagnare il loro cammino, confortare, tenere i contatti anche solo con una telefonata, poche parole per trasmettere consolazione, vicinanza e coraggio […]” (Alessandra Bialetti, pedagogista sociale e consulente della coppia e della famiglia) [da RomaSette del 7 febbraio 2020]              www.romasette.it/carcere-quei-drammi-familiari-di-cui-farsi-carico

Dalle case editrici

  • Campagnoli Elisa, Eccomi! Dall’abbraccio della mamma alla scoperta di sé, 2019, San Paolo, Cinisello B. (MI), pp. 128. (anche in e-book)

Questo testo nasce dal desiderio di accompagnare i genitori nell’avventura che ha inizio con la nascita di un figlio, fino ai suoi primi due anni di vita. Dalla “fusione amorosa” del tempo dell’allattamento, c’è spazio a poco a poco per piccoli oggetti, come il ciuccio, il peluche o la copertina, simboli dell’amore che li lega, ma anche rappresentanti del mondo che li circonda. Nello spazio creativo del gioco, nella progressiva manipolazione degli oggetti che incontra, il bambino scopre se stesso e getta le basi per una prima autonomia. Il volume affronta poi i passaggi successivi: lo svezzamento, la mamma che riprende il lavoro, l’ingresso al nido. Tante esperienze che si concentrano nei primi due anni del piccolo, mentre si affaccia al mondo sotto lo sguardo amorevole della sua famiglia, e che influiranno grandemente sulla sua crescita futura.

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                                                                        CHIESA CATTOLICA

Uscire dal sonno. Roma e la spinta pastorale del papa

Un consiglio ai vescovi» era intitolata questa rubrica lo scorso maggio e il sottotitolo diceva: «Prendete 12 esploratori della Chiesa in uscita» Prevedevo che quel consiglio nessuno l’avrebbe seguito e mi sbagliavo, perché invece almeno un ascolto l’ha avuto e nientemeno che da parte del mio vescovo. Tranquilli, non intendo dire che il papa – che sarebbe lui il mio vescovo – si sia interessato alla mia divagazione. Ma se ne è occupato il vicario, il cardinale De Donatis, che gli amici chiamano «don Angelo». In una lettera ai preti dell’11 luglio scorso citava il mio consiglio e lo girava ai parroci. Ovvero: ne faceva un argomento della già avviata formazione in ogni parrocchia di una «équipe pastorale che possa prendersi cura del cammino di tutti, custodendo la direzione comune e animando concretamente le diverse iniziative». Suggeriva di scegliere «dodici persone», ovvero «un piccolo gruppo» e chiariva il metodo della scelta: «Non vanno cercate tra coloro che hanno dimostrato di essere prudenti, misurate e circostanziate, ma al contrario, persone “fuori dalle righe”, gente che lo Spirito Santo ha reso degli appassionati dello squilibrio».

Martini e Bergoglio gesuiti incursori. L’espressione «persone fuori dalle righe» era nell’ultima intervista del cardinale Martini, quella in morte, pubblicata dal Corsera il 1° settembre 2012. L’idea degli «appassionati dello squilibrio» don Angelo la prende invece da papa Francesco, che il 9 maggio in San Giovanni in Laterano aveva invitato i cristiani di Roma – riuniti in assemblea diocesana – a non avere «paura dello squilibrio», argomentando che «il Vangelo è una dottrina squilibrata».

Ha del fegato il nostro don Angelo a fare suoi motti destabilizzanti di Martini e Bergoglio che sono – certo – due padri della Chiesa nel nostro tempo ma sono anche due gesuiti incursori, invocatori di novità. E infatti la curva tradizionalista l’ha ammonito per quelle parole fuori dalle righe. Guai a te se parli come il papa senza essere il papa. Il cardinale vicario sollecitava con quella lettera i parroci a cercare «esploratori coraggiosi», vogliosi d’«incontrare», che «non si vergognano di farsi vicini ai poveri e che esercitano una certa attrazione sui giovani». Persone che converrà «ascoltare, valorizzare, lasciare agire» nell’impresa di «scomodare la sonnolenta tranquillità di tanti». Le parole sono d’ottimo suono. Ma la comunità dà segni di risveglio o continua a ronfare? Qualche segno lo dà. Forse si è avviato un ampliamento delle persone attive. «Siamo sempre gli stessi» è il lamento storico dei collaboratori parrocchiali. Qualche faccia nuova in questa stagione si è vista. Poche, per una realtà vasta come Roma. Speriamo che riescano a calamitarne altre.

Un primo segno si è visto con il totale di 6.000 presenze alle 4 assemblee in San Giovanni dei giorni 16 (sacerdoti, consigli ed équipe pastorali), 18 (ascolto dei giovani), 19 (operatori della carità), 20 (famiglie) settembre 2019. Altre 2.000 hanno poi partecipato all’assemblea delle équipe pastorali del 29 febbraio 2020.

Non sono cifre addomesticate, assicurano i responsabili: «Ci sono le iscrizioni comunicate dai parroci e c’è la visibilità della basilica, dove è noto il numero delle sedie e dove – in questi appuntamenti – le presenze sono sempre andate oltre le prenotazioni».

Il fuoco del Vangelo ridesta le paure. Altro segno: l’abbassamento dell’età media dei partecipanti. Dalle parrocchie a queste assemblee sono venuti più giovani rispetto al passato. Vuol dire che la costruzione delle équipe ha mosso giunture da tempo bloccate e forse sta aggregando energie nuove. Di questi segni dava conto il cardinale vicario nella lettera di invito all’assemblea del 29 febbraio: «Il cammino che abbiamo iniziato sta ridestando, insieme a timori e paure, il fuoco della gioia del Vangelo». «Insieme a timori e paure» dice il cardinale. I timori di sempre: quelli del nuovo, dell’ignoto, dei passi falsi. Chiami gente, dai fiducia a persone fuori dalle righe. «Faranno degli errori? Li faranno fare a te e alla comunità? È possibile», aveva scritto don Angelo nella lettera ai preti dalla quale sono partito. È sicuro che faranno errori, dico io. Ma è meglio muoversi e cadere piuttosto che addestrarsi all’uso della sedia a rotelle.

È stato abbozzato un «percorso di conversione e di rinnovamento» che dovrebbe svolgersi in 7 anni, accompagnando la comunità romana fino al Giubileo del 2025. In questa roadmap al biennio 2019-2020 è stato dato il motto Abitare con il cuore la città. È stato detto che elemento centrale del biennio è l’ascolto: questa è stata un’indicazione del papa. Ascolto dei giovani, delle famiglie (soprattutto le famiglie giovani), dei poveri, degli ambienti, della città. Sono previsti «tavoli di ascolto» – non ancora avviati – sul lavoro, il tempo libero, il terzo settore, la politica amministrativa, la cultura, l’educazione, la salute, la cura della vita.

L’ascolto della città è ancora da avviare. Per «tavoli» si intendono incontri dove far parlare le persone attive nei diversi settori, compresi i responsabili dei municipi, delle associazioni, di ogni realtà viva. E si dovrebbe arrivare il 21 aprile – natale di Roma – a una «tavola rotonda sulla città». Chissà se il coronavirus permetterà tutto questo. Chissà se i timori non prevarranno sulla fiducia.

Quando qui a Roma si guarda alla città tutta – in se compacta tota – lo spavento blocca le attese. Fu così con le «attese di giustizia e di carità» del convegno del 1974 e fu così nel 2015 con l’Osservatorio sulla città del cardinale vicario, che allora era Vallini. Anche quello, a similitudine della faccia ad extra dell’attuale fase d’«ascolto», aveva il compito di fare rete e osservare i bisogni dell’umanità nella quale e per la quale dovremmo essere lievito. Speriamo che dalle gemme di novità escano i fiori e da nessun versante arrivino le gelate traditrici. Dal basso – cioè dal mio punto di osservazione – l’ascolto della città da parte delle équipe pastorali è ancora un motto di incerta interpretazione. Lo dico avendo partecipato agli incontri parrocchiali e di prefettura: così a Roma si chiamano i raggruppamenti territoriali delle parrocchie. La mia parrocchia è la Madonna dei Monti e la prefettura è la IV, detta anche di San Vitale. Provo a tracciare un resoconto delle conversazioni che abbiamo avuto in quegli incontri sull’argomento dell’ascolto. Le riassumo in cinque punti: uno di metodo, sul come e sulle intenzioni dell’ascolto; e quattro di contenuto, riguardo ai possibili temi dell’ascolto.

Discernimento evangelico e non criteri politici. Dovremmo cercare un metodo nostro e intenzioni nostre nell’ascolto. Nostre: cioè di noi comunità cristiana. Il grido della città è vasto e alto ed è anche politico e invoca risposte alle necessità primarie, dando generalmente la precedenza ai bisogni materiali. Forse il nostro apporto non sarebbe significativo se ingaggiassimo una gara del grido con i movimenti, i gruppi, i partiti che già denunciano e chiedono. I giovani che non trovano lavoro, la mancanza di ospizi per gli anziani soli, la droga, le devianze giovanili, il bullismo, la violenza sulle donne, la tratta della prostituzione e dell’accattonaggio, il degrado urbano, l’immigrazione, i senzatetto: sono mali che tutti denunciano. Non che possiamo ignorarli, ma forse dobbiamo trovare – per ognuno e oltre ognuno dei mali già noti – l’angolatura che è trascurata da altri, da chi procede politicamente, poniamo; e può invece essere colta da chi procede con il discernimento evangelico. Il grido della solitudine. Il primo nostro ascolto potrebbe andare alle persone sole: la solitudine metropolitana che non risparmia nessuno, dall’anziano solo al manager sovra impegnato, dai ragazzi perduti nella selva delle connessioni alle coppie in crisi, ai single che non hanno scelto ma subiscono la loro condizione. La comunità cristiana va ai tribolati e questa tribolazione è intorno a noi con le sue cento facce.

Il grido dell’emergenza educativa. Ascoltare i genitori e gli educatori. Aiutare tutti gli adulti a farsi educatori di tutti i bambini e i ragazzi della parrocchia e del rione. Lo spirito comunitario del rione si è affievolito. La movida riempie a sera la piazzetta ma non basta a riempire il vuoto di reale convivenza che va crescendo e che mette a rischio la tenuta dei rapporti educativi. Il grido di chi prova a reagire. Ascoltare i cittadini attivi che reagiscono alla rassegnazione. In ogni stabile c’è una o più persone che alza lo sguardo oltre l’interesse personale, che prende l’iniziativa per dare un segno di riscatto. Per richiamare, ammonire, contrastare chi sporca, danneggia, demotiva. Interrogare chi alza lo sguardo, aiutarlo a fare rete, a mettere lievito nella pasta.

Chiese bellissime ignorate da chi le frequenta. Il grido di chi cerca la bellezza. Ascoltare chi cerca il bello che salva. Si sente una lamentela continuata contro il degrado di una città di grande bellezza. La nostra chiesa – come le altre di tutta Roma – è bellissima ma ignorata nelle sue risorse comunicative anche da chi la frequenta. Partire da essa per aiutare chi vi entra a comprenderne il linguaggio cristiano. Promuovere la ricerca del bello nel rione. Termino con un saluto a chi non è romano. Volevo segnalare come e qualmente spinti da papa Francesco qui a Roma proviamo a uscire dalla sindrome del declino per avviare un cammino orientato al futuro. Andiamo a tentoni. Esplorando parole nuove, nuovi contatti, gesti nuovi, capaci di dare corpo alla Chiesa in uscita. Il vento che soffia dove vuole ci spinga a questa salutifera sortita.

Luigi Accattoli                   Il Regno Attualità, n. 6, 15 marzo 2020, pag. 191

www.ilregno.it/attualita/2020/6/uscire-dal-sonno-luigi-accattoli

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CHIESE EVANGELICHE

Ospiti inospitali

Una delle maggiori anomalie, per non dire infedeltà, della cristianità odierna è il regime di apartheid eucaristico (non c’è modo di chiamarlo altrimenti, anche se rincresce di doverlo fare), nel quale vive, sembra serenamente, ormai da un millennio fino ad oggi, la grande maggioranza dei cristiani. La Chiesa cattolica infatti, tutte le Chiese ortodosse e un certo numero di Chiese evangeliche applicano alla mensa del Signore le regole dell’apartheid: escludono cioè dalla partecipazione a quella mensa tutti i cristiani che non appartengono alla loro comunità. Perciò, solo i cattolici romani sono autorizzati a partecipare all’eucaristia celebrata nella Chiesa cattolica: gli altri cristiani, salvo eccezioni, ne sono esclusi. Analogamente, solo i cristiani ortodossi possono partecipare alla comunione celebrata nelle Chiese ortodosse: gli altri cristiani ne sono esclusi. In alcune Chiese evangeliche, solo i cristiani battezzati da adulti possono partecipare alla Cena del Signore: ne sono esclusi tutti i cristiani battezzati da bambini, in quanto considerati non battezzati.

Questa situazione di «mense separate» e senza comunicazione tra loro, pur celebrando lo stesso rito e confessando lo stesso Signore, dura, come s’è detto, da secoli, ed è diventata talmente abituale da sembrare normale: non solo non scandalizza nessuno, ma non desta più neppure qualche stupore. In realtà, però, è un vero e proprio tradimento della volontà di Gesù, che sicuramente mai avrebbe immaginato che proprio la Cena, da lui celebrata e istituita per unire strettamente i suoi discepoli a sé e tra loro, potesse diventare pomo della discordia e motivo di divisione e reciproche scomuniche, come invece è successo e continua a succedere. Le Chiese continuano imperterrite a praticare (e giustificare!) questo apartheid, pensando di avere molte buone ragioni per mantenerlo. Non si notano segni evidenti di un ripensamento su questa questione: l’anomalia sembra dunque destinata a durare ancora.

In che cosa consiste, propriamente, l’anomalia? Le anomalie sono due.

La prima, e fondamentale, è la privatizzazione della Cena del Signore da parte delle singole Chiese, che hanno fatto e fanno della Cena, che è un dono per tutti, una proprietà privata per alcuni, un loro possesso esclusivo, snaturandone il senso e restringendone arbitrariamente l’orizzonte.

La seconda è che da un lato la Cena ci rende tutti ospiti di Gesù, e solo come ospiti possiamo prendervi parte; d’altra parte però, se escludiamo altri cristiani dalla mensa, diventiamo inospitali, contraddicendo la nostra qualità di ospiti, perché un ospite inospitale è una contraddizione in termini. Se, come crediamo e affermiamo alla mensa di Gesù, siamo tutti ospiti suoi, perché tutti da lui invitati, chi ci autorizza a negare ad altri cristiani la qualità di ospiti, se davvero siamo persuasi che la Cena da noi celebrata è la Sua, e non la nostra? Chi, sapendosi ospite di Gesù, oserebbe imporgli una lista degli invitati decisa e compilata da noi?

Che ospite è mai quello che si comporta come padrone di casa? C’è però un antidoto all’apartheid eucaristico: è l’Ospitalità eucaristica. Diverse Chiese protestanti dette “storiche” l’hanno adottata già da tempo e la praticano regolarmente. Così pure la praticano, dovunque questo è possibile, individualmente o come gruppi, cristiani appartenenti a Chiese diverse (compresa la Chiesa cattolica), talvolta trasgredendo le leggi in materia stabilite dalle Chiese. C’è insomma un numero crescente di cristiani che non accetta più l’apartheid eucaristico. È un fenomeno nuovo, ancora relativamente poco conosciuto, ma che merita di esserlo.

Che cos’è l’Ospitalità eucaristica? L’Ospitalità eucaristica è un modo inclusivo, non esclusivo, di concepire e celebrare la Cena del Signore. È quindi un modo di essere Chiesa non nella presunzione che la nostra sia l’unica, la vera Chiesa di Cristo, ma nella convinzione che essa appartiene, insieme alle altre, all’unica, vera Chiesa di Cristo, di cui solo lui conosce i confini (se pure li ha!), il suo corpo sulla terra. L’Ospitalità eucaristica è la Cena celebrata da una cristianità in cammino che, come afferma l’apostolo Paolo, non è ancora «giunta alla perfezione» (Filippesi 3,12), non è ancora entrata nella pienezza della sua verità, non è ancora pervenuta alla meta del suo lungo viaggio, è Chiesa dell’Esodo, che avanza fiduciosa verso la terra promessa, «dimenticando le cose che stanno dietro, e protendendosi verso quelle che stanno davanti» (Filippesi 3,13) e rispondendo insieme all’invito di Gesù di sedersi alla sua mensa. Non è la fine del viaggio, è però una tappa benvenuta e benedetta. Certo, l’Ospitalità eucaristica è un modo provvisorio, non definitivo, penultimo, non ultimo, di celebrare la Cena, sapendo che solo nel Regno, che insieme aspettiamo e invochiamo, essa avrà il suo compimento, di cui la comunione della Cena è già oggi anticipo e promessa. «Ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte sarà abolito» (1Corinzi 13,10). È in questo orizzonte che si collocano l’idea e la pratica dell’Ospitalità eucaristica.

Sul piano operativo essa consiste in questo: ogni Chiesa che la pratica considera benvenuto o benvenuta qualunque cristiano o cristiana di un’altra Chiesa che desideri e liberamente decida di partecipare alla Cena del Signore in quella Chiesa, diversa dalla propria, celebrata secondo la liturgia di quella Chiesa. Per la regola della reciprocità, che caratterizza i rapporti fraterni fra cristiani (dove c’è fraternità, c’è reciprocità; dove non c’è reciprocità, non c’è vera fraternità), ogni cristiano o cristiana, a qualunque Chiesa appartenga, si considera invitato o invitata dal Signore a partecipare a qualunque mensa eucaristica, dovunque venga allestita.

Questo significa, in concreto, che, per esempio, un cristiano o una cristiana cattolici sono invitati e benvenuti a partecipare alla Cena celebrata in una Chiesa evangelica e, inversamente, un cristiano o una cristiana evangelici sono invitati e benvenuti a partecipare alla Cena celebrata in una Chiesa cattolica. In altri termini, Ospitalità eucaristica significa che ogni Cena del Signore, in qualunque Chiesa venga celebrata, è aperta a tutti i cristiani, a qualunque Chiesa appartengano.

Ci sono condizioni per questa partecipazione? Ce ne sono tre.

La prima è che tutto avvenga nella fede e in obbedienza all’invito di Gesù.

La seconda è che i cristiani che partecipano a una Cena celebrata secondo una liturgia (e quindi una comprensione) diversa dalla propria, sappiano quello che fanno e perché lo fanno.

La terza è quella indicata dall’apostolo Paolo, e cioè che tutti «discernano il corpo del Signore» (1Corinzi 11,29) – che lo discernano sia nella Comunità celebrante, sia nella condivisione del pane e del vino offerti da Gesù.  La Cena infatti non è un picnic religioso, ma un incontro con il Signore vivente e con i fratelli e le sorelle da lui convocati.

Quali sono le ragioni dell’Ospitalità eucaristica? Le principali sono tre:

1. La prima ragione è quella già accennata fondo c’è un’unica Ospitalità eucaristica, che è quella di Gesù nei nostri confronti. A dire il vero, tutte le Chiese riconoscono questo fatto, poi però non si comportano in coerenza con quello che dicono. È l’ospitalità di Gesù che fonda la nostra, che non è altro che il prolungamento della sua, che è molto ampia, dato che Gesù, come risulta dai racconti evangelici, unanimi su questo punto, celebrò la Cena anche con Giuda.

2. La seconda ragione è che ciò che unisce i cristiani nella celebrazione della Cena sono il pane, il vino e le parole di Gesù sul pane e sul vino. Queste tre cose esistono (in varie forme, ma uguale sostanza) nelle celebrazioni eucaristiche di tutte le Chiese. La condivisione di questi tre elementi è il vincolo profondo che non solo autorizza, ma incoraggia la partecipazione comune alla Cena da parte di tutti i cristiani, in qualunque Chiesa sia celebrata. Quello che divide i cristiani non è la Cena, ma la sua interpretazione. Ma le interpretazioni, di qualunque tipo esse siano (variano infatti molto: dalla transustanziazione all’interpretazione simbolica!), non sono costitutive della Cena. Perché non lo sono? Per il fatto semplice, ma decisivo, che né Gesù, né Paolo, né alcun pastore, vescovo o teologo della Chiesa antica, hanno mai ritenuto di dover spiegare la Cena, e quindi interpretarla. E non saremo certo noi che possiamo presumere di poter spiegare quello che né Gesù, né Paolo hanno voluto spiegare! Questo non significa che sia vietato interpretare la Cena. Significa che l’interpretazione, pur necessaria o quantomeno utile, non è, come s’è appena detto, costitutiva della Cena. Gesù l’ha istituita senza spiegarla, quindi senza interpretarla. Questo vuol dire due cose.

