NewsUCIPEM n. 751 – 28 aprile 2019

NewsUCIPEM n. 751 – 28 aprile 2019

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

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02 ABUSI                                                            Atti sessuali con minorenni: giurisprudenza.

04                                                       Ordini di protezione contro gli abusi familiari.

06 ADDEBITO                                                    L’addebito della separazione.

10 ADOZIONE                                                   Riconosciuta pronunciata all’estero anche se l’adottante è single.

11 AFFIDO                                                         La Corte di Cassazione sulla sottrazione internazionale del minore.

11 AFFIDO CONDIVISO                                Portata, fattori di confondimento e obblighi di motivazione.

14 ANONIMATO                                             X ogni Giorgio salvato, si calcola siano 10 neonati finiti in discarica.

15 ASSEGNO DIVORZILE                              Assegno di divorzio: diritto solo in 4 casi.

16                                                                          Va rivisto solo se sopraggiungono fatti nuovi.

17                                                                          Divorzio: la nuova convivenza cancella l’assegno.

18 ASSOCIAZIONI-MOVIMENTI                                L’impegno di Ai.Bi. con “I bambini di Chernobyl.

18 BIGENITORIALITÀ                                     Non basta Skype a limitare i danni della lontananza dei genitori.

20 CELIBATO                                                     La chiesa, la pedofilia e quel tabù del celibato.

21 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA   Newsletter CISF – n. 8, 27 febbraio 2019.

23 CHIESA CATTOLICA                                  Apocalittici, non magisteriali: 2 teologi su “Appunti” di Ratzinger.

24                                                                          Ratzinger. Appunti di teologia preconciliare.

27                                                                          La “fiction” dietro l’idea del “papa emerito”.

29                                                                          Crescono i cattolici nel mondo. Le statistiche tra il 2010 e il 2017.

32 CINQUE PER MILLE                                   5, è tornato il tetto. La conferma dell’Agenzia delle Entrate.

32 CITAZIONI                                                    Fulton Sheen: chiacchieri solo o fai davvero l’amore?

33 CONGRESSI-CONVEGNI-SEMINARI  La XXI Settimana nazionale sulla spiritualità coniugale e familiare.

34 DALLA NAVATA                                         2° Domenica di Pasqua- Anno C – 28 aprile 2019.

34                                                                          Le ferite di Gesù, alfabeto dell’amore.

35 DIRITTO DI VISITA                                     Escluso se la figlia rifiuta di vedere il padre.

36 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI    Manifesto x le Europee: 10 punti che stanno a cuore alle famiglie.

37 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA       Francesco mi lascia sgomenta.

38 OMOFILIA                                       Il Papa incontro il comico ateo Stephen Amos.

38 SESSUOLOGIA                                            La vita sessuale è un aspetto elevato del progetto divino.

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ABUSI

Atti sessuali con minorenni: giurisprudenza

Corte di Cassazione, terza sezione penale, sentenza n. 17370, 23 aprile 2019

www.spiaaldiritto.it/2019/04/29/ancora-sullerror-aetatis-ed-i-rapporti-con-la-colpa-in-concreto

Secondo una recente sentenza della Cassazione chi ha rapporti sessuali con una minorenne non può scusarsi dicendo di aver ritenuto che la giovane avesse più di 14 anni. Questo significa che esiste un vero e proprio obbligo di accertare la data di nascita, eventualmente chiedendo di visionare un documento di identità. Diversamente si incorre nel grave reato di atti sessuali con minorenne. La giurisprudenza, in realtà, è stata sempre molto rigorosa su questo aspetto: la responsabilità – si legge in numerose sentenze – non può essere attenuata né dal consenso del minore al rapporto, né dalle fattezze e dalle sembianze di quest’ultimo che possano portare a ritenere che abbia superato la cosiddetta età del consenso.

            Ricordiamo che, nonostante il nome ambiguo scelto dal legislatore, il reato di atti sessuali con minorenni scatta non con chi ha meno di 18 anni ma con chi ne ha meno di 14. L’età sale a 16 nel caso in cui l’altro soggetto sia un ascendente, un genitore anche adottivo, il tutore, un insegnante anche privato, un educatore, un istruttore o qualsiasi altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza.

            Quindi, al contrario di quanto comunemente si crede, non è vero che non è possibile avere rapporti sessuali con ragazze o ragazzi minori di 18 anni: l’età a partire dalla quale si può scegliere con chi stare è 14 anni. Questo significa che una quattordicenne potrebbe anche avere – se ovviamente lo vuole – una relazione con un sessantenne.

Atti sessuali con minorenne: normativa. Riportiamo di seguito l’articolo del codice penale che disciplina il reato di atti sessuali con minori.

Art. 609 quater codice penale. «Soggiace alla pena stabilita dall’articolo 609-bis chiunque, al di fuori delle ipotesi previste in detto articolo, compie atti sessuali con persona che al momento del fatto: non ha compiuto gli anni quattordici; non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza.

Non è punibile il minorenne che, al di fuori delle ipotesi previste nell’articolo 609-bis, compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età tra i soggetti non è superiore a tre anni.

Nei casi di minore gravità le pena è diminuita fino a due terzi.

Si applica la pena di cui all’articolo 609-ter, secondo comma, se la persona offesa non ha compiuto gli anni dieci».

 

L’errore sulla data di nascita. Con la sentenza richiamata in apertura, la Cassazione ha ritenuto responsabile un uomo di 20 anni per avere avuto un rapporto con una bambina di 12 anni. L’uomo «aveva dichiarato di avere comunque saputo che la data di nascita sul documento della ragazza era falsa», e quindi, spiegano i Giudici, «egli non poteva ritenersi non responsabile, perché l’incertezza sulla data di nascita avrebbe imposto uno specifico impegno conoscitivo», mentre, invece, «accontentandosi delle rassicurazioni della ragazza», egli, concludono i Giudici, «ha consapevolmente accettato il rischio di compiere atti sessuali con una dodicenne».

