NewsUCIPEM n. 756 – 2 giugno 2019

NewsUCIPEM n. 756 – 2 giugno 2019

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

ucipem@istitutolacasa.it                                           www.ucipem.com

Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

 

Le News, gratuite, si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

Sono così strutturate:

  • Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
  • Link diretti per documentazione

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.

La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo. Il contenuto delle news è liberamente riproducibile citando la fonte.

In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviateci una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.com con richiesta di disconnessione.

Chi desidera connettersi invii a newsucipem@gmail.com la richiesta indicando nominativo e comune di esercizio d’attività, e-mail, ed eventuale consultorio di appartenenza. [Invio a 1.502 connessi]

 

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02 ABUSI                                                            Linee guida contro gli abusi.

03 ADOZIONI                                                    Quando l’adozione va in crisi

04 AFFIDO CONDIVISO                                 Risarcito il figlio se la madre gli impedisce di vedere il padre

05 ASSEGNO DIVORZILE                              Niente mantenimento se l’ex è giovane e il matrimonio dura poco

05 ASSOCIAZIONI-MOVIMENTI                               I 28 anni della CRC in Italia

06                                                                          Ai. Bi.: un avvocato per ogni minorenne fuori dal nucleo familiare

07 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA   Newsletter CISF – n. 21, 29 maggio 2019.

09 CONFERENZE– CORSI – SEMINARI    7° edizione dell’International Conference on Adoption Research

10                                                                          Donna e Chiesa: corso al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum

11 CONSULTORI FAMILIARI CATTOLICI  Psicoterapeuta e avvocato, alleati nei conflitti familiari

12 COPPIA                                                         Crisi di coppia: cause e soluzioni

15 DALLA NAVATA                                         Ascensione del Signore – Anno C – 2 giugno 2019

15                                                                          Una «forza di gravità» che spinge verso l’alto

16 DISCERNIMENTO                                      Discernere implica scegliere e decidere

16                                                                          Sacerdote: uomo discernimento se si sottopone a questo processo

17 DONNE NELLA CHIESA                            Donne e ministero diaconale

23 ENTI TERZO SETTORE                               Statuti: adeguamento possibile anche dopo il 2 agosto

25 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA       L’altra faccia della medaglia è una responsabilità di tutti

26 OMOFILIA                                                    “Accompagnare gli omosessuali? Scelta evangelica”

28 PROCREAZIONE ASSISTITA                    La maternità surrogata nella sentenza delle Sezioni Unite Civili

33 SESSUOLOGIA                                            Sessualità in contatto con l’altro/a e col mondo

35 WELFARE                                                     Congedo maternità dopo il parto, i chiarimenti dell’Inps

35                                                                          Premio Nascita” e la nuova App. Novità per le neomamme

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ABUSI

Linee guida contro gli abusi.

            Il documento è frutto di un lavoro di studio di quasi tre anni, prima del Gruppo e poi del Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili guidato dall’arcivescovo di Ravenna-Cervia, mons. Lorenzo Ghizzoni, che in quest’intervista spiega la portata della sfida che la Chiesa italiana ha deciso di affrontare. A partire dall’azione pastorale e formativa da avviare, anche nei confronti dei ragazzi, in ogni territorio a protezione dei più piccoli e vulnerabili, una preoccupazione che dovrà essere dell’intera comunità cristiana, delle parrocchie, delle diocesi. Perché troppo gravi sono i danni che segnano le vittime degli abusi, dentro e fuori dalla chiesa.

Nasce la pastorale per la tutela dei minori. È questa la novità più significativa, assieme all’obbligo “morale” per i vescovi di denuncia all’autorità giudiziaria in caso di abusi sui minori, delle Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili approvate dall’Assemblea della Cei della scorsa settimana.

Qual è la principale novità contenuta in queste Linee Guida?

La vera svolta è l’introduzione dell’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria da parte dell’ordinario del luogo (il vescovo, ndr) nel quale avviene un possibile abuso da parte di un chierico. Ovviamente dopo averne vagliato la verosimiglianza. Il vescovo aveva già l’obbligo di avviare un’indagine cosiddetta “previa”, cioè raccogliere elementi da inviare alla Congregazione per la Dottrina della fede e, nel caso, avviare un procedimento canonico. Ma nelle linee guida introduciamo anche l’obbligo morale (perché dal punto di vista giuridico in Italia non lo avremmo), di informare anche l’autorità giudiziaria, che ha mezzi molto più efficaci di indagine, questo è il punto.

O meglio, dopo aver fatto l’indagine “previa” sulla segnalazione, noi incoraggiamo anzitutto la denuncia da parte di chi l’ha presentata o dei genitori o tutori, se minorenne. Se non la vogliono fare, prepariamo noi un esposto, informando di questo chi segnala. Se si opporranno, chiederemo che questa opposizione alla denuncia sia scritta, debitamente documentata e ragionevolmente giustificata.

Prima di tutti, quindi, la tutela del minore.

Di fatto, incoraggiamo ad andare a denunciare chiunque, compresi sacerdoti o religiosi. E il focus di tutto il documento è proprio sull’ascolto, sull’accoglienza e sul dare credibilità alle vittime, non a proteggere il chierico colpevole. Le conseguenze fisiche, psichiche, morali e spirituali di questi abusi sono troppo gravi. I segni restano per sempre, anche in chi riesce a rielaborarli e a parlarne.

L’obbligo di denuncia è presente in altre linee guida degli episcopati nazionali?

In quasi tutte quelle del mondo Occidentale: in molti Paesi soprattutto del Nord del mondo, c’è l’obbligo per legge di denunciare questi reati. In Italia, la Chiesa ha ampliato decisamente gli spazi di tutela delle possibili vittime, accogliendo una definizione molto ampia di “persone vulnerabili” contenuta nell’ultimo motu proprio di Papa Francesco, che include “ogni persona in stato d’infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all’offesa”.

Le linee guida affrontano anche il tema della prevenzione. Cosa prevedono per le singole diocesi?

Ogni diocesi deve individuare un referente diocesano che, magari affiancato da una piccola equipe, scelta tra professionisti ed esperti {dei consultori familiari?}, affiancherà il vescovo nell’azione di ascolto. Ma soprattutto si occuperà della prevenzione, su tre livelli.

Il primo è quello delle parrocchie, dei sacerdoti e degli educatori e catechisti. Le linee guida contengono materiali già pronti con i quali la diocesi dovrà fare formazione e informazione verso gli educatori. Ci sono indicazioni e definizioni di base: cos’è un abuso, un profilo di come può presentarsi un abusatore, un vademecum per la scelta degli educatori, i luoghi e i tempi nei quali può avvenire un abuso, i segnali rivelatori, etc…

Il secondo livello è quello dei ragazzi stessi. Se non lo diciamo a loro, a chi lo possiamo dire? Fonti Onu dicono che i ragazzi, a 11 anni, hanno già in mano il cellulare e quindi hanno accesso ai social (soprattutto Istagram) e ai siti che possono essere veicolo di varie forme di abuso, come il sexting, i ricatti, il grooming. Sempre gli stessi dati Onu dicono che il 70% dei ragazzi usano il cellulare. E anche gli adulti che vogliono educare, non riescono ad intercettare questo mondo dove la dipendenza può creare veri danni emotivi, affettivi, neurologici. L’educazione e la pastorale su questi temi è importante anche perché costringe gli educatori e le parrocchie a fare educazione all’affettività, alla sessualità, che molto spesso si sottovaluta.

Il terzo livello?

Poi dobbiamo aiutare le famiglie, che oggi, in generale, ma soprattutto su temi come l’educazione ai media, sono in difficoltà. Se è vero tra l’altro che una percentuale altissima di abusi, avviene in famiglia, questo aspetto è ancor più fondamentale, e al contempo complicato. Il discorso in questo caso si può introdurre bene coinvolgendo i genitori nella prevenzione al bullismo, anche perché tanto bullismo è a sfondo sessuale. Ed è sempre più precoce.

Chi potrà occuparsi di questa formazione?

L’equipe diocesana dovrà avviare dei processi. I referenti, in Emilia-Romagna hanno già iniziato la loro formazione e lavoreranno insieme, a livello regionale. Noi immaginiamo questa come un’azione pastorale: ci sarà bisogno di specialisti ma soprattutto di persone delle parrocchie.

Altri aspetti rilevanti delle linee guida? Quando verranno pubblicate?

Dobbiamo solo recepire alcune indicazioni che ci hanno dato i vescovi in assemblea e poi le pubblicheremo, questione di settimane. Le linee guida danno indicazione anche su come accompagnare gli abusatori, dopo la fine dei processi, canonico e civile. Ovviamente se la persona è disponibile. È il momento più delicato, perché quando finisce tutto, spesso queste persone se ne vanno dalla Chiesa e dal territorio nel quale hanno commesso un abuso. E sono libere, e sole.

Daniela Verlicchi       30 maggio 2019

www.agensir.it/chiesa/2019/05/30/cei-linee-guida-contro-gli-abusi-mons-ghizzoni-ravenna-incoraggiamo-a-denunciare-chiunque-compresi-sacerdoti-o-religiosi

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ADOZIONI

Quando l’adozione va in crisi

Il fenomeno delle adozioni nazionali e internazionali è diventato, con il passare degli anni, assai rilevante ma poco si sa dell’andamento di queste adozioni nel tempo. Quante sono le adozioni che vanno incontro al fallimento e ancora prima quali sono i campanelli di allarme? Rispondere a queste domande non è semplice, specialmente considerando il contesto italiano dove non è presente un sistema di registrazione dei casi di fallimento e non ci sono ricerche che monitorino l’andamento delle adozioni nel tempo.

            Le poche ricerche esistenti nel contesto internazionale si sono focalizzate sui casi di fallimento in cui si è giunti alla revoca della responsabilità genitoriale e all’allontanamento del minore dalla famiglia adottiva e al suo ricollocamento in una struttura residenziale o, più raramente, in una famiglia affidataria.  Ciò che emerge chiaramente in questi casi è la presenza di una molteplicità fattori che impatta negativamente sull’esito dell’adozione, fattori che possono riguardare le caratteristiche del minore adottato (età elevata al momento dell’adozione, paesi di provenienza dell’Est Europa o America Latina, maggiori problemi comportamentali, problemi nell’istaurare un legame di attaccamento, e così via), della coppia genitoriale (forte disaccordo tra i coniugi nella decisione di adottare, presenza di altri figli al momento dell’adozione, uno stile educativo eccessivamente rigido, alte aspettative rispetto al figlio, eccetera) e dei servizi che si occupano dell’iter adottivo (assenza di una formazione pre-adottiva adeguata, mancanza di un supporto post-adottivo, forti discrepanze tra il profilo del bambino richiesto dalla coppia e il bambino effettivamente dato in adozione, e così via).

            Ma che cosa sappiamo delle situazioni che precedono il fallimento? Cosa sappiamo delle situazioni di crisi adottiva quando sono presenti forti disagi a carico del minore adottato e relazioni familiari molto tese? Tali difficoltà possono portare, a volte, all’interruzione dei rapporti con la famiglia adottiva e, quindi, a un fallimento, ma non sempre. Quali sono, quindi, i campanelli di allarme che possono aiutare gli operatori a intervenire in queste situazioni e a ridurre, di conseguenza, i fallimenti adottivi? Quali sono, inoltre, le risorse su cui possono contare le famiglie adottive per poter superare la crisi? Si tratta di domande cruciali per strutturare interventi preventivi.

            A questo proposito è stata avviata dal Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una ricerca volta ad approfondire come le famiglie adottive affrontino momenti di particolare crisi. Lo studio è stato condotto mediante la somministrazione di un questionario on-line madri adottive che si sono rivolte a un forum online rivolto a genitori adottivi in difficoltà.

            Le madri adottive hanno riportato problemi di una certa gravità nei figli, problemi comportamentali ed emotivi, abuso di sostanze stupefacenti, fughe da casa, scarso impegno scolastico e così via. Un dato interessante messo in luce dalla ricerca riguarda proprio le risorse sui cui contare in queste situazioni: la principale è la relazione con il partner. Le madri adottive, infatti, dicono di ricevere un significativo supporto dal partner nell’affrontare queste situazioni.

            Rispetto ai servizi, invece nelle prime fasi dell’adozione il supporto dato da figure professionali quali lo psicoterapeuta, l’educatore e lo psichiatra, è stato riconosciuto come abbastanza significativo. Ma il livello di soddisfazione per il sostegno ricevuto diminuisce drasticamente se ci spostiamo al periodo nel post adozione e soprattutto durante la fase di crisi adottiva.

            È necessario dunque implementare gli interventi specifici di enrichment [arricchimento] familiare e di supporto post-adottivo, anche dopo diversi anni dall’adozione. Inoltre, sembrano necessari interventi specifici volti a intercettare e supportare quelle famiglie che stanno attraversando una forte crisi, così da poter prevenire una rottura dei legami familiari. Infine, un dato ulteriormente interessante emerso dalla ricerca è la percezione da parte delle partecipanti di un positivo ruolo del forum per genitori adottivi in cui essi sentono di aver trovato un reale supporto e un confronto significativo, privo di giudizio, un dato che potrebbe essere un punto di partenza per le nuove forme di intervento. Si potrebbe immaginare, infatti, di creare delle reti online in cui i genitori adottivi possano confrontarsi anche con professionisti che, grazie alla propria formazione, sono in grado di accogliere i bisogni dei genitori adottivi e intervenire in termini preventivi e promozionali.

            Tutti temi di interesse questi, tra i numerosi che saranno affrontati nella settima edizione dell’International Conference on Adoption Research (ICAR7) che si svolgerà, ospitata dal Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore dal 7 all’11 luglio 2020, un incontro di grande importanza per ascoltare le riflessioni più innovative della ricerca e dell’intervento nel campo delle adozioni secondo una prospettiva interdisciplinare.

            Renata Maderna        Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia – newsletter n. 9-2019

            https://centridiateneo.unicatt.it/famiglia-ricerca-quando-l-adozione-va-in-crisi

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AFFIDO CONDIVISO

Risarcito il figlio se la madre gli impedisce di vedere il padre

Corte di Cassazione, Prima Sezione civile, ordinanza n. 13400, 7 maggio 2019

www.studiofronzonidemattia.it/wp-content/uploads/2019/05/Cassaxione-Civile-17.05.2019-n.-13400.pdf

Il genitore che con atteggiamento ostruzionistico impedisce al figlio di vedere l’altro genitore, nonostante gli intervenuti accordi circa le modalità di frequentazione, rischia di incorrere nella condanna al risarcimento del danno a favore del figlio per aver leso il diritto alla bigenitorialità di quest’ultimo.

            Nell’attuale panorama, che vede disegni di legge all’esame del Parlamento, la Cassazione è tornata a pronunciarsi in materia di bigenitorialità, intesa quale interesse del minore a mantenere un rapporto continuativo con entrambi i genitori.

            Nel caso esaminato, la Corte d’Appello, discostandosi da quanto precedentemente stabilito dal Tribunale, aveva condannato una madre al risarcimento del danno di € 5.000,00 a favore del figlio poiché aveva impedito a quest’ultimo di frequentare il padre secondo le modalità già concordate tra i genitori, rilevando il clima di forte conflittualità ancora esistente nella coppia.

            La madre ha dunque presentato ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello deducendo come fosse stato lo stesso figlio a non voler vedere il padre ed a pretendere anche la presenza della madre ad ogni incontro con lo stesso.

            La Cassazione ha ribadito che le misure sanzionatorie previste dall’art. 709 ter c.p.c., tra cui anche quella del risarcimento del danno a favore del figlio, “sono suscettibili di essere applicate facoltativamente dal giudice nei confronti del genitore responsabile di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento”.

            Applicando tale principio al caso posto alla sua attenzione, la Corte di Cassazione ha ritenuto la condanna emessa dalla Corte d’Appello adeguatamente motivata, essendo stato provato un atteggiamento ostruzionistico della madre ed un condizionamento al corretto svolgimento delle modalità di affidamento del minore, oltre al disagio derivante allo stesso dall’atteggiamento materno.

            Il ricorso è stato dunque rigettato ed è stata confermata la condanna della madre al pagamento di € 5.000,00 a titolo di risarcimento danno a favore del figlio.

www.studiofronzonidemattia.it/risarcito-figlio-la-madre-gli-impedisce-vedere-padre

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ASSEGNO DIVORZILE

Niente mantenimento se la ex è giovane e il matrimonio dura poco

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 13902, 22 maggio 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_34727_1.pdf

Per piazza Cavour, se la moglie è giovane, lavora, il matrimonio è durato poco e non riesce a provare il tenore di vita goduto durante lo stesso, non le spetta il mantenimento. La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, condividendo le conclusioni a cui è giunta la sentenza oggetto d’ impugnazione. Per la Corte d’Appello infatti sono diversi i fattori che le hanno fatto ritenere di non dover riconoscere l’assegno di mantenimento alla ex moglie. La giovane età della donna, lo svolgimento di un’attività lavorativa, la breve durata del matrimonio e l’assenza di prove in relazione al tenore di vita goduto in costanza dello stesso fanno ritenere che alla stessa non spetti l’assegno di mantenimento.

La Corte d’Appello in parziale riforma della sentenza del giudice di prime cure che ha pronunciato la separazione di due coniugi, dichiara non dovuto l’assegno di mantenimento. La ex moglie soccombente ricorre in Cassazione lamentando, tra l’altro:

  • La mancata valutazione, da parte della Corte d’Appello, del materiale probatorio offerto;
  • La violazione dell’art 156 c.c. visto che la corte, nel valutare il suo diritto all’assegno di mantenimento, non ha considerato la sua effettiva capacità reddituale, la durata tutt’altro che breve del matrimonio e la grande disparità di reddito tra coniugi;
  • L’omissione di fatti decisivi, considerato che il giudice non ha esaminato le contestazioni sollevate da parte ricorrente in giudizio.

La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, perché teso a riproporre un nuovo giudizio di fatto, non consentito in sede di legittimità. A giudizio degli Ermellini inoltre la motivazione della sentenza d’Appello risulta essere “puntuale, coerente e perfettamente idonea a consentire di individuare il procedimento logico-giuridico che ne costituisce fondamento …. che, infatti, la corte di merito, nel negare al coniuge l’assegno di mantenimento, ha tenuto conto della effettiva capacità di produrre reddito dell’odierna ricorrente (la quale verosimilmente svolge attività lavorativa ed è di giovane età); del tenore di vita goduto dai coniugi durante la convivenza familiare (restando indimostrato il suo carattere elevato), nonché dalla oggettivamente breve durata della coabitazione…”.

Annamaria Villafrate            newsletter       Studio Cataldi            28 maggio 2019

www.studiocataldi.it/articoli/34727-cassazione-niente-mantenimento-se-la-ex-e-giovane-e-il-matrimonio-dura-poco.asp

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ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI

I 28 anni della CRC in Italia

http://gruppocrc.net/chi-siamo

Il 27 maggio 1991 l’Italia ratificava la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza con la Legge 176/27 maggio 1991.                         www.camera.it/_bicamerali/infanzia/leggi/l176.htm

Un passo importante che ha visto il nostro Paese impegnarsi negli ultimi 28 anni nell’attuazione dei 1991principi fondamentali in essa affermati, così come nel riconoscimento e nella protezione dei diritti universali di tutti i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze con meno di 18 anni.

            Per ricordare alle Istituzioni questo impegno, il Gruppo di Lavoro sulla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Gruppo CRC) si è attivato al fine di garantire un sistema di monitoraggio permanente, indipendente e condiviso tra le associazioni che lavorano per la promozione e la tutela dei diritti dell’infanzia in Italia. Oltre ad elaborare il Rapporto Supplementare sull’attuazione della Convenzione in Italia da inviare al Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza per l’esame periodico del nostro Paese, ogni anno, il 27 maggio, il Gruppo CRC pubblica un Rapporto di aggiornamento sullo stato di attuazione della CRC in Italia. Quest’anno verrà invece presentata un’edizione speciale a novembre in occasione del 30° anniversario della Convenzione sui Diritti del Fanciullo.

            Inoltre nel 2018 il Gruppo CRC ha deciso di sperimentare una nuova pubblicazione che si affianca all’analisi compiuta a livello nazionale nel consueto Rapporto di monitoraggio. Con l’obiettivo di fornire una fotografia regione per regione sulla base di una serie di indicatori ed offrire una panoramica sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza nei vari territori, il Network ha realizzato un Rapporto Regionale con dati disaggregati per regione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, che verrà presentato oggi a Roma e a Trieste, alla presenza di rappresentanti delle istituzioni regionali e del Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza Regione Lazio e della Garante della Regione Friuli-Venezia Giulia per i Diritti della Persona, ed una delegazione del Gruppo CRC.

