NewsUCIPEM n. 792 – 9 febbraio 2020

NewsUCIPEM n. 792 – 9 febbraio 2020

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 “Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento online. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse, d’aggiornamento, di documentazione, di confronto e di stimolo per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:

  • Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
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I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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01 ADOZIONE                                                   Genitori entrambi detenuti? Il figlio è adottabile                           

02 ADOZIONE INTERNAZIONALE              Anche il Congo Brazzaville ratifica la Convenzione dell’Aja del 1993

02                                                                          Marocco. In un anno 360 neonati abbandonati per strada.

03 AFFIDO FAMILIARE                                  Guida all’istituto disciplinato dalla Legge 4 maggio 1983, n. 184

06 ASSEGNO DIVORZILE                               ridotto in appello, rilevanti malattia e costo della vita

06 ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI              Istituto per l’Educazione alla Sessualità e alla Fertilità

07 BIBBIA                                                           La passione del Cantico dei Cantici risvegliata da Benigni

08                                                                          «Canzonissima della Bibbia»: corpi umani e profumo di Dio

09                                                                          La canzone delle canzoni

10  CENTRO STUDI FAMIGLIA                    Newsletter CISF – n. 5, 5 febbraio 2020

12 CHIESA CATTOLICA                                  I due secoli di ritardo storico-culturali

13                                                                          Clero uxorato e clero concubinario: due realtà, un solo destino

16                                                                          Il celibato dei preti cattolici

20 CITAZIONI                                                    L’umorismo in famiglia

21 CONSULTORI FAMILIARI                        Una grande conquista da difendere e potenziare.

23 CONSULTORI CATTOLICI                        Torino.Punto familia. Addio a padre Giordano Muraro

25                                                                                                                     E la storia continua                                          

27 DALLA NAVATA                                         V Domenica del tempo ordinario (anno A)

27                                                                          Evitiamo una vita insipida e spenta

28 GENITORILITÀ                                            La decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli                  

32                                                                          Cognome paterno aggiunto a quello materno se non pregiudica…

33 OMOFILIA                                                    Tutti, eterosessuali e omosessuali, sono chiamati alla castità

34 SINODO                                                        Il cammino sinodale della Chiesa cattolica tedesca è cominciato.

36 TRIBUNALI ECCLESIASTICI                     “Fa’ la cosa giusta”: la recezione di AL e le categorie dei canonisti

38 VIOLENZA                                                    Tentativo di baciare prostituta integra reato di violenza sessuale

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ADOZIONE

Genitori entrambi detenuti? Il figlio è adottabile

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 319, 10 gennaio 2020

https://sentenze.laleggepertutti.it/sentenza/cassazione-civile-n-319-del-10-01-2020

Se entrambi i genitori sono detenuti, il figlio minore è adottabile, in quanto lo stato di abbandono di quest’ultimo non dipende da cause di forza maggiore transitorie, ma dalla condizione di carcerazione del padre e della madre. La pronuncia in esame trae origine dal ricorso presentato da un padre, avverso la sentenza con cui la Corte territoriale aveva confermato la declaratoria dello stato di adottabilità del figlio dell’uomo.

            La Suprema Corte ha esaminato congiuntamente i motivi del ricorso. In particolare, con riferimento all’accertamento dello stato di abbandono, la Cassazione ha evidenziato che è consolidato il principio secondo cui, l’esigenza del figlio di vivere nell’ambito della propria famiglia di origine può venir meno se sussiste un grave pregiudizio per un suo equilibrato ed armonioso sviluppo, qualora la famiglia di origine non sia in grado di garantirgli la necessaria assistenza e stabilità affettiva. E’ evidente che le carenze morali e materiali che integrano lo stato di abbandono del minore, non devono dipendere da cause di forza maggiore di natura transitoria, atteso che, l’adozione costituisce una misura di tipo eccezionale cui si ricorre solo se si siano dimostrate impraticabili altre soluzioni, anche di carattere assistenziale, dirette a favorire il ricongiungimento del figlio con i genitori biologici.

            Nel caso in esame, la condizione di abbandono del minore può essere dimostrata anche in virtù dell’esistenza dello stato di detenzione del genitore, riconducibile alla condotta criminosa dello stesso, non integrante gli estremi della causa di forza maggiore transitoria, prevista dalla L. n. 184 del 1983, art. 8, come motivo di giustificazione della mancata assistenza al figlio. Pertanto, la Cassazione ha rilevato che il giudice di merito ha applicato correttamente i summenzionati principi nella sentenza impugnata, avendo considerato lo stato di detenzione di entrambi i genitori, per reati contro il patrimonio e contro la persona, oltre che reati collegati all’uso di sostanze stupefacenti. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la valutazione negativa della capacità genitoriale dello stesso è riconducibile al provvedimento di decadenza dalla responsabilità sul figlio, emanato anni prima, che il genitore non ha mai impugnato.

            Di conseguenza, la sussistenza dello stato di reclusione per i reati sopra indicati, nonché la decadenza dalla potestà genitoriale,  giustificano pienamente  la decisione negativa della Corte territoriale relativamente alla possibilità di recupero della capacità genitoriale del padre, situazione non rimediabile ricorrendo alle misure di sostegno, che, non potrebbero essere applicate in tempi brevi, sussistendo lo stato di reclusione del ricorrente, e ciò sarebbe in contrasto con l’esigenza di una sollecita definizione delle questioni collegate alla tutela del minore. Per tali motivi, la Suprema Corte ha ritenuto infondati i motivi proposti e rigettato il ricorso.

Maria Elena Bagnato             Altalex 5 febbraio 2020

www.altalex.com/documents/news/2020/02/05/genitori-entrambi-detenuti-figlio-adottabile

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

Anche il Congo Brazzaville ratifica la Convenzione dell’Aja del 1993

Dopo la recente ratifica del Ghana anche il Congo Brazzaville ha ratificato la Convenzione dell’Aja del 1993 per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale. Un altro Paese africano, quindi, si avvia sulla strada della trasparenza nei procedimenti di adozione internazionale.

Il Paese ha infatti depositato il documento di adesione alla convenzione l’11 dicembre 2019. Pertanto, la convenzione entrerà in vigore in Congo Brazzaville ufficialmente nel mese di aprile 2020. Il Ministero degli Affari sociali di quel Paese ha già creato un’autorità centrale apposita per gestire le adozioni.

Il Congo Brazzaville si prepara così a divenire il 102esimo Stato ad aderire alla Convenzione e il 154esimo Stato che entrerà a far parte della Conferenza dell’Aia di diritto internazionale privato. Un buon passo avanti che è stato accolto con favore dagli addetti ai lavori.

“Questa – commenta il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, uno dei tre Enti italiani autorizzati a operare in Congo Brazzaville, Marco Griffini – è una notizia certamente di buon auspicio per i minori abbandonati di questo Paese africano, che ora potranno aspirare a un destino diverso dalla vita di strada. Per conto nostro inizieremo appena possibile, dopo aver espletato le pratiche richieste dalla ratifica, a depositare i dossier delle coppie italiane che ci daranno mandato per quel Paese

AiBinews        6 febbraio 2020

www.aibi.it/ita/adozione-internazionale-anche-il-congo-brazzaville-ratifica-la-convenzione-dellaja-del-1993

 

Marocco. In un anno 360 neonati abbandonati per strada.

Griffini (Ai.Bi.): “Se fossero stati su un barcone interesserebbero a tutti. Ma invece non importa a nessuno. E, dopo diversi anni, il nostro Paese ancora deve approvare norme dettagliate sulla kafala, che permetterebbe di proteggere quei bambini”. “Secondo gli ultimi dati del Ministero competente, in Marocco in un solo anno sono stati abbandonati per strada 360 neonati. Se questi, che sono solo quelli che hanno avuto la fortuna di essere stati trovati vivi, avessero avuto la possibilità di prendere un barcone, sarebbero diventati un problema di tutti. Tutti si sarebbero interessati di loro: Chiesa, Stato, giornali, TV. Ma invece sono stati abbandonati nelle strade del Marocco e allora non interessano a nessuno”. Lo dichiara il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, Marco Griffini, commentando i dati provenienti dal Paese del Maghreb sull’abbandono di minori.

Nel solo 2018 stando agli ultimi dati, 1.741 sono stati i bambini abbandonati nel Paese nordafricano nell’arco dei dodici mesi. 360, per l’appunto, i neonati. Una situazione in parte connessa anche con la legislazione molto stringente in materia di aborto. “Questi bambini non interessano all’UNICEF – prosegue Griffini – in quanto non rientreranno mai nelle statistiche ufficiali dell’emergenza infanzia: qualcuno mi sa dire se UNICEF o qualche altra organizzazione internazionale ha mai stilato un report sui minori abbandonati in strada nei paesi del mondo? O dei minori abbandonati ospiti di orfanotrofi e istituti di assistenza vari? Sembra che si stia diffondendo la cultura nefasta che, se un bambino ha la sfortuna di essere abbandonato dai suoi genitori, non potrà mai più ritornare ad essere un figlio. Assurdo”.

“Eppure – aggiunge il presidente di Ai.Bi. – il Marocco prevede una possibilità di salvezza per questo minori: si chiama kafala e la convezione ONU sui diritti infanzia, di cui abbiamo celebrato il trentesimo anniversario nel novembre scorso, la inserisce fra i sistemi di protezione dell’ infanzia. Ma l’Italia, pur avendo ratificato la convezione dell’Aja del 1996 sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dell’infanzia, già con effetto dall’1 gennaio 2016, per la sua applicazione anche in Italia, non ha ancora approvato norme dettagliate che consentano di riconoscere i provvedimenti di kafala in Italia con le dovute garanzie per i minorenni, anche in funzione della diversa loro condizione nel Paese di origine: alcuni sono solo affidati temporaneamente a famiglie mentre altri sono di fatto abbandonati. Senza queste norme di dettaglio i bambini in regime di kafala in Italia si trovano anche in condizioni di disuguaglianza rispetto ad altri. E sono ormai passati diversi anni”.

AiBinews         4 febbraio 2020

www.aibi.it/ita/marocco-in-un-anno-360-neonati-abbandonati-per-strada-ma-se-non-attraversano-il-mare-litalia-chiude-gli-occhi

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AFFIDO FAMILIARE

Guida all’istituto disciplinato dalla Legge 4 maggio 1983, n. 184

www.camera.it/_bicamerali/leg14/infanzia/leggi/legge184%20del%201983.htm

La Legge n. 184 del 1983 (intitolata Diritto del minore a una famiglia) disciplina l’istituto dell’affidamento familiare, il quale ha lo scopo di porre rimedio a situazioni di temporanea inabilità dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale, che ostacolino il diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine, la legge dispone, in favore della famiglia di origine, interventi di sostegno e di aiuto.

Che cos’è l’affidamento familiare? L’affido familiare è uno strumento mirato a tutelare il minore, che ha una durata stabilita e che può terminare o in un rientro nella famiglia di origine o nella dichiarazione dello stato di adottabilità, quando i genitori non sono più in grado di adempiere la funzione genitoriale. Le circostanze di fatto che privano il minore di un ambiente familiare idoneo, possono riguardare la persona del genitore (gravi carenze comportamentali, malattie, ecc..) oppure uno stato di indigenza economica.

In tal caso i minori possono essere affidati ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori, a una persona singola, o a una comunità di tipo familiare, al fine di assicurare loro il mantenimento, l’educazione e l’istruzione. L’istituto è stato recentemente riformato dalla Legge 19 ottobre 2015, n. 173. (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare).                                                        www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2015;173

Come ha inizio il procedimento. Spesso il nucleo familiare in difficoltà è segnalato al Servizio sociale, ma la pronuncia può scaturire anche in seguito alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale, emessa dal tribunale per i minorenni. Nel caso in cui l’affidamento sia disposto dal Servizio sociale, occorre il previo consenso prestato dai genitori (o dal genitore) esercenti la potestà o dal tutore (art. 4).

            Il minore che ha compiuto i dodici anni o di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento, deve essere sentito. Il giudice tutelare rende esecutivo il provvedimento con decreto. Nel caso in cui i genitori o il tutore non prestino il consenso, provvede il tribunale per i minorenni applicando la normativa di cui agli artt. 330 e seg. c.c.

Nel provvedimento di affidamento deve essere indicato il periodo di presumibile durata dell’affidamento che deve essere riconducibile agli interventi volti al recupero della famiglia d’origine. Questo periodo non può superare la durata di due anni ma è prorogabile, dal tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento provochi un pregiudizio al minore.

L’affido può essere anche a tempo parziale. Il bambino trascorre con i genitori affidatari solo alcune ore del giorno, i fine settimana, o eventualmente brevi vacanze. In questo caso il minore non viene allontanato dalla propria casa, e l’affidatario svolge una funzione di sostegno alla famiglia di origine in difficoltà.

Chi può essere nominato affidatario. L’affidamento può essere intra-familiare o etero-familiare.

I genitori possono affidare il figlio minore a parenti entro il quarto grado, senza limiti di durata. L’art. 9 della Legge n. 184/1983 impone l’onere, a chi non sia parente entro il quarto grado e accolga stabilmente nella propria abitazione un minore, di darne segnalazione al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni, trascorsi sei mesi. L’omissione della segnalazione può comportare l’inidoneità a ottenere affidamenti familiari o adottivi.

Ugualmente il genitore che affidi stabilmente a chi non sia parente entro il quarto grado, il figlio minore per un periodo non inferiore a sei mesi, deve fare la segnalazione alla Procura. In mancanza, tale condotta può comportare la decadenza dalla potestà sul figlio a norma dell’art. 330 c.c. e l’apertura della procedura di adottabilità. La norma non si applica, pertanto, se il minore è affidato a parenti entro il quarto grado (nonni, zii e cugini).

            All’istituto dell’affidamento intra-familiare, è correlato quello dell’obbligo di prestare agli alimenti di cui all’art. 433 c.c. cui sono tenuti i parenti più prossimi, nell’ordine: il coniuge; i figli, anche adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi; i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; gli adottanti; i generi e le nuore, il suocero e la suocera; i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali.

            Per quanto riguarda l’affidamento a terze persone, a differenza dell’adozione, che è consentita solo a persone coniugate da almeno tre anni, possono avere in affidamento un minore anche le coppie di conviventi o le persone singole. L’idoneità degli affidatari è stabilita tramite un percorso di diversi colloqui, in base all’analisi dei seguenti parametri: età; condizione psicofisica; abitazione; autosufficienza economica;     motivazioni all’affido; storia personale e/o di coppia.

            L’affidatario esercita i poteri connessi con la potestà parentale in relazione agli ordinari rapporti con l’istituzione scolastica e con le autorità sanitarie. L’affidatario ha diritto di ricevere da parte del servizio sociale locale sostegno educativo e psicologico. Le famiglie o persone con minori in affidamento, ricevono un assegno base mensile corrispondente al periodo della durata dell’affidamento e proporzionato alla situazione economica, per contribuire alle spese relative a prestazioni di varia natura fornite al minore.

Diritti/doveri degli affidatari:

  • provvedere alla cura, al mantenimento, all’educazione e all’istruzione del minore affidato nel rispetto della sua identità culturale, sociale e religiosa;
  • mantenere, in collaborazione con il Servizio Sociale, validi rapporti con la famiglia di origine del minore, tenendo conto di eventuali prescrizioni dello stesso o dell’Autorità Giudiziaria;
  • osservare attentamente l’evoluzione del minore in affido, in particolare riguardo alle condizioni affettive, fisiche e intellettive, favorendo la socializzazione e i rapporti con la famiglia di origine;
  • assicurare la massima riservatezza circa la situazione del minore in affido e della sua famiglia;
  • non richiedere e non accettare denaro dalla famiglia di origine del minore in affidamento;
  • utilizzare il contributo erogato dalle Amministrazioni per il mantenimento del minore.

Quanto alla famiglia d’origine, questa deve mantenere validi rapporti con il figlio e rispettare il programma stabilito dagli operatori per favorire la normalizzazione della vita familiare e le prescrizioni concordate (nel caso di affidamento consensuale) o stabilite dal Tribunale per i Minorenni (in caso di affidamento giudiziale).

Il diritto alla continuità affettiva con gli affidatari. In un’elevata percentuale di casi, la durata dell’affidamento familiare si prolunga ben oltre i due anni previsti, con la conseguenza che, se il rientro nella famiglia di origine non è possibile, si da l’avvio al procedimento di adozione e il minore conoscerà una terza famiglia. Nel frattempo può essersi creato un legame significativo tra il bambino e gli affidatari. Proprio per evitare che questo legame debba essere reciso, la Legge n. 173/2015 ha inserito alcune norme che tutelano la continuità dei rapporti che si sono instaurati durante il periodo dell’affidamento, se ciò corrisponde all’interesse del minore.

Se dopo un prolungato periodo di affidamento il minore è dichiarato adottabile, e la famiglia affidataria – avendo i requisiti richiesti dall’articolo 6 – chiede di adottarlo, il tribunale tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria. Anche se il minore rientra nella famiglia di origine o è adottato da altra famiglia, è comunque tutelata la continuità delle relazioni socio-affettive sorte durante l’affidamento (art. 4 comma 5 ter).

Le differenze tra affidamento e adozione. L’adozione è storicamente l’istituto che consente di ovviare a una situazione di abbandono del minore non transitoria, per essere inserito in una famiglia che provveda alla sua cura, istruzione e mantenimento. I minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, sono dichiarati in stato di adottabilità dal tribunale per i minorenni.

A differenza dell’affido familiare, la così detta “adozione piena” è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni (art. 6). Tra i coniugi non deve sussistere e non deve essere intervenuta negli ultimi tre anni separazione personale, neppure di fatto. E’ sufficiente che i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza.

            L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando. Questo tipo di adozione recide il legame del minore con la famiglia di origine. L’adottato acquista lo stato di “figlio” degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome. Qualunque certificazione relativa allo stato dell’adottato deve essere rilasciata con la sola indicazione del nuovo cognome e con l’esclusione di qualsiasi riferimento alla paternità e alla maternità biologica.

            L’art. 5 comma 1 stabilisce che l’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria devono essere convocati a pena di nullità, nei procedimenti riguardanti la responsabilità genitoriale, l’affidamento e l’adottabilità del bambino, e hanno facoltà di far conoscere la propria opinione nel processo.

            Esiste un’altra tipologia di adozione, la così detta “adozione mite”, proprio perché in tal caso, a differenza del modello ordinario di adozione, l’adottato mantiene il legame con la famiglia di origine.

            L’adozione “in casi particolari”, così come disciplinata dall’art. 44 della Legge n. 184/83 (riformata dalla Legge n. 149/2001), è consentita in presenza di ipotesi tassative ad alcune categorie di soggetti:

  • persone unite al minore da parentela fino al sesto grado, o legate da un rapporto stabile e duraturo quando il minore sia orfano di padre e di madre;
  • il coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge;
  • i minori orfani con minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali (art. 3, Legge n. 104/92);
  • impossibilità di affidamento preadottivo in caso di situazioni relative a particolari esigenze di natura assistenziale dell’adottando.

Questo tipo di adozione è consentita anche a chi non è coniugato e ai single.

Sono considerati legittimati anche quei soggetti uniti al minore da un preesistente rapporto stabile e duraturo maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento.

La giurisprudenza recente sul legame minori/affidatari. La Corte di Cassazione (sentenza 7 giugno 2017, n. 14167) ha affermato che la mancata audizione degli affidatari nel procedimento per l’adottabilità del minore rende nullo il giudizio. Il ruolo degli affidatari è importante per la costruzione dell’ambiente relazionale del minore, e per conoscere il suo carattere, i suoi comportamenti, bisogni e criticità, soprattutto quando il periodo dell’affidamento sia di lunga o media durata.

            Un’altra decisione rilevante è stata emessa dalla Cassazione con l’ordinanza 16 luglio 2018, n. 18827, in tema di consenso del genitore del figlio dato in affidamento, ai fini della richiesta di adozione in casi particolari da parte degli affidatari.

            L’art. 46 della legge 184/1983 richiede l’assenso all’adozione in casi particolari, dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale se conviventi con l’adottando.

            L’interesse prevalente del minore è quello di vivere, per quanto possibile, con i propri genitori e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia di origine (Cass. Civ. n. 13435 del 2016), con la conseguenza che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità deve rappresentare l’estrema ratio (Cass. Civ. n. 3915/2018).

            Il Giudice deve verificare in primo luogo l’effettiva e attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali (Cass. Civ. n. 7559/2018).

            Tuttavia hanno anche importanza i reali legami affettivi creati dal minore e non solo quelli formali. Da ciò deriva l’esigenza di valutare la corrispondenza dell’adozione all’interesse del minore, momento in cui devono essere bilanciati due diritti: quello del genitore a conservare un rapporto privilegiato con il figlio, e quello del minore ad essere inserito a tutti gli effetti, con pieno riconoscimento di diritti e doveri, nella famiglia che si prende cura di lui.

            Secondo la Cassazione, il dissenso del genitore, che sia meramente titolare della responsabilità genitoriale ma non ha un concreto rapporto affettivo col figlio, non ha efficacia preclusiva. Occorre, dunque, analizzare se esiste una grave situazione di disgregamento dell’ambiente familiare d’origine del minore e solo in questo caso, si reputa non necessario acquisire il consenso del genitore all’adozione.

Giuseppina Vassallo               Altalex 28 gennaio 2020

www.altalex.com/guide/affido-familiare

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ASSEGNO DIVORZILE

Assegno divorzile ridotto in appello, rilevanti malattia e costo della vita

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 174, 9 gennaio 2020

https://sentenze.laleggepertutti.it/sentenza/cassazione-civile-n-174-del-09-01-2020

Nel procedimento di divorzio, le circostanze di fatto che possono incidere sull’attribuzione e determinazione dell’assegno di mantenimento, sopravvenute in corso di causa, devono essere esaminate nel corso del giudizio, governato dalla regola rebus sic stantibus.[stando così le cose].

            Può essere disposta in appello la riduzione dell’assegno divorzile per sopravvenuto peggioramento delle condizioni di salute e per l’elevato costo della vita della città di residenza. Ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio rilevano le circostanze sopravvenute, quali l’elevato costo della vita nella città in cui risiede l’obbligato o una sua nuova malattia.

Il caso. Nel procedimento di divorzio, la moglie ottiene in primo grado il riconoscimento di un assegno divorzile, il quale in appello viene ridotto sulla base di nuovi elementi di fatto emersi nel corso del giudizio di secondo grado. Tali circostanze, prese in esame dalla Corte territoriale, riguardavano l’elevato costo della vita nella città in cui l’obbligato risiedeva (Roma) e i maggiori costi per cura e assistenza dovute al peggioramento delle sue condizioni di salute, alla luce della disponibilità reddituale mensile e delle sue complessive condizioni economico patrimoniali. Ulteriore elemento era rappresentato dall’obbligo di mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne ma non autosufficiente, che in precedenza conviveva con il padre

            La donna ricorre in Cassazione deducendo la violazione dell’art 5 comma 6, L. n. 898 del 1970, perché la Corte d’Appello avrebbe posto, a base della decisione, le circostanze nuove e non la situazione fissata nella decisione di primo grado impugnata.