Il consenso è irrilevante. Secondo la Cassazione, il bene giuridico del reato di atti sessuali con minorenne non è la libertà di autodeterminazione dello stesso, non potendo egli esprimere alcun consenso, ma l’integrità fisio-psichica del medesimo nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria sessualità [Cass. sent. n. 23205/2018]. Questo significa che il reato si configura indipendentemente dal consenso della vittima, «non soltanto perché la violenza è presunta dalla legge, ma anche perché la persona offesa è considerata immatura ed incapace di disporre consapevolmente del proprio corpo a fini sessuali».

            Il consenso del minore non è rilevante neanche ai fini del riconoscimento dell’attenuante della minore gravità del reato, poiché questa è applicabile soltanto se gli atti non comportano una compromissione dell’integrità fisio-psichica dell’offeso.

Rapporti con minorenne: non rileva che la vittima abbia mentito sull’età. In tema di reati contro la libertà sessuale commessi in danno di persona minore degli anni quattordici, l’ignoranza da parte del soggetto agente dell’età della persona offesa scrimina la condotta solo qualora egli, pur avendo diligentemente proceduto ai dovuti accertamenti, sia indotto a ritenere, sulla base di elementi univoci, che il minorenne sia maggiorenne; ne consegue che non sono sufficienti le sole rassicurazioni verbali circa l’età fornite dal minore, né elementi quali la presenza nel soggetto di tratti fisici di sviluppo tipici di maggiorenni o rassicurazioni verbali circa l’età, provenienti dal minore o da terzi, nemmeno se contemporaneamente sussistenti [Cass. sent. n. 29640/2018]. La mancanza di congiunzione fisica con il minorenne non comporta l’automatica qualificazione del fatto come di minore gravità

            In tema di atti sessuali con minorenni, l’eventuale limitazione degli atti compiuti in danno del soggetto passivo del reato a pratiche erotiche non comportanti la congiunzione fisica non porta ad alcuna automatica qualificazione del fatto come minore gravità, dovendo compiersi, ai fini del riconoscimento dell’attenuante speciale prevista dal codice penale, una valutazione complessiva dell’episodio storico, dei suoi singoli elementi, della lesione inferta alla libertà sessuale del soggetto passivo del reato e dell’intensità del danno, anche psichico, da questa patito [Cass. sent. n. 29618/2018].

Il risarcimento del danno alla vittima. Il giudice può determinare in via equitativa il danno morale subito dal minore che sia stato vittima di reati sessuali, dovendo prendere in considerazione, ai fini della determinazione, elementi tra cui l’intensità dell’azione, gli effetti proiettati nel tempo ed il turbamento cagionato [Cass. sent. n. 10802/2018].

Il bacio sulle labbra a una minorenne. Il bacio sulla bocca assume valenza sessuale e integra il reato di atti sessuali con minore se dato senza il consenso, anche se limitato al semplice contatto delle labbra, in quanto attinge una zona generalmente considerata erogena; perde il suo connotato sessuale solo se è dato in particolari contesti sociali o culturali, quali ad esempio nella tradizione russa, dove assume il connotato di saluto, o in certi contesti familiari, dove è solo un segno di affetto. (Fattispecie in cui l’imputato ultracinquantenne era stato condannato per aver fermato per strada la parte lesa tredicenne e le aveva dato improvvisamente due baci sulla bocca) [Cass. sent. n. 25112/2007].

Applicazione dell’attenuante. In tema di atti sessuali con minore infra-quattordicenne, l’attenuante speciale della minore gravità non può essere concessa quando gli abusi in danno della vittima sono stati reiterati nel tempo. Analogamente, non può essere riconosciuta la circostanza attenuante del fatto di minore gravità ove il reato di violenza sessuale sia commesso da un docente all’interno di un istituto scolastico, posto che questo è un luogo all’interno del quale l’alunno deve sentirsi protetto e che, però, rende particolarmente vulnerabile la vittima per il rischio di attenzioni sessuali illecite derivanti dall’approfittamento del rapporto fiduciario intercorrente con l’insegnante [Cass. sent. n. 38837/2017].

            Sempre secondo la Cassazione [Cass. sent. n. 46461/2017] ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità deve farsi riferimento alla valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età; non è pertanto ostativa a tal fine la condotta violenta tenuta dall’imputato dopo la consumazione del reato, trattandosi di condotte successive al compimento degli atti sessuali in quanto tali.

(In applicazione del principio di suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza dei giudici di merito che avevano ritenuto ostativa al riconoscimento dell’attenuante la circostanza che l’imputato, alcuni giorni dopo il compimento degli atti sessuali, aveva tentato di sottrarre la minore alla madre con violenza, nonostante l’assenza di costrizione fisica nel compimento degli atti sessuali e l’esistenza di un iniziale consenso della vittima nell’ambito di una relazione duratura con l’imputato).

L’uso di un falso profilo Facebook per adescare il minore è sintomo di gravità del reato. Secondo la Cassazione [Cass. sent. n. 7006/2017], la modalità subdola dell’adescamento di minore tramite la creazione di un falso profilo sui social network esclude la tenuità del reato.

Qualsiasi relazione di fatto rileva per elevare l’età del consenso a 16 anni. Ai fini della configurabilità del rapporto autoritativo che configura l’ipotesi di atti sessuali con minorenni rileva la situazione di fatto venutasi a creare nel rapporto tra imputato e persona offesa, a prescindere dai connotati formali dello stesso (nella specie, l’imputato era accusato dir aver compiuto atti sessuali con una minore di 14 anni, sua collaboratrice nella gestione di una tabaccheria) [Cass. sent. n. 1483/2017].

            Ed ancora, ai fini dell’individuazione dell’elemento relazionale tra adulto e minore infra-sedicenne dell’”affidamento“, non è necessaria la preesistenza di una formale attribuzione di compiti al soggetto affidatario da parte dell’affidante, potendosi trattare anche di situazioni del tutto temporanee ed occasionali (fattispecie relativa al rapporto tra un maestro di sci e l’allieva infrasedicenne) [Cass. sent. n. 18881/2017].

