NewsUCIPEM n. 767 – 18 agosto 2019

NewsUCIPEM n. 767 – 18 agosto 2019

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, 2019che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

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01 ADDEBITO                                                    Tradimento coniugale e pronuncia di addebito della separazione

03 ADOZIONE                                                   Facciamo il punto tra aspetti legali psicologici e sociali

04 ADOZIONE INTERNAZIONALE              Quando decreto idoneità non prepara coppie a incontro con Ente

05 AFFIDI                                                           Bibbiano, avvocati in campo: “Tutelare i diritti del minore”

05                                                                          Speciale affido minori

08                                                                          Casefamiglia e comunità educative. Perché è bene non confondere

09 AFFIDO CONDIVISO                                 Ora conta anche l’età?

10 ASSEGNO DIVORZILE                              Assegno di divorzio: le precisazioni della Cassazione

11                                                                          La mia ex si è lasciata col compagno: devo mantenerla di nuovo?

12 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI     Omesso: reato anche se figli nati fuori dal matrimonio

15 ASSOCIAZIONI-MOVIMENTI                               Rivista il Consulente familiare

16 CHIESA CATTOLICA                                  In questo momento con il Papa più che mai

17                                                                          La Chiesa: un’ambiguità da riconoscere e superare

18 CONSULTORI FAMILIARI CATTOLICI  Rivista Consultori Familiari oggi

19 CONSULTORI UCIPEM                            Roma1 Associazione Centro La Famiglia: atelier 2019

19 DALLA NAVATA                                         XX Domenica del tempo ordinario – Anno C – 18 agosto 2019

19                                                                          Dio non è neutrale e nemmeno la sua pace

20 DEMOGRAFIA                                            Meno figli? Non dipende solo dal Pil: conta il benessere collettivo

21 ENTI TERZO SETTORE                               Linee guida per il bilancio sociale

21 HUMANÆ VITÆ                                        Identità di genere da paternità responsabile a identità rinnovata

25 NEGOZIAZIONE ASSISTITA                    La negoziazione in materia di separazione e divorzio

26 PROCREAZIONE ASSISTITA                    75mila coppie si rivolgono. E il tasso di successo è bassissimo.

27                                                       Metodo Cnr per identificare gli ovociti più sani

27 UCIPEM                                             Scuola di Bioetica Pro Vita e Famiglia

28 VIOLENZA                                                    Il reato di violenza sessuale

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ADDEBITO

Tradimento coniugale e pronuncia di addebito della separazione

Il tradimento coniugale è senz’altro una delle cause principali di addebito della separazione: chi è infedele al proprio coniuge non soltanto compromette seriamente (quasi sempre, definitivamente) l’unità familiare, ma viola un precetto giuridico ben preciso. Forse non lo sai, ma la fedeltà è un vero e proprio dovere, sancito espressamente dal codice civile come conseguenza dell’unione matrimoniale. Per tale ragione, costituendo un inadempimento ai propri obblighi, spesso il tradimento coniugale comporta la pronuncia di addebito della separazione.

            I due eventi (l’infedeltà e l’addebito) non sono però sempre connessi: in altre parole, il tradimento non comporta in automatico l’addebito della separazione in capo al coniuge fedifrago. La giurisprudenza ha ben precisato che c’è differenza tra l’infedeltà che causa la crisi matrimoniale e l’infedeltà che, al contrario, è solo la conseguenza della crisi già in atto.

  1. Quali sono i doveri derivanti dal matrimonio? Come anticipato, la fedeltà è uno dei doveri che la legge impone ai coniugi. Ma non è l’unico: dice il codice civile che dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Inoltre, entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia [Art. 143 cod. civ.1]. Come si vede, il dovere di fedeltà è addirittura elencato per primo, a testimoniare come l’ordinamento giuridico lo ritenga di assoluto rilievo all’interno della coppia sposata.
  2. Obbligo di fedeltà: cosa significa? Cosa significa che i coniugi devono essere reciprocamente fedeli? L’infedeltà consiste soltanto nel classico tradimento, cioè nell’adulterio, oppure può avere altre accezioni? La fedeltà di cui parla la legge va ben oltre l’astensione dai rapporti sessuali con persone diverse dal coniuge, in quanto l’obbligo di fedeltà coinvolge anche la sfera emotiva. In buona sostanza, un coniuge è fedele all’altro se, oltre a non intrattenere rapporti sessuali con altre persone, conserva con l’altro un’intimità esclusiva. In pratica, la fedeltà coniugale corrisponde ad un preciso obbligo di lealtà nei confronti del coniuge. Secondo la giurisprudenza, anche un’infedeltà solamente platonica giustifica la richiesta di separazione con addebito: all’interno di un rapporto matrimoniale, la fedeltà affettiva diventa componente di una fedeltà più ampia, che si traduce nell’obbligo di non ledere la dignità e il decoro del coniuge [Cass. sent. n. 15557/2008]. Anche una relazione non consumata può sortire questi effetti, tanto da giustificare l’addebito della separazione. Secondo altra pronuncia, le conseguenze legali sono sempre le stesse anche nel caso in cui l’adulterio sia stato tentato ma non sia riuscito a causa del rifiuto da parte del terzo. In buona sostanza, l´infedeltà di uno dei coniugi può integrare da sola violazione dei doveri nascenti dal matrimonio ancorché sia rimasta allo stadio di mero tentativo [Cass. Sent. n. 9472, 07.09.1999].
  3. Addebito della separazione: cos’è. Quando la coppia sposata è in crisi e ritiene che l’unità familiare sia oramai compromessa, è possibile ottenere la separazione personale. Se non si trova un accordo bonario, i coniugi dovranno ricorrere necessariamente al giudice affinché decida sulle condizioni della separazione: l’affidamento della prole; l’assegno di mantenimento ai figli ed, eventualmente, al coniuge; ecc. In sede di separazione giudiziale, uno dei coniugi può chiedere che la separazione sia addebitata all’altro: l’addebito consiste nell’attribuzione della responsabilità della fine dell’unione matrimoniale. Secondo il codice civile il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio [Art. 151 cod. civ.].
  4. 4.      Quando si può chiedere l’addebito? L’addebito della separazione può essere dichiarato dal giudice quando:

•il coniuge ricorrente ne abbia fatto esplicita richiesta;

•sussistano oggettive responsabilità in capo all’altra parte.

Perché si possa addebitare una separazione, dunque, occorre che il ricorrente ne faccia espressa richiesta e che all’altra parte siano riferibili gravi comportamenti che hanno dato causa alla separazione. Sono rilevanti tutte le violazioni degli obblighi sanciti dalla legge, come ad esempio: l’infedeltà, i maltrattamenti (fisici e psicologici), l’opposizione immotivata di un coniuge a che l’altro svolga un’attività lavorativa, l’ingiustificato rifiuto di aiuto o conforto spirituale, l’ingiustificato rifiuto dei rapporti sessuali, il grave stato di infermità non reversibile di uno dei coniugi. Il tradimento coniugale, dunque, è una delle cause che giustificano una pronuncia di addebito della separazione, consistendo in un grave inadempimento dei propri doveri coniugali. Quanto detto, però, non è sempre valido: come ti spiegherò di qui a breve, l’infedeltà potrebbe non giustificare l’addebito della separazione quando si configura solamente come una conseguenza della crisi matrimoniale già in atto.

  1. Infedeltà: quando non comporta l’addebito? Come appena ricordato, affinché si possa addebitare una separazione è fondamentale che la condotta lesiva dei doveri coniugali sia stata la causa e non la conseguenza della crisi. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è praticamente unanime nel sostenere che è il coniuge tradito a dover dimostrare, ai fini dell’addebito della separazione all’altro coniuge, che è stato l’adulterio a rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza; al contrario, il coniuge fedifrago, se vuole evitare l’addebito, deve dimostrare che esso è stato conseguenza di una crisi irreversibile già in atto [Cass. Sent. n. 2059, 14.02.2012]. La violazione di un dovere matrimoniale (quale, appunto, quello di fedeltà), dunque, non comporta automaticamente l’attribuzione dell’addebito, qualora si dimostri che la violazione in oggetto è stata la conseguenza di altro inadempimento commesso per prima dal coniuge che chiede l’addebito. Facciamo un esempio. Tizio e Caia, sposati da tanti anni, vivono da separati in casa perché oramai non possono più sopportarsi. Un giorno, rientrando da lavoro, Caia sorprende Tizio con un’altra donna. Caia allora va dall’avvocato e fa ricorso per ottenere la separazione personale e l’addebito nei confronti di Tizio. Il risultato di questa azione giudiziale può sembrare scontato, ma in realtà non lo è: ed infatti, se Tizio dimostra che con la moglie Caia il rapporto sentimentale era finito da tempo, tanto che ognuno conduceva la propria vita indipendentemente dall’altro e addirittura dormivano già da tempo in camere da letto separate, allora il tradimento rappresenterebbe solamente una delle manifestazioni della crisi matrimoniale, crisi però che era già in atto da molto tempo. Insomma, se il tradimento coniugale è solamente la punta dell’iceberg, allora il giudice potrebbe anche non ritenerlo un fatto talmente grave da giustificare l’addebito. Come detto in precedenza, è fondamentale che la condotta lesiva dei doveri coniugali sia stata la causa e non la conseguenza della crisi. Anche con sentenza più recente la Corte di Cassazione ha stabilito che Il tradimento non è causa di addebito qualcosa la crisi coniugale fosse preesiste e l’infedeltà non sia causa, ma effetto della la crisi già in atto [Cass. Sent. n. 21576/2018].
  2. Cosa comporta la pronuncia di addebito della separazione? Ma perché la pronuncia di addebito della separazione è tanto importante? Quali sono le conseguenze legali di questa decisione del giudice? Il coniuge al quale è stata addebitata la separazione perde il diritto al mantenimento, il quale non gli sarà dovuto dall’altro nemmeno se versa in obiettive condizioni di difficoltà. Continuano a spettargli, invece, gli alimenti, che si differenziano dal mantenimento in quanto servono solamente a garantire i mezzi minimi di sussistenza. Il coniuge a cui è attribuita la separazione per colpa perde altresì i diritti successori nei riguardi del coniuge: in altre parole, il partner a cui è stata addebitata la separazione non può succedere all’altro nel caso di morte. Si tratta di una conseguenza negativa che, in assenza di addebito, si verifica solamente dopo la sentenza di divorzio.
  3. Separazione per colpa: si può chiedere il risarcimento? Al di là dell’addebito e delle sue conseguenze giuridiche, il tradimento coniugale è sempre un evento spiacevole, anche qualora la vita di coppia fosse già compromessa. L’adulterio può assumere contorni ancor più drammatici quando esso si compie con modalità tali da ledere il decoro e la dignità del coniuge tradito: pensa, ad esempio, al marito che pubblicamente si pavoneggia esibendo le sue amanti, umiliando così la povera moglie. In casi del genere, quando la colpa del coniuge è talmente grave da ledere l’onore e la reputazione del partner, oppure da avergli cagionato un vero e proprio danno (ad esempio, psicologico), è possibile ottenere, oltre che l’addebito, anche il contestuale riconoscimento del risarcimento dei danni. Secondo la Suprema Corte, infatti, i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione. Di conseguenza, la palese violazione di tali obblighi, se cagiona la lesione di diritti costituzionalmente protetti, può integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo a un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali [Cass. Sent. n. 18853/2011]. Questo perché la dignità, l’onore, il decoro e la reputazione sono beni giuridici superiori, sempre e comunque protetti dall’ordinamento giuridico e perfino dalla Costituzione stessa; da tanto deriva che ogni loro violazione va sanzionata, nel caso di specie comminando l’obbligo a pagare il risarcimento dei danni.

Mariano Acquaviva   La legge per tutti 16 agosto 2019

www.laleggepertutti.it/293081_tradimento-coniugale-e-pronuncia-di-addebito-della-separazione

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ADOZIONI

Facciamo il punto sulle adozioni internazionali tra aspetti legali psicologici e sociali

Il dibattito sull’immigrazione a volte fa dimenticare il fatto che attraverso le adozioni sono arrivati e risiedono nel nostro Paese da decenni persone straniere che oggi sono affermate professioniste ma che hanno dovuto subire nella loro vita episodi di discriminazione se non di razzismo. La signora Laura che ha chiamato stamani a Prima Pagina dalla provincia di Genova ha ricordato senza acredine alcuni episodi a cui è stata sottoposta molto tempo fa la sua figlia adottiva che oggi svolge con soddisfazione la professione di archeologa; il suo appello era soprattutto volto in positivo per dare coraggio ai ragazzi adottivi e a cercare di evitare situazioni di conflitto con istituzioni e persone con cui si viene a contatto (scuola, vicini ecc.).

In conclusione del suo messaggio riportava come causa di un crescente desiderio di adottare un bambino anche l’infertilità. A questo proposito, l’Istituto Superiore della Sanità ha certificato di recente che in Italia c’è un tasso di infertilità nel 15% delle coppie, con un’incidenza equivalente negli uomini e nelle donne. Un’altra ascoltatrice, Narcisa, nonna di 4 bambini adottati, uno italiano e tre etiopi, ha testimoniato quanto sia bello pur nelle difficoltà trasmettere a bambini o nipoti “acquisiti” il patrimonio di conoscenze ed esperienze di una vita in un passaggio di testimone che giustamente non conosce colori né frontiere. L’occasione per noi a Tutta la città ne parla per fare il punto su questo fenomeno complesso, non privo di elementi critici ma che vale senz’altro la pena di esplorare per la ricchezza potenziale di conoscenze ed esperienze che può portare.

RAI Radio 3 – conduttrice Rosa Polacco

Gli ospiti del 16 agosto 2019

  • Marco Griffini, presidente Ai.Bi – Amici dei Bambini e padre adottivo di tre ragazzi

“Cultura negativa e disinteresse dei Governi che si sono succeduti negli anni. Sono queste le principali cause della crisi delle adozioni internazionali.” – “Oggi quando si parla di adozione internazionale se ne parla in chiave negativa e regna l’ignoranza sull’argomento che viene visto come un problema privato, di una coppia, e non come atto di giustizia nei confronti di un bambino abbandonato: da qui anche l’origine di fenomeni di becero razzismo verificatesi in questi ultimi tempi in Italia nei confronti di alcuni ragazzi adottati”.

  • “Il fatto – poi – che in Italia ci sia ancora un passaggio con il Tribunale per i minorenni che decreta l’idoneità o meno della coppia – che ritengo un retaggio di stampo medievale – la dice lunga sul fatto che le coppie vengono selezionate e non accompagnate” –
  • Donatella Ceralli, responsabile Ciai – Centro Italiano Aiuti all’Infanzia che per primo nel nostro paese si è occupato di adozioni internazionali
  • Alessandra Simonetto, psicologa e psicoterapeuta, è nel Gruppo Adozioni Regione Piemonte Assessorato Sanità
  • Marinella Ferranti, psicologa e psicoterapeuta, ex giudice onorario del tribunale dei minori di Roma, si occupa della preparazione delle coppie che adottano, autrice di Adozioni, troppi pregiudizi e scarsa consapevolezza (Armando)
  • Luciano Moia, caporedattore di Avvenire
  • Radio3        con audio                        16 agosto 2019

https://www.raiplayradio.it/audio/2019/08/Adozioni-internazionali-0e9cc36a-aeb2-4564-9471-2a9bcfb575cf.html

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

Quando il decreto di idoneità non prepara le coppie all’incontro con l’Ente

Aspettative irrealistiche, sconforto di fronte ai primi problemi. Ecco perché una preparazione è necessaria. L’assenza di preparazione nelle coppie è uno dei temi che andrebbero affrontati nell’ambito della adozione internazionale. Capita a volte che le coppie, già in possesso di decreto di idoneità alla adozione da parte del Tribunale dei minorenni, arrivino al primo contatto con l’Ente autorizzato senza sapere a cosa andranno incontro.

Capita, così, che a volte le coppie si presentino con aspettative irrealistiche o che siano immediatamente sconfortati da temi come quello delle problematiche sanitarie. Accade infatti che alcuni aspiranti genitori si presentino al primo appuntamento con l’Ente autorizzato dicendo di volere dei bambini “molto piccoli”, (anche se magari il decreto di idoneità segnala un’età fino a sette anni…). Quello che le coppie non sanno, in questi casi, è che i bambini nella fascia d’età 0-6 anni in adozione internazionale hanno molto spesso delle problematiche di natura sanitaria.

Oppure un’altra richiesta che può capitare è quella di voler adottare due fratelli. Di fratrie (purtroppo) in adozione internazionale ce ne sono. Ed è anche molto difficile trovare per loro una famiglia disposta ad accoglierli. Soltanto che è molto difficile che siano “molto piccoli”, come invece richiede qualche coppia.