            La regola rebus sic stantibus nel giudizio di appello. Secondo la Cassazione, non ha errato la Corte territoriale prendendo in considerazione nel giudizio di appello i nuovi fatti verificatisi nel corso della causa di appello. Nei procedimenti di separazione e divorzio, gli elementi di fatto che possono incidere sull’attribuzione e determinazione degli obblighi economici, se intervengono in corso di causa, devono essere esaminati nel corso del giudizio, governato dalla regola rebus sic stantibus.

Il giudizio di revisione di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 9, si applica soltanto in relazione ai fatti successivi all’accertamento coperto da giudicato. Le circostanze sopravvenute prima del passaggio in giudicato della sentenza devono essere esaurite nei gradi d’impugnazione relativi al merito, nella quale è affermata l’ammissibilità di una nuova domanda anche in corso di causa (Cass. Civ. n. 3925/2012 e Cass. Civ. n. 1824/2005). Le altre censure volte a una rivalutazione dei fatti esaminati nel giudizio di merito, non sono state giudicate ammissibili in sede di legittimità.

            Il principio contenuto nella recente sentenza, si applica anche al caso in cui i presupposti del diritto all’assegno di mantenimento maturino nel corso del giudizio. Secondo la Cassazione, non può verificarsi in tal senso nessuna preclusione, poiché la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, o della separazione, comportano la possibilità di modularne la misura al sopraggiungere di nuovi elementi di fatto.

Giuseppina Vassallo Altalex 30 gennaio 2020

www.altalex.com/documents/news/2020/01/30/assegno-divorzile-ridotto-in-appello-rilevanti-malattia-e-costo-vita

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ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI    

Istituto per l’Educazione alla Sessualità e alla Fertilità

        L’INER Italia è fiduciaria e rappresentante per l’Italia dell’Institut für Natürliche Empfänisregelung dr Rötzer e V. Austria: di qui l’affiliazione denominata INER Italia.                                        www.ineritalia.org

Il metodo sintotermico si fonda sull’osservazione di un insieme di effetti fisiologici prodotti dagli ormoni ovarici (estrogeni e progesterone) durante il ciclo mestruale.

www.ineritalia.org/noi-2/metodo-sintotermico-roetzer

Dopo i giorni della mestruazione, la donna inizia a misurare ed annotare la temperatura corporea basale (rettale, vaginale od orale). Giorno dopo giorno essa vedrà che alla curva di temperatura, stabile su un certo livello, si affiancherà una perdita di muco, che diventerà sempre più filante ed acquoso, simile alla chiara d’uovo crudo (muco di tipo più fertile), per poi scomparire.

Contemporaneamente, o subito dopo gli ultimi giorni di questo tipo di muco, la temperatura si muoverà dal suo livello e si alzerà di qualche decimo di grado fino a dare una curva bifasica (costituita da una iniziale fase bassa e da una successiva fase alta).

La comparsa del muco che si fa via via somigliante alla chiara d’uovo crudo indica che la presenza degli estrogeni nel sangue sta aumentando. A questo aumento degli estrogeni solitamente consegue l’ovulazione.

Il rialzo della temperatura è invece un segnale dell’aumento del progesterone, il secondo ormone in ordine cronologico del ciclo ovarico. Questo rialzo termico è un indicatore a posteriori dell’avvenuta ovulazione.

Per l’apprendimento del metodo sintotermico è indispensabile avvalersi del testo che presenta in modo completo ed esauriente il metodo: “La regolazione naturale della fertilità” J. Rötzer, ed. Cortina – Verona.

                        Utili frequentare corsi base, programmati per ora  a Ravenna, Perugia, Treviso, Verona

  • Il centro I.N.E.R. Emilia Romagna, in collaborazione con l’Ufficio Diocesano della Famiglia di Ravenna, organizza a Ravenna un corso base per l’apprendimento del metodo sintotermico Rötzter nelle seguenti giornate: mercoledì 6 maggio, mercoledì 13 maggio, mercoledì 20 maggio, mercoledì 27 maggio, mercoledì 3 giugno 2020.
  • Il centro I.N.E.R. Italia – sezione Umbria organizza a Perugia un corso base per l’apprendimento del metodo sintotermico Rötzter nei seguenti lunedì: 9 marzo, 16 marzo, 23 marzo 2020.
  • Il centro I.N.E.R. Treviso organizza a Treviso un corso base per l’apprendimento del metodo sintotermico Rötzter nelle giornate di sabato 21 e domenica 22 marzo 2020.

sono rivolti alle persone singole ed alle coppie di fidanzati e di sposi che desiderano conoscere i metodiaturali di regolazione della fertilità sia dal punto di vista delle motivazioni che della loro applicazione.

Perugia           marzo 2020                                www.ineritalia.org/noi/corso-base-perugia-2020

Ravenna          maggio 2020

www.ineritalia.org/lo-sapevi-che/163-corsi-di-base-per-l-apprendimento-del-metodo-sintotermico-rotzer-ravenna-

Treviso           marzo 2020                                                    www.ineritalia.org/noi/corso-base-treviso-2020

Verona          maggio 2020        www.ineritalia.org/lo-sapevi-che/252-corso-di-base-verona-ottobre-2019

Corso di formazione per insegnanti del metodo sintotermico Rötzer ottobre 2020

www.ineritalia.org/noi-2/corso-insegnanti-2

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BIBBIA

La passione del Cantico dei Cantici risvegliata dalla lettura di Benigni

Gli italiani non sono assidui lettori della Bibbia, la quale sta magari nelle loro librerie senza essere

letta. Eppure basta che venga citata da chi sa renderla eloquente che richiama e risveglia molti ascoltatori, subito entusiasti. È quello che ha fatto Benigni a Sanremo con il Cantico dei Cantici. È un libretto enigmatico attribuito al sapiente re Salomone ma in realtà è un poema di cui non conosciamo l’autore, un insieme “di frammenti di un discorso amoroso”, un testo antico di almeno ventiquattro secoli.

I rabbini, alla fine del I secolo dopo Cristo, dopo vivaci discussioni lo collocarono tra le Sante Scritture giudicandolo un testo che contiene la Parola di Dio, nonostante sembrasse ad alcuni un poema di amore profano, più adatto alle taverne che alle sinagoghe.

Dunque, il Cantico è il testo nel quale Dio è presente più che altrove e per questo gli ebrei e i cristiani lo hanno sempre letto nelle liturgie e lo hanno commentato con interpretazioni tipologiche e allegoriche. I protagonisti del Cantico, amante e amata, sono dunque Dio e il suo popolo, Cristo e la chiesa, Dio e l’anima del credente. Dal secolo scorso l’interpretazione dominate nelle chiese cristiane legge il Cantico come inno all’amore umano, sensuale, erotico di due giovani amanti che su un piano di uguale dignità si riconcorrono per celebrare la bellezza dei loro corpi, la gloria dei loro sentimenti, il mistero del loro incontro sessuale.

Sì, è l’amore umano, l’unico amore di cui noi umani siamo capaci che è parlato, cantato, celebrato, vissuto e raccontato in questo straordinario libretto che nella conclusione giunge alla domanda: Le carezze, i baci, gli amplessi, il sesso, la forma dei corpi, il risuonare continuo del “tu” e dell’”io”, sono evocati nel Cantico al fine di passare dalla pulsione sessuale al desiderio erotico. Chi sa leggere il Cantico conosce l’autentica ars amandi come umanizzazione, come arte rara, vero antidoto alla pornografia.

E tuttavia, occorre anche dire che per venti secoli il Cantico è stato letto e commentato da rabbini, fino a Emmanuel Levinas e dai primi monaci cristiani, fino a Bonhoeffer, come canto dell’amore tra Dio e il credente, attraverso migliaia di pagine di veri capolavori di letteratura spirituale. Ma se questo fosse stato detto da Benigni non avrebbe accresciuto l’ascolto.

Enzo Bianchi  “la Repubblica” 8 febbraio 2020

rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/02/08/news/la_passione_del_cantico_dei_cantici_risvegliata_dalla_lettura_di_benigni-247992181

https://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.com/2020/02/enzo-bianchi-lettura-infinita-dellamore.html

 

«Canzonissima della Bibbia»: corpi umani e profumo di Dio

Che gioia il Cantico dei Cantici a Sanremo! Grazie a Roberto Benigni che ha sorpreso e stupito il Festival con quel libretto della Bibbia che la tradizione ebraica e cristiana ha conservato come la canzone più bella, la ‘canzonissima’ secondo una suggestione di Gianluigi Prato.

Tre sono i trascendentali: verum, bonum e pulchrum. Importante è il bello. L’arte, nelle sue forme più nobili – quali la musica, la pittura, la poesia – è capace di far emergere il divino che si annida nella Parola, più di ogni altro linguaggio. E allora l’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione (e non può inficiarla neppure la forzata ‘licenza interpretativa’ che ha tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico). Del resto i duetti del Cantico, intervallati dalle voci del coro, assomigliano ai testi delle canzoni in gara e anch’essi nascono in un ambiente popolare; quadretti di vita rurale che hanno il sapore delle sere d’estate o del primo autunno quando, dopo la mietitura o la vendemmia, a notte, si faceva festa e gli occhi e le braccia dei ragazzi e delle ragazze si incrociavano, si intrecciavano, si inebriavano al sogno dei baci.

Nel Cantico – scrive Guido Ceronetti – non c’è il nome di Dio, perché tutto è puro, quindi tutto è sacro! La forza dell’amore sveglia la primavera sui passi dell’amante che – inverosimilmente – è una donna. È lei a uscire per prima verso chi ancora non ha mai visto, ma è solcato nel suo desiderio profondo, nelle sue cavità vitali. Trasgressiva, testarda è la ‘sorella’ del Cantico, si sottrae all’autorità dei fratelli, non cura la sua vigna ma corre verso le ‘tende dei pastori’, esce nei deserti, batte la campagna, sfida le guardie alle mura della città, ‘malata d’amore’! Una vera anomalia per un mondo in cui le donne non potevano scegliere i loro uomini ma venivano date in spose a scopo di procurare ai mariti una discendenza. Non avevano diritto sul proprio corpo, ma la donna del Cantico lo rapisce e ne fa guida e grammatica del viaggio dell’Amore. C’è un esodo dal sé, un’effrazione del self, per osare gli ignoti sentieri, le rischiose curve, gli anfratti del volto dell’Altro.

L’Amore è un’avventura senza garanzie, una strada senza ritorno, ‘forte più della morte’. Irreversibile, fonte di creature nuove, diverse, bagnate di futuro. Amore che azzera i possessivi: ‘io sono sua, mentre lui è mio’: l’estasi di un’unione che non risponde alla tentazione di divorare l’altro, rendendolo un cadavere. Ma è pienezza di ‘te’: del consegnarmi a te. Bocca d’infinito, sorso d’eternità, graffio di Vita! Nel testo originario le sue consonanti asciutte, nette, impossibili a essere fraintese. I sensi sono sentinelle e finestre del corpo, teso fuori di sé. ‘Una voce, il mio amato’: il primo senso è casto come l’udito. ‘Come sei bella, amica mia, come sei bella, le tue labbra una striscia di porpora’. Gli occhi di lui scoprono l’incanto della pelle di lei ‘color del miele’, traduce magnificamente Luca Mazzinghi. Il tuo profumo è la quintessenza di ogni aroma delle piante più squisite d’Oriente; ‘c’è latte e miele sotto la tua lingua‘; l’olfatto e il gusto si alleano nell’estasi d’Amore dove il tuo nardo è ben più forte di ogni vino drogato. Restituiscono al corpo la sua anima. Un minuto solo dura il tatto ma procura un vero svenimento; com’era per i Greci così nel Cantico, l’Amore è lelymmenos ‘scioglitore di membra’. Per fare ‘dei due un corpo solo’ direbbe l’Apostolo Paolo. L’Amore è attesa, fatica, sudore di brama e di timore; esso regala attimi di estasi e anni di deserto, però quegli attimi valgono bene gli anni! L’Amore è corpo nudo, vuoto, puro, come il Santo dei Santi. Per questo il Cantico è il libro dei mistici, Paese sospeso. Dio come in un passaggio, la meghillà di Pasqua. Nel corpo che si perde è il profumo di Dio.

 Per questo è un gran peccato che la Chiesa abbia impedito per secoli l’accesso a questo piccolo libro, grandissimo tesoro, fonte di salute e salvezza per il corpo e per l’anima. Teniamo sveglio il cuore ora che ‘il tempo del canto è tornato’.

Rosanna Virgili          “Avvenire”    8 febbraio 2020

www.avvenire.it/opinioni/pagine/canzonissima-della-bibbia-corpi-umani-e-profumo-di-dio

 

La canzone delle canzoni

Care Amiche ed Amici, vi scriviamo soprattutto per darvi il link al video di Raiplay con l’intervento di Roberto Benigni al festival di Sanremo e la sua esegesi e lettura della Cantica biblica:

www.youtube.com/watch?v=fmkaxyVGDv0

La performance dell’attore ha suscitato reazioni diverse, ma di sicuro è un evento che non può essere ignorato. Non era mai accaduto che un libro della Bibbia facesse un’irruzione così potente in un mondanissimo e frequentatissimo festival della canzone, in base all’esile appiglio del suo titolo, il Cantico dei Cantici, che tradotto in inglese, ha spiegato Benigni, “Song of Songs”, suona come “la canzone delle canzoni”.

Ma quale canzone! Aveva detto il rabbi Aquiba nel Sinodo di Iamnia, nel I secolo, che il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici fu dato ad Israele, perché “tutte le Scritture sono sante ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi”. Nella Cantica l’amore anche fisico non è spiritualizzato ed estenuato ma potenziato dall’essere preso a parabola dell’amore di Dio, e ciò che è rilevante è che l’iniziativa e il desiderio d’amore sono perfettamente reciproci, della sposa e dello sposo: ambedue sono figure di Dio. lo sposo e anche la sposa, perciò la Cantica sembra scritta dalla parte delle donne.

L’idea di Benigni di portare un compendio  di queste pagine millenarie tra le luci e i lustrini di Sanremo è stata geniale, e per quaranta minuti l’evento televisivo è diventato un’altra cosa. Benigni ha giocato tutta la sua lettura sul registro del canto di amore, nel senso anche più fisico e disinibito del termine, proponendo una versione del testo più antica di quella accolta nel canone delle Scritture, precedente perciò a ogni adattamento e censura, una versione in cui abbondano riferimenti puntuali ed espliciti al sesso, ai suoi organi ed alle sue espressioni anche più intensamente erotiche.

 Per questa operazione esegetica l’artista ha detto di essersi affidato ad alte competenze letterarie e bibliche, compreso il cardinale Ravasi, e di certo gli esperti avranno di che discuterne. In ogni caso ciò ha permesso a Benigni di insistere sull’apparente paradosso della presenza nella Bibbia di questo libro d’amore, in cui Dio è nominato una sola volta, contro la tradizione sessuofobica della letteratura religiosa (non senza rilevanti eccezioni, basta pensare a san Bernardo e ai suoi nove sermoni sul bacio) e contro secoli di morale cattolica in cui l’amore sessuale, sub specie del “De sexto” (il sesto comandamento) è stato girato e rigirato in tutti i modi come peccato. L’effetto è stato dirompente, e drastica è stata da parte di Benigni la liquidazione dell’attribuzione assolutoria del testo a Salomone, come delle interpretazioni allegoriche e spiritualistiche, ricorrenti nei Padri della Chiesa e nell’apologetica anche moderna, che hanno cercato di disinnescare il verismo del dialogo amoroso leggendovi l’amore incorporeo e trascendente di Dio, prima verso Israele e poi, con la buona notizia portata da Gesù, verso l’umanità tutta senza distinzioni tra Giudeo e Greco. In tal modo Benigni ha fatto un duplice svelamento; ha svelato agli spiritualisti la carica erotica del Cantico, e ha svelato ai cantanti e agli spettatori di Sanremo di che cosa parlano davvero, al di là delle cautele perbeniste, le loro canzoni d’amore.

Non si può negare che la presentazione di Benigni abbia avuto una forte, anche se nascosta, intenzionalità religiosa, per nulla dissacrante, ed anzi questo amore – forse addirittura scritto da una donna, ha ipotizzato Benigni – è stato definito “santissimo”. Perché tutto portava, pur nella crudezza del linguaggio, a far emergere la natura di infinitezza, di mistero svelato, di assoluto, di necessario dell’amore umano in tutte le sue forme.

Benigni ha chiamato in causa tutti, dicendo che tutti, nell’amore, hanno vissuto i loro momenti di immortalità. Sarebbe stato bello se avesse reso più esplicito il perché un libro così profano, così umano, così terreno, ha preso posto incontestato nella Bibbia, ossia in quella che la Chiesa proclama ogni giorno come “parola di Dio”. Certo, perché quell’amore là, per la sua profondità, intensità ed estasi, è un simbolo potente dell’amore di Dio per le sue creature.

 Ma anche, e ancora di più, oltre il simbolo, perché un Dio che, come diceva l’epistola agli Ebrei delle letture di domenica scorsa, ha condiviso in Cristo “il sangue e la carne” che i figli hanno in comune, condivide anche il loro amore nella carne e nel sangue, ed è “tipo” di ogni autentico amore umano; nella tradizione biblica egli è infatti padre (“padre nostro”) ma altresì madre (“come una madre consola suo figlio così Io…”), e anche negli amori più tormentati è figura di chi ama (“amerò non-Amata dice il Signore…”), e anzi  il rapporto stesso prende il nome di Dio, come scriveva Dietrich Bonhoeffer dal carcere di Tegel: “Anche il rivedersi è un Dio”.                        Con i più cordiali saluti

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/la-canzone-delle-canzoni

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 5, 5 febbraio 2020

Don Chisciotte di Francesco Guccini. Quando l’ideale mette in movimento la vita – a volte in modo folle, ma meglio avere un ideale per cui volare alto e rischiare la vita che restare attaccati alle cose, con un realismo che diventa subito cinismo. Splendida ballata a due voci, con sonorità antiche, che lascia dentro la voglia di mettersi in gioco, perché “sono stato anch’io un realista ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista, l’apparenza delle cose come vedi non m’inganna, preferisco le sorprese di quest’anima tiranna che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti, ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti. Prima d’oggi mi annoiavo e volevo anche morire, ma ora sono un uomo nuovo che non teme di soffrire”.

www.youtube.com/watch?v=pUR2QxLJRE8

Tasse e famiglia. Reddito di cittadinanza, cuneo e no tax area: chi ha figli ci perde sempre. Un tema di attualità, nel dibattito politico nazionale. Vedi il commento del direttore Cisf (F.Belletti)

www.ilsussidiario.net/news/tasse-e-famiglia-rdc-cuneo-e-no-tax-area-chi-ha-figli-ci-perde-sempre/1976264

v  “Basterebbero questi numeri per confermare che le famiglie nel nostro paese non possono aspettarsi granché dal fisco, quando decidono di mettere al mondo un figlio: né lo scenario è molto migliore se si pensa ai servizi per l’infanzia. E poi ci si sorprende perché la natalità continua a crollare!”. In effetti reddito di cittadinanza, riduzione del cuneo fiscale, detrazioni fiscali sono tutti interventi che penalizzano le famiglie con carichi familiari. Ad esempio…

1) “tutti i commentatori più competenti (e non solo quelli “amici della famiglia”) hanno infatti rilevato che oggi il reddito di cittadinanza penalizza in modo molto rilevante le famiglie con più figli.[…]

2) proprio il taglio del cuneo fiscale in fase di approvazione (…) conferma la radicale concezione individualistica e non familiare, anzi, decisamente anti-familiare, che caratterizzava anche la prima versione del bonus (governo Renzi). Infatti l’aumento in busta paga riguarda solo il reddito individuale del lavoratore;

3) […] i carichi familiari nel fisco italiano restano invisibili, anche quando si parla di “no tax area” […].

Redditi e pressione fiscale sulle famiglie. Paper dell’Osservatorio Economico della Fondazione Nazionale dei Commercialisti. Del resto anche un paper della Fondazione Nazionale Commercialisti sottolinea la penalizzazione delle famiglie da parte delle politiche fiscali pubbliche, dato che “[…] dal 2019 al 2019… le famiglie, rispetto agli altri settori istituzionali dell’economia, hanno sopportato quasi per intero il peso dell’aggiustamento fiscale indotto dalla crisi del debito del 2011”. 

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf0520_allegato1.pdf

Unione Europea, verso un sistema di servizi di comunità non istituzionali. joint statement: 10 years towards inclusion (Documento unitario: 10 anni verso l’inclusione), testo presentato a gennaio 2020 da Unicef e altre reti associative, raccolte nello European Expert Group on the Transition from Institutional to Community-based care (Gruppo europeo di esperti per il passaggio dagli istituti alle cure di comunità). Per promuovere le cure territoriali e non residenziali si richiede che: “[…] – non ci siano più investimenti in interventi istituzionali – le risorse dell’Unione Europea vengano utilizzate per migliorare l’accessibilità e la qualità degli interventi di cura a livello familiare e comunitario, anche con l’uso di risorse nazionali, se i fondi UE non sono sufficienti; – coinvolgimento delle persone direttamente interessate a programmazione, monitoraggio e valutazione degli interventi; –  in parallelo si sviluppino interventi per abitazione, servizi educativi e di cura per la prima infanzia, istruzione, occupazione, tempo libero ed attività culturali […]”

https://deinstitutionalisationdotcom.files.wordpress.com/2020/01/10_years_eegstatement_final_1401.pdf

Europa. Famiglia/Lavoro. Better reconciling work and family and supporting people throughout their careers (Migliorare la conciliazione tra lavoro e famiglia il sostegno allo sviluppo professionale e di carriera delle persone), Lettera all’Unione Europea, promossa da IFFD (International Federation for Family Development) e firmata da 59 associazioni di 24 Stati Ue in rappresentanza di oltre un milione di famiglie europee

www.famiglienumerose.org/wp-content/uploads/2019/10/Letter-To-EU-Vice-President-Designate.pdf

 “Nella lettera le associazioni familiari sottolineano di considerare fondamentale la possibilità da parte dei genitori di decidere in piena libertà il numero dei figli, se restare a casa per accudirli per tutto il tempo necessario oppure tornare al più presto al lavoro. Centrale quindi il tema della conciliazione, a partire dalla recente Direttiva Ue e la raccomandazione dell’assemblea delle Nazioni Unite perché venga promossa a livello nazionale la conciliazione come strumento di benessere dei bambini, raggiungimento della parità di genere e il rafforzamento del ruolo della donna nella società”.

Dopo di noi. Relazione del Governo sullo stato di attuazione della legge. Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha appena trasmesso al Parlamento la seconda Relazione sullo stato di attuazione della legge sul “Dopo di noi” con i dati aggiornati al 31 dicembre 2018.

www.informazionefiscale.it/IMG/pdf/legge_dopo_di_noi_aggiornata.pdf

v   Poco meno di 6 mila i beneficiari degli interventi, concentrati in 12 regioni: Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Abruzzo, Molise, Campania e Calabria. “Lo stato di attuazione non è ancora tale da permettere una compiuta rappresentazione degli interventi programmati – si legge nell’introduzione – in diverse Regioni le informazioni raccolte sono ancora parziali, in particolare quanto a beneficiari e strutture finanziate”.

www.camera.it/temiap/2020/01/14/OCD177-4267.pdf

Dalle case editrici

AA. VV., Nonni 2.0. Storie di nonne, nonni & nipoti, Ares, Milano, 2019, pp. 144, € 14,00.