La Legge per tutti      28 aprile 2019

www.laleggepertutti.it/283179_atti-sessuali-con-minorenni-giurisprudenza

 

Ordini di protezione contro gli abusi familiari

Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari sono quei provvedimenti che il giudice, su istanza di parte, adotta con decreto per ordinare la cessazione della condotta del coniuge o di altro convivente che sia “causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente” (art. 342 bis c.c.).

  1. 1.      La normativa di riferimento. La disciplina relativa agli ordini di protezione contro gli abusi familiari è relativamente recente, in quanto introdotta con la Legge 4 aprile 2001, n. 154, a seguito della quale il codice civile è stato arricchito degli artt. 342 bis e ter, mentre nel codice di procedura civile ha visto la luce l’art. 736 bis.                                         www.camera.it/parlam/leggi/01154l.htm

2. I presupposti. L’art. 342 bis, c.c. prevede che gli ordini di protezione contro gli abusi familiari vengano disposti “quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente”. Alla base dei provvedimenti ex art. 342 ter, c.c., pertanto, vi sono due distinte circostanze:

  1. La “convivenza”. L’applicazione delle misure di protezione presuppone che la vittima ed il soggetto cui viene addebitato il comportamento violento vivano all’interno della medesima casa, in quanto l’art. 5 della L. 154/2001 fa esclusivo riferimento al nucleo costituito dai familiari conviventi. Tale considerazione muove dal fatto che gli ordini di protezione non hanno soltanto la funzione di interrompere situazioni di convivenza turbata, ma soprattutto quella di impedire il protrarsi di comportamenti violenti in ambito domestico. Il requisito della convivenza (inteso come “perdurante coabitazione”) sussiste anche quando vi sia stato l’allontanamento, provocato dal timore di subire violenza fisica del congiunto, mantenendo nell’abitazione familiare il centro degli interessi materiali ed affettivi. Non manca poi un diverso orientamento secondo il quale sarebbe ammissibile la domanda di misure di protezione anche a seguito della cessazione della convivenza.
  2. Una condotta gravemente pregiudizievole all’integrità fisica. Il presupposto per la concessione dell’ordine di protezione non è rappresentato, in sé, dalla condotta del convivente nei cui confronti si richiedono le misure di protezione, bensì dall’esistenza di un pregiudizio grave all’integrità fisica, “morale” o alla “libertà personale” patito dal familiare convivente, imputabile (questo sì) in termini causali alla condotta dell’altro. La circostanza in parola si basa, in altri termini:
  • sulla esistenza di fatti violenti dai quali siano derivate non insignificanti lesioni alla persona, ovvero di una situazione di conflittualità tale da poter prevedibilmente dare adito al rischio concreto ed attuale, per uno dei familiari conviventi, di subire violenze gravi dagli altri;
  • sulla verificazione di un “vulnus” alla dignità dell’individuo di entità non comune, in relazione alla delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, ovvero per le modalità “forti” dell’offesa arrecata e per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso, indipendentemente da qualsiasi indagine sulle cause dei comportamenti violenti e sulle rispettive colpe nella determinazione della situazione. Il Tribunale di Milano ha precisato che la condotta del soggetto nei cui confronti l’istante chiede l’emanazione dell’ordine deve essere valutata dal giudice sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo: qualitativo, nel senso della concreta modalità idonea a rappresentare un pericolo per la parte ricorrente e per il proprio nucleo familiare, quantitativo con riferimento all’entità della condotta perdurante nel tempo, alla sua efficacia offensiva ed alla sua dimensione psicologica.

3.Soggetto attivo della condotta. Autore delle condotte pregiudizievoli può essere sia un coniuge nei confronti dell’altro (anche con l’appoggio e la partecipazione attiva degli altri familiari), sia il genitore verso i figli (anche quando i maltrattamenti non sono commessi direttamente sulla persona del minore, ma indirettamente, nei confronti di stretti congiunti a lui cari) che questi ultimi verso i genitori. La condotta pregiudizievole di regola è caratterizzata dal verificarsi di reiterate azioni ravvicinate nel tempo, consapevolmente dirette a ledere i beni tutelati, e non da singoli episodi compiuti a distanza di considerevole tempo tra loro.

4. Ordine di protezione e violazione dei doveri coniugali. Il decreto protettivo ex art. 342 ter, c.c. non può essere richiesto nel caso in cui vengano “semplicemente” violati i doveri di mantenimento ex art. 143-147, c.c. in quanto tale comportamento configura una mera condotta omissiva. Allo stesso modo, una misura protettiva non può essere concessa in presenza di una mera situazione di reciproca incomunicabilità ed intolleranza tra soggetti conviventi, di cui ciascuna delle parti imputa all’altra la responsabilità, almeno quando i litigi, ancorché aspri nei toni, non siano stati aggravati da violenze fisiche o minacce o non si siano tradotti in violazione della dignità dell’individuo di particolare entità. Il decreto protettivo non riguarda da ultimo la disciplina del diritto di visita dei figli da parte del genitore destinatario.