            Ma di chi è la colpa? Non certo delle coppie, desiderose di dare amore, per le quali è abbastanza naturale avere delle aspettative, giuste o sbagliate che siano. La verità è che l’adozione internazionale è una realtà alla quale bisogna andare incontro preparati e consapevoli. Purtroppo il decreto di idoneità, obbligatorio, non fornisce questa preparazione e questa consapevolezza, che possono essere forniti da corsi pre-adottivi. Purtroppo sostanzialmente facoltativi.

AIBInews       15 agosto 2019

www.aibi.it/ita/adozione-internazionale-quando-il-decreto-di-idoneita-non-prepara-le-coppie-allincontro-con-lente

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AFFIDI

Bibbiano, avvocati in campo: «Tutelare i diritti del minore»

Su minori e giustizia, gli avvocati non ci stanno a rimanere in disparte. Oggi l’impostazione del nostro diritto minorile è tale per cui, in occasione di un allontanamento coatto di un bambino dalla famiglia secondo l’ex articolo 403 del codice civile, l’avvocato della difesa non ha quasi la possibilità di intervenire. Quanto successo nei mesi scorsi a Bibbiano, ma anche in tante altre situazioni da Nord a Sud – ribadiscono gli avvocati – non deve più capitare. Per questo l’Avvocatura italiana, già nei mesi scorsi, ha approvato un manifesto «per l’effettività della tutela dei diritti e per la salvaguardia della Giurisdizione».

In particolare al n.6 si spiega che «la Giurisdizione si attua mediante le regole e i principi costituzionali del ‘giusto processo’, nel pieno ed effettivo contraddittorio tra le parti in condizioni di parità, davanti ad un giudice sempre ‘terzo, imparziale e professionale’, entro una durata ‘concretamente ragionevole’». Si tratta di una sollecitazione urgente e importantissima, come spiega l’avvocato Giovanni Malinconico, coordinatore dell’Organismo nazionale forense, l’organismo di vertice di rappresentanza politica dell’Avvocatura italiana, che esercita la rappresentanza politica del Congresso nazionale forense, di cui ha il compito di attuare i deliberati, ed elabora progetti e proposte. Sullo sfondo il grande problema dell’ascolto del minore che oggi, secondo quanto previsto dalla legge, avviene senza la presenza né dei familiari né dell’avvocato difensore.

Una scelta dettata da motivi di cautela e di protezione nei confronti del bambino, soprattutto quando si sospetta che il piccolo possa avere subito violenze o maltrattamenti tra le pareti di casa. E il principio sarebbe ineccepibile. Ma il caso Bibbiano, e non solo, ha convinto anche i più garantisti dei garantisti, che non sempre le relazioni dei servizi sociali fotografano situazioni reali, che non sempre il ‘superiore interesse del minore’ è davvero la prima preoccupazione dei terapeuti, che forse talvolta interessi economici o ideologici, finiscono per prevalere. E allora, che fare? «Proprio per questi motivi – riprende Malinconico – le relazioni dei servizi sociali, non essendo fondate su un percorso a cui l’avvocato e il suo consulente abbiano potuto prendere parte, non possono essere concretamente contestata nel merito». Oggi l’unico strumento per opporvisi da parte dell’avvocato difensore sarebbe la querela per falso, al solo fine di provocare un nuovo accertamento, questa volta in sede penale e quindi con garanzie di difesa. «Ma si tratta di uno strumento impegnativo e molto ostile – osserva ancora l’esperto – e quasi nessuno se ne avvale. In alternativa si potrebbe chiedere una Ctu (consulenza tecnica d’ufficio) sulla capacità genitoriale, ma per prassi l’accertamento sarebbe demandato agli stessi servizi sociali, con un evidente cortocircuito».

La posizione infatti non potrebbe essere che quella già delineata. Inoltre questo percorso presuppone una condizione economica della famiglia tale da consentire un incarico rapido e consapevole a un legale e implica il rischio di accollarsi spese ingenti nel caso in cui la querela non trovi riscontro in sede processuale, con la possibilità di una controquerela per diffamazione da parte dei servizi sociali. Assolutamente impensabile per la maggior parte delle famiglie coinvolte nei casi di allontanamento, quasi sempre nuclei disgregati, fragili, in situazioni di marginalità.

«L’Avvocatura – osserva ancora il coordinatore dell’Organismo nazionale forense – ha più volte richiesto che l’ascolto del minore, in ogni caso e seppur in forma protetta, avvenga con la piena garanzia della difesa delle parti e dei loro consulenti, oltre che con una adeguata procedimentalizzazione. E su questo stiamo incentrando la nostra azione, alla luce anche del ‘Manifesto’ di cui abbiamo detto». Tutta da definire anche la figura del curatore del minore, oggi prevista dalla legge, ma di fatto raramente presente. «Noi puntiamo su una riforma che preveda, per i procedimenti in cui sono coinvolti i minori – sottolinea Malinconico – la presenza di avvocati specialisti in diritto di famiglia»

Luciano Moia             Avvenire         14 agosto 2019

www.avvenire.it/attualita/pagine/bibbiano-avvocati-in-campo-tutelare-i-diritti-del-minore

 

Speciale affido minori

L’inchiesta di Bibbiano, che ha provocato la creazione di una commissione d’inchiesta sul sistema di tutele dei minori in Emilia, nella sua drammaticità, ha messo in evidenza tutte le storture e le falle del sistema degli affidi dei minori, che si fondano sulla legge n. 184/4 maggio 1983 e su alcune disposizioni del codice civile.

www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1983-05-17&atto.codiceRedazionale=083U0184&elenco30giorni=false

In particolare la legge speciale contempla l’affido come soluzione estrema da adottarsi solo quando la salute psicofisica e l’educazione dei minori è messa a rischio dall’ambiente famigliare. L’art 403 c.c. invece, sul quale vuole intervenire il Ddl della senatrice Ronzulli, prevede l’allontanamento del minore ad opera dell’autorità pubblica in determinati casi.

Art. 403 Codice civile. Quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all’educazione di lui, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione. (R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-xi/art403.html

Ora, l’affido, se i genitori acconsentono, è disposto dai servizi sociali, ma a renderlo esecutivo è il giudice tutelare. Tuttavia, in casi di urgenza, i servizi sociali decidono in autonomia, informandone successivamente il Tribunale. Un potere eccessivo, da attenzionare, considerato che l’allontanamento dalla casa familiare dovrebbe essere l’ultima ratio. Le modifiche che si intendono apportare al sistema, dalla squadra speciale di giustizia del Ministro Bonafede, all’iniziativa della senatrice Ronzulli, puntano a favorire non solo il rientro dei minori in famiglia in tempi brevi, ma soprattutto a dare supporto alle famiglie in difficoltà per evitare l’allontanamento del minore dal luogo dei suoi affetti.

Commissione d’inchiesta a Bibbiano. Il caso di Bibbiano ha fatto emergere il mondo sommerso degli affidi facili a strutture, spesso legate ad altri soggetti coinvolti nel procedimento di allontanamento familiare e di successivo affido. La regione Emilia però vuole chiarezza e per questo ha istituito una Commissione d’inchiesta, grazie ai voti favorevoli di Pd, Si, Misto, Lega, M5s e Fi. Queste le parole del presidente dell’Emilia Romagna Bonaccini: “E’ la Regione Emilia-Romagna la prima che vuole verità e chiarezza sulla vicenda della Val d’Enza. L’istituzione della Commissione d’inchiesta rappresenta un’assunzione di responsabilità da parte della politica, segnale che io stesso avevo chiesto invitandola a non dividersi sui bambini.”

Affido minori: i dati del 2016 dell’istituto Innocenti di Firenze. I dati disponibili sulla situazione degli affidi in Italia risalgono al 2016, risultato di un’indagine a campione condotta dall’Istituto Innocenti di Firenze dalla quale emerge che in Italia sono più di 26mila i minori in affido in affidamento familiare, ospiti delle strutture residenziali deputate ad accoglierli. Dal grafico emerge che la regione con il maggior numero di minori in affido è la Lombardia, seguita dalla Sicilia e dal Piemonte. Ultima delle lista invece la valle D’Aosta. A incidere sulle differenze numeriche anche le dimensioni e la popolosità delle Regioni. Per quanto riguarda invece la durata dell’affido risulta che nel 53,7% dei casi i minori restano nel limbo dai tre mesi ai due anni, mentre nel 36,9% l’allontanamento dalla famiglia supera addirittura i 4 anni. Nel 38,4% dei casi quando l’affido finisce i minori restano ancora presso famiglia affidataria o una struttura residenziale, solo nel 40% in media rientrano a casa. Dati che, secondo studiosi ed esperti sarebbe in realtà pari al 60% e che non tiene comunque conto della specificità dei minori stranieri non accompagnati, argomento che meriterebbe un approfondimento a parte, viste anche le difficoltà nel monitorare questo fenomeno.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_35556_1.pdf

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_35556_2.pdf

La squadra speciale di giustizia. Qualche giorno fa sono iniziati i lavori per l’istituzione di una squadra speciale di giustizia per la protezione dei minori per provvedere al monitoraggio di tutte le fasi dell’affidamento e alla creazione di una banca dati specifica per le procedure di affido e di adozione.

            Il Guardasigilli Bonafede chiarisce al riguardo che “il risultato che si vuole perseguire è quello di creare un sostegno adeguato alle famiglie in difficoltà, con un’azione sinergica con le altre forze istituzionali coinvolte, che limiti ai casi necessari, secondo quanto stabilito dalla legge, la dichiarazione dello stato di adottabilità del minore”.

La nota della Garante dell’infanzia e dell’adolescenza. Il Garante dell’infanzia e dell’adolescenza, Filomena Albano, ha diramato nei giorni scorsi una nota del 29 luglio 2019, indirizzata alle principali autorità interessate e coinvolte nei procedimenti di affidamento dei minori in cui:

  • Richiama i genitori o chi per essi, a rispettare e a prendere più seriamente l’incarico educativo loro affidato dalla normativa interna e internazionale, nei confronti dei minori;
  • Ribadisce il diritto del minore a vivere in famiglia e a essere mantenuto, educato e sostenuto nelle proprie scelte, ricordando che lo Stato ha il compito di vigilare affinché questo diritto sia tutelato e garantito;
  • Richiede un sistema di controlli sulle strutture in cui vengono collocati i minori, capace di rilevarne anche le criticità e di una raccolta di dati aggiornati sulla condizione e sul numero di quelli dati in affidamento;
  • Rivolge segnalazioni specifiche ai titolari dei poteri di iniziativa legislativa, ai Comuni, all’Autorità giudiziaria, alle Regioni, ai Ministeri del lavoro e delle Politiche sociali, della Giustizia, dell’Economia e delle Finanze, al Presidente del Consiglio, al CSM, alla Scuola Superiore della Magistratura, al CNF e ai Consigli nazionali di assistenti sociali, psicologi e giornalisti.

La Garante ritiene fondamentale avere uno sguardo d’insieme completo e intervenire senza ritardo.

Il punto di forza, quando di parla di problematiche legati ai minori in affidamento è l’informazione trasparente dei dati del fenomeno, per attuare controlli capillari in ogni fase del processo che si conclude con l’allontanamento del minore dalla famiglia, nella quale il minore deve poter tornare e vivere protetto da qualsivoglia forma di violenza.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_35556_3.pdf

Il Ddl sull’affidamento della senatrice Ronzulli. Il Ddl n. 1389 della senatrice Ronzulli, comunicato alla presidenza il 4 luglio 2019, si pone l’obiettivo di mettere l’interesse primario del minore al e il suo diritto a vivere in famiglia al centro della riforma sugli affidi, nel rispetto di quanto sancito dalla Costituzione e dalle più importanti Convenzioni Internazionali. Il sistema attuale prevede l’allontanamento del minore dal nucleo familiare di origine solo in presenza di condotte genitoriali pregiudizievoli del suo stato di salute psico fisica. La prima scelta in questi casi prevede l’affido temporaneo all’interno di un nucleo familiare preferibilmente con figli, in alternativa a un single e come ultima istanza a una comunità.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_35556_4.pdf

Criticità della normativa sugli affidi

            A suo parere il quadro normativo suddetto presenta gravi difetti. Il più delle volte infatti l’affido, da temporaneo diventa permanente, con conseguente difficoltà a far rientrare il minore nella sua famiglia di origine. L’aspetto più preoccupante però riguarda l’eccessivo potere riconosciuto agli assistenti sociali e il fatto che la povertà dei genitori, contrariamente a quanto previsto dalla legge n. 149/28 marzo 2001 venga considerata come un ostacolo alla permanenza del minore in famiglia.

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2001/04/26/001G0206/sg

Si evidenzia inoltre la carenza dei controlli che le procure minorili e le regioni esercitano sulle comunità familiari e sui requisiti necessari al loro accreditamento. Per non parlare delle diversità esistenti a livello regionale per quanto riguarda gli standard minimi richiesti alle comunità familiari e alle competenze necessarie per la loro gestione.

Mancanza di dati e cointeressenza dei magistrati. La cosa più grave però è l’assenza di un sistema di dati unico a livello nazionale relativo agli affidi in grado di fornirne sempre di aggiornati. Mancanze che impedisce di fatto, di sapere quanti minori ogni anno vengono dati in affido. Per non parlare della cointeressenza che lega alcuni magistrati onorari alle case famiglia che impedisce e pregiudica l’imparzialità di giudizio.

Anacronismo legislativo. Nella relazione del Ddl si mette l’accento anche sull’art 403 c.c. ai sensi del quale “Quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all’educazione di lui, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione.”

            Norma superata e che nel tempo ha dato vita a contrasti interpretativi e a prassi applicative discordanti, a tutto danno dei minori. La norma inoltre ha spesso causato l’allontanamento del minore, anche per lunghi periodi, dal proprio ambiente famigliare, prima di approfondire le ragioni del provvedimento, rivelatesi in seguito inesistenti.

Cosa prevede il Ddl di riforma sull’affidamento. Passando al testo del Ddl, queste le principali novità che si intendono apportare alla normativa sull’affidamento dei minori:

  • Parere vincolante del PM per gli affidi d’urgenza, da confermare con decisione motivata;
  • Definizione dei compiti spettanti ai genitori e all’affidatario o alla struttura anche in caso di affidamento familiare consensuale;
  • Obbligo di notificare il provvedimento motivato del PM a genitori e parenti del minore, per permettere loro di essere consapevoli del fatto che il giudizio potrebbe concludersi con un provvedimento in grado d’incidere sul rapporto con il minore;
  • Specificazione dei compiti del tribunale nel procedimento sullo stato di abbandono del minore;
  • Modifiche all’art. 403 c.c. in materia di allontanamento del minore e introduzione di un articolo sulle indagini dei servizi sociali che devono essere effettuate prima dell’apertura del procedimento e in contraddittorio con i genitori;
  • Più trasparenza in caso di affidamento dei minori alle case famiglia, istituzione di un Osservatorio ad hoc sulle case famiglia, a cui spetta il compito di elaborare un tariffario nazionale dei costi per il mantenimento dei minori nelle strutture;
  • Istituzione di un registro degli affidamenti per garantire un controllo in tempo reale del bambino e delle sue condizioni,
  • Criteri di incompatibilità dei magistrati onorari minorili, innalzamento a rango legislativo di quelle individuate dal CSM e estensione ai familiari del magistrato onorario incaricato.

Annamaria Villafrate            newsletter studio Cataldi       12 agosto 2019

www.studiocataldi.it/articoli/35556-speciale-affido-minori.asp

 

Case famiglia e comunità educative. Perché è bene non fare confusione

Si tratta in entrambi i casi di luoghi di accoglienza temporanea. Ma che hanno le loro peculiarità. Se ne parla spesso, specialmente di recente. Le case famiglia e le comunità educative sono tornate prepotentemente all’attenzione del dibattito pubblico.

Un’attenzione che è cresciuta soprattutto dopo lo scandalo di Bibbiano. Eppure la loro è una realtà poco conosciuta dal pubblico generalista. Che cosa sono allora le case famiglia? E le comunità educative? E quale è la differenza?

      Bisogna cominciare col dire che spesso, nel dibattito, si fa confusione. Una confusione che nasce dal fatto che entrambe sono innanzitutto luoghi di accoglienza temporanea, nei quali il minore fuori famiglia, preso in carico dal sistema istituzionale, viene accolto nell’attesa di essere accompagnato verso un progetto di affido familiare o di reinserimento nel nucleo originario, dopo un percorso seguito dai genitori naturali.

      Le due realtà dovrebbero però rispondere a diversi bisogni dei bambini. Questo sebbene entrambe si configurino come servizi di accoglienza minori. Ma la differenza peculiare è che nella casa famiglia vive in modo stabile e gratuito una famiglia (solo una coppia o una coppia con figli), oppure in alcune esperienze la casa famiglia è retta anche da una persona singola ma sempre residente. Questi genitori possono essere supportati da coordinatori, educatori, psicologi, professionisti a supporto delle molte accoglienze che le famiglie realizzano.

      Nelle comunità educative, invece, le figure adulte sono operatori che turnano nell’arco delle 24 ore. Le case famiglia, generalmente, non possono accogliere più di sei minori (alcune regioni prevedono il numero massimo di otto ma compresi eventuali figli minori della coppia), mentre le comunità possono accogliere fino a 10-12 minori.