Chi sono i nonni oggi, nella società 2.0, globalizzata, immersa in un cambiamento epocale, iperconnessa nel Web, ma così frammentata nella realtà “vera”? Cosa significa diventare nonni quando la vita frenetica travolge i figli, o lo sgretolamento del tessuto sociale impongono ai più anziani di diventare un supporto, se non addirittura il collante di un altro nucleo familiare?

Se lo sono chiesto anche i 2.400 studenti, di 200 scuole italiane statali e paritarie, che hanno partecipato al concorso «Io e i miei nonni: esperienze e riflessioni», promosso dall’Associazione Nonni 2.0, in collaborazione con la rivista Tempi. Questo volume raccoglie proprio i testi vincitori di quel concorso, e una gustosa rassegna di brani estratti dagli altri lavori in gara. Li introducono un contributo firmato dalla sociologa Giovanna Rossi, dalla psicologa Eugenia Scabini e dal giornalista Robi Ronza, a nome del l’Associazione Nonni 2.0, sul ruolo e il compito dei nonni, nonché una riflessione dello scrittore Davide Rondoni, presidente della Giuria.

Concorso nonni anche per l’anno scolastico 2019-2020 (data scadenza presentazione elaborati: 15 marzo 2020).  L’Associazione NONNI 2.0 ripropone il concorso anche per l’anno scolastico in corso, in collaborazione con la rivista TEMPI, sul tema: “i nonni ci dicono, esperienze per il presente”. Si possono presentare sia elaborati individuali scritti (aperto a tutti gli ordini di scuola) che video, elaborati in classe (riservato alle ultime tre classi delle secondarie di secondo grado). Per ogni informazione scrivere a: associazione@nonniduepuntozero.eu.

Specializzarsi per la famiglia

Formazione sul web.Tutela, diritti e protezione dei minori” www.tutelaminoriunife.it

 Master a distanza presso l’Università di Ferrara. “Finalità del Master è creare nuove figure professionali che andranno ad operare nell’ambito della tutela del minore. L’aspetto interdisciplinare del Master garantisce l’acquisizione di competenze che permetteranno al corsista di affrontate e analizzare le tematiche trasversalmente alle diverse professionalità coinvolte. Tale metodologia consentirà l’elaborazione di strategie operative specifiche in grado di garantire metodi e strumenti utili sia per prevenire sia per sostenere il minore in situazioni di pregiudizio di genere ed etnico, di rischio psicosociale e di disfunzioni/ danni familiari (trascuratezza, abuso, maltrattamento). Sbocchi professionali. La figura professionale che il Master intende formare potrà operare come “Consulente nella tutela dei diritti giuridici, sociali educativi e psicologici del minore”. I campi di applicazione del titolo sono individuabili nelle diverse aree di intervento giuridico, psicologico, educativo, oltre che nell’ambito del primo intervento (Polizia e Carabinieri), della prima accoglienza e della prevenzione”. Scadenza per le iscrizioni: 20 aprile 2020.

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www.centrocta.it/newsletter/SeminarioBULLISMOeCYBERBULLISMO.pdf

www.upra.org/evento/competenze-e-intelligenze-per-il-nuovo-umanesimo-digitale

www.istitutogp2.it/wp/2020/02/04/stefano-boeri-e-pierangelo-sequeri-protagonisti-del-terzo-incontro-a-due-voci-della-cattedra-gaudium-et-spes

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf0620_allegato1.jpeg

https://fathersandfamiliescoalition.org/images/2020/21st-Annual-Families-and-Fathers-Conference-Program_compressed.pdf

Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio     http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/febbraio2020/5158/index.html

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                                                             CHIESA CATTOLICA     

I due secoli di ritardo storico-culturali

Ancora nel maggio del 1966, a Concilio concluso, Paolo VI parlava della Chiesa come di una «città sul monte», quasi una «Gerusalemme celeste»: una società resa omogenea e autonoma da leggi e da autorità proprie. Una comunità unita e governata da un diritto sociale distinto; una nazione, uno stato sui generis, in quanto, già in terra, ordinata/o al «Regno» (Udienza generale 25/5/1966). «La Chiesa ribadiva è appunto una società giuridica, organizzata, visibile, perfetta». E, citando il Compendium juris Ecclesiæ, concludeva: «Che la Chiesa abbia forma di società, è un fatto che cade sotto gli occhi di tutti; è infatti a tutti palese l’esistenza d’una moltitudine di cattolici fedeli, congregata dai quattro venti, soggetta ed obbediente alla guida d’un pastore supremo e di altri particolari rettori, munita di mezzi, sia spirituali che temporali, destinati a vantaggio della comunità, e rivolta al fine soprannaturale della visione beatifica» (Mariano Rampolla Del Tindaro, La città sul monte, Roma 1938).

Sono passati cinquant’anni e molte cose sono cambiate, ma solo il 4 dicembre 2019 scorso, dopo lunghe consultazioni e riflessioni, i vertici vaticani hanno deciso di abolire il segreto pontificio sulle denunce, i processi e le decisioni riguardanti i delitti citati nel primo articolo del recente motu proprio Vos estis lux mundi, vale a dire nei casi di violenza e di atti sessuali compiuti sotto minaccia o abuso di autorità; di abuso sui minori e su persone vulnerabili; di pedopornografia; di mancata denuncia e copertura degli abusatori da parte dei vescovi e dei superiori generali degli istituti religiosi.

            La nuova istruzione specifica anche: «Dette informazioni sono trattate in modo da garantirne la sicurezza, l’integrità e la riservatezza, stabiliti dal Codice di Diritto canonico per tutelare “la buona fama, l’immagine e la sfera privata” delle persone coinvolte. Ma questo segreto d’ufficio non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché d’esecuzione delle richieste delle autorità giudiziarie civili».

            Siamo di fronte al primo, concreto, inequivocabile passo dell’ormai inevitabile rinuncia della nostra Chiesa a trattare sé stessa e il proprio assetto istituzionale come l’anticamera, se non la quintessenza, del Regno? Siamo al punto di non ritorno di quel processo di demitizzazione e desacralizzazione dell’apparato dottrinale ed ecclesiologico cattolico, premessa a ogni nuovo fecondo dialogo della Chiesa con la modernità, voluto dai promotori e temuto dagli oppositori del Vaticano II?

            A giudicare dalla reazione allarmata dei settori più conservatori della Chiesa italiana, verrebbe da dire di sì, visto quanto, in proposito, scrive il nostro alter ego quotidiano [Il foglio] e loro fan sfegatato, Giuliano Ferrara: «Il Papa ha scelto di non portare avanti un’azione di contrasto al romanzo gotico decristianizzatore del mondo contemporaneo e con la scusa della pedofilia ha reso il Vaticano ostaggio della giustizia della delazione. Ben scavato vecchia talpa» («Il Foglio» 19/12/2019).

Qui potremmo fermarci, non prima però di aver fatto presente, sia ai nostri lettori più anziani e smemorati, sia ai più giovani, ignari di antiche battaglie, che all’origine di tanto spudorata demonizzazione del pontificato di Bergoglio, non stanno solo i pettegolezzi dei troppi porporati emeriti, delusi e frustrati, alla Viganò, bensì il retaggio di quell’intransigentismo clerical-confessionale a cui, citando il cardinal Martini, papa Francesco addebita «i due secoli di ritardo storico-culturali che vanificano la missione evangelizzatrice della Chiesa oggi» (Discorso alla Curia 21/12/2019)

Quale visione del cristianesimo, infatti, intende difendere Ferrara quando scrive: «Papa Francesco, togliendo il segreto pontificio dagli atti investigativi e processuali canonici, ad ogni livello, fa un passo, più che verso la trasparenza, verso il caos e il mondo, che, come si sa, sono strettamente intrecciati»? Se non il cristianesimo sotto forma di «cristianità», o meglio di «cattolicità politicamente e religiosamente assolutista»?

Così infatti scriveva Donoso Cortes a sostegno del Sillabo di Pio IX: «Il cammino dell’umanità è un mistero profondo, che ha ricevuto due spiegazioni contrarie: quella del cattolicesimo (conoscenza per fede) e quella della filosofia (conoscenza razionale). L’insieme di ciascuna di queste spiegazioni costituisce una “civiltà completa”. Tra queste due civiltà (modelli sociali) vi è un abisso insondabile, un antagonismo assoluto … La “civiltà-società cattolica” contiene il bene senza mescolanza di male, mentre la “civiltà-società filosofica” contiene il male, senza mescolanza di bene» (G. Miccoli, Tra mito della cristianità e secolarizzazione, p. 58, Marietti 1985).

Editoriale “Il foglio” (Torino) n. 468   www.ilfoglio.info/default.asp?id=30&mnu=30

 

Clero uxorato e clero concubinario: due realtà, un solo destino (di Claudio U. Cortoni)

Con questo documentato studio, il prof. Cortoni mostra in modo convincente come le categorie con cui si giudicava della “forma di vita” del chierico nell’epoca tardo antica e medievale rispondevano non solo ad una maggiore articolazione interna alla vita ministeriale, ma facevano i conti con una comprensione del matrimonio spesso altamente riduttiva. Così, non solo è utile riconoscere che non vi era alternativa tra clero uxorato” e “clero celibatario”, visto che entrambi vivevano “in continenza”, essendo escluso che il chierico potesse generare. In questo ambito si inserisce anche la categoria di “clero concubinario”, che spesso si è confusa con quella del “clero uxorato”, portando ad un giudizio negativo che ha colpito entrambe, perdendo il senso della distinzione, che appare ancora chiara al Concilio Lateranense IV. Ringrazio il prof. Cortoni, caro collega a S. Anselmo, per aver consentito la pubblicazione su questo blog del suo studio originale, dotato di un apparato e di una articolazione tanto rara quanto preziosa.

 

Clero uxorato e clero concubinario: due realtà, un solo destino

Claudio Ubaldo Cortoni (prof. di teologia medievale presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo – Roma)

L’invito di Pablo Picasso a non giudicare sbagliato ciò che non si conosce, per cogliere l’occasione di comprendere, è un monito a non procedere nella ricerca per giustapposizioni: clero uxorato o celibato del clero, come se il primo volesse essere un’alternativa al secondo, quando in entrambi i casi, i candidati al ministero ordinato, erano richiamati alla continenza.

Sulla consuetudine di avere nella chiesa latina un clero uxorato ha pesato, infatti, il giudizio che il matrimonio quanto il celibato siano un rimedio alla concupiscenza: il primo rende lecita la copula carnale finalizzandola alla continuazione della specie e all’educazione cristiana della prole; il secondo, che esclude a priori la fornicazione, ritenuta incompatibile col ministero, ha imposto agli uomini sposati, che accedono all’ordine, di praticare la continenza, e di rinunciare a concepire una prole propria.

Il linguaggio, a cui sono ricorso, non riassume ovviamente l’elaborazione teologico-spirituale propria del mondo monastico, – che sin dal principio aveva accolto il celibato come una delle forme essenziali della vita claustrale –; appartiene invece alla tradizione disciplinare che così si è espressa dalle sinodali della chiesa merovingia ai capitolari carolingi, e dalla produzione canonistica seguente alle più elaborate strutture del pensiero scolastico.

Dobbiamo dunque rinunciare ad una posizione che considera il clero uxorato come una deviazione della norma (celibato), per capire come una determinata consuetudine possa essere stata mantenuta tanto a lungo nella chiesa latina (IX-XIII.1), e allo stesso tempo sia stata oggetto di una così ampia produzione canonistica, tesa a limitarne alcuni aspetti della vita coniugale (imposizione della continenza dopo l’ordinazione), e che mai si è voluta sostituire o creare un’alternativa al celibato. Per questo vanno tenuti presenti alcuni passaggi storici per capire in quale misura e per quale motivo il clero uxorato venne avversato dalla chiesa latina:

  • L’accesso al ministero ordinato in tarda età di uomini sposati, e questo già nella chiesa merovingia per poi proseguire in quella carolingia.
  • Il diverso trattamento, nella produzione canonistica tardoantica e altomedievale, tra clero uxorato (ovvero continenza imposta agli uomini sposati che accedono agli ordini), concubinario (forma rigettata), e il divieto di contrarre matrimonio dopo l’ordinazione.
  • Graduale sostituzione del clero uxorato con quello concubinario nel X sec.
  • La reazione del magistero papale alla lotta contro il clero concubinario, e per esteso anche a quello uxorato, avviata nell’XI sec. dalla Pataria milanese.

1. Una guida alla distinzione tra continenza e celibato (sec. IV-VI). Nel IV sec. è chiaro che il clero uxorato era una delle forme coesistenti con il clero celibatario, per i quali esisteva una legislazione propria. La fonte più antica portata a sostegno della lex celibataria è il Sinodo di Elvira celebrato tra il 300 e il 303, senza però distinguere tra il can. 27 e il 33, i cui destinatari sono ovviamente diversi: Can. 27. Un vescovo, come qualsiasi altro chierico, abbia con sé solo o una sorella o una figlia vergine consacrata a Dio; si è stabilito che non debba assolutamente avere un’estranea.

Tale canone non è diretto a limitare il clero uxorato ma ad evitare qualsivoglia forma di concubinato dei ministri già ordinati, per i quali è impossibile accedere a nozze lecite. In questo modo è spiegabile l’introduzione di un canone ulteriore, che impone agli uomini sposati, e solo in un secondo momento ordinati, di astenersi dai rapporti coniugali: Can. 33. Si è deciso complessivamente il seguente divieto ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, come a tutti i chierici che esercitino un ministero: si astengano dalle loro mogli e non generino figli; chi lo avrà fatto, dovrà essere allontanato dallo stato clericale.

            Non viene messa in dubbio l’esistenza di un clero uxorato, ma viene disposto che con l’ordinazione i ministri vivano nella continenza. Questo è dovuto al fatto che molto spesso venivano ordinati in tarda età, perché giungevano alla fede nella loro maturità, associando il clero uxorato al processo di evangelizzazione nelle ex provincie dell’Impero d’Occidente.

            Nella Lettera Discreta ad decessorem al vescovo Imerio di Tarragona del 10 febbraio 385, Siricio ribadisce il contenuto di Elvira:

 c. 7, § 8) Abbiamo infatti appreso, che molti sacerdoti di Cristo e leviti lungo tempo dopo la loro consacrazione hanno generato sia dal proprio matrimonio che anche da turpe coito e che si difendono da incriminazioni con la scusa che nell’Antico Testamento si legge che ai sacerdoti e ai ministri è concessa la facoltà di generare.

 (§ 9) Per quale motivo si comandava ai sacerdoti nell’anno del loro ministero di abitare nel tempio, lontano persino da casa? Senz’altro perché non potessero esercitare rapporti carnali neppure con le mogli, per offrire a Dio un dono gradito nello splendore dell’integrità della coscienza.

Viene ribadita la continenza per il clero uxorato dal momento che entra al servizio di Dio nelle cose sacre. Tra i due documenti, che da una parte ribadiscono il celibato dopo l’ordinazione per coloro che non avevano precedentemente contratto matrimonio, e la continenza per gli uomini ordinati dopo aver contratto matrimonio, nel 320 vennero abolite le misure contro il celibato e la mancanza di una prole (orbitas). La continenza del clero uxorato viene ribadita al concilio di Cartagine del 390 e in quelli successivi. Al can. 1 del Concilio di Vaison del 529, parlando della consuetudine osservata in Italia («per totam Italiam») di prendere in casa giovani lettori perché vengano istruiti dai presbiteri, incaricati di una parrocchia, una volta giunti alla maggiore età, se manifestano il desiderio di prendere moglie, si stabilisce che gli venga concesso di contrarre lecitamente matrimonio «pro carnis fragilitate».

2. La chiesa latina nell’Oriente cristiano: dalla tolleranza a rinnovate consuetudini (sec. IX-XIII). Niccolò I all’art. 70 dei Responsa ad consulta Bulgarorum (866), pur preferendo al clero uxorato quello celibatario, non condanna il primo, affermando che ogni giudizio sulla condotta morale del presbiterio sia deferita al vescovo. La risposta di Niccolò I tiene conto della tradizione orientale, con la quale è chiamato a confrontarsi nei Responsa, quanto della situazione latina, che alla fine del IX sec. continua nell’opera di moralizzazione del clero, dando inizio a quel processo che avrebbe unito in un unico destino clero uxorato e clero concubinario.

Negli Annales Fuldenses all’anno 874 appare, infatti, un riferimento alla «heresis nicolaitarum», ovvero all’eresia dei nicolaiti, con la quale venne identificato il clero concubinario, facendo riferimento ai perduti capitula presentati da Eginardo a Ludovico il Pio (c. 829).

Nel sec. X Raterio di Verona accusa il clero di mulierositas, ovvero di una smodata passione per le donne, aggiungendo al problema del concubinato quello dei rapporti illeciti consumati fuori il matrimonio o contro il celibato, a cui gli uomini non sposati prima dell’ordinazione sono obbligati. Tra XI e XII sec. le posizioni contro il clero concubinario si inasprirono ulteriormente con lo scontro nato in Lombardia tra Patarini e Nicolaiti, quando i primi ritennero incompatibile la coabitazione matrimoniale con l’ufficio del presbitero.

Al sinodo di Pavia, convocato nel 1022 da Benedetto VIII e dall’imperatore Enrico II, venne fatto divieto al clero di ogni grado di accedere a nozze o di avere con sé delle concubine. Al momento di sancire come le figlie e i figli nati da rapporto siano esclusi da qualsiasi trasmissione di beni della chiesa, si precisa nati dal rapporto tra un chierico e una donna libera, qualunque fosse stata la natura del rapporto intercorso tra loro, e cioè matrimonio o concubinato, dato che la continenza e il divieto di procreare prole propria erano già stati sanciti nei sinodi della chiesa latina tardoantica.

            I provvedimenti contro la simonia e il nicolaismo, o concubinato, proseguirono anche sotto il pontificato di Leone IX, che ribadì la disciplina romana in tale materia nei sinodi convocati tra l’aprile 1049 e l’aprile-maggio 1050. Nel 1059 papa Niccolò II si trovò a riprovare lo sciopero liturgico a cui Arialdo aveva invitato i fedeli di Milano, e cioè di non prendere parte a liturgie presiedute da clero accusato di nicolaismo. Niccolò II ritenne inopportuno applicare lo sciopero liturgico nel caso di celebrazioni presiedute da clero uxorato, e cioè lecitamente sposato, mentre ne ribadì la legittimità contro il clero concubinario. Tale opinione tiene conto del Constitutum de castitate clericorum di Leone IX, che proibiva di prendere parte a liturgie presiedute da clero notoriamente concubinario, e la posizione di Burcardo di Worms nel Decretum, che si opponeva allo sciopero liturgico attuato per le celebrazioni presiedute dal clero nicolaita. In questo modo al sinodo di Roma del 1059, si poté nuovamente distinguere tra clero uxorato e concubinario, applicando per il primo il principio di Burcardo di Worms, e nel secondo caso la linea di Leone IX, fatto salvo il principio che il clero uxorato doveva comunque osservare la continenza nei rapporti coniugali. Il Concilio romano del 1059 venne ripreso l’anno seguente da Stefano cardinale di S. Crisogono, legato al sinodo di Tours e Vienne, e Ugo di Cluny, legato ai sinodi di Avignone e Tolosa.

Ma anche, il tanto citato, Concilio lateranense IV al can. 14 riserva qualche sorpresa, a dispetto dei tre precedenti Concili celebrati in Laterano del 1119, che parla di coabitazioni del clero con donne altrimenti stabilite da Nicea, dunque comprese le mogli, e del 1139, che priva dei benefici ecclesiastici coloro che hanno contratto matrimonio o coabitano con concubine, o del 1179, che ribadiscono il principio che vengano privati dei benefici ecclesiastici coloro che per incontinenza coabitano con concubine: I chierici che, secondo l’uso della loro regione, non hanno rinunziato all’unione coniugale, se cadessero in peccato, siano puniti più gravemente, dato che hanno la possibilità di godere del legittimo matrimonio.

Il can. 14 ammette la coesistenza, ancora nel XIII sec., di un clero celibatario e di un clero uxorato, condannando nei passi precedenti quello concubinario. Per un chierico, nella cui regione è concesso contrarre matrimonio legittimamente, se cadrà in peccato cercando piacere fuori dalle legittime nozze, è richiesta una punizione più severa rispetto a quanti non hanno tale possibilità. Al Lateranense IV parteciparono anche i prelati della chiesa latina d’Oriente, alla quale forse è riferibile quel «secundum regionis sue morem», e cioè il fatto che la tradizione latina avesse fatto proprie le consuetudini della tradizione orientale sul clero uxorato. Infatti non si parla di continenza anche per il clero sposato, ma si parla solo di punire chi cerca rapporti illeciti fuori del matrimonio.

3.Una possibile conclusione. Un primo passo nella comprensione dell’ampio fenomeno che fu la presenza del clero uxorato nella tradizione latina, è quello di distinguerlo storicamente dal clero concubinario, con il quale invece finì per essere identificato durante la lotta all’eresia nicolaita.

Un secondo passo è quello di non considerarlo come un’anomalia rispetto alla lex celibataria, alla quale non si oppone né si vuole sostituire. Infatti il matrimonio era concesso prima dell’ordinazione e vietato dopo, come dopo l’ordinazione agli uomini già sposati venne vietato di avere qualsiasi rapporto coniugale con la sposa e di procreare prole propria.

Un terzo passo dovrebbe essere quello che prende in esame la comparsa e il perdurare nella chiesa di questa particolare vocazione al ministero ordinato: in un primo momento, e cioè dalla fine del Tardo Antico all’Alto Medioevo, sono uomini già sposati, probabilmente giunti alla fede in tarda età, ammessi agli ordini sacri a beneficio di una particolare comunità in una fase ancora di evangelizzazione (va dunque meglio conosciuta la storia che riguarda l’evangelizzazione dell’Europa); e in un secondo momento i contatti tra la chiesa latina, e la sua disciplina canonica, con la tradizione greca.

In particolare se consideriamo in quest’ottica il Lateranense IV del 1215, capiamo che la chiesa universale ha saputo far propria la ricchezza che gli veniva offerta dalla tradizione orientale quando si stabilì in quelle terre. Dunque va adottato un doppio sguardo, quello locale (usi propri di una regione) e di opportunità (l’evangelizzazione).

Un quarto ed ultimo gradino è quello di inserire la crisi del clero uxorato nel più vasto, e meno studiato, problema della teologia che si costruì intorno al matrimonio, specialmente tra XII e XIII sec., quando alcune correnti eterodosse, per il rapporto carnale che l’unione tra un uomo e una donna comportava, condannarono come illecito contrarre matrimonio.     21 note

Claudio Ubaldo Cortoni (professore di teologia medievale Pontificio Ateneo S. Anselmo – Roma)

Andrea Grillo blog: Come se non       5 febbraio 2020

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Il celibato dei preti cattolici

Il cardinal Sarah, prefetto della congregazione per il Culto divino, giocando d’anticipo, ha fatto uscire il suo libro “Dal profondo del nostro cuore”, – coautore il papa emerito Ratzinger,- prima che papa Francesco facesse uscire l’esortazione apostolica a seguito del Sinodo amazzonico (dopo ogni sinodo segue l’esortazione papale). In questo sinodo è venuto prepotentemente alla ribalta il problema del celibato, perché ci si è dovuti chiedere se è giusto, per salvaguardare il celibato (istituito nella convinzione che operi a favore del servizio del popolo di Dio), non accorgersi che il popolo di Dio non riesce ad essere servito come Dio vuole, essendo impedito a partecipareall’eucaristia per mancanza di preti.

