UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUCIPEM n. 768 – 25 agosto 2019
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984
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01 ADOZIONE La cultura della selezione senza formazione. Un ostacolo
02 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI Principio di proporzionalità a base del mantenimento del minore
02 CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA Amori e relazioni nell’era del web
02 CHIESA CATTOLICA L’adattamento necessario per essere una “Chiesa mondiale”
04 CHIESE EVANGELICHE Papato e valdesi, dal rogo al dialogo
05 CONSULTORI FAMILIARI CATTOLICI Don Edoardo Algeri, un uomo e un prete per i tempi nuovi
08 COPPIA DI FATTO Quali sono i diritti di una compagna?
11 COUNSELING La consulenza educativa (Simeone)
23 AICCeF. Definizione e breve storia del Consulente Familiare.
24 Carta dell’UCIPEM
25 DALLA NAVATA XXI Domenica del tempo ordinario – Anno C – 25 agosto 2019
25 Quella porta «stretta» per aprirci all’essenziale
25 DONNE NELLA CHIESA La tomba vuota
27 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Il cristiano condivide beni e tempo, “così è il volontariato”
28 PASTORALE Felice il matrimonio in cui si ha tanto da perdonarsi l’un l’altro!
28 POLIAMORE Si possono amare lealmente più persone?
30 PROCREAZIONE ASSISTITA Come è regolamentata la procreazione medicalmente assistita
32 UNIONI CIVILI Scioglimento: percorso per competenze genitoriali delle 2 mamme
33 Guida legale per le unioni civili
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ADOZIONE
La cultura della selezione senza formazione. Un ostacolo all’adozione
www.camera.it/_bicamerali/leg14/infanzia/leggi/legge184%20del%201983.htm
Molti aspiranti genitori perdono la motivazione. Eppure basterebbe un percorso di formazione adeguato. Che cosa viene valutato in una potenziale coppia adottiva? In merito al loro percorso, spesso bisogna evidenziare una completa assenza di chiarezza da parte dei servizi, oltre che l’assoluta intransigenza da parte del Tribunale dei minorenni.
Questo fa sì che si continui a non rispettare la legge 184 del 4 maggio 1983, che, nel suo articolo 29bis, al comma quarto, indica il percorso da parte dei servizi sociali. Un percorso che non deve solamente essere quello di studio della coppia, ma anche (come nello specifico segnalato dalle lettere “a” e “b” del solito comma 4) di informazione e preparazione all’adozione.
Purtroppo, però, questa collaborazione non è mai richiesta o ricercata, e le coppie si ritrovano a “subire” un colloquio in tribunale senza avere dimestichezza con temi complicati come quello dell’abbandono dei minori, dei traumi del maltrattamento e dell’abuso. Questo porta le coppie ad avere aspettative irrealistiche e a non essere preparata al confronto con il giudice.
Questa cultura della valutazione senza formazione genera la solita situazione di una mera selezione delle famiglie e delle coppie, togliendo risorse al sistema e soprattutto togliendo speranze ai bambini abbandonati.
Sì, perché, se alcune coppie manifestano comunque l’energia per proseguire e mantengono un elevato livello di motivazione, molte altre abbandonano. E questi abbandoni non sono cosa da poco. Si perde infatti per strada la possibilità, per le coppie, di adottare. Ma, soprattutto, si perde l’opportunità di essere accolti e tornare a essere figli per molti bambini
AiBinews 24 agosto 2019
www.aibi.it/ita/la-cultura-della-selezione-senza-formazione-un-ostacolo-alladozione
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI
Il principio di proporzionalità alla base del mantenimento del minore
Il Tribunale di Roma con decreto disponeva il collocamento prevalente del figlio presso la madre a Roma e regolamentava un ampio diritto di visita del padre che abitava a Cagliari, quest’ultimo proponeva reclamo. La Corte d’Appello, disposto l’ascolto del minore sedicenne, collocava quest’ultimo presso il padre, stabiliva il diritto di visita materno, da esercitarsi a Roma, con l’onere per la madre di contribuire al mantenimento del figlio, oltre alle spese straordinarie e di viaggio necessarie per le visite. Avverso detta decisione, la madre proponeva ricorso per Cassazione.
Obbligo di mantenimento secondo il principio di proporzionalità. La ricorrente lamentava la violazione da parte della Corte d’Appello dell’art. 337-ter c.c. per aver posto a carico della ricorrente obblighi economici sproporzionati al reddito sia quanto al mantenimento diretto del figlio nei periodi di permanenza presso di sé che quanto alle visite parentali ed al contributo alle spese straordinarie.
Alla luce di tali osservazioni, ritiene La Suprema Corte che, nel caso di specie, la Corte territoriale avrebbe dovuto effettuare un’adeguata indagine circa le risorse patrimoniali e reddituali di ciascuno dei genitori, senza trascurare la maggiore capacità patrimoniale del padre, al fine di determinare correttamente- tenuto conto di tutti gli elementi indicati nell’art. 337- ter c.c.- il contributo di ciascuno al mantenimento del figlio ancora minorenne.
La Corte di Cassazione, in accoglimento di tale motivo, afferma che «a seguito della separazione dei coniugi o dei conviventi more uxorio, nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore non collocatario per il mantenimento del figlio, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre all’apprezzamento delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto».
Il familiarista Redazione Scientifica 19 agosto 2019 |
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CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA
Amori e relazioni nell’era del web
Evento patrocinato dal Cis
“La coppia nel labirinto delle difficoltà relazionali, sessuali e disfunzionali. Come uscirne.”
06 ottobre 2019 ore 9,30
Forum Monzani Bper, via Aristotele, 33, Modena.
www.cisonline.net/wp-content/uploads/2019/08/locandina-_A5_compressed-1.pdf
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CHIESA CATTOLICA
L’adattamento necessario per essere una “Chiesa mondiale”
Un nuovo commento internazionale sul Vaticano II. Secondo Karl Rahner, il Concilio Vaticano II è stato l’inizio della “chiesa mondiale”. Francesco, eletto vescovo di Roma mezzo secolo dopo il Vaticano II, è il primo papa non di areo euro-mediterranea, e può quindi essere considerato il primo papa della “chiesa mondiale” come l’intendeva Rahner: una chiesa veramente globale, non eurocentrica.
Ma la globalizzazione teologica e la globalizzazione istituzionale sono due cose diverse e, incredibilmente, sono rimaste scollegate l’una dall’altra nella recente storia della chiesa. Nell’influenzare la teologia, lo shock istituzionale dell’elezione a papa di un gesuita latinoamericano è stato più lento di quanto ci si aspettasse nel 2013.Nel suo discorso del 21 giugno 2019 alla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale a Napoli, Francesco ha espresso la sua visione di “una teologia di accoglienza e dialogo”, una “teologia interdisciplinare” che avviene in un ambiente di pace e in relazione con l’intero popolo di Dio – con i popoli e le culture di tutto il mondo. Non ha menzionato né citato i documenti del Vaticano II, non ne aveva bisogno. Era chiaro a tutti coloro che ascoltavano il discorso che la visione del papa è profondamente conciliare. Molto simile al suo discorso del 2015 al Congresso teologico internazionale alla Pontificia Università Cattolica d’Argentina, il discorso di Napoli ha chiaramente esposto l’agenda teologica di Francesco.
Una nuova libertà per la teologia cattolica è uno dei contributi sottovalutati di questo pontificato. Francesco ha offerto ai teologi una nuova opportunità di interpretare l’evento teologico ed ecclesiale attraverso il quale il suo pontificato deve essere capito e valutato – e cioè il Concilio Vaticano II.
In un convegno di quattro giorni tenuto in giugno al Berg Moriah Conference Center vicino a Coblenza, in Germania, un numeroso gruppo di teologi e di storici della chiesa ha inaugurato una iniziativa internazionale mirante ad esplorare le connessioni tra il Vaticano II e lo spostamento di questo pontificato verso una cattolicità globale. Intitolato “Il Concilio Vaticano II: questioni ermeneutiche”, il convegno era organizzato dal comitato direttivo che sta lavorando su un nuovo commento in più volumi sui documenti del Concilio Vaticano II. I relatori e i partecipanti venivano da tutti i continenti.
Christoph Theobald, SJ, ha tenuto un discorso sul concilio dall’ “inizio degli inizi” alla “chiesa in movimento” di Francesco.
Judith Gruber e Jonathan Tan hanno riferito sulle letture post-coloniali dei testi conciliari.
Osmond Rush ha parlato delle controversie sulla ricezione dell’autorità dottrinale.
Peter Hünermann ha parlato dei cambiamenti in ecclesiologia e in teologia delle istituzioni necessarie per una chiesa veramente globale.
Il Concilio Vaticano II non può essere compreso senza un contatto diretto con i suoi documenti e la loro storia. L’iniziativa per un nuovo commento al Vaticano II ha fatto i suoi primi passi in un convegno del 2015 a Monaco in occasione del cinquantesimo anniversario della fine del concilio. Hünermann (90 anni) che aveva partecipato all’edizione di un commento sul concilio in lingua tedesca in cinque volumi tra il 2004 e il 2005, si è reso conto che un nuovo commento teologico sul Vaticano II non poteva essere semplicemente un aggiornamento della precedente edizione. Troppe cose erano accadute da allora. L’importanza della transizione dall’epoca di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI al pontificato di Francesco era già estremamente chiara. Hünermann – professore emerito dell’Università di Tubinga e presidente fondatore della Società Europea di Teologia Cattolica – riteneva che il nuovo pontificato offrisse un’opportunità per una nuova interpretazione del Vaticano II dal punto di vista della chiesa globale. Incontri preparatori per il nuovo commento furono tenuti tra il 2016 e il 2018 (per la trasparenza: ho partecipato a quei primi incontri e sono un membro del comitato direttivo per il gruppo continentale Nord America, Australia e Pacifico).
Fu immediatamente chiaro che un nuovo commento sul Vaticano II che si occupasse della chiesa globale avrebbe richiesto contributi da studiosi di tutto il mondo, e avrebbe dovuto essere rivolto ad un pubblico internazionale e multiculturale con una diversità di punti di riferimento teologici e culturali. Il progetto prevede un commento in dodici volumi, che sarà pubblicato sia in tedesco che in inglese. Il primo volume sarà dedicato alle riflessioni ermeneutiche sull’interpretazione del concilio nella chiesa globale di oggi. Poi ci saranno cinque volumi dedicati alla ricezione del concilio in diversi continenti (Europa, Asia, Africa, America Latina, con Australia, Pacifico, Nord America in un unico volume), cinque volumi di commento sui documenti del concilio ed un volume finale dedicato a riflessioni sul futuro della chiesa. Questi volumi saranno il risultato di una serie di simposi annuali che coinvolgeranno studiosi di ogni continente, ed una serie di seminari organizzati in ogni continente.
I primi commenti sul Vaticano II, pubblicati nei mesi e negli anni immediatamente dopo la sua conclusione, erano stati scritti principalmente da partecipanti dell’assemblea conciliare, cioè preti e vescovi maschi con una formazione teologica europea. Negli anni più recenti, un lavoro significativo sul Vaticano II è stato svolto da teologi laici, tra cui molte donne. Ma questo lavoro non ha ancora preso la forma di una reinterpretazione onnicomprensiva del concilio per il XXI secolo. Ora la avrà.
La seconda innovazione del progetto è il suo carattere globale: i cinque volumi del commento vero e proprio dei testi conciliari sarà prodotto da un team di cinque membri, di teologi provenienti da ogni continente. Sarà un commento teologico inteso non solo per studiosi ma anche per tutta la comunità ecclesiale globale, e il progetto è stato sostenuto da tre cardinali di tre diversi continenti – Rheinhard Marx (Monaco, Germania), Luis Antonio Tagle (Manila, Filippine), e Baltazar Porras (Merida, Venezuela). Hünermann sottolinea che l’obiettivo del nuovo commento internazionale sul Vaticano II non è “un testo sistematico uniforme. L’obiettivo è un commento che dia spazio alle diverse interpretazioni e visioni continentali dei testi del concilio, della ricezione pluriforme e della loro fondamentale convergenza nonostante le loro diversità culturali e sociali”. Un nuovo commento è necessario, dice Hünermann, perché “la situazione della chiesa e della teologia, specialmente in continenti altri che l’Europa e l’America del Nord, è completamente cambiata dal tempo del concilio e del primo periodo dopo il Vaticano II, quando sono stati scritti e pubblicati i primi commenti”. Hünermann incontrò per la prima volta Jorge Mario Bergoglio in America Latina negli anni 70 del secolo scorso, ed era a Roma per il conclave del 2013. Fu uno dei pochi che pubblicamente espressero la speranza che il cardinale di Buenos Aires fosse eletto: “I comportamenti e le parole di papa Francesco e il programma per il suo pontificato in Evangelii gaudium dimostrano la differenza tra [Giovanni Paolo II e Benedetto XVI] e questo papa, che non ha preso parte al concilio. Ha aperto una nuova epoca nel modo di vivere il Vaticano II da parte della Chiesa cattolica: non condizionato dalla sua personale esperienza e dalla sua “tradizione orale” sul concilio”.
Da entrambe le parti, sinistra e destra, il campo visivo è spesso geograficamente ristretto: una identificazione miope delle traiettorie del cattolicesimo con le sue traiettorie nel mondo occidentale. Il progetto che Hünermann ha aiutato a lanciare può coinvolgere degli accademici, ma mira ad affrontare questioni che coinvolgono la relazione tra la chiesa istituzionale, la teologia e la pubblica piazza: i problemi irrisolti nel dibattito teologico sul Vaticano II sono una parte cruciale delle tensione intra-ecclesiali attuali. I conflitti politici che sono sorti durante questo pontificato hanno molto a che fare con le diverse idee di che cosa significa una “chiesa globale”. Questo vale soprattutto qui negli Stati Uniti, che sono diventati il teatro più importante di qualsiasi revanscismo anti-conciliare all’interno sia della chiesa istituzionale che nella teologia accademica. La narrazione di missione e rinnovamento avanzata da alcuni vescovi americani oggi giudica il Vaticano II un fallimento e rifiuta alcune delle sue più importanti riforme. Non è un caso che dei vescovi negli Stati Uniti siano tra coloro che hanno attuato il Summorum pontificum di Benedetto XVI con il massimo entusiasmo: molti di loro hanno pubblicamente sposato il revival della messa preconciliare. È nel contesto di questo rifiuto del Vaticano II che uno può capire l’attuale popolarità nei circoli intellettuali cattolici americani di diversi generi di integralismo e “opzioni” per il ritiro dal mondo moderno.
Nel frattempo, tra alcuni “teologi del Vaticano II (categoria in cui includerei me stesso), il Vaticano II è diventato una specie di monumento, da essere glorificato più che studiato minuziosamente come un evento storico complicato. Da entrambe le parti, sinistra e destra, il campo visivo è spesso geograficamente ristretto: una identificazione miope delle traiettorie del cattolicesimo con le sue traiettorie nel mondo occidentale – o perfino con le sue traiettorie anche in un solo paese. Poi anche, un’enfasi esagerata sul messaggio socio-politico del Vaticano II ha talvolta prodotto un fenomeno parallelo alla politicizzazione del cattolicesimo a destra: una de-teologizzazione del dibattito sul Vaticano II. Il Vaticano II non può essere capito senza un diretto contatto con i suoi documenti e la loro storia. Quei documenti devono essere compresi nel contesto dell’intera tradizione teologica, e devono essere letti alla luce dell’espansione oltre i limiti culturali dell’Occidente. Questo comincia con l’ascolto di teologi di altre parti del mondo, le cui preoccupazioni e visioni sono complementari alle nostre e le correggono. In uno dei suoi saggi fondamentali sull’ermeneutica del Vaticano II, Karl Rahner scrisse: “O la chiesa vede e riconosce le essenziali differenze delle altre culture in cui la chiesa dovrebbe diventare la chiesa mondiale, e ne trae le necessarie conseguenze, con un’audacia paolina, oppure rimane una chiesa occidentale e quindi tradisce le intenzioni del Vaticano II”. Questo è possibile solo con una nuova interpretazione della tradizione teologica che prende in considerazione le varie prospettive di coloro che ricevono e di coloro che trasmettono quella tradizione. Un commento internazionale, “polifonico” dei testi conciliari è un passo in questa direzione.
Massimo Faggioli “www.commonwealmagazine.org” 15 agosto 2019
Traduzione www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201908/190819faggioli.pdf
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CHIESE EVANGELICHE
Papato e valdesi, dal rogo al dialogo
La celebrazione a Torre Pellice (Torino) – per una settimana, da domenica prossima – del Sinodo annuale delle Chiese metodiste e valdesi, ripropone una riflessione sulla storia di una comunità cristiana che, pur esigua per numero, ha costituito per secoli, in Italia, una spina nel fianco del papato. Valdo [Pietro Valdo o Valdesio (Lione, 1140 – 1206 circa)]era un ricco mercante di Lione: deciso ad una sequela radicale di Gesù, dà le sue ricchezze ai poveri e, pur essendo laico, inizia a predicare liberamente l’Evangelo.
Papa Alessandro III, quando a Roma nel 1179 si celebra il Concilio Lateranense III, accoglie con benevolenza il francese, ma non consente che egli e i suoi discepoli, fondandosi sulla Bibbia, mettano di fatto in questione le gerarchie ecclesiastiche. I “valdesi”, però, insistono nelle loro scelte, e così, quando il loro movimento inizierà a diffondersi in Italia, papa Lucio III nel 1184 li scomunica, e a Verona ne condanna alcuni di loro al rogo. Infine, i valdesi si fisseranno soprattutto in alcune valli del Piemonte, spesso perseguitati dalle autorità cattoliche. Nel 1523 aderiranno poi alla Riforma protestante, nella versione calvinista. Solo nel 1848 Carlo Alberto concederà loro le libertà civili. Poi, dopo la fine dello Stato pontificio, con l’unità d’Italia fisseranno il loro centro amministrativo a Roma. Qui, nel 1914, inizieranno il culto nel loro nuovo tempio, costruito ad un chilometro dal Vaticano. E papa Benedetto XV li definirà “ladri di fede”.
Nel 1975 i valdesi si sono uniti ai metodisti, formando un’unica Chiesa. Essa ha nel Sinodo – composto da 180 persone, donne e uomini, metà pastori e pastore, metà laici – il loro massimo organo dirigenziale, e tutte le decisioni sono prese democraticamente. Nell’insieme i loro fedeli in Italia sono circa trentamila. Finita l’emarginazione, appesantitesi sotto il Fascismo, i loro rapporti con lo Stato sono stati infine regolati, nello spirito della Costituzione, dall’Intesa del 1984.
Dopo il Concilio Vaticano II (1962-65) [essendo vescovi di Pinerolo Santo Bartolomeo Quadri, Massimo Giustetti, Pietro Giachetti, Pier Giorgio Debernardi e infine Derio Olivero] è iniziato un dialogo tra cattolici e valdesi. E quando il 22 giugno 2015 papa Francesco si è recato a Torino, visitando là il loro tempio ha affermato: «Da parte della Chiesa Cattolica vi chiedo perdono. Vi chiedo perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che, nella storia, abbiamo avuto contro di voi. In nome del Signore Gesù Cristo, perdonateci!».
I valdesi, oltre che confermare tenacemente l’impostazione biblica della loro ecclesiologia, negli anni più recenti si sono molto impegnati (insieme alla Comunità cattolica di sant’Egidio) nel soccorso dei migranti. Perciò hanno inventato i “corridoi umanitari”: in accordo con le Autorità italiane, essi fanno arrivare in Italia, con aerei di linea, persone che fuggono in particolare dai drammi del Medio Oriente. Aiutati dall’otto per mille che molte persone, anche non loro aderenti, destinano ad essi, i valdesi hanno accolto finora, a loro spese, duemilacinquecento migranti. Un modo concreto di inverare, nella complessità della storia, l’Evangelo.