5. Il procedimento. Gli ordini di protezione richiedono l’istanza della vittima, che può essere proposta anche dalla parte personalmente, con ricorso al tribunale del luogo di propria residenza o domicilio, che provvede in camera di consiglio in composizione monocratica. Tuttavia, qualora la domanda concerna anche altri profili del conflitto familiare, tra cui l’affidamento e il mantenimento del figlio minorenne, la competenza è attribuita al Tribunale in composizione collegiale stante il principio ex art. 363 c.p.c. A seguito dell’istanza, si verifica la designazione – da parte del Presidente del Tribunale – del giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso, il quale, sente le parti, procede ad istruire la causa nel modo che ritiene più opportuno, disponendo anche eventuali indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio delle parti a mezzo della polizia tributaria. Il giudice provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo. In caso di urgenza, l’ordine di protezione può essere assunto dopo sommarie informazioni, con successiva udienza di comparizione delle parti entro un termine non superiore a quindici giorni, in occasione della quale vi è la conferma, la modifica o la revoca dell’ordine di protezione. Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine di protezione o rigetta il ricorso, o conferma, modifica o revoca l’ordine precedentemente adottato, è ammesso reclamo al tribunale entro dieci giorni dalla comunicazione o della notifica del decreto, ai sensi dell’art. 739, comma II, c.p.c.. II reclamo introduce un giudizio avente natura di revisio prìorìs instantiæ, con la conseguenza che è inammissibile la produzione di documenti nuovi e la richiesta di assunzione di prove costituende. Del pari inammissibile in sede di reclamo è l’istanza con cui la parte reclamata chiede l’applicazione delle misure previste dall’art. 709 ter, c.p.c. lamentando il mancato pagamento dell’assegno periodico disposto con l’ordine di protezione: in forza dell’art. 669-duodecies c.p.c., l’attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro – e tale è da considerarsi l’ordine di pagamento del contributo al mantenimento stabilito dal provvedimento di cui all’art. 342 ter, comma II, c.c. – avviene nelle forme degli artt. 491 e ss., c.p.c., ossia mediante l’espropriazione forzata. Il reclamo non sospende l’esecutività dell’ordine di protezione: il tribunale provvede in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con decreto motivato non impugnabile, nemmeno per cassazione (né con ricorso ordinario, né con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111, Cost.), giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività. Per quanto non previsto dall’art. 736 bis, c.p.c., si applicano al procedimento le norme comuni ai procedimenti in camera di consiglio (ove compatibili), ex artt. 737 e ss., c.p.c.

6. Il contenuto del provvedimento del giudice. Con il decreto di cui all’articolo 342 bis, c.c., il giudice ordina al convivente reo della condotta pregiudizievole, la cessazione della condotta e ne dispone l’allontanamento dalla casa familiare. Quali provvedimenti accessori, il Giudice, ove occorra, può:

  • prescrivere all’autore della condotta di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima;
  • chiedere l’intervento dei servizi sociali, di un centro di mediazione familiare o di associazioni per il sostegno e l’accoglienza di donne, minori o di vittime di abusi e maltrattamenti;
  • disporre il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dell’allontanamento dalla casa familiare del reo, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e stabilendo, se necessario, il versamento della somma all’avente diritto da parte del datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.

Dalla natura accessoria delle misure di protezione di ordine economico discende che, in assenza d’emissione della misura di protezione “non patrimoniale”, il giudice non può – pur rilevando l’inadempimento di uno dei coniugi all’obbligo di mantenimento ex artt. 143-147, c.c. – riconoscere il diritto alla percezione dell’assegno periodico. La provvisorietà dell’assegno periodico previsto – la cui funzione ed efficacia è limitata alla durata dell’ordine di protezione o, comunque, al periodo di tempo anteriore all’eventuale provvedimento successivo emesso dal giudice competente, volto a garantire il diritto al mantenimento di soggetti bisognosi – si evince dal tenore testuale del codice.

Nel caso di condotte pregiudizievole compiute dai figli verso i genitori, ove il soggetto allontanato non abbia una propria autonomia economica, il giudice deve contestualmente disporre a carico dei genitori l’obbligo di pagamento di un assegno periodico ai sensi degli art. 148 e 342 ter, comma II, c.c.. L’eventuale obbligo di versamento dell’assegno previsto dal decreto, in ogni caso destinato a cessare al termine della durata del decreto può essere sostituito dall’eventuale adozione – prima della scadenza del termine di efficacia del decreto – di un diverso provvedimento del giudice competente in materia di affidamento e di mantenimento. Con riferimento all’intervento dei servizi sociali anche in assenza di figli minori, il Giudice può sollecitarlo allo scopo ad esempio di sostenere il coniuge vittima della condotta pregiudizievole e, se possibile, di ricomporre il nucleo familiare, dando assistenza psicologica a ciascun componente della famiglia coinvolta nella vicenda

7. Durata ed attuazione dell’ordine di protezione. Il decreto stabilisce anche la durata dell’ordine di protezione, che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso, e che non può essere superiore a un anno e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario. La mancata indicazione del termine di durata deve intendersi come implicita previsione del massimo stabilito dall’art. 342-ter c.c.. Sempre lo stesso decreto contiene le modalità di attuazione: se sorgono difficoltà o contestazioni in merito, è lo stesso giudice ad emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario. Con riferimento alla natura del provvedimento, si ritiene che l’ordine di cessazione della condotta e di allontanamento del coniuge violento dalla casa familiare, anche se talora accompagnato da misure a contenuto economico, non è riconducibile né ai provvedimenti cautelari atipici, né a quelli temporanei e urgenti emessi dal presidente del tribunale ex art. 708, c.p.c.. Dall’esistenza del rimedio previsto con il ricorso ex art. 342 bis, c.c. consegue che il ricorso ex art. 700, c.p.c., proposto dopo il deposito del ricorso per separazione giudiziale ma prima della udienza presidenziale, volto ad ottenere un ordine di protezione familiare, deve essere dichiarato inammissibile.

44 note                  www.altalex.com/documents/news/2012/11/21/ordini-di-protezione-contro-gli-abusi-familiari

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ADDEBITO

L’addebito della separazione

La separazione giudiziale può essere chiesta a causa dell’intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio che la convivenza potrebbe arrecare all’educazione dei figli, a prescindere dal fatto che tali situazioni siano provocate da uno dei coniugi con dolo o colpa. Peraltro, il giudizio sulla condotta dei coniugi non è del tutto irrilevante, in quanto rileva ai fini della dichiarazione di addebito: l’art. 151, comma 2, c.c. dispone, infatti che «il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio». La dichiarazione di addebito, pertanto, è l’accertamento giudiziale che la separazione è imputabile a uno o a entrambi i coniugi (art. 548, comma 2, c.c.) per la violazione (dolosa o colposa) dei doveri inerenti al matrimonio, purché si tratti di una violazione che, per la sua gravità, abbia contributo a determinare la situazione di intollerabilità o il grave pregiudizio per la prole.

(Cesare Massimo Bianca).