      Solitamente nelle case famiglia sono inseriti bambini fino ai 18 anni di età (21 in caso di prosieguo amministrativo), con una permanenza che può andare da pochi giorni fino ad un massimo di due anni più l’eventuale proroga. Nei casi di minori fino a tre anni, quando la madre non è in grado di prestare da sola le cure e le attenzioni di cui il figlio necessita, si auspica l’ingresso della mamma insieme al bambino.

      Nella comunità educativa, in teoria, in base all’art.2 comma 2 della legge 149 del 2001, possono essere accolti minori dai sei anni in su. “In teoria”, perché la legge parla genericamente di comunità di tipo famigliare e oggi le comunità educative vengono “spacciate” proprio come di tipo famigliare, semplicemente in virtù delle dimensioni degli alloggi.

      Un criterio meramente quantitativo, sebbene la legge chiarisca che un bambino allontanato dalla propria famiglia debba essere inserito come prima soluzione in un’altra famiglia, poi in una comunità di tipo famigliare, poi in un istituto, utilizzando terminologie ormai da superare anche nel testo di legge.

      Questi sono i motivi per cui servirebbe un reale riconoscimento giuridico per le case famiglia, affinché i bambini allontanati temporaneamente dai genitori naturali possano veramente sentirsi parte di un nucleo famigliare anche quando i loro problemi sono tali da rendere difficile l’inserimento in una famiglia affidataria, godendo così di tutta la professionalità necessaria senza privare i bambini della fondamentale relazione figlio-genitore.

      Le comunità educative dovrebbero invece servire solo per i bambini estremamente provati, con bisogni speciali e per il tempo strettamente necessario a rinforzarli prima di essere inseriti in una famiglia affidataria.

AIBInews 16 agosto 2019

www.aibi.it/ita/case-famiglia-e-comunita-educative-perche-e-bene-non-fare-confusione

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AFFIDO CONDIVISO

Affidamento condiviso: ora conta anche l’età?

        A prescindere dalla sorte del governo, nel nuovo testo di riforma dell’affidamento condiviso si va incontro, tra l’altro, ad un ancor maggiore potere discrezionale dei giudici e alla divisione dei figli per fasce di età.

La crisi di governo è stata salutata entusiasticamente da quella parte sociale e politica che avversava il Ddl 735 (Pillon) nel desiderio di consolidare e legittimare il sistema monogenitoriale oggi prevalente nei fatti, anche se non previsto dalla legge. Anche chi scrive si rallegrerebbe del suddetto accantonamento – sia pure per le ragioni opposte – se non fosse convinto che le probabilità di successo delle tendenze conservatrici non si sono affatto ridotte. Depongono a favore di questa tesi sia la matrice di quelle posizioni (una parte, purtroppo largamente maggioritaria, della magistratura e dell’avvocatura) sia la remissività, di fronte alle pressioni di tali forti poteri, da parte di chi ha dichiarato di voler andare nel senso opposto, come dimostrano i contenuti annunciati per la stessa riscrittura del Ddl 735. Né è sperabile che le cose cambino dopo un eventuale rinnovo del Parlamento, visto che i suddetti poteri forti non ne saranno toccati.

Affidamento condiviso: il nuovo testo unificato. Pertanto, il nuovo testo unificato, pur avendo perduto operatività attuale in conseguenza della crisi, mantiene un pieno interesse a livello diagnostico, sul piano delle previsioni che si possono effettuare alla luce delle numerose anticipazioni sui suoi contenuti, confermate dallo stesso relatore.

Preoccupano, in particolare, due aspetti:

  1. L’ancor maggiore aleatorietà della decisione. Già, infatti, nel Ddl 735 si segnalava una imponente possibilità di deroghe dal principio della parità di ruolo dei genitori, con l’aggravante di non discendere da oggettive e verificabili condizioni, ma da opinabili valutazioni del magistrato di turno, sulla base delle sue personali convinzioni e conoscenze di natura extra giuridica (pedagogia, psicologia e simili). Adesso la sfera della discrezionalità sembra avere ampiamente accresciuto il suo raggio, tanto che, ad es., si ipotizza che il giudice sia tenuto a ricercare una pariteticità solo “tendenziale”; e, ovviamente, solo dopo avere superato le accennate soggettive ragioni ostative. Naturalmente nulla di sorprendente in questa maggiore libertà del giudice (maggiore anche rispetto alla legge in vigore, si badi bene), ovvero decremento della certezza del diritto, ovvero probabilissimo incremento del contenzioso. Ogni categoria professionale nel momento in cui è chiamata ad esprimere pareri de iure condendo non può utilizzare che il proprio punto di vista e nella fattispecie lo stesso relatore pochi giorni prima dell’apertura della crisi informava che “Come già comunicato nelle scorse settimane, abbiamo lavorato con un team di tecnici (giudici, avvocati, psicologi) al testo unificato”. In altre parole, si confermava che le soluzioni del nuovo testo erano state partorite dagli stessi soggetti responsabili del problema.
  2. La divisione della prole per fasce d’età. Nel dettaglio, ancora più sconcertante appare la proposta di dividere la prole per fasce di età con diverso destino giuridico. Certamente, infatti, è del tutto naturale che, a posteriori, in corrispondenza di età diverse cambi la frequenza statistica dei vari regimi possibili: ma sul campo, non a priori, per legge. Si viene, invece, informati che “nel nuovo testo sono fatti salvi i principi cardine della riforma presenti nel contratto di governo: bigenitorialità, tempi paritetici di frequentazione (con adeguate distinzioni per fasce d’età), doppio domicilio, mantenimento diretto”. Espresse le inevitabili riserve sulla promessa garanzia di pariteticità (nella larga maggioranza dei casi resterebbe il genitore collocatario e con lui salta il mantenimento diretto e tutto l’equilibrio nell’impianto educativo), si aggiunge l’inimmaginabile frazionamento giuridico e pratico dei figli. Integrando, infatti, questa recente conferma del relatore con precedenti anticipazioni l’idea sembra essere quella di creare passaggi di regime di frequentazione in funzione di soglie di età: 0-3 anni, 3-12, 12-18, >18. In sostanza, ufficializzazione della maternal preference per i pernottamenti sotto i 3 anni, graduale e prudente ampliamento fra i 3 e i 12 anni, per lasciare al figlio ultradodicenne libertà di scelta del genitore prevalente. Anche ammettendo che il testo finale avrebbe ammesso formulazioni non rigide nella gestione delle soglie, le eventuali eccezioni dipenderebbero ancora una volta dall’apprezzamento dell’interesse del minore da parte del giudice. Ovvero nessuna garanzia, in esatta contraddizione con gli impegni del Contratto di Governo e con i proclami dei programmi elettorali.

A questa prima osservazione di carattere generale non si può non aggiungere una forte perplessità sotto il profilo costituzionale, la cui evidenza è lasciata al lettore. E non mancano le criticità specifiche, applicative, di una impostazione del genere. Anche mettendo da parte il messaggio discriminatorio, contrario alla parità di genere, che trasmette un modello di questo tipo; anche mettendo da parte l’atroce imbarazzo in cui verrebbe a trovarsi il figlio dodicenne; anche prescindendo dall’inevitabile “effetto di trascinamento” per cui in sostanza il regime precedente finirebbe fatalmente per protrarsi in quello successivo…come non chiedersi come disciplinare le frequentissime situazioni familiari in cui i figli sono più di uno, chi sopra e chi sotto una determinata soglia? Sottoporli a regimi diversi, ossia separarli? Oppure sottoporre i più grandi al regime del più piccolo?

Concludendo, se davvero esistono, oggi nel paese e domani nel Parlamento, soggetti politici intenzionati ad ascoltare le richieste delle famiglie separate in tutte le sue maggioritarie componenti (la riforma del 2006 nasce dal basso e le recenti audizioni delle associazioni di genitori e figli ne hanno confermato i principi) occorre che si riparta da quei testi di base popolare, del tutto simili tra loro (ovviamente aggiornati: per il centro-destra Valentino et alii, per i 5 Stelle Bonafede et alii per il PD Lumia et alii), tecnicamente ineccepibili, che nelle ultime legislature avevano ottenuto una larga convergenza delle varie forze politiche, sfiorando l’approvazione. Quanto meno si costringerà a venire allo scoperto chi li avversa, con i reali motivi.

Marino Maglietta      studio Cataldi 17 agosto 2019

www.studiocataldi.it/articoli/35637-affidamento-condiviso-ora-conta-anche-l-eta.asp

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ASSEGNO DIVORZILE

Assegno di divorzio: le precisazioni della Cassazione

Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 21228, 9 agosto 2019

La Cassazione accoglie solo il primo motivo del ricorso presentato da un coniuge obbligato a pagare alla ex moglie un assegno divorzile di 300 euro. Il ricorso offre alla Suprema Corte l’occasione per ribadire e precisare alcuni dei criteri fissati dalla nota sentenza del 2017 e dalla SU del 2018 per il riconoscimento e la commisurazione dell’assegno di divorzio.

  1. La vicenda processuale. Il giudice di secondo grado respinge l’appello avverso una sentenza del tribunale che dichiara la cessazione degli effetti civili del matrimonio e la disposizione, a carico di uno dei coniugi, di un assegno divorzile di euro 300. La Corte d’appello, nel confermare quanto deciso in primo grado osserva che:
  • Durante il matrimonio la coppia godeva di un buon tenore di vita grazie al patrimonio immobiliare di cui disponeva, allo stipendio del marito, Ufficiale della Guardia di Finanza e alle entrate della moglie che, nei primi anni del matrimonio aveva svolto attività di parrucchiera, per poi dedicarsi solo alla famiglia;
  • Si doveva accertare se la moglie potesse mantenere lo stesso tenore con i mezzi attuali e potenziali;
  • La donna non aveva oneri locativi da sostenere perché proprietaria di diverse unità immobiliari e poiché svolgeva attività di parrucchiera presso il proprio e il domicilio delle clienti;
  • I guadagni derivati da tale attività dovevano tuttavia dovevano considerarsi modesti, per cui la donna non poteva mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, ragione per la quale aveva diritto all’assegno divorzile;
  • Il marito doveva mantenere il figlio nato da una nuova relazione.

Il soggetto obbligato ricorre in Cassazione, ma questa con ordinanza rinvia la causa in pubblica udienza per verificare la compatibilità della sentenza con i criteri fissati dalla SU n. 18287/2018 per la quale, la funzione riequilibratrice dell’assegno non deve ripristinare il tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma è finalizzata a riconoscere il contributo apportato dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e personale dei coniugi.

  1. I criteri per la determinazione dell’assegno divorzile. Gli Ermellini con sentenza accolgono solo in parte il ricorso, ricordando come la Cassazione n. 11504/2017 abbia abbandonato il criterio del tenore di vita ai fini della commisurazione dell’assegno divorzile spettante al coniuge più debole, per introdurre quello dell’autosufficienza del richiedente.

La SU del 2018 ha poi integrato i principi formulati dalla sentenza del 2017 con ulteriori criteri di cui il giudice deve tenere conto nel riconoscere e commisurare l’entità dell’assegno divorzile, che conserva la sua funzione assistenziale, mentre in altri svolge un ruolo compensativo-perequativo.

            Ne consegue che, per la Cassazione, nell’esaminare la domanda di assegno il giudice deve valutare:

  • Se dopo il divorzio si è creata una situazione di “rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale”;
  • Se, rilevata una situazione di disparità, il soggetto più debole versi in uno stato di non autosufficienza che non deve essere parametrata alla mera sussistenza, ma che deve tenere conto della situazione e del contesto in cui vive il richiedente;
  • Se la condizione di rilevante disparità non sia il frutto di decisioni endofamiliari, di modo che alla fine del matrimonio uno dei due si potrebbe trovare in una situazione diversa da quella a cui avrebbe potuto ambire;
  • Come irrilevante lo squilibrio economico derivante dalla maggiore attitudine di uno due coniugi a produrre maggiore ricchezza;
  • La durata del matrimonio, l’età del soggetto richiedente, il contributo alla formazione del patrimonio familiare e coniugale al fine di riconoscere all’assegno la sua funzione riequilibratrice, che deve mirare a mettere il coniuge debole nella stessa posizione in cui si sarebbe trovato se non avesse affrontato il sacrificio che gli è stato richiesto.
  • Altro elemento da considerare il regime patrimoniale scelto dai coniugi, che da solo potrebbe compensare la posizione di svantaggio del coniuge richiedente.
  • Senza dimenticare, nell’accordare l’assegno divorzile, la formazione di una nuova famiglia da parte di uno o di entrambi.
  1. Il principio di diritto. “In definitiva il giudice deve quantificare l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, ma in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l’indipendenza economica del coniuge non autosufficiente, intendendo l’autosufficienza in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza, ed inoltre, ove ne ricorrano i presupposti, a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato, in funzione di contribuzione ai bisogni della famiglia, a realistiche occasioni professionali-reddituali, attuali o potenziali, rimanendo in ciò assorbito, in tal caso, l’eventuale profilo assistenziale.”

Annamaria Villafrate            news studio Cataldi    16 agosto 2019

www.studiocataldi.it/articoli/35612-assegno-di-divorzio-le-precisazioni-della-cassazione.asp

 

La mia ex si è lasciata col compagno: devo mantenerla di nuovo?

La nascita di una nuova convivenza di fatto tra l’ex moglie e un altro partner fa cessare il diritto all’assegno di mantenimento. Ma che succede se i due smettono di convivere?

            Qualche anno fa hai divorziato dalla tua ex moglie. Così, su ordine del giudice, ogni mese le hai versato un assegno di mantenimento visto che il suo reddito è molto più basso del tuo. Dopo poco, lei è andata a vivere con un altro uomo e, da allora, su autorizzazione del giudice a cui avevi fatto ricorso, hai smesso di pagarle gli alimenti. Questa relazione, però, è finita dopo poco tempo. Tra i due le cose non sono andate bene, forse proprio per colpa del caratteraccio della tua ex che tu conosci bene. Così ora lei è tornata a bussare alla tua porta per chiederti di pagarle di nuovo il mantenimento. Vorresti evitare questo ennesimo salasso, anche perché è il momento che lei provveda a trovarsi un lavoro. Come puoi fare per respingere le sue richieste?

Ti rechi dal tuo avvocato e gli chiedi: la mia ex si è lasciata col nuovo compagno. Devo mantenerla di nuovo? Se il tuo legale conosce bene la giurisprudenza degli ultimi anni ti risponderà pressappoco in questo modo.

Nuova convivenza: devo pagare l’assegno di mantenimento? La nascita di un nuovo nucleo familiare – anche se non fondato sul matrimonio – determina la cessazione del diritto al mantenimento da parte dell’ex coniuge. Se questi, infatti, va a vivere oppure ospita un nuovo partner e tra i due si instaura una convivenza more uxorio, ossia improntata sugli stessi doveri di fedeltà, collaborazione e stabilità tipici delle coppie coniugate, si assume la responsabilità della propria scelta. Risultato: non può pretendere di gravare più sull’ex marito.

La cessazione del diritto al mantenimento non consegue in automatico, ma necessita di un ricorso al giudice. La decisione del magistrato avrà effetto retroattivo a partire dalla data in cui è iniziata la nuova relazione “di fatto” tra i due, con obbligo per l’ex moglie di restituire le somme nel frattempo ricevute. Il marito, però, non può interrompere, di propria iniziativa, il versamento del contributo mensile se prima non ha ottenuto un provvedimento del tribunale con cui viene dichiarata ufficialmente la cessazione del diritto al mantenimento.

Le prove per dimostrare che l’ex moglie convive stabilmente. Si pone il problema di dimostrare che l’ex moglie convive stabilmente con un nuovo partner. Lo si può fare verificando in Comune l’eventuale comune residenza dei due nuovi amanti. Sempre al Comune, è possibile chiedere uno stato di famiglia dell’ex moglie e verificare se questa si è registrata nello stesso nucleo familiare del nuovo partner convivente. Si può poi incaricare un’agenzia investigativa che rilevi le mosse dei due soggetti e, con fotografie, dimostri che questi vivono e dormono insieme.

            La Cassazione [Cass. Sent. n. 6009/2017] non richiede la dimostrazione di una «relazione amorosa» tra l’ex moglie e il nuovo convivente, potendo bastare anche un rapporto platonico. Una pronuncia del 2017 stabilisce, infatti, che la semplice coabitazione con un uomo da parte dell’ex moglie fa perdere a quest’ultima il diritto all’assegno anche se lei dichiara che si tratta di affettuosa amicizia e non di convivenza “di fatto” (cosiddetta convivenza more uxorio).