            Dalla lettura disaggregata sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, emerge una forte differenziazione territoriale che impone una riflessione a livello nazionale e locale: come recentemente proposto anche dal Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nelle proprie raccomandazioni all’Italia occorre “l’adozione di misure urgenti per affrontare le disparità esistenti tra le Regioni relativamente all’accesso ai servizi sanitari, allo standard di vita, ad un alloggio adeguato, compresa la prevenzione degli sgomberi forzati, lo sviluppo sostenibile e l’accesso all’istruzione di tutti i minorenni in tutto il Paese”.

            Questo primo lavoro di ricognizione dei dati esistenti, oltre ad evidenziare le lacune del sistema nazionale e regionale di monitoraggio e di raccolta dati sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, ha sottolineato come numerose e profonde diseguaglianze regionali permangono relativamente al sostegno dei minori fuori della propria famiglia di origine, diritto all’educazione,  e fruizione di attività culturali, diritto alla salute, così come in merito alla distribuzione geografica dei minori che vivono in famiglie  a rischio povertà ed esclusione sociale, con gravi divari regionali che vedono il Mezzogiorno come zona di maggiore criticità.

            Ciò significa che le persone di minore età hanno differenti opportunità e diritti a seconda di dove nascono e crescono. Si tratta di forte discriminazione su base regionale, che ha un forte impatto sulla vita dei bambini, e che rende indispensabile avviare una riflessione strategica rispetto alle politiche per l’infanzia e adolescenza, da cui derivi l’assunzione di un impegno reale da parte delle istituzioni competenti per risolvere le criticità ancora insolute.

Rapporto I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. I dati regione per regione, dicembre 2018

http://gruppocrc.net/wp-content/uploads/2019/04/rapporto-CRC-2018-ok_-aprile-2019-002.pdf

Analisi del paragrafo su Il principio di non discriminazione del 3° Rapporto Supplementare

http://gruppocrc.net/wp-content/uploads/2009/02/par_1-18.pdf

A cura del Coordinamento CRC      27 maggio 2019

http://gruppocrc.net/i-28-anni-della-crc-in-italia

           

Ai.Bi. – Amici dei Bambini: un avvocato per ogni minorenne fuori dal nucleo familiare d’origine

Dopo le elezioni europee, il Governo dovrebbe tornare a occuparsi di una serie di questioni aperte. Tra queste il delicato tema delle case famiglia e delle comunità educative. Lo ha detto, tra le altre cose, il vicepremier Matteo Salvini, che in precedenza aveva accusato parte di queste strutture. “Su tantissime case famiglia che fanno il loro lavoro – aveva dichiarato il leader della Lega – ci sono anche soggetti che tengono in ostaggio migliaia di bambini”. E, nello scorso mese di aprile, proprio la Lega aveva depositato una proposta di legge per istituire una commissione parlamentare di inchiesta sulle attività di affidamento di minori alle case famiglia.

Nel frattempo, però, rimane il tema di chi si dovrebbe occupare di tutelare questi minorenni fintanto che sono collocati all’esterno del nucleo familiare d’origine. Perché, per un minore, l’allontanamento dalla propria famiglia è uno dei momenti più disperati della vita. E così, proprio quando avrebbe bisogno dell’aiuto di qualcuno veramente preparato, si trova spesso solo, in un limbo. Una questione ancora più spinosa se si pensa che, mentre le adozioni non crescono, i collocamenti fuori famiglia di minori aumentano. Secondo le ultime stime, in Italia i minori collocati in strutture di accoglienza (comunità educative, con massimo 12 minori per struttura, case famiglia, con un massimo di 6 minori e famiglie affidatarie) avrebbero oramai superato il tetto di 35mila.

Eppure, negli ultimi anni, a livello internazionale, si è andati verso il pieno riconoscimento del diritto del minore ad essere rappresentato nei procedimenti giudiziari che lo riguardano. La Convenzione ONU del 1989 e la Convenzione di Strasburgo del 1996 hanno specificato e attuato il diritto del minore alla piena ed effettiva partecipazione ai processi che lo riguardano ed alla difesa, con diverse modalità e a seconda della sua capacità di discernimento.

Ebbene il minore è l’unica persona al mondo che non può nominare un suo avvocato difensore: c’è da porsi quindi la domanda: “chi è in grado di tutelare e difendere i diritti del minore proprio nel periodo più fragile della propria vita?” Non lo può essere infatti il giudice, in quanto per legge è un terzo nel conflitto di contrapposti diritti e interessi (quelli del minore, dei genitori e altri).

Rifacendosi al principio di assolutezza e superiorità dei diritti dei minori, Ai.Bi. – Amici dei Bambini sta elaborando una proposta di legge per individuare e formare figure specializzate in diritto minorile che possano adeguatamente rappresentare gli interessi dei minori dal punto di vista sostanziale e tecnico.

L’avvocato del minore così pensato, oltre a possedere una conoscenza completa della normativa e della giurisprudenza minorile, in modo da realizzare al meglio possibile il diritto di difesa e di rappresentanza del suo assistito, dovrebbe essere anche in grado di sviluppare una capacità comunicativa e una competenza relazionale che gli possa permettere di interagire con tutti i soggetti coinvolti nei procedimenti relativi al minore. Il minore dovrà poter stabilire con il suo avvocato un rapporto di fiducia che gli consentirà di esprimere i propri desideri e il proprio benessere.

News Ai. Bi. 29 maggio 2019

www.aibi.it/ita/dopo-le-elezioni-tornano-in-scena-le-case-famiglia-e-ora-di-istituire-lavvocato-del-minore

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                                      CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA  

Newsletter CISF – n. 21, 29 maggio 2019

  • Politiche per la famiglia: prima e dopo le elezioni europee, cambierà qualcosa? Qualche riflessione sulle politiche per la famiglia, in una intervista telefonica su RadioInBlu al direttore del Cisf (F. Belletti), la mattina del 22 maggio 2019 (prima degli esiti elettorali). “L’Idea di recuperare per le famiglie risorse dal Reddito di Cittadinanza, conferma che Rdc non aveva centrato bene il tema delle famiglie con figli […]” I nuclei con tre figli e oltre si trovano in grande percentuale sotto la soglia di povertà. Bene la costituzione di un Fondo per la Famiglia che arrivi a un miliardo, perché serve una linea di finanziamento permanente e affidabile. È necessaria una strategia permanente e di lungo periodo, un disegno organico e affidabile. Questo si aspettano le nuove famiglie. Avere figli è un progetto che dura almeno 25 anni”… [ascolta l’audio 10 minuti]

www.radioinblu.it/2019/05/22/dl-famiglia-belletti-cisf-serve-un-disegno-organico

  • Gorizia. Nella stimolante cornice del XVI Festival èStoria,                                          www.estoria.it

dedicato quest’anno al tema “famiglie”, venerdì 24 maggio 2019 il direttore Cisf (Francesco Belletti) ha parlato di «Stati di famiglia», con l’antropologo francese Emmanuel Todd. Qualche riflessione dall’incontro è riportata sull’intervista di Matteo Sacchi a Francesco Belletti, pubblicata su “Il Giornale” di sabato 24 maggio 2019

www.ilgiornale.it/news/spettacoli/famiglia-cambia-resta-decisiva-1701063.html

  • Dalle case editrici. Tema importante: gioco d’azzardo, dipendenze, come difendersi.

Zappolini Armando, Scigliano Mimma, Mettersi in gioco. L’azzardo: dalle storie di dipendenza alle strategie per combatterlo, San Paolo, Cinisello B. (MI), 2019, pp. 236, € 17,00.

Partendo dall’esperienza di don Armando Zappolini, portavoce della campagna contro l’azzardo “Mettiamoci in gioco” e per molti anni presidente del CNCA (rete nazionale di comunità di accoglienza), il libro racconta e documenta un fenomeno sociale molto diffuso, del quale però non si ha ancora un’adeguata percezione. Il volume intende informare e sensibilizzare quante più persone possibile, e nello stesso tempo aiutare chi è caduto nella spirale della dipendenza e i suoi famigliari, con indicazioni utili e precise. Il suo filo narrativo è rappresentato dalle testimonianze di giocatori patologici in percorso di recupero presso la Comunità residenziale di Festà (provincia di Modena); alle loro storie s’intrecciano poi le voci di operatori, attivisti e collaboratori di “Mettiamoci in gioco”, in quanto osservatorio privilegiato proprio sui temi del gioco d’azzardo. Vengono affrontati i costi economici e sociali, i rischi sanitari e per la collettività, le facce di una dipendenza “senza sostanza”, difficile da intercettare e da prevenire, il limite tra gioco legale e gioco illegale. Infine, gli autori fanno il punto sul divieto di pubblicità del gioco d’azzardo e sull’assoluta necessità di una legge, che purtroppo ancora tarda a venire alla luce.

  • UE- COFACE Families. Building Inclusive Societies – First steps to bridging the gaps between family, education and migration policies (Costruire società inclusive. Primi passi per coprire le distanze tra famiglia, educazione e politiche migratorie). Il documento, appena pubblicato, contiene una documentata ed aggiornata ricognizione delle attuali politiche migratorie e del modo in cui la dimensione familiare e la partecipazione scolastica possono favorire o penalizzare processi di integrazione e inclusione sociale per i minori migranti.

www.coface-eu.org/wp-content/uploads/2019/05/COFACE-paper_Building-Inclusive-Societies_FINAL.pdf

  • Nuove statistiche sulle adozioni internazionali: primo semestre 2018 “In attesa dei dati annuali, CAI pubblica le informazioni relative al primo semestre 2018, consentendo una prima analisi sull’andamento del fenomeno adottivo nel 2018. Nei primi sei mesi dell’anno le coppie che hanno fatto richiesta di autorizzazione all’ingresso in Italia di minori stranieri alla Commissione per le adozioni internazionali sono state 501. Dall’analisi storica dei dati semestrali relativi al periodo 2012-2018 emerge un trend fortemente calante ma se ci si sofferma sull’ultimo biennio, emerge invece una stabilizzazione del fenomeno, con una riduzione di solo 11 casi nel 2018 rispetto all’anno precedente

www.commissioneadozioni.it/media/1607/report_cai_1___semestre_2018.pdf

  • Più asili nido e più posti nelle scuole materne favoriscono l’occupazione femminile. La conferma viene dai dati di una ricerca della Fondazione Openpolis. (Dati in sintesi).

www.openpolis.it/estendere-i-servizi-per-linfanzia-serve-anche-per-loccupazione-femminile

Nelle quattro regioni considerate (Valle d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna e Toscana), dove la presenza di asili nido e servizi integrativi per la prima infanzia arriva al 33% dei bambini da zero a tre anni, il tasso di occupazione femminile supera il 60%, rispetto alla media nazionale del 52,5%, dato che ci colloca al penultimo posto nell’Unione Europea, appena sopra la Grecia. L’Italia è anche il secondo paese con il più ampio divario occupazionale uomo-donna: 19,8 punti di differenza, rispetto a una media Ue di 11,5. Nel nostro paese, infatti, le donne tra 20 e 49 anni senza figli lavorano nel 62,4% dei casi, contro una media europea del 77,2%. Tra le donne con un figlio, le italiane lavorano nel 57,8% dei casi, contro l’80,2% nel Regno Unito, il 78,3% in Germania, il 74,6% in Francia. L’ennesima triste dimostrazione che avere figli e lavorare per le donne italiane restano spesso due cose inconciliabili, e una chiara indicazione – casomai qualcuno volesse cominciare a pensare seriamente al dramma della denatalità nel nostro Paese – su quali provvedimenti privilegiare

www.openpolis.it/wp-content/uploads/2019/04/Scuole-e-asili-per-ricucire-il-paese.pdf

  • Specializzarsi per la famiglia. Donna e chiesa. Diploma promosso dall’Istituto di studi Superiori sulla Donna dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Anno accademico 2019-2020.

www.upra.org/wp-content/uploads/2019/03/ANITA-

Il percorso vuole approfondire la missione e il contributo della Donna nella Chiesa, anche in considerazione del più recente magistero di papa Francesco. Si articolerà su tre moduli: socio-culturale, teologico-pastorale ed ecclesiale, antropologico e psico-pedagogico. Due settimane intensive si svolgeranno dal 23 al 28 settembre 2019 e dal 10 al 15 febbraio 2020. Termine iscrizioni: 11 settembre 2019.

  • Alba, 26 maggio – 2 giugno 2019. 14.a settimana della comunicazione. In corso in questi giorni nella città di Alba (Cuneo) la Settimana della Comunicazione, promossa dal locale Centro Culturale San Paolo Onlus, in collaborazione con Gazzetta d’Alba e con la diocesi. Convegni, incontri, feste per riflettere a partire da un recente sfida di Papa Francesco:Dalle social network communities alla comunità umana”.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2119_allegato2.pdf

  • Save the date
  • Nord: Le famiglie sandwich. Tra compiti di cura e responsabilità educative, con il supporto dei servizi, seminario formativo organizzato da ANTEAS (Associazione Nazionale tutte le età Attive per la Solidarietà – Federazione Nazionale Pensionati della CISL), Biassono (MB), 3 giugno 2019.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2119_allegato3.pdf

  • Nord: La sfida quotidiana – conciliare lavoro e famiglia, evento promosso dal Gruppo Terziario Donna Confcommercio della provincia di Varese, Varese, 10 giugno 2019.

http://panel.confcommerciovarese.it/allegati/2207_Progamma_Convegno_Terziario_Donna.pdf

  • Centro: Formazione Personale e Uso del Sé del Terapeuta Familiare, 52° convegno di studio, promosso dall’Accademia di Psicoterapia della Famiglia, Roma, 21 – 22 giugno 2019.

www.accademiapsico.it/news/52-convegno-di-studio-21-22-giugno-2019.html

  • Centro: Le domande grandi dei bambini, primo convegno nazionale presentazione dei tre volumi di “Itinerario di prima Comunione per genitori e figli”, per sacerdoti, animatori e catechisti, promosso dagli autori (padre Maurizio Botta e don Andrea Lonardo) e da Itaca Edizioni, Roma, 8 giugno 2019.                                                                                       www.ledomandegrandideibambini.org
  • Centro: Legami adottivi tra appartenenze e identità, incontro promosso dall’Associazione Legàmi adottivi (composta da persone adottate), Firenze, 15 giugno 2019.

www.ciai.it/wp-content/uploads/2019/04/LEGAMI-VOLANTINO.pdf

  • Sud: Pratiche di mediazione familiare, workshop (con crediti formativi per assistenti sociali), promosso da Associazione Prof.As.S. (Professione Assistente Sociale), Trapani, 14 giugno 2019.

www.cnoas.it/cgi-bin/cnoas/vfale.cgi?i=NNWNENOEHNMNFNXOQQVEAP&t=brochure&e=.pdf

  • Sud: Family Economics. Come la famiglia può salvare il cuore dell’economia. Presentazione del volume (Lubomir Mlcoch, Edizioni San Paolo 2017

www.sanpaolostore.it/family-economics-come-famiglia-puo-salvare-cuore-dell-economia-lubomir-mlcoch-9788892211247.aspx?Referral=newsletter_cisf_20190605

Promosso da Alleanza Cattolica, Rodì Milici (Messina), 8 giugno 2019.

https://alleanzacattolica.org/evento/rodi-milici-family-economics-come-la-famiglia-puo-salvare-il-cuore-delleconomia

  • Estero: 6th Annual International Conference on Demography and Population Studies, evento promosso dalla Divisione Antropologia e Demografia di ATINER (Athens Institute for Education and Research), Atene, 17-20 giugno 2019.

https://iussp.org/en/6th-annual-international-conference-demography-and-population-studies

Iscrizione                  http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio          http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/maggio2019/5126/index.html

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CONFERENZA – CONGRESSI – CONVEGNI – CORSI – SEMINARI

7a edizione dell’International Conference on Adoption Research

Il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ha l’onore di ospitare la 7° edizione dell’International Conference on Adoption Research Milano, 7-11 luglio 2020.

L’International Conference on Adoption Research (ICAR) è stata organizzata per la prima volta nel 1999 dal professor Harold Grotevant, dell’Università del Massachusetts, ad Amherst (U.S.A.) con l’obiettivo di creare un’occasione di incontro e di scambio tra i ricercatori, gli operatori e i professionisti di tutto il mondo impegnati nel campo delle adozioni. La prima Conferenza ebbe molto successo, così che la professoressa Elsbeth Neil, dell’Università dell’East Anglia (Gran Bretagna), decise di organizzare una seconda edizione a Norwich nel 2006. Sono poi seguite altre quattro edizioni: 2010, Leiden, Paesi Bassi; 2013, Bilbao, Spagna; 2016, Auckland, Nuova Zelanda; 2018, Montréal, Canada.

L’ICAR è diventato così un evento ricorrente e rappresenta un’opportunità unica per la comunità internazionale di ricercatori, accademici e professionisti per condividere e diffondere le più recenti conoscenze nell’ambito delle adozioni. La finalità ultima è quella di sviluppare un network internazionale per individuare nuove linee di ricerca e di intervento che possano contribuire al benessere dei bambini adottati e delle loro famiglie.

L’ICAR7 sarà preceduta da due giornate di formazione (Summer School) 6-7 luglio dedicate a dottorandi e giovani ricercatori, al fine di acquisire ulteriori competenze nell’ambito dello studio e della metodologia di ricerca riguardante i temi dell’adozione. Inoltre, la Summer School intende stimolare la creazione di una rete internazionale di scambio e di confronto tra le nuove generazioni per lo sviluppo di future ricerche e collaborazioni.

Il sito web è ora on-line e sarà costantemente aggiornato:      www.unicatt.it/icar7

Seguici sulla pagina Facebook                                                             www.facebook.com/ICARadoption

 

“Donna e Chiesa”: nuovo corso al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum

Il diploma è offerto dall’Istituto di Studi Superiori sulla Donna, a partire dal prossimo Anno accademico 2019/2020. Intervista con la prof.ssa Marta Rodriguez, direttrice dell’Issd.

Comprendere, rispettare, valorizzare e promuovere il genio femminile nella vita della Chiesa, così come raccomandato da Papa Francesco. Da qui l’idea di offrire un percorso accademico ad hoc nell’ambito della Pontificia Università Regina Apostolorum (Upra), che porti a conseguire un Diploma di specializzazione su “Donne e Chiesa“. Il Corso prevede due settimane intensive di insegnamenti multidisciplinari, in programma dal 23 al 28 settembre 2019 e dal 10 al 15 febbraio 2020, presso l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna (Issd), fondato nel 2003 con l’intento di promuovere la prospettiva femminile, in ambiti ecclesiale e civile incoraggiando un proficuo rapporto di collaborazione tra uomini e donne, che porti a valorizzare la ricchezza delle loro specificità.

Che cosa impedisce ancora oggi alle donne di essere pienamente apprezzate e valorizzate nella Chiesa, nei propri talenti femminili?

R. – Io credo vi sia una mancanza di formazione di cultura, perché negli ultimi 40 anni abbiamo parlato molto dell’importanza del contributo delle donne. Ci sono principi molto chiari che poi fanno fatica ad essere concretizzati nella vita.

Il cammino di emancipazione delle donne è stato costellato di grandi successi nel secolo scorso, che in parte però oggi vediamo vanificati dal venire meno di alcune tutele sociali, ad esempio della famiglia tradizionale o della maternità, sempre più osteggiata nel mondo del lavoro o dei tempi di conciliazione del lavoro fuori e dentro casa.  Come ancorare i risultati ottenuti ad un progresso civile che valorizzi davvero il ruolo delle donne?

R. – Per me il cammino è guardare avanti e non indietro, perché le conquiste che sono state fatte sono importanti e le celebriamo, però non hanno colmato, non hanno risposto a tutte le domande. Oggi le donne fanno fatica anche a capire cosa significa essere donna, quando la società e i modelli organizzativi non favoriscono la maternità, ma tutto il contrario. Noi crediamo che il cammino sia quello di promuovere un’alleanza tra uomo e donna come quella di cui parlava il Santo Padre nel suo Messaggio ai membri dell’Accademia Pontificia per la Vita: quell’alleanza tra uomo e donna che porterà a prendere in mano la regia della società, e anche i modelli organizzativi del mondo del lavoro, perché non siano così improntati sul tempo e lo spazio ma siano più flessibili ed improntati sui risultati.

Effettivamente, troppo spesso vediamo il ruolo delle donne schiacciato su quello maschile.

R. -Sì, oggi invece ci vogliono le soft skill ovvero le caratteristiche personali che le donne portano in un modo preminente, e di cui anche il mondo del lavoro ha bisogno per uscire dalla crisi che stiamo affrontando.