La prima è che ogni interpretazione è lecita, ma nessuna può pretendere di essere quella di Gesù, e quindi di essere rivestita della sua autorità. Tutte le nostre interpretazioni, anche quelle sancite e proclamate da concili e sinodi, sono umane, più o meno plausibili e convincenti, ma nessuna è normativa per la fede, essendo priva di autorità apostolica.

La seconda è che nessun cristiano, partecipando alla Cena nella propria Chiesa o in una diversa dalla propria, è tenuto a rinunciare alla propria interpretazione, ma neppure gli è lecito imporla ad altri come condizione per vivere con loro la comunione eucaristica offerta da Gesù, che, lo ripetiamo, è comunione nel pane, nel vino e nelle sue parole, e non in questa o quella delle diverse interpretazioni possibili.

3. La terza ragione dell’Ospitalità eucaristica è che quando una Chiesa, qualunque essa sia, celebra la Cena del Signore, compie un rito (se così lo vogliamo chiamare) che trascende i confini di quella Chiesa, e appartiene alla Chiesa universale, che è quella di tutti cristiani, e di cui solo Dio conosce i membri. La stessa cosa vale per il Battesimo: chi viene battezzato «nel nome di Gesù» come a Pentecoste (Atti 2,38), o «nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo», secondo la parola di Gesù (Matteo 28,19), in qualunque Chiesa avvenga il battesimo, appartiene alla Chiesa universale: è un Battesimo valido per tutte le Chiese. Analogamente, la Cena del Signore non appartiene a chi la celebra, ma a coloro ai quali il Signore la offre, cioè a tutti i cristiani. Ecco perché tutti i cristiani hanno diritto di parteciparvi, come invitati e ospiti del Signore.

Per queste tre ragioni, l’Ospitalità eucaristica non solo è possibile, ma merita di essere accolta, consigliata e raccomandata.

Qual è il valore dell’Ospitalità eucaristica? È duplice.

In primo luogo essa rivela che i cristiani, nelle cose fondamentali della fede, sono già oggi più uniti di quello che la persistente divisione delle Chiese lascerebbe supporre. Questa unità nelle cose fondamentali esiste realmente, ed è bene che l’Ospitalità eucaristica ne sia un segno. È vero che su diverse questioni non secondarie le divergenze anche profonde permangono. Lo sappiamo e occorre tenerlo ben presente. Ma non c’è solo divisione tra i cristiani, e comunque è indubbio che oggi siamo meno divisi di ieri. E come in una famiglia, o tra amici, non c’è bisogno di essere d’accordo su tutto per partecipare a una cena comune, così i cristiani non hanno bisogno di essere d’accordo su tutto per accettare l’invito di Gesù a sedersi alla sua mensa insieme: basta riconoscersi come fratelli e sorelle, nonché come peccatori perdonati, e riconoscere Gesù come nostro comune Signore e Salvatore.

C’è chi sostiene che prima ci dev’essere l’unità, e solo dopo si potrà partecipare insieme alla Cena. Ma, a parte il fatto che l’attuale apartheid eucaristico viene praticato dalle Chiese come se fosse autorizzato, mentre è sicuramente un’infedeltà palese al volere di Gesù noi riteniamo che l’Ospitalità eucaristica non sia un’anticipazione illecita, o una velleitaria fuga in avanti, ma un passo concreto nella direzione giusta e un notevole incentivo ad accelerare il cammino verso l’unità.

Il secondo valore dell’Ospitalità eucaristica è proprio che è una comunione nelle differenze, oppure, detto con altre parole, un modello di «diversità riconciliata» C’è comunione perché c’è condivisione del pane, del vino e delle parole di Gesù, e ci sono differenze (di interpretazione) che permangono, ma non impediscono la comunione, non essendo costitutive della Cena. La comunione nelle differenze, o diversità riconciliata, è proprio il tipo di unità cristiana verso il quale si sta muovendo il Movimento ecumenico, e che ha nell’Ospitalità eucaristica una felice anticipazione.

 Paolo Ricca                in “Esodo” n. 1 del gennaio-marzo 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202003/200323ricca.pdf

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CINQUE PER MILLE

5 per mille 2020, ecco come iscriversi

Pubblicato anche l’elenco dei beneficiari 2018. Dal 1° aprile sono aperte le iscrizioni per il 2020, termine ultimo il 7 maggio prossimo. Gli Enti già registrati non devono ripresentare nuovamente la domanda ma comunicare eventuali variazioni. Tutta la procedura per accedere

C’è tempo fino al 7 maggio prossimo per iscriversi al 5‰ 2020. La finestra per gli enti che vogliono usufruire di questo sostegno dei contribuenti è stata aperta lo scorso 1° aprile. Inoltre, lo scorso 3 aprile è stato pubblicato sul sito dell’Agenzia delle Entrate l’elenco completo dei beneficiari del 5‰ 2018, con i dati relativi alle preferenze espresse dai contribuenti nella propria dichiarazione dei redditi che hanno sfiorato i 495,5 milioni di euro destinati. Gli enti ammessi al beneficio devono comunicare (qualora già non l’abbiano fatto) all’Agenzia delle Entrate le proprie coordinate bancarie o postali, consegnando presso un ufficio dell’Agenzia l’apposito Modello per la richiesta di accredito. Ciò è necessario al fine di ricevere sul proprio conto corrente le somme assegnate.

Come procedere all’iscrizione per il 2020? Gli enti già presenti nell’elenco permanente degli iscritti (pubblicato nei giorni scorsi sul sito dell’Agenzia delle Entrate) non devono ripresentare nuovamente la domanda di iscrizione, a differenza di quanto avveniva in passato.

Gli enti non iscritti nell’elenco permanente dovranno invece seguire la procedura di iscrizione, come è stata descritta in un articolo del Cantiere terzo settore. Il 5‰ è un meccanismo che permette ai contribuenti (persone fisiche) di destinare, a favore di determinati soggetti giuridici (beneficiari), una parte delle imposte, comunque dovute, sui redditi prodotti nell’anno precedente. Anche per l’anno finanziario 2020 il 5‰ può essere destinato a sostegno delle seguenti finalità:

  • Sostegno degli enti del volontariato
  • Finanziamento agli enti della ricerca scientifica e dell’università;
  • Finanziamento agli enti della ricerca sanitaria;
  • Sostegno delle attività sociali svolte dal Comune di residenza del contribuente;
  • Sostegno alle associazioni sportive dilettantistiche riconosciute ai fini sportivi dal Coni a norma di legge, che svolgono una rilevante attività di interesse sociale.

Gli enti del volontariato. Il D.lgs. 111/2017 ha riformato l’istituto del 5‰ con l’obiettivo di semplificare e razionalizzare ulteriormente gli adempimenti legati a tale istituto.

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/07/18/17G00122/sg   

Le sue previsioni non sono però ad oggi ancora operative poiché, da un lato, manca il Registro unico nazionale del terzo settore (Runts):                                       https://italianonprofit.it/riforma/registro-unico

dall’altro non è ancora   stato emanato il DPCM al fine di completare e di implementare la nuova disciplina.

In attesa del Registro unico nazionale del terzo settore, fra gli enti del volontariato rientrano ad oggi:

  • Le organizzazioni di volontariato (Odv), iscritte nei registri regionali e provinciali;
  • Le associazioni di promozione sociale (Aps), iscritte nei registri nazionale, regionali e provinciali;
  • Le associazioni di promozione sociale le cui finalità assistenziali sono riconosciute dal Ministero dell’Interno, Onlus parziali ai sensi dell’art.10, c.9 del d. lgs. 460/1997;
  • Le Onlus, iscritte all’Anagrafe unica delle onlus;
  • Le organizzazioni non governative (Ong) già riconosciute idonee ai sensi della legge n. 49/1987 alla data del 29 agosto 2014 ed iscritte all’Anagrafe unica delle Onlus su istanza delle stesse;
  • Le associazioni riconosciute e le fondazioni che operano nei settori di attività delle Onlus (elencati nel d.lgs. 460/1997, all’art.10, c.1, lettera a);
  • Le cooperative sociali e i consorzi di cooperative sociali, di cui alle legge 381/1991;
  • Gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti accordi e intese, Onlus parziali ai sensi dell’art.10, c.9 del D. Lgs. 460/1997

Per quanto riguarda invece le associazioni sportive dilettantistiche (Ad), queste possono accedere al beneficio del 5‰ qualora siano iscritte nel Registro telematico del Coni (e quindi riconosciute da quest’ultimo), e solamente qualora svolgano in via prevalente una delle seguenti attività di interesse sociale:

  • Avviamento e formazione allo sport dei giovani di età inferiore a 18 anni;
  • Avviamento alla pratica sportiva in favore di persone di età non inferiore a 60 anni;
  • Avviamento alla pratica sportiva nei confronti di soggetti svantaggiati in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari.

Gli enti già iscritti nell’elenco permanente. La prima cosa da fare è controllare la presenza dell’ente nell’elenco permanente degli iscritti. Gli enti del volontariato e le Asd che sono presenti nell’elenco non devono né trasmettere nuovamente la domanda telematica di iscrizione né inviare la dichiarazione sostitutiva alla competente amministrazione.

www.agenziaentrate.gov.it/portale/web/guest/archivio/archivio-5permille/elenco-permanente-degli-iscritti

Qualora vi fossero degli errori nei dati pubblicati nell’elenco oppure siano intervenute delle variazioni relative ai dati anagrafici (quali il cambiamento della denominazione o della sede legale dell’ente) questi devono essere semplicemente comunicati all’Agenzia delle Entrate territorialmente competente entro il 20 maggio 2020, utilizzando il Modello AA5/6 (per i soggetti che hanno solo il codice fiscale) o il Modello AA7/10 (per quelli che hanno anche la Partita iva).

            L’unico caso in cui l’ente iscritto è obbligato a ripresentare la sola dichiarazione sostitutiva, a pena di decadenza dal beneficio, è quello in cui sia cambiato il rappresentante legale rispetto a quello che aveva firmato la dichiarazione sostitutiva precedentemente inviata. Solo in questo caso l’ente dovrà trasmettere una nuova dichiarazione sostitutiva entro il 30 giugno 2020 ed inviarla tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o PEC all’amministrazione di riferimento, ovvero:

  • Per gli enti del volontariato, alla competente Direzione regionale o provinciale dell’Agenzia delle Entrate, utilizzando l’apposito Modello di dichiarazione (al quale va allegato un documento di identità del nuovo legale rappresentante);
  • Per le associazioni sportive dilettantistiche (Asd), all’Ufficio del CONI territorialmente competente.

L’invio entro il 30 giugno 2020 della dichiarazione sostitutiva in caso di variazione del legale rappresentante è fondamentale poiché la mancata comunicazione comporta la decadenza dell’ente dall’iscrizione all’elenco del 5‰ 2020.

         Ricapitolando, se l’ente è iscritto nell’elenco permanente, i dati anagrafici sono corretti e il rappresentante legale (il presidente) non è cambiato, esso non deve fare più nulla ai fini dell’iscrizione al 5‰ 2020.

            Vi potranno infine essere casi di enti che, adeguando il loro statuto alla riforma del terzo settore, sono ad esempio passati dalla tipologia di Odv a quella di Aps o viceversa: in tali casi non è necessario presentare nuovamente la dichiarazione sostitutiva, essendo sufficiente che l’organizzazione rientri fra i soggetti destinatari del contributo alla data del 7 maggio 2020 (termine ultimo per l’iscrizione).

            Gli enti non iscritti nell’elenco permanente. Per gli enti che non sono iscritti nell’elenco permanente la procedura di iscrizione deve effettuarsi secondo i passaggi seguenti:

  • Presentazione della domanda di iscrizione entro il 7 maggio 2020. La domanda deve essere presentata esclusivamente per via telematica (direttamente dagli interessati, qualora abilitati ai servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate, oppure da intermediari abilitati, quali CAF o commercialisti) utilizzando l’apposito modello (che è lo stesso sia per gli enti del volontariato che per le Asd);
  • Entro il 14 maggio 2020 l’Agenzia delle Entrate pubblicherà sul proprio sito l’elenco provvisorio degli iscritti, ed entro il 20 maggio 2020 sarà possibile verificare eventuali errori e richiedere le correzioni (utilizzando sempre i modelli AA5/6 o AA7/10); l’elenco aggiornato e definitivo degli iscritti sarà pubblicato entro il 25 maggio 2020;
  • Invio della dichiarazione sostitutiva entro il 30 giugno 2020. Il modello di dichiarazione sostitutiva varia a seconda che a presentare la domanda sia un ente del volontariato o un’associazione sportiva dilettantistica.

Per gli enti del volontariato la dichiarazione sostitutiva deve essere inviata tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o PEC alla competente Direzione regionale o provinciale dell’Agenzia delle Entrate; le Asd devono inviare invece la dichiarazione sostitutiva tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o PEC all’Ufficio del CONI territorialmente competente. Alla dichiarazione deve essere allegata una fotocopia non autenticata di un documento di identità del legale rappresentante.

            Qualora un ente non effettui l’iscrizione entro il 7 maggio 2020 o non abbia inviato la dichiarazione sostitutiva entro il 30 giugno 2020, potrà comunque partecipare al riparto delle quote del 5‰ 2020 presentando la domanda di iscrizione e la dichiarazione sostitutiva entro il 30 settembre 2020, versando una sanzione pari a 250,00 euro tramite il Modello F24 ELIDE (indicando il codice tributo 8115). Potranno regolarizzare la propria posizione solamente gli enti in possesso dei requisiti per l’iscrizione alla data del 7 maggio 2020 (termine ultimo per l’iscrizione).

Per maggiori informazioni e chiarimenti sul 5 per mille 2020 è possibile consultare le istruzioni sul sito dell’Agenzia delle Entrate.

www.agenziaentrate.gov.it/portale/documents/20143/2393732/iscrizione+5×1000+istr.pdf/8bb0eb48-bcaa-4019-06b1-e8fc7563bd2a

www.agenziaentrate.gov.it/portale/Archivio/Archivio+5permille

    Daniele Erler           Centro Servizi Volontariato

https://csvnet.it/component/content/article/144-notizie/3605-5-per-mille-2020-ecco-come-iscriversi?Itemid=893

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CITAZIONI

Per un tempo che non si vede ancora

Con il tempo e con l’età, si riflette in vari modi sulle stagioni della vita. Ci sono delle versioni classiche, ma ognuno può fare la sua. Uno schema naturale è quello delle stagioni dell’anno: la primavera è fioritura, novità, bellezza; l’estate è tempo dei lavori e della maturazione, mentre ci immergiamo nella natura; l’autunno raccoglie i frutti, spoglia la vegetazione, la restringe all’essenziale, non senza la bellezza struggente della nostalgia; l’inverno freddo cerca riparo, calore, aiuto e vicinanza, in sospesa attesa, custodendo i semi del pane sotto la neve.

Oggi si osserva che l’allungamento della vita sta mutando la vicenda della coppia umana. In antico, e ancora in società più povere, la durata della vita coincideva quasi, per i più con la durata della fecondità. I molto vecchi erano pochi. La morale coniugale era definita in gran parte da questa situazione.

Oggi la vita personale, e perciò della coppia, ha tempi più lunghi e dunque più mutamenti. Anche perché oggi la coppia è formata dall’amore, dalla reciproca attrazione, ben più che da altri fattori, come erano un tempo le relazioni familiari, le strutture sociali e locali stabili, gli interessi.

Il primo tempo dell’amore è quello della scoperta, dell’incanto, del fervore, della passione, della bellezza. Come la primavera.

Il secondo è il tempo dell’impegno e del movimento: la casa, i figli, il lavoro. L’amore sostiene e motiva: siamo nell’estate attiva che lavora per maturare i frutti.

Poi viene nelle persone (almeno nel sistema sociale vigente fino a oggi, reso incerto per il futuro dal tornado liberista) una stagione raccolta: il relativo riposo della pensione, i figli sono cresciuti e (se va bene) autonomi, gli impegni sono volontari, non obbligati, la salute per lo più sostiene ancora la voglia di vivere, gli ideali e gli slanci si misurano con la realtà. Intanto, il tempo ha cambiato le persone, come è naturale. La coppia o è molto forte interiormente, anche temprata dalla vita, oppure si trova consumata nell’abitudine. In questo caso, se il sostegno interiore è ridotto, o scomparso, è il tempo delle crisi, dei tentativi di ricominciare, di guardarsi attorno. Ci sono i divorzi precoci se si è sbagliato all’inizio, e ci sono quelli (dichiarati, o di fatto) in questa terza fase.

Infine, il quarto tempo della coppia è quello del bisogno che l’età impone all’uno prima che all’altro, o anche contemporaneamente. Qui l’amore che ha resistito alle prove del tempo, si fa cura, assistenza, vicinanza, consolazione, perdono. Altrimenti, è la necessità che condanna. Quando la salute e la forza vitale, o addirittura le facoltà mentali, ci abbandonano, se c’è qualcuno che non ci abbandona allora il cielo ci dà un segno che l’amore è più forte di tutto. Allora si riceve una nuova grazia interiore che ci chiama e ci dispone alla gratitudine serena e generosa, alla buona restituzione di quanto la vita ci ha dato: la consegna ai discendenti di beni raccolti, della casa che abbiamo abitato, ma ancor più di memorie, affetti, umili esempi, fino al momento di affidare la nostra vita (che ora si dimostra breve) alla Grande Vita, come il seme del pane si affida alla terra sotto la neve, per un tempo che non vede ancora.

Enrico Peyretti                          il gallo          dicembre 2017   pag. 9

www.ilgallo46.it/wp-content/uploads/2020/02/2017-q11-dicembre.pdf

www.ilgallo46.it/il-gallo-2017

 

In principio non era così. Dalla parola, alla morale

La questione dei divorziati risposati nella chiesa – della possibilità della loro ammissione ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia e, in termini più ampi, del riconoscimento del loro secondo matrimonio – esige, per essere affrontata correttamente, che si pervenga, da un lato, a una corretta interpretazione del messaggio neotestamentario circa l’indissolubilità e che non si rinunci nello stesso tempo a tenere, dall’altro, in seria considerazione le difficoltà che, in molti casi, si incontrano a vivere una scelta, come quella matrimoniale, quale scelta per la vita (e per la morte).

A questi due versanti in apparenza non strettamente tra loro connessi (ma in realtà, come si vedrà, convergenti) sono dedicate le riflessioni che vengono qui proposte, che intendono, anzitutto, fornire una chiave di lettura teologico-morale dei testi del Nuovo Testamento relativi all’indissolubilità (I); per affrontare, in seguito, in una prospettiva antropologico-etica, la questione della fedeltà per la vita o, più precisamente il tema delle cosiddette decisioni irrevocabili, e definirne il vero significato (II).

        I.            Il significato teologico-morale dell’indissolubilità.

Le parole di Gesù sull’indissolubilità sono riportate, con leggere varianti, che non ne modificano la sostanza in quattro passi dei vangeli (Matteo 5, 31-32; 19, 3-9; Marco 10, 2-12; Luca 16, 18) e in un passo della prima lettera ai Corinzi (7,10-11). Mentre tuttavia Luca fa semplicemente un rapido accenno, Marco e Matteo offrono una versione più ampia, pur con alcune differenze dovute alle diverse sensibilità delle comunità cui si rivolgono.  Matteo ha infatti come referente la comunità giudeo-cristiana e Marco le comunità provenienti dal mondo   pagano. Senza trascurare gli altri testi, privilegiamo qui il loghion [sentenza diretta] di Matteo 19, perché la versione più vicina all’originale. In esso si legge:” Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “E’ lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. Egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne?  Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida que che Dio ha congiunto”. Gli domandarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?”. Rispose loro: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso   di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19, 3-9).

Il contesto è quello di una disputa di Gesù con i farisei che lo interrogano “per metterlo alla prova”. Per comprendere tuttavia le ragioni della domanda e il senso della risposta è necessario tenere in considerazione la prassi veterotestamentaria sul ripudio esposta nel testo di Deuteronomio 24, 1-4. La genericità dei motivi addotti per ricorrervi – “ha trovato in lei qualcosa di vergognoso” (o di “indecente”) – ha dato luogo all’affermarsi di una disputa serrata con interpretazioni diverse tra le scuole rabbiniche. Al tempo di Gesù due di esse si contendevano il campo: la scuola di Shammai rigorista, che ammetteva il ripudio solo nel caso di adulterio, e la scuola di Hillel, più permissiva, che lo permetteva anche per motivi molto banali (quest’ultima tesi aveva la prevalenza).