L’editoriale di Le Monde del 29.X.2019 è uscito dicendo: “La tradizione del celibato sacerdotale nella chiesa cattolica diffusa dopo la riforma gregoriana dell’undicesimo secolo, non è più intoccabile. Dopo tre settimane di dibattiti a Roma dal 6 al 27 ottobre 2019, un’assemblea speciale del sinodo dei vescovi per l’Amazzonia ha intaccato quello che fino ad ora era un tabù”.

Come ha scritto il vaticanista Marco Politi, l’intervento del papa emerito è una grave interferenza perché proprio in questo periodo papa Francesco doveva prendere una decisione nella pienezza dei suoi poteri. Ed è ancor più grave posto che questa entrata a gamba tesa disorienta e crea confusione: quale papa dobbiamo ascoltare? Quello regnate o quello emerito? Ovviamente – come sottolinea sempre Politi, – questo finirà per far aprire un altro dibattito sulla necessità di definire rigorosamente lo status dei papi dimissionari, magari eliminando il titolo di “papa emerito” e la veste bianca, visto che questa nuova situazione sembra creare solo confusione. In effetti già l’anno scorso papa emerito Ratzinger aveva scritto un saggio sulla radici degli abusi nella Chiesa attribuendo ogni colpa al 1968, e contrapponendosi frontalmente all’analisi appena fatta da papa Francesco.

  1. Ma, soffermandoci sul celibato, dobbiamo domandarci: “scusate signori, scrupolosi osservanti di questa tradizione, non siete voi a dire che è stato Gesù a nominare Pietro suo successore e che Pietro è stato il primo papa? E allora state in realtà dicendo che Gesù ignorava che l’infallibile Spirito santo avrebbe in seguito spiegato alla Chiesa che la vera volontà di Dio prevedeva il celibato non solo per il papa, ma per tutti i sacerdoti (solo così in grado di donarsi totalmente agli altri), interpretando così Gesù meglio di Gesù stesso, sì che se fosse stato per lo Spirito santo, mai e poi mai lo sposato Pietro sarebbe diventato papa. Insomma, Gesù – Dio in persona secondo il magistero – innalzando alla carica di papa un uomo sposato avrebbe preso una solenne cantonata teologica: quindi state dicendo che Dio ha smentito Dio”.
  2. San Paolo, nelle sue lettere, da un lato ha confermato che un presbitero sposato non faceva alcun problema: “bisogna che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna…. che tenga i figli sottomessi e pienamente rispettosi” (1Tm 3, 2-4). Il candidato presbitero che la comunità deve scegliere deve essere irreprensibile, sposato una sola volta con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati; per il vescovo si richiede ancora qualche qualità in più (Tt 6-7). Dall’altro lato, però, come spesso avviene in Paolo, si trova anche detto che il peccato ci incatena, e ci impedisce di staccarci dalla terra e di ascendere verso l’alto, come invece riesce a fare il santo, che si avvicina agli angeli. Da questa idea che occorre staccarsi dalla materia per avvicinarsi a Dio nasce anche la convinzione secondo cui chi è maritato si dà pensiero delle cose del mondo; chi invece non lo è, cerca le cose di Dio (1Cor 7, 34), perciò chi si sposa fa bene, ma chi non si sposa fa meglio (1Cor 7, 38.), in quanto tutto il suo essere può essere proteso a un ideale e a una missione: ecco perché il celibato è superiore al matrimonio; ecco perché, da subito, Paolo (1Cor 7, 25-35) esalta la verginità. Ecco perché l’Apocalisse (Ap 14, 4) esalta i non contaminati con donne, e anche Paolo aggiunge che è cosa buona pe]r l’uomo non toccare la donna; ma siccome è meglio sposarsi che ardere, il sesso nel matrimonio va tollerato solo come rimedio alla concupiscenza (1Cor. 7, 1-9).

Va però ricordato a tutti che Paolo non aveva conosciuto il Cristo terreno, l’uomo Gesù che era vissuto in un determinato periodo ed ambito storico, e che aveva lottato per lenire le sofferenze della gente. È evidente, allora, che alla teologia di Paolo manca qualcosa. La teologia paolina non può essere completa, perché – come ha più volte osservato il teologo José M. Castillo, – manca completamente del Gesù terreno.

La Chiesa cattolica ha seguito questa linea (gnostica?) di Paolo, e ha presto condiviso l’idea che il matrimonio non è un aiuto, ma un ostacolo a una vita dedita totalmente a Dio (1Cor 7, 27), cosa che è richiesta ai chierici. Comunque, pur avendo la disciplina della continenza sessuale radici antiche, è stato il concilio Lateranense II, appena nel 1215, a sollecitare tutti i chierici a un vita continente e casta (can.14) e a dichiarare invalidi i matrimoni contratti da chierici che avevano ricevuto gli ordini maggiori (can.7).

Il can.9 della XXIV sessione del concilio di Trento [1545-1563, presiedutoda papa Giulio III, papa Pio IV,  e dal 1561da Ercole Gonzaga, (*1505, vescovo a 16 anni, e cardinale  a 22 anni per l’intervento della madre,], confermando quanto dichiarato dal concilio Lateranense II lanciava il solito anatema contro chi affermava che il divieto di matrimonio per chierici fosse una condanna dello stesso matrimonio. Occorreva semplicemente salvaguardare la continenza sacerdotale e per questo vennero aperti i seminari (dove, come sappiamo, è poi successo di tutto). In pratica è stato il concilio di Trento a confermare definitivamente il celibato come forma più adatta e nobile di osservanza della continenza, già da molto tempo richiesta dalla Chiesa ai suoi ministri sacri.

Il cardinal Sarah sostiene nel suo libro che coloro i quali affermano che il celibato sacerdotale è soltanto una disciplina tardivamente imposta dalla Chiesa latina ai propri chierici stanno dichiarando il falso. Ma poi, sempre nel suo libro riconosce che nel corso del primo millennio sono stati ordinati sacerdoti molti uomini sposati, anche se a partire dalla loro ordinazione essi erano tenuti all’astinenza dai rapporti sessuali con le proprie mogli, e comunque già nel IV secolo veniva affermata nei concili la necessità della continenza per i preti.

Due osservazioni. Visto che di continenza si comincia a parlare nel 300 d.C., ciò significa che per oltre due secoli e mezzo i cristiani non avevano il celibato dei sacerdotti, e se i sacerdoti potevano essere ancora sposati nel primo millennio, chi parla di disciplina tardiva non sta dicendo il falso.

Secondo punto. Mi sembra evidente che nella religione è presto entrato lo zampino dello gnosticismo: nella religione l’uomo, che è fatto di carne, deve spiritualizzarsi per potersi avvicinare a Dio, che è essenza spirituale.

E qual è stata allora la ragione profonda del divieto di sposarsi? Basta andare a leggere cosa pensava papa Damaso (366-384) il quale giustificava la continenza sacerdotale per il fatto che i ministri dovevano offrire quotidianamente il sacrificio eucaristico. Sulla stessa linea i papi Siricio (*334-399) e Innocenzo I (*378-417: poiché i ministri devono essere quotidianamente presenti in chiesa non hanno il tempo necessario per purificarsi degnamente dopo l’unione coniugale. Forse non tutti sanno ma, per questo stesso motivo, fino al concilio Vaticano II, marito e moglie che avevano appena fatto l’amore non potevano accostarsi all’eucarestia; e ancora si discuteva4 se il maschio che aveva avuto una polluzione notturna poteva accostarsi, la mattina dopo, alla comunione.

[Tommaso d’Aquino, Summa Theologicae, III, 79, 7, : “La copula coniugale, quando è senza peccato, ossia quando si compie per la generazione della prole o per rendere il debito (obbligo di concedersi), non impedisce la comunione eucaristica se non nella misura in cui la impedisce, come si è detto, la polluzione notturna avvenuta senza peccato, ossia per la sozzura del corpo e perla distrazione della mente”. Se questo non è gnosticismo (forma di conoscenza spiritualistica e misticheggiante) …]

Dopo duemila anni non si aveva ancora assimilato l’idea che, con Gesù, Dio è disceso per farsi uomo (l’incarnazione, l’Emmanuele, il Dio con noi) e che questo Dio dà valore alla carne. Se uno elogiasse Dante Alighieri incontrandolo, e questi gli chiedesse: «E qual è la mia opera che ti è piaciuta di più?» ma questi balbettasse imbarazzato: «veramente non ho letto niente, ma conosco i titoli delle Sue opere e poi il Suo nome è così famoso!» cosa penseremmo? Eppure questo accade anche a Dio: quante persone vanno incontro a Lui con tanti «ti amo», «ti adoro!», ma poi disprezzano la sua creazione fatta di carne e materia! Credono perfino di essere tanto più santi quanto più disprezzano la materia. Ma forse Dio si aspetta invece che amiamo le sue creature come fa Lui. Per dirla con Buber, l’uomo non può avvicinarsi a Dio saltando ciò che è umano, carnale, materiale. [Ricordo che è frutto del dualismo gnostico pensare che il dio buono, che regna in paradiso, ha creato lo spirito (e l’anima), mentre la materia e il corpo sono opera del dio malvagio che regna all’inferno. Da qui l’idea che il corpo e ciò che è collegato ad esso, è male. Dunque la Chiesa, pur avendo condannato l’eresia gnostica, ha mantenuto l’idea gnostica che la carne, il sesso, la materia sono,in fondo, il male e che, chi pratica il sesso, finirà all’inferno. Ma Gesù ha smentito questa idea.]

Stando a quanto ci raccontano i vangeli su Gesù, l’immagine che lui ci dà di Dio fa intendere che lui non ha espulso il sacro dal mondo, ma ha piuttosto desacralizzato la divinità spirituale per sacralizzare l’umanità carnale; però questo non può essere accettato dalla religione (José Maria Castillo).

Incarnarsi, umanizzarsi, implica che la cosa più importante nell’esistenza di ogni individuo dovrebbe essere il rapporto umano con gli altri. La religione, invece, insegna imperterrita che la cosa più importante è il rapporto con Dio, sì che l’uomo deve spiritualizzarsi, sollevarsi fino a lasciare l’impura e volgare materia, santificarsi, separarsi dagli altri che non vogliono o non riescono innalzarsi verso Dio. I vangeli denunciano questi due movimenti contrari: Dio scende incarnandosi nell’umano per stare con noi, mentre la persona religiosa, che vuole diventare santa, sale per incontrarsi col divino: finisce che i due non s’incontrano mai, perché la persona religiosa (come il sacerdote della parabola del buon samaritano) è tanto presa dall’innalzarsi verso Dio che non vede i bisogni degli uomini che le stanno accanto, in mezzo ai quali è invece già disceso Dio.

Allora la sua preghiera elevata a un Dio lontano torna spossata sulla terra, senza aver incontrato il suo destinatario, visto che Dio si è fatto carne ed è qui sulla terra, alla portata di mano di tutti. Papa Siricio, arrivò a sostenere che la continenza era stata voluta dallo stesso Gesù: se infatti i sacerdoti dell’Antico Testamento erano obbligati a osservare la continenza durante il loro servizio al Tempio (nda: ma non c’era il divieto di sposarsi, tanto che Zaccaria era sposato con Elisabetta), essendo Gesù venuto a completare l’Antico Testamento, anche i sacerdoti del Nuovo Testamento, che offrono ogni giorno il sacrificio eucaristico, devono osservare la stessa continenza. Peccato che Gesù non fosse sacerdote, che non abbia nominato nessuno dei dodici apostoli e nessun altro discepolo, che se la spiritualità si stacca dalla materia si cade facilmente nell’eresia gnostica, che la tensione esclusivamente verso Dio finisce per assorbire il cristiano facendolo vivere concentrato su sé stesso, sul proprio miglioramento, sul proprio perfezionamento morale, sulla santità propria, [Originariamente “santo” significa trascendente, separato] senza tempo per mettersi a disposizione totale degli altri. (Tutti comprendevano all’epoca la santità come la separazione da ciò che è impuro. Secondo la comunità di Qumran non era più possibile vivere in maniera santa in mezzo a quella società così contaminata, per cui si ritirano nel deserto. I farisei, sforzandosi di osservare la legge che obbligava soltanto i sacerdoti, cercavano invece di trasformare la terra promessa in una sorta di tempio abitato dal Dio santo, sì che tutto il popolo fosse un regno di santi. Per Gesù, Dio è santo non perché vive separato dagli impuri (se a nessuno piace avere accanto gente infetta e sgradevole, questo doveva valere anche per Dio, secondo l’opinione comune), ma perché è compassionevole con tutti. La compassione è per Gesù il modo di imitare Dio, di essere santi come lui. Dunque, il santo non ha bisogno di essere protetto dalla separazione per evitare la contaminazione; al contrario, è il santo a contagiare con la sua purezza e a trasformare l’impuro. Quando Gesù tocca il lebbroso, non è Gesù a restare impuro, ma è il lebbroso a purificarsi. José Antonio Pagola).

  1. Nel decreto conciliare Presbyterorum Ordinis § 16 si afferma con chiarezza che «la perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli (…) non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali». Anzi, i preti sposati di quelle Chiese vengono esortati nello stesso documento conciliare «a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato». Dunque il concilio dice che il celibato non è essenziale per il sacerdozio. Perciò quando il papa emerito scrive che “Sulla base della celebrazione giornaliera dell’Eucaristia, e sulla base del servizio per Dio che essa includeva, scaturì da sé l’impossibilità di un legame matrimoniale” conferma quanto avevano detto i suoi predecessori, ma quando scrive che “l’astinenza funzionale si era trasformata da sé in un’astinenza ontologica” va contro la statuizione del concilio Vaticano II, il quale dice che la struttura del sacerdozio non prevede di per sé il celibato.
  2. Le altre Chiese cristiane, a differenza di quella cattolica, hanno da tempo preti sposati. Si dirà che la Chiesa cattolica non riconosce come tali le Chiese protestanti perché i ministri protestanti non sono ordinati da un vescovo ritenuto nella successione apostolica, quindi saremmo davanti a delle mere comunità ecclesiali e la loro liturgia eucaristica non sarebbe valida. I protestanti replicano che i loro ministri non saranno successori storici degli apostoli, ma sono successori nel messaggio apostolico (“Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli”: Gv 6, 63). E soprattutto non basta la successione storica, perché – ben più arduo – è succedere nella vita apostolica, che è parte integrante della successione apostolica. In altre parole, una successione apostolica non accompagnata da una vita apostolica non è vera successione apostolica, e quest’affermazione mi sembra inoppugnabile. In quest’ottica, forse nessuna chiesa, oggi, sta veramente nella successione apostolica: ecco perché tutte perdono credibilità e fedeli.

Ma non sono solo le Chiese protestanti ad avere ministri sposati: anche le Chiese ortodosse orientali (e queste sono vere Chiese anche per il Vaticano in quanto qui c’è la piena successione apostolica) hanno da sempre preti sposati. Siamo noi i più intelligenti? i più bravi? i più ortodossi?

In proposito, già il concilio Trullano II [691-692], convocato [e presieduto] dall’imperatore Giustiniano II nel 691, aveva rappresentato il crinale di separazione tra Chiesa orientale e Chiesa occidentale, perché il can.13 aveva stabilito che, contrariamente alla prassi romana che proibiva il matrimonio, i sacerdoti e i diaconi della Chiesa orientale potevano, in forza di antiche prescrizioni apostoliche, convivere con le loro spose e prestare il debito coniugale (14 Ad es., in 1Cor 9, 5 san Paolo dice che Pietro e gli altri apostoli hanno con sé le mogli).

  1. Va poi rammentato che, anche se non tutti lo sanno, perfino nella cattolica Italia, da tempo immemorabile, esistono preti cattolici sposati. A questo proposito il magistero dovrebbe allora spiegarci in maniera logica perché in Italia, nelle diocesi di rito latino i preti sono obbligati a restare celibi, mentre nelle diocesi di rito bizantino – come Piana degli Albanesi in Sicilia, Lungro in Calabria – i preti sposati sono la norma. Soprattutto tutti dovrebbero essere informati che nel Codice dei canoni delle Chiese cattoliche di rito orientale firmato da papa Giovanni Paolo II, si spiega con chiarezza, che tra matrimonio e ordine sacro non solo non c’è alcuna contraddizione ma rappresentano un approfondimento reciproco del triplice dono sacerdotale, profetico e regale di ogni battezzato (can.7). Di nuovo viene smentita la continenza ontologica di cui parla il papa emerito.

Non solo: sempre papa Giovanni Paolo II aveva detto “Non si può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone; bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale”: ci sono anche due tradizioni, due prassi, due codici. Entrambi pienamente legittimi e pienamente fondati dal punto di vista della tradizione e del magistero, come anche il Vaticano II ha riconosciuto”.

  1. E, ciliegina sulla torta, lo stesso papa Benedetto XVI, il 4 novembre 2009, con la Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus aveva aperto le porte della Chiesa cattolica ai preti anglicani sposati. Del resto, l’apertura ai sacerdoti sposati “appartenenti a Chiese o a comunità cristiane tuttora divise dalla comunione cattolica, i quali, desiderano aderire alla pienezza di tale comunione e di esercitarvi il sacro ministero” era già stata prevista in via generale e astratta dal §42 della Lettera Sacerdotalis cælibatus di papa Paolo VI del 24.6.67. Quindi il Sinodo dell’Amazzonia segue un indirizzo ammesso da papi non certamente tacciati di sfegatato progressismo.
  2. 7.       Si dice, a favore del celibato sacerdotale, che esso non esprime la rinuncia ad amare, ma anzi manifesta la scelta di amare teneramente e liberamente tutti e ciascuno, senza riserve, senza tenere nulla per sé: il massimo dell’amore. «La volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha conl’Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivocon cui Gesù Cristo Capo e Sposo l’ha amata… Il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva diGesù Cristo Sposo della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, nn. 29 e 22). Aggiunge il vescovo Sarah che la Chiesa ha bisogno che degli uomini la amino dell’amore stesso di Cristo-Sposo ((Benedetto XVI e Sarah Robert, Dal profondo del nostro cuore,

            Cantagalli, Siena, 2020, 75).

In realtà, l’amore così concepito, è rivolto prevalentemente verso l’alto, verso Dio, davanti al quale bisogna presentarsi puri, spiritualmente e materialmente: perciò è un amore che non ama. In Libano c’è un’espressione bella e pungente per dire un amore che non ama: amare come amano i preti, i quali amano tutti e non amano nessuno, essendo più preoccupati di essere esemplari, di seguire la legge, che di rivelare l’amore di Dio e viverlo in maniera creativa e oblativa, mostrando vere forme di umanità. Troppo spesso il mondo ecclesiastico si presenta corazzato contro gli affetti. Troppo spesso il mondo delle persone pie e religiose è imbarazzante quando parla di amore, perché questo amore non lo si vede, perché si è disperso e si è spento: è come quella carrucola caduta nel pozzo, che non ha più acqua da portare per gli altri, ma non ha più l’acqua neanche per sé (Qol 12, 620). Non vedo quindi il rischio di «catastrofe per i fedeli» se solo non riescono a vedere un prete celibe che «si consegna interamente al padre», ma magari vedono solo un prete sposato che ama concretamente e profondamente la propria moglie.

Certamente siamo davanti a una tradizione plurisecolare, forse addirittura ultra millenaria, collegata anche all’Antico Testamento che aveva come punto centrale la distinzione netta fra puro e impuro, e quando la persona era impura non poteva entrare nel Tempio (Lv 15, 31). La vera funzione della Legge mosaica era quella di dare un recinto di protezione dall’impurità che stava fuori: “Per essere a posto con Dio fin qui posso arrivare, oltre no”. Oggi, che capiamo meglio il Vangelo, vediamo che in un colpo solo Gesù aveva già in allora cancellato questa distinzione puro/impuro, e per far capire questa novità, lui stesso trasgrediva la legge divina toccando volontariamente e in continuazione le persone impure, senza essere contagiato dalla loro impurità, anzi dimostrando il contrario (si pensi all’emorroissa, ai lebbrosi, alla parabola del buon samaritano).

La Bibbia, con quest’ossessione per l’impurità, aveva anche stabilito che il rapporto sessuale rendeva sempre impuri: marito e moglie che hanno rapporti restano impuri fino a sera (Lv 15,18); e l’uomo che ha comunque eiaculato resta di per sé impuro fino a sera (Lv 22, 6). Ricordo che, anche nel cattolicesimo, il rapporto sessuale è rimasto un rimedio alla concupiscenza (can. 1013 del codice di diritto canonico del 1917), come sostenuto da Paolo, fino all’abrogazione del codice avvenuta appena nel 1987. Quindi il sesso era considerato qualcosa di sporco (impuro, appunto) dalla Chiesa, e si capisce perché il prete che celebrava l’eucarestia non doveva allora essere macchiato da simile impurità.

Ma ormai il sesso non è più visto come qualcosa di impuro, ma come un dono di Dio. Oggi non si ichiede più agli sposi di astenersi dal partecipare all’eucaristia se hanno avuto rapporti sessuali il giorno prima. Perché? Perché cambiando la cultura, è finalmente scomparsa l’idea puro e impuro. È scomparsa perché il Dio di Gesù non predilige chi si sforza per essere puro; il Dio di Gesù non guarda i meriti, ma guarda ai bisogni della gente, e ama allo stesso modo i puri e gli impuri (Mt 5, 45). Ma a questo punto è caduta anche la ragione principale che imponeva al prete di essere puro quando si presentava sull’altare davanti a Dio.

Dunque, se per secoli essere celibi non era un presupposto indispensabile ed essenziale (ontologico) per poter essere ordinato prete, si può tranquillamente affermare che la legge del celibato ecclesiastico non è di natura divina e si può dare identica dignità ai due carismi – presbiterato celibe o sposato – senza che ciò rappresenti un rischio per la Chiesa cattolica. Del resto la dimostrazione che non ci sia rischio è già stata data dal fatto che nella Chiesa cattolica ci sono preti sposati, e che anche le altre Chiese vanno tranquillamente avanti con preti sposati, per cui non sembra condivisibile l’idea secondo cui «la possibilità di ordinare uomini sposati rappresenterebbe una catastrofe pastorale, una confusione ecclesiologica e un arretramento nella comprensione del sacerdozio».

Pertanto, visto che non siamo in presenza di un dogma, e vista l’attuale carenza di preti, sarebbe ora

di dare la possibilità a chi si sente chiamato al sacerdozio di poter scegliere lui se essere ordinato da celibe o da sposato.

Dario Culot                “Il giornale di Rodafà” n. 543  9 febbraio 2020

www.ildialogo.org/pretisposati/dibattito_1581269469.htm

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CITAZIONI

L’umorismo in famiglia

Che il riso abbondi sulle labbra degli stolti è opinione condivisa. Eppure, quando il riso scarseggia se ne sente la mancanza, si rimpiangono motivi e occasioni di ilarità: e se il prezzo di una risata genuina è passare per sciocchi si paga volentieri. «Il riso è il grande assente nelle situazioni in cui “qualcosa non va”. Il mio mestiere – racconta Danilo Solfaroli Camillocci, psicologo e psicoterapeuta – mi porta a contatto con famiglie e coppie in cui la sofferenza ha progressivamente sostituito il piacere e la gioia: mi trovo spesso davanti al rimpianto doloroso, alla nostalgia di un tempo passato insieme a ridere».