            Addebito: presupposti. L’addebito può essere attribuito soltanto in caso di inosservanza dolosa o colposa dei doveri matrimoniali. Deve, pertanto, trattarsi di inosservanza intenzionale o dovuta a negligenza del coniuge il quale non abbia osservato l’impegno diligente normalmente richiesto all’interno della coppia. Poiché occorre un comportamento cosciente e volontario contrario ai doveri nascenti dal matrimonio, deve escludersi l’addebitabilità della separazione in caso di condotta contrastante, in astratto, con i doveri nascenti dal matrimonio originata da una malattia di origine nervosa (Cass. 23-4-1983, n. 2806).

            La pronuncia di addebito presuppone una valutazione discrezionale del giudice in ordine alla violazione dei doveri matrimoniali da parte di uno o di entrambi i coniugi. Questa valutazione, secondo la tesi preferibile, prescinde dalla considerazione delle vecchie ipotesi tassative di colpa, poiché coinvolge il comportamento complessivo dei coniugi nello svolgimento del rapporto coniugale (Cass. 30-5-1989).

            Pertanto, ai fini dell’addebitabilità della separazione, l’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve essere svolta sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, consentendo solo tale comparazione di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano riservato, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale (Cass. 14-11-2001, n. 14162).

            Qualora entrambi i coniugi abbiano tenuto un comportamento contrario ai doveri del matrimonio, ai fini della dichiarazione di addebito della separazione occorre procedere a una valutazione comparativa dei rispettivi comportamenti, al fine di accertare la misura in cui ciascuno dei coniugi ha contribuito a rendere intollerabile la convivenza.

            Ad es., se l’adulterio da parte della moglie ha fatto seguito a una serie di comportamenti del marito gravemente lesivi della dignità morale di quest’ultima, la separazione potrà essere addebitata al marito, ritenendosi il comportamento della moglie una conseguenza di quella del coniuge (Trib. Napoli 26-2-1996, in Gius, 1996, 1279).

L’obbligo della valutazione comparativa del comportamento dei coniugi consente di stabilire se la condotta dell’uno possa trovare giustificazione o meno nel comportamento dell’altro.

Violazioni particolarmente gravi. Tuttavia, se i fatti accertati a carico di un coniuge costituiscono violazione di norme di condotta imperative ed inderogabili — traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge, ed oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner — essi sono insuscettibili di essere giustificati come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento, la quale non può costituire un mezzo per escludere l’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere (Cass. 14-4-2011, n. 8548)

In caso di addebito della separazione a entrambi i coniugi il giudice non può valutare chi dei due è più in colpa dell’altro, poiché anche il coniuge meno colpevole è coniuge «addebitato» e, come tale, non ha diritto al mantenimento.

Violazioni reciproche. Poiché l’art. 156, comma 1, c.c., nel subordinare il diritto di un coniuge all’assegno di mantenimento a carico dell’altro (purché al primo non sia stata addebitata la separazione) non consente, in caso di addebitabilità della separazione a entrambi i coniugi, di effettuare una graduazione fra le diverse responsabilità, è illegittimo il provvedimento del giudice che riconosca l’assegno di mantenimento al coniuge al quale sia stata addebitata la separazione, in presenza della addebitabilità della separazione anche all’altro coniuge, fondando tale riconoscimento sulla minore rilevanza causale del comportamento del beneficiario rispetto a quello dell’obbligato nella causazione dell’intollerabilità della convivenza.

            La violazione dei doveri nascenti dal matrimonio può essere considerata ininfluente ai fini dell’addebitabilità della separazione soltanto in caso di accertamento, da parte del giudice, del carattere meramente formale della convivenza. A tal fine, è irrilevante l’eventuale tolleranza di un coniuge rispetto alla violazione di tali doveri da parte dell’altro, vertendosi in materia in cui diritti e doveri sono indisponibili (Cass. 27-6-1997, n. 5762).

Violazione dei doveri e intollerabilità della convivenza. La pronuncia di addebito richiede, oltre all’accertamento della contrarietà del comportamento ai doveri che derivano dal matrimonio, che il comportamento contrario ai doveri coniugali abbia causato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.

            Ad es., dovrà escludersi che la separazione sia addebitabile al coniuge che è venuto meno ai doveri derivanti dal matrimonio qualora tali comportamenti siano la conseguenza e non la causa dell’intollerabilità (Cass. 29-10-2002, n. 15223). La pronuncia di addebito non può pertanto fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi, essendo necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale, ovvero se essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza (Cass. 19-3-2009, n. 6697).

            Pertanto, in caso di mancato raggiungimento della prova che il comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato causa del fallimento della convivenza, deve essere pronunciata la separazione senza addebito (Cass. 28-9-2001, n. 12130).

Allontanamento dalla residenza familiare per giusta causa. Così, l’allontanamento dalla residenza familiare, attuato unilateralmente dal coniuge, cioè senza il consenso dell’altro coniuge, non costituisce violazione di un obbligo matrimoniale e non è causa di addebitamento della separazione se risulta legittimato da una «giusta causa», vale a dire dalla presenza di situazioni di fatto di per sé incompatibili con la protrazione di quella convivenza, ossia tali da non rendere esigibile la pretesa di coabitare.

            Ad esempio, costituiscono «giusta causa» di allontanamento della moglie i frequenti litigi domestici con la suocera convivente e il conseguente progressivo deterioramento dei rapporti tra i coniugi (Cass. 24-2-2011, n. 4540).

            Come già evidenziato, il fondamento della separazione personale è costituito dall’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (art. 151, comma 1, c.c.) e non dall’irreversibile crisi della comunione spirituale e materiale dei coniugi (presupposto, invece, della pronuncia di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio: art. 1, L. 898/1970).

L’art. 151 cpv. c.c. stabilisce che il giudice, pronunciando sulla separazione, dichiara, ove ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza o il grave pregiudizio che questa comporta all’educazione della prole, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri del matrimonio.

            La Cassazione ha ripetutamente affermato che in tema di separazione, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave che, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile (Cass. 14-2-2012, n. 2059; Cass. 14-10-2010, n. 21245).