La domanda dei farisei è, dunque, incentrata su quel “per qualsiasi motivo”; essi intendono capire cioè se Gesù fa sua la posizione più permissiva o quella più rigorista. Ma la risposta di Gesù scavalca la domanda in modo perentorio: nessuna ragione giustifica il ripudio! E ai farisei che obiettano scandalizzati che la legge mosaica lo ammette, egli replica che tale ammissione è dovuta alla “durezza di cuore” (sklerocardia), ma che “in principio non era così” (v. 8). La regolazione introdotta dalla legislazione mosaica è una forma di mediazione, che fa proprio il criterio del male minore, in una situazione compromessa dalla presenza del peccato.

La condizione nuova creatasi con l’ingresso di Gesù nella storia e la venuta del regno di Dio rende possibile l’adesione all’ordine creazionale. Grazie alla redenzione, l’amore umano gode di una nuova condizione di grazia; è reso partecipe – come già ricordato – dell’agape divina. La situazione escatologica è tuttavia, nello stesso tempo, più e meno dello stato protologico; è più perché la redenzione pone l’uomo in uno status di piena figliolanza divina, figli nel Figlio; è meno perché le cicatrici del peccato sono ancora presenti, e la liberazione è data all’uomo come inizio e caparra. Il ritorno all’in principio, al paradigma originario, va dunque letto nella prospettiva del “già” e del “non ancora”, come qualcosa con cui si ha già a che fare fin d’ora, ma che costituisce anche il fine cui tendere, qualcosa dunque che avrà il suo pieno compimento solo nel futuro assoluto.

1. Una norma escatologico-profetica. Letta in quest’ottica, la radicalità del messaggio di Gesù sull’indissolubilità non ha il carattere di una norma giuridica, ma ha piuttosto il significato di un imperativo profetico, di un ideale di perfezione. Considerare il pronunciamento sull’indissolubilità come una nuova codificazione legale – ha scritto Giuseppe Barbaglio – equivarrebbe a misconoscere il vero significato di un’affermazione profetica. L’indissolubilità più che una clausola giuridica del matrimonio è l’esigenza inderogabile con cui gli sposi devono confrontarsi, è una vocazione radicale d’amore a cui la fede nel regno di Dio chiama i credenti. L’interpretazione di Barbaglio (e di molti altri biblisti) trova peraltro conferma nell’ambito della teologia morale, dove si distinguono due tipologie di norme: le norme-precetto, che sono norme chiuse, le quali esigono un’adesione totale e incondizionata (senza eccezioni) – tali sono, ad esempio, i precetti della seconda tavola del Decalogo espressi peraltro in forma imperativo-negativa – e le norme escatologico-profetiche, che sono invece norme aperte, finalistiche, che rinviano ad un ideale di perfezione – tali sono le “beatitudini” e i “ma io vi dico” del discorso della montagna – e che conferiscono pertanto all’esistenza cristiana i connotati di un cammino di permanente conversione. Anche in quest’ultimo caso non va eluso il carattere normativo – non si tratta, infatti, di pii consigli per una casta di eletti ma di veri e propri riferimenti obbliganti per chi vuole porsi alla sequela di Gesù -; ma la normatività è nel tendere costantemente verso, facendo spazio ad inevitabili forme di mediazione dettate dalle situazioni particolari.

L’indissolubilità del matrimonio proclamata da Gesù andrebbe dunque interpretata non nella prospettiva di una norma-precetto che vincola in assoluto il presente, pur potendo (e dovendo) già essere in esso perseguita, ma come profezia del futuro escatologico. Essa acquisterebbe così il significato di un’indicazione circa la volontà e il progetto di Dio; un ideale a cui tendere dunque, che si realizzerà pienamente soltanto alla fine dei tempi. Così considerata l’indissolubilità non può certo tradursi immediatamente in legge o in disciplina ecclesiastica, ma ha bisogno, per diventare tale, di un’opera di mediazione o di adattamento, che non può prescindere dall’attenzione alle condizioni concrete in cui l’esperienza umana si sviluppa, e deve in particolare tener in conto la debolezza umana.

2. Le eccezioni neotestamentarie. A fare da supporto a questa interpretazione concorrono una serie di fatti significativi che meritano di essere segnalati. Il primo è costituito dalla considerazione che la proposta di Gesù è inserita da Matteo, oltre che nel contesto della disputa con i farisei, anche nell’ambito del discorso della montagna: Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio (Mt 5, 31-32).

Si tratta del discorso morale per eccellenza del Nuovo Testamento, le cui norme, lungi dall’essere norme-precetto, sono norme escatologico-profetiche, che hanno come obiettivo ultimo il “siate dunque perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 48). Ciò a cui alludono è dunque una direzione verso cui andare; un cammino da intraprendere verso una meta che sta sempre davanti e oltre.

Il secondo fatto si riferisce, invece, alla presenza nei testi neotestamentari di alcune eccezioni alla radicalità del messaggio di Gesù. Significativo è, anzitutto, a tale riguardo, il famoso inciso del vangelo di Matteo, che si trova in ambedue i passi citati (Mt 5, 32; 19, 9) e che viene normalmente ritenuto un’aggiunta dell’evangelista, il quale tenderebbe a realizzare una sorta di adattamento dell’insegnamento di Gesù alla situazione particolare della sua chiesa, composta da giudeo-cristiani particolarmente sensibili all’esigenza di salvaguardare la continuità con la tradizione mosaica. Comunque s’intenda il termine porneia – la traduzione ancor oggi più corretta sembra essere “adulterio” (le chiese ortodosse lo hanno sempre inteso così) – ciò che appare evidente è l’ammissione di una deroga da parte di Matteo al rigore dell’indissolubilità evangelica.

Analogo significato va attribuito al cosiddetto “privilegio paolino” (1 Cor 7, 12-16), dove viene affrontato il caso dei matrimoni, in cui uno dei due coniugi abbraccia in seguito la fede cristiana. La posizione che l’apostolo assume, attribuendola esclusivamente a se stesso (“Agli altri dico io, non il Signore”, v. 12), prevede, nel caso in cui il coniuge non convertito accetti la situazione, il mantenimento del legame – il coniuge non credente e i figli vengono infatti santificati dal coniuge credente –; ma riconosce, laddove si creino delle serie difficoltà di coabitazione, la piena libertà di separarsi (secondo alcuni anche di adire a nuove nozze). Siamo anche qui di fronte a una certa relativizzazione del valore dell’indissolubilità in favore della fede; indissolubilità che più che un valore umano appare come un’istanza evangelica che può essere compresa soltanto all’interno di una prospettiva di fede, e che non può pertanto essere ridotta a mero fatto etico-giuridico.

Le questioni sollevate da ambedue i casi sono senz’altro complesse e vanno viste, per essere correttamente interpretate, nel particolare contesto delle primitive comunità cristiane e in riferimento ai problemi in esse emergenti. E’ quanto osserva giustamente Giampaolo Dianin, il quale scrive: “L’inciso di Matteo e il cosiddetto privilegio paolino sembrano riguardare un piano più operativo riferito alle problematiche delle primitive comunità cristiane. Hoffmann sintetizza i diversi elementi del problema riconoscendo le difficoltà, a livello esegetico, di arrivare a una interpretazione univoca della questione. L’uso molteplice della parola porneia non permette alcuna conclusione in forza dei soli reperti filologici, perciò è necessario chiamare in causa il contesto. Le prime comunità avevano bisogno di precetti chiari e il Nuovo Testamento testimonia che ciò avvenne in modi molto diversi; la richiesta di Gesù, che rimaneva generale, venne interpretata ora come insegnamento etico, ora come prescrizione legale. “La comunità cristiana, pur mantenendosi legata alla parola di Gesù, non la considerò in alcun modo come legge, ma come imperativo che richiede una sempre nuova interpretazione” (P. Hoffmann, Le parole di Gesù, sul divorzio e la loro interpretazione neotestamentaria, (in Concilium, 6/1970, p. 849).

E mentre Marco evidenzia l’insopprimibile unità del matrimonio, motivandola con il richiamo all’opera creatrice di Dio, Matteo segue la medesima strada, ma ammette il divorzio in caso di adulterio, riconoscendo che, in questo caso, l’unità del matrimonio non esiste più de facto. E’ difficile contestare che quella di Matteo sia proprio un’eccezione pensata per la sua comunità all’interno della controversia tra le scuole di Shammai e di Hillel. Paolo si trova di fronte al problema nuovo del matrimonio tra un pagano e un convertito al cristianesimo e se, in linea generale, questo non dovrebbe essere un problema, in casi particolari potrebbe diventarlo; allora il matrimonio può essere sciolto in favore della fede, dopo aver preso atto della chiusura totale della parte pagana”. Ciò che emerge con chiarezza da ambedue i testi ricordati è un’interpretazione non legalistica della posizione di Gesù, e l’esigenza conseguente della primitiva comunità cristiana – esigenza di cui si sono fatti carico sia Matteo che Paolo – di mettere in atto, sul terreno pastorale, una mediazione, che ne renda possibile l’adesione entro i limiti della debolezza della condizione umana. L’interpretazione dell’indissolubilità come norma escatologico-profetica risulta, dunque, nei due casi evidente.          II. La fedeltà per la vita: il limite delle scelte irrevocabili.

L’altro versante della riflessione di ordine antropologico-etico riguarda l’idea di fedeltà per la vita (e per la morte) e, conseguentemente, il valore e il limite delle cosiddette “scelte irrevocabili”, le scelte che riguardano cioè gli stati di vita. L’indissolubilità è infatti la ricaduta, sul piano istituzionale, di una fedeltà assoluta e incondizionata, senza alcuna limitazione.

[Un’altra eccezione alla radicalità evangelica dell’indissolubilità (peraltro da sempre accettata, senza esitazione, dalla chiesa cattolica) è la possibilità per le vedove di passare alle seconde nozze: “Una donna è legata per tutto il tempo in cui vive suo marito; ma quando il marito è morto, è libera di sposarsi con chi vuole, solo nel Signore” (1 Cor 7, 39). Paolo si assume, anche in questo caso, la responsabilità diretta della presa di posizione, suggerendo la casta vedovanza come la soluzione migliore, ma riconoscendo la libertà della vedova, perciò il diritto che ha di risposarsi. Di per sé la radicalità evangelica dell’indissolubilità supporrebbe che il vincolo matrimoniale non possa cessare neppure con la morte di uno dei due coniugi].

1. La fedeltà come fattore costitutivo dell’amore coniugale. Ora è indubbio che l’amore coniugale, che sta a fondamento del matrimonio (come lo si intende oggi in un’accezione personalista), in quanto incontro di persone che tendono a una comunione totale attraverso il dono reciproco, porta connaturata dentro di sé l’esigenza di una fedeltà radicale. La fedeltà non può che essere il contesto entro il quale l’amore coniugale si sviluppa e la legge fondamentale del suo stesso sviluppo. L’amore autentico implica infatti, da un lato, il darsi all’altro in modo totale e definitivo; e comporta, dall’altro, un crescere gradualmente, superando costantemente se stessi. La conferma viene dall’esperienza dell’innamoramento. Le espressioni che i fidanzati si scambiano quando giungono seriamente a decidersi per il matrimonio sono contrassegnate dalla tensione all’unicità del rapporto e allo scavalcamento del tempo: “Amo te solo (a), amo te sempre”. Questo sta ad indicare che all’inizio di ogni esperienza d’amore genuino è presente (e non può non esserlo) l’aspirazione a una comunione che si protende nel tempo fino a proiettarsi verso l’eterno.

Si deve aggiungere che il dono reciproco tra i coniugi si incarna spesso in una terza persona, il figlio: esso è la realtà, divenuta oggettiva, del dono di vita che uomo e donna si sono scambiati e il compimento di tale dono. La procreazione, quando è atto pienamente umano, esige continuità e stabilità di rapporto. Deve, infatti, essere preparata nell’amore, vissuta nell’amore, portata a compimento nell’amore. Il figlio mentre, infatti, conferisce, da un lato, al rapporto una dimensione di stabilità, necessita a sua volta, dall’altro, di uno stato di fedeltà, che è condizione perché possa sviluppare positivamente la propria identità personale.

La fedeltà nell’amore ha, poi, una ragione ulteriore; risponde all’esigenza di essere fedeli a se stessi; un’esigenza irrinunciabile, perché rappresenta l’unico modo per potersi realizzare. La scelta matrimoniale, come tutte le altre scelte di vita che incidono sulla strutturazione profonda dell’esistenza, implica un particolare coinvolgimento di sé, capace di far sentire chi la vive come custode e artefice dell’unità della propria vita. L’irrevocabilità è perciò legata tanto all’irripetibilità della persona quanto alla peculiarità della scelta che coinvolge l’esistenza nella sua globalità.

La fedeltà corrisponde, dunque, all’intima dinamica dell’amore coniugale, tendenzialmente unico e destinato a durare nel tempo. Essa è, ce lo ricorda Thomas Mann, il grande vantaggio dell’amore comandato dalla natura, generante, possibile nel matrimonio… In realtà il matrimonio è tanto un effetto e un prodotto dell’istinto di fedeltà, quanto il suo generatore, la sua scuola, il suo terreno, il suo custode. L’uno e l’altra formano una cosa sola: è impossibile dire chi sia nato prima, il matrimonio o la fedeltà.”

2. La questione del tempo. A mettere in difficoltà la fedeltà è il complesso rapporto dell’uomo con il tempo. L’amore coniugale ha in sé la tensione a superare il tempo, ma deve contemporaneamente fare i conti con esso; deve accettarne la sfida. Si inserisce qui il tema delle cosiddette “scelte irrevocabili” che riguardano l’ingresso nei diversi stati di vita. La domanda che inevitabilmente affiora è la seguente: è possibile contrarre in un tempo cronologico particolare la scelta di legarsi per sempre a uno stato di vita, ritenendosi vincolati in coscienza per tutta la vita? In altre parole, è possibile decidere, in termini radicali, ora per allora (nunc pro tunc– da ora in poi), scavalcando la distanza che sussiste tra presente e futuro?

Già, a suo tempo, Tommaso d’Aquino, affrontando la questione di tali scelte, asseriva che si tratta di

“scelte nelle quali l’uomo intende decidere di tutto se stesso, ma non decide mai totalmente” (de se ipso toto, sed non totaliter). In esse si esprime infatti la volontà dell’uomo di coinvolgere l’intera esistenza, ma attuandosi in uno spazio e in un tempo circoscritti nei quali non è possibile conoscere e tanto meno padroneggiare quanto accadrà in futuro in contesti nuovi e diversi, esse non possono che avere un carattere limitato e parziale. La immutabilità radicale della scelta presupporrebbe una contrazione del tempo sul presente, e non invece il suo dispiegarsi in momenti successivi i quali fanno sì che il futuro non possa che rimanere una realtà velata ed incognita.

Ha origine così la possibilità che anche le scelte matrimoniali, fatte con le migliori intenzioni e con la più grande serietà, vengano messe in discussione attraverso un processo di graduale deterioramento e allentamento, fino a venir meno. L’amore coniugale è una realtà fragile, che va custodita con cura: le situazioni nuove cambiano infatti le persone e modificano le modalità e il senso dei rapporti, con l’insorgere talora di difficoltà insormontabili, che hanno come esito l’impossibilità di una convivenza serena e feconda.

3. Il senso autentico della fedeltà. Questa visione realistica delle scelte di vita ci aiuta infine a definire, in termini più corretti, il significato autentico della fedeltà. La vera fedeltà non è passiva e ripetitiva, ma attiva e creativa; esige il costante sforzo di integrare all’interno dell’impegno assunto i cambiamenti che inevitabilmente sopraggiungono. La scelta iniziale va pertanto di continuo rinnovata, superando i momenti difficili e le conflittualità della vita quotidiana, con la tensione ad aprirsi permanentemente al futuro. La fedeltà è, come ha scritto Joseph de Finance de Clairbois una fedeltà che risulta da una scelta insieme definitiva e perpetuamente rinnovata: definitiva perché fondata su valori eterni; perpetuamente rinnovata, perché essendo il soggetto e l’ambiente entro il quale si sviluppa inseriti nel tempo, non potrà mantenersi che al prezzo di un incessante sforzo di adattamento e di creazione”.

La vita a due è dunque una vita di costante adattamento e riadattamento, che si sviluppa attraverso un progressivo dialogo, una crescente comunicazione. Il tempo è la condizione di questo sviluppo; esso consente all’amore di approfondirsi, fino a raggiungere la piena maturità umana. La fedeltà non è perciò una realtà conseguita una volta per tutte, ma un compito da perseguire mediante un rinnovamento continuo del rapporto. Essa è – come si è già ricordato – la capacità di vincere le resistenze che vengono da situazioni nuove e impreviste, piegandole positivamente alle esigenze della propria scelta originaria. E’ la capacità di riscegliere ogni giorno, in modo nuovo e diverso, sulla scorta della scelta compiuta una volta per tutte.

La dispersione dello spazio e del tempo – osserva acutamente Maurice Nédoncelle – è certo una condizione della fedeltà terrestre. Se la vita non ci sparpagliasse, la fedeltà non dovrebbe precedere con la fede il termine che essa afferma e al quale si consacra. Ma il ruolo della fedeltà è precisamente quello di invertire il tempo per compiere la persona. Al movimento di deriva che ci impone la natura, essa sostituisce la continuità eterna e l’iniziativa insostituibile che la nostra vocazione ci propone. O piuttosto trasforma i ritmi. Da un avvenimento che ci travolge, essa trae un ricordo che dimora; di un ostacolo che ci arresta, essa fa un trampolino che ci eleva. Ha la funzione, insomma, di salvare l’incontro spaziale nella nostra durata e, in tal senso, di temporalizzare lo spazio e di eternizzare così il tempo.

Concludendo, interpretazione teologico-morale dell’indissolubilità evangelica come norma escatologico-profetica o ideale di perfezione e attenzione realistica alla condizione umana e ai suoi limiti convergono nel mettere in evidenza la necessità di una mediazione pastorale e giuridica dell’istanza della fedeltà per la vita di fronte a situazioni divenute incompatibili con il perseguimento dell’ideale evangelico. Sembra essere questa un’esigenza che prende corpo in una forma di giustizia, la quale ha la sua espressione più alta e più vera nella misericordia.

Giannino Piana. Matrimonio, in ascolto della relazione d’amore. Quaderno n. 27 – 2014

rivista-matrimonio.org/images/filespdf/Quaderni/Quaderno_27%204-2014-Piana.pdf

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CITTÀ DEL VATICANO

L’Annuario Pontificio e l’Annuario statistico della Chiesa

Aumenta l’incidenza dell’azione pastorale nel mondo cattolico di Africa e Asia nel primo quinquennio di Pontificato di Francesco. La redazione dell’«Annuario Pontificio 2020» e dell’«Annuarium Statisticum Ecclesiæ 2018» è stata curata dall’Ufficio Centrale di Statistica della Chiesa. Dalla lettura dei dati riportati nell’«Annuario Pontificio» si possono desumere alcune novità relative alla vita della Chiesa Cattolica Durante tale periodo sono state erette 4 nuove Sedi Vescovili, un’Eparchia, 2 Prelature Territoriali, un Esarcato Apostolico e una Amministrazione Apostolica; sono stati elevati una Sede Arcivescovile e 4 Diocesi a Sedi Metropolitane, una Prelatura Territoriale e un Vicariato Apostolico a Sedi Vescovili e 2 Esarcati Apostolici a Eparchie.

I dati statistici dell’«Annuarium Statisticum Ecclesiæ», riferiti all’anno 2018, permettono di elaborare un quadro di sintesi dei principali andamenti che interessano l’evolversi della Chiesa cattolica nel mondo nel quinquennio appena trascorso. L’insieme dei fenomeni esaminati mostra con sufficiente chiarezza come nel corso degli anni compresi fra il 2013 e il 2018 si assista ad una contrazione del peso relativo dei paesi europei e del Nord America e a un aumento di incidenza di tutte le altre aree geografiche. Ciò emerge, con estrema sintesi, dalle seguenti valutazioni: nel periodo che va dal 2013 al 2018 i cattolici battezzati nel mondo registrano un incremento percentuale di quasi il 6%. Nello stesso arco temporale essi complessivamente passano da quasi 1.254 milioni a 1.329 milioni, con un incremento assoluto di 75 milioni di unità. Alla fine del 2018, i cattolici costituiscono poco meno del 18% della popolazione mondiale. Tale aliquota rimane pressoché invariata negli anni.

Similmente, si può rilevare che nel 2018 la proporzione più alta è nelle Americhe con 63,7 cattolici per 100 abitanti, cui fanno seguito quella dell’Europa con 39,7 cattolici, quella dell’Oceania con 26,3 e quella dell’Africa con 19,4; l’incidenza più bassa è in Asia con 3,3 cattolici per 100 abitanti a motivo della grande diffusione che, in questo continente, hanno le confessioni non cristiane.