Dall’altro lato, un’ulteriore sentenza [Cass. Sent. n. 2732/2018] ha stabilito l’irrilevanza della stessa coabitazione, potendosi avere una famiglia di fatto anche tra due persone che, magari per motivi di lavoro, vivono in luoghi diversi. È vero che la perdita dell’assegno è tale solo in presenza di una nuova relazione stabile e continuativa, ma non è necessaria la convivenza sotto lo stesso tetto al fine di potersi definire coppia. Ciò che conta, affermano i giudici della Suprema Corte, è l’esistenza di un nuovo legame, di un progetto comune, al di là della coabitazione che potrebbe essere impedita dalle più svariate ragioni di lavoro o (calcoli) personali. Infatti «può esistere una famiglia di fatto o una stabile convivenza, intesa come comunanza di vita e di affetti, in un luogo diverso rispetto a quello in cui uno dei due conviventi lavori o debba, per suoi impegni di cura e assistenza, o per suoi interessi personali o patrimoniali, trascorrere gran parte della settimana o del mese, senza che per questo venga meno la famiglia». Anche in tali casi, quindi, si perde l’assegno di mantenimento.

            Se la nuova relazione dell’ex moglie finisce, devo pagare di nuovo gli alimenti? Abbiamo appena detto che la nascita di una nuova famiglia, anche di fatto, da parte dell’ex coniuge che percepisce l’assegno di mantenimento determina la cessazione di tale diritto. Ma non solo: tale diritto si perde definitivamente e non ritorna in vita neanche se la nuova relazione cessa, anche dopo pochi giorni.

Settimio e Paola si separano e poi divorziano. Settimio versa a Paola 500 euro al mese di mantenimento. Dopo tre mesi dal divorzio, Paola ospita a casa sua un amico. Settimio viene a sapere di ciò e monitora la situazione. Il nuovo compagno finisce per trasferirsi definitivamente da Paola. Così, dopo sei mesi, Settimio si rivolge al tribunale per chiedere di revocare l’ordine di pagare il mantenimento. Subito dopo tre mesi da quando Settimio cita in giudizio l’ex moglie, il nuovo compagno va a vivere altrove. Sacrificio inutile dice il giudice: ormai, Paola ha perso per sempre il diritto a ottenere gli alimenti dall’ex marito.

Il diritto all’assegno di mantenimento resta così definitivamente escluso, non potendo essere invocato nuovamente se la relazione post matrimoniale si interrompe. Il rischio di una cessazione del nuovo rapporto, cioè, non può gravare sull’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo. È quanto chiarito dal Tribunale di Savona – sezione civile [sent. n. 150, 15 febbraio 2019].

È ormai consolidato l’orientamento per il quale «l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge». In tal caso poi, puntualizza il collegio, il «diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso». Ciò vale a dire che la formazione di una famiglia di fatto, essendo frutto di una scelta esistenziale, libera e consapevole, «si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo».

La legge per tutti       12 agosto 2019                      Sentenza

www.laleggepertutti.it/296596_la-mia-ex-si-e-lasciata-col-compagno-devo-mantenerla-di-nuovo

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI

Omesso mantenimento: reato anche se figli nati fuori dal matrimonio

Corte costituzionale, sentenza n. 189, 18 luglio 2019

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2019&numero=189

Il nuovo art. 570-bis codice penale abbraccia, oltre il fatto compiuto dal «coniuge», anche quello compiuto dal genitore nei confronti del figlio nato fuori dal matrimonio. Anche dopo l’entrata in vigore del D.lgs. n. 21 del 2018, vige l’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006.

E’ quanto afferma la Corte Costituzionale con sentenza 18 luglio 2019, n. 189.

  1. L’ordinanza di rimessione. Nello specifico, il Tribunale ordinario di Nocera Inferiore, con ordinanza del 26 aprile 2018, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 570-bis del codice penale, «nella parte in cui esclude dall’ambito di operatività della disciplina penale ivi prevista i figli di genitori non coniugati», premettendo di essere chiamato a giudicare della responsabilità penale di una persona imputata del reato di omessa prestazione dei mezzi di assistenza ai figli previsto dall’art. 570, secondo comma, numero 2, cod. pen., per non aver versato l’assegno mensile stabilito in favore dei figli nati fuori dal matrimonio, facendo mancare a questi i mezzi di sussistenza.

Il rimettente osservava che nel corso del giudizio era risultato provato che l’imputato, in seguito alla interruzione della convivenza, non aveva versato l’assegno mensile stabilito dal tribunale per i minorenni nei confronti dei figli, ma la ex convivente aveva sempre provveduto alle loro necessità, dovendosi pertanto escludere lo stato di bisogno dei medesimi, che costituisce implicito presupposto del delitto contestato all’imputato. Il giudice rimettente, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, aveva pertanto invitato le parti a concludere anche in relazione alla possibile diversa qualificazione del fatto quale violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio, ai sensi dell’art. 570-bis cod. pen., applicabile ratione temporis ai fatti di causa, posti in essere a partire dal maggio 2013 con condotta tuttora perdurante.

            Rilevava infatti il giudice a quo che tale fattispecie di reato è stata introdotta dall’art. 2, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103». Peraltro, essa si limiterebbe a riprodurre le previgenti disposizioni penali di cui all’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e all’art. 3 della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), abrogate dall’art. 7, lettere b) e o), del d.lgs. n. 21 del 2018, con conseguente continuità nel rapporto di successione nel tempo tra le predette disposizioni normative, trattandosi di un limitato diverso collocamento ordinamentale delle stesse.

            Tuttavia, il rimettente evidenziava come il nuovo art. 570-bis cod. pen. non contenga alcun riferimento, neppure implicito, alla disciplina dei rapporti dei figli con i genitori non coniugati.

Art. 570-bis. Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio. Le pene previste dall’articolo 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli

            Tale lacuna determina, ad avviso del giudice a quo, l’incompatibilità della disposizione con l’art. 3 Cost. per violazione del principio di uguaglianza e disparità di trattamento tra la tutela penale prevista per i figli di genitori coniugati rispetto alla minore tutela apprestata in favore dei figli nati fuori dal matrimonio. Il rimettente sottolineava in proposito come, nel vigore della fattispecie di reato di cui all’art. 3 della legge n. 54 del 2006, una lettura sistematica e costituzionalmente orientata delle disposizioni della legge consentisse di equiparare, anche dal punto di vista penale, la tutela accordata in favore dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati in costanza di matrimonio. Detta estensione non sarebbe oggi più possibile, in ragione del chiaro dato letterale della disposizione censurata.

            Una tale situazione normativa sarebbe, ad avviso del rimettente, distonica rispetto «alla totale equiparazione dello status di figlio avvenuta in sede civile» per effetto del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), con conseguente «irragionevole ed ingiustificata diversità di trattamento nell’ambito dei rapporti tra genitori e figli nati in costanza o al di fuori del matrimonio in palese contrasto con il principio di eguaglianza formale e sostanziale, consacrato nell’art. 3 Cost.».

            Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni predette siano dichiarate inammissibili, in quanto il giudice rimettente non avrebbe esperito un tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata. Il giudice a quo, infatti, non avrebbe attribuito il giusto rilievo alla circostanza che l’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006, in forza della quale le disposizioni della predetta legge si applicano anche ai procedimenti relativi a figli di genitori non coniugati, è ancora vigente. La norma censurata, ove letta in combinato disposto con l’art. 4 della legge n. 54 del 2006, non precluderebbe dunque una interpretazione costituzionalmente orientata, che consenta di ritenere sanzionabile con le pene previste dall’art. 570-bis cod. pen. anche la violazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli nati fuori dal matrimonio.

            Nelle more, venivano sollevate identiche questioni di legittimità costituzionale anche dalla Corte d’appello di Milano, dalla Corte di appello di Trento e dal Tribunale ordinario di Civitavecchia.

            Preliminarmente, la Consulta ha disposto la riunione dei predetti giudizi, che pongono questioni analoghe, e si fondano su argomenti in larga misura comuni. In effetti, tutte le ordinanze censurano nella sostanza il nuovo art. 570-bis cod. pen., introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 21 del 2018, nella parte in cui – sostituendo l’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e l’art. 3 della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), contestualmente abrogati dall’art. 7, comma 1, lettere b) e o), del medesimo d.lgs. n. 21 del 2018 – avrebbe determinato la parziale abolitio criminis dell’omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione dei figli (minorenni, ovvero maggiorenni ma ancora non autosufficienti) nati fuori dal matrimonio; condotta che in precedenza era ricompresa – secondo l’interpretazione fatta propria dalla giurisprudenza prevalente della Corte di cassazione – nell’alveo applicativo dell’abrogato art. 3 della legge n. 54 del 2006.

            Tale parziale abolitio criminis avrebbe determinato, secondo i giudici a quibus, il contrasto delle disposizioni censurate con una pluralità di parametri costituzionali, di volta in volta identificati dalle singole ordinanze di rimessione negli artt. 3, 25, secondo comma, 30 e 76 Cost..

  1. Il quadro normativo e giurisprudenziale. Nel decidere sulla questione prospettata, la Corte Costituzionale ricostruisce in via preliminare il quadro normativo e giurisprudenziale sotteso alle medesime.  (…).          Il nuovo art. 570-bis cod. pen., peraltro, indica espressamente come soggetto attivo del reato il solo «coniuge». Ciò ha indotto i giudici rimettenti a concludere che l’introduzione della nuova norma abbia determinato, in realtà, una parziale abolitio criminis con riferimento alla condotta del genitore nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio: condotta che la giurisprudenza dominante considerava abbracciata dalla fattispecie criminosa di cui all’art. 3 della legge n. 54 del 2006, grazie alla clausola di estensione di cui all’art. 4, comma 2, della medesima legge, ma che oggi non potrebbe più essere considerata compresa nella formulazione letterale del nuovo art. 570-bis cod. pen.. Di qui le questioni di legittimità costituzionale della nuova disposizione, nonché della disposizione del D.lgs. n. 21 del 2018 che l’ha introdotta e di quelle che hanno abrogato le precedenti incriminazioni, in relazione ai parametri poc’anzi menzionati.
  2. La decisione della Corte costituzionale. Nel merito, le questioni relative all’art. 570-bis cod. pen. nonché agli artt. 2, comma 2, lettera c), e 7, comma 1, lettera o), del d.lgs. n. 21 del 2018, sollevate in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 76 Cost. non sono tuttavia fondate, nei termini che seguono.

Le questioni risulterebbero, invero, fondate ove si accogliesse la premessa interpretativa da cui muovono tutti i rimettenti, relativa all’allegata impossibilità di estendere l’incriminazione di cui al nuovo art. 570-bis cod. pen. all’ipotesi dell’inosservanza degli obblighi di natura economica nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, in precedenza ricompresa nell’abrogata incriminazione di cui all’art. 3 della legge n. 54 del 2006.

            Il criterio di delega di cui all’art. 1, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017 che vincolava il legislatore delegato  era infatti funzionale all’attuazione, sia pure parziale, del cosiddetto principio della «riserva di codice», e cioè alla riconduzione nell’alveo del codice penale di incriminazioni in precedenza disperse in varie leggi speciali; principio a sua volta inteso a garantire «una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali» (si veda la relazione governativa allo schema di decreto legislativo recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q, della legge 23 giugno 2017, n. 103»). Nella medesima relazione governativa si precisava peraltro che – conformemente al chiaro intendimento del legislatore delegante, risultante dallo stesso criterio di delega in parola – il Governo aveva proceduto a una mera operazione di «riordino» della materia penale, «ferme restando le scelte incriminatrici già operate dal legislatore», senza alcuna variazione – dunque – dell’area applicativa delle incriminazioni già esistenti nelle varie leggi speciali interessate dall’intervento di riordino, e il cui contenuto si era inteso semplicemente trasferire nelle corrispondenti nuove disposizioni del codice penale.

            Il Governo non avrebbe d’altra parte potuto, senza violare le indicazioni vincolanti della legge delega, procedere a una modifica, in senso restrittivo o estensivo, dell’area applicativa delle disposizioni trasferite all’interno del codice penale; né avrebbe potuto, in particolare, determinare – in esito all’intrapreso riordino normativo – una parziale abolitio criminis con riferimento a una classe di fatti in precedenza qualificabili come reato, come quella lamentata da tutte le odierne ordinanze di rimessione.

            La recente giurisprudenza della Corte di cassazione, sopravvenuta alle ordinanze di rimessione, ha tuttavia ritenuto che tale supposta abolitio criminis non si sia, in realtà, verificata. La Corte di cassazione ha, infatti, sottolineato la perdurante vigenza – anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 21 del 2018 – dell’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006. Il rinvio che tale disposizione («Le disposizioni della presente legge si applicano anche […] ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati») operava, secondo la giurisprudenza anteriore al d.lgs. n. 21 del 2018, all’art. 3 della legge n. 54 del 2006, dovrebbe oggi intendersi come riferito al nuovo art. 570-bis cod. pen., che abbraccerebbe così – oltre al fatto compiuto dal «coniuge» – anche quello compiuto dal genitore nei confronti del figlio nato fuori dal matrimonio (Cass., n. 56080 del 2018; nello stesso senso, Cass., n. 55744 del 2018 e Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 5 dicembre 2018-25 febbraio 2019, n. 8297).

            Una tale soluzione non solo sarebbe l’unica armonizzabile con il sistema normativo, univocamente orientato alla piena equiparazione tra la posizione dei figli legittimi e nati fuori dal matrimonio; ma troverebbe altresì conforto nell’art. 8 dello stesso D.lgs. n. 21 del 2018, a tenore del quale «[d]alla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall’articolo 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allegata al presente decreto».

            Dal momento che tale Tabella stabilisce la correlazione dell’art. 570-bis cod. pen. ai delitti di omessa corresponsione dell’assegno divorzile (art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970) e di omesso versamento del mantenimento dei figli in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio (art. 3 della legge n. 54 del 2006), il richiamo a quest’ultima disposizione implicitamente operato dall’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006 – da interpretarsi quale rinvio “dinamico” al contenuto dell’intera legge n. 54 del 2006 – dovrebbe oggi intendersi come riferito, per l’appunto, all’art. 570-bis cod. pen., nel quale è stato integralmente trasfuso il contenuto del previgente art. 3.

            A giudizio della Corte Costituzionale adita, tale interpretazione – ormai stabilmente adottata dalla giurisprudenza di legittimità – trova fondamento nella legge, e in particolare nel combinato disposto di due norme (l’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006 e l’art. 8 del d.lgs. n. 21 del 2018) che a loro volta si integrano con la disposizione incriminatrice di cui all’art. 570-bis cod. pen., determinando l’estensione del relativo ambito applicativo.

            Essa consente dunque di superare, senza alcuna indebita estensione analogica della norma incriminatrice, i dubbi di costituzionalità prospettati, incentrati sulla supposta depenalizzazione delle condotte di violazione degli obblighi di natura economica nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio.

  1. Il monito della Corte al Legislatore. Non può, peraltro, questa Corte esimersi dal rimarcare come la necessità, per il destinatario del precetto di cui all’art. 570-bis cod. pen., di ricostruirne il contenuto alla luce del combinato disposto di due ulteriori disposizioni situate al di fuori del codice penale – attraverso un’operazione ermeneutica ineccepibile, ma certo non di solare evidenza, come dimostrano le ben sette ordinanze di rimessione che avevano ritenuto impossibile pervenire de lege lata al risultato cui è infine giunta la Corte di cassazione – risulti in definitiva distonica rispetto allo scopo, dichiarato dal legislatore delegante, di garantire ai consociati «una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni» attraverso la sia pur parziale attuazione del principio di «riserva di codice».

Tale considerazione dovrebbe auspicabilmente indurre il legislatore a intervenire direttamente sul testo dell’art. 570-bis cod. pen., per esplicitarne l’applicabilità – già oggi riconosciuta dal diritto vivente – anche alla condotta omissiva del genitore che non adempia i propri obblighi economici nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, in omaggio all’obiettivo – rilevante ex art. 25, secondo comma, Cost. – di una più immediata riconoscibilità del precetto penale da parte dei suoi destinatari.

            L’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione, di cui si è appena dato conto, comporta il superamento delle ulteriori ragioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, prospettate dai rimettenti in riferimento agli artt. 3 e 30 Cost. e incentrate sulla disparità di trattamento tra figli legittimi e nati fuori dal matrimonio determinata dal nuovo art. 570-bis cod. pen.

Michela Anna Guerra           Altalex 12 agosto 2019

www.altalex.com/documents/news/2019/08/12/omesso-mantenimento-reato-figli-nati-fuori-matrimonio

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ASSOCIAZIONI       MOVIMENTI

Il Consulente familiare

            E’ in distribuzione il n. 3 di Il consulente familiare, organo dell’Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari (AICCeF).

      Lettera della presidente Stefania Sinigaglia

      Giornata di studio Le relazioni al tempo dei social. Il consulente familiare e l’adultescenza digitale. Bologna 20 ottobre 2019.