Luigi Sandri “L’Adige” 19 agosto 2019
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201908/190819sandri.pdf
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CONSULTORI FAMILIARI CATTOLICI
Don Edoardo Algeri, un uomo e un prete per i tempi nuovi, con la mente ed il cuore nella famiglia.
Troppo in fretta, troppo presto, troppo improvvisamente. Saremmo tentati di dire, se non credessimo, se non ci fidassimo, se non sperassimo nella Provvidenza. Lei che ha cura nel palmo della sua mano dei giorni dell’adulto, del giovane, del bambino, del vecchio, del padre, della madre, che ritorna a Lei, pur nel pianto di chi li ama e nel mare dei perché che si alzano dalla terra al cielo. Pianto che ci unisce a Maria sotto la croce, perché che ci uniscono a Cristo sulla croce.
Sì, la Provvidenza ce lo ha dato e la Provvidenza, chiamandolo a sé ancora nel fiore degli anni e nel pieno delle sue attività e delle sue iniziative, ce lo ha proposto inaspettatamente a modello di dedizione al bene della famiglia, a noi che ci dedichiamo ad essa nei consultori familiari, sorprendendoci come soltanto Lei sa fare.
E lo ha fatto, innalzandolo al Cielo, nel pieno vigore della sua maturità umana, nel pieno fiorire del suo sacerdozio e, per noi, per la nostra Confederazione, nel pieno dispiegamento di energie per l’affermazione e la diffusione dei consultori familiari, quando aveva ancora tante cose da fare. Quasi a volerci dire voi dissodate la terra, seminate, diserbate, fate in modo che le piante portino frutto, ma sono io che le faccio germogliare, do loro l’acqua e il sole. Do io il sale e il sapore alle cose. Voi, sì, siate sale, perché se voi non siete sale, come farò io a dare il sapore alle cose? Perciò grande è la responsabilità che ci lascia in eredità don Edoardo. Egli che è stato sale per molte cose nelle mani della Provvidenza.
La sua passione per i consultori, nel mondo dei quali fu coinvolto agli inizi del suo sacerdozio, non aveva soltanto un carattere emotivo. Era una passione lucida, solida e lungimirante, cresciuta di pari passo con la conoscenza sempre più prossima di questo nostro mondo, che iniziò a praticare in quel di Lombardia. Sicché apprese a guardare la realtà dei consultori familiari nella singolarità di ciascuno di essi e nell’organicità del loro essere associati, prima a livello di Federazione Lombarda e poi di Confederazione Nazionale, da Consulente ecclesiastico prima e da Presidente poi, sapendo dare a ciascuno il suo e a tutti la sua personale partecipazione di prossimità e la sua preparazione, unita alla sua ferma convinzione e fiducia nella bontà intrinseca all’istituto del consultorio familiare, tessendo all’interno e fuori della Confederazione una rete di relazioni personali e istituzionali. Del resto agire per costruire e ricostruire relazioni è alla base stessa dell’agire del consultorio familiare.
Quella tangibile e concreta passione per i consultori aveva un faro, quasi un’etica, per il suo lavorare e il suo dedicarsi ad essi. Egli sosteneva il diritto per ogni soggetto e per ogni persona a fruire al meglio i servizi del consultorio familiare secondo le distinte e convergenti componenti a carattere umano, sociale, civile ed ecclesiale che lo caratterizzano e lo contraddistinguono. Lo spettro di ciascuna di queste componenti appartiene ad ogni donna e ad ogni uomo che bussa al consultorio, nel loro essere persone e nel loro fare famiglia. Appare evidente come il compito di un consultorio familiare non sia di poco conto, bensì multi potente e multi direzionale, e perciò questo si deve dotare al meglio possibile di servizi e competenze che vengano incontro alla persona che ad esso si rivolge. Pertanto è un servizio che bisogna affermare, diffondere e sostenere: questo ha fatto suo Don Edoardo.
Egli ha potenziato e ha portato alle sue legittime conseguenze il presupposto istituzionale originario dei consultori familiari di ispirazione cristiana: la salvaguardia dei buoni rapporti familiari sono garanzia di buoni rapporti sociali, che consentono alla persona di vivere appieno le sue potenzialità soggettive, con risonanze nell’affettività domestica, nell’attività lavorativa, nella progettazione delle aspettative individuali, sociali, culturali, politiche, spirituali, ecc.
Poiché un punto di forza per il suo agire era il riconoscimento e la difesa del diritto umano, sociale e civile per ogni cittadino ad avere un servizio consultoriale efficiente ed efficace, prossimo al suo vissuto e al suo territorio, egli affermava tale diritto in varie sedi, secondo il suo stile, con la sua visione ampia e aperta alla partecipazione, al coinvolgimento, con il grande strumento della sua competenza maturata negli anni. Da qui gli sforzi, condotti con pazienza, pacatezza, impegno e tenacia, per interloquire con i rappresentanti degli enti pubblici, in ordine alla progettazione di servizi per le famiglie, in sinergia con le reti associative portatrici degli stessi obiettivi, sulla base dei diritti delle famiglie che chiedono di ottemperare al meglio al loro mandato umano, sociale, affettivo, culturale e, parlando di diritto, costituzionale.
La volontà di una sapiente interazione del consultorio familiare d’ispirazione cristiana con la società civile ha dato un importante impulso all’adeguamento dello Statuto della Confederazione e, a cascata, quello delle Federazioni Regionali e dei consultori, alla riforma del Terzo Settore, che Don Edoardo con un impegno preciso, mirato, stimolante, benché faticoso, ha portato avanti in questi ultimi due anni con incontri e convegni ad alta specializzazione e condotto a termine con la firma notarile nell’Assemblea della CFC, tenutasi a Roma il 28 giugno 2019, ultimo atto ufficiale di Don Edoardo nella Confederazione.
In questi termini potremmo dire che la passione di Don Edoardo per i consultori familiari era una passione civile, che viveva come persona e come Presidente di una associazione nazionale di consultori familiari. Passione che lo conduceva ad agire quasi fosse un dovere morale.
Questa passione civile in lui andava di pari passo, in modo indiscutibile ed entusiasta, con la passione e la visione ecclesiale, che costituisce l’altro punto di forza primario, originario e originale, dei nostri consultori. Essi, infatti, sono una forma di risposta pratica alla sollecitazione paolina Charitas Christi urget nos, che illumina l’ispirazione cristiana dell’agire dei consultori della CFC. La qualità provata delle sue prestazioni di questo agire vuole indicare la qualità e la grandezza della più alta realtà mondana creata: E vide che era molto buona.
Del resto l’interazione temporale-trascendente è insita nell’idea stessa dei consultori familiari d’ispirazione cristiana ed è noto il loro coinvolgimento nella realtà storica della nostra società. Sappiamo che a far emergere in Italia in forma ampia, diffusa e significativa, sia socialmente che culturalmente, la realtà dei consultori familiari è stata la Legge di Stato n.405/1975, istitutiva dei consultori familiari del Servizio Sanitario Nazionale. Legge, seppure nei distinguo, tenuta presente nella sua organicità positiva e propositiva dalla concezione organizzativa ed operativa del consultorio di ispirazione cristiana, le cui radici affondano tuttavia in una storia ventennale precedente tale legge, alla cui idea e pratica anche tale legge attinse. È notevole, in questo senso, che la Confederazione dei consultori familiari d’ispirazione cristiana, essendo presidente il prof. Domenico Simeone, nel 2015 ha celebrato con un convegno ad hoc i quarant’anni di quella legge. È stata proprio l’ispirazione cristiana a caratterizzare la CFC sin dal suo nascere (1978). Ispirazione che, dopo i primi anni dell’affermazione dei consultori sul territorio nazionale ed a motivo di essa, è stata ripresa e ribadita dal Direttorio della CEI di Pastorale Familiare del luglio del 1993 (n. 249-254), che ha chiaramente distinto, senza contrapporli ma chiamando entrambi a occuparsi della famiglia, il campo della pastorale familiare da quello del consultorio familiare. Da prete qual era impegnato anche nella pastorale familiare egli sapeva distinguere l’ambito pastorale dall’ambito consultoriale.
L’allegoria consultorio-locanda della famiglia, ispirata dalla parabola del Buon Samaritano, variamente ripresa da Don Edoardo, torna utile ad illustrare al meglio tale distinzione, illuminando contestualmente tanto la dimensione “temporale” quanto l’ispirazione cristiana del consultorio. Il consultorio-locanda è il servizio/luogo umano dell’accoglienza che non è la sinagoga-chiesa, servizio/luogo spirituale-pastorale dell’accoglienza. Come il consultorio può assumere modalità proprie del pastore, nonché può avere eventuali esiti pastorali, così la pastorale può anche assumere modalità consultoriali e può avere, come li ha e sono palesi, esiti umani temporali. A conferma che essi non sono in conflitto, ma co-orientati bene personale e sociale.
Non è questo il luogo per addentrarsi in modo approfondito nella ricchezza dei contenuti di questa illuminante allegoria-parallelismo del consultorio-locanda, nei personaggi, nei gesti, nei simbolismi materiali, nelle parole, a cominciare dai motivi del dialogo del dottore della legge con Gesù per finire con la conclusione: Vai e fai anche tu lo stesso. Tali contenuti vanno dalla ricerca del senso della vita, al coinvolgimento, alla presa in carico, all’affidamento, alla fiducia, alle azioni da compiere, alla gratuità disinteressata, alla sollecitazione a compiere bene le cose, che sarà certamente ricompensata. Si evidenzia però, come del resto nelle parabole evangeliche, la bellezza della doppia portata dei suoi contenuti: il valore delle cose e delle azioni nel tempo della creazione e il valore dei significati di contenuto spirituale e trascendente, peraltro convergenti tra loro. L’ispirazione cristiana, infatti, ha come centro propulsore il Cristo, cioè il Dio fatto Uomo, secondo l’umanità di tutti gli uomini e di tutte le donne, che il consultorio si adopera ad accogliere nel frangente umano della storia personale e di coppia.
L’ispirazione cristiana, non sbandierata ma virtuosamente applicata alla realtà di fatto della persona sia nel metodo che nei riferimenti agli ideali dei rapporti interpersonali, amplia la portata del consultorio, ne sviluppa le potenzialità, porta in profondità l’idea stessa di consultorio familiare, andando incontro ai desideri fondanti la persona ed il soggetto che dialoga il suo frangente esistenziale, che sa di progetto, di problema, di sofferenza e forse di dolore, verso la libertà partecipata, propria dei suoi affetti, aperta all’umano e al religioso della sua intimità.
Questo pone lo specialista del consultorio davanti ad un impegno che esige un rinnovamento costante nella componente culturale, professionale e spirituale, sia in ordine all’umano che al religioso, con attenzione alle trasformazioni in atto nell’umanità e al bisogno di sinergie per dare risposte umanizzanti tanto alla volontà di bene presente negli uomini e nelle donne quanto ai problemi che insorgono nella loro vita matrimoniale e familiare.
L’esigenza di rinnovamento è stata perseguita in vari modi dalla CFC al suo interno, lungo la sua storia, e negli ultimi anni mediante la propria Scuola di Formazione. Ultimamente possiamo registrare che quello che si potrebbe denominare il “modello consultoriale” in un certo senso è stato esportato all’esterno della CFC, con il coinvolgimento di questa in corsi di formazione di esperti in consulenza familiare attivati presso istituti universitari, in particolar modo presso l’Università Lateranense e presso l’Istituto teologico per le scienze del matrimonio e della famiglia, in sinergia con l’Università Cattolica e dell’Ufficio Nazionale di Pastorale Familiare. La collaborazione con quest’ultimo, lungi dall’essere confusiva, illumina la distinzione e la possibile confluenza tra il campo consultoriale e quello pastorale in ordine al bene della persona. Mentre la metodologia del primo può aiutare il secondo, lo spirito del secondo può animare il primo.
A tal proposito, come testimonianza, sono significative le parole di una esperta di consultorio che negli anni ha maturato e applicato la seguente idea: “L’operatore del consultorio, di qualsiasi consultorio, qualsiasi ruolo occupi, deve tener presente nel suo quotidiano lavoro di consulenza e tentare di incarnare, cioè di far suo, caratteristiche del tratto pastorale: entrare in rapporto personale di conoscenza con l’altro, entrare per quanto possibile nel vissuto, nel sentire della persona che si ha di fronte o, meglio, mettersi al suo fianco e sostenerla nel trovare ciò che la possa rendere libera. Egli si sforza di ricondurre all’unità le risorse della persona e della famiglia, come il pastore raduna le pecore per metterle al sicuro e rimetterle in cammino, si adopera per trovare un buon pascolo, cerca chi si è perso. Egli “tiene presente tutto quello che gli viene per le mani” rispettando la persona, come il pastore guarda al campo e all’orizzonte, alla pecora e all’agnello, studia la strada migliore, vede in che modo lei può realizzare se stessa nel dialogo di voci reciprocamente riconosciute e ascoltate”.
La sinergia per il bene della famiglia e, pertanto, per il bene della società, ha consentito di “esportare”, adeguandola alla realtà greca, l’idea stessa di consultorio. È nato così, tra aprile e maggio di quest’anno, il Consultorio Familiare di Atene, frutto della collaborazione tra Caritas, Ufficio nazionale di Pastorale familiare e CFC in Italia ed, in Grecia, tra le Chiese locali. In questo nostro sito della CFC possiamo leggere i dettagli e i nomi dei protagonisti di questa bella iniziativa. È forse questo il primo seme, fuori dall’Italia, della missione della CFC e dei suoi consultori? C’è da augurarselo, come già auspicato in passato.
Questo c’è nell’idea e nelle dinamiche concrete del consultorio familiare con il valori temporali e spirituali del suo agire. Con la dignità dei suoi utenti e dei suoi specialisti, che Don Edoardo rappresentava e difendeva con fedeltà al mandato e determinazione per la missione del consultorio e, in casi speciali, sapeva farsi umile pellegrino e samaritano al fine di salvaguardare la storia di esperienza professionale, di dedizione e di volontariato operante in un territorio. Importante per lui era far emergere l’altro, chi realmente e concretamente svolgeva il servizio, lodandone l’operato. Sostanzialmente schivo, servizievole, rasserenante, inclusivo e mediatore, all’occorrenza sapeva mettersi in secondo piano. Per esempio nella celebrazione eucaristica, preferiva far presiedere ad altro sacerdote presente, riservandosi egli la concelebrazione. Questo, ovviamente, avveniva sempre quando partecipava l’Assistente Ecclesiastico.
Le sue omelie, brevi e dense di spiritualità, in occasione degli incontri istituzionali, avevano un’applicazione consultoriale, non artificiosa, ma consequenziale e applicativa della Parola alla contingenza del momento. Anche esse contribuivano a formare un volontariato ed un laicato cristianamente ispirato, composto da specialisti professionalmente preparati, e intenzionalmente capaci di agire secondi gli ideali e gli insegnamenti della Chiesa Cattolica, anche attraverso la prestazione di servizi, come da Statuto della CFC.
In questo sguardo a ritroso si vanno raccogliendo in unità particolari significativi di cui è ricca la figura di don Edoardo. Amante della sua terra e aperto al mondo, con la passione tutta familiare per la bici e pronto a spostarsi rapidamente ove necessario, curava la riservatezza e gustava della convivialità amicale, aveva a cuore la piccola realtà e respirava la Chiesa, portato alla concretezza era innamorato dell’arte (una piccola tappa personale concordata sarebbe stata Medole nel Mantovano per visitare la magnifica pala di Cristo Risorto della grande e bella chiesa parrocchiale del Tiziano e che correda questo scritto).
Se l’eredità di Don Edoardo è grande, grande diventa il nostro compito nel portare avanti la missione affidata alla CFC, non da adesso ma dal suo nascere, che si concretizza nell’azione del consultorio familiare, l’avere cura della famiglia, non da adesso ma dalla stessa idea da cui esso scaturisce in una Europa dilaniata dalla guerra, segnata da genocidi che puntavano a distruggere il cuore della generazione dei popoli e del genere umano, la famiglia. Assistiamo e siamo dentro ad un cambiamento di epoca, che abbonda di segni contrastanti di novità. Assistiamo e siamo pure dentro a fenomeni che spingono verso un’Europa contratta, nella politica, nell’economia, nella convivenza sociale, nella generatività, pur se sono vivi e vivaci in essa i testimoni della contestazione e della messa in guardia da quella contrazione.
Ancor più in questa Europa c’è bisogno di famiglia, che di suo significa apertura, fiducia nel futuro, progettualità, rinnovamento, interazione. Ancor più in questa Europa c’è bisogno di famiglia, che la sappia ricostruire nei suoi valori, come ricostruì i popoli dell’Europa dalle macerie materiali e morali di una sanguinosissima guerra che era entrata drammaticamente in tutti i focolari.
Ancor più abbiamo bisogno di consultori familiari che con speranza, lungimiranza, umiltà e fiducia nei contesti di oggi, sappiano attualizzare costantemente la felice intuizione di Don Paolo Liggeri in piena guerra mondiale.
Il consultorio familiare, luogo privilegiato delle scienze applicate del matrimonio e della famiglia, luogo di presa in carico, discernimento e di possibile ritorno al futuro personale e familiare pensato, progettato e amato, luogo di diritto e carità, luogo di impegno civile e cristiano, servizio pubblico e locanda evangelica, ha in don Edoardo, uomo e prete per i tempi nuovi con il cuore nel pensiero e nell’azione, un testimone credibile al quale guardare e nel quale riconoscersi come esempio di dedizione e di stima e credito nella famiglia, luogo e segno efficace di futuro.
Pantaleo Nestola 20 agosto 2019
www.cfc-italia.it/cfc/index.php/2-non-categorizzato/447-don-edoardo-algeri-un-uomo-e-un-prete-per-i-tempi-nuovi-con-la-mente-ed-il-cuore-nella-famiglia
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COPPIA DI FATTO
Quali sono i diritti di una compagna?
Quali sono i diritti di una donna non sposata? Qual è la differenza tra coppia di fatto e convivenza di fatto? Quali sono i diritti dei conviventi?
Il matrimonio è un passo importante, una scelta che non tutti sono disposti a fare, pur amando il proprio partner e volendo condividere la propria vita. Dal matrimonio, infatti, derivano una serie di obblighi specifici che probabilmente non tutti sono disposti ad assumersi; inoltre, l’eventuale fine della relazione obbligherebbe le parti ad effettuare il duplice passaggio della separazione e, poi, del divorzio. Proprio in ragione di ciò, molte coppie decidono di non sposarsi e, dunque, di vivere insieme senza formalizzare la propria unione.
È evidente che il problema si pone non tanto durante la convivenza, quanto successivamente, al termine del rapporto: è qui, nel momento finale, che sorgono le questioni più importanti, quelle riguardanti la tutela della parte debole. I diritti maturati durante la relazione sopravvivono alla cessazione del rapporto? Il tema, poi, si interseca con l’introduzione, da parte della legge Cirinnà, di due istituti giuridici che, in passato, erano sconosciuti all’ordinamento italiano: mi riferisco alla possibilità, per le coppie dello stesso sesso, si contrarre un’unione civile, e alle coppie in generale che non vogliano sposarsi di formalizzare al comune la propria condizione dando vita ad una convivenza di fatto.
Oggi, pertanto, bisogna distinguere quali sono i diritti di una compagna all’interno di una mera coppia di fatto e quelli all’interno di una convivenza di fatto.
- Prima di parlare dei diritti di una compagna è bene che ti spieghi cosa prevede la legge a proposito di coppie di fatto e, più in generale, di convivenze. In genere, infatti, quando parliamo di “compagna” (o dell’equivalente maschile) facciamo riferimento ad una coppia che, pur vivendo insieme, non è sposata, per scelta oppure perché non ha ancora deciso di compiere il grande passo.
Come anticipato nell’introduzione, la legge italiana [Legge n. 76/2016. 20.05.2016 (legge Cirinnà)] offre alle coppie non sposate la possibilità di regolare i propri rapporti attraverso un istituto diverso dal matrimonio: mi riferisco alla convivenza di fatto.