 La distribuzione di cattolici fra i vari continenti differisce notevolmente da quella della popolazione. L’America, dal 2013 al 2018, mantiene, quanto a popolazione, una incidenza sul totale mondiale all’incirca costante, pari al 13,5%, di contro il peso dei cattolici diminuisce nel quinquennio di un punto percentuale, raggiungendo il 48% della popolazione cattolica del mondo. L’importanza dei cattolici dell’Asia cresce lievemente dal 10,9 all’11,1% cento, ma essa è notevolmente inferiore a quella che il continente ha per quanto riguarda la popolazione (circa il 60% nel 2018). L’Europa ha un peso per la popolazione inferiore di circa quattro punti percentuali a quello dell’America (9,6%), ma la sua incidenza nel mondo cattolico assume livelli inferiori a quella dei paesi americani (il 21,5 contro il 48,3%). Tanto per i paesi africani quanto per quelli dell’Oceania il peso della popolazione sul totale è poco dissimile da quello dei cattolici.

Il numero dei vescovi nel mondo aumenta tra il 2013 e il 2018 di oltre il 3,9%, passando da 5.173 a 5.377, con un incremento assai marcato in Oceania (+4,6%), in America e in Asia (con +4,5% per entrambi) e in Europa (+4,1%), mentre in Africa (+1,4%) i valori si collocano sotto la media mondiale. La distribuzione territoriale relativa ai vescovi rimane sostanzialmente identica nei due anni presi a confronto.

La dinamica della consistenza sacerdotale appare globalmente piuttosto deludente, mostrando una contrazione di 0,3% concentrata nella seconda metà del periodo campionario. Il numero dei sacerdoti, infatti, aumenta complessivamente di 1.400 unità nel primo biennio, per poi stabilizzarsi successivamente e mostrarsi in calo nel corso degli ultimi tre anni. In controtendenza rispetto alla media mondiale, l’evoluzione delle consistenze sacerdotali in Africa e in Asia risulta alquanto confortante, con un +14,3% e +11,0%, rispettivamente, mentre in America si mantiene stazionaria attorno ad una media di circa 123 mila unità. Europa ed Oceania, infine, responsabili della contrazione osservata a livello planetario, mostrano al 2018 una diminuzione di oltre il 7% e di poco più dell’1%, rispettivamente. La distribuzione dei sacerdoti tra i continenti è caratterizzata nel 2018 da una forte prevalenza dei sacerdoti europei (41,3%) che superano del 40% quelli del clero americano; il clero asiatico incide per il 16,5%, quello africano per l’11,5% e quello dell’Oceania per l’1,1%. Nel quinquennio cresce l’incidenza sia del clero asiatico (da 14,8 a 16,5%) e sia quella del clero africano (da 10,1 a 11,5%), mentre per il clero europeo il peso scende vistosamente dal 44,3% al 41,3%. Identica è la situazione per il clero americano (29,6%) nei due anni considerati.

Una realtà ecclesiastica che è in rapida evoluzione è quella dei diaconi permanenti, il cui numero è in forte evoluzione sia a livello mondiale sia nei singoli continenti, passando complessivamente da 43.195 unità nel 2013 a 47.504 unità cinque anni dopo, con una variazione positiva, quindi, di circa il 10%.

La crisi dei religiosi professi non sacerdoti non accenna a diminuire ed è preoccupante che nel mondo seguitino a ridursi. Il gruppo, infatti, si contrae di quasi l’8% tra il 2013 e il 2018, essendo il numero passato da oltre 55 mila unità a meno di 51 mila. Il trend decrescente è comune ai vari continenti con l’eccezione di Africa e Asia dove si osservano variazioni del +6,8% e di +3,6%, rispettivamente.

Anche per il gruppo delle religiose professe si osserva una dinamica fortemente decrescente con una contrazione del 7,5% nel periodo considerato. Il numero complessivo delle religiose professe, infatti, si riduce da quasi 694 mila unità nel 2013 a meno di 642 mila unità cinque anni dopo. Il declino riguarda tre continenti (Europa, Oceania e America), con variazioni negative anche di rilievo (-15% in Europa, -14,8% in Oceania e -12% in America). In Africa e in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, superiore al 9% per Africa e a +2,6% per Asia. Conseguentemente, la frazione delle religiose professe in Africa e in Asia passa dal 34,6% sul totale mondiale al 39%, a discapito dell’Europa e dell’America, la cui incidenza si riduce complessivamente dal 64,3 al 59,9%.

Il numero dei seminaristi maggiori sembra consolidarsi su un trend di lenta e graduale contrazione. I candidati al sacerdozio nel mondo passano da 118.251 unità nel 2013 a 115.880 nel 2018, con una variazione

di -2,0%. Il calo, con l’eccezione dell’Africa, interessa tutti i continenti con riduzioni di grande portata per Europa (-15,6%) e America (-9,4%). L’Africa, con una variazione positiva del 15,6%, si conferma l’area geografica con le maggiori potenzialità di copertura del fabbisogno dei servizi pastorali.

L’Osservatore Romano          Città del Vaticano      pag 7   26 marzo 2020

www.osservatoreromano.va/vaticanresources/pdf/QUO_2020_069_2603.pdf

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CONSULTORI CATTOLICI

Pandemia, il servizio di ascolto e sostegno dei consultori cattolici del Lazio

Pronto, Consultorio!”: si intitola così il nuovo progetto lanciato dalla Federazione del Lazio della Confederazione italiana Consultori familiari di ispirazione cristianaper questo tempo di emergenza sanitaria e misure restrittive per la prevenzione del contagio da Covid-19. L’obiettivo: fornire un servizio di ascolto e sostegno per persone e famiglie che in questo momento necessitano di uno speciale supporto per gestire situazioni di ansia e stress personali o di difficoltà nei vissuti delle relazioni familiari. «Gli operatori dei consultori familiari di ispirazione cristiana, con senso di partecipazione e condivisione, si propongono, con gli strumenti professionali loro propri, a tutti coloro che lo desiderino per portare insieme il peso di questi giorni, segnati da sofferenza talvolta dolorosa nel corpo e nello spirito», spiega Pantaleo Nestola, presidente Cfc Federazione Lazio.

Ad aderire al progetto, i consultori di Aprilia (Lt), Carpineto Romano (Rm), Fiuggi (Fr), Fondi (Lt), Frascati (Rm), Frosinone, Latina, Palestrina (Rm) e Viterbo, insieme alle realtà romane “Al Quadraro” e “Università Cattolica del Sacro Cuore”. Tutti mettono a disposizione un filo diretto tramite mail e telefono con possibilità di colloqui a distanza con professionisti come psicologi, avvocati, medici. «Questa modalità, pur discostandosi da quella abituale di colloquio diretto tipico del consultorio familiare – conclude Nestola -, in questo frangente emergenziale diventa strumento prezioso per garantire continuità fiduciaria con gli utenti altrimenti difficili da accogliere in sede, per cercare insieme risposte a domande esistenziali difficili».

Redazione online RomaSette 27 marzo 2020

www.romasette.it/pandemia-il-servizio-di-ascolto-e-sostegno-dei-consultori-cattolici-del-lazio

 

In compagnia delle emozioni, imparare a gestire l’ansia

Reazioni di paura e fobie sociali possono provocare disagi e limitare la vita di relazione. Importante un precoce intervento sulle nuove generazioni

La vita emotiva comprende una vasta gamma di stati affettivi più o meno intensi che vanno dalle emozioni ai sentimenti: tristezza, irritazione, allegria, noia, disgusto, paura, ecc.; sentimenti ed emozioni costituiscono la coloritura affettiva della nostra vita psichica che sarebbe altrimenti monotona ed uniforme. L’emozione è caratterizzata da turbamenti psicologici e fisiologici e può essere originata da stimoli interni all’individuo od esterni; poiché si manifesta in maniera brusca ed intensa, tende a decrescere rapidamente, mentre i sentimenti si differenziano per il fatto che perdurano nel tempo. In questo articolo, vorrei soffermarmi sulle emozioni spiacevoli e disturbanti.

Nel linguaggio comune, spesso, i termini “ansia” e “paura” vengono usati in modo indifferenziato; uno dei criteri che può fare la differenza è l’obiettività. Se esiste qualcosa la cui pericolosità è obiettivamente dimostrata, la reazione emotiva viene chiamata paura; se invece l’oggetto o la situazione non è obiettivamente pericolosa o misurabile, la reazione viene definita ansia o fobia. I bambini si discostano da tale distinzione in quanto, per l’incompleta maturazione cognitiva, trovano spesso difficile distinguere il reale dall’immaginario.

Diverse manifestazioni di paura osservabili nei bambini sono tipiche in certe età e possono quindi essere considerate normali in una data fase della crescita. Durante la prima infanzia alcune situazioni frequentemente associate a reazioni di paura sono i forti rumori improvvisi, le persone sconosciute, gli animali, il buio. Nei bambini un po’ più grandi le paure invece riguardano soprattutto pericoli immaginari quali mostri, fantasmi, scene viste in televisione, ladri, morte. Il fatto che tali paure siano tipiche di una determinata età, non significa che necessariamente si presentino in tutti i bambini.

Il manifestarsi di reazioni di paura può essere determinato da vari fattori quali il temperamento, l’educazione e le esperienze personali. Alcuni bambini sono in grado di utilizzare le proprie capacità per provare meno ansia rispetto ad altri bambini che invece, interpretando in modo distorto gli eventi, tenderanno a sperimentare un maggior livello di disagio. Altri tipi di paure che si manifestano con un maggiore sviluppo cognitivo sono di natura sociale e le più comuni sono: paura della propria inadeguatezza e del giudizio esterno (fare brutta figura, sbagliare, ecc.) e la paura di essere rifiutati. Ci troveremo di fronte ad una reazione disfunzionale se assistiamo ad una attivazione emotiva che è eccessiva per quanto riguarda la frequenza con cui si verifica, l’intensità con cui si manifesta e la sua durata.

Le fobie sociali portano ad evitare situazioni pubbliche ed interpersonali limitando gravemente la vita di relazione. La persona vittima di tali fobie può sperimentare tutta una serie di attivazioni neuro-vegetative (sudorazione, nausea, tremore, fiato corto, palpitazioni, ecc.) che, in un circolo vizioso, gli confermano vissuti negativi di insuccessi e brutte figure. In realtà, tali persone sono in possesso di abilità e competenze sociali adeguate che però vengono inibite dalla presenza di alti livelli di ansia e paura; vi è una svalutazione delle proprie capacità, una percezione distorta del proprio comportamento nelle situazioni sociali ed una serie di aspettative eccessive ed irrealistiche.

Le reazioni relative alla paura generano una ulteriore paura in situazioni stressanti attraverso una tensione anticipatoria; con una sequenza di pensieri che provocano paura circa la propria inadeguatezza, si innalza il livello di ansia sperimentata che supera di molto la paura provata durante la reale situazione minacciante. L’evitamento delle situazioni stressanti impedisce lo sviluppo delle abilità gestionali e la mancanza di capacità che ne risulta fornisce una base realistica alla paura. Ognuno giudica il suo stato di stress in base alla valutazione delle condizioni scatenanti; così, stati di tensione psicofisica che si verificano in situazioni percepite come minacciose, vengono interpretate come paura, stati di tensione sopravvenuti in situazioni frustranti vengono vissuti come rabbia e quelli che risultano da una perdita significativa, come dispiacere.

Nella pratica terapeutica, si assiste sempre più frequentemente ad una richiesta d’aiuto rispetto agli “attacchi di panico”; la persona sperimenta delle sensazioni fisiche che spesso vengono interpretate come un segnale legato ad un attacco di cuore o di perdita di coscienza. È una esperienza terrificante che rinforza la dipendenza e la sensazione di incapacità le quali, a loro volta, rafforzano lo stato conflittuale da cui sorgono ulteriori attacchi. Si risulta “intrappolati” quando, piuttosto che cercare di risolvere il conflitto sottostante, si evitano le situazioni a rischio di scatenamento dell’attacco di panico.

Le condizioni necessarie per affrontare e gestire situazioni stressanti e disturbanti  vengono da una maggiore consapevolezza delle sensazioni corporee collegate a varie emozioni, tanto da riconoscere quei segnali interni che riguardano specificatamente l’ansia; un’altra importante componente è riconoscere i pensieri presenti durante i momenti di ansia ed evidenziare i pensieri anticipatori, cioè i timori su ciò che potrebbe accadere e come ci si considera nella situazione in cui si prova paura.

Pensando ad un precoce intervento sulle nuove generazioni, sarebbe importante ottenere la collaborazione della famiglia e della scuola al fine di fornire al bambino varie opportunità per allenarsi a fronteggiare le situazioni temute. Potrà così imparare ad affrontarle interrompendo il circolo vizioso dell’evitamento, tollerando il disagio ed attivando modalità di risposta adeguate.

Malgrado i bambini ansiosi non siano quelli che più frequentemente disturbano genitori ed insegnanti, il loro livello di sofferenza emotiva può risultare elevato e per alcuni si prospetta un futuro colmo di ansia anche nella vita adulta. Insegnare fin dall’infanzia le abilità necessarie per la gestione dell’ansia può risultare utile per eliminare quanto prima dalla vita dell’individuo una parte di pesanti e disadattative sofferenze emotive.

Lucia Calabrese, psicoterapeuta e sessuologa clinica. Consultorio diocesano Roma 27 marzo 2020

www.romasette.it/in-compagnia-delle-emozioni-imparare-a-gestire-lansia

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Messina, due sportelli di ascolto psicologico

Il Consultorio Familiare U.C.I.P.E.M. di Messina onlus presente a Messina da oltre 50 anni ha in queste settimane attivato due sportelli di ascolto psicologico, uno in collaborazione dei   comuni di Villafranca Tirrena, Rometta e Saponara ed uno per la sede di Messina sia diretto, sia attraverso lo sportello famiglia. Per Messina mandare un messaggio whatsapp al 3347414597 oppure chiamare dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 17, per i comuni della zona tirrenica sopra menzionata telefonare allo 090 332761 dal lunedì al venerdì dalle 9,00 alle 12,30 e dalle 16,00 alle 19,00 eccetto il giovedì pomeriggio.

www.telemessina.it/2020/03/30/il-consultorio-familiare-u-c-i-p-e-m-di-messina-ha-attivato-due-sportelli-di-ascolto-psicologico/

Trieste.  Sedute gratuite on line

La dott.ssa Laura Mullich, supervisore dell’équipe del Consultorio, mette a disposizione la sua competenza di psicoterapeuta con sedute gratuite in chat anche video di 30 minuti (Skype, WhatsApp) per tutti coloro che in questo momento non possono restare a casa per motivi di lavoro o di necessità e per tutti coloro che sono costretti a casa e che stanno vivendo questa situazione con difficoltà.

www.consultonlus.it/?p=596

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CORONAVIRUS

Donazioni contro il Coronavirus: vantaggi fiscali

Detrazione del 30% per le erogazioni fino a 30.000 euro per le persone fisiche. Piena deducibilità per le imprese. Sono questi i vantaggi fiscali previsti dal decreto Cura Italia per chi fa donazioni contro il coronavirus.                                                                                  https://fiscomania.com/decreto-cura-italia

Il Decreto Cura Italia, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17 marzo 2020, emanato per fronteggiare l’emergenza economica e sanitaria del Covid-19 ha previsto dei vantaggi fiscali per le donazioni effettuate contro il Coronavirus.                               www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/03/17/20G00034/SG

Nel Decreto Cura Italia è stata accolta la richiesta di dare un vantaggio fiscale a coloro che stanno facendo e faranno donazioni per combattere questa emergenza sanitaria. In particolare, per le erogazioni liberali in denaro ed in natura a favore dello Stato, delle regioni, degli enti locali o di associazioni senza scopo di lucro sono previste detrazioni e deduzioni. Le misure sono contenute nell’art. 66 del Decreto Cura Italia.

            Le persone fisiche e gli enti non commerciali possono beneficiare di detrazioni Irpef del 30% per le erogazioni liberali fino a 30.000 euro, effettuate nell’anno 2020.

I soggetti titolari del reddito di impresa, per lo stesso anno, hanno diritto a delle deduzioni ai fini Irap.

Donazioni. Negli ultimi giorni sono stati molti i soggetti che hanno effettuato donazioni ad ospedali ed enti impegnati a far fronte all’emergenza provocata dal Coronavirus. Detrazioni per persone fisiche ed enti non commerciali che effettuano donazioni. I vantaggi fiscali previsti a favore delle donazioni per il Coronavirus sono contenute nell’art. 66 del Decreto Cura Italia. Tale articolo ha come oggetto “Incentivi fiscali per erogazioni liberali in denaro e in natura a sostegno delle misure di contrasto dell’emergenza epidemiologica da COVID-19“.

Al comma 1 sono previste le detrazioni per persone fisiche ed enti non commerciali:

                “Per le erogazioni liberali in denaro e in natura, effettuate nell’anno 2020 dalle persone fisiche e dagli enti non commerciali, in favore dello Stato, delle regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro, finalizzate a finanziare gli interventi in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 spetta una detrazione dall’imposta lorda ai fini dell’imposta sul reddito pari al 30%, per un importo non superiore a 30.000 euro

            Tutti coloro che hanno effettuato delle donazioni nel 2020, hanno diritto ad una detrazione del 30% per un importo non superiore a 30.000 euro. Le erogazioni liberali devono essere effettuate a favore dello:

  • Stato;
  • Delle regioni;
  • Degli enti locali territoriali;
  • Degli enti o istituzioni pubbliche;
  • Delle fondazioni e delle associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro;

per il finanziamento di interventi aventi lo scopo di fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica del Coronavirus.

     Nel caso di donazioni in natura, la determinazione del valore deve seguire quanto previsto dalle disposizioni di cui agli art. 3 e 4 del Decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 28 novembre 2019.

Deduzioni a favore delle imprese. Il Decreto Cura Italia prevede anche incentivi fiscali per le donazioni anti coronavirus effettuate dalle imprese. Tali misure sono contenute nel comma 2 dell’art. 66 che dispone: “Per le erogazioni liberali in denaro e in natura a sostegno delle misure di contrasto all’emergenza epidemiologica da COVID-19, effettuate nell’anno 2020 dai soggetti titolari di reddito d’impresa, si applica l’articolo 27 della legge 13 maggio 1999, n. 133. Ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive, le erogazioni liberali di cui al periodo precedente sono deducibili nell’esercizio in cui sono effettuate“.

            Le imprese che effettuano donazioni hanno diritto alle deduzioni previste dall’art. 27 della L. n. 133/1999 che contiene le “Disposizioni in favore delle popolazioni colpite da calamità pubbliche“.

Le erogazioni in denaro sono deducibili dal reddito d’impresa ed i beni ceduti gratuitamente non si considerano destinate a finalità estranee dell’esercizio dell’impresa.

            Ai fini Irap le erogazioni liberali sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il versamento.

            Per la determinazione del valore delle donazioni in natura si deve fare rifermento, anche in questo caso, alle disposizioni degli art. 3 e 4 del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 28 novembre 2019.

Elisa Migliorini           Fiscomania     24 marzo 2020

fiscomania.com/donazioni-vantaggi-fiscali

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DALLA NAVATA

V Domenica di quaresima Anno A – 29 marzo 2020

Ezechièle            37, 14. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.

Salmo                 129, 05. Io spero, Signore. Spera l’anima mia, attendo la sua parola. L’anima mia è rivolta al Signore più che le sentinelle all’aurora.

Romani                08, 11. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.

Giovanni           11, 44. Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: “Liberàtelo e lasciàtelo andare”.

 

Le lacrime di chi ama, una lente sul mondo

Le lacrime di chi ama sono la più potente lente d’ingrandimento della vita: guardi attraverso una lacrima e capisci cose che non avresti mai potuto imparare sui libri.

La ribellione di Gesù contro la morte passa per tre gradini:

  1. Togliete la pietra. Rotolate via i macigni dall’imboccatura del cuore, le macerie sotto le quali vi siete seppelliti con le vostre stesse mani; via i sensi di colpa, l’incapacità di perdonare a se stessi e agli altri; via la memoria amara del male ricevuto, che vi inchioda ai vostri ergastoli interiori.
  2. Lazzaro, vieni fuori! Fuori nel sole, fuori nella primavera. E lo dice a me: vieni fuori dalla grotta nera dei rimpianti e delle delusioni, dal guardare solo a te stesso, dal sentirti il centro delle cose. Vieni fuori, ripete alla farfalla che è in me, chiusa dentro il bruco che credo di essere. Non è vero che “le madri tutte del mondo partoriscono a cavallo di una tomba” (B. Brecht), come se la vita fosse risucchiata subito dentro la morte, o camminasse sempre sul ciglio di un abisso. Le madri partoriscono a cavallo di una speranza, di una grande bellezza, di un mare vasto, di molti abbracci. A cavallo di un sogno! E dell’eternità. Ad ogni figlio che nasce, Cristo e il mondo gridano, a una voce: vieni, e portaci più coscienza, più libertà, più amore!
  3. Liberatelo e lasciatelo andare! Sciogliete i morti dalla loro morte: liberatevi tutti dall’idea che la morte sia la fine di una persona. Liberatelo, come si liberano le vele al vento, come si sciolgono i nodi di chi è ripiegato su se stesso, i nodi della paura, i grovigli del cuore. Liberatelo da maschere e paure. E poi: lasciatelo andare, dategli una strada, e amici con cui camminare, qualche lacrima, e una stella polare.