Forse manca una profonda presa di coscienza delle donne stesse, del proprio valore, della propria unicità?

R. – Io sono convinta di questo. Credo che oggi abbiamo perso anche il contatto con il significato del corpo, facciamo fatica a capire cosa significa essere donna. Sappiamo che è difficile ma non sappiamo cosa significhi. E quello porta anche una crisi della virilità, che oggi è un fenomeno in crescita.

Quindi questa contrapposizione uomo donna ha portato piuttosto degli aspetti negativi?

R. – La contrapposizione sempre porta aspetti negativi. Noi proponiamo un’alleanza che parte dal riconoscimento dell’identità di ciascuno, del rispetto dell’identità dell’altro e poi è nell’incontro che ognuno trova anche la propria identità. E’ una sinergia…e sono risultati che da soli non si possono raggiungere.

A chi è rivolto il Corso?

R. – E’ aperto a vescovi, presbiteri, religiose, religiosi, laici, uomini e donne che siano impegnati in ruoli formativi o di leadership in ambito ecclesiastico, sia a livello curiale e diocesano che accademico. Loro sono in primis i drivers i guidatori del cambiamento che ci auguriamo di poter raggiungere insieme a loro.

Sono previsti tre moduli incentrati sugli aspetti socioculturali, teologico-pastorali ed ecclesiali, antropologico e psicopedagogico. Un percorso a 360 gradi?

R. – Sì, molto ambizioso. Il primo modulo tenterà di evidenziare a livello socioculturale quali sono le luci e le ombre della situazione della donna all’interno della Chiesa e non solo. Il modulo teologico-pastorale che ha una buna parte ecclesiologica tenterà di approfondire le prospettive ecclesiologiche che sono state aperte dal Concilio Vaticano II per i laici e anche con le sue implicazioni di tipo canonico. C’è poi una parte di mariologia ed un approfondimento nell’antropologia teologica. Mentre nella parte più applicativa, più psicopedagogica si affrontano temi di teologia pastorale che a volte i sacerdoti fanno fatica ad affrontare e che riguardano le donne in modo particolare, per esempio la violenza sulle donne, la pornografia, l’abuso sessuale… Vogliamo dare strumenti in questo campo che si concretizzeranno in workshop molto pratici: come gestire la comunicazione tra uomo e donna nel mondo del lavoro, come gestire il pregiudizio e l’empatia, l’ascolto… Quindi si va da lezioni di tipo scientifico abbastanza esigenti a workshop di tipo molto pratico e applicativo.

Roberta Gisotti Vatican news           28 maggio 2019

www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2019-05/donna-e-chiesa-nuovo-corso-pontificio-ateneo-regina-apostolorum.html

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CONSULTORI FAMILIARI CATTOLICI

Psicoterapeuta e avvocato, alleati nei conflitti familiari

L’importanza della salvaguardia del legame tra le generazioni, fulcro della relazione familiare. Una riflessione nata dal lavoro concreto nei casi di separazione

Approfondendo la tematica ho avuto modo, come terapeuta, di confrontarmi con situazioni di sofferenza relazionale sia all’interno della coppia sia nella dinamica familiare, dove i figli diventano i principali catalizzatori del disagio emotivo. È possibile, con un lavoro terapeutico, poter entrare nella storia e nel romanzo di quella coppia e di quella famiglia e permettere a ciascun membro di poterne vedere la ricchezza e la complessità, favorendo la consapevolezza dei processi che hanno portato alla formazione del disagio, dei conflitti e delle sintomatologie specifiche. Quando non è possibile accompagnare un processo trasformativo, che si verifica nella maggior parte delle situazioni, è comunque possibile sostenere le persone nel poter affrontare la sofferenza della separazione.

L’oggetto di approfondimento è proprio il legame, e la persona è intesa come essere in relazione che vive di legami e che esiste in relazione con l’altro: così come insieme si stringe il patto, così insieme lo si scioglie. L’aspetto paradossale del divorzio, quando il processo di coppia porta alla rottura del patto, è quello di essere un compito congiunto che trascende l’elaborazione personale, che ha comunque il suo spazio e il suo peso.

Il lavoro è sul legame perché con lo scioglimento si ritirano dal patto gli impegni e i doni reciproci, lasciando spazio al dolore del fallimento, all’odio per l’altro vissuto come fonte di male o verso di sé, percepiti come indegni e incapaci nel portare avanti una relazione, o all’essere assorbiti dall’angoscia del presente-futuro. A corona della risonanza personale ci sono i figli che non sono “separabili” dal destino del patto di coppia e per quanto un figlio possa “differenziarsi” rispetto ai singoli genitori, non può farlo dal legame di coppia e tenterà di intervenire in vari modi: rifuggendolo; riparandolo; alleandosi con un membro della coppia, generalmente quello percepito come il più fragile; riproducendolo nel proprio stile relazionale futuro.

È importante, nel lavoro da fare, la salvaguardia del legame tra le generazioni che è il fulcro della relazione familiare. I legami non si eliminano ma si trasformano, vengono ad assumere altre forme e significati perché la loro dimensione emotiva-affettiva è essere “eterni” e su di questo va calibrato l’intervento.

Non c’è dunque la fine-sparizione, ma piuttosto la fine-passaggio, perché non è possibile uscire dal legame annullandolo, anche se questo è ciò che molti disperatamente desiderano e nei casi più gravi agiscono, è invece possibile separarsene nel senso di riconoscerlo per quello che è stato, dare spessore storico alle relazioni vitali, offrire un senso di aver qualcosa dato e qualcosa ricevuto, oppure constatare dolorosamente che ciò non è stato possibile per più cause e non per malvagità di uno solo, e soprattutto poter riproporre il valore e la speranza nel legame.

Il legame è qui pensato nella sua complessità, non solo in termini di vincolo-obbligo ma anche come luogo di comunione, della lealtà, del proprio romanzo familiare, della fede nel rapporto che teorizza la coppia come sintesi, dove si incontrano e si incastrano bisogni-paure-aspettative per la maggior parte inconsapevoli.

Da questi presupposti è nata la collaborazione con due professionisti, Sarah Verdini, avvocato, ed Emiliano Luchetti, mediatore e psicoterapeuta familiare, inizialmente come richiesta in ambito giudiziale dove era necessaria l’analisi e la valutazione delle diverse dinamiche tra i coniugi in fase di separazione conflittuale con le implicazioni sia nell’ambito della sofferenza personale sia nell’ambito della genitorialità: tale sofferenza era direttamente correlata all’inasprirsi della conflittualità nei confronti dell`altro coniuge e ciò con grave pregiudizio dei figli, che erano diventati vittime innocenti del dramma della disgregazione familiare.

Abbiamo potuto riscontrare che poter creare uno spazio di lavoro condiviso tra avvocato e psicoterapeuta può concretamente portare ad una risoluzione consensuale del rapporto coniugale, a tutto vantaggio del “sistema familiare” garantendo a ciascun membro di essere accolto nella propria sofferenza e di poter essere “visto” rispetto alle proprie richieste. Le richieste, oltre ad essere percepite come una sorta di “risarcimento” correlato al dolore, diventano anche ponte per la tenuta della collaborazione degli ex-coniugi nella gestione e nella educazione dei figli. Quanto detto è il perno centrale per ridurre la triangolazione del minore che avviene inevitabilmente in ogni situazione di conflitto coniugale.

È importante valutare, attraverso il lavoro dello psicologo, se chi intraprende il percorso giudiziale abbia come spinta motivazionale “il bisogno di vendicarsi” del dolore subìto oppure presenti una dinamica intrapsichica/caratteriale che determini la conflittualità ed influenzi necessariamente il percorso alla separazione. Tale valutazione può permettere di ipotizzare quale sia l’elemento che incida maggiormente oppure osservarne la compresenza con altri aspetti che andranno ad essere riscontrati, così da offrire un valore aggiunto ed orientare il lavoro legale, il quale è imprescindibile dalle dinamiche personali e relazionali.

Indispensabile, ai fini del buon esito della mediazione, è la concreta volontà delle parti ad intraprendere un percorso che permetterà di poter vedere e riconoscere le vere motivazioni ad una scarsa disponibilità nei confronti dell’ex partner al fine di poterle analizzare e lavorare favorendo così un dialogo proficuo tra le parti. L’elemento centrale è la possibilità di essere assistiti da un unico consulente “super partes” che sia garante e neutrale degli interessi di entrambe le parti e che abbia come unico scopo quello di favorire il raggiungimento degli obiettivi che la stessa coppia decide di porsi. Tale lavoro, complesso e specializzato, è la condizione per costruire un nuovo assetto familiare funzionale, sostenibile e collaborativo garantendo le funzioni genitoriali e preservando la relazione genitori-figli.

Questa riflessione è nata dal lavoro concreto con le famiglie che affrontano la separazione e la collaborazione interdisciplinare si è resa necessaria proprio per garantire un terreno neutrale su cui costruire le basi del nuovo accordo lavorando congiuntamente su due piani: quello psicologico e quello legale. Negli Stati Uniti e in Inghilterra è già ampiamente affermato l’uso del diritto “collaborativo” con evidenti vantaggi per tutte le parti coinvolte, sia per la famiglia sia per i professionisti, e auspichiamo che anche in Italia possa prendere sempre più piede questa forma di gestione e di risoluzione alternativa delle dinamiche conflittuali familiari.

Laura Boccanera       Consultorio familiare diocesano Roma        27 maggio 2019

www.romasette.it/psicoterapeuta-e-avvocato-alleati-nei-conflitti-familiari

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COPPIA

Crisi di coppia: cause e soluzioni

Poeti, scrittori, pittori, musicisti si sono sempre interrogati sul significato dell’amore ed hanno dedicato versi, tele e canzoni a quel sentimento irrazionale che pervade l’anima, accende la passione e il desiderio, occupa i pensieri più profondi e fa avvertire palpiti di pura magia. Un sentimento travolgente che può portarti a compiere la più dolce follia. Ma cosa succede quando svanisce tutta la poesia? Quando i problemi quotidiani si insinuano nella coppia e trasformano le piccole incomprensioni in grandi discussioni? Cosa accade quando la serenità viene meno e ci si annoia anche solo a litigare? Quando le delusioni prendono il sopravvento e non hai più fiducia nel partner, avverti una rottura, improvvisamente qualcosa si distrugge. E’ la crisi! Allora, due sono le possibili alternative. Dalla crisi possono emergere i problemi, le diversità di vedute, le differenze caratteriali e allora può instaurarsi un confronto costruttivo. La coppia può decidere di affrontare tutto ciò e trovare la forza di crescere insieme. Oppure, dopo vari tentativi, si arriva ad una triste conclusione: la fine del sentimento. Ma l’amore può svanire da un momento all’altro? Magari in questo momento stai vivendo un periodo di crisi con il tuo partner e vorresti saperne di più sulla crisi di coppia: cause e soluzioni.

Può darsi che col tempo, dopo tutti i rospi che hai buttato giù, sei arrivato/a al limite di sopportazione e ritieni che non abbia più senso investire in una relazione che non ti porta da nessuna parte e non ti regala più quelle belle emozioni di un tempo. Hai pensato che fino a quel momento probabilmente esisteva solo l’illusione di un sentimento? Magari eri innamorato/a dell’idea che avevi del tuo lui o della tua lei. Tutto può succedere!

Ma quali sono le cause della crisi di coppia? A volte, la routine, l’abitudine, le delusioni, il tradimento, la mancanza di attenzioni sono tra le cause che possono accendere la miccia di una crisi. Molti sono d’accordo nel ritenere che non bisogna mai dare per scontata la persona che si ha accanto senza preoccuparsi di ciò che prova e non curandosi delle sue difficoltà quotidiane, delle sue aspirazioni e dei suoi successi. C’è chi dice che talvolta l’amore non basta; chi, al contrario, pensa che con l’amore si supera tutto. Per qualcuno il fatto di decidere se portare avanti o meno un rapporto, nonostante la crisi, dipende dalle situazioni, dalle delusioni, dai problemi da affrontare. Insomma, i casi possono essere i più disparati e una coppia in crisi che ha intenzione di recuperare il rapporto ha diverse strade davanti per ritrovare la propria complicità.

Quali sono le fasi evolutive di una coppia? Intanto, occorre definire cos’è una coppia. Si tratta di un sistema vivente complesso, un bio-sistema nel linguaggio psicocorporeo. Le due persone della coppia, diverse tra loro, nello stare insieme, nel comunicare, nel relazionarsi, creano questo bio-sistema complesso chiamato coppia. La relazione di coppia si co-costruisce ogni giorno con amore e rispetto, edificando così reciprocità e benessere.

Le fasi evolutive non sono identiche per tutte le coppie. Solitamente, si attraversa una fase iniziale d’innamoramento, in cui l’altro non viene visto per quello che è realmente, ma per l’idealizzazione fatta da lui o da lei. Sicuramente, è una persona bellissima, affidabile, tutta dedita all’altro/a. Nel tempo, iniziano ad apparire limiti e difetti del partner o, meglio, si inizia a vedere l’altro così com’è. Spesso si cade nella tentazione di volerlo cambiare o tentare di plasmarlo sul modello ideale che ci siamo fatti di lui o di lei. E’ qui che spesso appaiono le prime crisi e conflitti.

            Dopo l’attraversamento di periodi d’allontanamento e di riavvicinamento, di difficoltà e litigi, si passa, nel tempo, all’accettazione dell’altro/a così com’è. La coppia può così raggiungere fasi più stabili di co-costruzione e di rispetto reciproco.

Come capire se è amore o solo abitudine? L’amore e l’abitudine hanno origini assai diverse. Se si ama una persona solitamente c’è reciprocità, cioè ci si sente amati, compresi e sostenuti dall’altro. Lo stare in coppia è piacevole. Solitamente, tali sensazioni facilitano nel percepirsi aperti con gli altri e con tante energie da spendere in   progetti ed attività diverse.

Se è abitudine o routine, spesso non si prova amore e non ci si sente amati, compresi e sostenuti. Spesso ci si chiude emotivamente verso gli altri per non sentire il dolore che provoca tutto questo e, conseguentemente, non si ha tanta voglia di fare. C’è tristezza.

Come vincere l’abitudine e la monotonia nella coppia? Un modo per affrontare abitudine e routine è mantenere sempre una buona comunicazione emozionale ed affettiva con il proprio partner.

Mancanza di dialogo: quanto e come incide in un rapporto di coppia? La comunicazione è molto importante nella coppia. Ciò che è veramente importante non è tanto la comunicazione di ciò che si fa, ma di ciò che si sente. In altre parole, saper comunicare all’altro le proprie emozioni, sensazioni e pensieri. Parliamo quindi della comunicazione del proprio mondo emozionale ed affettivo.

Sia se è un buon momento che un momento critico, è importante avere sempre il coraggio di esprimere all’altro/a il proprio stato d’animo anche se sentiamo rabbia o dolore.

Crisi di coppia: quali sono i campanelli d’allarme? I campanelli d’allarme sono sempre e soprattutto emotivi. Sentirsi trascurati, delusi o non amati, può innescare pensieri d’incertezza sulla stabilità affettiva data dall’altro/a. Questi pensieri ne innescano altri ancora e c’è la crisi.

Quali sono le dinamiche della crisi di coppia? Il distacco emotivo e il desiderio di allontanarsi provato da uno dei due partner o da entrambi fa sì che si interrompa la co-costruzione del benessere nella coppia e, contemporaneamente, si tenta di compensare individualmente il disagio percepito. Il distacco affettivo poi può creare la premessa per qualsiasi cosa che possa minare la relazione di coppia: un tradimento, un lavoro che porta lontano o altro ancora. Può accadere che l’evasione prenda la mano ed è difficile rientrare.

Crisi di coppia: come uscirne? Per molti la parola crisi vuol dire che la coppia è ad un passo dalla separazione, vuol dire cioè che già possiamo prevederne la fine. Nell’antica Grecia la parola crisi rimandava al concetto di decisione, scelta. Possiamo dire che per i greci antichi la crisi, invece, era occasione di trasformazione e di cambiamento. Oggigiorno, non c’è coppia che non abbia problemi o che non abbia attraversato momenti critici. Spesso le crisi si risolvono in modo naturale e funzionale e sono anche passaggi evolutivi della coppia.

Può, invece, capitare che i problemi non diminuiscano, ma aumentino e quindi le crisi non vengono superate ma perdurano nel tempo. In questo caso, le crisi divengono sempre più forti emotivamente. Quando ciò accade, è necessario chiedere aiuto all’esterno, ad un professionista che abbia la capacità e le competenze necessarie per riportare i partner a sentirsi e a percepirsi nuovamente amati dall’altro/a, il tutto nello spazio protetto del setting terapeutico.

Crisi di coppia: quali sono le cause più frequenti? I motivi più frequenti per cui possono innescarsi difficoltà e crisi nella relazione di coppia sono molti e diversi. Secondo me, i più frequenti sono:

  • separazioni non compiute con le famiglie d’origine. Solitamente, la relazione di coppia, soprattutto nel momento in cui si stabilizza nella convivenza, nel matrimonio o nell’attesa di un figlio, necessità di serenità, stabilità e fiducia. Se lui o lei o entrambi non hanno compiuto una separazione con la famiglia d’origine, tali legami possono prevalere e creare delle interferenze. Può succedere che giudizi, incomprensioni, futili litigi tra parenti, possono interferire nello stabilizzarsi della relazione di coppia e minare una buona intimità;
  • traumi interni o esterni alla coppia. I traumi interni sono la forte possessività e gelosia di uno dei due partner, tradimenti, comunicazioni importanti non date ed altro ancora, possono incrinare la chiarezza, la trasparenza, la sincerità della relazione. I traumi esterni sono: lutti inattesi, licenziamenti, difficoltà economiche improvvise, malattie, possono mettere in luce fragilità nascoste dei partner e della coppia stessa;
  • lunghi allontanamenti. Oggi, è frequente sia per necessità economica o per carriera accettare soluzioni lavorative che portano alla separazione di fatto dei partner. La lontananza non è facile da gestire emotivamente. A volte, basta una parola detta dall’altro a innescare fantasie di disamore o peggio ancora di tradimento;
  • difficoltà relazionali con i figli. Spesso nel percorso della genitorialità s’incontrano momenti di forti incomprensioni tra partner, nella gestione e nell’educazione dei propri figli. Se non espressi ed elaborati, questi possono diventare veri conflitti interni alla coppia;
  • squilibrio tra i partner. Può succedere che solo uno/a nella coppia evolve a livello culturale, lavorativo e professionale. Questo può far nascere nell’altro/a competizione, invidia e gelosia. Conseguentemente, ci si allontana dalla costruzione dell’armonia e della reciprocità.

Come superare le crisi e riportare la serenità nella coppia e in famiglia? Le crisi possono avere motivazioni assai diverse, ma per attraversarle e per superarle ciò che necessita è la fiducia e il desiderio di trasformarsi. Fiducia prima di tutto in se stessi e poi fiducia nell’altro/a. La fiducia sostiene nei momenti più difficili, fa chiedere aiuto se necessario, fa trovare il coraggio di comunicare all’altro/a i propri sentimenti e il proprio mondo affettivo ed emozionale. La fiducia aiuta e supporta la trasformazione di se stessi e la comprensione dell’altro, entrambe necessarie per poter superare qualunque crisi di coppia.

Crisi di coppia: quando lasciarsi? Come capire se l’amore è finito? Sentirsi trascurati, isolati e non amati attiva, a catena, comportamenti d’allontanamento, distacco emotivo, diminuzione dell’attrazione sessuale, noia e affaticamento nello stare insieme. Alcune coppie comunicano le proprie difficoltà e riescono a riavvicinarsi affettivamente, altre invece nel tempo tendono a peggiorare e conseguentemente le sensazioni negative prendono il sopravvento.

Esistono crisi naturali, di passaggio o fisiologiche, con le quali la coppia nell’andare avanti e nel tempo impara anche ad attraversare. Ci sono crisi che possono portare uno dei due partner o entrambi a desiderare la separazione e a tentare di ristabilire la serenità e l’armonia nella propria vita individualmente.

Quando lasciarsi? Non c’è un confine uguale per tutti. Il confine lo dà la sensazione di piacere e di benessere personale. Quando oramai conflitti, rivalse, vendette e non rispetto reciproco hanno preso il sopravvento. Quando, cioè, lo stare insieme al partner è divenuto un affaticamento emotivo, una sofferenza, un inutile litigare che non produce cambiamenti ma solo altre rivalse e altro malessere. Forse allora possiamo dire che la coppia è giunta in quello spazio di non ritorno.