Per le coppie dello stesso sesso, invece, sono state introdotte le unioni civili. Pertanto, possiamo dire che, quando parliamo dei diritti di una compagna, dobbiamo fare riferimento alla mera coppia di fatto, cioè alla coppia che non solo non si è sposata, ma che non ha nemmeno formalizzato la propria convivenza mediante registrazione presso il Comune di residenza.
- Convivenza di fatto: cos’è? Secondo la legge, si intendono per conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. La convivenza di fatto può essere attestata da un’autocertificazione, redatta in carta libera e presentata al Comune di residenza, nella quale i conviventi dichiarano di convivere allo stesso indirizzo anagrafico. Il Comune, fatti gli opportuni accertamenti, rilascia il certificato di residenza e stato di famiglia. Non vi è alcun obbligo per i conviventi di presentare la predetta autocertificazione, in quanto la convivenza può essere provata con ogni strumento, anche con dichiarazioni testimoniali.
- I diritti dei conviventi di fatto. Per la legge, i conviventi di fatto, cioè coloro che hanno registrato la propria convivenza in Comune, godono di una posizione privilegiata rispetto alle coppie che, al contrario, non hanno ufficializzato la propria coabitazione. Da tale posizione derivano alcuni diritti:
- I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario;
- In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole previste per i coniugi e i familiari;
- Ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati nel caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute, ovvero in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie;
- In caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni;
- Nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto (diritto che, come vedremo, spetta anche alla compagna nella coppia di fatto);
- Nel caso in cui l’appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parità di condizioni, i conviventi di fatto;
- Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda commisurata al lavoro prestato;
- Il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l’altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata;
- In caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. Come vedremo, anche la compagna all’interno di una coppia di fatto conserva il diritto al risarcimento nel caso di decesso del compagno;
- I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza.
- Compagna nella coppia di fatto: ha diritti? Alla luce di tutto quanto sopra illustrato possiamo dire che, quando parliamo di diritti di una compagna, facciamo inevitabilmente riferimento alla posizione giuridica rivestita da una donna all’interno di una coppia di fatto; se si trattasse di una convivenza di fatto, cioè di una coabitazione dichiarata al Comune, dovremmo infatti parlare di convivente, non di compagna. Ora, va da sé che i diritti di una compagna sono pochi e residuali rispetto a quelli che la legge prevede per gli sposi e per i conviventi di fatto: ciò perché coloro che coabitano ma che non decidono di formalizzare, né con il matrimonio né con la registrazione al Comune, la propria unione compiono una scelta precisa, che è quella di rimanere anonimi nei confronti della legge.
Mentre in passato la legge offriva solamente il matrimonio come possibilità di sancire formalmente una relazione sentimentale, oggi v’è la possibilità di scegliere il più blando regime della convivenza di fatto.
Chi rifiuta anche questa, non potrà poi lamentarsi degli scarsi diritti che gli sono attribuiti. Ad ogni modo, la legge e la giurisprudenza riconoscono alcuni diritti anche alla compagna che abbia convissuto con il proprio uomo, anche nel caso in cui la relazione sia oramai giunta al termine. Analizziamo i principali.
- Diritto di continuare a vivere nella casa del compagno anche al termine della relazione. Più nello specifico, se l’abitazione in cui si è svolta la convivenza è di proprietà del compagno, al termine della relazione la donna non può essere mandata via su due piedi, ma ha diritto a permanere per il tempo necessario a trasferirsi in una nuova casa;
- Diritto di subentrare nel contratto di locazione alla morte del compagno, fino alla sua naturale scadenza;
- Diritto all’affidamento dei figli: i rapporti tra i genitori, sposati o conviventi che siano, non intacca i doveri nei confronti della prole;
- Diritto al risarcimento del danno nel caso di morte del compagno. Se l’uomo muore per fatto illecito di un terzo (per esempio, a causa di un sinistro stradale o di un’aggressione), la compagna ha diritto ad essere risarcita, al pari di un coniuge o di un convivente di fatto. Perché si abbia effettivamente diritto al risarcimento, però, occorre dimostrare che la convivenza sia stata stabile e duratura nel tempo e che, se non fosse intervenuta l’altrui azione illecita, sarebbe proseguita. In pratica, mentre al coniuge o al convivente di fatto spetta solamente dimostrare, formalmente, che l’unione era ancora in essere, alla compagna spetta di dimostrare l’effettività della convivenza e della relazione sentimentale;
- Diritto a trattenere i regali e il danaro ricevuto. Al termine della relazione, il compagno non può chiedere la restituzione di ciò che è stato regalato o comunque dato alla compagna in ragione della relazione oramai finita. Dunque, la donna potrà trattenere tutto ciò che ha ricevuto dal compagno: versare del denaro al partner, durante la convivenza, configura, nel rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza, l’adempimento di un’obbligazione naturale, essendo espressione della solidarietà tra due persone unite da un legame stabile e duraturo.
- Diritto al risarcimento dei danni nel caso di violazione degli obblighi familiari. La donna che sia maltrattata (al di fuori delle ipotesi penali, ovviamente) oppure privata della necessaria assistenza morale e materiale, può chiedere al giudice la liquidazione del risarcimento dei danni morali e materiali patiti. Pensa all’uomo che, dopo una lunga convivenza con la sua compagna la quale, peraltro, sta portando avanti una gravidanza difficile, decida all’improvviso di interrompere la relazione per intraprenderne un’altra, abbandonandola in precarie condizioni economiche.
- Diritto al permesso di soggiorno. Ai fini del rilascio del permesso di soggiorno rileva anche la convivenza stabile dello straniero che dimostri di trarre da tale tipo di rapporto mezzi leciti di sostentamento;
- diritto a non subire maltrattamenti, i quali non solo darebbero luogo al risarcimento dei danni, ma anche al reato di maltrattamenti in famiglia, il quale può configurarsi non soltanto nel caso di coppia sposata ma, più in generale, nel caso di ogni convivenza: il codice penale [Art. 572 cod. pen] dice che chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.
Mariano Acquaviva La legge per tutti 22 Agosto 2019
www.laleggepertutti.it/297695_diritti-di-una-compagna
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COUNSELING
La consulenza educativa
Riassunto del libro La conoscenza educativa del prof. Simeone Passim
La determinazione di vere e proprie forme di counseling educativo alle famiglie che presentano disagi nei confronti della scuola o che hanno problemi circa l’educazione dei figli.
Per quanto riguarda i servizi territoriali: da tempo emergono esplicitamente esigenze di tipo educativo: una richiesta di consulenza educativa, la quale esigendo di risposte adeguate e competenti interpella la riflessione pedagogica. Al giorno d’oggi si reputa necessario che centri educativi, comunità, alloggio, consultori familiari favoriscano la crescita delle persone attraverso relazioni di aiuto efficaci, nel contempo si intende attribuire a questi servizi una funzione educativa, costituendo una vera e propria comunità educante. – si aggiunge che la legge inoltre del 28 agosto del 1997 n. 285 (disposizioni per la promozione dei diritti e opportunità di infanzia e adolescenza) ha dato il via a varie iniziative di formazione e di sostegno educativo di natura sperimentale su tutto il territorio nazionale. www.parlamento.it/parlam/leggi/97285l.htm
Cos’è la consulenza o il counseling. Individuare gli aspetti atti a qualificare la consulenza come educativa: le modalità con cui è condotta, le finalità perseguite e l’oggetto della consulenza. Inizialmente si può dire che è un processo rivolto ad aiutare il soggetto a elaborare un progetto educativo su di se e sugli altri.
Relazione d’aiuto e società complessa. Negli ultimi decenni l’urbanizzazione, la “nuclearizzazione della famiglia”, l’automazione del lavoro, l’emancipazione della donna, l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione, hanno radicalmente modificato le relazioni sociali e familiari. L’individuo si trova di fronte a un contesto sociale frammentato e disorientante, la complessità della vita sociale ha acuito difficoltà nei rapporti umani, incrementando incertezze e disorientamento. La ricerca costante e immediata del piacere personale, il primato della ragione e la progressiva svalutazione del sentimento hanno provocato una crisi dei valori che è anche crisi dell’educazione.
In questa situazione risulta sempre più difficile per gli adulti assumere una chiara funzione educativa. La carenza di adulti significativi vicini in grado di aiutare le persone (con cui dialogare sui problemi della propria esistenza) ad affrontare i compiti educativi che la vita pone loro, indice le persone ricercare costantemente nelle figure professionali (esperti) la soluzione ai bisogni emergenti, interlocutori con cui dibattere possibili soluzioni ai bisogni che li agitano. Aumentano infatti in questa situazione le richieste di aiuto e di presa in carico dei servizi pubblici. I bisogni educativi e la ricerca di aiuto emergono in modo evidente nei momenti cruciali delle varia fasi di crescita: in questi periodi critici di transizione sia i soggetti in età evolutiva che le loro famiglie necessitano di specifici sostegni educativi per far fronte ai nuovi compiti di sviluppo, per trasformare le potenziali crisi in occasioni di cambiamento.
Si assiste così a un paradosso: nella nostra società individualista aumenta il bisogno di aiuto e di relazione tra le persone. In riferimento a questo bisogno si sono sviluppate le cosiddette helping profession (professioni di aiuto): operatori in diversi ambiti professionali (educativo, sanitario, riabilitativo) mettono la propria professionalità al servizio di persone che hanno bisogno di sostegno.
Ma cos’è la relazione di aiuto? Come afferma B. Zani: l’aiuto è un processo relativamente complesso nel quale non c’è semplicemente chi è in difficoltà e chi può aiutarlo, ma due soggetti profondamente coinvolti in una relazione di scambio, dove entrambi impareranno qualcosa. La relazione di aiuto è un rapporto asimmetrico: in cui il vettore non è unidirezionale, coinvolge in un processo dinamico entrambi gli attori della relazione. È una relazione in cui l’operatore e il cliente sicuramente hanno risorse, emozioni e competenze diverse, ma la relazione coinvolge entrambi: non va soltanto dall’operatore verso il cliente. Sotto l’aspetto pedagogico per il buon esito della relazione di aiuto bisogna stabilire una relazione integrativa e integrante, con la quale comporre simmetria, uguaglianza e differenza alla luce della parità valoriale tra i soggetti (differenza di posizione tra i due ma pari dignità e valore) delle persone coinvolte nella relazione educativa. L’esito di questo incontro è la costruzione di una relazione di aiuto. Quando la relazione presenta elementi di scambio siamo in presenza di un rapporto di reciprocità; In caso contrario possono prevalere degli aspetti che innescano una dipendenza dell’aiutato dall’aiutante). La relazione di aiuto crea le condizioni per educarsi al cambiamento in modo attivo, per essere protagonista del propri divenire.
Cosa deve fare l’operatore? L’operatore essenzialmente deve stimolare e incrementare l’empowerment della persona in stato di bisogno.
Che cos’è l’empowerment? L’empowerment indica il processo di ampliamento delle potenzialità del soggetto, in modo da aumentare le abilità personali e la possibilità di controllare attivamente la propria vita. La relazione di aiuto è un processo che ha come obbiettivo quello di promuovere le capacità/potenzialità del soggetto in modo che sia proprio lui ad educarsi al cambiamento in modo attivo per essere protagonista del proprio divenire. L’educazione della persona mira quindi a promuovere consapevolezza di se, lo sviluppo delle potenzialità, la crescita e il cambiamento dell’individuo, attraverso un processo intenzionalmente strutturato. Esiste una stretta connessione tra relazione educativa e processo di consulenza, anche se la prima non si esaurisce nella seconda. Una delle forme di aiuto di cui oggi si avverte maggiormente bisogno è la consulenza educativa: che si mostra come un sostegno offerto alla persona per la sua piena realizzazione, come percorso formativo volto ad aumentare l’autonomia del soggetto attraverso lo sviluppo delle potenzialità e capacità. Si inserisce tra le iniziative di formazione permanente: cioè quelle esperienze che rendono la persona sempre più consapevole delle proprie risorse, sostenendola nell’acquisizione delle abilità necessarie per prevenire o gestire in modo adeguato eventuali difficoltà. Il fine dell’educazione è lo sviluppo di una persona autonoma, libera e consapevole, capace di fronteggiare problematiche di vario tipo e di conferire significato alle proprie azioni. La consulenza educativa può essere uno strumento utile per il perseguimento di tali obiettivi, nelle situazioni di crisi e di difficoltà, che si possono presentare durante il normale progredire del ciclo di vita.
La solidarietà Concetto che poggia su un vincolo di interdipendenza all’interno della comunità. N. Galli. Il concetto viene pensato da molti come un dovere che gli altri devono compiere nei confronti di chi ha bisogno nel segno della benevolenza e della carità. Ma in realtà non è solo questo. A volte sfugge all’uomo che: la solidarietà è soprattutto un modo di essere dell’uomo, che rimanda direttamente alla sua interrelazione con l’altro, prima di essere un frutto di una scelta professionale. E l’altro è un soggetto fondamentale per il processo di formazione dell’identità personale. Rimbaud, un famoso poeta francese, aveva fatto una geniale scoperta dicendo che: l’io è un altro. In effetti è proprio così: tra il mondo esterno e l’io c’è sempre un altro che cambia il senso dei nostri atti e dei nostri rapporti individuali.
Affrontare il tema della consulenza educativa significa approfondire la questione della elezione interpersonale e della natura dialogica dell’esser e umano. L’evento educativo infatti si qualifica come relazionale.
Le radici della consulenza: orientamento scolastico/professionale – consulenza familiare. In Italia, a differenza id quanto è avvenuto negli altri paesi anglosassoni, il termine consulenza fatica ad affermarsi nei vari ambiti operativi e fatica ad imporsi la figura professionale del Counselor. L’evoluzione del concetto e della prassi della consulenza educativa in Italia evidenziano in attenzione recente al tema e una pratica operativa e di studio poco consolidata e incerta. Fanno eccezione due ambiti di intervento nei quali si intravede un impostazione sufficientemente strutturata e in cui possiamo trovare le origini di ciò che definiamo consulenza:
- Orientamento scolastico-professionale: che ha sviluppato anche interventi di counseling
- La consulenza familiare: che si è strutturata dall’inizio sulle modalità relazionali e tecniche della consulenza
Orientamento scolastico-professionale (…)
Le radici della consulenza: l’aiuto alle famiglie: la consulenza familiare La figura professionale del consulente familiare e il relativo intervento di counseling si sono affermati in ambito internazionale nel periodo compreso tra le due guerre. I primi servizi di consulenza matrimoniale sorgono geli Stati Uniti negli anni 20 e quasi contemporaneamente in Finlandia. Negli anni successivi in alcuni paesi europei sono formalizzate attività di consulenza coniugale e familiare che si avvalgono di operatori con una formazione professionale specifica e con un preciso campo di intervento. Negli anni ’30 si sono delineate due diverse modalità per far fronte alle problematiche relative alla vita coniugale e familiare:
- In Germania e Austria: la consulenza è legata soprattutto agli aspetti eugenetici, al crollo demografico, all’informazione sessuale e agli interventi sanitari.
- Negli Stati Uniti e Gran Bretagna: la consulenza si rivolge maggiormente alle coppie con problemi coniugali o familiari, dando interventi di natura psicologica e sociologica. Nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale la consulenza familiare viene vista come sostegno per le molteplici difficoltà economiche, sociali e psicologiche delle famiglie duramente provate dalla guerra.
Il primo consultorio familiare in Italia. L’esperienza dell’Istituto “La Casa”: La storia della consulenza, in Italia, è strettamente connessa a quella dei consultori familiari, anche se l’impostazione prevalentemente sanitaria data ai consultori pubblici finora ha lasciato poco spazio alla figura professione del consulente.
Nonostante la legge nazionale del 1975 preveda nei Consultori la presenza di consulenti in possesso di titoli specifici in medicina, psicologia, pedagogia e assistenza sociale, l’ambito pedagogico è stato spesso trascurato. La figura del consulente familiare è stata maggiormente valorizzata all’interno di consultori nati dall’iniziativa di istituzioni private, sia di origine laica che cristiana. In Italia la prima esperienza consultoriale prende avvio nel 1948 a Milano nell’ambito dell’attività dell’istituto “La Casa”, il cui promotore dell’iniziativa era Don Paolo Liggeri. In realtà la struttura operava già a favore delle famiglie nel 1943, quando ancora era in corso il secondo conflitto mondiale. La scelta del nome “La Casa”- chiarisce Liggeri- fu sostanzialmente una specie di ribellione contro le numerose case distrutte durante i bombardamenti, ma voleva anche essere un richiamo ai valori ideali della famiglia e dell’affetto che vengono solitamente convogliati nel concetto di casa, su cui il consultorio si basava. Negli anni ’40 l’istituto organizza – soccorsi di emergenza, fornendo ospitalità e pasti caldi alle persone in difficoltà; – sostiene una rete di informazione clandestina, aiutando persone perseguitate per motivi razziali o politici; – svolge una funzione di asilo e di protezione per chi si trova lontano da casa per motivi di studio o lavoro. Nel frattempo, le drammatiche vicende belliche coinvolgono anche Liggeri che venne arrestato e deportato nei campi di concentramento nazisti di Mauthausen e Dachau. Terminata la guerra, nel 1948 Liggeri ritorna in Italia e riprende il suo impegno a favore della famiglia (inizia la propria attività il primo consultorio familiare in Italia): istituendo un consultorio matrimoniale e post- matrimoniale, un servizio aperto a chiunque si trovasse in stato di bisogno senza nessuna discriminazione politica e religiosa, convinto che nel mondo contemporaneo i concetti tradizionali della famiglia, del matrimonio e dell’amore si siano frantumati. Richieste di aiuto: Le problematiche che con maggiore frequenza indicevano singole persone o coppie a rivolgersi al consultorio si riferivano a: – disarmonie coniugali, tra cui le difficoltà relazionali con le rispettive famiglie di origine e più in generale con i famigliari – scarsa preparazione psicologia al matrimonio – poca chiara visione del matrimonio – difficoltà psicopatologiche – difficoltà di tipo economico.
L’obbiettivo di Liggeri era quello di prendere in considerazione la famiglia nella sua globalità, a cui offrire un sostegno con il contributo di un équipe di esperti di varie discipline: dalla medicina (ostetricia, ginecologa, andrologia, neuropsichiatra), alla psicologia, genetica, giurisprudenza. L’interdisciplinarità e l’approccio GLOBALE’ alle problematiche presentate dalla persona sono i principi che qualificano la consulenza in quel periodo. Inoltre il consultorio oltre allo studio e all’approfondimento scientifico dei problemi pre-matrimoniale e post- matrimoniali; il consultorio si proponeva anche di erogare un vasto programma di consulenza e assistenza agli sposi. Gli utenti provenivano da molte città (non solo da Milano). L’azione del consultorio “La Casa” è accompagnata da attività socio-culturali: conferenze, incontri di orientamento familiare per i giovani in vista del matrimonio, per i giovani coniugati e genitori; servizi radiofonici, corsi sul tema del matrimonio e sull’educazione per i figli. Dopo un periodo di “sperimentazione”, l’istituto stabilisce rapporti con alcune associazioni internazionali che si occupano di problemi familiari (tra queste: l’Unione internazionale degli Organismi Familiari = IUOF)
Tra gli aspetti caratteristici dell’attività del consultorio “La casa” rileviamo:
- Attenzione per le problematiche prematrimoniali con particolare attenzione per le difficoltà che i giovani potevano riscontrare nel momento in cui decidono di dar vita ad una famiglia
- Avvaloramento del lavoro d’equipe per affrontare in modo complesso e articolato le varie situazioni esistenziali. Il consultorio si avvaleva di un equipe di base interna, ma in caso di necessità ricorreva a figure specialistiche esterne
- Interventi di diagnosi e di terapia della sterilità coniugale L’azione del consultorio è accompagnata anche da attività socio culturali, che ne rendono efficace e incisiva la presenza sul territorio.