Che senso di futuro e di libertà emana da questo Rabbi che sa amare, piangere e gridare; che libera e mette sentieri nel cuore. E capisco che Lazzaro sono io. Io sono Colui-che-tu-ami, e che non accetterai mai di veder finire nel nulla della morte. Le lacrime di chi ama, una lente sul mondo

p. Ermes Ronchi, OSM

www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/48325.html

                                                                                                    

Il silenzio di Lazzaro

Sia nei confronti della donna di Samaria, sia nei confronti del cieco, Gesù mostra una totale attenzione alla persona. Tale attenzione appare ancora nei confronti di una piccola e anomala famiglia di tre: due sorelle e un fratello. Abitano, secondo la tradizione, in un villaggio distante circa 3 km da Gerusalemme, sulle pendici sud-est del Monte degli ulivi, sulla strada per Gerico. Si chiama Al Azariyeh, e come si vede conserva nel nome arabo un ricordo di Lazzaro. Questo piccolo nucleo familiare ha le due donne come protagoniste, e già questo è un fatto singolare: Marta sembra avere il ruolo di capofamiglia, Maria assume il ruolo e la postura, tutta maschile, del discepolo (cf. 10,39). Lazzaro è sullo sfondo; di lui colpisce il silenzio: gli evangelisti non ne riportano una parola, un gesto, un cenno. Pare che la sua opera più significativa si realizzi nella morte. Eppure di lui si dice per ben tre volte che Gesù lo amava – e la cosa era di dominio pubblico (11,3.5.36) –, anzi piange e si commuove per lui (cf. 11,35.38) tanto che, secondo alcuni discussi interpreti, sarebbe il discepolo amato ricordato da Giovanni. Questa insistenza è sorprendente, tanto più che di Gesù non sappiamo poi molto: niente del suo aspetto fisico, degli anni della sua formazione e di tutto quello che, in generale, ci interessa sapere di una persona eminente. Gli evangelisti seguono un criterio di necessità rispetto al mistero, non rispetto alla cronaca.

            Lo scambio di battute coi discepoli prima, e con Marta poi, dice però alcune cose essenziali: la morte di Lazzaro è per la fede dei discepoli (cf. 11,15) e per vedere la gloria di Dio (cf. 11,40), così come la condizione del cieco era rivelativa delle grandi opere di Dio (cf. 9,3); in questo contesto Gesù stesso poi si autorivela come la risurrezione e la vita (cf. 11,25).

            È difficile pensare a una morte che manifesti la gloria, soprattutto in tempi come i nostri in cui la morte sembra prevalere su tutto, specialmente sui deboli e sugli indifesi. Marta comunque «sa» (oida) che Dio farà ciò che Gesù chiede (cf. 11,22) e che Lazzaro risorgerà nell’ultimo giorno (11,24), come insegnava e insegna l’ebraismo. Gesù invece anticipa il tempo: Marta «vedrà» (opse, 11,40) la gloria di Dio, con una sorta di passaggio, dalla fede che sa perché crede, all’evidenza di chi può constatare che ciò che è promesso è già qui.

            Marta rappresenta la fede d’Israele, alla quale Gesù dice che chi accede alla vita (zoe) e alla pienezza di vita che viene dalla fede in lui, certamente muore all’esistenza in senso biologico (Lazzaro infatti morirà poi come tutti), ma continua a vivere al di là della morte. Tale è la gloria di Dio che qui si può vedere, come Gesù promette, e che egli stesso manifesterà compiutamente con la sua risurrezione per non più morire.

            Un segno di questa vita senza fine è in certo modo nella libertà con cui Gesù si espone alla morte rianimando Lazzaro. Questo segno, infatti, il settimo e ultimo della serie, diventa particolarmente decisivo per quel che riguarda Gesù e il suo destino (11,45ss).

Il racconto nel suo insieme è piuttosto concitato: prima la discussione coi discepoli, poi l’incontro con le sorelle, l’andata al sepolcro e il «risveglio» di Lazzaro, ma in tutto questo muoversi, accorrere, discutere, Lazzaro tace. Nessuna parola di ringraziamento, nessuna esclamazione ammirata e neppure di sgomento dopo i giorni passati nel sepolcro.

            Se in casa erano le sorelle a parlare, se in Gv 12 vediamo Lazzaro partecipare a un banchetto in cui sono di nuovo le sorelle a essere in primo piano, ci si può chiedere il perché di questo silenzio che precede e accompagna l’esperienza della morte. Nessun commentatore, a quanto sembra, si è fermato su questo dettaglio.

Possiamo formulare un’ipotesi, con tutte le cautele possibili. L’evangelista attraverso Lazzaro vuol manifestarci che non è necessario essere in primo piano per essere protagonisti, ma che c’è una parola che conta ed è decisiva. È una parola da ascoltare in profondità, da meditare e a cui obbedire, perché è l’unica che può cambiare la nostra vita, trasformandola da semplice esistenza in vita senza fine.

            Di fronte a una tale parola non c’è che il silenzio.

       Stefania Monti                                                    25 marzo 2020

http://ilregno.it/blog/il-silenzio-di-lazzaro-stefania-monti

 

Nell’emergenza rimettere i debiti

Il card. Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila fino a poche settimane fa, è ora diventato il «papa rosso», cioè il prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, che ha competenza sulle missioni e su alcune regioni dell’Europa sudorientale e dell’America, quasi tutta l’Africa, l’Estremo Oriente e l’Oceania, ad eccezione dell’Australia e di quasi tutte le Isole Filippine. Qualche giorno fa, nell’omelia del 29 marzo, commentando il racconto della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-45), ha svolto una riflessione sulla malattia che sta affliggendo il mondo.

E ha proposto che nell’emergenza provocata dalla pandemia del COVID-19 i paesi (e le persone) ricchi aiutino quelli più poveri condonando i loro debiti. Il condono dei debiti nelle Scritture è legato agli anni giubilari.

 

Omelia. Miei cari fratelli e sorelle,

vogliamo ringraziare ancora una volta Dio per averci raccolto come una sola comunità, un solo popolo, un solo corpo di Cristo in questa domenica, dedicata alla memoria del trionfo di Cristo sul peccato e sulla morte. In questa quinta domenica di Quaresima tutte le letture, specialmente il Vangelo, indicano questo: Gesù trionferà sulla morte. Ringraziamo le tante persone in tutto il mondo che si uniscono a noi attraverso il live streaming o web per adorare Dio e per rendere la memoria di Gesù una parte viva della nostra esistenza, specialmente in questi temi molto, molto difficili. Rivolgiamo un saluto speciale di comunione e solidarietà ai nostri fratelli e sorelle filippini sparsi in tutto il mondo.

            Per la gloria di Dio. Permettetemi di riflettere su questa parte del Vangelo. «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio»: Gesù disse così quando gli riferirono che Lazzaro era malato. Qualcuno l’avrebbe criticato: se davvero aveva il potere di guarire le persone, come si diceva, e Lazzaro era suo amico!, come mai non aveva voluto arrivare prima? E anche Marta disse: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto». Ma questa era la convinzione di Gesù: questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio. Potremmo dire la stessa cosa ora? Potremmo dire con Gesù: «questa pandemia da coronavirus non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio?», anche mentre vediamo il numero crescente di morti? Siamo solidali con quelli che sono nel lutto, ma Gesù ci invita alla fede. E questo è il primo punto che vorrei condividere con voi.

            Nella prima lettura ascoltiamo la parola di Dio, che per bocca del profeta Ezechiele dice: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele». I morti non possono aprire i sepolcri, i morti non possono riportarsi in vita da soli; e l’esilio, che è una forma di morte, che è isolamento da Dio, dal tempio, dalla terra, dalla famiglia, perché gli esuli non possono ritornare; Dio aprirà le tombe, Dio ridarà loro lo spirito di vita, e Dio li guiderà nel ritorno a casa, come Gesù ha chiamato Lazzaro perché uscisse dalla tomba. È Dio che darà la vita, è Dio che ci rimetterà in vita. Quello che è necessario è la fede. Marta credeva che ci fosse una risurrezione dai morti, ma Gesù le chiede: tu credi che io sono la risurrezione e la vita? Io darò la vita, io sono la vita, e voi troverete la vita se sarete legati a me. La morte divide, ma la fede unisce. Questa è la vita eterna, credere nella Parola che ci è stata inviata dal Padre.

            E dopo la risurrezione di Lazzaro molte persone credettero, e trovarono la vita. Ma altri, che non credettero, cominciarono a tramare su come uccidere Gesù. Chi dà la vita? Dio. Chi dà la vita? Gesù. E come possiamo trovare la vita nel mezzo di visioni di morte, chi ci aprirà gli occhi per vedere visioni di vita? Quando ci sono così tanti spettacoli di morte, è Dio, è Gesù che ci apre gli occhi, ma abbiamo bisogno di fede.

            Gli occhi della fede.  C’è una cosa positiva di questo virus COVID-19 – e lo dico di nuovo con una profonda compassione per quanti stanno soffrendo –, ma con gli occhi della fede noi vediamo anche vita. Molti di noi pensano che se paghiamo i premi più alti per l’assicurazione saremo salvi. No! La vostra assicurazione non può assicurare la vita eterna. Nei modelli di auto più avanzati quando urtiamo qualcosa si gonfia l’air bag. Chi è il salvatore, l’air bag? No, l’air bag non salva, Gesù salva! Abbiamo molte telecamere di sicurezza, ma sono quelle che ci salvano? No, quelle ci fanno solo vedere chi ha rubato (dopo il furto). Dicono che ci sono tutti quei programmi per proteggere le nostre email e salvarci dagli hacker.

            Chi salva? Gesù salva. Questo virus ci sta rendendo consapevoli che tutti i nostri successi e invenzioni, per quanto buoni possano essere in sé stessi, non garantiscono la vita. Le persone si stanno allora rivolgendo alla fede, a Dio. E ai giovani chiedo: non vergognatevi di Gesù, non vergognatevi della fede, perché vedrete la vita e vivrete la vita, attraverso Gesù e attraverso la fede.

            Ho visto l’intervista a un medico in Italia, alla quale è stato chiesto quale fosse la sua esperienza, e lei diceva che le si spezzava il cuore nel vedere pazienti che facevano fatica a tirare ogni respiro, e parenti impossibilitati a stare loro vicino. E diceva: «Come medico mi si spezza il cuore, perché anch’io sono umana, e so quali sono le mie possibilità di salvare una vita sono limitate. Ma poi – ha detto – ci prendiamo cura degli altri medici, delle madri che vengono a partorire. Quando sento il primo pianto di un bambino, so che Dio è con noi».

            C’è vita, c’è un futuro: questa non è un’affermazione medica, è un’affermazione di fede. Lei vede la vita. Questa malattia dovrebbe essere per la gloria di Dio, ma noi dovremmo cooperare con il Dio della vita attraverso la nostra fede.

            Le tombe in cui siamo sepolti. E l’ultimo punto che vorrei trattare è questo. Gesù si recò dalla famiglia di Lazzaro per esprimere solidarietà ed empatia, ma oltre a questo Gesù si recò alla tomba di Lazzaro. Si recò nel luogo dei morti. Questo andare alla tomba di Lazzaro è una prefigurazione del suo stesso ingresso nel luogo della morte: nel Credo diciamo anzi che Gesù discese negli inferi, il luogo dei morti, per ristabilire la vita, la comunione con Dio.

            Il luogo dell’isolamento diventa luogo di comunione. Gesù piange per l’amore che ha per Lazzaro, Gesù ha amato e ha pianto per qualcuno che amava. Marta era imbarazzata, non voleva che Gesù rimuovesse la pietra e che ci fosse un contatto tra il morto e i vivi. E il motivo era il cattivo odore. Erano già passati quattro giorni, e per alcuni ebrei l’anima rimaneva insieme al corpo per tre giorni; perciò il quarto giorno il defunto era completamente morto, e faceva cattivo odore per questo. Ma Gesù riesce a sopportare il nostro cattivo odore, va alla tomba e richiama Lazzaro in vita. Cari fratelli e sorelle, quali sono le vostre tombe? Quali sono oggi le tombe della società, dove siamo sepolti, dove siamo senza vita? Dov’è che mandiamo cattivo odore?

            Ci sono molte persone che stanno perdendo il lavoro, specialmente chi ha lavori saltuari. E questa povertà e mancanza di risorse potrebbe diventare ora una tomba per molti poveri. Quelli che ne hanno la possibilità potrebbero andare a queste tombe e liberare i poveri che hanno debiti con loro? Liberarli dai loro prestiti, liberarli dai loro debiti.

            Qual è la vera sicurezza? Facciamo appello ai paesi ricchi: in questo momento potete rimettere i debiti dei paesi poveri, perché possano usare le loro scarse risorse per sostenere le loro comunità, invece che pagare gli interessi che voi imponete ai paesi poveri? Potrebbe la crisi del coronavirus portare a un giubileo, alla remissione del debito, perché quanti si trovano nelle tombe dell’indebitamento possano trovare vita? Slegateli, liberateli.

Un’altra tomba: molti paesi spendono tanto in armamenti, in armi, per la sicurezza nazionale. Possiamo fermare le guerre? Possiamo smettere di produrre armi? Possiamo uscire da queste tombe e spendere questo denaro per una vera sicurezza?

            Ora ci rendiamo conto che non abbiamo abbastanza maschere, mentre ci sono pallottole in abbondanza. Non abbiamo abbastanza ventilatori, ma abbiamo milioni di pesos, dollari, euro spesi in un solo aeroplano per attaccare. Possiamo avere un cessate il fuoco permanente, e nel nome dei poveri, liberare risorse per la vera sicurezza, l’educazione, l’abitazione, l’alimentazione?

            Quanti di noi stanno vivendo da più di quattro giorni nelle tombe della rabbia, della gelosia, della mancanza di perdono, per favore escano! E comincino a parlare, a sciogliere la loro bocca, non per le chiacchiere ma per una parola d’amore, una parola di perdono. Il tempo è breve, non sappiamo quanto durerà la vita. Allora uscite dalle tombe, incontrate i vostri amici, incontrate gente ed esprimete parole di perdono, di comprensione. Slegate i vostri cuori, fateli battere di nuovo. Che i cuori di pietra diventino cuori di carne, che vivano.

            E come Gesù piangete per amore. E se insieme a lui visitiamo le nostre tombe e le tombe di altri, portando vita grazie alla fede, speriamo che le sue lacrime diventino lacrime di gioia. E Lazzaro tornerà a cantare. È vero. Questa malattia è per la gloria di Dio. Per oggi, condividete le vostre tombe con la vostra famiglia e i vostri cari, e vedete come Gesù vi fa uscire dalla tomba, portandoci alla vita.

https://re-blog.it/2020/04/10/card-tagle-nellemergenza-rimettere-i-debiti

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                                                                         DIRITTI      

                                                      Quali diritti non hanno le donne?

     Donne e uomini hanno un trattamento diversificato, soprattutto in alcune Nazioni. La discriminazione di genere esiste e, se il fenomeno ti preoccupa, ti indichiamo alcuni dati interessanti. Spesso, senti parlare di “parità di genere”, di emarginazione delle donne dal contesto sociale e lavorativo, di diritti negati. Forse, pensi che si tratti di esagerazioni, di episodi circoscritti, di paradossi che non corrispondono al vero. Ti dobbiamo contraddire: sei in errore. La discriminazione di genere esiste ed è molto radicata in Italia, in Europa e nella comunità internazionale. Piuttosto che negare a prescindere l’esistenza del fenomeno, dovresti quindi interrogarti su quali diritti non hanno le donne.

     , la situazione ha una portata diversa a seconda del contesto giuridico che prendi in considerazione e, all’interno dello stesso, a seconda della Regione in cui ti trovi a vivere o lavorare. Quindi, se è vero che nell’ambito dell’Unione Europea si sostiene la piena parità tra uomini e donne, è anche vero che in alcuni Paesi, soprattutto quelli del continente asiatico ed africano, la condizione della donna è ancora oggi molto problematica. Per questo motivo, ci sembra opportuno distinguere le situazioni e presentarti un quadro diversificato in base al territorio di appartenenza.

     La condizione della donna in Italia. Nel nostro Paese, a partire dal 1948, anno di adozione della Costituzione italiana, è stato ufficialmente affermato il principio di pari opportunità tra uomini e donne. I padri costituenti si sono preoccupati di dare massima diffusione al nuovo criterio e, per tale motivo, hanno guardato a tutti i settori della vita quotidiana. In particolare, lo hanno imposto sia per la vita lavorativa sia in ambito familiare. Così, ad esempio, a parità di lavoro la donna ha diritto alla stessa retribuzione dell’uomo e, con riferimento alla gestione dei figli, la madre esercita una potestà del tutto analoga a quella del padre. C’è anche da dire, però, che i precetti costituzionali non hanno trovato immediata attuazione in Italia. E, quindi, per un arco di tempo piuttosto lungo, la donna è rimasta priva dei diritti riconosciuti nella carta fondamentale. Così, ad esempio, per l’attuazione della parità familiare si è dovuto attendere addirittura il 1975: soltanto in tale data, infatti, è stata adottata la riforma del diritto di famiglia che, tra le altre cose, ha soppresso la “patria” potestà e l’ha sostituita con la potestà “genitoriale”.

     Gradualmente, nel corso degli anni, si sono compiuti significativi passi in avanti nel riconoscimento alla donna del posto che merita nella società. Ciò non vuol però dire che l’obiettivo della parità di genere sia stato raggiunto. Se, infatti, da un lato donne e uomini hanno teoricamente diritto allo stesso trattamento giuridico, dall’altro lato, non sempre questo principio trova attuazione nella realtà dei fatti.

     Per fare un esempio: considera la condizione della donna lavoratrice. Statisticamente, il livello di disoccupazione è molto più elevato rispetto a quello degli uomini; quando, poi, una donna viene assunta è assoggettata a forme contrattuali precarie e a termine anche se svolge la stessa attività degli uomini con il “posto fisso”. Tale situazione ruota soprattutto attorno al “problema” della maternità: posto che la donna può diventare – per sua stessa natura – mamma e, di conseguenza, può esercitare tutte le facoltà ad essa connesse, i datori di lavoro non le accordano fiducia. Una disparità di trattamento evidente e alla portata di tutti.

     Inoltre, se guardi alle posizioni di vertice della pubblica amministrazione o dei grandi gruppi imprenditoriali, ti rendi conto di come la percentuale femminile sia bassissima. Le donne, infatti, incontrano molte più difficoltà nel far prevalere la meritocrazia e ottenere i posti apicali che le spetterebbero per diritto. Ancora oggi, in molti casi, la donna viene, dunque, concepita soltanto come l’angelo del focolare domestico.

      La condizione della donna in Europa. Quando parliamo di condizione della donna in Europa facciamo riferimento a una situazione parzialmente frastagliata: devi, anzitutto, distinguere tra Paesi membri dell’Unione Europea e Stati europei non aderenti. Tra i primi, poi, occorre selezionare la situazione giuridica a seconda della tradizione storica del paese coinvolto. Ti rendi facilmente conto di come non sia possibile presentare un quadro di insieme univoco e dettagliato. In linea di massima, però, è utile fornire alcune indicazioni generali: mentre, infatti, nei paesi del nord Europa la situazione appare meno problematica, in tutti gli altri Stati si possono riscontrare ipotesi di arretratezza culturale e giuridica.

     Prendiamo ad esempio il contesto giuridico della Bulgaria. In tale Paese, per espressa affermazione della Commissione europea, lo stato della legislazione nazionale non è concretamente in grado di garantire l’attuazione del principio di non discriminazione tra uomini e donne. Per superare queste divergenze, all’interno dei Trattati, le istituzioni europee si sono prefissate l’obiettivo di raggiungere l’uguaglianza di genere, di combattere la discriminazione in base al sesso e di eliminare le disparità in ogni strategia per l’occupazione.

     La condizione della donna nel resto del mondo. Complessa e problematica appare la condizione femminile nel resto del mondo. La situazione ti appare immediatamente familiare se guardi ai paesi asiatici in cui continua a essere presente una visione medievale della donna. Pensa, ad esempio, alla Cina o all’India, nazioni in cui sono predomina un netto squilibrio tra i due sessi.