Crisi di coppia: quando è possibile chiedere la separazione? Dopo aver analizzato gli aspetti psicologici nell’intervista alla psicoterapeuta Francesca Zoppi, possiamo passare agli aspetti legali. Ti spiegherò quali sono i motivi per cui puoi porre fine al tuo matrimonio.

Se la convivenza con tua moglie o con tuo marito è diventata intollerabile, puoi chiedere la separazione. La legge non specifica quali sono i motivi dell’intollerabilità. Potrebbe trattarsi di una causa qualunque come il disinteresse reciproco; l’assenza di comprensione e di supporto morale e materiale; l’assenza di rapporti (anche sessuali); i continui litigi; il disaccordo sulla vita matrimoniale; l’infedeltà; l’allontanamento dalla casa coniugale. E se non amassi più la tua dolce metà? Il disinnamoramento può essere considerato una valida ragione per chiedere la separazione? La risposta è affermativa.

Insomma, i motivi possono essere innumerevoli. Non occorre provare che la convivenza sia diventata intollerabile, ma è sufficiente che uno dei due coniugi si sia rivolto al giudice, in quanto non desidera più restare accanto all’altro unito in matrimonio.

Inoltre, non è necessario che ci sia il consenso dell’altro coniuge che, al contrario, vorrebbe proseguire il rapporto. Pertanto, in tal caso, si potrà procedere ad una separazione giudiziale e non consensuale.

E se volessi chiedere l’addebito a carico dell’altro coniuge per le sue condotte contrarie al matrimonio?

Occorrerà dimostrare che ha violato uno dei doveri coniugali: fedeltà, convivenza, assistenza morale e materiale, rispetto, collaborazione nell’interesse della famiglia.

Denise Ubbriaco        La legge per tutti       30 maggio 2019

www.laleggepertutti.it/287111_crisi-di-coppia-cause-e-soluzioni

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DALLA NAVATA

Ascensione del Signore – Anno C – 2 giugno 2019

Atti Apostoli   01, 01. Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.

Salmo                          46, 02. Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia, perché terribile è il Signore, l’Altissimo, grande re su tutta la terra.

Ebrei   10, 23. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede             colui che ha promesso.

Luca    24, 46. In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».

 

Una «forza di gravità» che spinge verso l’alto

            Ascensione è la navigazione del cuore, che ti conduce dalla chiusura in te all’amore che abbraccia l’universo (Benedetto XVI). A questa navigazione del cuore Gesù chiama gli undici, un gruppetto di uomini impauriti e confusi, un nucleo di donne coraggiose e fedeli. Li spinge a pensare in grande, a guardare lontano, ad essere il racconto di Dio “a tutti i popoli”.

            Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Nel momento dell’addio Gesù allarga le braccia sui discepoli, li raccoglie e li stringe a sé, prima di inviarli.

            Ascensione è un atto di enorme fiducia di Gesù in quegli uomini e in quelle donne che lo hanno seguito per tre anni, che non hanno capito molto, ma che lo hanno molto amato: affida alla loro fragilità il mondo e il vangelo e li benedice.

            È il suo gesto definitivo, l’ultima immagine che ci resta di Gesù, una benedizione senza parole che da Betania raggiunge ogni discepolo, a vegliare sul mondo, sospesa per sempre tra cielo e terra.

            Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo.

            Gesù non è andato lontano o in alto, in qualche angolo remoto del cosmo. È asceso nel profondo delle cose, nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come benedizione, forza ascensionale verso più luminosa vita. Non esiste nel mondo solo la forza di gravità verso il basso, ma anche una forza di gravità verso l’alto, che ci fa eretti, che fa verticali gli alberi, i fiori, la fiamma, che solleva l’acqua delle maree e la lava dei vulcani. Come una nostalgia di cielo.

            Con l’ascensione Gesù è asceso nel profondo delle creature, inizia una navigazione nel cuore dell’universo, il mondo ne è battezzato, cioè immerso in Dio. Se solo fossi capace di avvertire questo e di goderlo, scoprirei la sua presenza dovunque, camminerei sulla terra come dentro un unico tabernacolo, in un battesimo infinito.

            Luca conclude, a sorpresa, il suo vangelo dicendo: i discepoli tornarono a Gerusalemme con grande gioia. Dovevano essere tristi piuttosto, finiva una presenza, se ne andava il loro amore, il loro amico, il loro maestro. Ma da quel momento si sentono dentro un amore che abbraccia l’universo, capaci di dare e ricevere amore, e ne sono felici (ho amato ogni cosa con l’addio (Marina Cvetaeva).

            Essi vedono in Gesù che l’uomo non finisce con il suo corpo, che la nostra vita è più forte delle sue ferite. Vedono che un altro mondo è possibile, che la realtà non è solo questo che si vede, ma si apre su di un “oltre”; che in ogni patire Dio ha immesso scintille di risurrezione, squarci di luce nel buio, crepe nei muri delle prigioni. Che resta con me “il mio Dio, esperto di evasioni.” (Marina Marcolini).

Padre Ermes Ronchi, OSM

www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=45970

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DISCERNIMENTO

Mons. Semeraro (Albano), “discernere implica scegliere e decidere”

            Il processo del discernimento si conclude con “due azioni importanti e complementari: scegliere e decidere”. Lo sottolinea mons. Marcello Semeraro, vescovo di Albano, nel volume “Ascoltare e curare il cuore”, edito dalla Lev con la prefazione di Papa Francesco. “Occorre scegliere, perché il discernimento non può rimanere nella testa ma deve passare in tutto il corpo: ossia nelle scelte concrete, in comportamenti, in relazioni, in opere”, spiega mons. Semeraro ricordando che il passo successivo è quello del “decidere”. “Fino a quando non si sono compiuti passi concreti, non sarà possibile verificare se si è davvero entrati nella realtà, se si è sulla via giusta o si è stato imboccato un vicolo cieco”, rileva il vescovo evidenziando che “ogni decisione ha sempre bisogno della prova dei fatti, per potere poi ricevere una conferma”. Ecco allora, osserva mons. Semeraro, che “il binomio scegliere e decidere ci rimanda a un presupposto fondamentale del discernimento, che è l’esercizio di un’autentica libertà umana e di una responsabilità personale”.

Per il vescovo di Albano, bisogna “scegliere il bene possibile, quello possibile per me qui ed oggi”. Si tratta, cioè, “di scegliere concretamente, e questo mai una volta per tutte, il cosa fare ‘qui ed oggi’ per corrispondere alla volontà di Dio”. È questo, afferma, “il punto cruciale, giacché tappa decisiva e qualificativa del discernimento è precisamente l’agire secondo la volontà divina”. Che non significa “svolgere un copione, quasi si fosse a teatro” o “di scoprire e di eseguire un programma prestabilito”, ma di “far nascere una fedeltà”.

Agenzia SIR   28 maggio 2019

Spiritualità: mons. Semeraro (Albano), “discernere implica scegliere e decidere”

 

Mons. Semeraro: “sacerdote è uomo del discernimento se sottopone se stesso a questo processo”

Il sacerdote “è davvero uomo del discernimento anzitutto se ha sottoposto se stesso a questo processo e se vi rimane aperto e disponibile per tutta la vita”. Lo ricorda mons. Marcello Semeraro, vescovo di Albano, nel volume “Ascoltare e curare il cuore”, edito dalla Lev con la prefazione di Papa Francesco, da ieri in libreria. “Chi accompagna gli altri nel fare discernimento deve sempre essere egli stesso dentro il discernimento”, osserva il vescovo per il quale “non si può essere capaci di operare discernimento per gli altri, e neppure riguardo alla realtà umana, ossia nel discernimento dei segni dei tempi, se non si sarà già entrati personalmente nel discernimento”.

Secondo mons. Semeraro, “essere uomo del discernimento, è un obbligo morale per chi ha ricevuto la responsabilità di guidare una comunità”. Un sacerdote, cioè, “deve necessariamente avere operato un discernimento nella propria vita”. Che vuol dire, chiarisce il vescovo di Albano, “rendere la propria vita conforme alla volontà di Dio conosciuta proprio mediante il discernimento”, che è “un processo aperto”. “Per la vita spirituale di noi sacerdoti, il discernimento – aggiunge – è prezioso anche per superare quel male oscuro che è l’accidia”, che rappresenta “un male che non risparmia nessuno”. “Un sintomo speciale della sua presenza nella vita di noi sacerdoti – rileva – è il cominciare a girare a vuoto, magari disperdendoci in mille cose da fare assunte come alibi per abitare sempre altrove e mai con se stessi, dove invece Dio abita”

Agenzia SIR        28 maggio 2019

https://agensir.it/quotidiano/2019/5/28/chiesa-mons-semeraro-albano-sacerdote-e-uomo-del-discernimento-se-sottopone-se-stesso-a-questo-processo

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DONNE NELLA CHIESA

Donne e ministero diaconale

La richiesta del diaconato alle donne è da derubricare alla voce «rivendicazioni»? Rimette in discussione la questione – definitiva – dell’ordinazione sacerdotale maschile? Mentre si sta discutendo sugli esiti del lavoro della Commissione appositamente formata da papa Francesco tre anni fa, è opportuno ripartire dai fondamentali. In particolare dalla riflessione del concilio Vaticano II sul diaconato permanente (maschile): il punto è che non si mirava a «ripristinare una prassi del I millennio», quanto a «ripensare l’antica strutturazione tripartita del ministero promuovendo una figura nuova (…) rispondente alle esigenze e ai bisogni della Chiesa contemporanea». Quali sono tali esigenze? Quale Chiesa si sta configurando e quale ruolo in essa in quanto battezzate ricoprono le donne? «Il mutato ruolo delle donne nelle società occidentali, il riconoscimento della loro piena soggettualità ecclesiale» oggi pare imprescindibile. Come dunque far sì che «l’apostolicità di fede della Chiesa sia servita e custodita anche con voce e ministero femminile»?

EV. Enchiridion Vaticanum è una pubblicazione delle Edizioni Dehoniane Bologna che raccoglie tutti i documenti ufficiali della Santa Sede dal 1962 in avanti: i documenti del Concilio Vaticano II, le encicliche e gli altri documenti pontifici, i documenti delle Congregazioni romane, il Codice di Diritto Canonico.

Il duplice interrogativo sulla possibilità e opportunità di ordinare donne diacono nella Chiesa cattolica è stato affrontato frequentemente negli ultimi anni, sulle pagine dei quotidiani e su quelle delle riviste cattoliche di alta divulgazione; è stato rilanciato su blog interessati alle questioni femminili e femministe, cristiane e non; interessa teologi e teologhe di diverse confessioni cristiane e coinvolge gli storici e gli studiosi e le studiose di letteratura cristiana antica, come gli esperti di sociologia delle religioni e d’antropologia culturale.

L’intervento al Sinodo sulla famiglia di mons. J.P. Durocher nell’ottobre 2015 aveva contribuito a sollecitare la ripresa della questione aperta, ma erano state la richiesta formulata da una religiosa dell’Unione internazionale delle superiore generali (UISG) a papa Francesco nel maggio successivo e la manifesta disponibilità al confronto sul tema mostrata dal papa che avevano riportato nel contesto pubblico la discussione sulle diacone/diaconesse. A una Commissione di studio sul diaconato femminile di nomina papale, costituita il 2 agosto 2016, è stata affidato il compito – non semplice – di predisporre contributi e individuare orientamenti sull’argomento. In realtà la ricerca storica, patristica, teologico-sistematica sul tema è ormai ricca di centinaia di contributi, molti d’ampio respiro; fin dalla prima stagione postconciliare, alle richieste che venivano dalla base del popolo di Dio si sono aggiunte proposte di riflessione di vescovi di diversi paesi del mondo, anche se negli ultimi due decenni indubbiamente il confronto rimaneva confinato in gruppi ristretti di teologi e pastori, più avvertiti delle sfide ecclesiali in atto e maggiormente edotti delle possibilità che la stessa Tradizione ecclesiale consegna.

Ricostruire le traiettorie del dibattito postconciliare sull’ordinazione ministeriale delle donne aiuta a individuare quali siano i paradigmi e le categorie teologiche adottate per pensare il diaconato femminile e permette di comprendere gli interrogativi aperti intorno ai quali le posizioni dei diversi autori si sono polarizzate. La novità dell’insegnamento del Vaticano II sulla ragione teologica del ministero ordinato e sulla reinterpretazione della specificità delle figure ministeriali dei vescovi, presbiteri, diaconi appare, proprio a partire dal confronto postconciliare, quale orizzonte imprescindibile di riferimento, per proporre come possibile e necessaria la figura di «donne diacono».

Donne e ministero al Vaticano II: impensabile. Una prima, ancora vaga, sollecitazione a pensare una reistituzione del diaconato femminile può essere trovata nei vota et consilia inviati a Roma durante la fase ante-preparatoria del Vaticano II, da mons. Giuseppe Ruotolo, vescovo di Ugento – S. Maria di Leuca, e mons. León de Uriarte Bengoa, vicario apostolico di San Ramon in Perù. Così pure è conservato nell’Archivio segreto Vaticano un appunto di un componente della Commissione preparatoria «De missionibus», Elías Gómez Domínguez, che si chiedeva «Diaconissæ? Cur non mulieres, ætate, et scientia præditæ, possunt ascendere diaconato?» (Diaconesse? Perché non possono accedere al diaconato donne adatte per età, dottrina e sapienza?), giudicava accettabile da parte del popolo cristiano il servizio diaconale di una donna (meglio se vergine, vedova, dalla vita esemplare, consacrata a Dio con voti pubblici) e suggeriva di costituire un ordine religioso diaconale del quale le donne potessero far parte.

Durante la fase preparatoria Magdaleine Leroy-Boy, presidente della St. Joan’s International Alliance, un’associazione di suffragiste cattoliche nata all’inizio del Novecento a Londra, scrisse alla Commissione «De apostolatu laicorum» chiedendo che venisse accordata alle donne l’ordinazione diaconale. Ben più ampie e documentate le due animadversiones scriptæ, consegnate nell’ultima fase di lavori conciliari, a firma di Remi J. De Roo, vescovo di Victoria (Canada), e di Paul Hallinan, arcivescovo di Atlanta (USA).

Il primo giudicava essenziale allargare gli spazi d’apporto e cooperazione delle donne nella vita pastorale e giungeva a ipotizzare forme di ministerialità specifica, dandone ragione sul piano teologico e canonistico, a partire dalla Tradizione ecclesiale che nel primo millennio ha visto «l’esistenza di una certa diaconia delle donne attestata dalla Scrittura e dalla prima Tradizione».

La proposta formulata alludeva a una sorta di ministero «istituito», e non ordinato, delle diaconesse: «Benché non appartenessero alla gerarchia, esse attuavano funzioni immediatamente connesse a quelle della gerarchia e sanzionate da una consacrazione di tipo speciale».

Diverso l’orientamento prospettato dal vescovo statunitense: nel quadro di numerose proposte volte a permettere una partecipazione delle donne in campo teologico e pastorale, con l’assunzione di responsabilità nelle Chiese nazionali e nei dicasteri vaticani, Hallinan proponeva per un effettivo ed efficace apporto nella vita liturgica delle Chiese: «Mulieres munia lectoris et acolythæ in sacris peragendis adimplere valeant; mulieres, post congruum studium peractum debitamque formatione receptam, in ordine diaconatus assumantur: ut Verbum Dei populo annuntiare atque sacramenta ad talem ordinem spectantia, præsertim baptismum solemne sacramque eucharistiam administrare queant».

Di ministero istituito o ordinato delle donne non si parlò, quindi, né nell’aula conciliare, né nei lavori delle commissioni. Le affermazioni che troviamo nei documenti e le parole pronunciate dai padri conciliari sul coinvolgimento delle donne nel servizio pastorale sono espressioni d’auspicio (sentito da alcuni vescovi più avvertiti) e sollecitazione a individuare settori d’attività più adeguate alla figura femminile; non raramente il linguaggio tradisce stereotipi di genere e non viene percepito assolutamente l’influsso di una cultura patriarcale e androcentrica nella determinazione della forma delle relazioni intra-ecclesiali e nell’organizzazione di ruoli e funzioni.

Viene generalmente apprezzato l’apporto dato nella catechesi, nell’evangelizzazione, nel servizio di carità e d’assistenza, nell’attività missionaria ad gentes; si auspica una maggiore partecipazione nel campo dell’animazione liturgica della comunità; ma non si traggono conseguenze sulla specifica soggettualità ecclesiale di laiche e religiose. Per quanto riguarda il tema del ministero, gli studi storici sulle diaconesse pubblicati nella prima metà del Novecento rimangono appannaggio di pochi specialisti; gli appelli a una revisione dei presupposti antropologico-teologici per l’esclusione delle donne dall’esercizio dell’autorità e della denigrazione della condizione femminile che alcune donne, con il coordinamento della giurista svizzera Gertrud Heinzelmann, avevano posto all’attenzione dei padri con una lettera aperta dal significativo titolo Non siamo più disposte a tacere non ottengono né risposta, né attenzione alcuna.

Così pure alla petizione per la richiesta di ordinazione presbiterale e diaconale delle donne elaborata dalla St. Joan’s International Alliance nel 1965 non ci fu riscontro. Allo stesso tempo non può essere sottovalutata l’importanza di un incontro ecumenico, non ufficiale, promosso dal Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani con il Comitato permanente dei congressi internazionali per l’apostolato dei laici (CO-PECIAL) e dal Dipartimento per la cooperazione tra uomini e donne nella Chiesa, nella famiglia e nella società del Consiglio ecumenico delle Chiese, che si tenne vicino a Roma dal 22 al 24 ottobre 1965, a cui parteciparono anche tre uditrici conciliari: nell’affrontare il tema «Le forme di vita e di servizio per le donne nelle nostre Chiese» venne ripresa esplicitamente la questione del ministero ordinato.

Il postconcilio. La percezione di un iniziale dibattito in atto nell’opinione pubblica può essere colta nel fatto che nel novembre del 1965 L’Osservatore romano pubblica tre articoli, a firma di p. Gino Concetti, nei quali si sosteneva, ricorrendo ad argomenti d’ordine biblico, storico, giuridico, teologico-sistematico, l’impossibilità di un’ordinazione ministeriale delle donne.

Dal 1966 in poi si assiste invece a una fioritura di studi sul tema che ne mostrano fattibilità, importanza, necessità per una Chiesa che, nella recezione delle istanze ecclesiologiche conciliari, apre spazi sempre più ampi all’azione pastorale delle donne, si confronta con prassi altre nelle Chiese protestanti e con le ragioni teologiche addotte, si gioca in cammini di riforma complessiva sul piano della visione ecclesiologica e della stessa organizzazione delle relazioni ecclesiali.

La richiesta del diaconato emerge in alcuni sinodi e congressi pastorali europei e nordamericani, è oggetto di specifici approfondimenti da parte delle associazioni per l’ordinazione delle donne nella Chiesa cattolica, viene tematizzata in conferenze e convegni sul diaconato a livello internazionale e rilanciata da alcuni vescovi nell’autorevole contesto del Sinodo dei vescovi e nei lavori delle Conferenze episcopali.

La riflessione sulle diacone/diaconesse si colloca nella fase postconciliare nel più ampio orizzonte del dibattito sull’ordinazione ministeriale delle donne tout court, pur ricevendo, in alcuni autori e intorno ad al-cune prospettive interpretative del ministero, specifiche attenzioni e apporti.

Il confronto postconciliare sul tema «donne e ministero» può essere compreso tenendo presenti due documenti magisteriali che fanno da spartiacque nel dibattito: la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Inter insigniores del 1976; la lettera apostolica di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis del 1994.

Con questo ultimo documento si sancisce un punto fermo nella discussione: «Pertanto al fine di togliere ogni dubbio su una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli (cf. Lc 22,32), dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli» (n. 4; EV 14/1348).

Le motivazioni addotte rimandano alla Traditio perpetuo servata, e non più alla assenza delle donne dal Cenacolo nell’Ultima cena, all’impossibilità di rappresentare Cristo maschio nella celebrazione eucaristica, tutte motivazioni presenti in Inter insigniores. Il documento pontificio, inoltre, parla esplicitamente d’«ordinazione sacerdotale»: non è quindi incluso il ministero diaconale, che secondo Lumen gentium (LG), n. 29 è non «sacerdotale».

A questi due testi magisteriali s’aggiungono due ulteriori documenti che riguardano specificamente l’ordinazione di donne diacono: la Notificatio delle Congregazioni per il clero, la dottrina della fede, per il culto divino del 2001, che dichiara non attivabili percorsi formativi al diaconato per le donne, e l’ampio testo della Commissione teologica internazionale Sul diaconato: evoluzione e prospettive (2002.2004).