      Vita da social di Rita Roberto

      Pillole digitali di Maurizio Qualiano

      Glossario del web e di internet

      Marchio di fabbrica: registrato il termine il consulente familiare

      Lettera ai soci sul tirocinio di Stefania Sinigaglia

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      Letto e visto per voi a cura di Rita Roberto e Davide Monaci

      Notizie: Oristano, Roma, Trevi, Roma

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CHIESA CATTOLICA

In questo momento con il Papa più che mai

La lettera, resa nota pochi giorni fa, del cardinal Pell, che si fa vittima innocente, quando in realtà e secondo i giudici è un delinquente corruttore di minori (per questo sta in carcere), questa lettera – voglio dire – conferma che effettivamente ed in questo momento nella Chiesa esiste un blocco di chierici importanti, che, seguendo il deplorevole esempio del cardinal Müller, pensano e non si fanno scrupolo di dire e di andare dicendo che papa Francesco si sta sbagliando a tal punto che può essere definito come un uomo “eretico”. E, se effettivamente la Chiesa è governata da un “eretico”, la situazione è grave. Molto grave. Perché, se fosse vero, o il Papa deve andarsene dalla Chiesa; o siamo noi a doverla abbandonare. A meno che non siamo di fronte ad un gruppo di uomini “importanti” – o chissà chi sono – che occultano la loro sfrontatezza con l’oscuro manto della loro “ortodossia”.

Ebbene, stando così la situazione, cosa pensare e cosa fare in questo stato di cose? Certo, va da sé che non sono nessuno per dire a nessuno ciò che deve pensare o fare. Mi limito ad informare fornendo alcuni dati che forse possono aiutare determinate persone in questo delicato momento che stiamo vivendo. Prima di tutto voglio esprimere chiaramente che sono totalmente d’accordo con il professor Reyes Mate quando afferma che papa Francesco sta avendo la libertà ed il coraggio di “desacralizzare” secoli di storia, che porta con sé la Chiesa quando afferma e conserva quello che Yves Congar ha definito come “aspetto di signoria” del mondo ecclesiastico.

Ho l’impressione che questo papa non sia un uomo “clericale”. E non dimentichiamo che tutto “ciò che è clericale” indica privilegio e prepotenza. Concetti ed esperienze che non hanno nulla a che vedere con il Vangelo. Il messaggio di Gesù non si può trasmettere a partire dai primi posti. E non si possono mettere a parlare di Gesù coloro che si ostinano a collocarsi al di sopra degli altri. Gesù si è scontrato con i suoi discepoli proprio per questo. Che è una miseria umana nella quale incorrono molti “uomini di Chiesa”.

Gli “arrivisti” nella Chiesa. Questo è così frequente quanto più in alto si sale nella “scala clericale”. Perché la Chiesa è organizzata in maniera tale che coloro che in essa salgono, sicuramente (e probabilmente senza che loro stessi si rendano conto di quello che stanno facendo con la loro vita), sono degli “arrivisti”. Perché sono uomini che si sono sottomessi totalmente al sistema clericale. Ed in questo modo raggiungono sicuramente fama e gloria, soprattutto nelle “sacrestie”. Ma al tempo stesso allontanano la Chiesa dalla sua ragion d’essere. Cosa che presuppone – tra le altre cose – la trasformazione della Chiesa in un museo di antichità, che interessano sempre meno ed alle quali ogni giorno anche la gente ci fa meno caso.

Celibato ecclesiastico. Ma nulla di quanto ho detto è la cosa più forte che vorrei sostenere in quest’articolo. Ho affermato che in questo momento bisogna stare con il Papa più che mai. Perché proprio adesso? Ci troviamo a poche settimane dal Sinodo dell’Amazzonia, che si celebrerà a Roma nel prossimo mese di ottobre. Come è logico, parlare della Chiesa in Amazzonia significa parlare dell’«inculturazione» della Chiesa, poiché la cultura della Chiesa medievale (alla quale vuole essere fedele la Chiesa attuale) e le culture dei popoli dell’enorme selva amazzonica sono realtà culturali così diverse (ed in non poche cose così distanti) che inevitabilmente pongono problemi teologici che di rimbalzo riguardano tutta la teologia e la Chiesa intera. Si comprende così perché questo Sinodo sia così importante e perché stia facendo tanto parlare. Tra le altre ragioni, perché nelle comunità cristiane amazzoniche si vivono con urgenza più pressante determinati problemi che in Europa o in America trovano una soluzione. I due problemi, che stanno facendo parlare molto, sono il celibato dei preti e l’ordinazione presbiterale delle donne. Ebbene, la prima cosa che si deve dire su questi temi è che, se parliamo con precisione, con la] conoscenza di quello che stiamo dicendo e con libertà, né il celibato dei preti e né l’ordinazione presbiterale delle donne sono problemi teologici. Il Nuovo Testamento non dice una parola sul celibato dei preti o sul fatto che le donne possano o non possano ricevere il sacramento dell’Ordine. Queste questioni non sono problemi teologici. Sono temi storici e culturali. Che in ogni momento della storia ed in ogni cultura devono essere risolti non secondo quello che pensavano gli scolastici medievali, ma secondo quello di cui hanno più bisogno i cristiani. Gesù non ha fondato la Chiesa perché sia fedele alla Scolastica o al Medioevo, ma perché renda presente il Vangelo in ogni tempo ed in ogni cultura, nel modo in cui i “tempi” e le “culture” lo richiedano. Questo non significa “inventare” o “adattare” il Vangelo come ci conviene o ci interessa. È tutto il contrario: “adattarci” al Vangelo e non trasformare in “dogmi di fede” quello che sono meri “fatti storici”, che si devono vivere ed adeguare a quello di cui hanno bisogno i popoli e le culture, in ogni momento ed in ogni situazione della storia e della società.

La settima sessione [del concilio] di Trento, chiave. Ma c’è qualcosa che probabilmente è la cosa più importante e che forse non pochi chierici ignorano. Le affermazioni della Sessione 7ª del concilio di Trento– la Sessione dedicata dal concilio ai sacramenti – non sono dogmi o dottrina di fede. Perché, come risulta negli Atti del concilio di Trento (vol. 5º), i “padri conciliari” non arrivarono a mettersi d’accordo sulla questione fondamentale, cioè: se quello che condannavano erano “eresie” o si trattava di semplici “errori”. Su questo si concentrò il dibattito della Sessione Settima. Ma non poterono mettersi d’accordo. Per questo il Proemio di questa sessione si limita a dire: “per eliminare gli errori ed estirpare le eresie…”(Concilio Tridentino, vol. 5. Denz. – Hün. 1600).

“Non siamo più papisti del papa”. Si può offendere il papa definendolo “eretico”, perché non si ritrova con la nostra maniera di definire il clero e con il nostro impegno nel conservare il clericalismo, che non ha più l’importanza ed il significato che ha avuto nei secoli passati? Se non sono dogmi di fede neanche i temi fondamentali sui sacramenti, lo saranno questioni più discusse e discutibili come lo sono il celibato dei preti o la possibile ordinazione delle donne?

José María Castillo, teologo “Religion digital” – www.religiondigital.com  – del 11 agosto 2019

www.religiondigital.org/teologia_sin_censura/Jose-Maria-Castillo-momento-Papa_7_2148455143.html

Traduzione a cura di Lorenzo Tommaselli

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201908/190812castillo.pdf

 

La Chiesa: un’ambiguità da riconoscere e superare

Un articolo fatto apposta per stimolare la riflessione.

Diverse espressioni lasciano intendere che la Chiesa sia al centro di tutto ciò che i cristiani sono chiamati a vivere, espressioni come: “la Chiesa ha bisogno di tutti per compiere la sua missione”, “dobbiamo costruire la Chiesa di Cristo”, “entrare nella fede della Chiesa”, “bisogna riparare la Chiesa”, e perfino: “Credo nella Chiesa, lascio in eredità alla Chiesa…” (“je crois en l’Église, je lègue à l’Église”, pubblicità su La Croix di sabato 29 giugno 2019)!

  1. La Chiesa non è un essere, è la folla innumerevole dei credenti.

Gesù che abita il suo popolo: ecco la Chiesa. Un modo di vivere dei discepoli di Cristo alla luce del vangelo, che può sembrare strano, utopico, diverso da quello del profitto, del denaro, del potere, dell’ognuno per sé… Immagine di eternità, forse…Senza gli uomini e le donne che la compongono, la Chiesa non ha esistenza, non ha realtà. Dire: “la Chiesa pensa che…”, “chiede che…”, “ordina che…”, “proibisce che…”, ecc., non ha senso. La sola cosa che si può dire è: “i credenti in Cristo riuniti in quel luogo, in quell’epoca e in quelle condizioni di esistenza, pensano che…, dicono che…”. Non ci sono parole definitive, non ci sono opzioni irriformabili, ci sono uomini e donne credenti alle prese con le realtà della vita di oggi per costruire il mondo di oggi. La Chiesa non può essere una verità da credere, una realtà intoccabile, una quasi-persona.

  1. 2.                 Ma, nel corso della storia, la Chiesa si è eretta ad assoluto- Gesù non ha fondato una Chiesa. Sono i suoi discepoli che hanno pensato di essergli fedeli mettendosi al comando. Degli uomini hanno usato e abusato del versetto “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia chiesa”. Sicuramente intenzionati a far bene, hanno voluto organizzare, controllare, non lasciarsi sopraffare: si sono impossessati di quelle poche parole per autorizzarsi a creare una struttura, un’organizzazione, che si è istituzionalizzata per disciplinare la buona notizia annunciata da Gesù. Le comunità si sono scelte dei responsabili, hanno riconosciuto loro un potere sacro, e a poco a poco si è costituita una gerarchia che ha gestito la Chiesa. I vescovi, i preti, i teologi, lo stesso potere civile hanno imposto delle regole di funzionamento, delle affermazioni dette intangibili, delle istituzioni che sono parse loro adatte, e tutto questo si è chiamato Chiesa, al contempo indissociabilmente e inestricabilmente Assemblea dei credenti e Istituzione. Ecco la trappola!
  2. 3.                 La Chiesa si è fissata in una situazione di ambiguità permanente e di dominio. Gerarchia, teologi e religiosi hanno sacralizzato questa Chiesa, la sua organizzazione, le sue affermazioni, le sue decisioni, i suoi comandamenti, mettendosi a posto la coscienza e ricordando, certo, che la Chiesa è l’insieme del popolo credente. Ma la Chiesa si è eretta così a oggetto di fede, di venerazione, di dominio sacro. Invece di considerare tutte le innovazioni e le formulazioni come bisogni di un’epoca o di un luogo, il potere gerarchico ha avuto la tendenza ad addizionare, universalizzare, sacralizzare le affermazioni dette irriformabili così come le “invenzioni”, la “trovate” di funzionamento e di organizzazione. Il potere gerarchico e teologico ha statuito, fissato nel dogma e nella tradizione, invece di saper relativizzare, rimettere in discussione in funzione del tempo, dei progressi umani e scientifici, delle prese di coscienza di coloro che sono il tessuto stesso della Chiesa, i credenti che vivono la loro fede nel loro tempo. Anche se una moltitudine di donne, di uomini, di figli della Chiesa hanno dato un apporto infinito al mondo, dobbiamo rinunciare all’idea di una Chiesa maestra di pensiero e di vita. La Chiesa detta Istituzione, in se stessa, non è altro che uno strumento. Non ha autorità sulle persone. Prenderla per riferimento a cui doversi sottomettere, sarebbe farne un assoluto. Essa è solo un’organizzazione di una complessità tale che riformarla sembra una sfida insormontabile.

Ma “nulla è impossibile a Dio”! Non è la Chiesa-Istituzione che ha la soluzione di fronte ai problemi che incontra nel XXI secolo, anche se è con lei che bisogna cercarla.

  1. Tocca ai cristiani di oggi inventare il modo di vivere Cristo e la sua parola nel nostro tempo. Di fronte alla messa in discussione della Chiesa-Istituzione in riferimento al potere, alla sessualità, al denaro, non è la “macchina-chiesa” a dover decretare dall’alto della sua gerarchia: “adesso bisogna far così, bisogna riformarsi cosà, bisogna far nascere una certa istituzione, sopprimere quest’altra…”.Tocca a noi, credenti in Gesù Cristo, laici, clero e religiosi insieme, rimboccarci le maniche e riprendere coscienza di ciò che siamo, della nostra responsabilità rispetto alla buona notizia. Tocca a tutti noi essere all’opera, individualmente e con gli altri, per inventare come, in questi anni, vivere pienamente la parola di Gesù in questo mondo, così com’è, con le sue scoperte, angosce, ricchezze, ricerche, aspirazioni.

Il rinnovamento dello spirito cristiano, della vita cristiana oggi mi sembra che si possa fare solo se accettiamo di non focalizzarci sulla Chiesa-Istituzione, sulle trasformazioni che vi si devono fare, le modifiche da apportare, il volto da darle. L’Istituzione, con il suo clero e i suoi teologi, è null’altro che uno strumento a servizio dei credenti: non sta a lei decidere ciò che dobbiamo fare. Siamo tutti noi, battezzati, senza distinzione alcuna, ma insieme in ascolto dello Spirito, che dobbiamo trovare le soluzioni; sono le nostre comunità cristiane, con i loro preti se ne hanno, che devono confrontarsi con i problemi e attuare delle soluzioni per il tempo che viviamo e lì dove siamo. Non tocca ai preti decidere o comandare, altrimenti si ricadrebbe immediatamente nel clericalismo, ma, a mio avviso, tocca ai preti tenerci insieme nella ricchezza delle nostre diversità, aver cura di ciascuno e di tutti, permetterci di essere adulti riconoscendo la nostra libertà di pensiero e di coscienza, riunirci, confortarci e nutrirci nel cammino di apertura a servizio della nostra terra. La cosa importante non è ringiovanire o riparare la Chiesa, ma essere portatori della Buona Notizia, al cuore del mondo, esservi sale e luce! E solo vivendo questo insieme, noi, popolo di credenti, potremo offrire vita al nostro mondo, arrivando, per di più, ad offrire un volto veramente rinnovato della Chiesa nel nostro tempo. Lo scopo è vivere da credenti in Cristo e, come lui, vivere la passione per gli esseri umani, donne e uomini, nel mondo di oggi.  

Jean-Luc Lecat “https://baptises.fr”  11 agosto 2019

https://baptises.fr/content/leglise-ambiguite-a-dejouer

Traduzione   www.finesettimana.org

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201908/190814lecat.pdf

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CONSULTORI FAMILIARI CATTOLICI

E’ in distribuzione il n. 1\2019 di Consultori Familiari Oggi organo della Confederazione Italiana dei Consultori Familiari di Ispirazione cristiana.

Nei Contributi alla vita consultoriale

      Claudia Spina L’ascolto: luogo per ri-nascere. Una lettura pedagogico-educativa

      Orietta Vacchelli sviluppo sostenibile e sfide educative tra cura delle relazioni e impegno partecipativo

      Simona C.S. Caravita, Valeria Della Valle, Laura Ghiringhelli Il cyberbullismo nella percezione di genitori, figli e insegnanti

      Elena Tommolini Centro di ascolto Esarcato Armeno Cattolico di Atene La condivisione di esperienze familiari

      Daniela Notarfonso medico, bioeticista, direttoreConsultorio diocesano di Albano Le radici della maternità

      Antonella Laquaglia consulente familiare Consultorio UCIPEM di Pisa Esperienze formative per adolescenti, educatori e genitori

      Marco De Coppi, Elena Simbari, psicologi, psicoterapeuti Consultorio Centro della famiglia di Cinisello Balsamo Adolescenti oggi: sdraiati sulle ali di Icaro

www.cfc-italia.it/cfc/index.php/articolo-2

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Roma1 Associazione Centro La Famiglia: atelier 2019

Come consuetudine, viene organizzato l’atelier esperienziale dal titolo:

“Fare contatto con il proprio Sé”

Sabato 23 novembre 2019, a Roma

L’Atelier di un giorno è aperto a tutti coloro che vogliono intraprendere un’avvincente esplorazione della propria interiorità per conoscere meglio se stessi ed instaurare una più fluida comunicazione e relazione con gli altri. A settembre si invierà il depliant con le informazioni dettagliate.

www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=200:associazione-centro-la-famiglia-corsi-seminari-gennaio-febbraio-2015&catid=61&Itemid=203

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DALLA NAVATA

XX Domenica del tempo ordinario – Anno C – 18 agosto 2019

Geremia         38, 04. In quei giorni, i capi dissero al re: «Si metta a morte Geremìa, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male».

Salmo              39,18. Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare.

Ebrei               12, 01. Fratelli, anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento.

Luca               12, 51. Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione.

 

Dio non è neutrale e nemmeno la sua pace

Sono venuto a portare il fuoco sulla terra. E come vorrei che divampasse. È stato detto che la religione era l’oppio dei popoli, ottundimento e illusione. Nell’intenzione di Gesù il Vangelo è invece «l’adrenalina dei popol(Battista Borsato), porta «il morso del più» (Luigi Ciotti), più visione, più coraggio, più creatività, più fuoco. Pensate che io sia venuto a portare la pace? No, vi dico, ma la divisione.