Onere della prova. Da queste premesse deriva che, se in generale sulla parte che richiede l’addebito della separazione grava l’onere di provare la contrarietà del comportamento dell’altro coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio e l’efficacia causale di questi comportamenti nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (Cass. 27-6-2006, n. 14840; Cass. 11-6-2005, n. 12383), laddove la ragione dell’addebito sia costituita dall’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale questo comportamento, se provato, fa presumere che abbia reso la convivenza intollerabile; sicché, da un lato, la parte che lo allega assolve interamente l’onere della prova per la parte su di lei incombente e, dall’altro, la sentenza che su tale premessa fonda la pronuncia di addebito è sufficientemente motivata.

La revoca dell’assegnazione della casa familiare costituisce un elemento valutabile ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio, in quanto incide negativamente (e, normalmente, in modo, rilevante) sulla situazione economica della parte che debba ottenere in locazione un altro immobile per far fronte alle proprie necessità abitative, e ne può quindi derivare un peggioramento della situazione economica dell’ex coniuge tale da renderla insufficiente ai fini della conservazione di un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio (Cass. 12-3-2012, n. 3922; Cass. 30-3-2005, n. 6712).

Presunzione di tradimento anteriore alla separazione. La separazione può essere addebitata a uno dei coniugi sulla base dell’accertata esistenza di una sua relazione extraconiugale, potendosi presumere la sussistenza di tale relazione già in epoca anteriore alla proposizione del ricorso per separazione e all’abbandono del tetto coniugale, in considerazione del suo carattere manifesto e incontestato alla data del giudizio e in mancanza di circostanze certe di segno contrario (Cass. 9-1-2009, n. 283).

            Pertanto, l’infedeltà può essere causa (anche esclusiva) dell’addebito della separazione solo quando risulti accertato che a essa sia riconducibile la crisi dell’unione, mentre il comportamento infedele successivo al verificarsi di una situazione di intollerabilità della convivenza non è, di per sé, rilevante e non può giustificare una pronuncia di addebito (Cass. 19-9-2006, n. 20256; Cass. 12-4-2006, n. 8512).

            Va poi aggiunto che il comportamento tenuto dal coniuge successivamente al venir meno della convivenza, ma in tempi immediatamente prossimi a detta cessazione, è privo di efficacia autonoma nel determinare l’intollerabilità della convivenza stessa, anche se può rilevare ai fini della dichiarazione di addebito della separazione allorché costituisca una conferma del passato e concorra ad illuminare sulla condotta pregressa (Cass. 2-9-2005, n. 17710).

            Ai fini dell’addebito rileva anche l’infedeltà «apparente»: «il comportamento del coniuge che sia idoneo ad evidenziare anche agli occhi dei terzi la sua infedeltà costituisce di per sé, a prescindere dall’effettiva ricorrenza dell’adulterio, causa di menomazione della dignità dell’altro coniuge e, quindi, violazione dei doveri derivanti dal matrimonio» (Cass. 3-1-1991, n. 26).

            Pertanto, la relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti un’offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge (Cass. 12-12-2008, n. 29249, Cass. 11-6-2008, n. 5557).

Non occorre, quindi, l’effettività dell’adulterio ai fini dell’addebitabilità, ma è sufficiente un fondato sospetto di tradimento. Del resto, la nozione di fedeltà coniugale va avvicinata a quella di lealtà, la quale impone di sacrificare gli interessi e le scelte individuali di ciascun coniuge che si rivelino in conflitto con gli impegni e le prospettive della vita comune. In questo quadro la fedeltà affettiva diventa componente di una fedeltà più ampia che si traduce nella capacità di sacrificare le proprie scelte personali a quelle imposte dal legame di coppia e dal sodalizio che su di esso si fonda.

            Ha tuttavia avvertito la giurisprudenza che il giudice non può fondare la pronuncia di addebito sulla mera inosservanza dei doveri di cui all’art. 143 c.c., dovendo, per converso, verificare l’effettiva incidenza delle relative violazioni nel determinarsi della situazione di intollerabilità della convivenza (Cass. 22-5-2009, n. 11922). A tale regola non si sottrae l’infedeltà di un coniuge, la quale, pur rappresentando una violazione particolarmente grave, specie se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, può essere rilevante al fine dell’addebitabilità della separazione soltanto quando sia stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale.

Infedeltà indotta. Pertanto l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà non legittima automaticamente la pronuncia di addebito a carico del coniuge adultero, dovendo, invece, il giudice valutare globalmente e comparativamente i comportamenti di entrambi i coniugi, al fine di verificare la sussistenza di un nesso causale tra l’infedeltà e la crisi coniugale. Ad esempio, non può pronunciarsi l’addebito a carico del marito adultero se la frattura del rapporto coniugale è stata determinata dal comportamento della moglie che abusa di sostanze alcoliche e non dall’infedeltà del marito, avvenuta quando la crisi coniugale era già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale (Corte App. Trento 29-3-2007, in Guida al dir., Fam. e minori, 6/2007, 76).

Infedeltà reciproca e reiterata. Anche la reciproca e reiterata inosservanza, da parte di entrambi i coniugi, dell’obbligo di fedeltà non giustifica l’addebito della separazione in capo all’uno o all’altro o a entrambi, quando sia sopravvenuta in un contesto di disgregazione della comunione spirituale e materiale quale rispondente al dettato normativo e al comune sentire, in una situazione stabilizzata di reciproca sostanziale autonomia di vita, non caratterizzata da affectio coniugalis (Cass. 20-4-2011, n. 9074).

Impotenza taciuta dal marito e infedeltà della moglie. In precedenza abbiamo evidenziato che il giudice non può fondare la pronuncia di addebito sulla mera inosservanza dei doveri di cui all’art. 143 c.c., dovendo piuttosto verificare l’effettiva incidenza delle relative violazioni nel determinarsi della situazione di intollerabilità della convivenza. A tale regola non si sottrae l’infedeltà di un coniuge, la quale può essere rilevante al fine dell’addebitabilità della separazione soltanto quando, come specificato nel paragrafo precedente, sia stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale; invece, l’infedeltà è irrilevante, ai fini dell’addebito, se non ha avuto alcuna incidenza negativa sull’unità familiare e sulla prosecuzione della convivenza medesima, come avviene, ad esempio, quando il giudice accerti la preesistenza di una rottura già irrimediabilmente in atto, dovuta al comportamento dell’altro coniuge o ad altre ragioni. Da qui il potere-dovere del giudice di procedere a un accertamento rigoroso e a una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, per stabilire se l’infedeltà di un coniuge (come in genere ogni altro comportamento contrario ai doveri del matrimonio) possa essere rilevante al fine dell’addebitabilità della separazione, essendo stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale ovvero se non risulti aver spiegato concreta incidenza negativa sull’unità familiare e sulla prosecuzione della convivenza.