 Tale prospettiva è stata superata dal Vaticano II, anche se non si può negare un nostalgico recupero di questo linguaggio e di queste categorie a partire dagli anni Novanta, nel magistero (ad esempio in Pastores dabo vobis) e nella ricerca di tanti teologi. I padri conciliari, con il recupero della sacramentalità dell’episcopato e la reistituzione del diaconato permanente, attestano per altro il fatto che le figure ministeriali e la teologia del ministero ordinato possono e devono mutare, com’è avvenuto nel corso dei secoli più volte, in rapporto a nuove esigenze di evangelizzazione, a nuovi bisogni pastorali, a nuove configurazioni della vita ecclesiale, in stretta correlazione con le interpretazioni ecclesiologiche che le veicolano.

                Dal punto di vista della ricerca scientifica sul diaconato femminile gli ultimi 50 anni sono stati particolarmente ricchi di contributi, che hanno permesso d’acquisire una vasta messe di dati di natura storica, una migliore conoscenza dei riti liturgici, e di maturare una più approfondita visione teologico-sistematica. Le questioni aperte sono state progressivamente definite, anche attraverso il confronto critico delle posizioni dei sostenitori di una possibile ordinazione diaconale e di chi si oppone a essa: l’esistenza di diaconesse/diacone; la loro identità ministeriale (ministero ordinato o laicale) a cui è connessa la domanda sulla tipologia di rito di costituzione (ordinazione o benedizione); le funzioni specifiche. Sono gli interrogativi a cui ogni ricerca sul diaconato femminile deve rispondere.

Moltissimi compiti pastorali. In primo luogo la ricerca storica attesta, ormai senza dubbi, l’esistenza di donne impegnate in servizi pastorali stabili, definite fin dall’epoca neotestamentaria «diakonos», «diakonai», «diakonissai», «diaconæ», «ministræ», «diaconissæ». Fonti storiche, letterarie, canonistiche, epigrafi funerarie e riti liturgici, di tradizione orientale e occidentale, sono state inventariate e sono divenute oggetto di innumerevoli studi critici.

Il servizio svolto da queste donne varia dall’evangelizzazione, al servizio alla celebrazione del battesimo delle donne, alla visita a donne malate nelle loro case, a un coinvolgimento più ampio nella vita pastorale, con significative differenze tra Chiese locali, senza che possa essere ridotto – secondo molti storici – a un elenco di funzioni uguali per tutte le diaconesse/diacone in tutti i contesti geografici e periodi storici.

Più dibattuta la questione della sacramentalità del ministero ricevuto dalle donne. Le posizioni che emergono dal confronto tra A.G. Martimort e C. Vagaggini (riprese anche da R. Gryson) negli anni Settanta rappresentano anche oggi le due prospettive interpretative dei testi liturgici di costituzione delle donne diacono: tra chi opta per una benedizione (che aprirebbe quindi esclusivamente all’ipotesi di un ministero istituito delle diaconesse) e chi riconosce una vera e propria ordinazione.

In terzo luogo la ricerca teologico-sistematica ha posto la questione in modo più radicale: si tratta di riprendere una figura di diacona, presente nel I millennio della storia della Chiesa, per riprodurla nel presente, oppure è necessario pensare a una nuova configurazione di un ministero femminile, dai tratti nuovi perché rispondente a nuove esigenze pastorali e soprattutto a un inedito riconoscimento di soggettualità delle donne che solo con il XX secolo si è andato affermando, nella società e nella Chiesa?

E ancora più profondamente, quale teologia del ministero ordinato, e più specificamente del diaconato, va tenuta quale framework [struttura, piattaforma]dell’investigazione teologica? Il concilio Vaticano II consegna alla Chiesa cattolica una vera e propria revisione della teologia del ministero ordinato, altra rispetto alla visione codificata dal Tridentino, che ha permesso lo sviluppo di una nuova autocoscienza e nuove modalità di esercizio del ministero di vescovi, presbiteri e diaconi nella fase post-conciliare.

Oltre il sacerdozio. Il concilio Vaticano II rivede profondamente la teologia del ministero ordinato, i presupposti e le categorie interpretative, la comprensione della ratio teologica ultima e le funzioni delle diverse figure ministeriali. In primo luogo il ministero ordinato è pensato in rapporto alla missione messianica del popolo di Dio (LG20.24): i ministri ordinati sono parte del popolo sacerdotale, comunità tutta ministeriale, in cui tutti i battezzati sono visti come soggetti corresponsabili nell’an-nuncio e nella diakonia ecclesiale.

Ci si distacca nettamente dalla tradizionale fondazione cristologico-ontologica del ministero sacerdotale, ratificata autorevolmente al concilio di Trento, in particolare nel decreto De ordine (sessione XXIII): è determinante al Vaticano II la radicazione ecclesiologica del ministero e la fondazione pneumatologica di carismi e ministeri. Viene ripensata la struttura tripartita del ministero, sulla base di un recupero della teologia di Ignazio d’Antiochia e di Cipriano: l’esistenza del ministero ordinato è di «divina istituzione», ma le figure che incarnano tale ministero sono mutate nel corso del tempo e cambiata è la lettura teologica che ne è stata data.

Come afferma LG 28 «iam ab antiquo» (EV 1/354) sono stati chiamati vescovi, presbiteri, diaconi; s’attesta così il divenire storico delle figure ministeriali a fronte del permanere di un’unica ragione teologica: custodire l’apostolicità della fede della Chiesa e garantire l’unità del corpo ecclesiale (nelle sue diverse configurazioni).

Il Concilio recupera, dopo secoli, il riconoscimento della sacramentalità dell’episcopato (cf. LG 21) e afferma con decisione le implicazioni che vengono da una lettura collegiale del ministero episcopale (cf. LG 22s). Gli altri gradi del ministero – presbiterato e diaconato – vengono pensati a partire dalla pienezza del sacramento dell’ordine conferita con la consacrazione episcopale (cf. LG 21.28s; Presbyterorum ordinis, n. 2), nel quadro del servizio alla Chiesa locale di cui il vescovo è principio visibile e fondamento di unità, superando così la logica di una gerarchia ascendente, che aveva accompagnato per secoli la prassi e la teologia del ministero ordinato, e una chiave interpretativa che si limitava a definire poteri e funzioni.

Il Vaticano II abbandona, infatti, con decisione il quadro interpretativo delle due potestates (di giurisdizione e sacra, con due diverse sorgenti), per dispiegare la riflessione intorno ai tria munera Christi, che vengono declinati prima per tutto il popolo di Dio (cf. LG c. II) e poi – in forma specifica – per vescovi, presbiteri, laici, sia nella costituzione sulla Chiesa (cc. III-IV) sia nei decreti Christus Dominus, Presbyterorum ordinis, Apostolicam actuositatem.

Il cambiamento di prospettiva teologica diventa evidente nella considerazione del sacerdozio: il sacerdote non è più l’analogatum princeps per pensare il ministero, come avveniva nella teologia di Trento (De Ordine, c. I), ma si deve partire dal vescovo, che riceve in pienezza l’ordine, per pensare poi presbiteri e diaconi – sempre al plurale – che esercitano uno specifico ministero per partecipazione e mediazione episcopale. Viene re-istituito il diaconato come grado autonomo e permanente, come vedremo, dopo secoli dalla sua scomparsa.

 L’interrogativo sulle donne diacono deve essere posto in questo quadro ecclesiologico e di teologia del ministero che il Vaticano II dispiega, e non a partire da una precomprensione radicata nella visione tridentina e post-tridentina del ministero, che si sviluppava a partire dalla radicazione cristologica del mini-stero, intorno a una riduzione di fatto del ministero al sacerdozio, e che accentuava l’in persona Christi e la rappresentanza sacramentale.

Tale prospettiva è stata superata dal Vaticano II, anche se non si può negare un nostalgico recupero di questo linguaggio e di queste categorie a partire dagli anni Novanta, nel magistero (ad esempio in Pastores dabo vobis – 1992) e nella ricerca di tanti teologi. I padri conciliari, con il recupero della sacramentalità dell’episcopato e la reistituzione del diaconato permanente, attestano per altro il fatto che le figure ministeriali e la teologia del ministero ordinato possono e devono mutare, com’è avvenuto nel corso dei secoli più volte, in rapporto a nuove esigenze di evangelizzazione, a nuovi bisogni pastorali, a nuove configurazioni della vita ecclesiale, in stretta correlazione con le interpretazioni ecclesiologiche che le veicolano.

Diaconi: per il ministero. Ma è soprattutto in relazione alla figura dei diaconi permanenti così come sono stati delineati, seppur in modo iniziale, nei documenti del Vaticano II che va impostata la ricerca sulle donne diacono oggi.

Rivisitare le richieste di un ripristino del diaconato permanente pervenute nelle fasi ante-preparatoria e preparatoria, ripercorrere le fasi del dibattito conciliare, rileggere criticamente i paragrafi dei documenti espressamente dedicati al tema, tenendo presenti i cambiamenti avvenuti nel corso della redazione dei testi, sono passaggi utili per comprendere le traiettorie e gli snodi del confronto sul diaconato, come anche i fattori di resistenza alla reistituzione di questa figura ministeriale: sono numerosi, infatti, i paralleli con le richieste del diaconato femminile oggi e con le obiezioni che vengono sollevate. In ogni caso è la teologia del diaconato emersa in Concilio e approfondita nella fase postconciliare che costituisce un riferimento, imprescindibile, per affrontare in modo adeguato e significativo l’interrogativo sulle «donne diacono».

Le motivazioni di una richiesta. Le motivazioni che guidavano i vescovi nel pensare un eventuale ripristino del diaconato permanente erano estremamente diversificate e riflettevano esperienze pastorali diverse: accanto a chi lamentava la carenza di presbiteri e vedeva nei diaconi un necessario appoggio per l’evangelizzazione nei paesi di missione, per la pastorale d’ambiente in Europa o per il rinnovamento della vita parrocchiale, si levava la voce di chi pensava di promuovere così l’apostolato laicale, riconoscendo con una benedizione apposita il valore dell’apporto di laici fortemente impegnati in parrocchie e associazioni; insieme a chi ricordava il ruolo liturgico dei diaconi nelle Chiese orientali si poneva chi metteva in evidenza esigenze ecumeniche; c’era chi voleva recuperare l’antica strutturazione tripartita del ministero, sottolineando le funzioni liturgiche dei diaconi, e chi faceva risuonare la richiesta delle Caritas di lingua tedesca che già dagli anni Trenta avevano sollecitato il ripristino del diaconato per il servizio d’assistenza e promozione della diaconia nelle Chiese locali.

Gli apporti teologico-sistematici sull’argomento erano rari; si riveleranno utili gli studi di storici e liturgisti, mentre dal punto di vista teologico-sistematico il passaggio fondamentale sarà la pubblicazione, a cura di Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler, del volume collettivo Diaconia in Christo (1962).

I dibattiti in aula conciliare e nelle commissioni interessate si concentreranno sui motivi della scomparsa, sulla relazione tra ministero del diacono e diaconia ecclesiale e sui rischi di clericalizzazione del laicato connessi, sulla sacramentalità e l’appartenenza al clero, sullo stato di vita e l’obbligo del celibato, sulle relazioni con vescovi e presbiteri e, più raramente, su come comprendere teologicamente lo specifico ministeriale.

Il confronto aiutò i padri a capire che non era possibile semplicemente replicare il passato, ma – fondandosi sulla Tradizione – era necessario ripensare – re-istituire – una figura specifica di diacono adeguata al presente e al futuro della Chiesa, nel quadro della teologia del ministero ordinato che il Vaticano II andava definendo.

Le implicazioni per il diaconato femminile. I testi esplicitamente dedicati al diaconato nei documenti conciliari sono, come noto, pochi. Troviamo un’affermazione solo indiretta della sacramentalità (LG 29: «gratia sacramentali roborati»; EV 1/359) e due differenti elenchi di funzioni in LG 29 e Ad gentes n. 16, incentrate (per LG 29) soprattutto sul servizio liturgico, che si era conservato nel corso dei secoli nel diaconato transeunte, pur con alcuni riferimenti all’evangelizzazione e alla carità.

Ciò che appare più rilevante in ordine a un’interpretazione teologica della figura del diacono è la collocazione dei testi.  Si può comprendere l’identità ministeriale specifica dalle relazioni portanti che vengono poste in atto dall’ordinazione (con la Chiesa locale, con il vescovo, con il presbiterio, con il resto del popolo di Dio): «In diaconia liturgiæ, verbi, caritatis populo Dei (…) inserviunt» (LG 29; EV 1/359). Due espressioni guidano a comprendere la natura peculiare del ministero diaconale e risultano decisive per giudicare possibile e opportuna l’ordinazione ministeriale di donne diacono: il fatto che i diaconi sono ordinati «non ad sacerdotium, sed ad ministerium» (LG 29), e quanto affermato nel decreto sull’attività missionaria. «Iuvat enim viros, qui ministerio vere diaconali fungantur, vel verbum divinum tanquam catechistæ praedicantes, vel  nomine  parochi  et  episcopi  dissitas  communitates  christianas  moderantes,  vel  caritatem  exercentes  in  operibus  socialibus  seu  caritativis,  per  impositionem manuum inde ab Apostolis traditam corroborari et altari arctius coniungi, ut ministerium suum per gratiam sacramentalem diaconatus efficacius expleant». (È bene infatti che gli uomini, i quali esercitano un ministero veramente diaconale, o perché come catechisti predicano la parola di Dio, o perché a nome del parroco e del vescovo sono a capo di comunità  cristiane  lontane,  o  perché  esercitano  la  carità  attraverso  opere  sociali  e  caritative,  siano  fortificati  dall’imposizione delle mani, che è trasmessa fin dagli apostoli, e siano più saldamente congiunti all’altare per poter esplicare più fruttuosamente il loro ministero con l’aiuto della grazia sacramentale del diaconato; AG 16; EV 1/1140).

Consacrazione per il ministero. La consacrazione diaconale è conferita «non ad sacerdotium, sed ad ministerium». L’espressione è ripresa dalle Constitutiones Ecclesiae ægyptiacae (III, 2), ma viene omesso nel testo conciliare l’inciso «[ad ministerium] episcopi», che specificava la forma del servizio diaconale nella relazione con il vescovo e motivava la prassi liturgica per cui il solo vescovo (e non tutto il presbiterio) impone le mani al candidato al diaconato. La soppressione del genitivo episcopi (delimitante il fruitore del servizio primo del diacono) sembra qui suggerire il conferimento di un ministero per imposizione delle mani, a servizio dell’apostolicità della fede della comunità cristiana (come quello del vescovo e del presbitero), ma in una forma propria, non connessa all’esercizio di una funzione sacerdotale o di presidenza liturgica della comunità: come afferma la Relatio, i diaconi sono ordinati «non ad corpus et sanguinem Domini offerendum, sed ad servitium caritatis in Ecclesia».

Nell’unica gerarchia, pensata nella sua radice sacramentale per la mediazione del vescovo (cf. LG 21), si distingue una connotazione sacerdotale che qualifica due gradi – episcopato e presbiterato – e una ministeriale comune a tutti i gradi. Ordinatio sacerdotalis – 1994 stabilisce autorevolmente (definitive tenenda) che non è possibile ordinare donne ai gradi sacerdotali, ma alla luce di quanto affermato in LG 29 possiamo riconoscere che il diaconato è grado ministeriale non sacerdotale: c’è un servizio al popolo di Dio nella custodia dell’apostolicità della fede, reso possibile per imposizione delle mani, senza che questo comporti presidenza sacramentale eucaristica. In secondo luogo, il passaggio di Ad gentes dedicato ai diaconi motiva la necessità dell’ordinazione sulla base di una lettura della Traditio Ecclesiæ in sviluppo, in rapporto alle esigenze pastorali delle Chiese e alle prassi già esistenti che chiedono una revisione delle relazioni e delle funzioni nel e per il noi ecclesiale istituzionalizzato. Il contesto è quello della fondazione di nuove Chiese locali con clero indigeno. Chi esercita servizi di annuncio e catechesi, d’animazione pastorale di comunità senza presbitero (si usa il verbo latino moderari e non præesse, presiedere), attività caritativo-sociali – qui riconosciuti come ministeri vere diaconali – è bene che sia fortificato per mezzo dell’imposizione delle mani, trasmessa dal tempo degli apostoli, e sia più strettamente unito all’altare (altari arctius coniuncti). Anche oggi, è una nuova prassi pastorale – sia nei paesi del sud del mondo, come in Europa e in Nord America – che vede donne responsabili degli stessi servizi pastorali indicati in AG 16 che spinge e sostiene la richiesta del diaconato per le donne, religiose e laiche. Non è, infatti, possibile e necessario (o per lo meno «utile», «di giovamento», nel latino di AG 16 «iuvat»), che – sul fondamento della Tradizione ecclesiale del primo millennio – anche per le donne valga quanto affermato in AG 16 per gli uomini?

Una trasformazione ecclesiale. Il concilio Vaticano II con la re-istituzione del diaconato permanente, nel quadro di un ripensamento complessivo del ministero ordinato, consegna prospettive nuove per affrontare l’interrogativo del diaconato femminile: è in questo quadro, sulla base degli assunti presenti nei documenti e in analogia con lo sviluppo del dibattito teologico tra i padri conciliari che li ha motivati, che deve essere posta oggi la ricerca sulle donne diacono. Il Concilio ci presenta i diaconi come ministri ordinati nel popolo di Dio e per il popolo di Dio: il ministero, di grado e funzione non sacerdotale, complementare a quello del presbitero, è conferito loro dal vescovo per imposizione delle mani; sono chiamati a custodire l’apostolicità della fede ecclesiale nella verità dell’amore e a servire il noi ecclesiale in primis nella sua diakonia costitutiva e qualificante.

Non ripristinare ma ripensare. Nel caso del diaconato i padri conciliari non hanno voluto ripristinare (il verbo è restitui) una prassi del 1° millennio, ma ripensare l’antica strutturazione tripartita del ministero, promuovendo una figura nuova, quella del diacono, rispondente alle esigenze e ai bisogni della Chiesa contemporanea. Nella differenziazione delle figure sta un principio-chiave della teologia del ministero al Vaticano II: il ministero risponde a diverse realtà ecclesiali; garantisce qual-cosa d’essenziale e costitutivo per la Chiesa in ambiti di vita ecclesiale e d’esercizio della funzione ecclesia-le differenti, nel quadro della Chiesa locale   e della sua missione.

Anche nel caso delle donne diacono non si tratta di replicare una figura ministeriale antica, che rispondeva a necessità pastorali specifiche con determinati compiti (per altro in un contesto patriarcale), ma – appurata l’esistenza di donne diacono, tali per imposizione delle mani da parte del vescovo – si tratta di riconoscere una prassi ecclesiale significativa già presente e sulla scia di quanto indicato in AG 16 riplasmare una «figura ministeriale» inedita. La Chiesa ha la possibilità e il dovere di rimodellare il ministero ordinato secondo il divenire ecclesiale e le necessità emergenti per mantenersi nel di-venire della storia umana nella sua apostolicità. Se si esamina la storia della Chiesa, è evidente che le trasformazioni nel ministero non sembrano mai delineate in modo teorico da qualche teologo o pastore, ma nascono in stretta relazione con le trasformazioni ecclesiali e culturali, nell’orizzonte della Traditio.

Un mutamento strutturale e di forme d’esercizio potrà allora essere necessario perché sollecitato da nuove esigenze pastorali per le quali si ritenga necessario promuovere nuove configurazioni delle relazioni istituzionalizzate nella Chiesa. Il mutato ruolo delle donne nelle società occidentali, il riconoscimento della loro piena soggettualità ecclesiale con una parola pubblica, autorevole, competente sul piano teologico, e un sempre maggiore coinvolgimento nell’animazione di comunità cristiane in assenza di presbitero, sollecitano la riflessione sulle donne diacono e mostrano quanto sia limitato pensare a un «ministero istituito» delle diaconesse, come taluni vorrebbero. È oggi accettabile e auspicabile che l’apostolicità di fede della Chiesa sia servita e custodita anche con voce e ministero femminile. Nella visione del Vaticano II, i diaconi, che non sono ordinati «ad sacerdotium», custodiscono il legame tra il Vangelo e l’esistenza da vivere nell’amore e nel servizio; salvaguardano lo spessore d’umanità che deve segnare le relazioni ecclesiali nella Chiesa; attestano a tutti che una fede professata che non si faccia carità vissuta, in particolare per coloro che sperimentano il bisogno e vivono situazioni di povertà, è contraddittoria e «vuota».