Alla relazione tra riso e sofferenza Danilo Solfaroli Camillocci ha dedicato un volume edito da Bollati Boringhieri (pagg. 238, euro 18), scritto a quattro mani con Monica Velia, psichiatra e psicoterapeuta in forze a Roma al Servizio sanitario nazionale: “Ridere, ridere, ridere ancora… ” prende in esame il riso e l’umorismo nelle relazioni familiari, tanto delle famiglie “normali” – «le virgolette sono d’obbligo, visto che l’aggettivo ha un senso limitato», ci tiene a specificare Solfatoli Camillocci — tanto delle famiglie disfunzionali, quelle appunto con quel “qualcosa che non va”.

Per uno psicoterapeuta della famiglia la presenza o l’assenza del riso sono segnali importanti: «Importanti in primo luogo per i membri stessi della famiglia: i figli che recriminano affermando che “in questa famiglia non si ride mai”, o uno dei coniugi che constata amaramente che “non ridiamo più” dimostrano che qualcosa non funziona come dovrebbe. La ricomparsa del riso e l’aumentare della sua frequenza sono visti come segni positivi sia dalla famiglia sia dallo psicoterapeuta e, anzi, indicano che la terapia si sta avviando alla conclusione».

Saper ridere significa saper essere flessibili, trovare modi di reagire, di gestire le emozioni, di comportarsi rispetto a certi aspetti della vita senza rigidità. E questo è fondamentale in un nucleo come quello familiare in continua evoluzione: «Muovendosi nel tempo, la famiglia si trova ad affrontare situazioni nuove per le quali non sempre è preparata e per le quali è necessario un equilibrio diverso da quello precedente». Situazioni nuove ma non necessariamente traumatiche: basta pensare a come cambia la vita domestica quando un figlio – specie se è il primo – comincia la scuola, oppure quando il pargolo di casa si trasforma in adolescente. Certi schemi di comportamento di mamma, papa, dei fratelli sono a rischio grave di non essere più adeguati. E’ necessario mettere in campo la massima flessibilità possibile e l’umorismo è una grande risorsa per affrontare tutte le tappe della crescita della famiglia che vanno dal cominciare la vita a due per poi diventare tre, quattro e così via.

 Crescere insieme lungo tutto l’arco che porta al rovesciamento dei ruoli – spiega Solfaroli Camillocci — quando sono i figli ad assistere i genitori e non più viceversa. In una famiglia funzionale si può giocare con questi ruoli e attuare comportamenti umoristici o caricaturali che aiutano la famiglia ad adeguare i propri comportamenti al mutare delle condizioni del ciclo vitale». In quest’ottica – si legge nel libro – la presa in giro del genitore da parte del figlio adolescente (e anche il contrario) è per entrambi un potente aiuto a rimeditare e rinegoziare i propri comportamenti relativi alla gerarchia e ad aspetti fondamentali della relazione, come la dipendenza e l’autonomia, l’appartenenza e l’individualità. Scherzare sul e con il proprio figlio, la propria moglie o i genitori è un modo di veicolare i rancori, i risentimenti, la rabbia e di esprimerli in termini accettabili per il destinatario facendo sì che questo arricchisca la relazione con la profondità di emozioni che, se espresse senza ironia, potrebbero rivelarsi distruttive. «Secondo Pirandello — spiega l’autore — l’umorismo è capace di conciliare sentimenti diversi come la rabbia e la tenerezza, la pietà e l’aggressività, l’odio e la compassione e per questo è adatto a gestire i sentimenti familiari che sono i più ricchi, i più profondi, i più mescolati e contraddittori che esistano nelle relazioni umane. Non ne esistono di simili, che prevedano contemporaneamente lo stare insieme e il volersi separare, che presuppongano l’intimità e, insieme, la capacità di essere individui non assorbiti dagli altri».

Può non essere facile per un genitore subire e, anzi, stimolare la critica, per quanto umoristicamente interpretata: «Non stiamo parlando di derisione ma di ridere insieme. I ruoli gerarchici devono mantenersi: deve essere chiaro chi sono i genitori e chi sono i figli. Papa e mamma devono saper dire di no quando occorre. Il problema — ribadisce lo psicoterapeuta – riguarda la misura, quanto è netta e rigida la posizione gerarchica. Il vero problema della famiglia è che un uomo e una donna che agli occhi dei figli piccoli sono la controfigura di Dio, nel giro di trenta, quaranta anni dagli stessi figli vengono ridimensionati a qualcosa di più banalmente umano. Questo è un percorso che richiede una flessibilità di pensiero e di emozioni che il riso accompagna volentieri». Cosa intendano per umorismo gli autori del libro (che tra l’altro dedicano i capitoli iniziali a come il riso e l’umorismo siano stati valutati e interpretai nei secoli e dalle diverse culture) è presto detto: è un modo intelligente, sottile e ingegnoso di vedere, interpretare e presentare la realtà – si legge -ponendone in risalto gli aspetti insoliti, bizzarri, divertenti.

Più facile a dirsi che a farsi… E chissà se si può imparare a esercitare l’umorismo: «Io credo che l’umorismo possa essere trasmesso – spiega Solfaroli Camillocci – e che chi lo possiede, se è in grado di usarlo con le persone che ama, possa diffondere il contagio. Il problema è, semmai, da dove nasca la verve umoristica e mi sono spesso domandato se in una realtà molto rigida possa germogliare comunque in termini positivi. È dimostrato che genitori che provengono da una famiglia in cui si ride danno vita a propria volta a nuclei in cui si ride molto. Questo dimostra che l’umorismo è trasmissibile ma ancora non ci dice da dove arrivi. Probabilmente nasce da persone che riescono a conciliare emozioni e significati fortemente contrastanti». Si consolino, però, coloro che sono stati cresciuti da genitori serissimi, propensi a impostare le relazioni domestiche sul rigido rispetto delle regole piuttosto che confidare sul potere coesivo della risata: anche per loro c’è speranza. «Certo per questo genere di persone le difficoltà sono maggiori. Non è certo un’equazione matematica che chi provenga da un nucleo familiare rigido replicherà lo schema una volta marito e genitore. Ma, in genere, in una famiglia dove la rigidità è molto forte – spiega lo psicoterapeuta – lo stile è anche molto difensivo, non è possibile mettere in discussione il ruolo di alcuno. Invece la validità dell’umorismo risiede proprio nella sua capacità di capovolgere il sentire comune, di permettere che nuove alternative si affaccino alla realtà. Il riso è elemento di disordine, l’irrompere temporaneo e fecondo del caos che dissolve la rigidità e ci obbliga a vedere problemi e situazioni in maniera diversa».

Nicoletta Martinelli    ” Noi genitori e figli     25 settembre 2009

www.ufficiofamiglia.diocesipadova.it/wp-content/uploads/sites/8/2020/02/umorismo-in-famiglia-febbr-2020.pdf

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CONSULTORI FAMILIARI

Una grande conquista da difendere e potenziare.

“I consultori familiari sono stati una grande conquista, frutto della mobilitazione per il diritto alla salute e dei movimenti femministi. Vanno difesi e rilanciati recuperando quello spirito che li istituì nel 1975, con la legge 405\1975”. Così la Cgil ha presentato l’Assemblea nazionale che si è tenuta il 5 febbraio, presso la sede nazionale del sindacato in corso d’Italia 25, Roma. L’iniziativa è l’occasione per fare un bilancio sullo stato in cui versano oggi i consultori familiari, dopo anni di depotenziamento, e in base all’analisi dei nuovi bisogni della società sono state presentate sei proposte per la loro valorizzazione.

L’Assemblea, presieduta da Stefano Cecconi, responsabile sanità della Cgil nazionale, è stata introdotta da Denise Amerini, responsabile Medicina di genere della Cgil nazionale. Sono seguiti gli interventi di: Angela Spinelli (direttore CnaPPS, Istituto Superiore di Sanità); Barbara Francavilla (segretaria Fp Cgil); Antonella Pezzullo (segretaria Spi Cgil); Susanna Camusso (responsabile delle Politiche di genere Cgil); Roberto Speranza (Ministro della Salute). Inoltre, hanno dato il loro contributo i rappresentanti regionali e territoriali della Cgil. Le conclusioni sono state affidate alla segretaria confederale della Cgil, Rossana Dettori.

www.rassegna.it/articoli/rilanciare-i-consultori-assemblea-nazionale-cgil-con-il-ministro-speranza

I Consultori Familiari: difendere e potenziare una grande conquista

Linee guida per una piattaforma

v  I Consultori familiari sono una grande conquista, frutto della mobilitazione dei movimenti femministi e per il diritto alla salute. La loro istituzione, avvenuta nel 1975 con la Legge 405, ha anticipato le grandi riforme del 1978: la legge 194 e la legge 833 di riforma sanitaria.

v  Si è resa visibile così l’importanza del punto di vista di genere e della soggettività femminile, nel contesto delle relazioni sociali e nella stessa organizzazione dei servizi.

v  In questo senso, i Consultori possono essere definiti come i primi veri servizi socio-sanitari di base, diffusi nel territorio, con competenze multidisciplinari, determinanti per la promozione e la prevenzione della salute della donna e dell’età evolutiva, per l‘assistenza alla famiglia e alla maternità e alla paternità. Con un modello di servizio fondato sull’integrazione tra sociale e sanitario e sulla partecipazione.

v  E’ del tutto evidente che i bisogni che hanno sollecitato la nascita dei consultori, quarantacinque anni fa, sono ancora ben presenti, e che altri bisogni, dovuti ai cambiamenti sociali, demografici e culturali intervenuti in questi anni si sono aggiunti e ne reclamano un potenziamento.

Eppure, nonostante ciò, l’esistenza dei Consultori è in pericolo.

v  I dati della ricerca effettuata con SPI [Sindacato Pensionati Italiani] e FP [Funzione Pubblica] (2017) seppure parziali, e quelli della più recente indagine (la prima) condotta dall’Istituto Superiore di Sanità ci segnalano ormai che esiste un emergenza Consultori.

v  Oggi abbiamo, in media, un consultorio ogni 35mila abitanti, mentre gli standard nazionali fissati dalla legge 34/1996 ne prevedono uno ogni 20mila. Ma siamo in presenza di profonde differenze tra le regioni, tanto che in sette di queste esiste un solo consultorio ogni 40mila abitanti. Profonde sono anche le differenze nelle prestazioni offerte, come nelle figure professionali presenti, che risultano comunque sempre sotto gli standard. Alcune regioni prevedono perfino un ticket per accedere alle prestazioni.

v  I nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), se davvero applicati, costituiscono un’opportunità per sviluppare le funzioni dei Consultori e la   diffusione, con indicatoridi offerta modulati per interventi e tipologie di popolazione.

Per questo vogliamo restituire ai Consultori il loro ruolo, centrale, di presidio della salute pubblica, nel percorso di vita dalla nascita all’invecchiamento. Devono essere luoghi dove avviene la presa in carico della persona, in cui vengono accolti e riconosciuti i bisogni di salute e di cure in un’ottica di genere, consapevoli che l’approccio di genere nelle politiche della salute è indispensabile da parte di tutti i servizi del welfare.

Già nella Piattaforma di Genere (“Tutte insieme. Vogliamo tutto!”) e in quella Cgil, Cisl, Uil “Salute, lavoro diritti” – abbiamo presentato precise proposte, che vogliamo discutere con Governo, Regioni, Comuni, ora anche in attuazione del nuovo Patto per la Salute:
         Alcune proposte

  1. Raggiungere lo standard nazionale di 1 consultorio ogni 20mila abitanti, come previsto dalle norme vigenti con un‘Intesa in Conferenza Unificata per stabilirne tempi e modalità.
  2. Come sostenere piani di assunzioni mirati, da parte delle singole regioni, in base alle diverse situazioni, riferiti alle figure professionali necessarie per affrontare tutti i temi legati alla salute sessuale e riproduttiva, in una ottica di inclusione delle diverse identità di genere e dei diversi orientamenti sessuali, delle donne migranti, delle persone disabili.
  3. L’attuazione dei Piani Formativi da parte delle Università
  4. L’applicazione del Decreto Lea (Decreto Presidente Consiglio dei Ministri [Paolo Gentiloni Silveri] 12 gennaio 2017) riferito all’ “Assistenza sociosanitaria ai minori, alle donne, alle coppie, alle famiglie” e quindi ai Consultori, con standard e indicatori nazionali per verificare il rispetto degli adempimenti Lea da parte delle singole regioni; la definizione dei corrispondenti LEP Sociali senza i quali non esiste vera integrazione.

https://www.medicoeleggi.com/argomenti000/italia2017/409077.htm https://www.medicoeleggi.com/argomenti000/italia2017/409077-24.htm

  1. Il pieno rispetto della Legge 194, secondo le indicazioni della “Piattaforma di Genere Tutte insieme vogliamo tutto”:
  • “una informazione capillare e una reale accessibilità e gratuità degli strumenti alternativi alla pratica chirurgica ed all’ospedalizzazione per l’Interruzione Volontaria di Gravidanza;”
  • “…correttivi rispetto all’alta percentuale di obiettori che costringe molte donne a una mobilità forzata per accedere alla prestazione, anche promuovendo in ogni sede un rapporto numerico ideale tra obiettori e non obiettori per garantire la piena attuazione della legge in modo uniforme sul territorio nazionale, ricorrendo in situazioni critiche a tutti gli strumenti necessari (anche attraverso percorsi di reclutamento e contratti ad hoc)“ ,
  • “… sollecitando ad ogni livello le istituzioni preposte affinché la normativa venga rispettata”.
  • Riteniamo inoltre che non possano essere presenti associazioni e movimenti antiabortisti all’ interno dei Consultori.

www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2020/02/linee-guida-piattaforma-CONSULTORI.pdf

www.rassegna.it/articoli/rilanciare-i-consultori-assemblea-nazionale-cgil-con-il-ministro-speranza

www.sossanita.org/archives/8836

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CONSULTORI CATTOLICI

Torino. Punto familia. Addio a p. Giordano Muraro, domenicano, teologo e pastore «per la famiglia»

Familiari, confratelli domenicani, sacerdoti diocesani, amici, famiglie, ex studenti, hanno gremito stamani a Torino la chiesa parrocchiale Madonna delle Rose dove si sono svolti i funerali di padre Giordano Muraro, morto il 4 febbraio a 88 anni. Esequie presiedute dal cardinale Severino Poletto, arcivescovo emerito di Torino, che ne ha ricordato affettuosamente la preziosa collaborazione, e concelebrate anche da monsignor Giuseppe Anfossi, emerito di Aosta e già direttore dell’Ufficio nazionale Cei di pastorale della famiglia.

 Giulio (il suo nome di battesimo) Muraro era nato ad Acqui il 28 marzo del 1931. Entrato nell’Ordine dei Domenicani, emise la prima professione il 5 ottobre 1948 e dopo gli studi di filosofia e teologia presso lo Studium Generale dei Domenicani a Torino fu ordinato sacerdote il 22 settembre 1956. Ha successivamente conseguito il dottorato in teologia presso l’Angelicum di Roma.

Fu docente di teologia morale presso lo Studium dei Domenicani e la facoltà teologica di Torino e presso l’Angelicum di Roma. «Generazioni di studenti lo ricordano per la chiarezza della esposizione, per la spiccata predilezione per l’uso della ragione nelle argomentazioni teologiche, per la passione e la generosità nell’insegnamento». Apprezzato nelle lezioni, ma anche per conferenze e gli innumerevoli articoli, segno una appassionata disponibilità al dialogo e al confronto che ha mantenuto fino all’ultimo.

            Un mondo legato a tutto campo alla pastorale familiare riunito per salutare e ringraziare il sacerdote che ha messo la famiglia «al cuore dei suoi interessi di teologo e di pastore – ricorda il confratello padre Costantino Gilardi – in tutte le sue declinazioni: preparazione alla vita matrimoniale, manutenzione della coppia, educazione dei figli, difficoltà, separazioni, ruolo nella società civile e nella comunità ecclesiale».

All’inizio degli anni Sessanta a Torino padre Giordano iniziò a collaborare con il Centro preparazione vita di famiglia e nel 1963 ne divenne il responsabile insieme a suor Germana Consolaro. Nel 1977 il Centro assunse il nome di Punto Familia, di cui padre Giordano è stato anima e presidente.

Punto Familia che lo ha così ricordato durante la celebrazione: «Sono in tanti a doverti gratitudine, ma noi più di tutti. Perché – lo diciamo con orgoglio – siamo stati i tuoi prediletti. Ci hai accolti fidanzati, ci hai accompagnati con premura al grande passo, hai benedetto le nostre nozze, hai battezzato i nostri figli, ci hai sostenuti nelle difficoltà, hai condiviso con noi momenti di gioia e di indimenticabili vacanze. Le nostre esperienze di vita sono diventate il tuo bagaglio di esperienza: tu, prete celibe, sapevi tutto delle coppie e delle famiglie».

Federica Bello, Avvenire 6 febbraio 2020

www.avvenire.it/chiesa/pagine/morto-padre-giordano-muraro-teologo-pastore-famiglia

 

Ha collaborato a lungo anche con Famiglia Cristiana e con altre testate della Periodici San Paolo

(…) Da quasi sessant’anni prendeva per mano i giovani che volevano costruire una famiglia, li sosteneva nelle burrasche della vita e li aiutava a leggere il rapporto di coppia come riflesso dell’amore di Dio. Non solo, le sue lettere e le sue parole (molte delle quali diffuse dalla nostra testata, con cui ha assiduamente collaborato fino a poco tempo fa) sapevano orientare il cammino di fede, fugare dubbi, consolare e dare speranza. (…)

Ma il suo non era un sapere distaccato e confinato ai libri.  Al contrario, era una teologia che sapeva farsi concreta e “sporcarsi le mani”. Nel 1963, insieme con suor Germana Consolaro e frate Angelico Ferrua, divenne animatore del Punto Familia di Torino, nato con l’obiettivo di sostenere, in tutte le sue fasi, il delicato percorso della vita familiare, dal fidanzamento fino alla cura dei figli. Per quegli anni era una scelta coraggiosa, che respirava l’aria nuova del Concilio Vaticano II. Tuttora il Punto Familia è una realtà di riferimento per giovani coppie, genitori, figli e persone in ricerca. Attraverso un centro d’ascolto specializzato offre aiuto anche a situazioni di disagio e fragilità. Ogni anno accoglie circa 24.000 persone, molte delle quali arrivano grazie al passaparola e alla testimonianza personale di chi vi ha trovato beneficio.

Iniziò anche corsi per la formazione dei consulenti familiari.

Ma padre Muraro ha lasciato un segno anche per la sua intensa attività pastorale ed editoriale, che spaziava su tanti temi: vita di coppia, amore, famiglia, ma anche bioetica, obiezione di coscienza e, più in generale, argomenti di ambito morale. Nei suoi scritti, il rigore del pensiero filosofico (pur sempre chiaramente presente) cedeva spesso il passo a una lingua più semplice e diretta, capace di farsi comprendere da tutti. E’ il caso della commovente “Lettera di Dio agli sposi”, nella quale, con parole immediate ma profonde, il sacerdote parla del valore sacramentale del matrimonio.

Per molti anni, dicevamo, padre Muraro è stato collaboratore di Famiglia Cristiana (oltre che di riviste più specialistiche): con puntualità rispondeva alle lettere dei lettori, intessendo con loro un dialogo vivo e fecondo.

In tempi di forte crisi familiare e di modelli culturali spesso fragili e disorientanti, il religioso credeva nelle virtù della fedeltà e della castità, sempre più spesso messe in discussione e talvolta perfino ridicolizzate. Sapeva difenderle, con chiarezza e rigore, ma senza mai ridurle a bandiere, a sterili principi staccati dalla vita. Sapeva guardare alla persona nella sua interezza e unicità e svelare quei fili invisibili ma fortissimi che legano umano e divino. Sempre con una sguardo paterno, così presente anche nelle sue parole: «Se voi saprete amarvi come Dio vi ama, con una fedeltà che non viene mai meno, sarete una speranza per tutti, perché vedranno che l’amore è una cosa possibile!».  

Lorenzo Montanaro   Famiglia cristiana      5 febbraio 2020

www.famigliacristiana.it/articolo/morto-padre-giordano-muraro-guida-per-generazioni-di-sposi.aspx

 

L.C. – Vorrei sapere se è vero che i rapporti intimi tra marito e moglie al di fuori della procreazione sono peccato.

Certamente no. Gli sposi hanno bisogno normalmente dell’intimità per esprimere e alimentare il loro amore. Dio stesso ha caricato questo gesto di gioiosità e ne ha fatto un atto desiderato perché gli sposi, unendosi, diventino l’uno gioia per l’altro. Però questo gesto è caricato, in alcuni giorni del mese, del potere più grande dell’uomo, quello di far emergere dal nulla una persona umana.

Come comportarsi quando lo si desidera nel tempo in cui esso è anche procreativo, ma sarebbe irragionevole procreare? Una soluzione è quella della contraccezione. La Chiesa la condanna e chiede che si adottino invece i metodi naturali, cioè si individuino i pochi giorni che sono fecondi e si astengano dal gesto e se ne usi liberamente quando non è carico del potere procreativo.

È quanto la Chiesa ha insegnato e continua a insegnare, anche se non è sempre facile applicarlo alla vita della coppia.

p. Giordano Muraro   Famiglia Cristiana    1 ottobre 2019

famigliacristiana.preview.mmm.it/articolo/i-rapporti-intimi-tra-gli-sposi-fuori-della-procreazione-per-la-chiesa-sono-peccato.aspx

Inoltre pagg 1-5    http://famigliacristiana.preview.mmm.it/autore/giordano-muraro.aspx?pageidx=1

 E la storia continua                           Estratti         passim

Il nostro padre Muraro, memoria storica del Punto Familia, continua la ricostruzione di questi cinquant’anni di vita dell’Associazione, evidenziandone le radici che affondano nel contesto socio-culturale.

Premessa

Diceva Charles de Gaulle che nulla è più definitivo del provvisorio. Mi venivano in mente queste parole ripensando al modo con cui ero entrato nella storia del Punto Familia. Suor Germana e padre Ferrua, che avevano dato inizio alla vita del Centro di Preparazione alla Famiglia con i corsi di preparazione al matrimonio, avevano chiesto la mia collaborazione per un anno, dovendo il padre Ferrua recarsi a Parigi per specializzarsi in liturgia all’Institute Chatolique. Questo anno dura ancora oggi. Il padre Ferrua dopo qualche anno lasciò il Centro di Preparazione alla Famiglia, per motivi di salute e di insegnamento, e il sottoscritto continuò il suo “precariato” con suor Germana, realizzando così il motto di De Gaulle.