Tra queste iniziative si ricordano: conferenze e incontri di orientamento familiare per giovani in preparazione alla vita del matrimonio, per giovani coniugati e genitori; Servizi radiofonici, costi e consultazioni; pubblicazioni specializzate riguardanti la preparazione alla vita matrimoniale e familiare, l’educazione die figli (tra queste riviste stampata dall’istituto La Casa vi è “Riflessi” pensata come strumento di studio delle attività del consultorio).
Dopo un primo periodo di sperimentazione, in cui il consultorio cerca di individuare la propria metodologia, l’istituto stabilisce rapporti con alcune associazioni internazionali che si occupano di problemi familiari. La collaborazione è stata avviata con l’Unione Internazionale degli Organismi Familiari (UIOF) associazione impegnata nella consulenza famigliare e matrimoniale. Nei congressi internazionali troviamo le origini di alcune questioni fondamentali che ancora oggi animano il dibattito attorno ai consultori famigliari e la loro funzione sociale e educativa. Il merito dell’istituto La casa è stato aver portato in Italia gli echi di tale confronto, contribuendo alla delineazione delle questioni fondamentali legate all’attivazione dei servizi consultoriali, fino a maturare nell’opinione pubblica e politica la necessita di tali servizi. Negli anni ’50-’60 i principali temi affrontati rimandano a questioni di fondo:
a. Il ruolo del consultorio familiare
b. la consulenza
c. la selezione e la formazione dei consulenti familiari
d. I ruoli e i compiti del consulente familiare
Il ruolo del consultorio familiare Nella riunione della Commissione dei Consultori Matrimoniali (organismo della IUOF), tenuta a Bruxelles nel 1957, il consultorio familiare è descritto come un servizio connotato da attività riguardanti:
- L’educazione generale e la preparazione remota e specifica al matrimonio
- La consultazione matrimoniale
Il consultorio, infatti, doveva essere un luogo che: educa e prepara i fidanzati al matrimonio + e che offre aiuto per evitare o superare le difficoltà che possono presentarsi nella vita matrimoniale futura (funzione educativa + funzione di prevenzione). Risulta quindi evidente la consapevolezza dell’importanza ti funzione educativa e di prevenzione che il consultorio doveva svolgere.
La consulenza Negli incontri internazionali di studio organizzati dall’UIOF, gli operatori si confrontano sul concetto stesso di consulenza, cercando di delinearne gli aspetti principali.
- Una descrizione chiara era stata esposta da P. Popenoe al X Congresso (1957): “La consulenza è intesa come un mezzo per acquisire esperienza, un’opportunità offerta all’individuo per facilitare la sua evoluzione verso la maturità e per rendere attive le sue capacità potenziali” Nella sua concezione, nel processo di consulenza:
- Il cliente è aiutato a vivere la sua vita con successo
- Il consulente aiuta il cliente a comprendere ciò che dovrebbe fare e quindi a farlo
- Il consulente deve conquistare la stima dell’utente
- Il consulente deve essere contraddistinto da una personalità ben strutturata
- Un’ulteriore definizione è introdotta anche da J. Wallis durante il Convegno Internazionale(1963), definendo la consulenza: “un modo per aiutare le persone, mediante il mezzo della discussione personale, a far fronte alle difficoltà nel modo più efficacie e riuscire a rendere più felici e più stabili le loro relazioni con altre persone”.
Selezione e formazione dei consulenti. Uno degli aspetti su cui si è concentrata maggiormente la discussione e il confronto tra gli operatori dei diversi Paesi appartenenti alla UIOF, è quello della formazione e della selezione degli aspiranti consulenti. Su questo aspetto la tradizione e l’esperienza dei vari Paesi hanno portato alla formalizzazione di prassi operative diverse tra loro. Anche se vi è un aspetto comune a tutti i paesi: la questione della selezione dei candidati all’attività di consulenza.
- Stati Uniti: è prevalente una accortamente professionale alla consulenza matrimoniale, o la formazione degli operatori centrata su contenuti disciplinari e affidata alle istituzioni accademiche. La selezione prevede negli Stati Uniti la valutazione dei titoli accademici e delle competenze professionali.
- Nei Paesi europei (Inghilterra): l’aiuto alle famiglie può votare anche sul contributo del volontariato, e l’accostamento agli aspetti formativi è garantito dalle motivazioni e dalle caratteristiche personali dell’operatore. La selezione è legata soprattutto all’esame degli aspetti motivazionali e allo stile relazionale del futuro consulente.
- In Francia e Germania: le cui esperienze si collocano in una posizione intermedia tra modello USA e inglese, in cui la formazione prevede un ordine intellettuale, centrata sull’acquisizione di conoscenza; e un ordine personale, focalizzata sulla dimensione affettiva. La selezione è influenzata da diversi fattori, quali:
- Fattori impersonali: età, la formazione, l’esperienza ecc
- Doti personali: capacità di gestire relazioni difficili, aiutare persone in difficoltà
- Sufficiente libertà dei propri conflitti interiori.
Anche se a prescindere dai diversi approcci in tutti i paesi è riconosciuta l’importanza strategica di una solida preparazione metodologica, culturale e la necessità di un attenta selezione dei consulenti.
Ruolo e funzioni del consulente Nel primo periodo di attività, i consultori familiari si interrogano circa il ruolo e le funzioni degli operatori presenti nel servizio e sulle caratteristiche dell’intervento offerto alle Eros e in cerca di aiuto. I convegni individuano alcune competenze indispensabili per un aiuto efficace. Secondo Mace, (presidente della commissione) oltre alla preparazione professionale e alle qualità individuali, il consulente deve essere in grado di: – comprendere la persona umana e i suoi rapporti; – conoscere i metodi di base usati nella consulenza; – avere l’opportunità di mettere in atto questi principi in situazioni controllate; – possedere una buona conoscenza delle istituzioni e dei servizi della comunità locale; – comprendere e accettare sé stesso; Il consulente è quindi visto come un esperto delle relazioni capace di costruire un rapporto significativo con le persone in situazioni vi bisogno, mettendo in atto le strategie relazionali più idonee per aiutare le medesime a cambiare e a conoscersi meglio.
Wallis sostiene che il consulente deve sapere cosa fare, come fare e avere la competenza per farlo; sottolinea come il compito del consulente non si riduca al dare informazioni, ma consista soprattutto nell’aiutare il soggetto a rilevare e rielaborare i propri sentimenti. Visto che il cliente spesso, sentendosi molto oppresso, vorrebbe che. Il consulente facesse subito qualcosa per lui al fine di risolvere ogni problema. Invece il compito del consulente è aiutare il cliente a spolpare i propri sentimenti interiori, è per questo centrale la relazione. Su questi criteri anche in Italia incomincia ad organizzarsi la formazione dei consulenti.
La nascita dell’UCIPEM (Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali). Dagli anni ’50, dopo la prima esperienza “La Casa” (Milano), sorgono in Italia altre realtà consultoriali. Il 24 marzo del 1968 a Bologna un gruppo di 29 consultori familiari privati dà vita all’UCIPEM. Anche se qualificati da impostazioni diverse, i consultori che vi aderiscono condividono lo scopo di “promuovere il potenziamento e l’attuazione dei valori del matrimonio e della famiglia secondo lo spirito della Costituzione della Repubblica italiana.” A tal fine l’Unione:
- Promuove studi e ricerche in favore della famiglia e del matrimonio;
- Favorisce una mutua collaborazione tra gli associati sul piano operativo
- Favorisce lo scambio di esperienze e di informazioni in campo eugenetico, medico, psicologico, giuridico, religioso, etico e sociale; I singoli consultori dell’Unione comunque, pur avendo gli stessi obbiettivi, agirono secondo modalità diverse determinate sia dal contesto socio-culturale e sia dalle diverse sensibilità degli operatori coinvolti.
E’ possibile identificare, inizialmente, 3 principali modelli di riferimento:
- Medico
- Religioso-pastorale
- Psico-sociale: quest’ultimo (con il passare del tempo) ha preso il sopravvento sugli altri e si afferma come modello prevalente all’interno dei consultori aderenti.
In questo modo il consultorio si contraddistingue come istituzione avente lo scopo di fornire un aiuto prevalentemente psicologico e sociale alla persona per prendere atto dei suoi problemi e difficoltà, analizzare i motivi e per trovare i rimedi migliori a cui può fare ricorso.
Dalla loro costituzione fino ad oggi, i consultori aderenti all’UCIPEM hanno dato un importante contributo al dibattito sul tema della consulenza familiare, alla sperimentazione di nuove prassi operative. L’andamento di tale percorso è documentato dalla rivista Riflessi e dagli atti dei convegni nazionali biennali. Tracciando schematicamente la storia dell’associazione UCIPEM, avvalendosi dei contributi emersi dai convegni, vengono individuati 3 periodi del consultorio familiare con caratteristiche specifiche.
- Primo periodo (1968-1973) Il primo periodo corrisponde allo sviluppo dell’intuizione nata vent’anni prima dall’opera del Liggeri presso l’Istituto “La Casa” di Milano. In questa prima fase la consulenza si identifica con la metodologia della relazione di aiuto elaborata da C. R. Rogers e in modo particolare con l’intervento non-direttivo, volto all’avvaloramento delle risorse e delle competenze dell’utente. Altro elemento caratteristico di questa prima fase, che si ritrova anche nei periodi successivi, è la natura interdisciplinare dell’intervento consultoriale e il peso assegnato al lavoro d’équipe.
- Secondo periodo (1973-1981) Già dai primi convegno dell’UCIPEM emerge l’identità del consultorio quale servizio a sostegno della famiglia. Si qualifica per il processo di autonomia e di precisazione operativa, che porta l’UCIPEM a definire in modo specifico il proprio contributo nella gestione dei Consultori familiari. La nascita dei consultori pubblici, con la legge 24 luglio 1975 n.405, e l’istituzione dei consultori di ispirazione cristiana spingono i consultori UCIPEM verso la ricerca di una propria identità, che spicca nel panorama nazionale per l’approccio prevalentemente psico-sociale alle questioni familiari, per la progressiva qualificazione professionale degli interventi e delle figure degli operatori coinvolti, per la scelta di laicità.
- Identità e organizzazione del consultorio familiare: 1.Già nei primi convegni dell’UCIPEM (tenutisi tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70, comincia a emergere una più chiara identità del consultorio familiare. Come tale, offre i mezzi sanitari e psicologici atti ad aiutare sia chi si dispone a formare una famiglia sia chi, nell’ambito della famiglia, si trova di fronte a particolari crisi o difficoltà e desidera superarle. 2. Successivamente, nel convegno che si è svolto a Rimini (dal 31 maggio al 3 giugno 1973), il consultorio familiare è presentato come un istituto in grado di rispondere alle difficoltà che la famiglia e le coppie possono incontrare. Anna Giambruno: “La finalità del Consultorio non è quella di dare orientamenti o suggerimenti precisi ma quella di comprendere le reali difficoltà del soggetto che ha bisogno di aiuto e di individuare le possibili soluzioni (a sostenerli perché possano realizzarle). 3. Il quarto congresso nazionale UCIPEM (tenutosi a Recoaro nel 1975): affronta alcune questioni fondamentali legate all’identità e alla funzione dei consultori. Nel corso del convegno i consultori UCIPEM i consultori familiari si distanziano così da un modello medico e “pastorale” in cui l’obiettivo era l’indottrinamento, la conversione, in favore di una prospettiva psicosociale, con l’obiettivo di aiutare le persone in difficoltà a conoscere i propri problemi e a compiere successive scelte responsabili. Sergio Cammelli illustra la scelta a favore della laicità dell’intervento consultoriale A suo dire: “ciascuno di coloro che operano nei consultori si propone come modello la perfezione evangelica: il primato dell’amore, il rispetto per l’uomo, il rispetto della vita. Ma quanto ai mezzi e ai modi con cui l’amore può essere umanamente realizzato, con cui l’uomo può diventare il centro e il punto di partenza di ogni scelta, crediamo che la scelta e la decisione sia compito dell’uomo “.
- Il terzo periodo (1981-1987) È connotato dalla specializzazione e dalla professionalità degli interventi. Nasce l’esigenza di risposte mirate e chiare all’emergere di nuovi problemi e di nuovi settori d’intervento. Si impone così l’urgenza di dare consistenza a nuove figure professionali, quali il consulente familiare e il supervisore. Negli anni successivi, fino ai nostri giorni, sono posti al centro della riflessione dell’U.C.I.P.E.M. alcuni aspetti peculiari della vita di coppia e familiare, con lo sforzo di integrare i contributi di studiosi del settore e le esperienze dei vari consultori.
Il consulente familiare. L’UCIPEM, nel tentativo di definire meglio l’identità dei consultori familiari in Italia, decide di intensificare i rapporti con realtà simili (soprattutto francesi e inglesi). Un primo segnale di collaborazione è rappresentato dall’intervento di N. Tendali nel corso del terzo convegno. La relazione di Tyndall mette in luce l’evoluzione e l’organizzazione di consulenza in Gran Bretagna. In Gran Bretagna, i consulenti (per lo più volontari) sono selezionati e formati dal National Marriage Guidance Council: le prove di selezione comprendono colloqui individuali, prove psicoattitudinali e discussioni in gruppo valutate da un’apposita commissione. Dopo questa prima selezione, inoltre, gli aspiranti consulenti partecipano a un corso residenziale. Oltre a questa preparazione iniziale, i consulenti sono impegnati in una formazione permanete fondata sulla discussione di casi tenuta ogni 15 giorni dagli specialisti dell’équipe consultoriale. Tyndall, inoltre, sottolinea come i consulenti deve avere anche funzione educativa: devono attuare interventi educativi a favore di giovani coppie o di giovani genitori, svolgere attività educative in carceri, riformatori e scuole. Alla luce della relazione di Tyndall si arriva alla conclusione che: il consulente familiare ha il compito di seguire il “caso” attraverso una serie di colloqui, aiutando l’utente a esaminare la situazione e operare scelte libere e responsabili. Inoltre ha il compito di compilare e aggiornare le schede nella quali si registrano le informazioni relative al soggetto/coppia/famiglia, e valuta se è necessaria una consulenza specialistica. Con gli altri membri dell’equipe discute la conduzione del caso e individua le strategie di aiuto appropriate. Gli operatori dell’equipe sono accumunati da una metodologia relazionale definita counselling.
Secondo Cammelli il consulente familiare deve essere in possesso di alcune conoscenze, competenze e capacità che ne qualificano l’intervento:
- un titolo di studio a livello universitario che gli assicuri una base scientifico-culturale
- una discreta conoscenza dei vari ambiti che interessano più direttamente la consulenza matrimoniale
- capacità di condurre un colloquio
- una solida esperienza nel trattare problemi “umani”
Una preparazione adeguata al servizio nei consultori
- Capacità di collaborazione con i servizi territoriali sanitari, assistenziali, sociali
- Peculiari caratteristiche personali identificabili in un buon equilibrio interiore, una personalità armonica e serena in campo affettivo e sessuale.
Un’ulteriore contributo alla definizione del ruolo del consulente è dato dal confronto con l’AFCCC (l’Associazione Francese dei consultori familiari), il cui fondatore è J. G Lemaire, noto psicoanalista e docente di psicologia alla Sorbona.
La consulenza. I consultori UCIPEM offrono un contributo significativo per la definizione e la precisazione dell’attività della consulenza. Si possono rintracciare elementi significativi negli interventi di alcuni operatori nel corso dei primi convegni.
ü È un servizio qualificato; un intervento specialistico, che risponde a bisogni specifici; è un relazione interpersonale che richiede un coinvolgimento emotivo da parte di cliente e operatore; fornisce interventi specialistici grazie al proprio approccio interdisciplinare alla problematiche familiari. Per nelle diversità delle competenze professionali specifiche, gli operatori dell’equipe sono accomunati da una metodologia relazionale che è definita consulenza.
ü Cammelli proporne la seguente definizione: i consultori familiari e matrimoniali offrono alla coppia una servizio socio psicologico, in preparazione al matrimonio o lungo il corso della vita a due, assicurato da un gruppo di esperti che operano collegialmente e ne chiariscono i problemi di ordine medico, psicologico, etico, giuridico e affettivo, ne indicano la connessione e prospettano le possibili scelte, evitando di esercitare un influenza direttiva e aiutando gli interessati ad arrivare personalmente ad una scelta autonoma e responsabile.
ü In particolare il decimo congresso UCIPEM segna un momento fondamentale nella definizione di consulenza come metodologia d’intervento del consultorio familiare: Giorgio Rifelli propone una riflessione sulla consulenza in riferimento alla professionalità degli operatori, definendo la consulenza come: una relazione d’aiuto che consente di rendere cosciente il soggetto in difficoltà della sua realtà fenomenica-esistenziale al fine di consentirgli la gestione adeguata dei problemi che generano sofferenza e quando necessario compiere scelte libere e consapevoli.” Secondo tale definizione quindi la consulenza è un evento relazionale, che non può essere lasciato alla casualità. L’operatore per lui deve avere una certa professionalità basata sull’ascolto, sull’elaborazione dei dati raccolti, su interventi non direttivi che sollecitano la persona ad affrontare nel modo migliore la propria situazione. Dalla definizione data da Rifelli, si può dedurre che egli riconosce la dimensione clinica della relazione di consulenza, ma ne denuncia il rischio dell’eccessiva psicologizzazione di ogni bisogno e la conseguente enfatizzazione degli interventi psicoterapeutici. Tutto ciò può indurre a considerare la consulenza come una sorta di “psicoterapia minore” non riconoscendole uno statuto proprio.
ü Nel consultorio abbiamo: oltre agli operatori professionali preparate in modo specifico per l’attività di consulenza, che erogano una consulenza di base, sono gli operatori a cui è affidato il compito di accogliere e accompagnare la persona nel processo di consulenza; Operatori specializzati in specifici settori disciplinari idonei a erogare una consulenza di “secondo livello” collegata al proprio ambito di competenza (per Rifelli è importante riconoscere la funzione di consulenza che può essere svolta da ogni specialista dell’equipe consultoriale in riferimento al proprio ambito di competenza). La confluenza di base e gli approfondimenti specialistici procedono in modo complementare grazie ad un lavoro di gruppo tra gli operatori. L’equipe è l’ambito in cui gli operatori possono condividere e coordinare i diversi approcci disciplinari, elaborando strategie di intervento integrate a tutto vantaggio del soddisfacimento dei bisogni della persona in condizione di bisogno.
L’istituzione dei consultori pubblici e la nascita dei consultori familiari di ispirazione cristiana: Il 1975 è un anno fondamentale per la storia dei consultori e della consulenza familiare: precisamente l’approvazione della legge n. 405 del 1975 sancisce e istituzionalizza la funzione dei consultori familiari: al consultorio viene assegnato lo scopo di fornire aiuto concreto alle famiglie, perché possano efficacemente porsi come comunità educanti in grado di assecondare lo sviluppo e la crescita dei propri membri, e la funzione di aiutare la famiglia nell’affrontare nel modo migliore i propri stadi di sviluppo e i compiti evolutivi che li contraddistinguono. Tuttavia la legge pone dei vincoli non sempre in sintonia con la storia, la tradizione e con le esigenze poste dall’esperienza consultoriale. In questo senso il consultorio ha due precise funzioni: educativa e promozionale e si distacca dalla funzione propriamente ed eccessivamente sanitaria. Il consultorio avrebbe dovuto presentarsi come un “luogo assolutamente originario rispetto ad ogni altra struttura sanitaria già esistente, un luogo in cui avrebbero dovuto coesistere ottiche, prospettive e competenze distinte da quelle mediche e psicosociali” Nel concreto, tuttavia, il consultorio è diventato qualcosa di diverso: il consultorio è stato spesso ridotto a un servizio materno-familiare con un’organizzazione ambulatoriale (basata sul rapporto medico-paziente), in cui il lavoro di équipe non è stato sufficientemente considerato.