In applicazione di questi principi, la Cassazione (Cass. 19-3-2009, n. 6697) ha affermato che l’omessa informazione, da parte del marito, prima delle nozze, della propria incapacità generandi, in violazione dell’obbligo di lealtà, è lesiva della libertà matrimoniale della moglie e delle sue aspettative di un’armonica vita sessuale, anche nella sua proiezione verso la procreazione.

            Pertanto, nel valutare l’addebitabilità della separazione alla moglie infedele, il giudice deve procedere secondo le seguenti tappe:

  • Accertare se è stato leso il diritto fondamentale della donna di realizzarsi pienamente nella famiglia e nella società come donna, come moglie ed eventualmente come madre;
  • Procedere a un accertamento rigoroso e a una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, poiché solo tale comparazione consente di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano rivestito, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale;
  • Stabilire se l’infedeltà di un coniuge (come, in genere, ogni altro comportamento contrario ai doveri del matrimonio) possa essere stata rilevante al fine dell’addebitabilità della separazione, essendo stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale, ovvero se sia intervenuta solo quando la frattura del matrimonio era già divenuta irreversibile per le trasgressioni dei doveri matrimoniali in cui era incorso l’altro coniuge.

Facendo applicazione di questi principi, non potrebbe addebitarsi la separazione alla moglie infedele qualora il marito l’abbia informata della propria impotentia generandi molto tempo dopo la celebrazione del matrimonio con conseguente lesione del diritto fondamentale della moglie di realizzarsi nella famiglia e nella società come donna, come moglie e come madre.

Interruzione dello stato di gravidanza decisa dalla moglie. Non può pronunciarsi l’addebito della separazione neanche a carico della moglie che abbia deciso di interrompere il proprio stato di gravidanza senza avere preventivamente aver reso partecipe il marito della propria decisione. La L. 194/1978, ha inteso esplicitamente disciplinare le ipotesi di interruzione della gravidanza, senza alcuna distinzione correlata alla condizione personale della donna, volendo tutelare la «donna» in quanto tale, in modo cioè indipendente dalla natura e dalle condizioni giuridiche del rapporto con il padre del concepito. Tra l’altro, l’art. 5, L. 194/1978 stabilisce che è una facoltà della donna rendere partecipe il padre del concepito della decisione abortiva, ma attribuisce in via esclusiva alla donna, una volta maturato l’eventuale periodo di ripensamento di sette giorni richiesto con invito ad hoc dal medico interpellato, la facoltà di decidere l’interruzione della gravidanza. Pertanto, sarebbe incongruo stabilire che la donna, quando abbia assunto anche la condizione di moglie, debba essere sanzionata (con l’addebito della separazione e con le rilevanti conseguenze giuridiche a tale pronunzia direttamente riconducibili) a causa dell’esercizio di un diritto riconosciuto dalla legge (Trib. Monza 26-1-2006, n. 388).

Il mobbing familiare. Ai fini dell’addebitabilità della separazione rilevano anche i comportamenti dispotici e prepotenti di un coniuge nei confronti dell’altro o verso i figli.

Ad esempio, costituisce motivo di addebito la condotta del marito che, nell’arco di una lunga convivenza matrimoniale, sottoponga la moglie a umiliazioni quotidiane, rivolgendosi alla stessa, in presenza di terzi, in modo irriguardoso, oppure non assistendola quando ha problemi di salute o imponendole pratiche sessuali violente ed estreme (l’amore di gruppo, lo scambio di coppia e altre perversioni sessuali), poiché tali condotte violano non solo i doveri nascenti dal matrimonio, ma anche le comuni regole di rispetto dell’altrui persona (Trib. Prato 2-12-2008).

Inoltre, una sentenza di merito ha addebitato la separazione richiamando espressamente la nozione di mobbing, individuato nel comportamento vessatorio del marito nei confronti della moglie, che le aveva reso la convivenza intollerabile: «I comportamenti [del marito] erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: … additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa …[Il] marito curò sempre e solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere e con comportamenti ingiuriosi, protrattisi e pubblicamente esternati per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la [moglie] nell’autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita.

            [Rifiutava] ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, [con] insistenti pressioni — fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing — con cui [il marito] invitava reiteratamente la moglie ad andarsene … [Tali] comportamenti sono «violatori del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art. 3 Cost. che trova, nell’art. 29 Cost. la sua conferma e specificazione. … [Pertanto, al marito] deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e di fedeltà» (Corte App. Torino 21-2-2000).

Edizioni Simone         La legge per tutti       24 Aprile 2019

www.laleggepertutti.it/282259_laddebito-della-separazione

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ADOZIONE

Riconosciuta l’adozione “piena” di minore pronunciata all’estero anche se l’adottante è single

            Una cittadina italiana, non coniugata, ha chiesto al Tribunale per i minorenni di Venezia di riconoscere l’efficacia in Italia della sentenza straniera che, seguendo la legge del Kenya, aveva disposto l’adozione di una minore nei suoi confronti, attribuendo alla bambina uno status di figlio equiparato a quello di figlio nato da matrimonio.

Il minore adottato deve avere lo stesso status in ogni ordinamento. Secondo il Tribunale va condiviso l’orientamento di merito più recente (Trib. min. Firenze 7 marzo 2017; App. Genova 26 luglio 2017) che sostiene la possibilità, nei casi di riconoscimento di sentenza straniera di adozione disciplinati dall’art. 36, comma 4, L. n. 184/1983, di derogare al principio del diritto di famiglia italiano in base al quale solo le persone coniugate possono adottare, «laddove ciò comporti il sacrificio di diritti o interessi tutelati dal diritto internazionale quali quello dell’interesse del minore o della cd. continuità transazionale degli effetti degli status familiari».