    I diritti negati alle donne sono numerosissimi: si va dal diritto all’istruzione al diritto di scegliere l’uomo con cui costruire una famiglia (pensa al fenomeno dei matrimoni combinati o delle spose bambina). In alcuni casi, è messo in pericolo lo stesso diritto alla vita: la politica del figlio unico, infatti, induce alcuni genitori a propendere per l’aborto se, quando viene comunicato il sesso del nascituro, si scopre che nascerà una bambina; nei casi più gravi, si ricorre addirittura all’omicidio della neonata. Alle donne viene anche negato il diritto a disporre della propria sessualità: spesso, figlie e sorelle vengono utilizzate come “merce di scambio” e offerte in vendita sulle strade.

     La via da percorrere è, dunque, ancora molto lunga ed articolata. Per superare i limiti culturali non sono sufficienti soltanto interventi normativi, ma è soprattutto necessaria una mobilitazione delle coscienze e un’opera di sensibilizzazione ad ampio spettro.

Tiziana Costarella      La legge per tutti      27 marzo 2020

www.laleggepertutti.it/370976_quali-diritti-non-hanno-le-donne

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

“Francesco ci insegna a riscoprire il divino che è in noi”

“Le messe senza popolo online? Non mi piacciono. Purtroppo molti preti sono stati abituati così. Per loro non c’è salvezza senza un Dio che da fuori viene a salvare l’uomo. Se si toglie loro la celebrazione della messa non sanno cosa fare. Non capiscono che il Signore è già in noi, si fa pane nella parola. Egli è dentro l’uomo e chiede solo di andare ad aiutare gli altri”.

 Alberto Maggi, (*1945) fine biblista, sacerdote e teologo, commenta il momento presente. Il Papa ha detto che è possibile, in attesa che tutto torni alla normalità, chiedere perdono a Dio dei propri peccati pregando nel silenzio. Un ritorno alla preghiera personale e intima spesso elusa da una Chiesa che vuole invece avere il controllo sui fedeli.

Padre Maggi, alcune cronache raccontano di sacerdoti che celebrano con i fedeli di nascosto. Cosa pensa?

“Assurdo. Danno anche la comunione sotto le due specie, bevendo dal calice sostenendo che tanto è sangue di Cristo e come tale non può trasmettere il virus. Questa non è fede, è fanatismo. Giocano a fare i cristiani delle catacombe e non sanno che provocano un’ecatombe”.

Un errore grossolano di visione di sé, di Dio e del mondo?

“Pensano di essere gli unici intermediari fra la gente e Dio, ma il Signore non ha bisogno di intermediari. Dio è stato per troppo tempo visto come esterno all’uomo e lontano. Gesù ha superato ciò. Giovanni dice che a chi ama il Padre, Gesù e lo stesso Padre verranno in lui. Dio si manifesta non quando alziamo le mani al cielo, ma quando ci rimbocchiamo le maniche e aiutiamo gli altri”.

Per un certo clero tutto ciò significherebbe perdere il controllo sui fedeli e per certi fedeli uscire da una visione clericale della fede.

“Se Dio sta nel cuore dell’uomo non lo puoi controllare. Ma quando scopri Dio dentro di te tutto cambia. Non devi più cercarlo e vivere per lui, ma vivi di lui. Dio non ti chiede più nulla”.

A cosa serve chiedere a Dio di fermare la pandemia?

“Dio non può fermarla, non può cambiare il corso della storia, ma può dare all’uomo la sua forza per viverla”.

Come si spiega questo tempo così difficile?

“I danni del coronavirus sono anche il prodotto di una politica che all’inizio ha privilegiato gli interessi economici di pochi a discapito del bene comune. Francesco in Laudato Sì chiede una cura per la casa comune che pochi perseguono. Il paradiso perduto è da guadagnare adesso”.

In che senso?

“Francesco fa sua una lettura profetica del racconto della creazione. Il libro della Genesi non guarda al passato, non è storia ma teologia. L’autore non descrive il rimpianto per un passato, ma la profezia per il paradiso da costruire”.

Alberto Maggi intervistato da Paolo Rodari  “la Repubblica”  28 marzo 2020

https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2020/03/28/news/il_teologo_che_errore_tutte_quelle_messe_on-line_e_tempo_di_scoprire_il_divino_dentro_di_noi_-252506559/

https://francescomacri.wordpress.com/2020/03/28/religione-francesco-ci-insegna-a-riscoprire-il-divino-che-e-in-noi

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GENITORI

Coronavirus, ecco il decalogo per i genitori separati

            Garantire ai figli di vedere mamma e papà, anche se non vivono più insieme. Il monito di un avvocato: “È diritto fondamentale e non va in quarantena”. Un bambino ha diritto a passare del tempo con entrambi i genitori, anche se sono separati. Anche se siamo in piena emergenza coronavirus, compatibilmente con le prescrizioni anti-contagio. A ricordarlo è Cammino – Camera nazionale degli avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni – il suo presidente Maria Giovanna Ruo ha rilasciato un’intervista all’agenzia di stampa Adnkronos, in cui dà alcuni consigli ai genitori che non vivono più sotto lo stesso tetto. Per fare in modo che il virus non comprometta in modo significativo le relazioni tra padri/madri e figli. A questo scopo, Cammino ha stilato un vero e proprio decalogo, che riportiamo più avanti in questo articolo.

            “I diritti fondamentali non sono in quarantena – ha detto Ruo all’Adnkronos – ma il tutto deve essere interpretato con equilibrio e buonsenso. La relazione con entrambi i genitori è un diritto fondamentale dei figli minorenni: in questo momento sono soprattutto i genitori stessi che debbono garantirlo cooperando”.

            L’avvocato invita a impegnarsi a rispettare, nei limiti del possibile, la continuità delle abitudini dei figli, specie in relazione al loro diritto di trascorrere del tempo con entrambi genitori. Eventuali cambiamenti, dettati dalle esigenze contingenti, devono comunque essere concordati in pieno spirito collaborativo. In tempi di restrizioni per contenere il diffondersi dell’epidemia, va ricordato, che lo spostamento per far visita ai figli, almeno nello stesso Comune di residenza, è lecito (ovviamente bisogna avere in tasca autocertificazione e provvedimento del giudice). Meno chiara, invece, la situazione che riguarda gli spostamenti da Comune a Comune.

            A sostegno dei minori nel periodo di vigenza delle misure di contrasto al Covid-19, l’associazione ha stilato un decalogo, utile in particolare ai genitori separati, per ricordare loro l’importanza, per un figlio, di coltivare il legame sia con una madre sia con un padre, ma sono regole buone anche per chi ha la fortuna di avere una famiglia unita. “È richiesta una rinnovata disponibilità nei confronti dei figli”, sottolinea Ruo. “Ad esempio, se debbo andare a fare la spesa, invece che portarmi i bambini a fare la fila, è meglio che vadano con il papà. E che casomai insieme evitiamo troppi spostamenti accorpando giorni e pernotti”, suggerisce l’avvocato.

            Ecco, dunque, le indicazioni contenute nel decalogo di Cammino:

  1. Ogni decisione assunta dai genitori e dagli adulti, anche in questa situazione emergenziale, deve essere orientata al migliore interesse della persona di età minore;
  2. Le persone di età minore hanno il diritto a mantenere una relazione profonda e un rapporto significativo con entrambi genitori, e continuare a essere cresciuti, tutelati ed educati da entrambi, compatibilmente con le restrizioni in atto e la necessità di tutela della salute pubblica e personale loro e dei familiari;
  3. I bambini e gli adolescenti hanno il diritto di comunicare emozioni, sensazioni, timori, frustrazioni e opinioni, sentendosi accolti e rispettati, senza sentirsi giudicati;
  4. Le persone di età minore hanno diritto essere informati sulle vicende che sta attraversando il Paese in cui vivono, a formarsi una propria opinione e a esprimerla liberamente;
  5. Le persone di età minore hanno il diritto alla salute, e a ricevere tutte le informazioni necessarie per garantire tale diritto, nel rispetto della loro età e della loro capacità di discernimento;
  6. I bambini e gli adolescenti hanno diritto di conservare intatti i loro affetti, di mantenere la relazione con i parenti di entrambi i rami genitoriali, con le figure di riferimento e con gli amici;
  7. I bambini e gli adolescenti hanno diritto di continuare a ricevere un’educazione e un’istruzione che li aiuti a sviluppare personalità e capacità, valorizzandone attitudini e inclinazioni;
  8. Le persone di età minore hanno diritto al riposo, al tempo libero, al gioco, alle attività ricreative e motorie, e alla libera partecipazione alle attività culturali e artistiche;
  9. I bambini e gli adolescenti hanno il diritto di ricevere protezione e assistenza, di sentirsi rassicurati, confortati e sostenuti anche nell’uso di strumenti telematici;
  10. I figli hanno il diritto a non essere coinvolti strumentalmente nelle decisioni economiche dei genitori e di comprendere le ragioni del disagio economico dei mutamenti dello stile di vita familiare.

La legge per tutti                    27 marzo 2020

www.laleggepertutti.it/382031_coronavirus-ecco-il-decalogo-per-i-genitori-separati

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NONNI

Nonni e nipoti

La previsione normativa di un diritto degli ascendenti, ad intrattenere rapporti significativi con i nipoti minori, molto più di quella del diritto speculare dei minori ai rapporti con gli ascendenti, fa sì che, anche qualora la frequentazione con i nipoti non sia possibile perché resa contraria all’interesse dei minori dall’ostilità dei genitori verso gli avi, gli avi stessi possano trovare tutela almeno nel risarcimento del danno, causato loro dalle impedite frequentazioni.

1. La frequentazione tra nonni e nipotini. È notorio, ed è anche scientificamente confermato da chi studia la psicologia infantile, come gli incontri e le frequentazioni con i nonni siano, in generale, assai utili, proficui e formativi per i bambini e per gli adolescenti. D’altro canto, è nella regola dei casi che sia vero anche l’opposto, e che poter trascorrere tempo con i nipoti sia desiderato dai nonni, e sia per loro di grande aiuto e di grande giovamento. Sempre nella normalità dei casi, del resto, questi incontri e queste frequentazioni sono la regola, e vengono assai favoriti dai genitori, che, non di rado, tra l’altro trovano proprio nei nonni un appoggio costante, che consente ad essi di garantire le necessarie cure alla prole, senza dover rinunziare al lavoro e alla carriera. Insomma, non è certo una novità osservare che, nella fisiologia della famiglia, e ove questo sia possibile materialmente, le frequentazioni tra nonni e nipotini sono copiose, e sono assai fruttuose per i nipoti, per i nonni e anche per i genitori.

            Vi sono anche casi, tuttavia, in cui i genitori, per contrasti con i propri parenti o con i parenti dell’altro ramo genitoriale, o anche per altre ragioni, si oppongono a tali frequentazioni, pure fino al punto di impedirle del tutto. Allora, cosa può fare un nonno a cui, dai genitori, sia impedito di incontrare i nipotini?

            2. La normativa attuale. L’eventualità appena sopra evocata è, oggi, direttamente riconducibile ad almeno tre previsioni normative. In primo luogo, l’articolo 315-bis, 2° comma, codice civile, sancisce che “il figlio ha diritto…di mantenere rapporti significativi con i parenti”, e, dunque, anche con i nonni. In secondo luogo, l’articolo 337-ter, 1° comma, codice civile, prevede, anche per la fase di crisi della famiglia, che “il figlio minore ha il diritto…di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

Infine, e direi soprattutto, l’articolo 317-bis codice civile, rubricato “rapporti con gli ascendenti”, dispone, al 1° comma, che “gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni”.

Tutte queste previsioni, come è noto sono recenti, e sono state calate nel codice civile solo a partire dal 2006 (con la legge 54, 8 febbraio 2006 sull’affidamento condiviso, l’equivalente della previsione attualmente nel 337-ter codice civile; con la riforma della filiazione del 2012 e 2013 le altre due).

3. La situazione precedente al 2006. Anche prima dell’entrata in vigore delle espresse previsioni appena richiamate, nondimeno, non si dubitava dell’esistenza di un diritto dei nipoti minorenni ad incontrare e frequentare gli avi, né della possibilità direttamente per gli avi di agire, per tutelare e rendere effettivo codesto diritto dei nipoti. In estrema sintesi, il meccanismo, che faceva leva sugli articoli 333 e 336 codice civile, può essere così riassunto: data l’incontroversa utilità, nella normalità dei casi, delle frequentazioni tra nonni e nipoti, si poteva presumere che, il genitore che avesse impedito tali frequentazioni, avrebbe per questo abusato della, allora vigente, potestà genitoria; si sarebbe trattato, peraltro, di un abuso, non così grave da giustificare la decadenza dalla potestà, ai sensi dell’articolo 330 codice civile, ma abbastanza grave da giustificare l’adozione da parte del giudice di “provvedimenti convenienti”, ai sensi dell’articolo 333 codice civile; tali provvedimenti, poi, avrebbero potuto consistere esattamente nell’imporre ai genitori di consentire quelle frequentazioni nonni-nipoti che originariamente erano state impedite; dato assai importante, infine, era che, ex articolo 336 codice civile, tra i legittimati a chiedere al giudice l’intervento ex articolo 333, compaiono anche i “parenti”, e, quindi, anche i nonni stessi. Insomma, già prima del 2006, il nonno, al quale fosse stato impedito di frequentare i nipoti, avrebbe avuto legittimazione per chiedere al giudice di ordinare e imporre ai genitori le frequentazioni dapprima impedite.

            Ciò, tuttavia, sempre che la frequentazione fosse stata, nel singolo caso concreto, davvero nell’interesse dei nipoti minori. E tale interesse, ricorrente in generale, poteva essere dimostrato assente nel caso concreto, non solo in ipotesi estreme legate alla personalità dell’avo (come, ad es., atteggiamenti violenti, o, peggio, inclinazioni pedofile), ma anche in conseguenza proprio delle tensioni tra avi e genitori, che avevano portato ad impedire la frequentazione.

            Detta in altri termini, proprio il conflitto tra genitori e nonni, manifestazione del quale era anche il divieto di incontrare i nipotini, rischiava di assurgere anche a valida ragione per reputare quegli incontri, nel caso concreto, contrari all’interesse del minore, e, dunque, non “coercibili” dal giudice con un intervento ex articolo 333 codice civile E, va subito notato, questa situazione pare, a tutt’oggi, immutata, nonostante le sopravvenute specifiche previsioni normative in argomento. Ma conviene, ora, proprio tornare a queste previsioni normative.

4. Il diritto dei nipoti minori a frequentare i nonni. La prima di esse, in ordine di tempo, è quella dettata per la fase di crisi della coppia genitoriale, dapprima con la legge 54 del 2006 sull’affido condiviso, e poi trasmigrata nell’articolo 337-ter codice civile In essa si è sancito il diritto dei figli minori a conservare i rapporti con parenti e ascendenti di ogni ramo genitoriale, anche nella crisi della famiglia.

            La seconda, sempre in ordine di tempo, di tali previsioni è il 2° comma dell’articolo 315-bis codice civile, introdotto nel codice con la Legge 219. 22 dicembre 2012 che ha avviato, come è noto, la riforma della parentela e della filiazione. In questa previsione, il diritto dei figli a mantenere rapporti con i parenti (e dunque anche con i nonni) è stato scolpito in termini generali, e non solo con riferimento alla crisi della famiglia. L’esistenza di tale diritto – come ho ricordato nel paragrafo precedente – già era indiscussa, del resto, anche prima di ogni previsione normativa espressa, e, se mai, il problema era la concreta realizzazione di esso in casi di conflitto tra nonni e genitori.

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/16/18G00006/sg

https://leg16.camera.it/561?appro=542

                Problema che, come pure si è già notato, non è stato risolto dalla nuova previsione normativa, poiché ancora oggi, ove il conflitto tra nonni e genitori renda l’incontro tra nonni e nipoti minori contrario all’interesse di questi ultimi, tale incontro non potrà essere imposto nemmeno dal giudice.

5. …e il diritto dei nonni a frequentare i nipoti minori. Nemmeno la terza, sempre in ordine cronologico, delle nuove previsioni normative in argomento, del resto, ha risolto il problema ora richiamato, benché quest’ultima si manifesti differente dalle due precedenti, e, in un certo senso, davvero innovativa.

            Questa terza previsione, come già ho detto, è contenuta nell’articolo 317-bis, codice civile, inserito nel codice con il Decreto legislativo 154 del 2013 (che ha pressoché completato la riforma della filiazione e della parentela) e specificamente dedicato ai rapporti degli ascendenti con i nipoti. In essa, si stabilisce che i nonni hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. In essa, dunque, non tanto si prevede, come nelle altre due ricordate, il diritto dei nipoti al rapporto con i nonni, bensì il diritto dei nonni al rapporto con i nipoti. E, se il diritto dei nipoti era indiscusso già prima di ogni previsione specifica sul punto, non altrettanto può dirsi del diritto dei nonni.        www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/01/08/14G00001/sg

In altri termini, in precedenza era indiscusso il diritto dei nipoti a frequentare gli avi, e pure era indiscusso che anche gli avi avessero legittimazione per ottenere la “esecuzione” di tale diritto dei nipoti, salvo che ciò fosse, nel caso concreto, contro l’interesse dei nipoti stessi; non era affatto pacifico, viceversa, l’esistenza di uno speculare diritto dell’avo.

            Del resto, come pure già si è notato, l’avo che avesse voluto ottenere dal giudice l’imposizione degli incontri, avrebbe dovuto agire per tutelare il diritto dei nipoti, e non un, dubbio, diritto proprio. Oggi, viceversa, il nuovo articolo 317-bis codice civile crea anche il diritto dell’avo ad avere frequentazioni con i nipoti minori. Questo “diritto”, tuttavia, è un diritto singolare, giacché, al 2° comma, dello stesso articolo 317-bis codice civile, si stabilisce che, nel caso di impedimento all’esercizio del diritto, l’avo possa ricorrere al giudice per ottenere i provvedimenti più idonei “nell’esclusivo interesse del minore”. Per quasi di trovarsi di fronte, vale a dire, a un, assai curioso, diritto nell’interesse altrui.

            Ma, forse, così non è. Al di là di ogni considerazione di teoria generale, nondimeno, appare chiaro che, nel suo complesso, anche l’articolo 317-bis codice civile, almeno con riferimento alla possibilità di fare imporre al giudice quelle frequentazioni che i genitori del minore hanno impedito, non muta lo scenario rispetto al passato.

            Se le frequentazioni risultino contrarie, in concreto, all’interesse del nipote minorenne, proprio a causa delle tensioni e dei conflitti tra i genitori e i nonni del minore, il giudice, anche in presenza del diritto dell’avo di cui all’articolo 317-bis codice civile, non potrà imporre le frequentazioni.

            Resta da notare, peraltro, come nell’interesse altrui sia costruita la tutela del diritto dell’avo consistente nella possibilità di ottenere l’imposizione degli incontri, e non il diritto dell’avo in sé. Allora da ciò consegue, credo, che di fronte alla lesione del diritto dell’avo provocata dal divieto posto dai genitori alle frequentazioni con i nipoti, saranno comunque possibili le tutele generali, allorché il divieto risulti ingiustificato.

            Se il concreto interesse a frequentare i nonni non vi sia, a causa di un conflitto tra nonni e genitori, e se questo conflitto sia occasionato proprio dai genitori, in altri termini, consegue una lesione ingiusta, causata dai genitori, al diritto dell’avo a frequentare i nipoti, che, a mio parere, può dar luogo alla tutela risarcitoria.

                Poiché oggi il diritto dell’avo a frequentare i nipoti minorenni è stato espressamente sancito dalla legge, insomma, la condotta e l’atteggiamento dei genitori potranno anche essere tali da impedire comunque le frequentazioni, rendendole contrarie in concreto all’interesse dei minori, ma non potranno cancellare l’esistenza del diritto, né impedire la tutela di esso almeno in via risarcitoria.

            Giovanni Francesco Basini         Filo diritto      26 marzo 2020

www.filodiritto.com/nonni-e-nipoti?utm_source=newsletter-apr&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter

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                                                             NULLITÀ MATRIMONIALE

Sentenza ecclesiastica ed effetti sui rapporti patrimoniali tra coniugi

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza interlocutoria n. 5078, 25 febbraio 2020

https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwiX0uvQzNvoAhWlqHEKHeKVAd0QFjAAegQIBBAB&url=http%3A%2F%2Fwww.cortedicassazione.it%2Fcassazione-resources%2Fresources%2Fcms%2Fdocuments%2F5078_02_2020_oscuramento_no-index.pdf&usg=AOvVaw3iHUnkvlRYa0x97nW3FMvJ

Sugli effetti di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario rispetto alle decisioni dei giudici interni sul divorzio e sulla concessione di un assegno divorzile, la Corte di Cassazione, ha chiamato in aiuto le Sezioni Unite. La pronuncia del tribunale ecclesiastico regionale etrusco, resa esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, era stata delibata dalla Corte di appello successivamente al passaggio in giudicato della dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, mentre le questioni legate alle decisioni economiche accessorie erano ancora pendenti in Cassazione. Tenuto conto del contrasto della giurisprudenza sugli effetti della nullità del matrimonio e, in particolare, se essi possano determinare la cessazione della materia del contendere nel giudizio sulle statuizioni economiche, la I Sezione civile, ricostruita l’evoluzione della giurisprudenza sul punto, inclusi gli interventi della Corte costituzionale, ha sospeso il procedimento e rimesso la questione alle Sezioni Unite.