I consultori di ispirazione cristiana. I vescovi sentivano il bisogno di promuovere nuove strutture Consultori che facciamo riferimento alla propria ispirazione cristiana e tra i membri dell’equipe la presenza di consulenti etici. Nel giugno del 1957 (poco prima dell’approvazione della legge) l’assemblea generale dei Vescovi italiani sollecita la nascita di nuovi consultori familiari: aveva proposto di affiancare all’attività pastorale delle singole diocesi (Chiese locali), Consultori familiari di ispirazione cristiana con la presenza di consulenti etici. Il documento approvato dai Vescovi auspicava che “sostenuti dalle chiese locali e collegati con gli altri organismi della pastorale familiare, sorgano a livello diocesano o regionale, consultori familiari professionalmente validi e di ispirazione cattolica. Nello stesso tempo si sappiamo valorizzare con spirito di apertura e discernimento i contributi offerti, anche agli stessi cristiani, dai consultori già esistenti. Adeguate forme di collaborazione e di collegamento potranno essere studiate e gradualmente realizzate.” I consultori sorti dopo tale sollecitazione hanno lo scopo esplicito di affiancare e accompagnare l’attività pastorale delle singole diocesi.
CFC: Il 16 aprile del 1978 nasce la Confederazione Nazionale dei Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana, con lo scopo di promuovere e coordinare le singole Federazioni Regionali. L’obbiettivo primario è quello di favorire la nascita di consultori di ispirazione cristiana in ogni diocesi. Nelle regioni dove funzionano almeno 3 consultori viene istituito il consiglio di federazione, il cui presidente entra a far parte del consiglio nazionale. Tra gli altri compiti il consiglio nazionale ha quello di organizzare ogni biennio un convegno nazionale, e annualmente si tiene un seminario di formazione e aggiornamento. La Confederazione avere 3 obiettivi principali:
- Istituire nuovi consultori di ispirazione cristiana
- Potenziare quelli già operanti
- Preparare e qualificare professionalmente gli operatori attraverso corsi di formazione, convegni, seminari di approfondimento Questi corsi, in particolare, propongono aree di formazione legate alle dimensioni:
- Del sapere: (conoscenza degli elementi fondamentali sulle problematiche della vita familiare)
- Del saper fare: (attuare le abilità fondamentali legate alle metodologie studiate)
- Del saper essere: (conoscenza di sé e delle dinamiche impersonali)
Attualmente le iniziative più frequenti riguardano
- L’educazione degli adulti
- Corsi in preparazione al matrimonio
- Incontro di formazione per i genitori
- Iniziative legate ad altre istituzioni (scuole, parrocchie ecc.) rivolge agli adolescenti
Un contributo significativo alla definizione degli aspetti fondamentali dei consultori di ispirazione cristiana è data dal documento: “I consultori familiari sul territorio e nella comunità” pubblicato il 1 novembre del 1991.
www.familiaeauxilium.com/wp-content/uploads/2013/11/I-consultori-familiari-sul-territorio-e-nella-comunit%C3%A0.pdf
www.amazon.it/consultori-familiari-territorio-comunit%C3%A0-Sussidio/dp/8810106822
Il consultorio viene descritto come “un servizio che si caratterizza per un tipo d’intervento di consulenza, di sostegno in situazioni di difficoltà, di cambiamento (momenti di crisi) nei vari stadi di crescita della persona.” Come tale si propone di:
• fornire processi di formazione delle persone
• seguire la coppia nel suo divenire coniugale o familiare
• affrontare i temi della procreazione responsabile • curare l’educazione alla sessualità nei vari stadi di crescita della persona
Per attuare questi obbiettivi gli interventi dei consultori familiari di ispirazione cristiana sono di due tipi:
- La consulenza. È un servizio affetto alle persone in relazione familiare, è volta alla chiarificazione della situazione e al sostegno delle persone in difficoltà aiutandole ad utilizzare tutte le loro risorse, al fine di mettere in atto delle strategie adeguate per il superamento del disagio (l’attività di consulenza è distinta dall’intervento psicoterapeuta),
- La prevenzione e la formazione. Gli interventi di prevenzione/formazione, invece attuati attraverso specifiche azioni sul territorio e sono iniziative di carattere informativo. Il loro obbiettivo è quello di offrire un aiuto per prevenire o affrontare positivamente le difficoltà e i problemi propri della vita familiare. (Es. corsi di formazione per adolescenti, giovani, adulti su maturazione affettiva, educazione sessuale ecc.)
E’ però importante ricordare la distinzione tra attività pastorale e consultorio familiare:
Attività pastorale
In comune:
-finalità: il bene della persona
-i temi affrontati: vita coniugale, familiare
Differenze:
- La prospettiva dell’intervento: la pastorale guarda questi temi a partire dalla vocazione della persona, della coppia, della famiglia, nella vita cristiana
- Gli strumenti: aspetti legati alla vita spirituale, sacramentale, all’evangelizzazione.
Consultorio familiare
In comune:
-finalità: il bene della persona
-i temi affrontati: vita coniugale, familiare
Differenze:
-la prospettiva dell’intervento: il consultorio familiare guarda i dinamismi personali e le relazionali come realtà umane
-gli strumenti: gli strumenti messi a disposizione dalle scienze umane: si dà importanza agli aspetti psicologici, pedagogici, ci si avvale della relazione d’aiuto e delle relazione di counselling.
Prospettive pedagogiche nell’attività consultoriale: Oggi è sempre più presente l’esigenza di modificare i consultori familiari in senso preventivo ed educativo. I giovani iniziano ad essere consapevoli che gestire la vita matrimoniale non è un compito che può essere improvvisato; necessita invece di adeguate occasioni di riflessione e formazione, richiedono un serio processo di apprendimento e di preparazione. In funzione di queste considerazioni possiamo individuare nuove prospettive per l’attività consultoriale:
- Il consultorio deve svolgere la propria attività in stretto contatto con la realtà territoriale “Esso deve essere espressione del territorio, vera e propria istituzione formativa di base alla quale la popolazione si rivolge per trovare possibilità di confronto e approfondimento”
- Il consultorio deve attuare una collaborazione interistituzionale con altre istituzioni e tutti quei soggetti sociali che possono concorrere alla realizzazione di un sistema formativo integrato (scuole, parrocchie, associazioni familiari e molto altro) al fine di creare una vera e propria comunità educante.
- Il consultorio deve essere luogo di promozione e di educazione della persona/coppia/famiglia, identificando spazi operativi nei quali intervenire con competenza e in collaborazione con le istituzioni locali. Per far ciò deve assumere un ruolo propositivo mantenendo capacità di ascolto e di coinvolgimento
- 4. Il consultorio deve offrire non solo interventi tradizionali (tipo sanitario o psicologico) ma anche interventi di tipo educativo. A tal fine bisogna riscoprire gli aspetti pedagogici educativi nella ricerca di nuove professionalità, portatrici di competenze specifiche nell’ambito della pedagogia familiare. Occorre che il personale abbia una buona formazione, che il lavoro dell’équipe venga esaltato e che il servizio abbia un’impostazione educativa. “Nel consultorio la coppia dovrebbe potersi incontrare con gli specialisti giusti, per discutere tutti gli argomenti che la riguardano e per ricevere aiuti in merito all’educazione dei figli in ciascun stadio della loro vita” cit. Galli “Educazione dei coniugi alla famiglia”.
- Per una definizione di consulenza. Il counselling: ha avuto un notevole incremento negli ultimi anni in diversi settori: nelle amministrazioni locali, servizi socio-sanitari, scuole ecc e ha coinvolto un numero crescente di operatori. Questo è successo soprattutto nei Paesi anglofoni, in cui tale andamento ha fatto fiorire una profonda riflessione teorica. In Italia, invece, vi sono ancora difficoltà nel definire la consulenza e mancano ancora oggi studi organici attorno a questo tema.
- Nel nostro paese vi sono difficolta di definizione e di declinazione concettuale, a causa dell’intraducibilità del termine counselling ( o counseling in USA): nella lingua italiana non vi è una parola che descriva in modo esaustivo e competo il concetto di counselling, adoperiamo il termine consulenza perché può esprimere in modo sufficientemente preciso il concetto che si vuole descrivere, pur non essendo esattamente sovrapponibile a quello di counseling; e a causa della sua contiguità con la psicoterapia e altre forme di aiuto psico-sociale.
- La difficoltà è aumentata anche perché il termine counselling in inglese ha molti significati e dall’eterogeneità di approcci teorici e operativi che vi fanno riferimento. Nei dizionari di lingua inglese la definizione di counselling descrive un’attività che ha come obbiettivo “quello di dare consigli o assistenza” e il counsellor è definito un “consigliere”. Ma tutto ciò è molto distante dal significato che viene attribuito al counselling in ambito psicologico, sociale ed educativo.
Per definire in modo più esatto questo concetto, possiamo cominciare a dire ciò che il counselling non è: non ha niente a che fare con dare informazioni, con il fare qualcosa a vantaggio di altri o con l’insegnare a qualcuno nuove abilità. (B. Hopson). Si differenzia da altre forme di aiuto spontanee o professionali che possono essere raggruppate in 4 categorie:
- Dare consigli: offrire la propria opinione di ciò che, rispetto il nostro punto di vista, sarebbe il modo più opportuno di agire,
- Dare informazioni,
- Azione diretta: fare qualcosa a vantaggio di una altra persona o agire per rispondere ai suoi bisogni immediati,
- Insegnamento.
Perché nei casi suddetti l’aiuto è inteso come intervento dell’operatore che offre la propria competenza per la soluzione di problemi, e quindi il protagonista dell’azione rimane il consulente, mentre chi chiede aiuto è il destinatario dell’intervento (quindi l’aiuto dipende totalmente dalla competenza e capacità dell’operatore). Invece il counselling è una strategia di aiuto in cui l’operatore non ha il compito di fare qualcosa o di dare qualcosa a chi chiede aiuto; piuttosto egli ha la funzione di aiutare la persona a definire il problema e imparare a gestirlo, assumendosi pienamente la responsabilità delle scelte compiute. La definizione del problema è la possibilità di superarlo deve nascere dalla persona che chiede aiuto.
Comunque le maggiori associazioni scientifiche e professionali che si occupano di counselling hanno, di volta in volta, fornito definizioni abbastanza esaustive del significato di consulenza.
Es.1. La British Association for Conselling: counselling: è una relazione tra il cliente e il counsellor(operatore), nell’ambito della quale il cliente viene aiutato a migliorare la conoscenza di sé e l’accettazione dei propri problemi emotivi, al fine di imparare a gestire le difficoltà con le proprie risorse personali (e quindi portare avanti la propria crescita.)
Es.2 National Association of Young Peolple’s Counselling and Advisory Services: counselling: modo di agire che richiede di lavorare a fianco delle persone, al fine di aiutare loro a comprendere la propria esistenza e ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni per potere affrontare meglio gli aspetti dolorosi e difficili della vita.
Es.3 L’European Association for Counselling: counselling: è un processo di apprendimento interattivo che si stabilisce tra uno o più operatori e uno o più clienti e ha l’obbiettivo di aiutare i clienti a sviluppare una maggiore consapevolezza personale e affrontare i momenti di crisi in modo autonomo (riflettendo sui sentimenti, pensieri, percezioni ecc).
Es.4 Definizione di Mario Fulchieri e Rossana Accomazzo (due psicoterapeuti adleriani: counselling: riassumono la definizione di counseling in tre definizioni:
- Counselling: intervento comunicativo (individuale o di gruppo) che ha come obbiettivo quello di aiutare il cliente ad affrontare le difficoltà attraverso un aiuto professionale da parte dell’operatore.
- Centralità della comunicazione, importanza del concetto di crisi
- Professionalità dell’operatore
Definizione valida conclusiva: Emergono da queste definizioni elementi comuni che qualificano il processo di counseling: È inteso come un attività professionale di aiuto In cui la persona che ricopre il ruolo di consulente deve avere una adeguata e specifica preparazione professionale, incrementata da processi formazione permanente e constante revisione e riflessione della propria pratica, nel rispetto di alcuni principi fondamentali. L’attività di consulenza è centrata sulla comunicazione e sulla relazione interpersonale che si stabiliscono tra utente e operatore. La finalità della counselling può essere così riassunta: aiutare la persona ad aiutarsi.
Le abilità di counseling richieste al consulente sono riferite all’ambito relazione e comprendono le abilità di comunicazione, osservazione, ascolto, comprensione, interazione, conduzione del colloquio di aiuto, empatia. Gli obiettivi principali:
- Aumentare la conoscenza di se e l’auto consapevolezza da parte dell’utente
- Sviluppare le risorse personali dell’utente
- Promuovere la crescita personale e saper rilevare adeguatamente i compiti evolutivi che il soggetto, la coppia o la famiglia si trovano ad affrontare in quel preciso stadio del proprio ciclo di vita
- Aiutare l’utente ad affrontare momenti di crisi e di difficoltà, quindi sostenerlo nel superamento di antichi equilibri e nella riorganizzazione funzionale di nuovi assetti relazionali
- Favorire l’autonomia e l’autodeterminazione delle persone che chiedono aiuto, sviluppano il senso dell’auto efficacia che nasce dall’esperienza del mettere in gioco risorse proprie per risolvere i problemi
- Incrementare le competenze progettuali e decisionali, che consentono agli individui di essere artefici e protagonisti del proprio futuro.
Il counseling è quindi una strategia di intervento volta ad aiutare la persona in stato di bisogno
- Definire il problema;
- Imparare a gestirlo.
Si fonda sul presupposto che la persona in difficoltà, conserva comunque risorse interiori, emotive, affettive e cognitive: la funzione dell’operatore è riattivarle e riorganizzarle.
Aspetti pedagogici-educativi del processo di consulenza. È possibile trovare molte analogie tra la definizione di consulenza e gli aspetto pedagogici impiegati nei temi della relazione e della comunicazione. Nella definizione di consulenza si trovano molte analogie con gli aspetti pedagogici e educativi:
Educazione
- 1.L’educazione è un’attività che riguarda tutta la vita dell’uomo: è un evento permanente nell’esistenza umana.
- L’educazione è soprattutto rapporto interumano: l’educazione è una relazione Inter personale reciproca tra evitare ed educando. In cui l’educatore e l’educando non possono essere (come cliente e operatore) devono essere considerati separatamente, bensì insieme.
- È una relazione di scambio in cui è presente una reciprocità educativa per cui anche l’educando provoca un cambiamento nel l’educatore.
- Mentre in passato l’attenzione era posta sull’attività dell’insegnante e si pensava che il fine dell’educazione dipendesse solo esclusivamente dell’educatore, con il tempo ci si è accorti che esito dell’educazione non dipendesse solo dall’insegnamento ma anche dalle capacità di apprendere e quindi il processo educativo si dovesse centrare sull’utente e non sull’operatore.
- Il vero protagonista non è il conduttore ma chi viene educato.
- Asimmetria educativa-relazionale: L’educazione è basata su un rapporto asimmetrico in cui è presente una differenza di potere e di posizione all’interno della relazione, che non deve essere
Consulenza
- La consulenza è una strategia di intervento che si occupa del soggetto in difficoltà in ogni fase della sua crescita.
- Anche nella consulenza il cliente e l’operatore devono essere considerati nel loro insieme.
- La consulenza è centrata sull’utente, non sull’operatore. L’utente è il protagonista del suo cambiamento.
- Asimmetria: anche nella consulenza il rapporto che si deve instaurare tra il cliente e l’operatore è asimmetrico: entrambi possiedono caratteristiche, risorse e emozioni differenti ma insieme devono cercare di cambiare questa “asimmetria” in “simmetria” sul piano umano e esistenziale.
- La consulenza ha un aspetto maieutico legato al tirar fuori: ha come obbiettivo quello di rendere consapevole il soggetto che chiede aiuto della propria persona e delle proprie capacità al fine di farlo sentire artefice del proprio cambiamento
- Progettualità e temporalità: La consulenza è un evento dinamico, di costruzione, di perfezionamento e di sviluppo ed è volta alla dimensione del futuro.
- Negata, ma deve essere usata in modo corretto (senza abusi di potere da parte del l’insegnante e non in modo autoritario) per la crescita dell’altro.
- Il professore e l’alunno hanno sicuramente risorse, competenze, emozioni differenti, ma non una differenza di valore o dignità: parità valoriale.
- E la relazione coinvolge entrambi: non va soltanto dall’operatore verso il cliente: non è unidirezionale.
- Sì più definite intervento educativo ovvero teso a e- ducere, che significa letteralmente: “far emergere, aiutare a venir fuori” (per questo il termine educazione deriva dalla parola latina e-ducere)
- Questo caso rendere l’utente consapevole di sé stesso e delle proprie capacità e risorse al fine di farlo sentire l’artefice e il protagonista della propria formazione.
- Progetto e temporalità: l’educazione è l’esito di un attività progettuale.
- L’educazione è un evento dinamico che innesca nel tempo un processo nel tempo, è un processo di costruzione, di perfezionamento e di sviluppo che si colloca nelle temporalità ed è volta alla dimensione del futuro.
- Intenzionalità di valori e fini: l’educazione non è mai casuale, è frutto di un azione intenzionale che si pone un obiettivo.
- In entrambe le esperienze sono fondamentali la consapevolezza e l’avvaloramento delle risorse personali per favorire un processo di cambiamento.
Anche se vi sono caratteristiche specifiche, tipiche della consulenza educativa, che la differenziano dalla consulenza e dal processo educativo.
Consulenza e comunicazione educativa: aspetti pedagogici Cosa si intende per consulenza educativa? La consulenza educativa è una strategia di intervento che l’operatore utilizza per aiutare la persona in stato di bisogno a definire il problema e a imparare a gestirlo autonomamente (attraverso le proprie risorse), al fine di superare gli ostacoli e attuare un vero e proprio processo di cambiamento. La consulenza educativa muove dal presupposto fondamentale che il soggetto che chiede aiuti è portato non solo di un bisogno ma anche delle potenzialità per dare esso la risposta.
Il mezzo necessario: la comunicazione Per far sì che la consulenza abbia successo è molto importante che tra l’operatore e il cliente (educatore e educando) si crei una vera e propria relazione di dialogo-di comunicazione. La comunicazione è l’elemento centrale di ogni evento trasformativo dall’incontro di due soggetti. La comunicazione educativa ha una caratteristica principale: e’ frutto di intenzionalità. In questo caso il dialogo interpersonale non ha solo la funzione di diffondere contenuti, idee, sentimenti, emozioni bensì favorisce il riconoscimento dell’altro, il rispetto delle sue convinzioni (anche nel momento in cui esse non sembrano condivisibili), e la disponibilità, quindi, di creare una vera e propria cooperazione solidale.
Il primato della relazione. Nel pensiero di M. Buber la relazione è importante perché viene vista come caratteristica principale dell’essere umano, o forse meglio dire, costitutivo stesso della persona. Perché? Infatti, quando l’educatore dialoga con l’educando, la cooperazione e la comprensione permette di considerare l’altro non solo come un altro individuo soggetto (ego alter) ma soprattutto come un altro me stesso, con cui comunico e simpatizzo (alter ego). L’uomo è qualificato dalla relazione e può esistere soltanto nella relazione. L’uomo, quindi, diventa autenticamente sé stesso e mette in gioco la propria totalità dell’essere attraverso l’apertura all’altro e il dialogo intrecciato con lui. Solo nel rapporto Io-Tu è possibile instaurare una vera e propria relazione autentica.
La relazione educativa Secondo Nanni una delle specificità della comunicazione educativa è quella di avere caratteristiche di una relazione di aiuto. Essa, infatti, nasce da una domanda o da un bisogno più meno impliciti e chiede un aiuto e un sostegno in vista della promozione della persona e del miglioramento della sua vita. Di conseguenza l’educatore, assume un atteggiamento intenzionalmente educativo. La comunicazione, dunque, non è un processo unidirezionale bensì un processo circolare: il contenuto non arriva solo al ricevente ma anche al mittente. Arianna: La relazione di aiuto ha il compito di favorire in ciascun uomo il compiersi della totalità della dimensionale umana che lo definisce nella sua unicità e irripetibilità. Per Buber questo significa operare affinché l’uomo possa raggiungere una esistenza autentica: può migliorare la capacità della persona in difficoltà di prendere decisioni in una situazione di crisi, in cui questa capacità diminuisce, dando alla persona degli strumenti per avere dei criteri con i quali orientare la propria decisione è la propria vita in modo protagonista.