Dio non è neutrale: vittime o carnefici non sono la stessa cosa davanti a lui, tra ricchi e poveri ha delle preferenze e si schiera. Il Dio biblico non porta la falsa pace della neutralità o dell’inerzia, ma «ascolta il gemito» e prende posizione contro i faraoni di sempre. La divisione che porta evoca il coraggio di esporsi e lottare contro il male. «Perché si uccide anche stando alla finestra» (Luigi Ciotti), muti davanti al grido dei poveri e di madre terra, mentre soffiano i veleni degli odi, si chiudono approdi, si alzano muri, avanza la corruzione.

Non si può restarsene inerti a contemplare lo spettacolo della vita che ci scorre a fianco, senza alzarsi a lottare contro la morte, ogni forma di morte. Altrimenti il male si fa sempre più arrogante e legittimato. Sono venuto a portare il fuoco, l’alta temperatura morale in cui soltanto avvengono le trasformazioni positive del cuore e della storia. E come vorrei che divampasse! Come quella fiammella che a Pentecoste si è posata sul capo di ogni discepolo e ha sposato una originalità propria, ha illuminato una genialità diversa per ciascuno. Abbiamo bisogno estremo di discepoli geniali, con fuoco.

La Evangelii gaudium invita i credenti a essere creativi, nella missione, nella pastorale, nel linguaggio. Propone instancabilmente non l’omologazione, ma la creatività; invoca non l’obbedienza ma l’originalità dei cristiani. Fino a suggerire di non temere eventuali conflitti che ne possono seguire (Eg 226), perché senza conflitto non c’è passione. Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? Un invito pieno di energia, rivolto alla folla cioè a tutti: non seguite il pensiero dominante, non accodatevi alla maggioranza o ai sondaggi d’opinione.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20131124_evangelii-gaudium.html

Giudicate da voi stessi, intelligenti e liberi, svegli e sognatori, andando oltre la buccia delle cose: «La differenza decisiva non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa» (Carlo Maria Martini). Tra chi si domanda che cosa c’è di buono o di sbagliato in ciò che accade, e chi non si domanda più niente.

Giudicate da voi… Siate profeti – invito forte e quante volte disatteso! – siate profeti anche scomodi, dice il Signore Gesù, facendo divampare quella goccia di fuoco che lo Spirito ha seminato in ogni vivente.

Padre Ermes Ronchi, OSM

www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=46463

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DEMOGRAFIA

Meno figli? Non dipende solo del Pil: conta anche il benessere collettivo

A pesare sulla decisione di avere o non avere figli non è solo la ricchezza o il lavoro, conta anche il Bes [benessere equo e sostenibile]. Un acronimo ancora poco conosciuto: è la risposta italiana ai tentativi avviati da tempo in molti Paesi di costruire un indice di benessere che non tenga conto solo della ricchezza individuale e collettiva, ma anche di molti altri fattori che rendono la vita serena e interessante: vivere in un ambiente culturalmente stimolante, avere buone relazioni sociali, godere di servizi pubblici di alta qualità, da quelli sanitari ai trasporti alle scuole. Ecco perché, quando si indaga sulle cause della denatalità, non bisogna guardare solo ai redditi, ma anche a tutte queste altre variabili. Arrivano a questa conclusione tre docenti di demografia e statistica dell’Università di Roma La Sapienza, Alessandra De Rose, Filomena Racioppi e Maria Rita Sebastiani, e lo spiegano nel saggio “Avere figli in Italia: una questione di Bes”, pubblicato sul sito di demografia Neodemos.

www.neodemos.info/articoli/avere-figli-in-italia-una-questione-di-bes

Il Bes è l’indicatore messo a punto dall’Istat per misurare il benessere della popolazione, che da qualche anno viene utilizzato anche per una valutazione dell’impatto delle misure economiche varate ogni anno con la legge di Bilancio. Non misura la felicità, ma valuta molti aspetti che certo concorrono a rendere felici le persone, dal tasso di passaggio dalla scuola superiore all’Università all’efficienza degli ospedali alla presenza di musei e biblioteche pubbliche.

E che incidono fortemente sulla decisione di avere figli, secondo le conclusioni dell’indagine: il reddito primeggia (il tasso di correlazione tra natalità e indicatore composito del Bes è 0,70, in una scala da 0 a 1), e il lavoro segue di poco (0,67), ma le relazioni sociali hanno un valore solo di poco inferiore, 0,63, ed è un risultato che non cambia tra periodi di crisi (2010 – 2012) e periodi successivi con un quadro economico più sereno (2015- 2017). Mentre il valore del reddito cambia: a crisi finita, nel 2017, la correlazione tra l’indicatore e il tasso di natalità scende a 0,52, mentre sale di molto la valutazione del benessere soggettivo, si valuta di più anche il peso dell’ambiente, che invece negli anni di crisi pesa solo lo 0,47. Cambia anche la valutazione della qualità dei servizi: con la crisi la correlazione con il tasso di natalità è di 0,63, dopo scende a 0,51.

            L’unico aspetto che incide in negativo sul tasso di natalità, tra quelli presi in considerazione dalle tre studiose, è il livello di furti, rapine e saccheggi: lo si teme di più quando la crisi economica incombe, dopo la sua incidenza si alleggerisce. La salute ha sempre un certo peso, e la qualità del lavoro pesa quasi quanto la quantità.

            “E’ chiaro che dove c’è maggior benessere si mettono al mondo più figli. – dice Alessandra De Rose – ma non si tratta solo di benessere economico, la gente fa i conti anche con la qualità della vita. Anche se quando c’è la crisi, il benessere strettamente economico incide di più rispetto agli altri aspetti”.

            Del resto il tasso di natalità, così come altri aspetti del Bes, non segue fortunatamente la suddivisione del Paese tra Nord e Sud: anche gli ultimi dati appena pubblicati dall’Istat mostrano alcuni mini primati meridionali, come quello di Isernia, prima città in Italia per passaggio dalla scuola superiore all’Università (65 su 100), o di Caserta, Trapani e Siracusa, nel gruppo di testa per paesaggio e patrimonio culturale.

La mappa della fecondità in Italia non coincide con quella del reddito: alcune Regioni del Sud (a cominciare dalla Sicilia) sono leggermente più prolifiche di alcune del Centro e anche del Nord. Anche se in testa poi c’è la provincia di Bolzano, ai primi posti anche per Pil pro capite, con 1,74 figli per donna contro una media di 1,32:

Rosaria Amato                      La Repubblica                       14 agosto 2019

www.repubblica.it/economia/2019/08/14/news/meno_figli_non_e_colpa_solo_del_calo_del_pil_ma_anche_del_benessere_collettivo-233425336/?ref=RHPPBT-VE-I174319567-C6-P13-S1.6-T1

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ENTI TERZ0 SETTORE

Linee guida per il bilancio sociale

Il Codice del Terzo Settore stabilisce che sono tenuti alla redazione del bilancio sociale “gli Enti del Terzo settore con ricavi, rendite, proventi o entrate comunque denominate superiori ad 1 milione di euro” oltre ai centri di servizio per il volontariato, alle imprese sociali e ai gruppi di imprese sociali.

Questi soggetti sono obbligati a rispettare le Linee Guida.

Le Linee Guida sono state approvate con decreto del Ministero del Lavoro del 4 luglio 2019, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.186 del 9 agosto 2019.

www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2019-08-09&atto.codiceRedazionale=19A05100&elenco30giorni=false

www.dottrinalavoro.it/notizie-c/min-lavoro-linee-guida-per-la-redazione-del-bilancio-sociale-degli-enti-del-terzo-settore

Tutti gli articoli di www.uneba.org sulla Riforma del Terzo Settore.

www.uneba.org/tag/riforma-terzo-settore/

Uneba 12 agosto 2019

www.uneba.org/linee-guida-per-il-bilancio-sociale

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HUMANÆ VITÆ

Humanæ vitæ e identità di genere: dalla paternità responsabile a un’identità maschile rinnovata

L’anniversario tondo dell’enciclica più tormentata di Paolo VI, coinciso con l’anno della canonizzazione del suo autore, ha dato a più di un commentatore l’opportunità di sfatare alcuni falsi miti sulla sua genesi e di ricomprenderne il valore. Nuove ricerche archivistiche [G. Marengo] e riletture comparate tra il testo di Papa Montini e l’Amoris lætitia di Papa Francesco [L. Moia], hanno permesso di cogliere, da un lato, quanto l’Humanæ vitæ si fece carico delle tensioni post-conciliari, e dall’altro, quanto sia stata profetica la sua affermazione sull’inscindibilità antropologica tra amore coniugale e fecondità. Si tratta di considerazioni che aiutano a contestualizzarne il contenuto sullo sfondo dello sviluppo della dottrina che caratterizza la storia della Chiesa e al contempo ad apprezzare lo scatto in avanti, nella direzione della responsabilizzazione del ruolo genitoriale, che con essa si realizza nella pastorale familiare cattolica. È proprio a partire da quest’ultima osservazione, circa il riconoscimento degli sposi come «liberi e responsabili collaboratori di Dio creatore» (HV 1), che è giustificato interrogarsi come gli studi sull’identità di genere, sviluppatisi nell’ultimo mezzo secolo, abbiano approfondito e ridefinito il ruolo degli sposi-genitori.

            I temi cari al dibattito sulle “questioni di genere”, intese come prospettive culturali o fenomeni sociali connessi alla sessualità della persona umana [R. Torti], non sono evidenti – per naturali motivi storici – all’interno del testo dell’Humanæ vitæ. Ci si ferma, in quest’ambito, alla mera costatazione del «mutamento», del «modo di considerare la persona della donna e il suo posto nella società», inserita nel secondo paragrafo. Ovviamente, nel 1968, l’enciclica non poteva, e forse non voleva, andare oltre in una direzione che, oltre a esulare dalle sue finalità, per l’epoca era poco esplorata. Vi sono però nel documento pontificio degli accenni e delle lacune, in proposito, che – mantenendo ferma l’intuizione centrale dell’inscindibilità fra aspetto unitivo e procreativo nel matrimonio cristiano – si prestano a una rilettura feconda nella prospettiva che abbiamo scelto. Si apprezza così il valore fondativo di un documento magisteriale che, nonostante rifletta la visione di un’epoca storica sociologicamente ormai lontana, si presti a essere calato efficacemente nell’oggi mantenendo in nuce il suo valore etico e dottrinale.

            In particolare, questa rilettura potrebbe rilanciare un tema sottaciuto del più recente magistero pontificio e cioè una visione rinnovata – per certi versi rivoluzionaria – dell’identità maschile e dunque – tornando all’Humanæ vitæ – del ruolo del marito e del padre nella vita matrimoniale cristiana. In questo senso, credo sia da condividere finalmente un’idea di quel complesso fenomeno chiamato “femminismo” non come accidente culturale responsabile della cosiddetta crisi del maschio, o del suo spiazzamento, ma anzi come movimento per lui salvifico: occasione di liberazione dalla maschera patriarcale per indagare finalmente le peculiarità del maschio, marito, padre, al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni.

Si noti in proposito come sia stato lo stesso Papa Bergoglio, il 2 marzo 2018, in una lettera indirizzata alla scrittrice spagnola María Teresa Compte Grau – autrice del libro “Diez cosas que el papa Francisco propone a las mujeres” – a sollecitare esplicitamente una rinnovata ricerca antropologica che includa i nuovi progressi della scienza e delle attuali sensibilità culturali per andare sempre più a fondo non solo nell’identità femminile, ma anche in quella maschile, per servire così meglio l’essere umano nel suo insieme. È utile accennare, solo di passaggio, come appaia probabile che il percorso di ricerca auspicato dal Pontefice argentino potrebbe contribuire, al di là dell’ambito vocazionale matrimoniale, anche a una rinnovata comprensione delle figure maschili del religioso e del sacerdote, soprattutto alla luce della crisi che le ha investite negli ultimi decenni con l’esplosione dello scandalo degli abusi sessuali su minori commessi da membri del clero.

Sposi immagine di Dio creatore, nelle loro differenze sessuali. La sorgente dell’amore coniugale per Humanæ vitæ è Dio amore: Deus Caritas. Il matrimonio, afferma il numero 8 del documento, è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. In questa prospettiva, gli sposi sono collaboratori di Dio nella «generazione e educazione di nuove vite». A questo paragrafo dell’enciclica di Paolo VI si potrebbe accostare proficuamente un’altra, successiva, definizione della differenza sessuale, e dunque della capacità generativa degli sposi, come realtà che porta in sé l’immagine e la somiglianza di Dio. Partendo da Genesi 1, 26-27 sulla scorta di un documento pubblicato trent’anni dopo, la Mulieris dignitatem di San Giovanni Paolo II, si può non solo affermare che la sorgente dell’amore coniugale è Dio caritas, ma che nella coppia di sposi – «maschio e femmina li creò» – nell’ «unità dei due», come la chiama Papa Wojtyla – è rispecchiata, per «somiglianza», la comunione d’amore che è in Dio. Di più, scorrendo la Lettera apostolica del 1998, apprendiamo che «paternità» e «maternità» umane, portano in sé la somiglianza con il «generare» divino e con quella «paternità» – si noti bene per Wojtyla «spirituale» e niente affatto «maschile» – che è in Dio. Rovesciando il ragionamento, si può dunque giungere ad affermare che l’immagine più piena di Dio creatore è costituita dall’uomo e dalla donna uniti nella loro capacità generativa o, addirittura, che l’immagine di Dio è stampata in loro proprio nella loro capacità generativa.

Come ricordava Papa Francesco nell’Udienza generale del 15 aprile 2015, è perciò la «differenza sessuale» stessa a essere immagine di Dio, e allo stesso tempo, solo nella loro relazione reciproca uomo e donna possono comprendere fino in fondo cosa significa la loro specifica sessualità. Si capisce quindi come una messa a punto rinnovata delle questioni di genere, una ricomprensione del maschile e del femminile, anche dal punto di vista teologico, sia cruciale per approfondire oggi – sulla scia dell’Humanæ vitæ – l’idea di “paternità”, o forse meglio “genitorialità”, responsabile dal punto di vista cristiano. Voglio dire come, al di là del tema fulcro dell’enciclica di Papa Montini – la regolazione artificiale delle nascite – ci siano nella genitorialità vissuta evangelicamente – e dunque a immagine di Dio e della Sacra famiglia – aspetti che chiamano in causa le differenze sessuali e si prestano a interessanti ridefinizioni. Si vedano in proposito, nel capitolo quinto dell’Amoris lætitia di Papa Francesco, dedicato proprio alla fecondità, i numeri dal 172 al 177. Qui, a partire dalla riaffermazione del diritto del bambino ad avere un padre e una madre, si prova a descrivere, e a distinguere tra loro, l’«amore di madre» e quello «di padre», soffermandosi sulle peculiarità affettive e educative dei due sessi. Il testo registra l’attuale difficoltà che si riscontra nel ritrovare nella vita quotidiana dei genitori certe specificità materne e paterne, culturalmente radicate, ed evoca il rischio di una società senza più né madri, né padri. Sembra anche qui, dunque, opportuno ridare un’immagine più nitida al maschio-padre all’interno della relazione e della comunione tra gli sposi cristiani, insieme immagine di Dio creatore nella loro fecondità responsabile.

            Sposo e sposa, Cristo e la Chiesa. Se l’origine divina della capacità generativa, e quindi della differenza sessuale vissuta nella reciprocità, non sembra ancora messa a fuoco nell’ Humanæ vitæ, nel paragrafo 25, dedicato alle direttive pastorali per gli sposi cristiani, troviamo invece la citazione paolina di Efesini 5 che ridisegna il rapporto tra marito e moglie sull’immagine di quello tra Cristo e la Chiesa. Paolo VI, nello spirito dell’Apostolo delle genti da cui prende il nome, insiste più sui doveri dei mariti che devono amare le loro mogli come il proprio corpo e diremo con Paolo essere pronti a dare la loro vita per loro. Colpisce, invece, l’assenza nell’enciclica di cinquant’anni fa del famigerato versetto 22 del testo paolino – ­ le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore – ben spiegato da San Giovanni Paolo II al numero 24 della Mulieris dignitatem per liberarlo da letture patriarcali semitiche e greco-romane e chiarire la reciprocità della sottomissione nel matrimonio come dono. Un’esegesi ripresa recentemente dal numero 156 della stessa Amoris lætitia di Papa Francesco ma ancora oggi frutto di fraintendimenti nella pubblicistica cattolica. Mi riferisco a letture attuali [C. Miriano] secondo le quali compito della sposa cristiana sia quello di lasciare che l’uomo possa fare l’uomo, che ripropongono cliché machisti limitanti e vuoti non tanto per le donne, ma proprio per i maschi stessi. Ebbene, cinquant’anni fa, l’Humanæ vitæ già sembrava evitare profeticamente questo percorso.