La stessa cosa era capitata al padre Ruggero Cipolla, francescano. Era superiore nel convento di Sant’Antonio e gli era stato chiesto di fare il cappellano della carceri negli anni della guerra civile [nel 1944], per il tempo necessario per trovare un cappellano definitivo. Questa provvisorietà è durata per tutto il resto della sua vita. Cito questo esempio perché nella seconda parte di Costruire in due incontreremo questa figura di francescano e vedremo l’importanza che ha avuto nella storia della nostra Associazione. Ed è a motivo di questo “precariato definitivo” (una contradictio in terminis, come le parallele convergenti) che mi è stato chiesto di raccogliere i ricordi dei cinquant’anni e di lasciarli a chi oggi continua questa opera e a tutti quelli che sono passati per questa opera. Lo faccio, cercando di ricostruire con la memoria che mi ritrovo a 82 anni (non ho mai tenuto un diario) i fatti e le opere di questo nostro Punto Familia.

Nuovo contesto sociale. Il decennio ‘70 e gli anni successivi sono pieni di avvenimenti. Anche per la famiglia. L’Europa è scossa profondamente dalla guerra del Kippur che fa balzare in alto il prezzo del petrolio e dà inizio ad un tempo di recessione che colpisce in modo particolare le famiglie e le costringe a rivedere il loro standard di vita relativamente alto. L’Italia è sconvolta dalla strategia della tensione e dalla Brigate Rosse. Nel 1978 una notizia lascia stupefatti: nasce la prima bimba in provetta, Luoise Browne. Muore Paolo VI (l’autore dell’enciclica “Humanae Vitæ”) e gli succede Giovanni Paolo I, e dopo un mese Giovanni Paolo II che dedicherà molti dei suoi interventi al tema della famiglia. È durante il suo pontificato che si svolgerà nel 1980 il Sinodo sulla famiglia e verrà presentata l’Esortazione Apostolica “Familiaris Consortio” (1981), una sintesi del pensiero della Chiesa sulla natura e missione della famiglia.

La famiglia risente di tutti questi avvenimenti. I sociologi adesso parlano di “famiglia problema” che segue ai modelli di famiglia degli anni precedenti indicati come “famiglia ricostruttiva”,famiglia accumulativa”, “famiglia del benessere”. Il benessere aveva portato un elevato tono di vita, con un “pacchetto standard” di beni di consumo chiaramente definiti e ricercati da ogni famiglia anche con il sacrificio del doppio lavoro o del lavoro in nero (“economia sommersa”) e con il lavoro della donna; ma il benessere è accompagnato da non pochi problemi nel mondo dei valori e delle relazioni interpersonali, anche nell’ambito familiare. In Italia si diffonde il divorzio, la contraccezione, l’aborto, e inizia il disamore dei giovani per la famiglia. Si sente la necessità di riformare il diritto di famiglia (1975), per accogliere le giuste istanze di parità tra uomo e donna e le nuove esigenze espresse nei “diritti dei minori”, che si ripercuotono anche nel rapporto genitori-figli. Per la famiglia divenuta problematica si avverte la necessità di creare un servizio apposito per sostenerla e aiutarla, e si istituiscono i consultori familiari (1975), che vorrebbero essere uno dei servizi del welfare rivolto alla famiglia.

Capita anche alla famiglia quello che capita in genere. Si dice che fa più rumore un albero che cade che un bosco che cresce. Anche la famiglia degli anni ’70 e ’80 e oltre “fa rumore” perché è in crisi. Adesso che è in crisi viene fatta oggetto di studi, ricerche, sondaggi, diventa materia di insegnamento e oggetto di trasmissione televisive. Per la prima volta si instaura la cattedra di sociologia della famiglia. Si parla sempre più di famiglia, perché forse ce n’è poca e sta scomparendo, come in tempo di guerra si parlava molto di pane perché non ce n’era. Si parla di famiglia sul viale del tramonto e si inizia a proporre nuovi modelli di coppia e di famiglia.

Il Punto Familia si è mosso in questo nuovo contesto, continuando ad affiancarsi ai giovani, alle coppie e alle famiglie nella preparazione, sostegno, aiuto nell’impresa di fare famiglia.

Cronaca del Punto Familia. Il 1975 è un anno importante per la famiglia in Italia. Viene presentata la riforma del diritto di famiglia. Finalmente la legge accoglie il desiderio diffuso e la prassi abbastanza diffusa riguardanti due punti cardine della vita di coppia e di famiglia: la parità tra uomo e donna nella gestione della vita coniugale e genitoriale, e il dovere di tener conto delle inclinazioni del figlio nel processo educativo. Sono due acquisizioni importanti per l’impostazione di un nuovo modo di fare coppia e famiglia.

Nello stesso anno esce la legge sui consultori. Si prende atto che la famiglia è in crisi. La legge sul divorzio non ha migliorato le cose, anzi da molti è stata interpretata non come la possibilità di uscire da una vita impossibile, ma come l’occasione per tentare un rapporto affettivo nuovo quando il precedente è diventato problematico. Le separazioni aumentano in modo preoccupante. Il legislatore sente finalmente il bisogno di creare un servizio che prenda in carico non solo le persone in genere, ma le persone viventi in famiglia e addirittura tutto il nucleo familiare, e vara la legge istitutiva dei Consultori familiari. È la prima volta che in Italia si crea un servizio per le persone che vivono in famiglia e per la stessa famiglia. Ma i Consultori nascono male. La legge prevede almeno tre figure professionali, il medico, lo psicologo e una figura paramedica. Non basta che abbiano la laurea o il diploma; è necessario che siano specializzati in questo campo. In Italia non esistono figure specializzate in questo ambito e la legge non dice nulla sulla creazione di iniziative per formarle. Come al solito si fanno leggi e non si guarda se esistono le persone e i mezzi per attuarle. Conseguenza? Gli operatori dell’ONMI (Opera nazionale maternità e infanzia) vengono promossi operatori di consultorio e – per la mancanza di fondi necessari – nella maggior parte dei casi (compresa la città di Torino) gli operatori vengono ridotti alla sola figura del medico per rispondere alle domande di contraccezione e aborto, svuotando così il significato del consultorio familiare.

Per questo ci attiviamo e organizziamo un corso a livello nazionale per la formazione dei consulenti familiari, una figura che in altri stati era molto diffusa. Ci siamo rivolti ai Centri di consulenza francesi, e la sua Presidente Michelle Colin accetta di tenere un corso di formazione, insieme ad una équipe di psicologi torinesi. Nasce così il primo corso in Italia per la formazione di consulenti familiari. Una quarantina di persone provenienti dall’Italia settentrionale e centrale partecipa a questo primo corso residenziale che si svolge a Castiglione Torinese e viene ripetuto negli anni successivi.

Agli operatori mancava ancora una cosa: non bastava avere dei singoli professionisti preparati per esercitare una consulenza coniugale e familiare e affiatati tra di loro, ma era necessario che questi nostri professionisti sapessero lavorare in équipe e confrontarsi e aiutarsi sul modo di condurre i casi. Ecco allora la necessità di incontri di tutti gli operatori del nostro consultorio – una quindicina di professionisti – che tutti i giovedì per molti anni si riuniscono per confrontarsi sul modo di condurre i casi e per allenarsi a vedere il caso non solo sotto l’aspetto della propria professionalità, ma nella globalità della persona. Si prende in carico la persona e non l’aspetto problematico della persona, anzi per capire l’aspetto problematico è necessario acquisire l’abilità di vederlo nell’insieme della persona. Oggi queste idee sembrano ovvie ma in quel tempo, quando si muovevano i primi passi nell’esercizio della terapia di coppia e di famiglia, la terapia centrata sul cliente, l’approccio interdisciplinare al caso, i diversi approcci terapeutici nel mondo delle relazioni coniugali e familiari, la supervisione, la formazione permanente erano vere novità da acquisire gradualmente.

Per questo il Punto Familia ha sentito la necessità di allargare i corsi di formazione, e oltre ai corsi per la formazione di consulenti familiari ne ha attivati altri: i corsi sul primo colloquio, sulla terapia rivolta all’intero gruppo familiare, sulla mediazioni familiare, sulla terapia sistemica. Si è così formato un nuovo e intenso filone di attività del Punto Familia, che insieme ai corsi di pastorale familiare aveva come scopo di “formare i formatori”, per evitare il pericolo di affidare compiti specifici a professionisti generici, e che ha messo il Punto Familia tra i primi centri di formazione in Italia. Non solo: ma è nata col tempo la necessità di organizzare una attività di formazione permanente di questi operatori. Ecco allora la proposta di seminari per gli addetti ai lavori, tenuti da specialisti italiani e stranieri. Tra questi i workshop dei due fondatori della scuola di Palo Alto, Carlos E. Sluzki e Paul Watzlawick.

È stato un momento straordinario di crescita che ha permesso di trasformare sempre più i molti operatori del Punto Familia in una équipe affiatata e preparata a lavorare insieme per il bene del singolo, della coppia, della famiglia. In questo lavoro sono stati di grande aiuto alcuni nostri professionisti provenienti dal mondo scout, e già abituati a lavorare in équipe e a mettersi in discussione.

Oggi questo filone di attività si è quasi completamente estinto. Si sono formate nel tempo le scuole per operatori familiari, ed era inutile tenere in vita una scuola che si stava diffondendo un po’ ovunque. In particolare i corsi per consulenti finirono perché la legge italiana non prevedeva questa figura nei consultori a avremmo preparato persone che non avrebbero avuto poi uno sbocco operativo.

Tra i personaggi celebri che sono passati come formatori o visiting professor ricordiamo con particolare simpatia il Cardinale di Torino padre Michele Pellegrino. Era un nostro estimatore e buon amico e accettò di buon grado di tenere delle conferenze al nostro Centro. Lo aveva visitato fin dai primi tempi e si teneva informato sulle nostre attività. I temi sviluppati in questi incontri sono stati in seguito raccolti in un numero speciale di Costruire in due. Il rapporto con la diocesi e anche con il vescovo sono stati sempre buoni, anche se la nostra posizione dichiarata era quella espressa nella frase: “siamo nella diocesi, ma non della diocesi”, cioè siamo a servizio anche della diocesi e teniamo conto dei piani pastorali, ma mantenendo la nostra libertà. Era il principio che permetteva di muoversi con grande agilità e tempestività nei confronti di una società in continua evoluzione con problemi sempre nuovi anche per la famiglia. Ed è proprio per mantenere questa agilità che non abbiamo mai scelto di far parte di sigle particolari, specialmente quando non ne condividevamo l’impostazione e la finalità, pur offrendo sempre la nostra collaborazione a tutti, come è avvenuto nei confronti dell’UCIPEM (Unione dei consultori italiani prematrimoniali e matrimoniali), del CIS (centro italiano di sessuologia), del Gruppo permanente per la pastorale matrimoniale, degli Uffici famiglia diocesano, regionale e nazionale. Non solo, ma anche con enti e servizi pubblici che conoscevano e apprezzavano il nostro modo di operare. Abbiamo preferito restare “cani sciolti senza collare” parafrasando il detto di Cesbron, per cui non abbiamo mai fatto parte di sigle pur collaborando con tutti.

(…)      Fare cultura.

Il Punto Familia voleva essere non solo un centro che svolgeva attività, ma anche un centro che faceva cultura. Per questo si era impegnato a sviluppare un filone di iniziative che attraverso incontri, conferenze, dibattiti per gruppi ristretti o in conferenze cittadine presentasse e mettesse in discussione problemi che agitavano la vita della famiglia. Il sogno era anche quello di mettere le persone che frequentavano il nostro centro in grado di assorbire non solo i principi di una sana formazione alla vita di coppia e di famiglia, ma anche di diventare diffusori delle idee e delle convinzioni che maturavano in modo critico nella partecipazione alla vita del nostro centro.

All’inizio si pensò ad una rivista. “Costruire in due” inizia nel 1967 in modo sporadico nella forma di un foglio di informazione. Ma nel 1969 diventa un periodico con cadenza mensile (oggi quadrimestrale), con una tiratura di cinquemila copie. Diventa un organo di informazione e di formazione permanente per le nostre coppie e si inserisce nel dibattito nazionale dei temi che investono la famiglia. È apprezzato e viene citato nell’elenco delle riviste rivolte alla famiglia. Numeri speciali vengono dedicati ai dibattiti sul femminismo, sulla educazione sessuale, sulla formazione di consultori, sui diritti dei minori, sull’aborto… Col tempo il filone culturale si amplia e diventa una serie di pubblicazioni e ancor più collaborazione a giornali e a riviste specializzate sulla famiglia. Ricordiamo La famiglia (La Scuola. Brescia), Famiglia oggi (Paoline), Vita Pastorale (Paoline), Rivista di catechesi (Elledici), Famiglia domani (Elledici), Famiglia in dialogo, Il Nostro tempo, e altre ancora. Tra i libri ricordiamo le pubblicazioni di:                     (…)

Con il Comune di Torino abbiamo curato una Indagine sulla famiglia cattolica in Torino, coordinata dai sociologi Franco Garelli e Giampaolo Redigolo, i cui risultati vennero presentati in una conferenza pubblica e pubblicati nella rivista La Famiglia. (…)

Nel 1990 il Punto Familia diventa ufficialmente una Associazione senza scopo di lucro, approvata dalla Regione Piemonte. Era già stato riconosciuto dalla Regione Piemonte nel 1976 il suo consultorio. Ora il riconoscimento viene dato a tutte le attività. Il passaggio è stato un momento importante nella vita del Punto Familia e ha segnato forse il momento del suo massimo fulgore. (…)

    p. Giordano Muraro OP     15 gennaio 2014

www.puntofamilia.it/component/k2/item/10-e-la-storia-continua.html

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DALLA NAVATA

  V Domenica del tempo ordinario (anno A)

Isaia                        58, 07 Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?»

Salmo                   111, 04 Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti: misericordioso, pietoso e giusto.

1 Corinzi               02, 01 Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza

Matteo                  05, 16 Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”.

 

Evitiamo una vita insipida e spenta

Voi siete sale, voi siete luce. Sale che conserva le cose, minima eternità disciolta nel cibo. Luce che accarezza di gioia le cose, ne risveglia colori e bellezza. Tu sei luce. Gesù lo annuncia alla mia anima bambina, a quella parte di me che sa ancora incantarsi, ancora accendersi.

Tu sei sale, non per te stesso ma per la terra. La faccenda è seria, perché essere sale e luce del mondo vuol dire che dalla buona riuscita della mia avventura, umana e spirituale, dipende la qualità del resto del mondo. Come fare per vivere questa responsabilità seria, che è di tutti? Meno parole e più gesti. Che il profeta Isaia elenca, nella prima lettura di domenica: «Spezza il tuo pane», verbo asciutto, concreto, fattivo. «Spezza il tuo pane», e poi è tutto un incalzare di altri gesti: «Introduci in casa, vesti il nudo, non distogliere gli occhi. Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà in fretta».

E senti l’impazienza di Dio, l’impazienza di Adamo, e dell’aurora che sorge e della fame che grida; l’urgenza del corpo dell’uomo che ha dolore e ferite, ha fretta di pane e di salute. La luce viene attraverso il mio pane quando diventa nostro pane, condiviso e non possesso geloso. Il gesto del pane viene prima di tutto: perché sulla terra ci sono creature che hanno così tanta fame che per loro Dio non può che avere la forma di un pane. Guarisci altri e guarirà la tua ferita, prenditi cura di qualcuno e Dio si prenderà cura di te; produci amore e Lui ti fascerà il cuore, quando è ferito. Illumina altri e ti illuminerai, perché chi guarda solo a se stesso non s’illumina mai.

p. Ermes Ronchi, OSM                      9 febbraio 2020

www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-del-9-febbraio-2020-p-ermes-ronchi

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GENITORIALITÀ

La decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli

La decadenza dalla responsabilità genitoriale è disciplinata dall’art. 330, cod. civ. secondo il quale può essere pronunciata quando il genitore vìola o trascura i doveri inerenti la responsabilità genitoriale o abusa dei relativi poteri, con grave pregiudizio del figlio.

Art. 330 Codice civile. Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti [147; 30 Cost.; 570 c.p.] o abusa dei relativi poteri [320, 323, 324; 571 ss. c.p.] con grave pregiudizio del figlio.

In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare [333] ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore(2).

In tale caso, e per gravi motivi, il giudice può altresì ordinare l’allontanamento dalla residenza familiare del genitore o convivente reo di maltrattamenti o abusi.

  1. I presupposti per la pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale. La pronuncia di decadenza richiede esigenze di tutela dell’incolumità dei minori derivanti dalla condotta pregiudizievole del genitore, dunque il presupposto è la grave violazione dei doveri inerenti la responsabilità genitoriale, prescindendo in linea generale dal concreto pericolo di reiterazione del comportamento lesivo o dalla coscienza di tale lesività. Trattasi di (estrema: il provvedimento è teso ad attuare la sostanziale cancellazione, sino ad eventuale reintegra, del ruolo genitoriale) misura protettiva verso i figli, ed ha carattere “sanzionatorio” per gli inadempimenti già commessi dal/i genitore/i, ma anche potenzialmente “preventivo”, in quanto miranti ad evitare la ripetizione dei danni già causati o la protrazione dei loro effetti, come mezzo a tutela della personalità del bambino, quando la condotta parentale si concreti in un vero “abbandono morale” tale da costituire grave violazione dei doveri inerenti alla potestà. Il fatto che la decadenza dalla responsabilità genitoriale si ispiri alla esigenza d’ordine pubblico di garantire una evoluzione normale e positivamente feconda della personalità minorile, consente di ritenere che possa essere adottata d’ufficio, anche contro la volontà delle parti, poiché la tutela della prole potrebbe essere di fatto vanificata se dovesse dipendere dalla scelta di chi sulla prole stessa esercita la potestà.

Come anzidetto, la decadenza – che, va rammentato, non fa venir meno l’obbligo di mantenimento dei figli, né preclude la commissione del reato di cui all’art. 570, comma I e II, cod. pen. – può essere disposta indipendentemente dalla circostanza che il genitore abbia agito con la coscienza di ledere gli interessi della prole, dovendo essere evitato, nei limiti del possibile, ogni obiettivo pregiudizio, anche solo eventuale, per il minore. Anche il concetto dell’attualità della condotta pregiudizievole non esclude la possibilità di futura cattiva condotta, la quale può anche essere potenziale ed in fieri. Il giudice, in altri termini, nel pronunciarsi, deve esprimere una prognosi sull’effettiva ed attuale possibilità di recupero, attraverso un percorso di crescita e sviluppo delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento alla elaborazione, da parte dei genitori, di un progetto, anche futuro, di assunzione diretta della responsabilità genitoriale, caratterizzata da cura, accudimento, coabitazione con il minore, ancorché con l’aiuto di parenti o di terzi e avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali. Per la gravità delle conseguenze sorgenti dalla decadenza, il giudice deve esaminare in concreto ogni singolo elemento di fatto, in considerazione del fatto che, anche qualora la condotta del genitore risultasse pregiudizievole per il minore, il giudice non potrà adottare provvedimenti limitativi della potestà che, ove attuati, potrebbero (paradossalmente) costituire fonte di un maggior danno per il figlio stesso.

  1. Casistica. La giurisprudenza ha avuto modo di tratteggiare un ampio spettro di comportamenti che sono stati ritenuti gravemente pregiudizievoli verso la prole e, dunque, motivo di decadenza dalla potestà genitoriale. Sono senz’altro presupposto di decadenza le violenze sessuali e gli abusi in famiglia: anche in mancanza di prove obiettive certe che consentano una condanna penale, il giudice può ritenere in questo casi legittimo assumere i provvedimenti ablativi o limitativi della potestà. Va senz’altro pronunciata la decadenza in presenza di un comportamento ripetutamente violento, aggressivo e vessatorio del padre verso i figli e la partner, qualora risulti grave la instabilità psichica del padre stesso, tanto più se perdura la convivenza: in un’ipotesi siffatta la decadenza appare l’unica misura adeguata contro gli abusi e gli eccessi consumati, in quanto atta a reprimerli e ad evitare la ripetizione dei danni già arrecati e la protrazione dei loro effetti. Anche i maltrattamenti, rilevanti e continui, inflitti da un genitore all’altro, e non verso i minori, per le inevitabili ripercussioni negative sull’equilibrio fisio-psichico della prole e sulla serenità dell’ambiente familiare, possono condurre alla dichiarazione di decadenza dalla potestà. Allo stesso modo, è possibile presupposto di decadenza dalla potestà la condotta omissiva del genitore, consapevole della violenza sessuale consumata da terzi sul figlio minore: rientra infatti nei doveri dei genitori anche l’obbligo di tutelare la vita e l’incolumità fisica/ morale dei figli, nonché ogni loro interesse rilevante ai fini di un normale sviluppo psico-fisico.

Parimenti il genitore che, pur pienamente consapevole dei danni inferti alla personalità psicofisica della prole dalla condotta aggressiva, violenta e vessatoria del convivente, decida di continuare a convivere con il partner, esponendo così la prole ai rischi di sue ulteriori, e quasi certe, manifestazioni aggressive, violente e vessatorie, si rende a sua volta passibile di provvedimenti ablativi della potestà di cui è investito. E’ altresì piuttosto pacifico che rappresenti motivo di decadenza dalla responsabilità genitoriale il sistematico indottrinamento del figlio a disvalori criminali, facendolo assistere ad attività delinquenziali, esponendolo all’uso delle armi e rendendolo edotto degli scopi criminosi di una organizzazione criminale cui il genitore appartiene (nella specie il minore, unitamente ai fratelli più piccoli, è stato affidato in via esclusiva alla madre, collaboratrice di giustizia, e co-affidato agli organi competenti all’attuazione delle misure e del programma speciale di protezione).

Può essere dichiarata la decadenza dalla potestà nei confronti del genitore incline all’uso di sostanze tossiche e non disponibile al proprio recupero, del tutto disinteressato alle esigenze ed ai diritti d’ordine materiale, morale, affettivo e psicologico del minore e del proprio ruolo paterno, con grave, inevitabile e progressivo danno per la prole, tanto più qualora egli sia completamente assente nel giudizio, tenendo una condotta processuale concludente e rivelatrice ex art. 116, comma II, e 117, cod. proc. civ.. Non sono stati tuttavia ritenuti sussistenti gli estremi per la declaratoria della decadenza a carico del genitore (madre) tossicodipendente, pur qualora avesse fatto uso di sostanze stupefacenti durante la gravidanza, trasmettendo all’infante la sieropositività, che non svolge attività lavorativa, non si curi del proprio nato, e sia stato altresì in carcere per aver commesso alcuni gravi reati allo scopo di procurarsi la droga, allorché risulti la volontà del genitore medesimo di liberarsi dalla tossicodipendenza mediante il ricorso all’ausilio dei servizi sociali, nonché un interessamento costante, certo, definitivo ed intenso per la salute e lo sviluppo dei figli.

 

La condotta gravemente pregiudizievole del genitore può consistere non solo in maltrattamenti o gravissime trascuratezze, ma anche in disinteresse ed incapacità di assistere i figli, mantenerli, istruirli od educarli convenientemente. Il disinteresse può manifestarsi, ad esempio, non presenziando in momenti significativi per l’esistenza del minore (quali la nascita ed il battesimo), fino a rendersi irreperibile e rifiutando esplicitamente il ruolo genitoriale, qualora trascuri costantemente e per lungo periodo il proprio figlio in tenerissima età, privandolo d’ogni assistenza e rimanendo lontano da lui, o non eserciti l’ufficio paterno né sotto il profilo educativo e dell’istruzione, né sotto il profilo del mantenimento.