L’educatore Il consulente pertanto è chiamato a conoscere in modo approfondito la struttura e la complessità del processo comunicativo (sia sul piano teorico e sia sul piano pratico). Oltre a porre l’attenzione sulla dimensione contenutistica, è importante che l’educatore si soffermi anche sulla dimensione relazionale. Perché? Attraverso la relazione e la comunicazione l’educatore è chiamato a riconoscere le caratteristiche originali dell’educando. Egli non coglie solo gli aspetti esteriori e superficiali bensì qualcosa di più profondo e concreto che si manifesta nella relazione: egli percepisce la sua intimità, ne riconosce l’unicità e accoglie la diversità. L’atteggiamento di piena accettazione e di accoglienza dell’educatore fa sentire, sicuramente, l’educando accolto per ciò che è e gli dà, quindi, la possibilità di conoscersi, di utilizzare autonomamente le proprie risorse per superare gli ostacoli e di avviarsi verso una precisa direzione per attuare un vero e proprio processo di cambiamento. Oltre a questo c’è da dire che nell’incontro e nella comunicazione gli uomini definiscono la loro identità personale e manifestano una cultura comune: tramite il processo comunicativo per l’uomo è possibile accedere alla vita sociale e comunitaria. Arianna: All’educatore spetta la responsabilità di stabilire una relazione autentica, con la quale motivare e coinvolgere gli educandi, in un clima di reciproca fiducia è piena realizzazione. Ha la responsabilità di avviare una dinamica dialogare, rimuovendo se necessario le cause delle difficoltà Interpersonali e favorendo l’istituzione di un adeguato clima educativo. Accettare l’altro, ascoltarlo autenticamente, comprendere la sua realtà, favorire il dialogo, significa consentire ai Tu di percepire l’esperienza intima del rapporto e di sentirsi riconosciuto nella propria unicità.
Consulenza educativa e responsabilità personale Problemi comunicativi: E’ vero che l’educatore ha come obbiettivo quello di aiutare l’educando ad avviarsi verso una precisa direzione al fine di superare gli ostacoli autonomamente e ad attivare un vero e proprio processo di cambiamento, ma molto spesso nel suo lavoro educativo l’operatore si trova in difficoltà. Perché? Uno dei problemi che riguarda l’uomo nello stato di bisogno è la sua limitata capacità o possibilità di scelta. L’attività di consulenza si proporne di aiutare il soggetto in un momento di bisogno (quando bisogna compiere delle scelte): in un momento di difficoltà diminuisce la capacità di scegliere e aumenta la dipendenza dagli altri, diminuendi la capacità di affrontare la situazione. Per questo la consulenza ha lo so po’ di aumentare le abilità decisionali del soggetto, fornendo strumenti concettuali e di conoscenza di per compiere scelte responsabili. Le cause sono molteplici e si possono così riassumere: la riduzione degli spazi decisionali, la confusione nel campo della valutazione, l’offuscamento delle mete che si vogliono conseguire. Inoltre nel nostro “villaggio globale” (Bauman) dominato dalla realtà virtuale le relazioni sono sempre più anonime e gli individui tendono sempre di più a chiudersi in sé stessi. Come ricorda Nanni in uno dei suoi testi: “La capacità di decidere risulterà sempre più difficile se si insinua nei cervelli e nei cuori l’onnipotenza e non il limite, la materialità e non la trascendenza spirituale, l’individualismo e non l’apertura verso l’altro.” Arianna: L’educatore ha il compito di aiutare la persona bisognosa di aiuto a muoversi nella direzione del cambiamento positivo e a individuare gli spazi di azione che permettono di realizzare un vero e proprio processo di trasformazione.
Ciò significa operare per l’empowerment della persona. Mezzo per far sì che l’educando scelga in piena libertà: empowerment Il concetto di empowement è entrato in uso, fino agli anni ’60, negli studi di diverse aree disciplinari: politica, psicologia di comunità, medicina, psicoterapia e pedagogia. L’empowement indica un Processo di ampliamento delle potenzialità del soggetto, della coppia o della famiglia, in modo da aumentare le abilità e le possibilità di controllare attivamente la propria vita. L’intervento educativo volto all ’empowerment si prefigge proprio di aumentare la libertà e la responsabilità del soggetto, favorendo il raggiungimento di specifici obbiettivi. Il rapporto tra opportunità e responsabilità nel processo di empowement è messo bene in luce da una tabella elaborata da S.B Bacharach: Poche opportunità Elevate opportunità Bassa responsabilità Alienazione Diritti sociali e assistenziali Alta responsabilità Burocrazia Empowement.
Questa tabella vuole mettere in risalto come non sia insufficiente intervenire per aumentare le opportunità delle persone svantaggiate e emarginate. Se gli interventi di tipo sociale e assistenziale non sono accompagnati da azioni che favoriscono sia la responsabilizzazione ma anche l’attivazione delle sue autonome risorse, il risultato sarà solo un aumento della dipendenza dai servizi sociali e assistenziali e un mancato sviluppo dell’empowerment. (…)
Consulenza educativa e consulenza clinica: Nell’ottica di un lavoro di consulenza, orientato nella prospettiva dell’educazione, è necessario distinguere la consulenza educativa da quella clinica/terapeutica.
www.docsity.com/it/la-consulenza-educativa-simeone-3/49619
Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari
Definizione e breve storia del Consulente Familiare.
Il Consulente della Coppia e della Famiglia è il professionista socio educativo, si può dire “professionista delle relazioni umane”, che, “con metodologie specifiche, aiuta i singoli, la coppia o il nucleo familiare a mobilitare, nelle loro dinamiche relazionali, le risorse interne ed esterne per affrontare le situazioni difficili” nel rispetto delle convinzioni etiche dell’utente.
Secondo la definizione indicata dall’A.I.C.C.eF., l’Associazione professionale che ne tutela la professione, e presente nel suo Statuto, Il Consulente della coppia e della famiglia, più semplicemente chiamato Consulente familiare, nell’esercizio delle sue funzioni:
- Attua percorsi centrati su atteggiamenti e tecniche di accoglienza, ascolto e auto ascolto che valorizzino la persona nella totalità delle sue componenti.
- Si avvale di metodologie specifiche che agevolano i singoli, la coppia e il nucleo familiare nelle dinamiche relazionali a mobilitare le risorse interne ed esterne per le soluzioni possibili.
- Si integra, ove occorra, con altri specialisti.
- Agisce nel rispetto delle convinzioni etiche delle persone e favorisce in esse la maturazione che le renda capaci di scelte autonome e responsabili.
- E’ tenuto al segreto professionale.
Il Consulente Familiare muove i suoi primi passi in Italia negli anni ‘40 del secolo scorso, voluto fortemente da don Paolo Liggeri che, di fronte all’enorme esigenza di sostegno psicologico richiesto da gruppi familiari annientati dalla guerra, nel 1948 istituì il primo consultorio familiare presso l’Istituto La Casa di Milano. Liggeri è stato tra i fondatori dell’Ucipem (Unione dei Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali) ed ha affermato la centralità del Consulente Familiare nelle equipe dei Consultori come figura indispensabile per la relazione d’aiuto basata sull’ascolto attivo, sull’intervento non direttivo, empatico e non giudicante.
Il primo Corso di formazione per Consulenti familiari si tenne a Torino, per iniziativa del Centro “Punto Familia”, negli anni 1974/75, condotto dal Prof. Jean Lemaire, fondatore dell’Association Francaise Centres Consultation Coniugale e suoi collaboratori, e dal Centro di psicoterapia e psicopedagogia di Torino. Nel 1976 fu fondata, a Roma, la “Scuola Italiana Consulenti Familiari “ (Sicof), che da subito ebbe una grande diffusione con decine e decine di corsi in oltre 40 città. Insieme ad essa, e successivamente, sono nate altre scuole di formazione a Milano, Napoli, Bologna e Taranto. Solo la Scuola SICOF ha formato finora circa 7.000 Consulenti Familiari ed Operatori consultoriali. Per completare la panoramica aggiungo che nel 1977 nasce l’A.I.C.C.eF. per volere di Giovanna Bartholini, consulente familiare formatasi con Lemaire e Rogers, per tutelare la professione del Consulente Coniugale e Familiare. (…)
Il C.F. ha una preparazione teorica di base nelle varie discipline socio-educative, pedagogiche, psicologiche, sessuologiche, sanitarie, sociologiche, giuridiche e nelle altre scienze umane, relativamente agli aspetti del disagio del singolo, della coppia e del nucleo familiare (e finalizzata anche a riconoscere le patologie di cui non è competente).
Applica la consulenza familiare, che si qualifica come una relazione d’aiuto (non psicoterapia) che tende a fare della persona la protagonista del superamento della sua difficoltà, instaurando un rapporto di fiducia e di collaborazione, affinché l’utente con le sue stesse risorse, superi il momento di disagio.
La formazione prevede apprendimento delle dinamiche di gruppo e partecipazione a gruppi di discussione e l’apprendimento delle tecniche di progettazione, documentazione e promozione del proprio lavoro. E’ tenuto alla supervisione individuale o supervisione di gruppo, che consente di scoprire la validità delle proprie motivazioni e di maturare la propria personalità ai fini della consulenza; L’allievo è sottoposto a esercitazioni pratiche, che consentono la verifica, a livello professionale, di quanto ha appreso e maturato
www.aiccef.it/it/l-associazione/identita–professionale
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI
Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979.
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia.
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
2. Il servizio consultoriale
2.1 Il servizio consultoriale è un’attività di promozione, di consulenza, di aiuto anche negli aspetti di informazione, di prevenzione e di educazione.
2.2 Esso è offerto a tutti, e si rivolge a singoli, coppie, nuclei familiari, gruppi sociali per l’evoluzione graduale ed armonica dei rapporti interpersonali, con particolare riferimento al campo della sessualità, e per il trattamento delle difficoltà inerenti.
3. Il gruppo di lavoro consultoriale (équipe)
3.1 Il servizio consultoriale è prestato da un gruppo di lavoro formato da operatori sociali che affrontano la domanda secondo le metodiche proprie del consultorio, nella collaborazione interdisciplinare, a partire dalle loro competenze specifiche: educative, sociali, psicologiche, mediche, giuridiche, etiche e di altre scienze umane.
3.2 Il gruppo tiene conto della globalità della domanda anche inespressa e della dinamica delle relazioni vissute, con una presa in carico che si manifesta nell’ascolto, nel dialogo, nel sostegno, nella relazione di aiuto, volti a favorire nell’utente la presa di coscienza della propria situazione, per la maturazione di scelte autonome e responsabili.
3.3 Il gruppo verifica collegialmente, con l’eventuale supervisione di un esperto, la metodologia comune, analizza i casi e i problemi emersi nel rapporto di consulenza, assume la responsabilità delle ipotesi di lavoro e delle possibili soluzioni, in armonia con l’orientamento del consultorio.
3.4 I membri del gruppo condividono la concezione della persona sopraenunciata, concordano sugli obiettivi e sulla metodologia comuni, operano secondo la deontologia propria della loro professione e nel rispetto dei valori cui la persona fa riferimento.
3.5 Nel gruppo, per l’accoglimento della domanda e per la sua evoluzione, nonché per il coordinamento dei possibili interventi specialistici, assume un ruolo peculiare il Consulente coniugale e familiare.
4. Consultorio e territorio
4.1 I consultori dell’UCIPEM essendo inseriti nella realtà territoriale, offrono il proprio servizio specifico agli individui e alle comunità, nella distinzione degli ambiti, degli strumenti e delle finalità proprie di ciascuno, e collaborano con quanti, persone ed enti, operano nella società per la promozione umana.
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DALLA NAVATA
XXI Domenica del tempo ordinario – Anno C – 25 agosto 2019
Isaia 66, 18. Così dice il Signore: «Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria.
Salmo 116, 01. Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode. Perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre.
Ebrei 11, 05. Fratelli, avete già dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli: «Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio».
Luca 13, 29. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
Quella porta «stretta» per aprirci all’essenziale
Gesù è in cammino verso la città dove muoiono i profeti. Lungo la strada, un tale gli pone una domanda circa la salvezza: di Gerusalemme e di tutti. Tremore e ansia nella voce di chi chiede. E Gesù risponde con altrettanta cura: salvezza sarà, ma non sarà facile. E ricorre all’immagine della porta stretta. Un aggettivo che ci inquieta, perché «stretta» evoca per noi fatiche e difficoltà.
Ma tutto il Vangelo è portatore non di dolenti, ma di belle notizie: la porta è stretta, cioè piccola, come lo sono i piccoli e i bambini e i poveri che saranno i principi del Regno di Dio; è stretta ma a misura d’uomo, di un uomo nudo ed essenziale, che ha lasciato giù tutto ciò di cui si gonfia: ruoli, portafogli gonfi, l’elenco dei meriti, i bagagli inutili, il superfluo; la porta è stretta, ma è aperta.
L’insegnamento è chiaro: fatti piccolo, e la porta si farà grande. Quando il padrone di casa chiuderà la porta, voi busserete: Signore aprici. E lui: non so di dove siete, non vi conosco. Avete false credenziali. Quelli che si accalcano per entrare si vantano di cose che contano poco: abbiamo mangiato e bevuto con te, eravamo in piazza ad ascoltarti. Ma questo può essere solo un alibi di comodo. «Quando è vera fede e quando è solo religione? Fede vera è quando fai te sulla misura di Dio; semplice religione è quando fai Dio a tua misura» (David Maria Turoldo).
Abbiamo mangiato in tua presenza… Non basta mangiare il pane che è Gesù, spezzato per noi, bisogna farsi pane, spezzato per la fame d’altri. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia. Non vi conosco. Il riconoscimento sta nella giustizia fattiva.
Dio non ti riconosce per formule, riti o simboli religiosi, ma perché hai mani di giustizia. Ti riconosce non perché fai delle cose per lui, ma perché con lui e come lui fai delle cose per i piccoli e i poveri. Non so di dove siete: il vostro modo di vedere è lontanissimo dal mio, voi venite da un mondo diverso rispetto al mio, da un altro pianeta. Infatti, quelli che bussano alla porta chiusa hanno compiuto sì azioni per Dio, ma nessun gesto di giustizia per i fratelli.
La conclusione della piccola parabola è piena di sorprese: la sala è piena, oltre quella porta Gesù immagina una festa multicolore: verranno da oriente e occidente, dal nord e dal sud del mondo e siederanno a mensa. Viene sfatata l’idea della porta stretta come porta per pochi, solo per i più bravi. Tutti possono passare, per la misericordia di Dio. Il suo sogno è far sorgere figli da ogni dove, per una offerta di felicità, per una vita in pienezza. Lui li raccoglie da tutti gli angoli del mondo, variopinti clandestini del regno, arrivati ultimi e per lui considerati primi.
Padre Ermes Ronchi, OSM
www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=46489
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DONNE NELLA CHIESA
La tomba vuota
Perché le donne, di ritorno dalla loro visita alla tomba che trovarono vuota hanno disobbedito all’ordine dato dall’angelo e non hanno trasmesso ai discepoli né la grande notizia: “È risorto”, né la promessa: “Vi precede in Galilea, là lo vedrete”? Un silenzio così insolito che Marco ha creduto di dover giustificare: “Avevano paura”. Le donne si sarebbero sottratte al ruolo che era stato loro devoluto? E quanta parte di storia e quanta di leggenda riservare a questo racconto della tomba vuota?
Charles Masson ha aperto l’indagine, ve ne presentiamo qui le grandi linee. La tradizione della tomba vuota, secondaria dal punto di vista storico, lo è anche dal punto di vista teologico. La scoperta della tomba vuota non ha niente a che fare con l’apparizione della fede nella resurrezione che trionfa solo quando la comunità può esclamare: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone”. Molto verosimilmente, questa tradizione si è formata più tardi della tradizione relativa alle apparizioni del Risorto; si è combinata con quest’ultima e non ha tardato a prendere, nella fede della Chiesa, un’importanza immensa, perché offriva alla vista tutto ciò che poteva esserlo: la pietra miracolosamente rotolata via, la tomba vuota, il sudario e le bende in un ordine perfetto.
Ma perché l’immaginazione delle comunità primitive non ha attribuito la scoperta della tomba vuota a dei discepoli piuttosto che a delle donne? La tradizione primitiva raccontava un’apparizione del Risorto alle donne, vicino alla tomba, il primo giorno della settimana. Nel vangelo di Marco questa tradizione è sostituita, per la prima volta secondo Masson, dal racconto di un’apparizione di un angelo nella tomba vuota. Gli elementi della tradizione primitiva sussistono: la tomba di Gesù, il primo giorno della settimana, le donne che, per prime, vengono a conoscenza della resurrezione. Ma il loro ruolo ha perso importanza: a loro appare solo un angelo, non più Gesù in persona. Loro non sono più delle testimoni del Risorto, spetta a loro soltanto, sulla fede della tomba vuota interpretata dall’angelo, annunciare la resurrezione di Gesù a coloro che ne saranno, invece, i testimoni: gli apostoli. La leggenda, di cui si dice spesso che “dà maggior enfasi” ai fatti, potrebbe, in questo caso, averli “minimizzati”.
Si sapeva bene nella Chiesa che delle donne avevano avuto un ruolo negli avvenimenti di Pasqua; ora si sarebbe saputo che non avevano visto il Signore, ma solo un angelo, e che, incaricate dall’angelo di annunciare la resurrezione agli apostoli, avrebbero invece taciuto. Si sarebbe saputo che, malgrado la missione che aveva voluto affidar loro un angelo, le donne non erano state dei testimoni della resurrezione di Gesù; si sarebbe saputo che la fede nella resurrezione è fondata sulla sola testimonianza valida, quella degli apostoli. Resta da capire il perché di questa modifica della tradizione primitiva. Perché le donne possono rivendicare solo la scoperta della tomba vuota e l’apparizione di un angelo? Perché la loro parte nella testimonianza della resurrezione all’origine della Chiesa è rigorosamente ridotta? Essa è inesistente se non hanno detto niente a nessuno (Marco 15,8), è ridotta ad una chiacchiericcio che non merita alcuna credibilità se hanno parlato (Luca 24,11). Una modifica così importante della tradizione su un punto tanto preciso non è certo avvenuta senza una ragione. Evidentemente, il silenzio dei documenti non permette di uscire dall’ambito delle congetture. Sarebbe ridicolo accusare di antifemminismo retrogrado il solo responsabile di questo nuovo orientamento della tradizione che è possibile raggiungere, Marco, l’autore del secondo vangelo. Nella storia del mondo, le donne non sono mai solo donne. La loro miseria e il loro onore è di non occupare mai il primo piano della scena. Allora, è possibile pensare che la Chiesa abbia potuto avere qualche difficoltà ad ammettere che all’origine della fede nella resurrezione come prima fiamma di quel fuoco che avrebbe attraversato i secoli, ci sia stato quel grido di alcune donne: “Abbiamo visto il Signore”.
Durante il suo ministero terrestre, Gesù ha portato la grazia del “pentimento” tanto alle donne quanto agli uomini e, con Paolo, la Chiesa primitiva ha creduto che “in Cristo Gesù, non c’è più uomo o donna”. Per questa coscienza della dignità della donna, della sua qualità di persona, si direbbe oggi, la Chiesa si distingue dal mondo antico, dal mondo ebraico in particolare in cui essa si è reclutata all’inizio. Tra gli ebrei, la donna era disprezzata, trattata da minorenne, al punto che le era negata la capacità di testimoniare in giustizia. Se la testimonianza della donna non era valida nei minimi affari civili, lo sarebbe stata nel processo che si apriva tra la Chiesa e il mondo riguardo a Gesù Cristo, riguardo alla fede fondata sulla sua resurrezione? Nell’interesse stesso della sua causa, la Chiesa doveva aver cura di citare solo dei testimoni che nessuno avrebbe potuto ricusare.