 In particolare, alla luce anche del Concordato come modificato nel 1984, le Sezioni Unite dovranno chiarire se il giudicato interno, che dichiari la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, “sia idoneo a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla corte di appello (con sentenza passata in giudicato), solo in presenza di statuizioni economiche assistite dal giudicato o anche in assenza di dette statuizioni”. In quest’ultimo caso, inoltre, le Sezioni Unite dovranno anche precisare se il giudice civile possa regolare, in linea con la legge n. 898 del 1970, i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi malgrado il vincolo consacrato in un atto matrimoniale nullo.

Marina Castellaneta   27 marzo 2020

www.marinacastellaneta.it/blog/sentenza-ecclesiastica-ed-effetti-sui-rapporti-patrimoniali-tra-coniugi-la-parola-alle-sezioni-unite.html

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PANDEMIA

Vivere ai tempi del coronavirus. Interrogativi per un nuovo futuro

Pochi anni dopo aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 1982, lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez pubblicò il romanzo L’ amore ai tempi del colera. Anni prima, il medico svedese Axel Munthe, accorso a Napoli nel 1884 per curare le vittime dell’epidemia di colera, scrisse le sue Lettere da una città dolente. In entrambi i casi, l’epidemia causata dal batterio Vibrio choleræ diviene lo sfondo di storie profondamente umane (immaginate nel romanzo di Márquez e reali nelle lettere di Munthe). Márquez e Munthe ci invitano a contemplare come sia possibile vivere “ai tempi” di un’epidemia, quali testimoni involontari delle sofferenze umane, desiderosi di aiutare i più bisognosi e coscienti dei rischi di contagio.

Oltre a questi due libri, la letteratura non ha mancato di offrire pagine esemplari che ci aiutano a comprendere cosa e come si vive, e quanto si soffre, durante le epidemie. Tra le molte opere possiamo ricordare, in primo luogo, I promessi sposi di Alessandro Manzoni (1827), a proposito della peste che afflisse il nord della penisola italiana negli anni 1629-31 e che fu uno degli ultimi focolai della secolare pandemia di peste – la “peste nera” – che ebbe il suo culmine nel continente europeo intorno al 1350.

In secondo luogo, nel suo libro intitolato La peste (1947), Albert Camus ci immerge nel dramma della peste che travolge la città algerina di Oran nel 1849, invitando a interrogarci sulla natura e sul destino della fragile condizione umana. Ai tempi del colera e della peste, ci domandiamo chi siamo, come viviamo, cosa causa tutto ciò e dov’è il nostro Dio quando soffriamo. Mentre cerchiamo risposte, ciò che emerge è l’urgente necessità di cura, con un’attenzione privilegiata a chi è più povero e vulnerabile.

In un libro più recente, il medico e antropologo Paul Farmer afferma che nel tempo del colera occorre anche interrogarsi in modo critico sull’insieme delle condizioni sociali, culturali e politiche che caratterizzano la vita delle persone e che dovrebbero far parte integrante di ogni intervento volto a promuovere la salute nel territorio. Facendo eco alla tradizione biblica e spirituale, l’autore invita alla conversione, personale e sociale, interiore e strutturale. Ai tempi del colera, e di ogni altra patologia che affligga le persone e l’umanità, occorre considerare tutte le molteplici dinamiche che influiscono sulla salute, promuovendo condizioni di vita che favoriscano i cittadini, mentre si rafforzano i sistemi sanitari e si offrono cure e servizi sanitari specifici, capaci di rispondere ai bisogni di salute delle persone nei diversi contesti in cui esse vivono sul nostro Pianeta. Il presupposto è che ogni fattore sociale influisce sulla salute: dalla violenza all’educazione, alle possibilità lavorative e di alloggio, alle infrastrutture sociali (strade, fogne, reti idriche ed elettriche).

            Promuovere la salute ai tempi del coronavirus richiede quindi di concentrarsi, in primo luogo, sulle relazioni tra professionisti del settore sanitario e pazienti, contenendo l’infezione e mitigandone gli effetti. In secondo luogo, è necessario intervenire sul territorio con misure di salute pubblica, volte, anche in questo caso, a contenere e, se ciò non è possibile o non è sufficientemente efficace, a mitigare la diffusione dell’infezione e la gravità delle sue conseguenze. La quarantena di due settimane – scelta autonomamente o imposta -, come pure la riduzione degli spostamenti, la cancellazione di voli e di eventi e l’isolamento di città e regioni sono esempi di interventi di salute pubblica per affrontare l’emergenza. In terzo luogo, come è mostrato dalla progressiva diffusione della pandemia, sono necessari interventi protettivi globali per far fronte all’emergenza sanitaria.

Infezioni. Vivere ai tempi del coronavirus richiede di riflettere in modo critico su come stiamo promuovendo la salute dei singoli cittadini, dell’umanità e del Pianeta. Su scala mondiale, stiamo vivendo ciò che tante persone hanno vissuto e vivono come esperienza personale a motivo di pandemie (come nel caso dell’Aids, causata dal virus Hiv, o dell’influenza stagionale o della tubercolosi e della malaria) o epidemie (come quelle causate negli anni recenti da svariati virus: influenza aviaria, influenza suina, Ebola, Zika, Sars e Mers) di cui soffrono o hanno sofferto.

Si stima che, nel 2019, 37,9 milioni di persone nel mondo siano state positive al virus Hiv. Se consideriamo le stime complessive dall’inizio della pandemia, le persone risultate sieropositive sono 74,9 milioni, con 32 milioni di decessi causati dall’Aids.

Si calcola che, nel 2018, 3,2 miliardi di persone vivessero in aree a rischio di trasmissione della malaria in 92 Paesi del mondo (soprattutto nell’Africa sub-sahariana), con 219 milioni di casi clinici e 435.000 morti, di cui il 61% erano bambini con meno di 5 anni.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, 10 milioni di persone in tutto il mondo si sono ammalate di tubercolosi nel 2018, con oltre 1,2 milioni di decessi, di cui l’11% tra bambini e ragazzi con meno di 15 anni.

Questi dati sono sconcertanti e rivelano le dimensioni drammatiche delle sofferenze causate da malattie infettive per le quali disponiamo di cure – come nel caso della tubercolosi e della malaria -, o che, grazie alle terapie disponibili, sono divenute croniche, come l’Aids. Probabilmente nessuna di queste patologie ci riguarda direttamente e le consideriamo infezioni che affliggono altre persone, lontane da noi, che vivono in luoghi sconosciuti o che non frequentiamo. Nonostante ciò, milioni di persone nel mondo ne soffrono le conseguenze.

L’unica eccezione è l’influenza: l’infezione virale che ogni inverno, nel nord del mondo, diviene pandemica. All’inizio della stagione influenzale, il monitoraggio internazionale consente di identificare il virus dell’influenza specifico e, condividendo l’informazione, il vaccino è preparato ad hoc e distribuito in ogni Paese del mondo. Insieme al vaccino, la terapia antibiotica di cui disponiamo consente di trattare le infezioni batteriche secondarie che possono associarsi a infezioni influenzali. Nonostante ciò, secondo le stime, a livello mondiale tra 290.000 e 650.000 persone muoiono a causa del virus influenzale. Negli Stati Uniti, nell’attuale stagione influenzale, i Centri deputati al controllo e alla prevenzione delle malattie (Cdc) indicano che, al 18 gennaio 2020, ci sono stati 15 milioni di casi di influenza (su una popolazione di 327,2 milioni), 140.000 ricoveri e 8.200 decessi.

Per quanto sorprendenti, queste stime impallidiscono a confronto con quella che pare essere stata la pandemia influenzale recente più grave, denominata “spagnola”, nel 1918-19. Il virus si diffuse in tutto il mondo. Si ritiene che circa 500 milioni di persone – un terzo della popolazione mondiale – siano state infettate da questo virus, con almeno 50 milioni di decessi a motivo dell’alta mortalità del virus. Senza vaccino e senza antibiotici per proteggere dalle infezioni batteriche associate, gli unici modi in cui fu possibile tentare di contenere e mitigare la diffusione della pandemia furono l’isolamento, la quarantena, la buona igiene personale, l’uso di disinfettanti e le riduzioni degli eventi pubblici, ossia quanto stiamo attuando ai tempi del coronavirus.

Ciò che stiamo vivendo attualmente non ha ancora le tragiche proporzioni di tali infezioni, passate o attuali. Scienziati e clinici stanno studiando se il coronavirus abbia la stessa virulenza e mortalità del virus influenzale stagionale, quanto esso resista nell’ambiente esterno, come si diffonda e ci si contagi, cosa occorra fare per proteggersi. Notando la rapidità di diffusione del virus nel mondo nelle recenti settimane, non possiamo escludere che oggi, domani o nei prossimi giorni ciascuno di noi possa risultare positivo a esso. Mancando ancora un vaccino, pur essendovi già vaccini sperimentali di cui si sta verificando l’efficacia, e in assenza di terapie mirate, le misure sanitarie volte a contenere il diffondersi dell’infezione sono ciò di cui disponiamo ora nel mondo.

Prossimi. Tutti siamo a rischio. Possiamo contrarre l’infezione e diffonderla ad altre persone, vivendo il doppio ruolo di vittime e di diffusori dell’infezione. Malattie ed epidemie sembrano accorciare e perfino eliminare distanze e differenze tra le persone, pur separando e isolando l’uno dall’altro. Quando si è affetti dalla stessa patologia – infettiva o meno -, la distinzione tra l’individuo e l’altra persona si affievolisce. Si scopre una vicinanza esperienziale, una prossimità causata dalla malattia, un’intimità nel condividere la necessità di guarigione. Sappiamo molto bene, perfino troppo bene, cosa l’altra persona viva, soffra, desideri e speri. Si tratta di una solidarietà né cercata, né voluta, ma vissuta. Nel cammino comune, non scelto, in cui l’infezione ci accomuna, ci si accompagna, anche solo a livello interiore e spirituale.

Purtroppo, anche l’opposto è possibile. Continuando a ritenerci diversi, speciali e migliori, noi evitiamo di riconoscere la nostra umanità condivisa, l’essere malati della stessa malattia, con l’ansietà e la preoccupazione che accompagnano ogni sforzo di guarigione. Invece di scoprirci insieme e prossimi in una sofferenza che non fa differenze, regna la separazione (“non siamo come loro”), isolando ulteriormente e compromettendo le possibilità di sostegno solidale.

Ai tempi del coronavirus. [Covid-19, da: COronaVIrus Disease-2019) è causata dal virus Sars-CoV-2. L’acronimo inglese (Severe Acute Respiratory Syndrome CoronaVirus 2) indica la grave sindrome respiratoria acuta causata dal virus. In entrambi i casi, i nomi e gli acronimi ufficiali sono stati scelti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità].

 L’attuale pandemia globale, che continua a diffondersi all’interno delle nazioni affette e a infettare persone in nuovi Stati, ci chiede di prestare attenzione al modo in cui, ai tempi del coronavirus, la nostra vita, a livello personale e collettivo, nelle sue dimensioni più ordinarie, stia cambiando.

La nostra maniera di agire è influenzata, modificata e regolata diversamente: è “al tempo” del virus. È il virus, con i suoi modi di contagio, che determina come interagiamo con familiari, colleghi di lavoro, vicini di casa e fedeli nelle celebrazioni religiose; come evitiamo di toccarci il viso, stringerci la mano e baciarci; come stiamo “a distanza di sicurezza” da chi ci circonda e ci precipitiamo a lavarci le mani e il viso, se qualcuno tossisce o starnutisce vicino a noi; come limitiamo i nostri spostamenti in autobus, treno, nave e aereo; come spostiamo o cancelliamo conferenze, partite, concerti, viaggi, incontri di lavoro, cene, vacanze in crociera, serate al cinema, e anche lezioni nelle scuole e università, preferendo modalità virtuali di incontro e di insegnamento.

Anche il modo in cui contaminiamo l’ambiente cambia. Se, da un lato, immagini satellitari rivelano un clamoroso calo dell’inquinamento ambientale in Cina, a motivo delle misure volte a contenere o mitigare il diffondersi dell’infezione (fabbriche e scuole chiuse, quarantena, divieto di circolare), dall’altro, tonnellate di maschere usate stanno accumulandosi nel Paese. Trattandosi di rifiuti sanitari contaminati, per smaltirli sono necessari impianti specifici, ma quelli esistenti sono insufficienti.

La quarantena di due settimane – scelta spontaneamente o forzata – è emblematica di come il coronavirus influisca sul modo in cui gestiamo il nostro tempo, togliendoci il controllo delle nostre giornate, almeno per due settimane. Al termine della quarantena recuperiamo il margine di azione sul nostro tempo e su come lo viviamo. Ci si può domandare, però, se occorra ripetere la quarantena nel caso si sia esposti a un secondo possibile contagio. E dopo la seconda quarantena? Quante altre quarantene sono necessarie? Fino a che non siamo in grado di vaccinarci in maniera efficace contro il virus, la speranza è che non ci si debba porre la domanda.

Interrogativi autentici e false risposte. Ai tempi del coronavirus, la nostra esperienza, espressa direttamente da storie personali, o mediata da opere letterarie, o articolata dal sapere scientifico, è dominata dall’incertezza e dall’impotenza. Incerti, ci interroghiamo. Una prima serie di domande riguarda il diffondersi dell’infezione: quanto essa durerà nei Paesi in cui si sta diffondendo? Quanti Paesi saranno coinvolti? Quanti cittadini saranno infettati, e quanti moriranno? Quando cesserà l’infezione?

A questi interrogativi si aggiunge l’incertezza riguardante la capacità di far fronte alla pandemia. Ogni persona che mostra i sintomi dell’infezione respiratoria causata dal coronavirus potrà disporre di un test – di laboratorio e radiografico -, in qualunque Paese del mondo, indipendentemente dalla possibilità di pagare? Le misure sanitarie di contenimento e quelle volte a mitigare il diffondersi dell’infezione – che richiedono di isolare persone, paesi, città e regioni – sono efficaci, giustificate e proporzionate? Quando potranno essere ridotte? Disporremo di un vaccino efficace a breve termine? Chiunque potrà essere vaccinato?

Inoltre, quali saranno i costi sociali – a livello nazionale e globale – causati dalla compromissione delle attività produttive e dei trasporti con conseguenze economiche e finanziarie nazionali e globali? Quali sono le conseguenze per lavoratori precari e per le loro famiglie, che dipendono dallo stipendio settimanale, quando non possono lavorare perché sono malati o perché l’attività produttiva non può aver luogo?

L’incertezza paralizza molti, perché riduce e inibisce la capacità di controllo e di azione. Incerti, si diviene impotenti. Per costoro, l’impegno etico richiede certezze. Senza certezze non si può agire. Una difficoltà simile si vive in un altro settore di grave emergenza globale, quando è in gioco la sostenibilità ambientale e le condizioni di vita sul Pianeta sono minacciate non da un virus, ma dal nostro stile di vita, da come produciamo energia, da come consumiamo e inquiniamo. Anche nel caso della cura della nostra casa comune, vi è chi si rifugia dietro apparenti o reali incertezze, giustificando l’inazione.

Al contrario, l’impegno etico dipende dall’incertezza e conosce bene l’impotenza, ma né l’una né l’altra demotivano, lasciando le persone rassegnate e senza speranza. In modo paradossale, incertezza e impotenza alimentano l’impegno etico, stimolano la capacità inventiva, invitando a una maggiore competenza nell’affrontare situazioni complesse, ricercando soluzioni non facili. Quelle che paiono scorciatoie morali, generate dalla volontà di controllo e dalla paura, seducono. Mentre si propongono delle strategie risolutive, capaci di far fronte al disagio morale, tali scorciatoie ingannano e tradiscono. Ne sono esempio i tentativi di nascondere l’estensione reale dell’infezione in taluni Paesi, o provvedimenti che, in nome di interventi sanitari, mirano a togliere libertà sociali e diritti conquistati a fatica, utilizzando misure di salute pubblica per mascherare regimi polizieschi.

Quando mancano certezze, cercandole si rischia di costruirsele, sia creando un colpevole immaginario, distraendo dalle cause reali, sia generando cospirazioni fasulle (affermando che il virus è stato prodotto intenzionalmente in laboratorio), diffondendo notizie false, alimentando stigma (colpevolizzando gli immigrati e le minoranze), generalizzando (per esempio, proclamando che tutti gli abitanti della nazione più popolosa al mondo sono infetti), promuovendo gli approcci “terapeutici” di pericolosi ciarlatani, trasformando un’emergenza sanitaria globale nella caccia al nemico.

Il capro espiatorio. Nel corso della storia, l’essere umano ha continuato a interrogarsi, cercando di comprendere, conoscere e spiegare. Identificare la causa di ciò che viviamo e chi ne è responsabile fa parte di questa ricerca di senso. Aspettiamo risposte dalla ricerca scientifica e cerchiamo il capro espiatorio, come lo storico, filosofo e critico letterario René Girard (1923-2015) ha indicato con forza. “L’altro”, il diverso, diviene responsabile in modo esclusivo. “Noi” siamo le vittime. L’opposizione tra “colpevole” e “vittima”, che echeggia la semplificazione “cattivi” e “buoni” così popolare nelle produzioni cinematografiche di massa, ha un effetto falsamente catartico. Poiché sono gli “altri” la causa di quanto soffriamo, eliminandoli ed emarginandoli riteniamo di poter allontanare da noi ogni male, concentrando ciò che è negativo su di loro, su chi abbiamo trasformato in capro espiatorio e siamo pronti a sacrificare per il nostro bene.

La logica del capro espiatorio mostra come la sete umana di conoscenza possa venire pervertita, trasformandosi e riducendosi in una falsa attribuzione di colpa. Nella sofferenza causata dall’infezione o dalla malattia che si condivide, la possibilità di una rinnovata solidarietà esistenziale è soppiantata dalla scorciatoia emotiva che individua nell’altro, in chi non è come me – per motivi politici, culturali, religiosi, razziali, etnici e linguistici – il responsabile e il colpevole. La tragica ironia delle malattie infettive è che chi viene infettato diviene colui che infetta, mostrando la falsità di ogni semplificazione che intenda assegnare la colpa all’altro.

A livello personale e sociale, le malattie infettive rendono evidente la nostra comune vulnerabilità e dovrebbero favorire la presa di coscienza della necessità di una solidarietà condivisa: nella nostra diversità, siamo tutti uguali, con la stessa predisposizione a essere infettati e malati. Se vi sono responsabilità – per esempio, legate al nostro stile di vita, a come trattiamo gli animali, a come favoriamo il passaggio di infezioni virali da animali a esseri umani -, esse vanno individuate per poter intervenire modificando il nostro modo di agire e di vivere.

Inoltre, poiché nel mondo realtà strutturali che dipendono da ingiustizie e povertà impediscono l’accesso a servizi diagnostici e sanitari di base, dobbiamo intervenire modificando ogni struttura ingiusta. Come Paul Farmer ci ricorda, conoscere rende possibile la conversione e il cambiamento, a livello relazionale e strutturale.

L’impegno etico. Nell’affrontare ogni problema complesso e difficile come la pandemia causata dal coronavirus, l’impegno etico mira a promuovere progetti concreti che aprano possibilità di azione morale e che favoriscano cambiamenti. Concretamente, la tradizione etica considera la salute un bene prezioso, indispensabile ed essenziale, per i singoli individui e per l’intera umanità. Di conseguenza, tutto ciò che protegga e preservi la salute dei cittadini e dell’ambiente è una priorità etica e richiede impegni e investimenti adeguati e proporzionati. Investire in ciò che promuove salute è puntare sul futuro, sia che si tratti di sviluppare strutture sanitarie di base che forniscano cure primarie, sia che si intenda favorire la ricerca scientifica avanzata, capace di sviluppare nuove forme di prevenzione, diagnosi e terapia per molteplici patologie.

Il bene “salute” è – nello stesso tempo e in modo inseparabile – un bene personale e sociale, individuale e collettivo, locale e globale. Collaborazioni e impegni solidali volti a prevenire, diagnosticare e curare sono a beneficio di ciascuno e di tutti. Il bene comune della salute è vulnerabile e richiede protezione e vigilanza. Non possiamo fare a meno di occuparci della salute dell’altro, neppure se siamo così concentrati su noi stessi, in modo elitista ed esclusivo, convinti che ciò che conta, e quanto ci preme, è solo la nostra salute individuale. Chiedere il dono di una conversione profonda del cuore e della mente può esserci di aiuto per divenire persone di buona volontà, capaci di condividere la responsabilità di promuovere la salute quale bene personale e sociale.