            Ugualmente, possono essere adottati provvedimenti limitativi della potestà parentale qualora i genitori di una minore adolescente in condizioni psichiche menomate manifestino notevole inidoneità allo svolgimento del ruolo genitoriale, fino al punto di disinteressarsi del suo comportamento [Ad esempio essendo solita ad intrattenere relazioni sessuali plurime, indiscriminate e con soggetti diversi, perché incapace, data la propria minorazione psichica, di valutare i significati e le conseguenze delle profferte sessuali ricevute, e, quindi di resistervi], e di consentire che la minore venga esposta, attraverso i mass media, a morbose curiosità, promuovendo in tal modo la violazione della sua riservatezza e procurando ad essa ulteriore pregiudizio.

            La decadenza dalla potestà può derivare altresì dall’inadempimento del genitore alle prescrizioni precedentemente emanate dal giudice a tutela della prole, quando si astenga dal provvedere al mantenimento ed alle altre necessarie cure, si rifiuti di partecipare agli incontri organizzati dal Servizio sociale con il figlio, ed impedisca la stipula con l’altro genitore di accordi e intese diretti, sempre nell’interesse della prole, a regolare i rapporti parentali di ognuno.

            Anche la reciproca conflittualità tra i due genitori a seguito della cessazione della convivenza, che li rende sordi ai più elementari bisogni del figlio in tenera età, con conseguente paralisi gestionale- educativa dello stesso, può far pronunciare di ufficio la decadenza dalla potestà dei due genitori, se sussiste grave pregiudizio per il minore: la nomina di un tutore consente di assumere ogni decisione occorrente alla educazione, istruzione, e salute. Giustifica la adozione del provvedimento di decadenza anche il comportamento del genitore separato e non affidatario dei minori che, pendente il giudizio di separazione ed in violazione delle statuizioni del giudice, abusi dei suoi poteri, trattenendo indebitamente presso di sé i figli ed ostacolando il loro rientro presso il genitore affidatario, trascuri in maniera rilevante e pericolosa i propri doveri diretti (delegando ai nonni l’educazione e la cura della prole durante i periodi in cui questa permane presso di lui), ponendo i figli in uno stato di precario, pericoloso equilibrio psico-fisico con l’allontanarsi dal loro naturale e pregresso ambiente socio-familiare e scolastico, e con il far loro mutare radicalmente e senza motivo adeguato consolidate abitudini di vita e di condotta.

            Persino il comportamento ostativo del genitore superstite nel procedimento finalizzato all’accertamento del diritto del minore a conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti del genitore scomparso può costituire una condotta pregiudizievole ex art. 330, cod. civ. Poiché comporta la rescissione, nella fase evolutiva della formazione della personalità del ragazzo, di una sfera affettiva e identitaria assolutamente significativa, e lo espone a una vicenda esistenziale particolarmente dolorosa.

            Anche le scelte mediche relative ai minori possono rilevare ai sensi dell’art. 330, cod. civ. in quanto la discrezionalità nell’esercizio della potestà parentale comprende anche la scelta delle terapie da prodigare al figlio malato. Da una parte, non è sufficiente che i genitori assumano le decisioni con ponderazione, essendo necessario altresì verificare che la decisione non sia di pregiudizio, anche solo eventuale, per il minore stesso: non può pertanto essere consentita ai genitori la decisione di ricorrere, per il figlio – nonostante la conforme volontà di quest’ultimo – ad un trattamento medico di pura e semplice sperimentazione, trascurando la probabilità di guarigione secondo un’ottima percentuale statistica, a mezzo di un protocollo terapeutico di comprovata efficacia. Dall’altra parte, di fronte all’obiettiva incertezza tecnico-scientifica in ordine all’esito di un intervento chirurgico (certamente devastante) da affrontare, non costituisce condotta pregiudizievole per il minore il rifiuto di sottoporlo all’intervento e la scelta di ricorrere a tecniche di medicina alternativa, al fine di evitare quei danni fisici e psicologici che altrimenti graverebbero sul figlio.

            Per la valutazione della sussistenza dei presupposti per la declaratoria di decadenza della potestà genitoriale va altresì considerata la comunità di appartenenza del minore, e lo stile di vita da essa ritenuta comune. Si è ad esempio ritenuto che, qualora nelle ore serali una minore ultra-sedicenne, appartenente a comunità nomade, venga sorpresa senza la compagnia di alcuno, in verosimile comportamento mendico, non può, per ciò solo, essere ravvisato né abbandono del minore stesso, né violazione alcuna dei diritti-doveri parentali, visto che il minore è considerato, per ragioni di età, più che matura dalla comunità di sua appartenenza e visto lo stile abituale di vita nomade. In presenza di un valido e comprovato rapporto affettivo e di una condotta parentale tesa a salvaguardare ed onorare le esigenze primarie della prole, non sussistono le condizioni per la decadenza della potestà appartenenti alla comunità nomade, non rilevando che gli insediamenti abitativi e nei quali il minore e la sua famiglia sono costretti a vivere non assicurino i requisiti igienici minimali e le necessarie strutture, non solo poiché tali condizioni di disagio sono imputabili, più che alla comunità dei nomadi, ai ritardi dell’intervento pubblico, ma anche non potendosi discriminare sistemi di vita diversi per usanze e per valori culturali ed esistenziali.

            In tema di scelte religiose per il minore, se la professione di ateismo, quando non accompagnata da orientamenti pedagogici particolarmente negativi, non è stata ritenuta tale da poter condurre alla decadenza della potestà, l’indottrinamento del figlio minore secondo un credo integralista, intransigente fino al fanatismo e scarsamente permeato nel tessuto sociale, l’esasperazione, agli occhi del figlio stesso, della rilevanza delle pratiche di culto, possono turbare l’equilibrio della personalità minorile in evoluzione: pur non potendo, per ciò solo, ritenere sussistenti i presupposti per la decadenza della potestà parentale, il giudice può demandare ad un consultorio familiare il controllo dell’attività pedagogica del genitore, affinché possa trasmettere al minore una scala di valori, esenti da eccessi fideistici e compatibili con una sua crescita equilibrata, che consentano al minore stesso d’integrarsi pienamente nel tessuto comunitario e di compiere, in futuro, con libertà e consapevolezza, le proprie definitive scelte religiose.

            Pur essendo possibile che, in presenza di minori preadolescenti, figli di un pregiudicato, possa essere disposta la decadenza del padre dalla responsabilità genitoriale, lo stato di detenzione di un genitore non può, di per sé, determinare una pronuncia di decadenza. Il Giudice è tenuto ad effettuare una verifica, nel caso concreto, in ordine alla sussistenza di condotte pregiudizievoli nei confronti dei figli tali da richiedere la pronuncia di decadenza, che può essere ad esempio essere giustificata nel caso in cui il padre di due minori, ancora preadolescenti, con la sua scelta di vita e la sua condotta, ha determinato un grave e perdurante pregiudizio all’equilibrato sviluppo personale dei figli, e si è rivelato del tutto inidoneo a svolgere adeguatamente la funzione educativa.

Non sono stati da ultimo ritenuti elementi fondanti la decadenza dalla potestà genitoriale la grave malattia mentale del genitore, la convivenza del genitore con persona al figlio non gradita, l’allegazione di motivi burocratici connessi col progettato trasferimento del genitore in altra città, l’asserito stato di invalidità parziale, la scelta di una dieta vegana per il figlio minore, ove questa sia correttamente eseguita secondo le indicazioni degli specialisti, sì da non creare alcun pregiudizio per la crescita del bambino, o il caso in cui un genitore prenda parte ad una colluttazione in occasione della recita scolastica della propria figlia, circostanza certamente censurabile ma da solo non tale da giustificare la decadenza o la  limitazione della responsabilità genitoriale (salva la possibilità di adottare un’attività di monitoraggio della situazione familiare da parte dei Servizi Sociali).

  1. Aspetti processuali. Ai sensi dell’art. 38, disp. att. cod. civ. anche nei casi di pendenza innanzi al giudice ordinario di procedimenti di separazione, divorzio, annullamento, nullità matrimoniale ovvero di quelli relativi ai figli nati fuori dal matrimonio, la competenza sulle domande proposte ai sensi degli artt. 330 e 333, cod. civ. è del Tribunale per i Minorenni, trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della perpetuatio jurisdictionis di cui all’art. 5, cod. proc. civ. nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell’interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell’art. 111, Cost., nell’art. 8 CEDU e nell’art. 24 della Carta di Nizza.

Il Tribunale per i Minorenni è altresì funzionalmente competente a decidere il giudizio in cui venga formulata domanda di decadenza dalla responsabilità genitoriale e, contestualmente, di affidamento esclusivo del minore, nella misura in cui la domanda decadenziale è pregiudiziale rispetto alla richiesta di affidamento. L’attrazione di competenza in capo al giudice ordinario dinanzi al quale pende un conflitto coniugale o familiare opera soltanto quando il giudizio relativo al conflitto sia stato promosso prima dell’azione rivolta in via principale all’ablazione o alla limitazione della responsabilità genitoriale. Quando sia in corso un giudizio di separazione, di divorzio od un giudizio ex art. 316, cod. civ. anche in pendenza dei termini per le impugnazioni e nelle altre fasi di quiescenza, fino al passaggio in giudicato, la competenza in ordine alle azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti, deve attribuirsi al giudice del conflitto familiare (Tribunale ordinario e Corte d’appello): ne consegue che nel caso in cui — successivamente all’instaurazione di un giudizio di separazione o di divorzio, o del giudizio di cui all’art. 316 cod. civ. — siano state proposte azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi od ablativi della responsabilità genitoriale quando sia pendente il termine per l’impugnazione, o sia stato interposto appello avverso la decisione di primo grado, la competenza a conoscere tali azioni è attribuita alla Corte di Appello in composizione ordinaria.

Il conflitto di competenza tra il tribunale ordinario ed il tribunale per i minorenni dev’essere risolto secondo il criterio della prevenzione, atteso che l’art. 38, disp. att. cod. civ., la cui ratio risiede nell’evidente interrelazione tra i due giudizi, limita la vis attractiva del tribunale ordinario, anche per i detti provvedimenti, all’ipotesi in cui il procedimento dinanzi a questo sia stato instaurato per primo e si svolga tra le stesse parti dell’altro, in tal modo implicitamente escludendo l’ipotesi in cui il procedimento dinanzi al tribunale per i minorenni sia stato instaurato anteriormente, riservata in ogni caso al giudice minorile la pronuncia sulla decadenza dalla potestà genitoriale.

In merito all’individuazione del giudice territorialmente competente, la giurisprudenza ha individuato quello del luogo di residenza abituale (senza che assuma rilievo la mera residenza anagrafica o eventuali trasferimenti contingenti o temporanei, laddove non sia stato possibile effettuare una prognosi sulla probabilità che la nuova dimora diventi l’effettivo e stabile centro d’interessi del minore del minore alla data della domanda, intesa come quella della sua famiglia, se unita, o del genitore che con il minore convive negli altri casi, e va identificata nel luogo dove il minore custodisce e coltiva i suoi più radicati e rilevanti legami affettivi ed i suoi reali interessi. La competenza territoriale del giudice adito con la proposizione della domanda rimane ferma, nonostante lo spostamento in corso di causa della residenza anagrafica o del domicilio del minore, derivante dal trasferimento del genitore con il quale egli convive, trovando applicazione il principio generale della perpetuatio jurisdictionis che prevale su quello di prossimità (applicandosi, per converso, il criterio della prossimità quante volte sia richiesto, dopo l’avvenuto trasferimento di residenza, un provvedimento nuovo ed autonomo rispetto a quello pronunziato dal giudice originariamente competente.

            Nel giudizio de potestate i genitori e il minore, in qualità di parti, hanno diritto ad averne notizia ed a parteciparvi, essendo necessario che il contraddittorio sia loro assicurato. Il minore, vantando interessi contrapposti ai genitori (anche quando il provvedimento venga richiesto nei confronti di uno solo di essi), deve essere rappresentato da un curatore speciale, ed essendo egli parte necessaria, la mancata integrazione del contraddittorio nei suoi confronti comporta la nullità del procedimento medesimo, così come senza la partecipazione del genitore il giudizio sulla responsabilità genitoriale è tamquam non esset [come non ci fossero].

Il minore ha anche diritto di essere ascoltato, purché abbia compiuto gli anni dodici, ovvero, sebbene di età inferiore, sia comunque capace di discernimento: la sua audizione – anche nel caso in cui il giudice disponga, secondo il suo prudente apprezzamento, che l’audizione avvenga a mezzo di consulenza tecnica – costituisce un’espansione del diritto alla partecipazione nel procedimento che lo riguarda, quale momento formale deputato a raccogliere le sue opinioni ed i suoi effettivi bisogni.

I provvedimenti de potestate hanno attitudine al giudicato rebus sic stantibus, in quanto non sono revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi. Incidendo su diritti di natura personalissima, di primario rango costituzionale, sono immediatamente reclamabili ex art. 739, cod. proc. civ. innanzi alla Corte d’Appello, pur se adottato nell’ambito di procedimento ancora in corso, in quanto già idoneo a produrre effetti pregiudizievoli per i minori e per il genitore, in ragione delle sue immediate ripercussioni sulla relazione parentale.

            Il decreto della Corte di appello che – in sede di reclamo – conferma, revoca o modifica il provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale emesso dal giudice minorile, è a sua volta impugnabile con ricorso per Cassazione, ai sensi dell’articolo 111, comma VII, Costituzione.

            Nei giudizi aventi ad oggetto la limitazione o ablazione della responsabilità genitoriale, il genitore è munito del pieno potere di agire, contraddire e impugnare le decisioni che producano effetti provvisori o definitivi sulla titolarità o sull’esercizio della predetta responsabilità.

            Il provvedimento di primo grado, ancorché provvisoriamente esecutivo, è privo di definitività, e se tempestivamente impugnato è inidoneo a far perdere al genitore la titolarità della legittimazione ad agire nel giudizio in cui si mette in discussione il proprio diritto dovere di conservare la titolarità e di esercitare la responsabilità genitoriale sul figlio. Il genitore, è dunque legittimato nel giudizio di secondo grado avente ad oggetto la propria responsabilità genitoriale, nonché a impugnare il provvedimento dì adozione in casi particolari, permanendo la sua qualità di parte nel relativo procedimento e stante il suo interesse ad evitare le diverse, definitive e ben più incisive conseguenze dell’adozione, cui la predetta dichiarazione è preordinata, che implicano, oltre alla perdita della potestà, il venir meno di ogni rapporto nei confronti del figlio, e potenzialmente attivarsi per il recupero del rapporto e richiedere la reintegra nella responsabilità genitoriale ex art. 332 cod. civ..

            Il conseguimento della maggiore età da parte del minore determina la cessazione della responsabilità genitoriale, la conseguente cessazione della materia del contendere e la caducazione dei provvedimenti in precedenza pronunciati, posto che ad assumere rilievo è la sola tutela del minore dai comportamenti pregiudizievoli dei genitori, non anche l’interesse del genitore all’accertamento negativo dei fatti allegati a sostegno della domanda, a prescindere dall’accertamento relativo all’inosservanza dei doveri genitoriali.

Walter Giacardi                                 altalex 31 gennaio 2020

68 note          www.altalex.com/documents/news/2020/01/31/decadenza-responsabilita-genitoriale-figli

 

Cognome paterno: aggiunto a quello della madre se non pregiudica l’interesse del minore

Cassazione civile, sesta Sezione civile, ordinanza n. 772, 16 gennaio 2020

www.studiolegaleserenalombardo.it/wp-content/uploads/2020/01/Ordinanza-Cass.-772.2020-Cognome-paterno.pdf

È legittima l’aggiunta del cognome paterno a quello della madre, che ha riconosciuto il minore per primo, se ciò non lede l’interesse del bambino e non ne pregiudica l’identificazione sociale, ormai consolidatasi con il solo matronimico. Questo è quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione che ribadisce il principio del prioritario ed esclusivo interesse del minore, unico criterio guida cui dovrà attenersi il giudice in punto di riconoscimento del figlio nato al di fuori dal matrimonio.

  • I fatti di causa. La pronuncia trae origine dal decreto con cui il Tribunale di Reggio Calabria accoglieva la domanda di una donna, esercente la responsabilità genitoriale sul figlio di otto anni, disponendo che il bambino assumesse il cognome del padre naturale in aggiunta a quello della madre (che lo aveva riconosciuto per prima) e stabilendo anche l’affido super esclusivo in favore di quest’ultima. Il padre proponeva reclamo contro il decreto, che però veniva rigettato dalla Corte d’Appello. Ricorreva quindi in Cassazione, rilevando che l’aggiunta del patronimico avrebbe potuto compromettere l’identità sociale già raggiunta dal minore mediante l’utilizzo del cognome materno. Riferiva inoltre, quali circostanze ostative al riconoscimento, della totale inesistenza dei rapporti con il figlio e della propria assoluta inidoneità all’esercizio della responsabilità genitoriale, tant’è che era stato disposto l’affido super esclusivo in favore della madre.
  • Attribuzione del cognome e interesse prevalente del minore. Nell’esame del ricorso la Corte di Cassazione richiama il costante orientamento di legittimità in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio e riconosciuto in maniera non contestuale dai genitori. La Corte ribadisce che i criteri di individuazione del cognome del minore sono funzionali al suo interesse e finalizzati ad evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della personalità sociale del minore, valore che ha copertura costituzionale assoluta.

La scelta del giudice in sede di attribuzione del cognome è quindi ampiamente discrezionale e prescinde dalle regole dettate in materia di riconoscimento del figlio all’interno del matrimonio, avendo riguardo soltanto al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto, fino al momento del successivo riconoscimento (così Cass. n. 12640 del 18/6/2015). Rispetto alle ipotesi previste al secondo e terzo comma dell’art. 262 c.c., il giudice ha quindi il potere-dovere di decidere avendo riguardo soltanto all’interesse del minore. E’ quindi escluso ogni automatismo, sia in termini di priorità nell’attribuzione del cognome – essendo inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del prior in tempore – sia di particolare favore per il patronimico rispetto al cognome materno (così Cass. n. 2644 del 3/2/2011; Cass. n. 18161 del 05/07/2019). Proprio perché orientata a garantire l’esclusivo interesse del minore, la decisione di merito – osserva la Corte – è peraltro incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata (Cass. n. 15953 del 17/7/2007).

  • L’assenza di ragioni ostative e pregiudizievoli. In tema di minori vale dunque il consolidato principio secondo cui “… è legittima, in ipotesi di secondo riconoscimento da parte del padre, l’attribuzione del patronimico, in aggiunta al cognome della madre, purché non gli arrechi pregiudizio in ragione della cattiva reputazione del padre e purché non ne sia lesivo dell’identità personale, ove questa si sia definitivamente consolidata con l’uso del solo matronimico nella trama dei rapporti personali e sociali” (Cass. n. 26062 del 10/12/2014). L’attribuzione del cognome paterno presuppone pertanto la valutazione circa l’assenza di ragioni pregiudizievoli o ostative per il bambino, requisito ampiamente soddisfatto dai giudici di merito nel caso di specie.

Era stato infatti accertato che il bambino, di circa otto anni all’epoca della pronuncia di primo grado, non aveva ancora acquisito con il matronimico una identità definitiva e formata nella trama dei rapporti personali e sociali. L’assenza di rapporti tra padre e figlio non era inoltre di ostacolo all’aggiunta del secondo cognome, consentendo al contrario il prodursi di effetti positivi per il minore, quali una positiva evoluzione del rapporto con il padre, la facilitazione del legame con gli altri suoi figli e la possibilità di affermare la propria appartenenza alla famiglia paterna. Muovendo da tali premesse la Corte ha quindi rigettato il ricorso, dichiarandolo inammissibile, e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Irene Marconi            Altalex 31 gennaio 2020

www.altalex.com/documents/news/2020/01/31/cognome-paterno-aggiunto-a-quello-della-madre-se-non-pregiudica-interesse-minore

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OMOFILIA

Perché tutti, eterosessuali e omosessuali, sono chiamati alla castità

Riflessioni sulla dottrina della Chiesa Cattolica e sulla cura pastorale di Yunuen Trujillo*, pubblicate sul suo sito LGBT Catholics (Stati Uniti) nel marzo 2019, terza parte, liberamente tradotte da Diana della Rete 3volte Genitori

Infine, la terza parte della dottrina della Chiesa sui cattolici LGBT dice che tutti sono chiamati alla castità. Notate come questo insegnamento riguardi la castità, non il celibato. Spesso sentiamo dire “I gay devono essere celibi”, e anche se il risultato finale è lo stesso, dire che si parla di “celibato” è sbagliato, perché questo insegnamento si applicherebbe solo a chi è stato consacrato (cioè, ha fatto voto di castità) e ai gay, e non è così. L’insegnamento riguarda la castità, ma cos’è la castità?

Il Catechismo definisce la castità come “L’integrazione della sessualità nella persona”. Castità non significa “non far sesso”, sostanzialmente significa essere sicuri che ogni atto sessuale nella nostra vita sia integrato con tutto il nostro essere: le nostre emozioni, i nostri pensieri, i nostri progetti per il futuro. E per la dottrina della Chiesa, questa integrazione avviene pienamente solo col sacramento del matrimonio. Così, per esempio, un uomo e una donna uniti dal sacro vincolo del matrimonio, se si amano a vicenda, fanno sesso, ma l’atto sessuale viene integrato dal loro amore reciproco, dai loro pensieri, dai loro progetti per il futuro, perché si sono sposati in Chiesa e sono fedeli. Quindi sono casti anche se fanno sesso.

            La castità riguarda dunque questa integrazione. Nello stesso modo, se abbiamo un uomo e una donna sposati in Chiesa che si tradiscono a vicenda, oppure uno dei due tradisce l’altro, non esiste l’integrazione delle emozioni, della mente, dei loro piani per il futuro con il loro atto sessuale; anche se sono sposati in Chiesa, non sono casti. Ancora una volta, la castità si riferisce a questa integrazione.

E ancora, la Chiesa Cattolica dice che questa integrazione si realizza pienamente nel sacramento del matrimonio. Poiché il sacramento del matrimonio esiste solo tra uomo e donna, questa è la ragione per cui spesso si pensa: “Bene, in questo caso, se i gay vogliono essere casti, non devono fare sesso”. Giusto?

Così, come detto all’inizio, il risultato finale è lo stesso come se dicessimo “celibato”, ma quello che cambia è il fatto che si applica a tutti, eterosessuali ed omosessuali.

  • Allora, qual è la differenza? Come citato nell’introduzione, ho fatto parte di un gruppo di giovani, dai 18 ai 35 anni, per più di dieci anni e, per qualche ragione, i partecipanti al mio gruppo hanno avuto molto successo nel trovare il ragazzo o la ragazza in questo gruppo giovanile, abbiamo avuto parecchie coppie che si sono sposate. La ragione per cui ve lo dico è che noi insegniamo la castità e anche parecchie altre cose. Ma quando un ragazzo e una ragazza del gruppo decidono di iniziare una relazione…non partiamo automaticamente dal presupposto che facciano sesso. Concediamo il beneficio del dubbio. Diciamo: “Li educhiamo sull’insegnamento della Chiesa, e concediamo loro il beneficio del dubbio, che saranno casti”. Semplicemente questo.