Così la voce delle donne non tardò ad essere coperta dalla voce degli uomini e la loro testimonianza, che temporalmente era precedente, fu presto rigettata nell’ombra a favore di quella degli apostoli. Già l’antichissimo riassunto della predicazione evangelica (1Cor 15,3-7) non ne fa più menzione. Se Marco poteva aver esercitato un’azione decisiva sull’evoluzione della tradizione relativa al ruolo delle donne negli avvenimenti di Pasqua, questa evoluzione si era delineata prima di lui: lui l’ha fissata, rivestendola di una forma precisa, ma non l’ha creata. Quando si comprende il peso che l’incredulità avrebbe potuto avere dall’apparizione del Risorto alle donne, si comprende perché la Chiesa non l’abbia invocata, perché abbia avuto la tendenza a lasciarla cadere nell’oblio e perché, aiutata da questo silenzio, l’apparizione del Risorto sia stata sostituita, un giorno, dall’apparizione di un angelo nella tomba vuota. Comprendere le ragioni profonde per le quali la tradizione della resurrezione di Gesù si è modificata non ci impedisce di riconoscere l’azione sovrana di Dio che, “il terzo giorno”, ha scelto dei deboli per confondere i forti. I discepoli erano fuggiti. Gesù è apparso risorto, prima che ad altri, ad alcune donne che avevano assistito da lontano alla sua morte, che avevano osato andare a cercare il luogo dove il suo corpo era stato deposto e che, fedeli, si erano recate alla sua tomba il giorno dopo, il primo giorno della settimana. Se abbiamo interpretato bene i testi, il racconto della scoperta della tomba vuota non è una creazione arbitraria della pia immaginazione della Chiesa primitiva. Dei legami ancora discernibili lo collegano alla storia. La leggenda, si è detto, è talvolta più vera della storia; l’episodio degli avvenimenti di Pasqua studiato da noi mostra che la storia è talvolta più bella della leggenda.
Sintesi dello studio di Charles Masson “Le tombeau vide: essai sur la formation d’une tradition” pubblicato sulla “Revue de théologie et de philosophie”, Quaderno 133, 1944
Charles Masson “www.comitedelajupe.fr” 15 agosto 2019 (Traduzione: www.finesettimana.org)
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201908/190820masson.pdf
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Il cristiano condivide beni e tempo, “così è il volontariato”
“Fuori programma” in Aula Paolo VI. Durante l’udienza di oggi, a metà circa della catechesi, una bambina con lunghi capelli neri e una maglietta fucsia è salita sul palco e si è messa a correre, a più riprese per tutta la durata dell’udienza, passando davanti al Papa, quasi per renderlo partecipe della sua particolare “coreografia”. “Lasciala tranquilla, Dio parla con i bambini”, le parole rivolte alla mamma che cercava inizialmente di bloccare il suo slancio. “Tutti noi abbiamo visto questa ragazza tanto bella, perché è bella. Poverina, è vittima di una malattia e non sa cosa fa. Io domando una cosa e ognuno risponda nel suo cuore: ‘Ho pregato per lei? Affinché il Signore la guarisca? Ho pregato per i suoi genitori, la sua famiglia? Sempre dobbiamo pregare per chi è in sofferenza”.
L’autenticità di un cristiano si vede dalle tasche: se si dona agli altri e non si accumula per sé, allora c’è autentica conversione. Lo sottolinea il Papa nel corso dell’udienza generale nell’Aula Nervi. Francesco riprendendo il ciclo di catechesi sugli Atti degli Apostoli, incentra la sua meditazione sul tema Fra loro tutto era comune. La comunione integrale nella comunità dei credenti.
“La comunità cristiana – osserva il Papa – nasce dall’effusione sovrabbondante dello Spirito Santo e cresce grazie al fermento della condivisione tra i fratelli e le sorelle in Cristo. C’è un dinamismo di solidarietà che edifica la Chiesa come famiglia di Dio, dove risulta centrale l’esperienza della koinonia, parola greca che vuol dire ‘mettere in comune, essere come una comunità, non isolati, mettere in comune, partecipare, non isolarsi condividere, comunicare, partecipare”.
Francesco si rivolge a fedeli e pellegrini arrivati da tutto il mondo: “Se voi volete sapere se siete buoni cristiani dovete pregare, riconciliarvi ma quel segnale che il tuo cuore si è convertito è quando la conversione arriva alle tasche. Lì si vede se uno aiuta i più poveri. Quando la conversione arriva lì, stai sicuro che è vera conversione ma se resta nelle parole non è buona conversione. La vita eucaristica, le preghiere, la predicazione degli Apostoli e l’esperienza della comunione fanno dei credenti una moltitudine di persone che hanno ‘un cuore solo e un’anima sola e che non considerano loro proprietà quello che possiedono, ma tengono tutto in comune, per aiutarsi ad essere generosi non tirchi”.
Il Papa fa l’esempio del volontariato: “Quanti cristiani in Italia fanno il volontariato! Questo è bellissimo, è comunione e condividere con chi ha bisogno. Così è il volontariato, le visite ai malati: sempre condividere e non cercare solo il proprio interesse!”.
“L’ipocrisia è il peggior nemico di questa comunità cristiana, dell’amore cristiano: quel far finta di volersi bene, ma cercare soltanto il proprio interesse”. Ne è convinto il Papa, che nella catechesi dell’udienza di oggi, sulla scorta degli Atti degli Apostoli, ha spiegato che “venire meno alla sincerità della condivisione significa coltivare l’ipocrisia, allontanarsi dalla verità, diventare egoisti, spegnere il fuoco della comunione e destinarsi al gelo della morte interiore”.
“Chi si comporta così transita nella Chiesa come un turista”, il monito: “Ci sono tanti turisti nella Chiesa, che sono sempre di passaggio ma mai entrano nella Chiesa: è il turismo spirituale che fa credere loro che sono cristiani, ma sono soltanto turisti di catacombe”. “Una vita impostata solo sul trarre profitto e vantaggio dalle situazioni a scapito degli altri, provoca inevitabilmente la morte interiore”, ha affermato Francesco. “Quante persone si dicono vicino alla Chiesa, ai preti, ai vescovi, e soltanto cercano il proprio interesse”, la denuncia: “Queste sono le ipocrisie che rovinano la Chiesa”.
“Un esempio concreto di condivisione e comunione dei beni ci giunge dalla testimonianza di Barnaba”, l’esempio scelto dagli Atti degli Apostoli: “egli possiede un campo e lo vende per consegnare il ricavato agli Apostoli. Ma accanto al suo esempio positivo ne appare un altro tristemente negativo: Anania e sua moglie Saffira, venduto un terreno, decidono di consegnare solo una parte agli Apostoli e di trattenere l’altra per loro stessi. Questo imbroglio interrompe la catena della condivisione gratuita, serena e disinteressata e le conseguenze sono tragiche, fatali.
L’apostolo Pietro smaschera la scorrettezza di Anania e la sua frode e gli dice: ‘Perché Satana ti ha riempito il cuore, cosicché hai mentito allo Spirito Santo e hai trattenuto una parte del ricavato del campo? Non hai mentito agli uomini, ma a Dio’. Potremmo dire che Anania ha mentito a Dio per via di una coscienza isolata, ipocrita, per via cioè di un’appartenenza ecclesiale ‘negoziata’, parziale, opportunista”.
Redazione Internet mercoledì 21 agosto 2019
www.avvenire.it/papa/pagine/udienza-generale-del-21-agosto-2019
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PASTORALE
Felice il matrimonio in cui si ha tanto da perdonarsi l’un l’altro!
“L’ amore autentico ha la memoria corta per il male e la memoria lunga per il bene. Fare memoria di tutte le volte in cui il mio coniuge si è fatto dono per me e dimenticare le volte in cui non è riuscito è il segreto per amarlo sempre più. Ogni matrimonio che funziona passa attraverso il perdono”. Padre Maurizio Botta lo dice sempre ai fidanzati quando li prepara al matrimonio: “Ricordati che quella persona che vuoi sposare è un peccatore come te, non è perfetto. Vuoi sposarlo comunque? Guarda che è un Caino. Veramente.”
In questa frase di padre Maurizio Botta c’è tutto. Noi sposiamo un peccatore o una peccatrice che in modo più o meno grave ci ferirà, con cui avremo incomprensioni e cadute. Non sarà perfetto. Quanti danni ha fatto il film Love Story ad una generazione intera. Un amore puro, romantico e contrastato con una battuta che resta in testa: Amare vuol dire non dover mai dire mi dispiace. Nulla di più falso. Amare è proprio ammettere costantemente la propria imperfezione e fragilità. Ammettere che sbaglio. Ammettere che neanche io sono perfetto. Solo Dio è fedele nell’amare sempre e in modo perfetto. Per questo il perdono è fondamentale. Senza perdono non c’è possibilità di amare. Tant’è che San Paolo lo riporta anche nel suo famoso Inno all’amore. L’amore non tiene conto del male ricevuto e che tutto scusa.
Papa Francesco riprende questo concetto nel suo bellissimo capitolo quarto di Amoris Lætitia. Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. La frase logizetai to kakon significa “tiene conto del male”, “se lo porta annotato”, vale a dire, è rancoroso. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi errore dell’altro. La giusta rivendicazione dei propri diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una sana difesa della propria dignità.
Aleteia 19 agosto 2019
https://it.aleteia.org/2019/08/19/felice-matrimonio-perdono/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it
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POLIAMORE
Si possono amare lealmente più persone?
Monogamia o poligamia all’interno dei patti coniugali: cosa c’è da sapere alla luce delle recenti pratiche di poliamore. “Ti amo e chiedo perdono” canta Umberto Tozzi. La canzone è ormai di qualche anno fa, ma continua ad essere riproposta con nuovi arrangiamenti musicali ed interpreti, quasi a voler imprimere un sigillo di eternità ad un tema che non smette mai d’interrogare e affascinare. Qual è questo tema? Verrà spontaneo chiedersi. La risposta, forse anche troppo scontata, è: l’amore, così tanto cantato dai poeti. Non a caso Dante nel “suo” Paradiso della Divina Commedia scrive “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Un’espressione che nella sua profonda poeticità sta a significare che a fondamento del mondo e della vita in genere, si colloca l’amore come motore di tutto.
Una molla propulsiva molto forte dunque che, nelle versioni più romantiche, sembra esigere un rapporto esclusivo e duale dell’io-tu, come ci ricorda anche Umberto Tozzi, ma sarà davvero sempre così ovunque? O meglio: si possono amare lealmente più persone? Perché il nocciolo della questione è proprio questo, specie nell’attuale epoca storica, dove tutto sembra essere messo in discussione, con famiglie allargate e rapporti sempre più “fluidi”, per dirla con Bauman, vale a dire rarefatti e dai confini sempre meno netti.
Un amore per potersi dire leale, da mostrare alla luce del sole, deve per forza intercorrere tra due individui o può nascere e mantenersi stabile anche in presenza di più soggetti? Ed ancora, in tutto questo c’entrano qualcosa i dogmi religiosi e le radici culturali? Per saperne di più in fatto di amore e “poliamore”, nel quale cioè l’amore è coniugato al plurale, non mollare ora e continua a seguirci!
Amore esclusivo. Chi mastica un po’ di diritto avrà, prima o poi, sentito parlare di diritto di esclusiva che in latino suona come “ius excludendi omnes alios”, ossia diritto di escludere chiunque altro. Un’espressione che si lega ai concetti di proprietà privata, ma che potrebbe benissimo essere trasferita anche nel campo delle relazioni umane, specie in realtà storico sociali come la nostra dove la monogamia costituisce la regola.
Passando dal diritto all’ambito delle relazioni affettive, l’amore che lega i partner, fa propendere per una necessaria esclusività della relazione che consente al sentimento di nascere, crescere e fortificarsi in un rapporto dove regna fiducia, rispetto e lealtà.
Altre forme di triangolazione del genere “lui, lei l’altro” rimandano invece in prima battuta a tradimenti, rapporti clandestini e amanti, messi al bando dal diritto, dalla chiesa e anche dal comune sentire della media delle persone. Ma cosa significa essere leali in un rapporto d’amore?
Amore leale. Cominciando dal termine lealtà, forse non tutti sanno che il termine discende da legalitas che in latino significa legalità. Per di più il significato della parola rimanda ai valori dell’onestà associata a franchezza e sincerità. Per cui si potrebbe dire che all’interno di un rapporto si è fedeli quando si è rispettosi di un accordo posto in essere con l’altro. Al contrario, tradire vuol dire venir meno a quel preciso accordo che, nella stragrande maggioranza dei casi, quantomeno in Italia è un patto monogamo.
In soldoni, i monogami tendono a definire la fedeltà come l’impegno di esclusività sessuale verso un unico partner (alla volta). Cosa accade invece in caso di poliamore? E a cosa ci si intende riferire nello specifico?
Poliamore. Riprendendo il discorso del patto amoroso che lega i partner, mentre in una relazione monogama, il rispetto per l’altro esige un rapporto duale, per i cosiddetti poliamorosi invece il “patto” è appunto poliamoroso, e allora in questo caso, cosa si intende per fedeltà o meglio per “polifedeltà“? Molti di coloro che praticano il poliamore, vale a dire una vita relazionale intima estesa a più partner contemporaneamente, tendono a definire la fedeltà non come l’esclusività sessuale, ma sotto forma di rispetto per le promesse e gli accordi fatti all’interno della relazione.
Anche nel caso di un amore tra più di due partner, un’eventuale relazione sessuale tenuta segreta ai compagni di vita dovrebbe considerarsi una violazione di questi accordi e, dunque, un tradimento. Si potrebbe asserire che i poliamorosi tendano a basare gli impegni reciproci su considerazioni diverse dall’esclusività sessuale, quali appunto i valori di fiducia e onestà. Per cui la fedeltà è per loro sinonimo di onestà e apertura verso i propri partner, sempre nel mantenimento degli impegni presi con essi.
Amore esclusivo o poliamore? Allora, verrà spontaneo chiedersi, anziché imporsi delle regole di monogamia che a quanto sembra guardandosi intorno, sono ormai ben pochi a rispettare, non sarebbe auspicabile agire più alla luce del sole ed aprirsi a relazioni allargate? Ben consapevoli però che la maggior parte dei cosiddetti poliamorosi pone sempre e comunque l’accento sul rispetto verso tutti i partner. Una cosa quest’ultima forse interessante a parole, ma poi all’atto pratico più facile a dirsi che a farsi. Chi, infatti, può dire di non essere stato, almeno una volta, testimone di uno scambio di battute forti provocato da uno sguardo di troppo gettato alla donna di un altro, o peggio ancora di una rissa scatenata da apprezzamenti non richiesti rivolti al gentil sesso in presenza di focosi mariti e fidanzati? Non a caso la nostra tradizione, ma non solo la nostra, è quella che vuole i maschi come dei latin lovers, dal sangue caldo con frequenti sconfinamenti verso smodate manie di possesso che nulla avrebbero a che vedere con l’amore.
E se la forma più sublime di amore è quella che lascia libero l’altro, si può riuscire nell’intento cantato dall’innamorato Gatto Panceri del “seguirò il tuo volo senza interferire mai”? Ossia è umanamente concepibile essere così bravi e di mentalità aperta da riuscire ad amare il compagno di vita, senza provocare alcuna interferenza nei voli che l’altro intenderà compiere? Una domanda, come si dice, da cento milioni di dollari, ma che la dice lunga sul proprio autocontrollo e sulla consapevolezza di sé e degli altri, requisiti imprescindibili per una solida base di partenza in fatto di amore maturo e sano.
Possesso e amore. “M’ama, non m’ama e se mi ama quanto mi ama?”. Chi non si è prima o poi ritrovato a sfogliare i petali della margherita al fine di trovare responso ai propri dubbi d’amore? E una volta sedate, almeno in parte, le ansie da amore non corrisposto, cosa dire delle manie di possesso? La risposta ovviamente non può essere la stessa per tutti, infatti se è vero che quella minima dose di possessività può al limite anche fare piacere, è fuor di dubbio che quando vengono toccati livelli cosiddetti morbosi, il possesso, come anche la gelosia, finiscono per avvelenare qualsiasi relazione. Nel rapporto poliamoroso, poi, il cosiddetto “non possesso” sta alla base della relazione che contempla più partner in contemporanea, per cui si ama una persona senza tentare di possederla. Ne consegue che i poliamorosi, più dei partner monogami, si trovano sin da subito a fare i conti con l’istinto primordiale del possesso da controllare e incanalare verso direzioni, costruttive e non distruttive. Se, quindi, il senso di possesso da esercitare sul partner è sintomo in un certo qual modo di insicurezza, è pur vero che in tutto questo giocano una parte molto importante anche le tradizioni e gli schemi socio-culturali all’interno dei quali si è vissuti. Vediamo come cambiano i rapporti a seconda delle aree geografiche di riferimento.
Poliginia: cos’è e dove è diffusa. Appurato che quando si parla di poliamore il valore che viene posto al centro è quello dell’inclusività, che consente di rispondere in modo empatico alla felicità che una persona amata prova per la relazione amorosa con un terzo soggetto, vediamo ora come il tutto può tradursi in pratica.
Cominciando da un punto di vista strettamente terminologico, contrapposta a monogamia, esiste la parola poligamia che sta appunto a significare unione matrimoniale di un individuo con due o più individui dell’altro sesso. A sua volta, la poligamia può estrinsecarsi sotto forma di poliginia e poliandria. Si ha poliginia quando l’unione matrimoniale riguarda un solo uomo e due o più donne. Tale costume è rintracciabile però solo in alcuni stati appartenenti alle aree asiatiche e africane e forse per questo meno conosciuto.
Poliandria: cos’è e dove si trova. Si parla invece di poliandria quando l’unione tra più di due partner vede un unico partner donna e più mariti. Sembra che tale pratica sia abbastanza diffusa in Tibet, mentre nel resto del mondo non se ne trova traccia. Una nota interessante è che la poliandria è proibita dalla maggior parte delle confessioni religiose (siano esse induiste o cristiane), inoltre non è riconosciuta legalmente nella maggior parte degli stati, compresi quelli che permettono la poliginia.
Cosa dice la legge in fatto di poliamore. Pochi paesi consentono matrimoni di stato fra tre o più partner. Tra i paesi che sembrano fare eccezione ci sono i Paesi Bassi dove sono consentite le unioni civili tra più persone. Infatti, è proprio nei Paesi Bassi che nel 2005 si è celebrata la prima unione nazionale fra tre partner, seguono a ruota gli Stati Uniti. E in Italia cosa accade? Tra le città dove queste pratiche poliamorose stanno cominciando a prendere piede, tramite gruppi d’incontro, blog e app: Torino, Roma, Milano, Padova. Se poi dai mutamenti comportamentali si passa alle regole di diritto, la “musica” però cambia notevolmente.
Fra i doveri coniugali annoverati all’interno del Codice civile [art. 143] vi è il cosiddetto obbligo di fedeltà che presuppone peraltro un rapporto esclusivo tra due soggetti. Correlati alla fedeltà ci sono poi plurimi impegni, tra cui l’astensione dall’adulterio, nonché da relazioni sessuali extraconiugali, la lealtà e la solidarietà, al fine di non tradire la fiducia reciproca ed il rapporto di dedizione sia fisica che spirituale fra i coniugi.
Ne discende che laddove la violazione dell’obbligo di fedeltà abbia provocato la disgregazione dell’unione familiare, determinando l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza tra i coniugi, tale violazione stando ad alcune recentissime pronunce [Corte App. Palermo, Sez. I n.1866, 17.01.2017], sarebbe di per sé “sufficiente a determinare la pronuncia di addebito della separazione a carico del coniuge responsabile” [Trib. Milano sez. IX n.6831, 19.06.2017] [Cass. sez. I n.977 del 17.01.2017]. Quindi, una posizione radicalmente distante da qualsivoglia pratica di poliamore.