I diaconi non sono chiamati tanto o soltanto a un’opera assistenziale o caritativa, in risposta ai bisogni e alle necessità che leggono nel territorio (non è un ministero laicale istituito), ma devono – come è proprio  del  ministero  ordinato  –  sollecitare  e  promuovere la diaconia di tutti i componenti della comunità, perché sia la Chiesa intera a vivere concretamente una fede che manifesta nel servizio dell’amore  la  sua  verità,  custodendo  l’anima  e  la  forma  diaconale della comunità intera.

Non è quindi tanto un agire nella Chiesa, come quello dei laici, ma un agire costitutivo del noi ecclesiale, nel suo darsi e farsi nella storia, intorno al principio generatore della comunicazione dell’Evangelo (è ministero ordinato).

Le donne potrebbero, a mio parere, servire in questa specifica figura ministeriale il noi ecclesiale, che ne uscirebbe indubbiamente trasformato.  La  presenza di donne diacono ordinate, sul fondamento di quanto avveniva già nei primi secoli (per altro in un contesto patriarcale e androcentrico, di per sé non favorevole), permetterebbe una parola pubblica di  proclamazione  del  Vangelo,  l’apporto  dell’omelia, la moderazione di celebrazioni della Parola e del battesimo con ministri ordinari da parte di donne: l’apostolicità della fede verrebbe custodita in modo nuovo e il volto della Chiesa mostrerebbe più chiara-mente la sua natura inclusiva, di popolo di uomini e donne.

I tempi appaiono maturi per il confronto con questa prospettiva, con parresia e coraggiosa ricerca, che la teologia del ministero ordinato del Vaticano II rende possibile e che la prassi pastorale di una Chiesa mondiale richiede, seppur in forme varie e differenziate.  La riforma stessa della Chiesa, oggi sollecitata da papa Francesco con nuovo vigore, chiede questo passaggio.

Prof. Serena Noceti, teologa  Il Regno Attualità, n.10/2019, 15 maggio 2019, pag. 305

39 citazioni                                         www.ilregno.it/articles/Regno-attualita-10-2019-305-gtesb5.pdf

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ENTI TERZO SETTORE

Statuti: adeguamento possibile anche dopo il 2 agosto

            Si potranno adeguare gli statuti per diventare ente del terzo settore anche dopo il 2 agosto 2019. Se ne parla da tempo, ma la precisazione nero su bianco è arrivata con una nota del Ministero del lavoro e delle politiche sociali lo scorso 31 maggio.

www.cantiereterzosettore.it/images/phocadownload/normativa/Circolare_n._13_del_31.05.2019_-_Adeguamenti_statutari_1.pdf

            La scadenza riguarda solo la possibilità di utilizzare il regime “alleggerito”, che prevede le modalità e le maggioranze dell’assemblea ordinaria e attiene alle sole procedure per la iscrizione al registro unico nazionale del terzo settore (Runts),

www.cantiereterzosettore.it/riforma/ets-enti-del-terzo-settore/odv-organizzazioni-di-volontariato

e quindi non ai requisiti per il mantenimento della iscrizione agli attuali registri delle organizzazioni di volontariato (Odv),

www.cantiereterzosettore.it/riforma/ets-enti-del-terzo-settore/odv-organizzazioni-di-volontariato

e associazioni di promozione sociale (Aps)

www.cantiereterzosettore.it/riforma/ets-enti-del-terzo-settore/aps-associazione-di-promozione-sociale

 e Onlus. Il mancato rispetto del termine ultimo previsto dalla legge, quindi, non compromette l’iscrizione agli attuali registri Odv, Aps e Onlus né al registro unico e non incide sulle agevolazioni fiscali applicabili nel periodo transitorio.                                                www.cantiereterzosettore.it/riforma/fiscalita-agevolazioni

            In sintesi, le modifiche statutarie riguardano tutte le organizzazioni che vogliano diventare Enti del terzo settore: solo per Odv, Aps e Onlus è prevista la possibilità di introdurre le modifiche entro il 02/08 con un regime assembleare agevolato. Gli enti non iscritti ai registri di organizzazioni di volontariato (Odv), associazioni di promozione sociale (Aps) e Onlus, se vorranno iscriversi al Runts e nei tempi a loro più adeguati, dovranno seguire le indicazioni previste dal proprio statuto (tendenzialmente con maggioranze rinforzate).

            Un chiarimento importante quello ministeriale, che scioglie uno dei nodi irrisolti del regime transitorio dell’articolo 101 comma 2, e che si aggiunge a una serie di altre precisazioni sulle modalità di iscrizione al registro unico e sugli adempimenti per gli enti con personalità giuridica.

www.cantiereterzosettore.it/riforma/vita-associativa/personalita-giuridica

            Iscrizione al registro unico. Come già indicato nel codice del terzo settore, per gli enti come Odv e Aps la trasmigrazione dal registro precedente al nuovo registro unico sarà automatica.

www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2017-07-03;117!vig=2019-05-03

La verifica dei requisiti è sarà in mano agli uffici territorialmente competenti del Runts che, una volta costituiti, avranno 180 giorni di tempo per esercitare le attività di controllo, in particolare su atto costitutivo e statuto. In questa fase di verifica, gli enti continuano ad essere considerati Aps e Odv. Se in questa fase l’ufficio territoriale dovesse sollevare l’esigenza di ulteriori modifiche statutarie, gli enti avranno tempo 60 giorni dalla notifica per provvedere alle modifiche (con le maggioranze previste da statuto) e alla trasmissione delle informazioni e documenti richiesti. L’assenza di inoltro determinerà la mancata iscrizione al registro unico.

            Le amministrazioni che gestiscono i registri finora esistenti di Odv e Aps, inoltre, potranno adottare, anche prima della trasmigrazione, eventuali provvedimenti di cancellazione di enti non conformi (ad esempio, se un ente dovesse svolgere attività diverse da quelle indicate in statuto).

            Discorso diverso per le Onlus, la cui disciplina resta in vigore fino all’applicazione delle nuove disposizioni fiscali previste dal titolo X del codice del terzo settore. Anche in seguito all’approfondimento dell’Agenzia delle Entrate e del Telefisco del febbraio 2018, la circolare precisa che le Onlus possono adeguare il proprio statuto agli indirizzi della nuova normativa entro il 2 agosto 2019 subordinando l’efficacia di tali modifiche all’entrata in vigore del nuovo regime fiscale, su cui si aspetta ancora il parere della Commissione europea. Nello statuto bisogna anche specificare che a questo termine si collega anche la cessazione delle vecchie clausole Onlus divenute incompatibili con la nuova disciplina.

            Per l’inserimento del Runts, inoltre, le Onlus, dovranno aspettare un apposito decreto che ne chiarisca le modalità, vista la natura eterogenea di questa qualifica e l’impossibilità di ricondurla a una specifica sezione del registro.

            Si ricorda che la legge sulle Onlus (D. Lgs 460/1997) resta in vigore sino alla autorizzazione della Commissione europea e, comunque, non prima del periodo di imposta successivo di operatività del Runts; pertanto la verifica della adeguatezza del nuovo statuto al codice del terzo settore sarà condotta dagli istituendi uffici del Runts territorialmente competenti.

            Enti con personalità giuridica, entro il 2 agosto la delibera assembleare. Uno dei temi caldi della riforma è il coordinamento tra le indicazioni nazionali e le richieste degli enti locali. In molti, infatti, hanno richiesto agli enti dotati di personalità giuridica di aggiungere alle delibere assembleari anche altri adempimenti. La nota ministeriale chiarisce definitivamente questo aspetto: ciò che viene richiesto entro il 2 agosto è esclusivamente l’adozione della delibera di modifica statutaria, adeguandosi alle previsioni del codice del terzo settore.

            Base associativa, apertura per chi supera in corso la soglia dei 7 soci. Ma non finiscono qui i chiarimenti del Ministero. È del 28 maggio 2019 un’altra nota sempre a firma del direttore generale Alessandro Lombardi rivolta ancora una volta a Odv e Aps. Se un ente, infatti, si costituisce con un numero inferiore a 7 soci e nel tempo supera tale numero, per poter richiedere l’iscrizione al registro unico come Odv o Aps è sufficiente una delibera assembleare, approvata da un numero di associati favorevoli tale da soddisfare il requisito del numero minimo previsto dalla nuova normativa.

www.cantiereterzosettore.it/images/phocadownload/normativa/Nota-direttoriale-prot-n-4995-del-28052019.pdf

            Nella delibera è necessario prendere atto del mancato requisito numerico al momento della costituzione, affermare o ribadire la volontà di essere Odv o Aps ai sensi della nuova normativa e dare mandato al rappresentante legale di richiedere la relativa qualificazione.

            Ulteriori chiarimenti anche per quanto riguarda le deleghe: in una nota del 30 maggio: anche nei casi di piccole organizzazioni, il numero delle deleghe previste non può scendere al di sotto del limite previsto dalla legge. Non è possibile, inoltre, affidare deleghe a membri di organi amministrativi o di controllo.

www.cantiereterzosettore.it/images/phocadownload/normativa/Nota-prot-5093-del-300519-numero-deleghe-conferibile-ad-ogni-associato.pdf

Lara Esposito Cantiere terzo settore                       giugno 2019

www.cantiereterzosettore.it/component/content/article/9-notizie/120-statuti-possibile-adeguamento-anche-dopo-il-2-agosto?Itemid=101

www.uneba.org/adeguamenti-degli-statuti-i-controlli-sono-dellufficio-del-registro-unico-terzo-settore

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

L’altra faccia della medaglia è una responsabilità di tutti

            Lo scorso 24 maggio 2019, Papa Francesco ha incontrato, presso la sala del Concistoro in Vaticano, i membri dell’Istituto degli Innocenti di Firenze. Anticipando il discorso preparato per l’occasione, il Santo Padre è intervenuto con alcune spontanee considerazioni, una delle quali esplicitamente riferite all’adozione e alla responsabilità cui è chiamata la Chiesa.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/may/documents/papa-francesco_20190524_ospedale-innocenti-firenze.html#Saluto_del_Santo_Padre_a_braccio

            “Papa Francesco ci ha messi tutti di fronte alla responsabilità dell’abbandono di milioni di bambini del mondo: una doccia fredda!” scrive Cristina Riccardi, neo vicepresidente di Ai.Bi. e consigliere del Forum delle Associazioni Familiari, nel suo editoriale pubblicato dal Forum.

            “Dopo che in Amoris Lætitia Papa Francesco ci ha esortati a considerare l’adozione e l’affido come una forma di genitorialità equivalente a quella biologica, nell’incontro con i membri dell’Istituto degli Innocenti, con i suoi modi schietti che non lasciano dubbi sulle responsabilità e sugli impegni da prendere, ci ha invitati a ricomporre la medaglia del bambino abbandonato.

            La medaglia spezzata dalle mamme che un tempo abbandonavano i figli davanti agli orfanotrofi. La vita spezzata di quei bambini che oggi non sono figli di nessuno.

Ha parlato proprio a tutti: alle famiglie, ai politici e agli operatori del settore. Ci ha messi tutti di fronte alla responsabilità dell’abbandono di milioni di bambini del mondo: una doccia fredda.

Sono milioni i bambini che vivono nel limbo dell’attesa di una mamma e di un papà, il numero di questi bambini cresce di minuto in minuto. Papa Francesco ha dato voce a questi bambini il cui triste destino è sempre più spesso schiavo “della troppa burocrazia” che li costringe a sopravvivere in istituti in attesa della decisione per la loro adottabilità.

            A volte arriva tardi e al compimento dei 18 anni si ritrovano soli in paesi estremamente poveri, in guerra, senza alcuna guida anche nel nostro paese. Senza una speranza, senza un futuro, prede preziose di chi vuole sfruttarli senza alcuno scrupolo.

Ma ci sono anche famiglie desiderose di avere un figlio, o un figlio in più, che a loro volta vedono infrangersi la loro speranza di diventare genitori a fronte delle infinite verifiche, della lungaggine dei tribunali, della burocrazia “da ungere”.

            E’ ora di cambiare il punto di vista: confermando il diritto per ogni bambino a crescere in una famiglia, il diritto di noi genitori ad avere un figlio deve diventare una responsabilità a cui, ognuno di noi a suo modo, non può sottrarsi.”

News Ai. Bi. 28 maggio 2019

www.aibi.it/ita/riccardi-ai-bi-e-forum-laltra-faccia-della-medaglia-e-una-responsabilita-di-tutti

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OMOFILIA

“Accompagnare gli omosessuali? Scelta evangelica”

Inclusione, rispetto, accoglienza della diversità in ogni condizione di vita. Ecco l’atteggiamento evangelico con cui la Chiesa dovrebbe guardare alle persone omosessuali e pensare a una pastorale adeguata per le esigenze di queste persone. È il parere di padre Giovanni Salonia, cappuccino siciliano, docente di psicologia e lui stesso psicoterapeuta, oltre che esperto di pastorale familiare.

Cosa dice a un giovane omosessuale che “bussa alla sua porta” e chiede di essere aiutato a fare chiarezza nel proprio orientamento sessuale?

Per rispondere è necessario precisare “a quale porta bussa”. È il contesto (la porta!) in cui viene posta la domanda che decide la risposta, in quanto rispetta la richiesta della persona che chiede aiuto. Si può affermare che la chiarezza e il rispetto dei contesti è il primo dovere che abbiamo nei confronti dell’altro. Collocarsi nel contesto in cui viene posta la domanda è la prima garanzia richiesta perché una relazione non diventi manipolazione.

Se la domanda è posta al terapeuta, questi ha il compito di aiutare il paziente a “fare chiarezza sul proprio orientamento di genere” facilitando in lui l’ascolto del proprio corpo, dei propri vissuti, del proprio quadro di riferimento. Da questo ascolto e dall’integrazione di questi livelli la persona scoprirà il proprio orientamento di genere.

Il giovane omosessuale, invece, che bussa alla porta del prete, non chiede di fare chiarezza sul proprio orientamento di genere (compito che appartiene alla terapia) ma cercando il modo di collocare l’orientamento omosessuale all’interno del proprio cammino di fede.

All’obiezione che non ci si può scindere tra sacerdote e terapeuta la risposta è semplice: un terapeuta è bravo e aiuta veramente se rispetta l’altro e la sua richiesta: ogni manipolazione, ogni suggestione più o meno esplicita che vuole imporre all’altro scelte o valori del terapeuta è scorrettezza etica e di incompetenza professionale.

Da dove nasce la sofferenza di queste persone? L’aiuto dell’esperto può anche puntare a “risolvere” la tendenza omosessuale? Oppure è opportuno valutare caso per caso, rispettando quel tipo di orientamento come profondamente strutturato?

Compito dell’esperto è comprendere il tipo di sofferenza di ogni persona, e quindi anche della persona con orientamento omosessuale. Partendo dal dato di fatto che l’orientamento sessuale non è una scelta, è possibile comprendere i diversi tipi di sofferenza delle persone omosessuali. Se il giovane omosessuale è dentro un cammino di fede, la sua ricerca sofferta sarà quella di conciliare la propria vita spirituale con il proprio orientamento omosessuale. L’operatore pastorale dovrà aiutarlo in questo percorso di discernimento per trovare risposte che rispettino i vissuti della per- sona e la Parola di Dio.

Una seconda possibile sofferenza riguarda il giovane omosessuale che, pur vivendo come egosintonica la propria omosessualità, non si sente pronto a manifestarla (outing) per timore dei pregiudizi omofobici dei familiari o della società. In queste situazioni si tratta di aiutare il giovane a ritrovare la fierezza e il valore della propria esistenza umana e spirituale includendo la propria omosessualità: non è evangelico o umano sostenere che ci siano esistenze non benedette al di là dell’orientamento sessuale.

Una terza eventualità riguarda la sofferenza del giovane che vive la propria omosessualità come egodistonica, non definitiva e non in linea con l’esperienza di sé. Dopo aver verificato che non si tratta della paura specifica di presentarsi al mondo come omosessuale, il giovane va aiutato a comprendere il proprio disagio e scoprire nell’intimo il proprio orientamento al di là di ideologie o introietti esterni.

Quali criteri etici deve tenere presente in questi casi un terapista cattolico?

L’etica di un terapeuta è il rispetto profondo della persona, per cui il terapeuta non impone – né a livello esplicito né a livello implicito (questa è professionalità) – valori e ideologie che non appartengono al mondo interiore (corpo, vissuti) della persona. È ovvio che ogni terapeuta non può non avere una propria antropologia ed una propria etica nello stare vicino alla persona, ma appartiene proprio alla competenza professionale e all’etica del prendersi cura il rispetto dei cammini personali di scoperta dell’orientamento di genere da parte del paziente.

La Chiesa ha avviato un difficile e complesso percorso per dare concretezza all’invito di papa Francesco a proposito della necessità di accompagnare le persone omosessuali “a realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita”, nel rispetto della dignità di ciascuno ed evitando ogni marchio di ingiusta discriminazione. Ma le difficoltà sono tante. Quali dovrebbero essere i criteri su cui impostare questa nuova pastorale?

La “nuova pastorale” richiede l’accoglienza della persona nella realtà concreta che essa vive, non imponendo dall’esterno identità o valori – un Super Io – ma aiutandola ad ascoltare la voce di Dio che parla nell’intimo più intimo del cuore ed evangelizza ogni realtà umana che a Lui si apra con fiducia, umiltà e dignità.

Esiste una specificità della persona omosessuale di cui pastorale e teologia dovrebbero tenere conto? E ritiene che questa unicità possa tradursi in un aspetto da valorizzare anche in ambito ecclesiale?

È sempre difficile individuare specificità di una particolare condizione umana senza correre il rischio di sottolineature precarie o ideologiche. Certamente non ha senso nella comunità ecclesiale discriminare i cristiani in termini di etero o omo sessualità. La serietà del cammino di fede, l’appartenenza alla Chiesa, l’attenzione agli ultimi sono i valori che devono determinare i servizi all’interno della vita ecclesiale.

Ritiene che il nuovo sguardo della Chiesa sull’omosessualità, più inclusivo, accogliente e rispettoso, possa risultare positivo anche in una logica più ampia di accoglienza sociale e di accettazione culturale delle diversità?

Il Vangelo apre e dona una logica di inclusività per ogni uomo di buona volontà. Il Vangelo è accoglienza e rispetto delle diversità e delle fragilità che si presentano in ogni condizione di vita. Nella fattispecie, l’attenzione che oggi la Chiesa manifesta alle persone omosessuali è espressione di atteggiamento evangelico può diventare segno e spinta ad una evangelizzazione che dia dignità ad ogni esistenza.

Se oggi qualche esperto parlasse di “curare i gay” sulla base delle terapie riparative verrebbe messo all’indice con le accuse peggiori di omofobia se non di razzismo. Ma qual è allora l’atteggiamento corretto quando una persona omosessuale si rivolge a uno specialista rivelando di sentirsi a disagio nel proprio orientamento?

La frase “curare gli omosessuali” è gravemente erronea perché a livello implicito comunica una valutazione patologica dell’omosessualità, che contrasta con i criteri di psicopatologia condivisi ormai da più di sessant’anni dalla comunità scientifica internazionale. Come già detto, la condizione omosessuale si presenta oggi come una delle tante condizioni dell’essere umano. E va confrontata con la Parola di Dio e con il Magistero dentro una logica di dignità, umiltà e inclusività. Come accennavo, si richiede “un cammino di discernimento” per valutare se il disagio dell’orientamento sia dovuto alla difficoltà di accettare la propria omosessualità – avvertita come egosintonica – a causa dei pregiudizi sociali o familiari, ovvero sia un disagio dovuto ad una fase transitoria di con- fusione di orientamento, che fa percepire a livello intimo come egodistonico l’orientamento omosessuale.

Al di là delle teorie gender, quelle almeno che parlano di fluidità di genere, crede che l’orientamento sessuale di una persona possa realisticamente cambiare, per esempio da omosessualità a eterosessualità o viceversa?

            È un dato di fatto che esistono trasmigrazioni da “etero” ad “omo”, come viceversa. Il processo di questi cambiamenti è intimo, coerente con l’ascolto che il paziente fa di sé, non proviene certo da forzature o imposizioni più o meno suggestive provenienti dall’esterno. Come in molti aspetti della crescita, anche nell’orientamento sessuale possono esserci blocchi, ritardi (a livello etero ed omo), per cui aiutare una persona a conoscere se stesso in profondità e in genuinità è l’etica che deve contrassegnare ogni relazione d’aiuto.

            Gli atti omosessuali, anche quelli tra coppie con lunga stabilità affettiva, vanno sempre e comunque considerati “intrinsecamente disordinati”?