            Francesco critica il gender ma denuncia gli stereotipi di genere. L’Enciclica di Paolo VI però, non può, come si è detto, per natura, contesto storico e per gli obiettivi che si prescrive, andare oltre la presa di coscienza del mutamento – cui si assiste – del modo di considerare la persona della donna e il suo posto nella società. Oggi, invece, nel magistero di Papa Francesco, accanto alla decisa, inequivocabile e ripetuta denuncia dell’ideologia del gender che, attraverso una vera e propria “colonizzazione ideologica”, pretende di annullare le differenze sessuali, cancellare una distinzione naturale per affidarla alla libera scelta, troviamo numerose affermazioni che denunciano implicitamente i danni culturali e sociali degli stereotipi di genere nelle relazioni tra uomo e donna [R. Torti]. Entrambi i fenomeni, teoria del gender e stereotipi di genere, sembrano, tra l’altro, legati alla stessa difficoltà culturale a confrontarsi con la differenza sessuale.

            Il Papa segnala, più volte, forme di maschilismo, eccessi delle culture patriarcali, prevaricazione, disparità di stipendio, violenze domestiche. Al numero 104 dell’Evangelii gaudium – testo del 2013 considerato il suo documento programmatico – chiede la presenza delle donne laddove si prendono decisioni importanti, nei diversi ambiti della Chiesa. Ancora, parla di sfide importanti, ineludibili che la rivendicazione dei legittimi diritti delle donne pone alla Chiesa. Al numero 54 dell’Amoris lætitia, la sua successiva Esortazione apostolica datata 2016, Papa Francesco denuncia letteralmente gli eccessi delle culture patriarcali, dove la donna era considerata di seconda classe. Si spinge a definire «una falsità», o meglio «una forma di maschilismo», l’affermazione secondo cui molti problemi attuali si sono verificati a partire dall’emancipazione della donna.

Francesco si rallegra che in seno alle famiglie si sviluppi uno stile di reciprocità e nonostante definisca non adeguate alcune «forme di femminismo», arriva a considerare il riconoscimento più chiaro della dignità della donna e dei suoi diritti «opera dello Spirito». Ma già nel 2014, parlando ai partecipanti a un convegno organizzato dalla Congregazione per la dottrina della fede, il Papa, soffermandosi sulla “complementarietà” tra uomo e donna, era giunto addirittura a condannare l’idea semplicistica che tutti i ruoli e le relazioni di entrambi i sessi sono rinchiusi in un modello unico e statico e chiedeva di aprirsi all’inedito della differenza e cioè alla ricchezza e alla bellezza di una complementarietà diversa per ogni coppia di sposi.

Più volte, in altre occasioni, come nella sopra citata lettera a Maria Teresa Compte Grau, Francesco denuncia come nella Chiesa il servizio, a cui ciascuno è chiamato, per le donne, si trasformi a volte in servitù. Chiede nuovi spazi per la donna nella teologia e nella vita della Chiesa e afferma provocatoriamente in numerose occasioni, come al raduno mondiale dei sacerdoti a Roma, il 12 giugno 2015, che non è femminismo affermare che la Madonna è più importante degli apostoli. Si tratta di un corpus di pronunciamenti, non ancora sistematizzato da Papa Francesco in un unico testo, che sembra allontanarsi dal pregiudizio culturale, ancora assai diffuso in ambito cattolico, secondo cui la donna sbaglierebbe a cercare di ribellarsi al suo destino stabilito da sempre – la sua vocazione a essere sposa e madre – cercando la sua realizzazione là dove non potrà mai trovarla. La direzione scelta, lungi dal voler abolire le differenze sessuali, su cui anzi Francesco insiste, sembra privilegiare, appunto, un rinnovamento delle identità di genere e al contempo un’apertura rispetto alla creatività e alla fantasia, dettate dallo Spirito, che rendono unica e irripetibile ogni esistenza e quindi ogni coppia di sposi.

            Lavoro e società: doveri e diritti dei genitori cristiani. A proposito delle ripetute denunce di Papa Francesco delle discriminazioni subite soprattutto dalle donne sul lavoro, si noti, di passaggio, quanto sarebbe interessante rileggere le direttive morali dell’Humanæ vitæ circa la responsabilità genitoriale alla luce della sua aperta condanna delle ingiustizie patite in particolare dalle donne in gravidanza: come la penalizzazione della maternità e la disparità di stipendio. Si veda ad esempio il Messaggio del Pontefice ai partecipanti al convegno «Donne e lavoro», datato 4 dicembre 2015, in cui si parla esplicitamente della necessità di valorizzare il lavoro femminile e di permettere alla donna di coniugare tempi lavorativi e familiari. È un aspetto che rivela come certo maschilismo, denunciato da Francesco, abbia radici economiche e culturali che hanno pesanti conseguenze sull’esercizio dei compiti dei genitori. Quest’ultime riducono la maternità a un ruolo sociale non modificabile e, al contempo, escludono l’uomo da compiti come allevamento e presa in cura dei figli che nessuna norma biologica gli preclude. E se nel 1968 Paolo VI parlava opportunamente dei doveri dei coniugi, verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, sarebbe interessante riflettere sui diritti che gli stessi coniugi, o meglio gli stessi genitori, potrebbero rivendicare nei confronti della società, e chiedersi quali conseguenze derivino dalla differenza sessuale, per esempio, in ambito lavorativo. Si pensi, appunto, alla tutela delle lavoratrici in gravidanza o alle norme sul congedo parentale anche per i padri.

            L’idea di una nuova maschilità e paternità. Ma la vera novità del magistero pontificio più recente sembra essere la proposta di un’idea di paternità e maschilità nuove e diverse. E dunque l’indicazione di una prospettiva inedita per incarnare la responsabilità genitoriale rimarcata dall’Humanæ vitæ. È un’idea che si ritrova, ad esempio, in uno dei classici “tormentoni” che il Papa ripropone quando si parla del rapporto fra genitori e figli: la richiesta di una maggiore presenza del padre in famiglia, affinché giochi, cioè “perda tempo” con i figli. Un uomo, una persona adulta, un sacerdote – ha detto Francesco incontrando il «Forum delle Associazioni familiari» il 16 giugno 2018 – è maturo se è capace di giocare con i bambini. Per il Papa, un padre che va al lavoro mentre i figli ancora dormono, e torna a casa quando sono già addormentati, è vittima di una schiavitù, di un modo ingiusto di lavorare creato dalla società di oggi. Si tratta di una bella spallata a un modello di pater familias centrato esclusivamente sul mantenimento del nucleo familiare che lascia necessariamente ad altri, alla madre in primis, l’incombenza dell’educazione e dell’intrattenimento dei pargoli. Ma è più in generale l’insistenza degli insegnamenti di Papa Bergoglio su attitudini evangeliche come la capacità di pregare, aspettare, pazientare, su virtù cristiane come la tenerezza, la mitezza, la magnanimità, l’umiltà e la misericordia che spiazzano un’ermeneutica – in senso stereotipato – “virile” del cristianesimo. Virtù cosiddette «passive», affermava il Papa nell’omelia a Casa Santa Marta del 21 maggio 2018, ma che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme».

            Francesco appare consapevole che non esista un essere umano generico, ma piuttosto esistano uomini e donne, con le loro differenze sessuali, che devono ritrovare una nuova «alleanza», significativamente definita «strategica» per «l’emancipazione dei popoli dalla colonizzazione del denaro» (Udienza generale del 16.09.2015). Ma tutto ciò significa anche che il maschile è solo una parte dell’umano. E nel pensiero del Pontefice le sopracitate differenze non sono fatte per contrapporre o subordinare ma per creare comunione e generazione. E ciò che Francesco intende quando ripete che la più grande sfida per un uomo è «fare più donna sua moglie» e la più grande sfida per una donna è «fare più uomo suo marito». Solo in una relazione incarnata virtuosa, cioè, è possibile marcare reciprocamente e profondamente le differenze sessuali.

            Ma soprattutto il Pontefice argentino ha intuito che c’è un processo di liberazione che riguarda il maschio e che deve puntare a dare una nuova veste al “genio maschile”. È una pista che nasce da un’esegesi neotestamentaria che vede in Gesù un modello di uomo che non basa la sua autorevolezza sul potere, o sulla forza, ma sull’ascolto, il silenzio e l’obbedienza. Un messia che – come notava Antonella Lumini in un dibattito sul ruolo della donna, sull’Osservatore Romano del 1° dicembre 2014 – ribalta gli schemi del dominio patriarcale, e porta alla luce un principio maschile positivo.

            Francesco dimostra quest’orientamento nel capitolo settimo dell’Amoris lætitia, dedicato all’educazione dei figli, quando al numero 286 invoca un nuovo modo di essere maschile che permetta all’uomo di adattarsi con flessibilità alla condizione lavorativa della moglie. Addirittura parla della necessità di aiutare i bambini ad accettare come normali questi “sani interscambi”, che non tolgono alcuna dignità alla figura paterna, mettendo il dito sulla piaga di una cultura che svaluta il ruolo del padre nella presa in carico concreta e quotidiana dei figli. Il maschile e il femminile, spiega qui il Papa, non sono qualcosa di rigido. Ed è la rigidità, come esagerazione del maschile o del femminile, che – nella sua visione – allontana da quella reciprocità incarnata nelle condizioni reali del matrimonio. Insomma, per Papa Bergoglio, anche in questo caso, la realtà è superiore all’idea (Evangelii gaudium, 231).

            Sono riflessioni generate dalla consapevolezza che una cultura abituata a considerare il maschile come “la regola” e il femminile come “la differenza”, non si è mai paradossalmente occupata di capire il maschile in tutta le sue possibilità [R. Torti], intrappolandolo nella macchietta del pater familias dominatore, padrone, guerriero, ormai stantia. E sono spunti che offrono la possibilità di superare la crisi della cosiddetta “assenza del padre” – denunciata, come già ricordato, anche dall’Amoris lætitia – o quella legata alla violenza di genere e al diffondersi dei fenomeni di “femminicidio”.

            In questo senso, anche gran parte delle resistenze al magistero di Francesco si possono leggere come reviviscenza di quello che lui stesso definisce «machismo» anche nell’attuale cultura ecclesiale e in genere cattolica. La Lettera apostolica Misericordia et misera del 20 novembre 2016, che chiudeva l’Anno Santo della misericordia, proponeva – non a caso – come icone del Giubileo appena vissuto, due donne evangeliche – l’adultera di Giovanni 8 e la peccatrice di Luca 23 – viste in contrapposizione con i dottori della legge, i lapidatori e il fariseo: modelli maschili incapaci di comprendere la misericordia di Dio. Non è difficile ritrovare questa difficoltà a concepire e accogliere la radicalità evangelica, fondata sul perdono e l’accoglienza, più che sulla condanna e l’esclusione, nei principali detrattori del pontificato di Francesco.

            San Giuseppe, padre putativo: archetipo rivoluzionario. La conferma di quest’ermeneutica del magistero di Papa Bergoglio ha un nome. È quello di un Santo che rappresenta per lui il modello della paternità responsabile nella Chiesa di oggi e l’icona più efficace per rilanciarlo. È Giuseppe, lo sposo di Maria, il falegname di Nazareth, il santo più caro a Francesco che – come ha rivelato lui stesso a Manila, il 16 gennaio 2015 – tiene nella sua camera a Casa Santa Marta una statuetta di un San Giuseppe “dormiente” a cui affida, sotto forma di biglietti, intenzioni e richieste di grazie. Nell’udienza ai dirigenti e al personale del quotidiano Avvenire, il 1° maggio 2018, Francesco lo descrive come «l’uomo del silenzio», «dell’ascolto», «l’uomo che sa destarsi e alzarsi nella notte». Ancora, «l’uomo giusto», «il custode discreto e premuroso», l’educatore che – senza pretendere nulla per sé – diventa padre grazie al suo esserci, alla sua capacità di accompagnare, di far crescere la vita e trasmettere un lavoro. E questo ruolo esemplare di Giuseppe come educatore era stato rimarcato dal Papa già durante l’Udienza generale del 19 marzo 2014, quando aveva affermato che egli è modello per ogni educatore, in particolare per ogni padre, invitando poi i papà presenti in piazza, nel giorno della loro festa, a essere sempre vicini ai figli: loro hanno bisogno di voi, della vostra presenza, della vostra vicinanza, del vostro amore. E sottolineando che solo nella vicinanza, camminando con i propri figli, si può essere per loro veri educatori. Sono descrizioni e moniti che vanno a disegnare una figura paterna nuova, particolare, centrata sulle responsabilità verso i figli, sul loro accompagnamento nella crescita, più che sul ruolo sociale e nel mondo del lavoro dello stesso genitore.

            Un passo ulteriore nella direzione dell’esemplarità di San Giuseppe come nuovo modello di padre evangelico lo compie Antonella Lumini in un articolo apparso sull’Osservatore Romano il 21 marzo 2018, dedicato, appunto, al «padre putativo di Gesù». Anche qui si ricordano significativamente le attitudini diremo materne di Giuseppe: attento, presente, mite. Si prende cura, protegge, custodisce, accompagna, enumerando virtù non certo tradizionalmente maschili come l’obbedienza, la pazienza, l’umiltà, il silenzio. Ma, per l’autrice, l’aspetto che fa compiere a Giuseppe un vero «salto di qualità», trasformandolo nello strumento attraverso cui prende origine la nuova umanità che inizia con Gesù, è l’aver accettato il ruolo di «padre putativo». Così facendo, egli rompe uno schema ancestrale: dà un colpo definitivo alla struttura della famiglia patriarcale fondata sul potere del pater, considerato proprietario dei familiari in base al legame di sangue. Per di più – seguendo il ragionamento della Lumini Giuseppe è un padre putativo che con Maria «vergine» crea un modello familiare inedito, in cui i legami spirituali si sostituiscono a quelli carnali, non per svilire questi ultimi ma per aprire all’immagine di una famiglia in cui ci siano relazioni d’amore liberate da ogni vincolo e valorizzare la genitorialità spirituale. Giuseppe si trasforma così da antica icona a un modello evangelico vivo e attuale di una figura paterna rivoluzionaria che ribalta le convenzioni familiari e chiama i padri di oggi a un compito nuovo, forse più impegnativo rispetto al passato, ma senz’altro più umanamente e cristianamente gratificante.

            Conclusioni: un nuovo inizio. Il breve itinerario sin qui accennato ha lasciato intravedere i possibili sviluppi del concetto di responsabilità genitoriale degli sposi cristiani, tra i tesori dell’Humanæ vitæ di Paolo VI, sul fronte del rinnovamento delle identità di genere e quindi dei ruoli della madre e del padre in ambito familiare e sociale, come riflesso della maternità e paternità di Dio. Tutto ciò sulla scia del magistero pontificio più recente in materia, che – pur essendo aperto alle sorprese dello Spirito – stabilisce come principi inderogabili la condanna sia di ogni tentativo di neutralizzazione delle differenze sessuali, come di ogni standardizzazione delle stesse. Ma, soprattutto, la convinzione che il creato e la storia siano stati affidati dal Padre all’alleanza tra l’uomo e la donna, chiamati non soltanto a parlarsi d’amore, ma a parlarsi, con amore, di ciò che devono fare perché la convivenza umana si realizzi nella luce dell’amore di Dio per ogni creatura (Udienza alla Pontificia accademia per la vita, 5 ottobre 2017). Anche la sfida della rinascita della figura paterna, evocata dagli insegnamenti di Papa Bergoglio, sembra inserirsi in quello che lui stesso ha definito «un nuovo inizio» che «dev’essere scritto nell’ethos dei popoli» proprio attraverso una «rinnovata cultura dell’identità e della differenza».

            Come ha insegnato l’Amoris lætitia, uno dei rischi da evitare, nella ridefinizione del ruolo dei genitori, è quello di cadere in nuovi astratti stereotipi che ignorino la concretezza della vita familiare. La strada sembra essere perciò quella di discernere, di volta in volta, come la verità evangelica s’incarni materialmente nell’esperienza quotidiana di ogni relazione coniugale e genitoriale, nello spirito ecclesiale indicato al numero 169 dell’Evangelii gaudium: tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro.

Articolo scritto per il volume ”La famiglia a cinquant’anni da Humanæ vitæ. Attualità e riflessione etica”, edizioni Studium 2019.

            www.libreriadelsanto.it/libri/9788838247323/la-famiglia-a-cinquantanni-da-humanae-vitae.html

Fabio Colagrande      1 agosto 2019

https://anticameracervello.wordpress.com/2019/08/01/humanae-vitae-e-identita-di-genere-dalla-paternita-responsabile-a-unidentita-maschile-rinnovata

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NEGOZIAZIONE ASSISTITA

La negoziazione in materia di separazione e divorzio

La negoziazione assistita è un istituto per la risoluzione alternativa delle controversie che consiste in un contratto (o convenzione) con cui le parti si impegnano a risolvere bonariamente una controversia con l’assistenza di avvocati. Il nuovo istituto della negoziazione assistita, ispirato all’analogo modello francese, ha trovato ingresso nell’ordinamento giuridico italiano con il c.d. “decreto giustizia” (D.l. n. 132/2014, convertito nella L. n. 162/10 novembre 2014), finalizzato a dettare “misure urgenti di degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”.

www.consiglionazionaleforense.it/documents/20182/200991/D.L.+n.+132-2014

            (…)

  • Cos’è la negoziazione assistita
  • La convenzione di negoziazione
  • Il procedimento
  • La negoziazione obbligatoria
  • La negoziazione in materia di separazione e divorzio. L’art. 6 del II capo del decreto giustizia è dedicato alla particolare ipotesi di negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio. Profondamente modificata in sede di conversione, la disciplina prevede che tramite la convenzione di negoziazione assistita (da almeno un avvocato per parte) i coniugi possano raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio (nei casi di cui all’art. 3, 1° comma, n. 2, lett. b) della l. n. 898/1970), nonché di modifica delle condizioni di separazione o divorzio precedentemente stabilite.