Maria Teresa Biscarini La legge per tutti 25 agosto 2019
www.laleggepertutti.it/294736_si-possono-amare-lealmente-piu-persone
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PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA
Cos’è e come è regolamentata la procreazione medicalmente assistita
La procreazione medicalmente assistita è quell’insieme di tecniche e metodiche che permettono la procreazione chirurgica, ormonale, farmacologica o di altro genere. Si tratta, in particolare, dei seguenti procedimenti:
- inseminazione,
- fecondazione in vitro,
- trasferimento embrionale,
- trasferimento intratubarico dei gameti,
- microiniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo,
- crioconservazione dei gameti e degli embrioni.
La legge 40 del 2004. In Italia, la procreazione medicalmente assistita è regolamentata dalla legge numero 40 del 2004 (“Recante norme in materia di protezione della procreazione medicalmente assistita”), introdotta nel nostro ordinamento a seguito di un dibattito politico e culturale molto acceso, che ancora oggi riverbera i suoi effetti, rimanendo il tema che ci occupa uno dei più discussi nel campo della bioetica. www.camera.it/parlam/leggi/04040L.htm
Tale provvedimento disciplina la materia in lungo e in largo tentando, ma non sempre riuscendovi, di operare un adeguato bilanciamento dei valori in gioco e apprestando anche una forma di tutela specifica nei confronti del concepito.
L’obiettivo perseguito è reso palese dall’art. 1, il quale così dispone: “Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”.
Tra le norme contenute nella legge 40/2004, particolarmente contestata, non tanto sotto il profilo giuridico quanto su quello etico, è quella di cui all’art. 4, la quale dispone che possono accedere alla procreazione medicalmente assistita solo coloro dei quali sia accertata la sterilità o che si trovino in condizioni patologiche che determinino l’impossibilità di procreare (“Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico”).
Chi può accedere alla procreazione medicalmente assistita. In generale, per poter accedere alla procreazione medicalmente assistita sono necessari specifici presupposti. Infatti, ad essa possono ricorrere solo le persone che siano:
- maggiorenni,
- di sesso diverso,
- coniugate o conviventi,
- in età potenzialmente fertile,
- entrambi viventi.
Ciò vuol dire, quindi, che non possono ricorrere alla procreazione medicalmente assistita i single, gli omosessuali, le persone che non si trovano in età potenzialmente fertile perché troppo avanti con gli anni e i vedovi.
I divieti a tutela dell’embrione
La legge 40 contiene, poi, una serie di divieti ai quali corrispondono delle pesanti sanzioni, alcune delle quali aventi natura penale, altre invece aventi natura meramente amministrativa.
Sostanzialmente sono vietate quelle condotte volte a realizzare degli scopi ritenuti in contrasto con interessi di carattere superiore.
Ad esempio, i divieti riguardano innanzitutto la clonazione operata mediante trasferimento di nucleo o di scissione precoce dell’embrione o di ectogenesi sia a fini procreativi sia di ricerca; è vietata, poi “ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti ovvero interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione o del gamete ovvero a predeterminarne caratteristiche genetiche, ad eccezione degli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche”. Non è inoltre possibile la produzione di embrioni umani a fini di ricerca o di sperimentazione o comunque a fini diversi da quelli previsti dalla legge nonché la maternità surrogata (l’integrale elenco dei divieti e delle relative sanzioni è contenuto negli artt. 12 e ss.).
Procreazione medicalmente assistita eterologa. In Italia, la procreazione medicalmente assistita eterologa fino a qualche anno fa era assolutamente vietata, con la conseguenza che non era mai possibile ricorrere a ovuli o a semi di donatori esterni alla coppia che desiderava avere un figlio.
Sulla questione, tuttavia, è intervenuta la Corte Costituzionale, con sentenza 162/2014, che ha parzialmente modificato l’impianto della legge 40, partendo dal presupposto che “le questioni toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene «primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347, 26 settembre 1998), ma resta ferma la sindacabilità della stessa, al fine di verificare se sia stato realizzato un non irragionevole bilanciamento di quelle esigenze e dei valori ai quali si ispirano”.
http://www.giurcost.org/decisioni/1998/0347s-98.html
In detta sentenza la Consulta ha in particolare dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, nella parte in cui stabilisce per la coppia il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili. Secondo la Consulta il divieto di fecondazione eterologa colliderebbe con gli articoli 2, 3 e 31 della Costituzione, contrastando con il diritto di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli, diritto che si manifesta altresì come una forma di autodeterminazione individuale.
Le linee guida del 2015. Oltre che dalla legge 40, la procreazione medicalmente assistita è regolamentata dalle Linee guida nazionali del 2015, alle quali devono scrupolosamente attenersi tutte le strutture che sono state autorizzate a praticare questa tecnica, che contengono le indicazioni sulle procedure da seguire.
www.salute.gov.it/imgs/C_17_notizie_2148_listaFile_itemName_0_file.pdf
Sostanzialmente, tali Linee guida definiscono la sterilità e l’infertilità, identificando con esse l’assenza di concepimento dopo 12/24 mesi di regolari rapporti sessuali non protetti all’interno di una coppia eterosessuale, e individuano come possibili trattamenti ai quali ricorrere quello medico o quello chirurgico per ripristinare la fertilità e l’accesso alla fecondazione assistita. In forza di quanto stabilito dalle linee guida, poi, ciascun centro che si occupa di fecondazione assistita deve garantire la possibilità alle coppie di accedere a un sostegno psicologico decisionale, di sostegno, genetico o terapeutico.
Sostanzialmente si vuole aiutare le coppie a riflettere sulle implicazioni del percorso che stanno per intraprendere, a superare i momenti di stress, ad affrontare il rischio di anomalie genetiche del nascituro e ad accettare determinate situazioni terapeutiche.
La procedura di procreazione medicalmente assistita è regolamentata in maniera molto specifica anche sotto diversi aspetti che non sono strettamente medici. In particolare, la coppia deve innanzitutto prestare un consenso scritto congiunto alle informazioni che le vengono fornite dal medico responsabile della struttura sanitaria alla quale si è rivolta, dopo il quale devono trascorrere almeno sette giorni prima di compiere l’intervento. Il consenso può essere revocato sino alla fecondazione dell’ovulo.
Art. 3. (Modifica alla legge 29 luglio 1975, n. 405- istituzione dei consultori familiari).
1. Al primo comma dell’articolo 1 della legge 29 luglio 1975, n. 405, sono aggiunte, in fine, le seguenti lettere:
“d-bis) l’informazione e l’assistenza riguardo ai problemi della sterilità e della infertilità umana, nonché alle tecniche di procreazione medicalmente assistita;
d-ter) l’informazione sulle procedure per l’adozione e l’affidamento familiare”.
Le strutture presso le quali è eseguito l’intervento, poi, possono essere sia pubbliche che private, ma devono essere necessariamente autorizzate dalla Regione di riferimento e devono essere iscritte in un apposito registro, istituito presso l’Istituto Superiore di Sanità.
Tutta la procedura, infine, deve essere perfettamente tracciata. Una volta terminata, infatti, la coppia riceve una relazione conclusiva, destinata al proprio medico curante, in cui viene indicato quale procedura è stata impiegata, come si è svolta e quali risultati ha prodotto e in cui sono riportati i dati di laboratorio, i farmaci ai quali si è fatto eventualmente ricorso e ogni indicazione terapeutica utile.
Il figlio nato da procreazione assistita. Il figlio nato da procreazione medicalmente assistita assume in tutto e per tutto lo stato di figlio nato da gravidanza spontanea e per la coppia non è possibile rivalutare la propria scelta di essere genitori. Alla madre, infatti, non è data la possibilità di decidere di non essere nominata nell’atto di nascita e il padre non può contestare la sua paternità.
Avv. Daniele Paolanti studio Cataldi 19 agosto 2019
www.studiocataldi.it/articoli/24881-la-procreazione-medicalmente-assistita.asp
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UNIONI CIVILI
Scioglimento dell’unione civile
Stabilito un percorso terapeutico per valutare le competenze genitoriali delle due mamme
Tribunale di Bologna
Due donne contraggono matrimonio in Spagna. Da tale unione nasce una bimba, la madre sociale ottiene, sempre in Spagna, pronuncia di adozione della minore, di cui il Tribunale minorile dispone la trascrizione in Italia. Successivamente le due donne decidono di voler sciogliere detta unione. Il Tribunale, preso atto della volontà delle parti di sciogliere l’unione civile, dispone l’affidamento congiunto, affinché la minore possa mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambe le madri che continueranno ad esercitare congiuntamente la responsabilità genitoriale, curando la crescita e l’educazione della minore.
Percorso di valutazione terapeutica. In particolare i giudici evidenziano che l’attuale minoritaria frequentazione della bimba con la madre biologica, causata da una difficoltà della stessa ad accettare la situazione di separazione dei genitori, ha spinto le parti a rivolgersi ad una equipe di specialisti con i quali si impegneranno in un «percorso di valutazione delle competenze genitoriali con funzione terapeutica». L’obiettivo è quello di garantire al meglio l’espletamento della funzione genitoriale delle due mamme, al fine di consentire ad entrambe una frequentazione e coabitazione paritaria con la figlia. La violazione dell’impegno assunto nella mediazione–terapia da parte di una delle due mamme, disposta dagli specialisti, legittimerà l’altra ad interrompere il percorso di terapia familiare e a rivolgersi all’autorità giudiziaria per regolarne le modalità e le condizioni della responsabilità genitoriale in regime di affido condiviso. Per ciò che concerne l’aspetto economico, i giudici, oltre a stabilire le percentuali di ripartizione dei costi relativi al percorso terapeutico, fissano anche il quantum che la madre biologica dovrà versare alla madre adottiva per il mantenimento della figlia, mentre dispongono con separata ordinanza la rimessione in istruttoria per tutte le altre questioni.
Il familiarista 12 Agosto 2019
http://ilfamiliarista.it/articoli/news/scioglimento-dell-unione-civile-stabilito-un-percorso-terapeutico-valutare-le?utm_source=MAILUP&utm_medium=newsletter&utm_campaign=FAM_standard_28_Agosto_2019
Guida legale per le unioni civili
Le unioni civili sono quelle unioni fondate su vincoli affettivi ed economici, alle quali l’ordinamento riconosce uno status giuridico che per molti versi è analogo a quello attribuito al matrimonio.
In Italia, esse hanno fatto l’ingresso ufficiale all’interno dell’ordinamento giuridico con l’emanazione della legge numero 76 del 20 maggio 2016 (cd. Legge Cirinnà).
www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/05/21/16G00082/sg
Tale legge, più nel dettaglio ha permesso alle coppie dello stesso sesso di stipulare delle unioni civili e alle coppie conviventi, a prescindere dal sesso dei loro componenti, di regolare formalmente la loro convivenza da un punto di vista economico.
Le unioni civili possono essere costituite solo tra persone maggiorenni, dello stesso sesso. Queste, a tal fine, devono effettuare una dichiarazione all’ufficiale di stato civile, da rendere alla presenza di due testimoni. Nel documento che attesta la costituzione del vincolo, oltre ai dati anagrafici della coppia, vanno indicati la loro residenza, il regime patrimoniale prescelto tra la comunione dei beni e la separazione dei beni e l’identità, la residenza e i dati anagrafici dei testimoni. L’atto di unione civile è registrato nell’archivio dello stato civile.
Le cause impeditive dell’unione. Essa, infatti, trova degli ostacoli insormontabili nell’incapacità di una delle due parti e nella sussistenza di un rapporto di affinità o di parentela tra le stesse.
Non è poi possibile costituire tale vincolo se una delle parti è stata condannata in via definitiva per omicidio, anche solo tentato, nei confronti del coniuge o di soggetto già unito civilmente con l’altra o se una delle parti è comunque già sposata o ha un’unione civile con un altro soggetto.
Ognuna delle predette cause impeditive genera la nullità dell’unione.
Diritti e doveri. Dall’unione civile, ciascun componente della coppia assume nei confronti dell’altro l’obbligo alla coabitazione e all’assistenza morale e materiale. Ognuno di essi, inoltre, è tenuto a contribuire ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanze e alla rispettiva capacità di lavoro, sia professionale che casalingo.
Più in generale, con un’unione civile i partner acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri.
Si segnala, tuttavia, che la legge Cirinnà non fa alcun riferimento né all’obbligo di fedeltà né a quello di collaborazione, che invece scaturiscono dal matrimonio.
Regime patrimoniale. Come detto, al momento della costituzione di un’unione civile la coppia è chiamata a scegliere il regime patrimoniale del vincolo tra quello della comunione e quello della separazione dei beni.
A ciò si aggiunge che, così come avviene per il matrimonio, il regime ordinario è quello della comunione dei beni e la separazione dei beni resta una possibilità della quale avvalersi in maniera espressa.
Sempre con riferimento al regime patrimoniale va poi specificato che anche i soggetti uniti da un’unione civile possono costituire un fondo patrimoniale, dato che a tale vincolo si applica la relativa disciplina, così come quelle dell’impresa familiare, della comunione legale e della comunione convenzionale.
Unione civile e matrimonio. Oltre a tutto quanto visto, l’unione civile si differenzia dal matrimonio per numerosi altri aspetti.
Innanzitutto, il cognome di famiglia viene scelto dalla coppia tra i loro, dichiarandolo all’ufficiale di stato civile e fatta salva la possibilità di ognuno di anteporre o posporre il cognome dell’altro al proprio (nel matrimonio civile, invece, è la moglie che aggiunge sempre al proprio cognome quello del marito).
Inoltre, se l’unione civile si scioglie, gli effetti sono immediati e non è previsto, come per il matrimonio, un periodo di separazione antecedente al divorzio.
Stepchild adoption. Altra fondamentale differenza rispetto al matrimonio tra coppie eterosessuali è rappresentata dai figli.
Oggi in fatti non è riconosciuta la possibilità che il figlio minore di un componente della coppia (nato da fecondazione eterologa o da gestazione per altri) instauri un rapporto di genitorialità sociale con l’altro a seguito di adozione (cd. Stepchild adoption).
Bisogna dar conto, tuttavia, del fatto che tale questione è stata molto dibattuta nel corso dell’approvazione della legge, tanto che, contenuta nell’originario disegno di legge, è stata stralciata nella fase che ha portato all’emanazione del testo normativo.
Unioni civili e istituti civilistici. Alle unioni civili si applicano, poi, numerosi istituti tipicamente civilistici, in forza del rinvio contenuto nella legge numero 76/2016.
In particolare, alle coppie dello stesso sesso unite con tale vincolo si applicano le discipline relative all’amministrazione di sostegno, all’inabilitazione, all’interdizione e all’annullamento del contratto a seguito di violenza. Si applicano, inoltre, gli ordini di protezione in caso di grave minaccia all’integrità fisica o morale di una delle parti.
Unioni civili ed eredità. Una particolare attenzione la merita la disciplina delle successioni, estesa dalla legge Cirinnà anche alle unioni civili.
Da tale estensione, infatti, deve farsi discendere innanzitutto che tutta la disciplina della successione legittima riguarda anche la parte dell’unione civile nella medesima maniera del coniuge, con la conseguenza che al partner omosessuale del de cuius spetterà l’intera eredità in mancanza di figli, fratelli, sorelle e ascendenti del defunto; i due terzi dell’eredità in presenza di ascendenti, fratelli o sorelle del defunto; metà dell’eredità in caso di concorso con un solo figlio o un suo terzo in caso di concorso con più figli del defunto.
Lo stesso dicasi per la successione ereditaria: anche con riferimento alla relativa disciplina, infatti, il coniuge e la parte di un’unione civile sono interamente equiparati. Di conseguenza, quest’ultima ha sempre il diritto di abitazione sulla casa familiare e di uso sui mobili che l’arredano. Inoltre, al partner omosessuale unito dal de cuius dal vincolo in analisi è riservato un terzo del patrimonio se concorre con un figlio del defunto, un quarto del patrimonio se concorre con più di un figlio del defunto, la metà del patrimonio se concorre con gli ascendenti del defunto.
Resta fuori solo la disciplina dettata per la successione del coniuge separato.
Indegnità a succedere. L’ingresso delle unioni civili nel nostro ordinamento ha inciso anche sulla disciplina dell’indegnità, idonea a sancire l’esclusione dalla successione.
È, infatti, indegno anche chi ha volontariamente ucciso o tentato di uccidere il partner dell’unione civile del soggetto al quale si succede (salva la sussistenza di cause di esclusione della punibilità) o ha commesso in suo danno un fatto al quale sono applicabili le disposizioni dettate per l’omicidio.
È inoltre indegno chi ha denunciato la parte dell’unione civile per un reato punibile con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore a tre anni se tale denuncia è stata accertata come falsa all’esito di un giudizio penale.
Unioni civili: congedi e Tfr. Venendo, invece, all’ambito del diritto del lavoro, la legge Cirinnà riconosce, in caso di morte del lavoratore, il diritto del partner al pagamento di tutte le indennità previste dalla legge.
Peraltro, anche se l’unione civile si scioglie, il partner ha diritto al 40% del T.F.R. dell’ex, maturato negli anni in cui il vincolo era in essere, purché non vi sia stato, successivamente, un matrimonio o una nuova unione civile.
Alle unioni civili, si applicano, poi le discipline del congedo matrimoniale e del licenziamento in costanza di matrimonio (da considerarsi nullo), nonché le disposizioni in materia di permessi per lutto o per eventi particolari o per assistere il coniuge disabile e quelle in materia di trattamento economico, per massimo due anni, per assistere una persona affetta da disabilità accertata.
Anche il componente di un’unione civile ha, infine, la priorità per la trasformazione del rapporto di lavoro da full time a part time nel caso in cui abbia la necessità di assistere il partner malato oncologico.
Giurisprudenza sulle unioni civili
- Corte Costituzionale n. 212/2018. Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale della disposizione che prevede che le schede anagrafiche restano intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile (art. 3, lett. c, n. 2, d.lgs. 5/2017) e della disposizione che impone all’ufficiale dello stato civile di annullare l’annotazione relativa alla scelta del cognome comune (art. 8, d.lgs. 5/2017).
- Trib. Novara 5 luglio 2018. La dichiarazione di volontà di una sola delle parti dell’unione civile all’ufficiale di stato civile del comune dove l’unione si è costituita e la sua comunicazione all’altra parte mediante lettera raccomandata non configurano condizione di procedibilità ove la dichiarazione della propria volontà di sciogliere il vincolo sia stata ribadita nella fase presidenziale e sia decorso di un lasso di tempo pari o superiore a tre mesi dalla notifica del ricorso.
- Cassazione n. 11696/2018. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero, di cui uno sia cittadino italiano e l’altro cittadino straniero va trascritto come unione civile, in adesione al modello legislativo applicabile al nostro ordinamento; l’art. 32 bis della legge 218/1995 non trova invece applicazione diretta nell’ipotesi in cui venga richiesto il riconoscimento di un’unione coniugale contratta all’estero da due cittadini stranieri, sicché in tal caso il matrimonio va trascritto come tale fra gli atti di matrimonio.
- Cassazione n. 19599/2016. Il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero (nella specie, dell’atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma della L. n. 218 del 1995, artt. 16, 64 e 65, e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Si tratta, in particolare, della tutela dell’interesse superiore del minore, anche sotto il profilo della sua identità personale e sociale, e in generale del diritto delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia, valori questi già presenti nella Carta costituzionale (artt. 2, 3, 31 e 32 Cost.) e la cui tutela è rafforzata dalle fonti sovranazionali che concorrono alla formazione dei principi di ordine pubblico internazionale.
- Cassazione n. 12962/2016. Poiché all’adozione in casi particolari prevista dall’art. 44, comma 1, lett. d), L. n. 184/1983 possono accedere sia le persone singole che le coppie di fatto, l’esame dei requisiti e delle condizioni imposte dalla legge, sia in astratto (“la constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo”), sia in concreto (l’indagine sull’interesse del minore imposta dall’art. 57, comma 1, n. 2), non può essere svolto – neanche indirettamente – dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione da questo stabilita con il proprio partner.
Studio Cataldi agosto 2019
www.studiocataldi.it/guide_legali/unioni-civili
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