Il fatto stesso che si ponga la domanda su una affermazione che fino a pochi decenni fa sembrava scontata rivela che viviamo – a livello antropologico ed ecclesiale – un momento storico di profondi cambiamenti per cui sembra necessario rivedere la forma o la comprensione di tale affermazione. Non si tratta solo di riprendere e rileggere in modo più approfondito le scontate clausole (piena avvertenza e deliberato consenso) di valutazione di ogni scelta morale. È in atto una riflessione ad ampio raggio su tale affermazione. Pur consapevoli che nessuno può sostituirsi al Magistero, è possibile ed auspicabile offrire contributi che favoriscano questo percorso e rimangono sempre sottoposti al sensus ecclesiæ, agli orientamenti magisteriali.

            Nella fattispecie, nel processo per elaborare una risposta a questa domanda è necessario tener presente, tra l’altro, la distinzione tra legalità e legittimità. Partendo dalla considerazione che l’orientamento sessuale non è una scelta ma accade nell’intimo della persona, il giovane cristiano che si scopre omosessuale in che modo può vivere la propria vita di fede? Deve vivere una vita di castità come dato imposto e non come scelta? È questa la “Buona Novella” che dobbiamo annunciare? Una seconda domanda abbastanza seria va tenuta in considerazione: come può il cristiano omosessuale vivere la propria esistenza con la percezione costante di “essere-fatto- male” a causa di una valutazione di illegittimità per una situazione (l’omosessualità) di cui non è per nulla responsabile?

La fede è la risposta alle domande della con- dizione umana. Oggi a livello ecclesiale si ripresentano domande antiche ma con nuove sfumature, connotazioni ed implicazioni. Le risposte vanno ricomprese e riformulate in una prospettiva innanzitutto evangelica, di una Chiesa che – come ci ricorda Paolo VI nell’Ecclesiam Suam – ascolta il cuore dell’uomo e per quanto possibile cerca di assecondarlo.

Intervista di Luciano Moia a padre Giovanni Salonia, sacerdote, psicoterapeuta e docente.

pubblicata su Noi famiglia & vita, supplemento mensile ad Avvenire, 26 maggio 2019, pp.34-36

www.gionata.org/accompagnare-gli-omosessuali-scelta-evangelica

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PROCREAZIONE ASSISTITA

La maternità surrogata nella sentenza delle Sezioni Unite Civili

Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza n. 12193, 8 maggio 2019

www.neldiritto.it/public/pdf/s.u._12193_2019.pdf

www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=17018#.XO7lto9S92B

Con la sentenza 12193/2019 le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno posto l’ulteriore e almeno per ora definitivo – tassello giurisdizionale nel più vasto e fin troppo complesso mosaico giuridico relativo al problema della maternità surrogata che, nonostante l’espresso divieto normativo sancito dal comma 6 dell’articolo 12 della legge 40/19 febbraio 2004, [www.parlamento.it/parlam/leggi/04040l.htm: “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro”.] sempre più di fatto si diffonde, sollecitando non soltanto sforzi di carattere interdisciplinare, ma altresì coinvolgendo all’interno di ciascuna disciplina, contemporaneamente molteplici profili tra loro interconnessi, come quelli di carattere costituzionalistico (per esempio, i diritti della famiglia o la tutela della salute riproduttiva), o civilistico (per esempio, la determinazione dello status filiationis o la configurazione della stepchild adoption per coppie del medesimo sesso), o penalistico (per esempio, l’effettività del piano sanzionatorio della legge 40/2004 o l’integrazione della fattispecie di reato di falsa dichiarazione a un pubblico ufficiale sull’identità propria o altrui), o internazionalistico (per esempio, la definizione dei rapporti tra ordine pubblico internazionale e nazionale o l’ampiezza territoriale della giurisdizione penale italiana).

Difficoltà che, con tutta evidenza, si producono non soltanto assecondando la cosiddetta “funzione creativa” della giurisprudenza che sempre più estesamente si afferma tanto in ambito nazionale quanto internazionale portando a compimento una vera e propria “rivoluzione clandestina”, che segna il passaggio dallo Stato di diritto democratico a quella che potrebbe definirsi come una vera e propria “giuristocrazia”, ma anche e soprattutto allorquando, come purtroppo da parte di molti ci si augura invocando la tutela di una fraintesa concezione (laicistica) dell’ordinamento, si intende negare risolutamente ogni cittadinanza «a beni eticamente fondati, quali la “naturalità della procreazione” ovvero la conservazione della generazione umana all’interno di modelli di famiglia tradizionali basati sul matrimonio e sulla discendenza biologica e genetica», dimenticando, tuttavia, che proprio su questo assunto si assiste al tradimento della matrice antropologica strutturale del diritto, e altresì, specialmente e speciosamente, alla reificazione (perfino commerciale) del figlio, poiché, come è stato acutamente precisato, «la radicale separazione che la legge impone tra il legame giuridico e il legame biologico può spianare a sua volta la strada a un delirio tecnologico, consistente nel fare del “progetto parentale” il fondamento esclusivo dell’identità del figlio e nel considerare il suo essere biologico come un semplice supporto materiale della realizzazione della volontà dei genitori» [Alain Supiot, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del diritto, Mondadori, Milano, 2006, pag. 173]

La suddetta pronuncia delle SS. UU., salutata con vivace soddisfazione sia da parte di coloro che sostengono la pratica della maternità surrogata sia da parte di coloro che vi si oppongono, presenta dei chiaroscuri che, anticipando le conclusioni delle presenti riflessioni, possono riassumersi affermando che con la medesima suddetta sentenza la Corte fa rientrare dalla finestra ciò che ha fatto uscire dalla porta.

La Corte di Cassazione è stata adita nell’ambito della vicenda processuale incentrata sul riconoscimento in Italia del provvedimento emesso il 12 gennaio 2011 dalla Superior Court of Justice dell’Ontario, in Canada, tramite il quale si sancì la genitorialità di entrambi i componenti maschi di una coppia del medesimo sesso in relazione ad un minore nato tramite donazione di ovociti e maternità surrogata: provvedimento straniero di cui nel 2016 la coppia italiana chiese la trascrizione all’ufficiale di stato civile presso il Comune di Trento il quale oppose il suo rifiuto nel procedere alla trascrizione.

Tralasciando, per brevità, gli aspetti processuali (come, per esempio, la qualità di litisconsorte necessario del Pubblico Ministero che nei giudizi aventi ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano è pur privo della legittimazione ad impugnare la relativa decisione, non essendo titolare del potere di azione, neppure ai fini dell’osservanza delle leggi di ordine pubblico), meritano attenzione i punti sostanziali sui cui le Sezioni Unite hanno focalizzato la propria attenzione.

            In primo luogo: la Corte di Cassazione ha ribadito la cristallizzazione del passaggio da una concezione “difensiva” dell’ordine pubblico, oramai circoscritta a una ermeneutica giuridica superata, volta a filtrare l’ingresso nell’ordinamento italiano di atti o norme di origine straniera ritenuti in contrasto con il diritto interno, a una concezione “promozionale” volta a collegare sempre di più l’ordinamento nazionale con quello internazionale, anche perché, a detta degli ermellini, «caratteristica essenziale della nozione di ordine pubblico è infatti la relatività e mutevolezza nel tempo del suo contenuto, soggetto a modificazioni in dipendenza dell’evoluzione dei rapporti politici, economici e sociali, e quindi inevitabilmente destinato ad essere influenzato dalla disciplina ordinaria degl’istituti giuridici e dalla sua interpretazione, che di quella evoluzione costituiscono espressione, e che contribuiscono a loro volta a tenere vivi e ad arricchire di significati i principi fondamentali dell’ordinamento».

In secondo luogo: pur essendo acquisita la consapevolezza per cui l’ordinamento italiano non fonda il rapporto genitoriale in maniera esclusiva sul legame biologico tra genitore e prole, occorre pur riconoscere che, nell’ambito della cosiddetta progettualità genitoriale, vi è una differenza tra una coppia di persone dello stesso sesso composta da donne, e una coppia di persone dello stesso composta da maschi, poiché nel primo caso le due donne possono concorrere alla genitorialità secondo la via biologica, per esempio donando gli ovociti l’una, e conducendo la gravidanza l’altra, mentre nel caso dei due uomini occorre necessariamente ricorrere alla surrogazione di maternità espressamente vietata dall’ordinamento italiano.

In terzo luogo: richiamando la sentenza 162/10 giugno 2014 della Corte Costituzionale

[www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=162]

le Sezioni Unite hanno puntualizzato che il divieto di maternità surrogata contemplato dalla legge 40/2004 costituisce un principio di ordine pubblico, ben fondato non soltanto in quanto la volontà di diventare genitori non può essere priva di limiti, ma anche perché rientra nella discrezionalità riconosciuta agli Stati e ai singoli ordinamenti la facoltà di escludere la liceità della surrogazione di maternità, come già espressamente stabilito dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Mennesson e Labassee c. Francia nel 2014.

In quarto luogo: il riconoscimento del provvedimento straniero che dichiari lo status filiationis (la cui conservazione incontra comunque un favor da parte dell’ordinamento italiano) di un soggetto nato tramite maternità surrogata trova ostacolo nel divieto espressamente previsto dall’ordinamento italiano, in quanto quest’ultimo tutela la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione, pur dovendosi contemperare con la tutela dell’interesse del minore.

In quinto luogo: sebbene il rapporto genitoriale non possa essere instaurato tramite il riconoscimento dell’atto straniero in Italia per via del divieto della maternità surrogata, si può tuttavia fare ricorso alla adozione in casi particolari ai sensi della disciplina della lettera “d” del primo comma dell’articolo 44 della legge 184/1983 che costituisce una «clausola di chiusura volta a consentire il ricorso a tale strumento tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità della relazione affettiva ed educativa».

               www.camera.it/_bicamerali/leg14/infanzia/leggi/legge184%20del%201983.htm

Alla luce di questi punti enucleati dalla decisione delle Sezioni Unite, si possono proporre alcuni rilievi. Sebbene la nozione di ordine pubblico possa in una certa misura essere ritenuta relativa e mutevole, come molti altri concetti giuridici, è anche pur vero che un minimo nucleo essenziale non soggetto all’erosione temporale deve pur essere riconosciuto, per esempio nella inviolabilità dei diritti umani fondamentali, primi fra tutti il diritto alla vita e la dignità umana.

Se è vero che la prospettiva cosiddetta “difensiva” dell’ordine pubblico, dunque, è oramai superata, è pur vero che anche nella prospettiva cosiddetta “promozionale” non si può abdicare all’orizzonte teleologico costitutivo della fenomenologia giuridica, cioè l’inviolabilità della persona umana in quanto indisponibile.

Anche la mutevolezza e la relatività della concezione dell’ordine pubblico, non possono essere assolute, dunque, incontrando nel principio personalistico, che del resto informa la stessa Costituzione italiana, un limite invalicabile.

Se così non fosse, sarebbe difficile apporre una reale giustificazione giuridica ai divieti di determinate pratiche che potrebbero diventare, con il tempo, con i decenni, prassi sociali in cerca di legittimazione legale anche in Occidente, come, per esempio, la mutilazione genitale religiosa, la poligamia o la compravendita di organi umani a fini di trapianto.

La prospettiva per cui vi possa essere una differenza tra coppie del medesimo sesso composte da donne, a cui si applicherebbe la logica della fecondazione eterologa, e coppie del medesimo sesso composte da uomini a cui sarebbe impedito l’accesso alla maternità surrogata, presenta dei punti deboli, proprio in ragione delle pregresse pronunce della Corte Costituzionale che la medesima Corte di Cassazione a Sezioni Unite richiama, ma non in modo completo.

E’ ben verosimile, infatti, che potrebbe trascorrere ben poco tempo – specialmente alla luce della mutevolezza della concezione dell’ordine pubblico e del raccordo tra ordinamento nazionale e ordinamenti stranieri – prima che una simile prospettazione possa essere accusata di violare non soltanto il principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione, ma anche e soprattutto il diritto alla procreazione degli individui alla luce dei parametri di ragionevolezza e proporzionalità, che nel tempo si sono consolidati andando a fondare l’impalcatura ermeneutica su cui si erigono le statuizioni della Corte Costituzionale, [sentenze n. 1130/1988 e n. 87/2012] come è accaduto, del resto, con la stessa sentenza 162/2014 in virtù della quale, infatti, «lo scrutinio di ragionevolezza, in ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, impone[…] di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale». Se il divieto di accesso alla fecondazione eterologa è stato in passato giudicato costituzionalmente illegittimo, in futuro anche una tale preclusione alla maternità surrogata per coppie del medesimo sesso composte da uomini, oggi pur professata dalle Sezioni Unite della Cassazione, potrebbe essere intesa come una lesione della libertà fondamentale della coppia di formare una famiglia con dei figli, senza che la sua assolutezza sia giustificata dalle esigenze di tutela del nato.

Si consideri inoltre che anche ammettendo che la genitorialità biologica non costituisca un criterio assoluto trovando oramai ampia tutela anche la genitorialità sociale, è anche pur vero che la Corte Costituzionale ha precisato per un verso che «non si può contrapporre al favor veritatis il favor minoris, dal momento che la falsità del riconoscimento lede il diritto del minore alla propria identità», [Corte Costituzionale n. 112/22 aprile 1997] e altresì che pur facendo salvo il necessario bilanciamento degli interessi tra favor veritatis e interesse del minore, occorre riconoscere che, «la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore».[Corte Costituzionale n. 7/9 gennaio 2012.]

Da ciò consegue che se è vero, come è vero, che il divieto di maternità surrogata costituisce un principio di ordine pubblico, è altresì pur vero che la sua violazione andrebbe impedita anche avendo riguardo agli effetti che da tale eventuale violazione trovassero scaturigine, sanzionando tali effetti sia civilmente che penalmente.

Sarebbe del resto ben vano pretendere di sanzionare penalmente associazioni di tipo mafioso, o atti di evasione delle normative fiscali, o comportamenti tesi alla tortura o ai trattamenti disumani e degradanti se non si sanzionassero anche gli effetti e i benefici – magari economici – che i loro esecutori potrebbero trarre dagli stessi.

Ecco perché la stessa Cassazione, Prima Sezione civile con la sentenza 24001/12 novembre 2014 ha dichiarato i contratti di maternità surrogata nulli (cioè colpiti dalla più radicale delle sanzioni civili relativamente ai negozi) per contrarietà all’ordine pubblico, ed ecco perché la stessa Cassazione (penale, sesta sezione) con la recente sentenza 2173/27 febbraio 2019 ha sancito che l’accordo intercorso tra il medico e la coppia committente, in esecuzione di un superiore contratto di maternità surrogata, con cui si intende dichiarare che il nato da madre surrogante è figlio della madre committente integra la fattispecie di corruzione stante la qualifica di esercente di pubblico servizio del medico ginecologo che all’operazione si presta.

Insomma: sarebbe mero flatus vocis dichiarare l’accordo di maternità surrogata (civilmente e penalmente) nullo e contrario alla dignità della persona se non si impedisse altresì che il suddetto accordo potesse esplicare i suoi effetti, così come sarebbe vano impedire l’eventuale riduzione in schiavitù dichiarandone la mera contrarierà alla dignità umana se poi non si colpisse anche il profitto da questa eventualmente tratto o se, ancor peggio, non si liberasse colui che in schiavitù è ridotto.

Da un punto di vista di categorie generali del diritto civile, a cui le Sezioni Unite non sembra abbiano posto sufficiente attenzione, se un accordo è nullo non può esplicare la propria efficacia e quindi non si può ragionare sulla tutela di ulteriori posizioni giuridiche che da ciò discendono seguendo la linea sostanzialmente immaginaria di un binario giuridicamente morto, anzi mai nato contro cui l’ordinamento reagisce.

Occorre chiarire, infatti, che se realmente è nullità quella che colpisce gli accordi o i contratti di maternità surrogata, da essi non potranno giammai prodursi effetti, come fatti o atti ulteriori, di alcun tipo (nemmeno invocando la teoria degli effetti indiretti del contratto nullo o il generale principio di conservazione dell’esecuzione materiale del contratto nullo), non soltanto in ossequio al principio generale e fondamentale per cui quod nullum est nullum producit effectum, ma anche e soprattutto perché, come ha ben evidenziato Francesco Carnelutti, il carattere della nullità è tale che può definirsi come «inefficacia diffusiva o, anche, contagiosa».

Anche focalizzando maggiormente l’attenzione sul tema della coordinazione del diritto nazionale e di quello internazionale, risulta che, proprio alla luce della griglia delle carte e delle dichiarazioni internazionali, l’ordinamento italiano non soltanto non può accettare la liceità dei contratti di maternità surrogata, ma neanche gli effetti che da questi potrebbero prodursi in modo diretto o indiretto. [Articolo 35 della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 20 novembre 1959: «gli Stati parti devono prendere ogni misura appropriata sul piano nazionale, bilaterale e multilaterale per prevenire il rapimento, la vendita o il traffico di fanciulli a qualsiasi fine o sotto qualunque forma».]

Si pensi in tal senso al Principio VI e al Principio IX della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 20 novembre 1959 ai sensi dei quali, rispettivamente, «il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre», e «il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudeltà o di sfruttamento. Egli non deve essere sottoposto a nessuna forma di tratta».

In questo senso appare legittima la configurabilità dell’esercizio dell’azione penale anche oltre i confini italiani. Sotto il profilo più strettamente penalistico, infatti, non mancano le pronunce di merito, [Corte di Assise di Lecce 10/01/2017] e di legittimità, [Cassazione Penale n. 18354/2014] che, nonostante anche sentenze di senso contrario,[Cassazione Penale n. 13525/2016] affermando l’esistenza della giurisdizione italiana pur in caso di reato commesso fuori del territorio nazionale lasciano intendere che determinate fattispecie criminose, a causa della grave violazione della dignità umana che esse costituiscono, sono perseguibili “universalmente” e incondizionatamente, potendosene, anzi dovendosene, impedire la causa, lo svolgimento e gli effetti nocivi e lesivi.

La maternità surrogata, dunque, potrebbe e dovrebbe rientrare nell’alveo di quelle fattispecie civilmente e penalisticamente illecite che potrebbero e dovrebbero essere perseguite incondizionatamente e di cui si dovrebbero in tutti i casi impedire gli effetti proprio per una reale ed compiuta tutela di quella dignità umana di cui il divieto dovrebbe costituire il presidio normativo, anche e soprattutto nell’ottica della concezione promozionale dell’ordine pubblico alla luce di espresse normative internazionali, come, per esempio, l’art. 21 della Convenzione di Oviedo del 1997,[Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto»] o l’art. 6 della Dichiarazione di Istanbul del 2008 [«Il traffico di organi e il turismo del trapianto violano i principi di equità, di giustizia e di rispetto per la dignità umana e dovrebbero essere vietati. Dal momento che il commercio di trapianti colpisce donatori impoveriti e altresì vulnerabili, conduce inesorabilmente a iniquità e ingiustizia, e dovrebbe essere vietato. Con la risoluzione 44.25, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha invitato gli Stati a impedire l’acquisto e la vendita di organi umani per trapianti]. E in tal senso si attende un intervento del Legislatore.

Alla luce di ciò appare, dunque, singolare che le Sezioni Unite, alla fine del loro iter argomentativo, ritengano che sebbene non si possa riconoscere il provvedimento straniero che instaura lo status filiationis a seguito di maternità surrogata, si possa invece ricorrere alla adozione in casi particolari.

Con questa previsione, infatti, le Sezioni Unite non soltanto vanificano l’enunciata qualificazione del divieto di maternità surrogata quale principio inderogabile di ordine pubblico, poiché avallano post hoc la stessa maternità surrogata “ratificandone” gli effetti tramite il ricorso alla adozione in casi particolari, ma per di più stravolgono la natura, la funzione e la ratio iuris dell’istituto dell’adozione in casi particolari.

L’adozione in casi particolari, infatti, come le stesse Sezioni Unite ammettono rappresenta una “clausola” di chiusura del nostro ordinamento per garantire una “copertura” della responsabilità genitoriale del minore in carenza delle condizioni naturali per procedere alla normale adozione, costituendo, in sostanza, l’ultima estrema ratio non già per garantire agli adulti il diritto al figlio, ma per garantire al minore il diritto ai genitori.

Non sembra potersi rilevare, quindi, che casi analoghi a quelli portati all’attenzione della Corte possano essere inquadrati, come invece, incautamente, la Corte suggerisce, nell’ambito dell’adozione in casi particolari, poiché uno dei requisiti per l’applicazione di quest’ultimo istituto è lo stato di abbandono del minore che non ricorre in presenza del rapporto genitoriale del medesimo con l’altro genitore.