Tuttavia con le persone omosessuali non ci comportiamo così. Appena sappiamo che una persona è omosessuale, non sappiamo nemmeno se ha un compagno/a, ma già supponiamo che stiano “peccando”, che facciano sesso. Ecco la disparità, perché l’insegnamento si applica per entrambi (castità), e non c’è alcuna differenza. Bene, anche se scopriamo che la coppia eterosessuale fa sesso, continueremo ad amarli, ad accettarli, non diremo mai: “Andrete all’inferno”, oppure “Brucerete nelle fiamme dell’inferno”.

  • Invece, con i gay facciamo così. Non nel mio gruppo giovanile, ma in generale, noi cattolici ci comportiamo in questo modo quando veniamo a sapere che una persona omosessuale ha un partner. Questo è sbagliato, perché l’insegnamento è sempre lo stesso per tutti. Eppure siamo più misericordiosi, abbiamo una certa sensibilità pastorale verso le coppie eterosessuali, ecco la disparità.

* Voglio darvi alcune informazioni su di me: mi chiamo Yunuen Trujillo e sono cattolica LGBT. Da più di quattordici anni mi occupo di pastorale giovanile. Sono a capo della pastorale di lingua spagnola per i giovani adulti dell’arcidiocesi di Los Angeles (Archdiocesan Young Adult Ministry in Spanish, Pastoral Juvenil de la Arquidiócesis de Los Ángeles), per la quale coordino i programmi educativi. Ho condotto un programma radiofonico cattolico per cinque anni, e insegno la dottrina sociale della Chiesa, che è la mia area di specializzazione. Di recente sono stata impegnata con Always Our Children (Sempre nostri figli), un gruppo di sostegno per genitori e parenti di persone LGBT cattoliche, e sono coordinatrice per la formazione religiosa del Ministero Cattolico con Lesbiche e Gay (Catholic Ministry with Lesbian and Gay Persons), un ministero dell’arcidiocesi di Los Angeles. Questo sito web, ad ogni modo, è un progetto interamente mio, non legato ai miei altri incarichi. I punti di vista qui espressi sono miei.

Testo originale: My Commentary on Church Doctrine & Pastoral Care

Giacomo · Progetto Gionata              9 febbraio 2020

www.gionata.org/perche-tutti-eterosessuali-ed-omosessuali-sono-chiamati-alla-castita

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SINODO

A Francoforte, il cammino sinodale della Chiesa cattolica tedesca è cominciato.

L’assemblea che si è svolta a Francoforte dal giovedì 30 gennaio a sabato 1 febbraio 2020 ha rappresentato la “fase istruttoria” di questo percorso. “Sono fiducioso” ha commentato il card. Reinhard Marx, presidente dei vescovi tedeschi, nella conferenza stampa conclusiva. “Le mie attese sono state realizzate” ha fatto eco Thomas Sternberg, presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi (Zdk), che in termini paritetici conduce questo processo di dialogo tra laici e vescovi. Sono infatti 230 i partecipanti, per metà laici e per metà vescovi – tutti i membri della Conferenza episcopale – sacerdoti, religiosi e religiose. A Francoforte si è definito il regolamento di questo cammino, si sono tratteggiate le questioni in gioco per ciascuno dei temi scelti, sono stati identificati coloro che ora dovranno elaborare i testi su cui l’assemblea si confronterà, si è pregato. Ma non è stato un inizio semplice.

Potere e divisione dei poteri nella Chiesa; vita sacerdotale oggi; donne nei servizi e nei ministeri della Chiesa; amore e sessualità saranno i temi di lavoro di quattro forum, i cui membri sono stati approvati dall’assemblea (con un po’ di malcontento perché sono solo 35 e quindi solo una parte dei componenti dell’assemblea). Lo “studio Mhg”, come viene sinteticamente chiamato lo sconvolgente lavoro pubblicato nel 2018 sul tema dell’abuso sessuale in ambito ecclesiale in Germania, indicava questi quattro come i nodi problematici che hanno creato il clima in cui sono stati possibili gli abusi. E a Francoforte sono state messe sul tavolo alcune delle questioni in gioco.

  1. Potere: “Vere e proprie riforme nell’area del potere e della separazione dei poteri sono necessarie e possibili per il bene della missione della Chiesa” ha detto il vescovo di Speyer Karl-Heinz Wiesemann. Parole chiave di questo ambito risuonate in sala sono state “clericalismo”, “corresponsabilità”, “partecipazione”. “Si sono sviluppate una teologia della Chiesa, una spiritualità dell’obbedienza e una prassi del ministero che legano unilateralmente questo potere all’ordinazione e lo hanno sacralizzato, in un modo che lo protegge dalle critiche, lo sottrae al controllo e lo svincola dalla condivisione” ha spiegato Claudia Lücking-Michel, che insieme al vescovo ha introdotto il tema. “In questo ambito si può fare molto a livello locale”, ha riconosciuto, parlando con il Sir, il vescovo di Passavia Stefan Oster, che appartiene al gruppetto di vescovi più critici verso il cammino sinodale.
  2. Sacerdozio: bisogna partire dalla domanda su come vivere la “nostra missione come popolo di Dio in una società sempre più secolarizzata”, ha spiegato il vescovo Felix Genn, per arrivare a riflettere sul “ruolo del sacerdote nel suo servizio al popolo di Dio”, sul significato della “sacramentalità”, ma anche sui cammini di preparazione al sacerdozio, di selezione dei candidati, di stili e forme di vita dei sacerdoti. Dal dibattito sono emerse sollecitazioni e testimonianze forti: “Abbiamo studiato in 30, siamo stati ordinati sacerdoti in 9, ora siamo solo più quattro”, ha raccontato un delegato. “La solitudine”, la percezione di “distanza, burocratizzazione, fragilità spirituale”; il “sovraccarico” di lavoro e la drammatica riduzione dei sacerdoti, alcuni elementi emersi. E poi certo, la questione del celibato: il vescovo di Osnabrück Franz-Josef Bode ha prospettato la possibilità che “ci possano essere le due forme, quella celibataria e quella no”; è emersa l’espressione di “sacerdozio sposato come figura profetica”.
  3. Donne: tema trasversale a tutti gli ambiti. Il modello di relazione tra donne e uomini nella Chiesa a cui ritornare, ancora il vescovo Bode, “è Maria e Giovanni sotto la croce”; “Gesù si è fatto carne, non maschio”, ha sottolineato. “La questione delle donne tocca dimensioni importanti come l’evangelizzazione, la credibilità e la giustizia” e affrontare questo tema oggi è indispensabile per il futuro della Chiesa cattolica, secondo la teologa Dorothea Sattler. “C’è da attendersi controversie su questo punto”, ha aggiunto, invitando a pensare “non solo alla vita sacramentale, ma a che cosa si può già fare”, a partire dal porre le donne in ruoli di guida. Il dibattito in sala è stato intenso: le associazioni femminili hanno raccolto 153mila firme per chiedere il sacerdozio per le donne; le giovani non sono più disposte ad “accettare e ubbidire”; la “realtà supera il magistero”; l’esclusione della donna dai ministeri getta “un’ombra sul lavoro di “advocacy” che la Chiesa fa per i diritti umani”.
  4. Morale sessuale: anche questo ambito è stato introdotto da un vescovo e una laica (il vescovo Michael Gerber e Birgit Mock): “il magistero in questo ambito non è percepito come orientamento ma come divieto morale”; occorre “non rompere con la dottrina ma aprire, cambiare, perché essa dia orientamento e serva alle persone”. Questo è un altro dei temi su cui evidente è stata la polarizzazione. Poi ha preso la parola Janosch Roggel, uno dei 15 delegati under-30 dell’assemblea: “Sono un transessuale. E l’abuso da parte di un prete è stata la cosa peggiore che ho vissuto”. Gelo in sala.  E alla fine del suo intervento un applauso, molti in piedi.

Questo cammino porterà a “decisioni e chiari voti”, cioè indicazioni, che saranno di tre tipi ha spiegato il presidente Thomas Sternberg: “voti” realizzabili in Germania; altri sottoposti al Papa e altri ancora “potranno essere indirizzati a un concilio che un Papa forse un giorno potrà convocare”.

Marx ha definito i giorni di Francoforte come “tentativo di fare qualcosa di nuovo”, anche se “difficile”, di un “cammino spirituale” in cui sono coinvolti coloro che “vogliono fare avanzare l’evangelizzazione”. Per il cardinale è chiaro che occorre “prudenza”, che ci sono “enormi attese e paure”. È emerso però tangibile con il passare delle ore e dei giorni, che la possibilità di un confronto “all’altezza degli occhi”, come dice una espressione tedesca spesso ritornata, è arricchente e la fiducia la nota dominante.  A “rovinare la festa” sono arrivate però le pesanti dichiarazioni del cardinale di Colonia Rainer Woelki in un’intervista all’emittente domradio.de quando ancora l’assemblea doveva finire: l’assemblea sarebbe stata “manipolata” e la modalità di lavoro simile a quella del “parlamento di una Chiesa protestante”, mentre la “dimensione gerarchica della Chiesa” sarebbe stata “messa in discussione” da alcune scelte concrete. Il cardinale Marx ha respinto le accuse: “Tra pochi giorni incontrerò il Papa e gli riferirò dell’Assemblea” ha detto ai giornalisti. La conferenza episcopale si riunirà a Fulda a marzo. Poi a settembre una nuova assemblea.

Sarah Numico             AgenziaSIR               3 febbraio 2020

www.agensir.it/europa/2020/02/03/a-francoforte-si-chiude-la-prima-fase-del-cammino-sinodale-si-discutera-di-potere-nella-chiesa-vita-sacerdotale-donne-nei-servizi-e-nei-ministeri-amore-e-sessualita

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TRIBUNALI ECCLESIASTICI

“Fa’ la cosa giusta”: la recezione di Amoris Laetitia e le categorie dei canonisti

Ho letto con attenzione la Prolusione che Mons. Pierantonio Pavanello, Vescovo di Adria-Rovigo, ha proposto il giorno 1 febbraio 2020 al Tribunale Interdiocesano Piemontese. Il tema è (apparentemente) centrale: Dichiarazione di nullità del matrimonio e discernimento di coscienza: vie diverse e complementari per la cura pastorale delle situazioni matrimoniali «irregolari». Mi sembra utile fornire la linea fondamentale di riflessione proposta dal canonista e mostrarne i limiti storici e pastorali rispetto al disegno proposto autorevolmente da Amoris Lætitia.

  1. Al centro della Prolusione. In breve, si può rilevare che le 10 pagine proposte alla riflessione individuano con precisione la questione assunta in modo nuovo da “Amoris Lætitia”: ossia un nuovo rapporto tra “foro esterno” e “foro interno”, tra forma giudiziaria di valutazione del “vincolo” e discernimento di coscienza del soggetto. Il relatore appare consapevole del fatto che la insistenza sul versante oggettivo, che ha caratterizzato la tradizione magisteriale fino a Familiaris Consortio, trovi ora con Amoris Lætitia una nuova considerazione del soggetto e della sua coscienza. Che cosa questo significhi per la “cura pastorale”, tuttavia, sembra rimanere piuttosto in ombra. Da un lato, infatti, si fanno grandi affermazioni sul bisogno di una “considerazione più ampia delle questioni”, ma in concreto questa ampiezza di sguardo viene di fatto impedita da “categorie bloccate”. Le categorie inadeguate pregiudicano il giudizio e, di fatto, assicurano un esito sostanzialmente di una totale conferma di ciò che è avvenuto sinora. Addirittura, con una accelerazione finale del discorso, si ribadisce di fatto il giudizio che nel 2000 era stato dato dal Pontificio Consiglio per i testi legislativi circa la “ostinata perseveranza in peccato grave manifesto”. Tale testo, infatti, risulta di fatto superato dalla nuova interpretazione del testo paolino che AL 185 provvede a chiarire e di cui, evidentemente, il relatore sembra restare all’oscuro. Certo è che questo passaggio problematico aiuta il relatore a concludere con una sintesi, dalla quale trapela, in modo evidente, una precomprensione gravemente riduttiva.

www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20160319_amoris-laetitia.html

 Egli scrive infatti: “A questo proposito ritengo sia utile segnalare la differenza rispetto all’itinerario penitenziale che era stato proposto nel corso dei due Sinodi sulla famiglia del 2014 e 201517 e che, sul modello di quanto avviene nelle chiese ortodosse, avrebbe costituito una soluzione «in foro esterno» concludendosi con un atto pubblico di riammissione ai sacramenti. La via indicata da AL è molto diversa: il discernimento si caratterizza proprio per essere un cammino fatto nell’ambito della coscienza (e quindi personale, anche se può essere di aiuto la partecipazione a percorsi di gruppo) e che porta ad un giudizio di coscienza, in quanto tale non avente rilevanza pubblica ed esteriore nella comunità” (p.8).

Il punto-chiave problematico è proprio questa conclusione sulla “irrilevanza pubblica e comunitaria” della coscienza. Questa lettura, infatti, nonostante tutti i buoni propositi espressi nelle pagine iniziali, sancisce una visione della questione che viene elaborata secondo una “irrilevanza pubblica della coscienza” che è tipica della società chiusa e di una visione della Chiesa come “societas inæqualis”. Come accade non raramente, alcuni canonisti coltivano, sotto la coltre dei loro ragionamenti formali, la segreta nostalgia di poter affrontare le questioni ecclesiali e matrimoniali, conservando una rigida distinzione tra coscienza e istituzione, e restando così al di qua della Chiesa che riconosce la “libertà di coscienza” come una componente essenziale della comunità e della stessa sfera pubblica. Per questo occorre riconoscere che, alla radice di questa analisi insufficiente, vi sono categorie di linguaggio e di pensiero che non sono più capaci di parlare della realtà e che vanno accuratamente fatte oggetto di rielaborazione.

  1. Fa’ la cosa giusta “e non dar spago a categorie inadeguate. Come ho detto, il primo punto su cui dobbiamo lavorare, ecclesialmente e pastoralmente, è proprio quello delle categorie che utilizziamo. E questo spetta a tutti, ma in primo luogo ai pastori e ai canonisti. I pastori e i canonisti debbono fare la cosa giusta, e non soffermarsi sulle quisquilie. La prima cosa da fare è non capovolgere il discorso di AL. In AL, infatti, vi è la apertura di un orizzonte nuovo, pensato ancora con le categorie classiche, ma portate al loro limite, chiedendo a chi ne recepisce il significato, di muoversi “oltre”. Se impostiamo invece la questione come una “tensione tra dichiarazione di nullità e coscienza”, restiamo del tutto all’interno del sistema di “giustizia” e di “verità” che non assicura più né giustizia né verità. Proprio la rilevanza della “coscienza” non è un piccolo additivo, un tocco di pepe o di origano che si aggiunge alla minestra riscaldata del “processo canonico” o della “confessione sacramentale”. E’ piuttosto l’elemento che ridefinisce l’orizzonte e impone una “terza dimensione”, ossia quel “foro pastorale”, in cui l’esteriore determina l’interiore e l’interiore ha effetto sulla comunità e sul piano pubblico. Proprio qui, a me pare, l’uso distorto delle categorie classiche, anziché assicurare intelligenza, blocca in modo autoreferenziale la possibilità di “toccare il reale”. Se parlo della coscienza, e ne parlo per 5 o 6 pagine, ma arrivo alla conclusione che il riferimento alla coscienza non può in nessun modo incidere sull’assetto istituzionale, di fatto avvaloro un “primato dello scandalo” che blocca il sistema a prima di AL. E’ chiaro che, in questa materia, occorre “prudenza”. Ma il concetto di “prudenza” che AL ha finalmente riaffermato non è “evitare lo scandalo della nuova unione”, ma anche e forse soprattutto “evitale lo scandalo di non saper riconoscere nuove condizioni di comunione”. E riconoscere non significa soltanto pronunciare la parola autorevole sussurrata nel confessionale, ma essere capaci di un atto ecclesiale e di un documento di riconoscimento opponibile a terzi. Questo è il punto decisivo: c’è una “opponibilità ai terzi” delle nuove condizioni di vita che rende la logica stessa del “libello” – la cui natura paternalistica non riesce ancora ad essere del tutto superata – una categoria che merita una accurata e non superficiale discussione.

A ciò va aggiunto che il riferimento alla coscienza, tanto insistito quanto inefficace, non può essere separato dal riferimento alla storia. I coniugi che vivono il matrimonio, e che in questa vicenda entrano in crisi, non hanno solo una coscienza, ma hanno anche una storia. Il loro “vincolo” ha una storia, che non può essere compresa solo al suo inizio. La “storia del vincolo” è una parola quasi “incomprensibile” per le categoria dei canonisti. Finché essi non sapranno darsi le parole e le forme istituzionali per aprirsi a quella realtà, che è la rilevanza della storia dei soggetti, sapranno solo costruire modellini-giocattolo, con cui proveranno – se va bene – a leggere la realtà, o che useranno solo come specchi, su cui riflettere la loro ricostruzione astratta e pedagogica del reale. Nel momento in cui riconosceremo che la “storia del vincolo” ha un rilievo comunitario e istituzionale, decongestioneremo questa “corsa alla dichiarazione di nullità” che sembra il modo più semplice per mettere le cose a posto, mentre è solo l’abuso istituzionalizzato di un rimedio raro ed eccezionale, che pretende di retrocedere – e costringe tutti a retrocedere – ad un “inizio” in cui tutto era cominciato – forse senza mai cominciare davvero. Se il nostro problema è il rapporto del matrimonio con la coscienza e con la storia, è troppo facile tornare soltanto al punto in cui la coscienza è riconosciuta “falsa” e la storia ancora “inesistente”. Ma queste sono le categorie con cui ancora ragionano molti canonisti e larga parte dei vescovi. E queste sono le categorie che dobbiamo anzitutto sottoporre a revisione, perché distorcono tutto, allo stesso tempo gli oggetti e i soggetti: ossia tanto i coniugi come oggetti di esame quanto i canonisti e i vescovi come soggetti di tale esame. Vorrei dire al vescovo-canonista, se è lecito usare un linguaggio molto franco: fa la cosa giusta! Anzitutto lavora su di te, e cambia le categorie grazie alle quali ti inventi un mondo che non c’è e per colpa delle quali non riesci a vedere il mondo che c’è.

3. L’esito paralizzante da evitare. Ovviamente il “lavoro” che Amoris Lætitia ci chiede non può essere gettato solo sulle spalle dei vescovi e dei canonisti, sebbene abbia nelle loro competenze e nella loro autorità una mediazione inaggirabile. Per evitare un effetto che chiamerei di “dispositivo di blocco”, e che genera sostanzialmente una paralisi ecclesiale, nella quale viene considerato “autorizzato e giustificato” solo ciò che si faceva prima di AL, occorre riferirsi a due “fari” che teologi e coniugi possono mettere sotto la lente e studiare con cura appassionata:

  1. Il primo è la assunzione del vero nucleo di AL, che è il superamento di una lettura primariamente giuridica del matrimonio. Una lettura escatologica del matrimonio ne colloca il significato e la verità non in un “inizio formale”, ma in un ““compimento promesso e finale”. Questa bella traduzione della dottrina matrimoniale in un “processo” implica una profonda revisione di categorie che “assicurano” il sacramento solo in un “punto iniziale già compiuto”. Che il vincolo abbia una storia è una verità escatologica, che il diritto canonico attuale non riesce a riconoscere a sufficienza e che deve fare in modo di poter onorare, con nuove categorie.
  2. Proprio questa prima assunzione ne implica una seconda, di carattere tecnico-giudico, e che implica non soltanto una “riforma del diritto processuale”, ma dello stesso “diritto sostanziale”. E qui vorrei che i canonisti e i vescovi ricordassero che un buon esperto di leggi, anche di leggi canoniche, deve sempre ragionare “de lege condita”, ma anche “de lege condenda”. AL ci chiede di camminare in una nuova direzione. Se il diritto è un ostacolo, lo si cambia, per poter camminare e per poter riconoscere che la coscienza degli sposi e la loro storia di vita reale è capace di cambiare la comunità e la percezione pubblica che la Chiesa ha di sé. Se invece si chiude il dettato di AL nelle spire della sola “lex condita”, si ottiene l’effetto paradossale di escludere per principio proprio ciò che la realtà e il magistero recente ci chiede di saper onorare. E ce lo chiede in modo esigente, anche a costo di mettere in discussione le più radicate tra le nostre abitudini giuridiche e pastorali. E non credo che il modo migliore di trattare il cavallo di razza che è AL sia quello addomesticarlo e intristirlo nel piccolo recinto delle categorie giuridiche ottocentesche.

Andrea Grillo, teologo e liturgista       blog come se non         4 febbraio 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/fa-la-cosa-giusta-la-recezione-di-amoris-laetitia-e-le-categorie-dei-canonisti

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VIOLENZA

Il tentativo di baciare una prostituta integra il reato di violenza sessuale

Corte di cassazione, terza Sezione penale, sentenza n. 2201, 21 gennaio 2020

      In tema di reati sessuali, anche il bacio sulla guancia, in quanto atto non direttamente indirizzato a zone chiaramente definibili come erogene, configura violenza sessuale, nella forma consumata e non tentata, allorquando, nell’ambito di una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, incida sulla libertà sessuale della vittima.

La Corte d’appello di Roma confermava la responsabilità penale dell’imputato in ordine al reato di cui all’art. 609 bis c.p.. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, deducendo violazione di legge in relazione all’art. 609-bis, c.p., atteso che la fattispecie in esame atterrebbe ad un tentativo di bacio ad una prostituta e solo il bacio profondo connoterebbe sessualmente l’atto come integrante gli estremi della violenza sessuale. In ogni caso, il mero tentativo di effusione non avrebbe integrato l’illecito penale, trattandosi di un’azione di routine irrilevante nell’ambito di un rapporto sessuale mercenario già iniziato.

Un uomo durante un rapporto sessuale con una prostituta cerca di baciare la donna: si configura il reato di violenza sessuale? A questa domanda la Suprema Corte dà risposta nella sentenza in epigrafe. I giudici di legittimità evidenziano che non coglie nel segno la tesi difensiva secondo cui i fatti o non costituirebbero reato o al più sarebbero stati riconducibili nel tentativo.

Ed invero, come emerso dalle decisioni di merito, non si trattò di un approccio fallito dell’uomo, ma di un bacio non gradito dalla donna, accompagnato dal comportamento del medesimo che le strappò i vestiti per porre in essere la riesecuzione coattiva della prestazione sessuale già pagata, anche se a prezzo inferiore a quello concordato.

 Del resto, a ribadire la rilevanza penale del fatto, è sufficiente richiamate quanto questa Corte ha già affermato, laddove si è precisato che va qualificato come “atto sessuale” anche il bacio sulla bocca che sia limitato al semplice contatto delle labbra, potendosi detta connotazione escludere solo in presenza di particolari contesti sociali, culturali o familiari nei quali l’atto risulti privo di valenza erotica, come, ad esempio, nel caso del bacio sulla bocca scambiato, nella tradizione russa, come segno di saluto. Inoltre, quanto alla pretesa configurabilità del tentativo, a destituire di fondamento giuridico la tesi difensiva soccorre la più recente giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di reati sessuali, anche il bacio sulla guancia, in quanto atto non direttamente indirizzato a zone chiaramente definibili come erogene, configura violenza sessuale, nella forma consumata e non tentata, allorquando, nell’ambito di una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, incida sulla libertà sessuale della vittima.

Redazione Nel diritto       2 febbraio 2020

Sentenza                    www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=17776#.XlRB30p7lFE

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