La conversione. La fede cristiana rafforza l’urgenza dell’impegno etico per promuovere la salute quale bene personale e sociale, per ciascuno sul Pianeta, per la generazione attuale e per quelle future. Inoltre, un’autentica esperienza evangelica respinge ogni tentativo che miri a trovare spiegazioni, falsamente considerate “religiose”, che attribuiscano a Dio la responsabilità di quanto sta accadendo di male nel mondo. Dio non ci invia punizioni per la nostra cattiveria e per il nostro peccato – personale, sociale e strutturale – sotto forma di infezioni virali e pandemie. Il Dio biblico che professiamo è l’Emmanuele, il Dio con noi, compassionevole, che ci accompagna in tutto ciò che viviamo, che prende su di sé ogni nostro peccato, che – quale creatore e ri-creatore – è al lavoro per promuovere, guarire e liberare la creazione e le creature, rispettando sia la libertà umana sia quella dell’intera natura e dell’universo.

Ai tempi del coronavirus, la conversione riguarda anche le immagini idolatriche di Dio che continuano a ingannarci con false proie­zioni di una cosiddetta “giustizia divina” fatta a nostra immagine e somiglianza, invece di invitarci a contemplare Gesù Cristo morto e risorto per amore di ognuno e del mondo intero, e vivere in modo anticipato alla luce della grazia della risurrezione e della salvezza divina, che ci guidano e ci accompagnano da ora e per sempre.

Andrea Vicini* La civiltà cattolica, quaderno 4074, pag. 521 – 531, anno 2020, 21 marzo 2020

www.laciviltacattolica.it/quaderno/4074

*Corrispondente dagli Usa per La Civiltà Cattolica e docente di Teologia morale e Bioetica al Boston College (Usa).

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PASTORALE

Piccola chiesa domestica. Adesso comprendiamo cos’è

Per anni abbiamo parlato di piccola chiesa domestica senza mai forse mettere a fuoco davvero di cosa si trattasse, se non come bella immagine spirituale ma un po’ slegata dalla nostra concretezza. Ora, che l’emergenza sanitaria ci costringe da giorni a stare chiusi in casa, è forse un po’ più agevole riscoprire come il sacramento del matrimonio possa davvero trasformare le nostre case blindate nella piccola chiesa domestica tratteggiata dal Vaticano II e poi ripresa da tanti documenti del magistero. Anche papa Francesco ci assicura che «la presenza del Signore abita nella famiglia reale e concreta, con tutte le sue sofferenze, lotte, gioie e i suoi propositi quotidiani» (AL 315). Nei giorni scorsi il cardinale Kevin Farrel, prefetto del Dicastero laici, famiglia e vita, ha spiegato in un lungo intervento che «proprio in questo isolamento lo Spirito ci suggerisce di riscoprire il sacramento del matrimonio».

Sollecitazione che padre Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio Cei per la famiglia, inquadra nella realtà delle nostre comunità, come occasione non solo per dare senso alla preghiera che in questi giorni sgorga in casa, ma soprattutto a tutti i momenti della vita domestica, forzatamente limitati tra soggiorno e cucina, con l’ansia di notizie che fanno stare con il fiato sospeso. «Non ci si pensa mai, ma la presenza stessa degli sposi è sacramento d’amore che rimanda a Cristo. Noi preti abbiamo bisogno di gesti ordinati per rendere presente il Signore. Gli sposi, in virtù del sacramento del matrimonio, traducono la presenza di Cristo anche nei piccoli gesti, come stirare o preparare il caffè».

Ha osservato ancora il cardinale Farrell: «È un tempo di allenamento, quello che ci sta offrendo il Signore, in attesa di sconfiggere questo male. Un tempo nel quale, vivendo stretti nelle nostre case, siamo chiamati a fare continui esercizi di carità…». Per inquadrare meglio il significato della Chiesa domestica, padre Vianelli suggerisce di attingere alla Gaudium et spes, laddove spiega che la famiglia cristiana che nasce dal sacramento del matrimonio renderà manifesta a tutti la presenza del Salvatore ma anche la “genuina natura della Chiesa”. «Anche in questi giorni, chiuse nelle loro case, gli sposi possono raccontare il modo di essere Chiesa, con la comunione che si alimenta dalla compartecipazione. È proprio nei momenti di assenza della comunità riunita – fa notare il direttore dell’Ufficio famiglia – che gli sposi in quanto una caro, rimandano a quella comunione che rende sacramentale la piccola comunità familiare». Molto opportuno che a questo proposito – fa osservare padre Vianelli – il prefetto del Dicastero parli del tempo trascorso in casa come occasione di “pre-evangelizzazione”, cioè di un periodo prezioso che può rappresentare purtroppo quel passaggio che abbiamo perso, dal Vangelo raccontato nella normalità dei gesti quotidiani in famiglia alla catechesi. «Si tratta cioè di mettere nel cuore dei figli il linguaggio condiviso della fede che ha sempre rappresentato la grammatica di base dei credenti». A quanti, in questi, giorni parlano di tempo di grazia, padre Vianelli consiglia prudenza e rispetto: «Dobbiamo dirlo sottovoce, con le lacrime per tutti questi morti. Certo, anche nella malattia, anche nelle grandi difficoltà di questi giorni posso parlare di spiritualità, ma posso farlo sulla mia pelle, non su quella degli altri. Nel tema del dolore innocente dobbiamo entrare in punta di piedi, né in modo apocalittico, né in modo leggero, come quelli che sostengono che “tutto è grazia”. Il sentimento giusto è la compassione. La verità va letta a partire dalla storia. Non slegata dalla realtà. Se non possiamo pronunciare insieme questi due aspetti – ribadisce – allora difficilmente c’è posto per la grazia, perché Dio si respira nella logica dell’incarnazione».

L’atteggiamento giusto da insegnare in famiglia in questi giorni? «La speranza, non l’ottimismo. Solo la speranza – riprende padre Vianelli – diventa significante in una logica di relazione. Qualsiasi cosa succeda avrà un senso perché lo troveremo insieme, in una dimensione relazionale. La speranza non pretende di risolvere ma punta a trovare un senso, a lasciarsi interrogare di fronte al mistero, mi abita e per non spegnere quella speranza, quel senso, sono disposto a dare la vita, come stanno facendo decine di medici e preti in questi giorni». Ecco come spiegare ai nostri figli quello che sta succedendo. Perché lo fanno? Per chi lo fanno?

E qui entra in gioco il discernimento è il grande tema di Amoris Lætitia «Non dobbiamo trovare a tutti i costi una spiegazione, ma dobbiamo capire con il cuore per “consegnare questo tempo” a chi verrà dopo di noi, ma sempre in una logica di relazione con i nostri familiari. Ed è qui – conclude – che ci raggiunge la relazione con il Signore».

Padre Vianelli, direttore dell’Ufficio Cei per la famiglia:

http://avvenire.ita.newsmemory.com/publink.php?shareid=0d4387599

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VIOLENZA

La violenza nella liturgia e nella teologia

      “Chi resta saldo? Solo colui che non ha come criterio ultimo la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma che è pronto a sacrificare tutto questo quando sia chiamato all’azione ubbidiente e responsabile, nella fede e nel vincolo esclusivo a Dio: l’uomo responsabile, la cui vita non vuol essere altro che una risposta alla domanda e alla chiamata di Dio”. (Dietrich Bonhoeffer)

“La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per sé stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia”.

(Benedetto XVI)

Il delicato rapporto con Dio, come “oggetto immenso” e “silenzio altissimo”, che di fronte all’uomo si fa parola e carne, che assume una forma e una materia, che diventa “fenomeno”, suscita immediatamente alcune questioni di fondo, che riguardano evidentemente anche la relazione tra il principio della pace e della composizione di tutti i conflitti e l’esperienza di violenza e di sopraffazione che caratterizza la vita umana. Se Dio viene convertito, dalla parola e dal culto, in “principio di autorità”, può essere confuso, sovrapposto e addirittura identificato con ciò che le autorità umane fanno per imporre le loro logiche di giustizia e di pace, mediante le logiche della violenza, della sanzione e della sopraffazione. Dio diventa così l’ultimo timbro di una sovranità violenta, la più alta delle sanzioni, il primo custode di ogni violenza “comune”.

Questa dinamica ha attraversato la storia. La stessa attestazione biblica, la parola più originaria, è già segnata a fondo da questa possibilità, che non di rado diventa complicità di Dio nelle trame violente degli uomini e delle donne. La prima forma di violenza verso Dio è, in effetti, quella che consiste nello spostare su Dio i disegni violenti degli uomini, per vederli giustificati e trasformarli quasi in “dovuti”. Farne il principio autorevole e in qualche modo cieco di una realtà spezzata, lacerata e divisa duramente in due parti opposte, tra amici e nemici, tra bene e male, tra positivo e negativo. Dio diventa la garanzia di una disperazione, non di una speranza, diventa principio di maledizione, non di benedizione, di invidia, non di lode, di ingratitudine, non di rendimento di grazie.

In questa dinamica, che riguarda già in origine la stessa Scrittura e la organizzazione della forma regale e ministeriale del popolo di Dio – del primo come del nuovo Testamento – entrano poi necessariamente anche le forme della elaborazione del culto e del pensiero teologico. Vorrei soffermarmi anzitutto sulle forme con cui il culto cristiano ha assunto – in mondi assai diversi dai nostri – una componente violenta dei rapporti sociali e l’ha spostata su Dio. Ciò è evidente soprattutto nei formulari per le “messe in tempo di guerra” e nelle preghiere “contro il nemico”, che hanno segnato fino a pochi decenni fa la espressione ecclesiale. D’altra parte la teologia ha a sua volta introdotto argomentazioni, principi, riferimenti che ha tratto dalla “ragione comune” principi di evidenza violenta e ostile, che poi ha spostato su Dio.

  1. 1.       L’eucaristia contro il nemico e per la fraternità. Anche il Messale Romano nell’edizione più recente (1970) contiene un formulario “in tempo di guerra e di disordine”. Ma il lavoro fatto dopo il Concilio Vaticano II ha rimosso ogni elemento di “violenza” sia nella domanda della Chiesa sia nelle qualità e nelle azioni attribuite a Dio. Leggiamo infatti oggi nella colletta: “O Dio, forte e misericordioso, che condanni le guerre e abbatti l’orgoglio dei potenti, allontana i lutti e gli orrori che affliggono l’umanità, perché tutti gli uomini, pacificati tra loro, possano chiamarsi veramente tuoi figli. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli”. Oppure: “O Dio, amico della pace, conoscerti è vivere, servirti è regnare; libera da ogni aggressione il popolo che confida in te, perché, sotto la tua difesa e protezione, possa dedicarsi senza timore al tuo servizio. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli”.

È qui evidente come il linguaggio liturgico sia stato sottoposto a un processo di purificazione, che ancora fino al 1969 recava testi di ben altra struttura e cultura. La colletta del messale del 1962, ultimo esemplare della tradizione tridentina, suonava infatti come preghiera verso un Dio che “prende parte al conflitto”, che ha nemici e che aiuta una parte contro l’altra: Deus, qui conteris bella, et impugnatores in te sperantium potentia tuae defensionis expugnas: auxiliare famulis tuis, implorantibus misericordiam tuam; ut, inimicorum suorum feritate depressa, incessabili te gratiarum actione laudemus. Per Dominum…

(O Dio, che distruggi le guerre, e che sconfiggi coloro che contrastano quelli che sperano in te con la potenza della tua difesa, aiuta i tuoi servi che implorano la tua misericordia, affinché sia vinta la crudeltà dei loro nemici e ti lodiamo con interminabile azione di grazie. Per il nostro Signore Gesù Cristo…).

Ancora più significativo è comparare le due preghiere del postcommunio. Da una parte abbiamo il Messale del 1962 che ricostruisce un volto di Dio che castiga e punisce i suoi servi: Deus, regnorum omnium regumque dominator, qui nos et percutiendo sanas et ignoscendo conservas: praetende nobis misericordiam tuam; ut tranquillitate pacis, tua potestate servata, ad remedia correctionis utamur. Per Dominum nostrum Iesum Christum..(O Dio, che domini ogni regno e ogni re, tu risani con i flagelli e preservi con il perdono: stendi su di noi la tua misericordia, affinché, sicuri della tua potenza, usiamo della tranquillità della pace per emendare le nostre vite. Per il nostro Signore Gesù Cristo...).

Nel nuovo messale leggiamo, invece, una preghiera successiva alla comunione che non attribuisce a Dio alcun intento “retributivo”, ma che nutre, riconcilia e conferma nella fraternità: Signore, che ci hai nutriti con la dolcezza di quest’unico pane, che ci conforta nelle prove della vita, concedi all’umanità, sconvolta dalla guerra, di ricuperare il bene della pace, per vivere secondo la tua legge nella giustizia e nella fraternità. Per Cristo nostro Signore.

Ma oltre ai testi “riformulati” e “ripensati”, troviamo anche un secondo livello di trasformazione della tradizione liturgica: ossia quei testi che fino al 1969 sono stati formalmente nel Messale e che utilizzavano la espressione “preghiera per i nemici” e suonavano, nel Messale del 1962, con queste parole nel postcommunio: Hæc nos communio, Domine, eruat a delictis: et ab inimicorum defendat insidiis. Per Dominum...(Questa comunione, Signore, ci liberi dai peccati: e ci difenda dalle insidie dei nemici. Per il nostro Signore Gesù Cristo…).

Essa diventa, dopo il 1970, un testo più articolato e pensato in modo meno drastico: Per questo mistero della nostra redenzione donaci, Signore, di vivere in pace con tutti e guarda benigno coloro che ci affliggono, perché in un rinnovato vincolo di fraternità possiamo insieme render grazie al tuo nome. Per Cristo nostro Signore…

È così evidente che la tradizione liturgica, dopo secoli di linguaggio compromesso in modo grave con una “ostilità” e una “violenza riparatrice” spostata anche su Dio, sappia prendere congedo da questo registro e depurarlo da ogni lettura parziale e conflittuale. Lo stesso termine “nemici” viene superato e diventa “coloro che ci affliggono”. Si tratta di un lavoro prezioso di ridefinizione dei rapporti e di descrizione dell’azione, non del soggetto che la compie.

2. La giustificazione teologica della pena di morte e il suo superamento. Sul piano non liturgico, ma teologico, di grande rilievo appare la recente modifica del testo del n. 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica, dedicato al tema della “pena di morte”. Esso rappresenta un passaggio assai prezioso nel cammino complesso e articolato con cui la Chiesa cattolica dismette gli abiti della società chiusa, necessariamente violenta, e impara a indossare quelli della società aperta. Non è un caso che le reazioni degli ambienti più intransigenti e tradizionalisti appaiano preoccupate per questo nuovo testo.

Aver preso congedo dalla “pena di morte” sembra il segno di un “cedimento” alla modernità, addirittura al liberalismo. In realtà si tratta della continuazione del cammino che era stato inaugurato dal Concilio Vaticano II fin dal suo esordio, facendo della “traduzione della tradizione” la verità della “indole pastorale” non solo di quel Concilio, ma del rapporto che la Chiesa intesse con il proprio passato in vista del futuro. In questo lavoro di traduzione, la tradizione viene aggiornata, riformata e fatta oggetto di discernimento. Per non confondere il Vangelo con i pregiudizi della società chiusa occorre riformulare sapientemente molte cose, che altrimenti diventano ambigue, paradossali, quando non contraddittorie.

Tra di esse brilla in modo speciale l’assunzione della “nonviolenza” come forma del linguaggio ecclesiale. Mi sembra utile, sotto questa prospettiva, considerare il nuovo testo elaborato, mettendolo a paragone con il vecchio, per notare il cambiamento di argomentazione, di riferimenti e di orizzonte che esso propone, proprio in relazione con il tema della violenza.

a) Sinossi tra i due testi –  Il vecchio testo di CCC 2267 (1992) “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo «sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti»”.

Il nuovo testo di CCC 2267 (2018) “Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune. Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi. Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che «la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona», e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”.

b) Un nuovo modo di argomentare. –  Già a una prima considerazione appare chiaro come i due testi provengano non soltanto da due mani diverse, ma da due mondi diversi, che esprimono la medesima tradizione cattolica attraverso priorità, nozioni e categorie assai differenti. Il testo più antico ragiona all’interno di una “possibilità di principio” di ricorso alla pena di morte. In tale orizzonte non rinuncia a porre, anche con una certa forza, l’esigenza del superamento, ma lo fa quasi “per transennam” [di passaggio] e non “in recto” [in evidenza]. Oltretutto sembra sposare una teoria della “legittima difesa” dello Stato nei confronti del reo di gravi crimini, senza tener conto della mancanza di proporzione tra Stato e singolo individuo. Il “bene comune”, in questa visione, può azzerare fino alla morte il valore della vita del soggetto colpevole. Se il soggetto perde l’onore, in questo mondo, perde ogni dignità. All’auspicio, che già il testo vecchio introduce esplicitamente, verso un graduale superamento della pena di morte, si sostituisce, nel nuovo testo, non soltanto un più chiaro e rotondo riferimento alla dignità della persona come ostacolo all’ammissibilità della pena di morte, ma un impegno esplicito della Chiesa al superamento di questa sanzione.

D’altra parte bisogna riconoscere che già il CCC del 1992 aveva operato un grande cambiamento di prospettiva rispetto al noto catechismo di inizio secolo, steso da Pio X, che alla domanda sulla legittimità eventuale della uccisione del prossimo rispondeva: “È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si eseguisce per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto, e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa della vita contro un ingiusto aggressore”. In questo caso, come è evidente, gli orizzonti indiscussi del pensiero teologico sono ancora i tre concetti-chiave della società chiusa, ossia: “guerra giusta”, “autorità suprema”, “legittima difesa”. Di essi solo il terzo sopravvive intatto, mentre i primi due non possono più essere compresi come “analogie della legittima difesa”.

c) Il ripensamento della tradizione: dall’onore alla dignità. Credo si possa dire che siamo di fronte a un passaggio la cui rilevanza va molto al di là del pur importante tema specifico della “pena di morte”. La novità attiene all’utilizzo argomentativo del concetto di “dignità” del soggetto, che nessun ordinamento, né umano né divino, può mai negare. Anche la Chiesa accetta di ragionare non anzitutto in termini di “onore”, ma in termini di “dignità”. Esplicitamente esce dall’argomentazione tipica dell’ancien régime, mediante la quale appariva scandaloso negare alla legittima autorità il “potere di vita o di morte”. In certo modo agli ordinamenti temporali era affidata una sorta di “anticipazione del giudizio finale”. Ciò, evidentemente, aveva ottenuto lungo i secoli una serie di correttivi preziosi.

Il mondo medievale sapeva bene che un “condannato a morte” poteva essere un “santo”. Ma questo era compatibile con quella che Paolo Prodi chiamava “pluralità dei fori” del mondo medievale, la cui forza inizierà a declinare forse proprio a partire dalla Riforma e dal Concilio di Trento. Ecco che la Chiesa, che con Trento ha inaugurato la modernità cattolica, dopo 500 anni ne ha tratto una conseguenza importante. Né l’autorità civile né quella ecclesiale possono prevedere, tra le loro sanzioni ordinarie, la pena di morte.

Così la differenza del giudizio di Dio dal giudizio degli uomini risulta sorprendente e custodita. È questa una delle conseguenze della “meravigliosa complicatezza” del mondo scaturito dalle rivoluzioni di fine ‘700, che la Chiesa cattolica può oggi non solo giudicare in modo più equanime, ma anche valorizzare per tutto il bene che sa produrre, nonostante tutte le sue reali o apparenti contraddizioni. E molte altre cose dovranno essere tradotte, per passare da una Chiesa che ragiona in termini di “onore” a una Chiesa che ragiona in termini di “dignità”.

In questo passaggio, che non è esagerato definire “epocale”, l’elaborazione liturgica e teologica di “linguaggi non violenti” costituisce una preziosa mediazione. In tale percorso, tuttavia, occorre mantenere con lucidità un profondo equilibrio tra profezia e ragione, tra autorità ed evidenza. Poiché la pace e la non-violenza non sono mai un’immediatezza che si impone, ma piuttosto il frutto delicato e fragile di una lenta e graduale mediazione, tra Parola divina, che pone inizio e fine, e forma quotidiana di vita e di relazione, nel qui e ora della storia umana.

 Andrea Grillo “Esodo” n. 1 del gennaio-marzo 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202003/200325grillo3.pdf

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