La procedura è applicabile, a seguito delle modifiche apportate in sede di conversione del decreto, sia in assenza che in presenza di figli minori o di figli maggiorenni, incapaci, portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti.

  1. Nel primo caso, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita è sottoposto al vaglio del procuratore della Repubblica presso il tribunale competente, il quale, se non ravvisa irregolarità comunica il nulla osta agli avvocati.
  2. Nel secondo caso, invece, il Pm, cui va trasmesso l’accordo concluso entro 10 giorni, lo autorizza solo se lo stesso è rispondente all’interesse dei figli. Qualora, al contrario, il procuratore ritenga che l’accordo non corrisponda agli interessi della prole, lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, il quale, nel termine massimo di trenta giorni, dispone la comparizione delle parti, provvedendo senza ritardo.

Una volta autorizzato, l’accordo, nel quale gli avvocati devono dare atto di aver esperito il tentativo di conciliazione tra le parti informandole della possibilità di ricorrere alla mediazione familiare, è equiparato ai provvedimenti giudiziali che definiscono gli analoghi procedimenti in materia.

Dopo la sottoscrizione della convenzione di negoziazione, il legale della parte ha l’obbligo di trasmetterne copia autenticata munita delle relative certificazioni, entro 10 giorni, a pena di sanzione amministrativa pecuniaria da 2.000 a 10.000 euro, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto per tutti gli adempimenti successivi necessari (trascrizione nei registri di stato civile; annotazioni sull’atto di matrimonio e di nascita; comunicazione all’ufficio anagrafe).

  • Il ruolo degli avvocati
  • Modelli per la negoziazione assistita

www.studiocataldi.it/guide_legali/procedura-civile/negoziazione-assistita-guida-al-nuovo-istituto.asp

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PROCREAZIONE ASSISTITA

75mila coppie si rivolgono al calvario della fecondazione assistita. E il tasso di successo è bassissimo

            Importante informarsi sulle possibilità di adozione prima di iniziare l’iter della PMA

Fecondazione. Quella artificiale porta 8 coppie su 10 a una cocente delusione. Sono 75mila le coppie che, in Italia, si rivolgono al calvario (vero e proprio) della PMA (Procreazione medicalmente assistita), prima di informarsi sulle possibilità di adottare un bambino. Addirittura, almeno stando a sentire diverse coppie che incontrano per la prima volta un ente autorizzato, come Ai.Bi. – Amici dei Bambini, pare che siano a volte gli stessi servizi o i medici a dire loro di provare prima a fare qualche tentativo con la PMA prima di considerare l’adozione.

Adozione che diventa così, tristemente, l’ultima spiaggia cui approdare per chi aspirasse a costruire una famiglia. Le motivazioni che spingono le coppie a dare retta a chi fornisce questa spiegazione sono semplici: si ritiene convenzionalmente che i tempi per l’adozione di un bambino che magari ha già una sua storia alle spalle siano troppo lunghi e che quindi convenga tentare prima le vie mediche. Molte, ancora, sono le coppie che, al primo appuntamento con un ente autorizzato, chiedono addirittura la differenza in termini di tempistiche tra adozione e PMA, per capire cosa convenga fare.

In realtà, però, la convinzione che la PMA sia “più semplice” è assolutamente infondata. I dati più recenti dimostrano come nel 2017, le percentuali di successo delle tecniche di PMA senza donazione di gameti, considerando come indicatore la percentuale di gravidanze ottenute su cicli iniziati, si attestino su un valore medio effettivo di due su 10: il 10,3% per le tecniche di I livello, il 17,6% per le tecniche di II e III livello, il 29,3% per le tecniche da scongelamento di embrioni e il 16,9% per le tecniche da scongelamento di ovociti.

Il tutto mentre, come spiega il presidente di Ai.Bi., Marco Griffini: “Nove su 10, con lo stesso termine di paragone, sono quelle che, dopo aver conferito l’incarico a un Ente autorizzato, riescono a portare a termine l’adozione internazionale di un minore abbandonato”. Di più, la PMA è parzialmente responsabile del calo (le responsabilità sono in realtà anche molte altre) delle adozioni internazionali degli ultimi anni: nell’articolo “C’era una volta l’adozione internazionale”, pubblicato nella rivista Vita e Pensiero, Roberto Volpi insieme al collega Enrico Moretti hanno spiegato che “con riferimento all’Italia, la caduta delle adozioni comincia soltanto nel 2012, l’anno in cui più pesantemente si fa sentire la crisi economico-finanziaria, ma altresì quello del grande boom della PMA, alla quale si sottopongono, nel 2016, quasi 78 mila coppie”.

Nonostante questo e nonostante l’infinita bellezza e nobiltà sottintesa al gesto dell’adozione, mentre le cure PMA in alcune regioni italiane si pagano con ticket ospedaliero, ancora non è stato istituito un vero e proprio bonus per le coppie che adottano…

AiBinews   18 Agosto 2019

www.aibi.it/ita/in-italia-75mila-coppie-si-rivolgono-al-calvario-della-fecondazione-assistita-e-il-tasso-di-successo-e-bassissimo

 

Fecondazione assistita: metodo Cnr per identificare gli ovociti più sani

Una collaborazione tra un gruppo di ricerca dell’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iom) di Trieste e il reparto di Clinica ostetrica e ginecologica dell’Irccs materno infantile Burlo Garofolo di Trieste ha prodotto, negli ultimi anni, diversi risultati orientati ad aumentare la probabilità di successo della fecondazione assistita per le coppie sterili. Gli esiti delle ultime ricerche sono stati pubblicati su European Biophysics Journal e su Acta BioMaterialia.

“Uno dei momenti più importanti per determinare la fortuna di un processo di fecondazione è la selezione degli ovociti, oggi condotta in base a caratteristiche esclusivamente morfologiche: il medico sceglie la cellula da fecondare rispetto alla forma considerata indice del suo migliore stato di salute. Il criterio è però soggettivo e si basa fondamentalmente sull’esperienza dell’embriologo”, dice Laura Andolfi, ricercatrice del Cnr-Iom. “L’obiettivo di queste ricerche è invece identificare un metodo più generalizzabile, non invasivo e capace di velocizzare il processo”.

Il problema è che gli ovociti non possano essere trattati, al fine di preservarli, e non c’è quindi modo di capirne lo stato di salute. “Noi ci siamo chiesti se potessero essere usati come indicatori dello stato di salute degli ovociti le loro caratteristiche meccaniche, cioè la deformabilità, l’elasticità e la rigidità. La risposta è risultata affermativa”, spiega Laura Andolfi, ricercatrice del Cnr-Iom. “Già in una prima ricerca effettuata nel 2016 con microscopi atomici commerciali, abbiamo trovato una prima traccia di correlazione tra la deformabilità e lo stato fisiologico o patologico degli ovociti. Ma questi microscopi operano attraverso sonde troppo piccole per comprimere uniformemente l’intero ovocita, che è una delle cellule più grandi del corpo umano, e quindi riescono a misurare solo la deformabilità della loro membrana esterna”.

La seconda parte della ricerca ha riguardato pertanto la costruzione di sonde specifiche, più grandi, capaci di imprimere omogeneamente la forza su tutta la cellula. “Con tali sonde abbiamo osservato e verificato la deformabilità dell’intero l’ovocita, e non solo della membrana esterna, ottenendo un’ulteriore conferma dell’efficacia di questo parametro. Le caratteristiche meccaniche sono effettivamente utili per stabilire lo stato di salute delle cellule da fecondare”, prosegue Andolfi.

I ricercatori del Cnr hanno dimostrato l’efficacia di questa tecnica di indagine lavorando inizialmente su ovociti umani forniti dall’Irccs Burlo. “A questo punto abbiamo voluto capire se l’analisi delle proprietà meccaniche fosse efficace nonostante i processi di crioconservazione cui gli ovociti possono essere sottoposti dopo l’estrazione”, aggiunge Marco Lazzarino del Cnr-Iom. “Abbiamo dunque preso ovociti umani freschi, ne abbiamo misurato le proprietà elastiche, li abbiamo congelati e dopo qualche tempo ne abbiamo rimisurato le proprietà, confermando che la crioconservazione lascia l’ovocita inalterato. Inoltre, attraverso una serie di controlli incrociati condotti con gli embriologi del Burlo abbiamo verificato che anche le tecniche di misurazione delle proprietà meccaniche delle cellule rimangono efficaci dopo il congelamento”.

Il lavoro di ricerca, finanziato dal programma regionale BioMec, apre ora la strada alla sperimentazione diretta su ovociti animali per verificare l’efficacia del processo fino alla sua fase conclusiva, verificando così la correlazione tra la corretta selezione di ovociti e il raggiungimento di una gravidanza di successo.

                                                   Comunicato stampa CNR n. 89/2019   31 luglio 2019

www.cnr.it/it/comunicato-stampa/8880/fecondazione-assistita-metodo-cnr-per-identificare-gli-ovociti-piu-sani

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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI

Scuola di Bioetica Pro Vita e Famiglia

Sono aperte le iscrizioni per la Scuola di Bioetica organizzata da Pro Vita e Famiglia, che avrà’ luogo il 28 e 29 settembre 2019 a Roma (ma che può essere seguita anche a distanza, in streaming).

Sono tantissime le persone interessate al corso che ci hanno già scritto e telefonato, ansiose di trascorrere un fine settimana intensivo con professori universitari, giuristi, medici esperti nelle questioni bioetiche, con i maggiori attivisti pro-life italiani, con la possibilità di seguire le relazioni anche da casa e avere le registrazioni video, con l’accesso a materiale didattico, pubblicazioni e studi, con il rilascio di crediti professionali e di un attestato di partecipazione.

            Il tutto nella suggestiva cornice di Villa Aurelia, in via Leone XIII, 459, con vista sulla basilica di San Pietro, nell’ampio e splendido Auditorium.

Prenotarsi per tempo in quanto i posti in sede sono limitati. Informazioni a questo link: www.notizieprovita.it/filosofia-e-morale/pro-vita-famiglia-presenta-la-iii-edizione-della-scuola-di-bioetica

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VIOLENZA

Il reato di violenza sessuale

Il reato di violenza sessuale rientra tra i delitti contro la libertà sessuale, a loro volta ricompresi nella più ampia categoria dei delitti contro la libertà individuale. Nel corso degli anni, la relativa disciplina ha subito molteplici modifiche, che la hanno resa sempre più rigida. L’ultima, in ordine di tempo, è quella apportata dal codice rosso, di cui alla legge numero 69/2019 (leggi Codice rosso in vigore).

Violenza sessuale: la norma. Oggi il codice penale punisce come violenza sessuale, all’articolo 609-bis, la condotta di colui che con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali e quella di colui che induce un altro soggetto a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima al momento del fatto o traendola in inganno per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Il testo aggiornato della norma: Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;

2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

    Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.

Soggetto attivo e passivo della violenza sessuale. La violenza sessuale è un reato comune, in quanto soggetto attivo può essere chiunque.

Allo stesso modo alcuna restrizione è operata dal legislatore con riferimento al soggetto passivo.

Le persone coinvolte nella fattispecie criminosa sia dal lato attivo che dal lato passivo, quindi, possono essere indistintamente uomini e donne, anche dello stesso sesso.

Le condotte punibili come violenza sessuale. Il delitto di violenza sessuale è a forma vincolata, perché il fatto di reato consiste necessariamente nel compimento di atti sessuali in contrasto con la volontà del soggetto passivo.

Laddove manchi il dissenso viene meno la tipicità del fatto.

Più nel dettaglio, le condotte punibili contemplate dalla norma sono di due specie: da un lato c’è la fattispecie di violenza sessuale per costrizione, dall’altro quella per induzione.

La costrizione in particolare, secondo quanto previsto dalla norma, avviene per violenza, minaccia o abuso di autorità. Per violenza deve intendersi l’esercizio di forza fisica per contrastare la resistenza della vittima; per minaccia l’espresso avvertimento che in caso di opposizione alla violenza verrà arrecato un danno alla vittima o ad altre persone o cose; per abuso di autorità il coartare la volontà del soggetto utilizzando la propria posizione di superiorità o preminenza.

Per quanto riguarda l’induzione, la norma è più chiara laddove prevede che essa deriva dall’abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima o dall’inganno circa la propria identità.

Elemento soggettivo del reato di violenza sessuale. L’elemento soggettivo previsto per il reato di violenza sessuale è il dolo generico, in quanto è del tutto indifferente la finalità che spinge il colpevole a porre in essere il comportamento illecito. Ciò che è necessario accertare è la volontà di costringere il soggetto passivo all’atto sessuale attraverso violenza o minaccia o, nel caso di abuso di autorità, la coscienza di porre in essere la condotta abusando della propria posizione. Più in generale è necessario accertare la coscienza di ledere la libertà sessuale della vittima.

La consumazione del reato. Il reato di violenza sessuale è di mera condotta e si consuma nel momento e nel luogo in cui è compiuto l’atto sessuale. Nel caso di più atti sessuali, deve ritenersi che si sia di fronte ad atti comunque distinti e uniti dal vincolo della continuazione, indipendentemente dal fatto che il contesto di azione sia unico.

Il tentativo è configurabile.

Violenza sessuale: la pena. La pena per il reato di violenza sessuale, in virtù delle modifiche apportate dal codice rosso, è quella della reclusione da sei a dodici anni. Prima di tali modifiche, la pena era quella della reclusione da cinque a dieci anni.

Circostanze aggravanti del reato. L’articolo 609-ter c.p. prevede delle circostanze al ricorrere delle quali la pena prevista in generale per la violenza sessuale è aggravata.

Nel dettaglio la pena è aumentata di un terzo se i fatti sono commessi nei confronti di persona della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il tutore; con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa; da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio; su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale; nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto; nei confronti di donna in stato di gravidanza; nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza; se il reato è commesso da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività; se il reato è commesso con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

La pena è ulteriormente aggravata, con un aumento della metà, se il fatto è commesso nei confronti di persona che non ha compiuto dieci anni.

Violenza sessuale: giurisprudenza. La giurisprudenza, purtroppo, si confronta spesso con il reato di violenza sessuale. Si riportano qui di seguito i passaggi di alcune delle pronunce più recenti e interessanti.

“Il bene tutelato dall’articolo 609 bis c.p., è rappresentato dalla libertà personale dell’individuo, che deve poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia e libertà, contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale, e contro ogni non consentita e non voluta intrusione nella propria sfera intima, anche se attuata con l’inganno. La libertà sessuale è perciò espressione della personalità dell’individuo, che trova copertura costituzionale nei precetti di cui all’articolo 2 Cost., e articolo 3 Cost., comma 2. In coerenza con il bene protetto e con la centralità della persona offesa, ai fini della tipizzazione dell’offesa non si richiede né il dolo specifico, né alcun movente esclusivo, in quanto qualsiasi valorizzazione di questi atteggiamenti interiori sposterebbe il disvalore della condotta incriminata dalla persona che subisce la limitazione della libertà sessuale a chi la viola” (Cass. n. 43553/2018).

“Le condizioni per esprimere un valido consenso (la capacità) al rapporto sessuale prescindono dalla condotta di cagionare l’incapacità o l’incoscienza – nel caso l’ubriachezza -; anche l’incapacità derivante da una volontaria assunzione di alcol, deve valutarsi ai fini della sussistenza del consenso all’atto sessuale” (Cass. n. 32462/2018).

“In tema di atti sessuali, il fatto rimane confinato nell’area del tentativo solo laddove la materialità degli atti non sia pervenuta sino al contatto fisico dell’agente con il corpo della vittima, ovvero da parte della stessa vittima con il proprio corpo, con l’ulteriore precisazione che l’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 609 bis cod. pen. sussiste anche nel caso in cui il distretto corporeo della vittima attinto dall’agente sia sessualmente indifferente, ma a condizione che la porzione di corpo che l’agente pone a contatto con quello della vittima sia connotata da valenza sessuale” (Cass. n. 57515/2018).

Avv. Valeria Zeppilli    News Studio Cataldi                  16 agosto 2019

www.studiocataldi.it/articoli/19475-il-reato-di-violenza-sessuale.asp

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