Viene insomma snaturata non soltanto la funzione della adozione in casi particolari, ma quella dell’adozione in se stessa considerata, almeno come storicamente determinatasi a partire dal diritto romano. Nel diritto romano, infatti, soprattutto dopo l’intervento di Giustiniano, l’adoptio trova la sua ragion d’essere nella esigenza di garantire una continuità all’asse patrimoniale nel caso di assenza di discendenti o di perdita prematura degli stessi. Proprio per questo si richiedeva anche il consenso del genitore naturale che, infatti, non interrompeva l’esercizio della patria potestà nei confronti del figlio ormai adottato dal terzo adottante.

Si trattava di una “finzione” in funzione sostanzialmente patrimoniale. Anche nel diritto romano, tuttavia, la funzione dell’adozione, oltre che patrimoniale nel caso in cui ad essere adottato fosse un maggiorenne, emerse ben presto come solidaristica nel caso in cui ad essere adottato fosse un minore, garantendo così a quest’ultimo l’assistenza secondo lo schema della famiglia naturale.

Non a caso si descrive lo spirito di questo secondo tipo di adozione con il brocardo latino “adoptio naturam imitatur”, cioè “l’adozione imita la natura”, nel senso che con l’adozione si instaura un rapporto di filiazione che dovrebbe ricalcare quello che si sarebbe instaurato con la naturale procreazione.

Ecco quindi come spiegarsi alcuni requisiti essenziali dell’istituto dell’adozione ordinaria: il consenso; la differenza di età tra adottante e adottato; che la coppia adottante sia sposata e, soprattutto, formata da soggetti di sesso diverso.

Questi due ultimi elementi sono la traduzione a livello normativo del suddetto principio per cui la adozione imita la natura, in quanto in natura non si può avere filiazione senza procreazione, e quest’ultima è possibile solo tra soggetti di sesso diverso. Il requisito del matrimonio si spiega in quanto solo con il matrimonio si crea quella stabilità socio-giuridica che rappresenta un presupposto per la adeguata assistenza del minore.

Il ricorso all’adozione in casi particolari, come soluzione per l’impossibilità del riconoscimento del provvedimento straniero che riconosce lo status filiationis in seguito a maternità surrogata, rappresenta insomma un vero e proprio aggiramento, una elusione del divieto di maternità surrogata, con l’aggravante che viene messa in essere ope iudicis, cioè con la legittimazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

            La Cassazione, nonostante che la legge 76/20 maggio 2016 (cd Cirinnà)

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/05/21/16G00082/sg

non estenda la disciplina dell’adozione alle coppie del medesimo sesso, si sostituisce, insomma, al legislatore varando spontaneamente la liceità della cosiddetta “stepchild adoption” suggellando tramite la solennità delle Sezioni Unite un proprio precedente e solitario pronunciamento in tale direzione, innovando la propria vocazione nomofilattica con una inedita deviazione autofilattica.

Sotto questo profilo la statuizione in oggetto delle presenti riflessioni appare non soltanto contraddittoria con se stessa e opposta al quadro normativo, ma anche e soprattutto in controtendenza con quanto sancito dalla Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Paradiso e Campanelli c. Italia del 24 gennaio 2017 allorquando la CEDU conclude il suo ragionamento precisando che «se la Convenzione non sancisce alcun diritto di diventare genitore, la Corte non può comunque ignorare il dolore morale che sentono coloro il cui desiderio di genitorialità non è stato o non può essere soddisfatto. Tuttavia, l’interesse generale in gioco ha un grande peso sul piatto della bilancia mentre, in confronto, si deve accordare una importanza minore all’interesse dei ricorrenti ad assicurare il proprio sviluppo personale proseguendo la loro relazione con il minore. Accettare di lasciare il minore con i ricorrenti, forse nella prospettiva che questi diventassero i suoi genitori adottivi, sarebbe equivalso a legalizzare la situazione da essi creata in violazione di norme importanti del diritto italiano».

La suddetta pronuncia delle Sezioni Unite, anche alla luce di un rapido e sintetico esame come quello contenuto in queste scarne riflessioni, rivela tutte le fragilità e le antinomie su cui si fonda lasciando intendere che sarà foriera di incertezze giuridiche maggiori di quelle che invece, probabilmente, intendeva risolvere.

            Aldo Rocco Vitale, visiting professor presso la facoltà di bioetica dell’ateneo Regina Apostolorum

Centro Studi Rosario Livatino         25 maggio 2019

www.centrostudilivatino.it/la-maternita-surrogata-nella-sentenza-delle-sezioni-unite-civili-n-12193-2019

Vedi    pag 31→36 di NewsUCIPEM n. 753 – 12 maggio 2019

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SESSUOLOGIA

Sessualità in contatto con l’altro/a e col mondo

Un aspetto centrale dell’essere umano, lungo tutto l’arco della vita, che comprende il sesso, le identità e i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, l’erotismo, il piacere, l’intimità e la riproduzione», così l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la sessualità umana.

Ben lungi dall’essere un fenomeno iscritto soltanto nella biologia, la sessualità è una delle manifestazioni più complesse del sé. È il suo divenire pienamente adulto, il suo farsi incontro all’altro/a nella sua versione più intima e totalizzante, perché non solo è il veicolo della fecondità biologica, ma mentre investe profondamente il corpo e le sue sensazioni, attiva le emozioni più potenti, si apre all’immaginario e sostiene la progettualità di ogni coppia.

Non solo la continuazione della specie, ma la soddisfazione del bisogno sessuale in quanto bisogno primario, la ricerca dell’intimità corporea ed emozionale, il dare ricevere piacere. Tanto è cruciale questa dimensione  dell’espressione  umana  che quando l’esperienza della sessualità è frustrata  o  è  imposta,  o  viene  attraversata senza  rispetto  e  senza  cura,  irrompono emozioni dalle tinte forti, come il dolore, la  paura,  la  rabbia,  il  risentimento,  il  di-sgusto, la vergogna, l’umiliazione, il senso di  colpa,  fino  ad  un  accorato  sentimentosi solitudine e di autosvalutazione. Al crocevia tra natura e cultura, stili educativi e storia personale, schemi valoriali consuetudini sociali, norme giuridiche immaginario collettivo, vive in una articolazione  complessa  che  percorre  il  passaggio tra confini personali e apertura all’altro/a,  tenerezza  e  aggressività,  accoglienza  e  proposta,  autonomia  e  bisogno dell’altro/a.

Una stella per orientarsi. Per avere un quadro più chiaro di questo approccio multidimensionale, possiamo immaginare (S.  Ginger, 1995, La Gestalt, l’art du contact, Guide de Poche Marabout, Paris 2003) una stella a cinque punte che descrive in sintesi come l’attività umana si sviluppi secondo diversi assi dimensionali: la dimensione fisica, quella affettiva, quella cognitiva, la dimensione sociale la dimensione etica e spirituale. È interessante confrontare il diverso grado di sviluppo e realizzazione di ciascuna di que-ste dimensioni e indagare sul rapporto che esiste tra i diversi assi. È possibile che una punta della stella troppo sviluppata impedisca alle altre di trovare un’armonia. Utilizzando questa schematizzazione per la sessualità, possiamo fare il punto mantenendo uno sguardo sull’insieme, sulla globalità del sé che questa espressione umana investe (B.  Martel, Sexualitè, amour e Gestalt, InterEdition, Dunot, Paris 2004). Cominciamo dalla prima punta della stella, che colleghiamo al corpo, al polo fisico. Qui incontriamo la conoscenza del corpo, delle sue sensazioni, dei piaceri e dei dispiaceri, le memorie corporee che raccontano le vicende vissute, l’atteggiamento rispetto al contatto fisico, il piacere sessuale sul piano degli organi e della loro funzionalità.

Sulla punta successiva della nostra stella collochiamo il cuore, il polo affettivo. Qui possiamo analizzare la nostra capacità di fare contatto con le emozioni, il modo in cui  ci  permettiamo  di  esprimere  i  sentimenti, la nostra libertà di accedere all’intimità, la nostra capacità di comunicazione emotiva, la memoria affettiva della fa-miglia  di  origine  che  ci  portiamo  dentro, la nostra capacità di apertura all’amore.

Proseguiamo sulla punta della stella che rappresenta la testa, il polo cognitivo.  Di quali  conoscenze  disponiamo  sul  tema della  sessualità,  quali  sono  le  convinzioni,  e  magari  anche  gli  stereotipi  e  i  pre-giudizi che inevitabilmente portiamo con noi, quale è la nostra cultura sulla sessualità,  di  quali  immagini  si  nutrono  le  nostre rappresentazioni mentali in materia. Siamo arrivati alla quarta punta della stella, il polo sociale, gli altri, il rapporto con la propria comunità e coi propri simili dello stesso e dell’altro genere, l’iscrizione della propria vita sessuale nella vita socia-le. Il modo in cui la cultura familiare, l’educazione ricevuta, hanno  plasmato  la  nostra  visione  sociale  della  sessualità,  dei ruoli di genere, dell’appropriatezza o inaccettabilità  di  date  forme  di  espressione sociale  della  sessualità,  il  modo  in  cui  le norme  e  le  consuetudini  culturali  della società in cui viviamo ammettono, favoriscono o inibiscono i comportamenti sociali conseguenti,  e  quale  è  la  scala  dei  propri valori in ambito sessuale.

Ecco infine la quinta punta della stella, il polo spirituale, dove collochiamo la ricerca di senso che investe la nostra sessualità, la ricerca di trascendenza, dell’andare oltre noi stessi, che vi è implicita, lo spa-zio  che  ha  nel  proprio  mondo  spirituale, le  posizioni  ideologiche,  la  ricerca  di  ciò che trascende il materiale, la sacralità del-la  propria  sessualità  come  offerta  di  sé  e incontro al di là dei confini personali, ma anche  la  sessualità  come  generatività, come  fecondità  non  solo  materiale,  energia viva che cerca un varco per andare oltre se stessa.

Un equilibrio vitale. Possiamo fare anche noi, lettori e lettrici di questo articolo, un piccolo check-up

Personale sulle cinque punte di questa stella, e provare a scoprire quale aspetto prevale ora nella nostra vita, se c’è una branca troppo sviluppata e magari un’altra che è carente, disinvestita, o quasi dimenticata. Possiamo domandarci, se troviamo per caso un qualche tipo di squilibrio che riconosciamo come penalizzante, cosa esso comporta nella relazione con il nostro sé globale, con la persona che amiamo o con la società in cui viviamo.

E possiamo comprendere meglio da quale componente poter cominciare per ritrova-re, nella nostra condizione esistenziale attuale, un equilibrio migliore, più soddisfacente, o più libero, o più rispettoso dell’altro/a.

 Possiamo cominciare a rintracciare dove sono i pericoli e le carenze che limitano la nostra capacità di essere profondamente intimi con l’altro/a. Traumi, violenze, false intimità come la fusionalità, la promiscuità, le paure arcaiche di essere fagocitati che forse abbiamo attraversato, la sicurezza interiore e la padronanza di noi stessi che forse ci mancano ancora un po’, l’autonomia, e nello stesso tempo la capacità di aprirci all’altro/a, la fiducia e il rispetto che possiamo tributargli, e la responsabilità che possiamo assumere per il nostro modo di comunicare e di proporci nella relazione, per i bisogni antichi, le paure recondite, gli schemi impliciti non elaborati che portiamo con noi come un bagaglio pesante ormai forse diventato inutile.

Uno o più di questi fattori possono bloccare o limitare la nostra capacità di essere intimi, di dare e ricevere piacere e gioia nella nostra vita sessuale.

Tenerezza, intimità e un po’ di sana aggressività. Realizzare un buon equilibrio tra tenerezza, intimità e una quota di sana, giocosa aggressività. Ecco in poche parole una buona «ricetta» per questa sfera della nostra vita. Saper transitare fluidamente dall’una all’altra componente di questa triade vuol dire aver rispetto della delicatezza del confine altrui, ma anche essere capaci, col suo permesso, di attraversarlo con energia, e incontrarsi in quella zona sacra e preziosa dove i confini personali per un poco si azzerano.

Dare e ricevere tenerezza, con le parole, con i gesti, con l’attenzione e il riguardo, è il passaggio di inizio necessario per avvicinarsi alla soglia dell’intimità. E non stiamo parlando solo di preliminari amorosi. Stiamo parlando di quella atmosfera di affetto tenero che avvolge la persona amata e la fa sentire al sicuro, anche da lontano, anche quando siamo ognuno al lavoro, anche quando abbiamo bisogno di uno spazio/tempo personale.

Da qui nasce la possibilità dell’intimità: ricevere l’altro nel proprio territorio emotivo e corporeo, senza sentirsi «invasi» o «contaminati», a contatto di pelle con l’altro/a, senza perdere la propria individualità. È qui che arrivano a manifestarsi, se per caso erano immagazzinate dentro di noi, le nostre paure arcaiche di essere distrutti o di essere abbandonati, e sono loro che ci tengono lontano dall’intimità. Non stiamo parlando solo della nudità inerme ed esposta dei corpi, parliamo delle componenti affettive, in primo luogo, ma anche di quelle intellettuali e spirituali dell’intimità.

E infine, anche se è la più difficile da collocare e da regolare, una certa quota disana aggressività. Nel senso etimologico del termine, nel senso di quell’«andare verso» che è l’energia necessaria per muoversi attivamente verso l’altra persona, per non restare intrappolati dalla paura del rifiuto, dalla vergogna, dal senso di inadeguatezza. Un «andare verso» che sostiene nell’esprimere il desiderio, che è offerta generosa, gioco lieto, e non diventa mai imposizione o ricatto. Che sa anche dire un no, sa mantenere un confine e accettare un rifiuto. Che sa vedere nel «noi» un io e un tu capaci di tensione dialogante. Un «andare verso» che è invito, proposta, slancio che coinvolge e colora a tinte vive la vita.

Quando si trova insieme la chiave per una buona armonia tra tenerezza, intimità e sana giocosa aggressività, lo spazio della sessualità diventa uno spazio sacro, dove «fare l’amore» non è più soltanto una maniera più fine e gentile per dire di un incontro sessuale, ma è compiutamente l’azione del costruire l’amore dall’inizio e fino in fondo, fino al corpo, al cuore, alla mente, al mondo, allo spirito.

Rosella De Leonibus  Rocca n. 11, 01 giugno 2019

www.rocca.cittadella.org/rocca/s2magazine/index1.jsp?attiva_pre_zoom=1&idPagina=63&id_newspaper=1&data=01062019

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WELFARE

Congedo maternità dopo il parto, i chiarimenti dell’Inps

Rispetto alla possibilità per le lavoratrici di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo il parto entro i 5 mesi successivi allo stesso, arriva il messaggio 6 maggio 2019, n. 1738 dell’Inps che fornisce i primi chiarimenti.                                                        www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_34744_1.pdf

            La novità viene introdotta dalla legge di bilancio: le lavoratrici hanno facoltà di astenersi dal lavoro per i 5 mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del servizio sanitario nazionale o convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della nei luoghi di lavoro, attestino l’assenza di pregiudizi per la della gestante e del nascituro. Le lavoratrici potranno usufruire del congedo obbligatorio di maternità dal giorno successivo alla data del parto fruendone quindi per i successivi 5 mesi.

Col messaggio l’Inps chiarisce di aver aggiornato l’applicazione “Domande di Maternità online“, dunque, le lavoratrici madri che intendano avvalersi della facoltà di astensione esclusivamente dopo il parto possono esercitare l’opzione, presentando domanda telematica di indennità di maternità. Per farlo basterà spuntare la specifica opzione.

Ancora, la domanda di maternità deve essere presentata prima dei 2 mesi che precedono la data prevista del parto e mai oltre un anno dalla fine del periodo indennizzabile, esclusivamente per via telematica o sul sito web istituzionale (con PIN dispositivo) oppure tramite patronato o Contact center.

L’Inps evidenzia inoltre che le documentazioni sanitarie necessarie per poter fruire del congedo di maternità esclusivamente dopo il parto devono essere presentate alla sede competente, in originale e in busta chiusa, recante la dicitura “contiene dati sensibili”. Tali domande non transiteranno in procedura “Gestione Maternità” fino all’emanazione della circolare operativa e ai conseguenti aggiornamenti.

Gabriella Lax – News Studio Cataldi 28 maggio 2019

www.studiocataldi.it/articoli/34744-congedo-maternita-dopo-il-parto-i-chiarimenti-dell-inps.asp

 

“Premio Nascita” e la nuova App “Inps Mobile”. Novità per le neomamme

www.inps.it/bussola/VisualizzaDoc.aspx?sVirtualURL=%2fMessaggi%2fMessaggio%20numero%201874%20del%2016-05-2019.htm

Premio Nascita per i nuovi nati e i minori adottati o in affido, corrisposto direttamente dall’INPS e pari a 800 euro per ogni figlio, ora anche in versione mobile/tablet

L’INPS diventa mobile friendly. Con la nuova applicazione mobile dell’Inps, richiedere il premio alla nascita è diventato ancora più semplice. Le domande per ottenere il bonus di 800 euro erogato per la nascita o l’adozione di un minore, potranno essere presentate anche attraverso dispositivo mobile/tablet. Una facilitazione in più per neo mamme e donne in dolce attesa.

La novità introdotta dall’Istituto, consentirà alle mamme e alle donne in stato di gravidanza di richiedere il premio alla nascita di 800 euro direttamente dal proprio cellulare o tablet, e di potere consultare anche lo stato di avanzamento delle domande presentate in precedenza.

Il Bonus mamma domani è un’agevolazione riconosciuta dall’INPS in caso di nascita o adozione di un bambino a partire dal 1° gennaio 2017. Per ottenere il bonus, serve una domanda della futura madre al compimento del settimo mese di gravidanza (inizio dell’ottavo mese di gravidanza) o alla nascita, adozione o affidamento preadottivo.

Chi ne ha diritto? Le donne in stato di gravidanza o le mamme per uno dei seguenti eventi verificatisi a partire dal 1° gennaio 2017: compimento del 7° mese di gravidanza; parto, anche se è avvenuto prima dell’inizio dell’8° mese di gravidanza; adozione nazionale o internazionale di un minore disposta con sentenza definitiva ai sensi della legge n. 184/4 maggio 1983; affidamento preadottivo nazionale o internazionale disposto con ordinanza.

Il contributo, previsto sia per i nuovi nati che per le adozioni di minori, è corrisposto direttamente dall’INPS ed è pari a 800 euro per ogni figlio. Si tratta di una somma corrisposta una tantum, per singolo evento e in relazione ad ogni figlio nato, adottato o affidato. Particolarità del bonus è quella di non essere subordinato ad alcuna soglia ISEE, per cui spetta a tutte le richiedenti indipendentemente dal loro reddito.

La domanda può essere inviata dopo il compimento del 7° mese di gravidanza, e comunque entro 1 anno dalla nascita, affido o adozione del piccolo. La domanda all’INPS va presentata seguendo una delle seguenti modalità:

  • Servizi telematici messi a disposizione sul sito istituzionale dell’Inps, accedendo all’area personale del portale con il proprio codice pin;
  • Telefonando al Contact Center dell’ente previdenziale il numero 803164, per le chiamate da rete fissa, oppure il numero 06164164 per le chiamate da rete mobile;
  • Rivolgendosi a un patronato.

Per presentare domanda di “Premio Nascita” direttamente dal proprio telefonino o tablet, l’interessata deve per prima cosa scaricare (gratuitamente) l’App “Inps Mobile” dagli store ufficiali Apple e Android. Scaricata l’App, bisogna cercare nell’elenco “Tutti i servizi” la voce “Premio Nascita” ed inserire, nelle varie schermate che compariranno man mano, tutti i dati e le informazioni previste. Conclusa questa fase, la richiedente dovrà confermare i dati inseriti e protocollare la domanda. Dopo la protocollazione della domanda, per la neo mamma o futura mamma sarà possibile aggiungere un massimo di 3 allegati che non devono superare le dimensioni di 1Mb ciascuno.

Sempre attraverso l’App “Inps Mobile”, si potrà consultare l’elenco delle domande di “Premio Nascita” già presentate e verificare lo stato della domanda.

News Ai. Bi.         30 maggio 2019

www.aibi.it/ita/premio-nascita-e-la-nuova-app-inps-mobile-novita-per-le-neomamme

 

Fonte           Francesca De Cristofaro    Magevola          30 maggio 2019

www.magevola.it/famiglia/credito-e-opportunita/nazionale/bonus-mamma-domani-inps

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