            L’unica soluzione che permette di dare effettività al principio che impone che il figlio adottivo abbia il medesimo status in tutti gli ordinamenti che hanno riconosciuto la sua adozione, è quella di prevedere la possibilità per il Tribunale per i minorenni di negare il riconoscimento della sentenza straniera soltanto nel caso in cui la normativa estera applicata non abbia rispettato i principi della Convenzione dell’Aja 29 maggio 1993.

            Riconoscendo in Italia l’adozione “piena” straniera solo come adozione ex art. 44, L. n. 184/1983, infatti, si verrebbe a determinare un’incertezza giuridica sullo status dell’adottato il quale all’estero sarebbe equiparato al figlio nato nel matrimonio (o da madre biologica) con la conseguente interruzione di rapporti giuridici di parentela con la famiglia di origine che, invece, conserverebbe in Italia.

L’adozione ex art. 44 non limita gli effetti dell’adozione “piena” straniera. Deve comunque ritenersi, precisa il Tribunale, che il riconoscimento di sentenza straniera di adozione “piena” ai sensi dell’art. 44 l. n. 184/1983 non possa limitare gli effetti di tale adozione per quanto riguarda il legame di filiazione con l’adottante, i legami di parentela con la famiglia dell’adottante e i conseguenti diritti ereditari del minore adottato.

            Poiché, infatti, il figlio adottato con adozione cd. legittimante (nazionale o internazionale) da persone coniugate ha lo status di figlio nato nel matrimonio, il richiamo al figlio adottivo contenuto nell’art. 74 c.c. ha senso solo se riferito al figlio adottato fuori dal matrimonio, ad esempio nei casi ex art. 44 l. n. 184/1983. Anche in quest’ultima ipotesi, quindi, sorgono gli stessi vincoli di parentela con i familiari dell’adottante, caratterizzanti ogni tipo di filiazione (ad eccezione della sola adozione di maggiorenne).

            Di conseguenza, accertata nel caso di specie la sussistenza dei requisiti ex art. 36, comma 4, L. n. 184/1983 e la conformità della sentenza straniera ai principi della Convenzione Aja 29 maggio 1993, il Tribunale per i minorenni di Venezia, riconosce l’adozione “piena” della minore disposta con sentenza straniera. 

Redazione Scientifica il familiarista  24 aprile 2019

http://ilfamiliarista.it/articoli/news/riconosciuta-l-adozione-piena-di-minore-pronunciata-all-estero-anche-se-l-adottante

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AFFIDO

Rapporti tra ordinamenti. La Corte di Cassazione sulla sottrazione internazionale del minore

Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 9767, 8 aprile 2019

https://sentenze.laleggepertutti.it/sentenza/cassazione-civile-n-9767-del-08-04-2019

Se c’è il rischio fondato di pericoli fisici o psichici per il minore e se quest’ultimo ha anche espresso una volontà contraria al rientro i giudici nazionali non sono tenuti a disporre il rimpatrio del minore ritenuto sottratto.

Per la Corte di Cassazione va così respinto il ricorso di una madre che chiedeva il rientro in Germania della propria figlia. Questi i fatti. Il Tribunale di Palermo, decisa la separazione giudiziale di una coppia, aveva anche stabilito, per i due figli, che il minore sarebbe andato a vivere con il padre in Italia e la figlia con la madre in Germania. In occasione delle feste natalizie, il padre non aveva ricondotto la minore in Germania. Il tribunale di Palermo non aveva disposto l’ordine di rientro in Germania, anche tenendo conto dei legami familiari della minorenne con i nonni, del fatto che la bambina non conosceva il tedesco e che avrebbe potuto vivere con il fratello. Di qui il ricorso in Cassazione della madre.

Per la Suprema Corte, che ha ritenuto infondato il ricorso, non si è verificata alcuna violazione della Convenzione dell’Aja sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori del 25 ottobre 1980, ratificata dall’Italia con legge n. 64/1994. Tale atto richiede una verifica concreta circa l’esercizio della responsabilità genitoriale e dell’esistenza della residenza abituale che corrisponde “al luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali”, che spetta al giudice di merito accertare. Lo stesso tribunale, inoltre, ha accertato la mancanza della condizione oggettiva prevista dalla Convenzione dell’Aja “dell’allontanamento della minore, invocato dalla madre quale legittimante la sua richiesta di rimpatrio”. In primo piano anche la volontà del minore in tutti i casi in cui abbia raggiunto un’età e un grado di maturità da giustificare il rispetto della sua opinione. Per la Cassazione, nella situazione in esame, erano presenti talune condizioni ostative al rimpatrio e, quindi, il ricorso è stato respinto.

Marina Castellaneta. 26 aprile 2019

www.marinacastellaneta.it/blog/la-corte-di-cassazione-sulla-sottrazione-internazionale-del-minore-italian-court-of-cassation-on-international-children-abduction.html

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AFFIDO CONDIVISO

Affido condiviso, portata, fattori di confondimento e obblighi di motivazione

L’affido condiviso è un principio di generale applicazione e l’attuazione, salva la dimostrazione della specifica dimostrazione delle condizioni per l’affido per ciascuno dei genitori, può subire delle semplici modulazioni. Nessuna rilevanza hanno fattori quali la conflittualità intergenitoriale, la distanza tra le abitazioni o l’età per escludere il diritto dei minori alla bigenitorialità.

Il principio di bigenitorialità non solo resiste facilmente a talune intemperie interpretative, ma la Suprema Corte ne dà una lettura che sembra andare incontro ad alcune delle più rilevanti novità della riforma dell’istituto dell’affido condiviso in discussione in Parlamento e contenute nel disegno di legge 1 agosto 2018 n. 735.

  • La vicenda processuale. La vicenda processuale è comune a molte altre: dopo la separazione, il genitore cui era stato negato l’affido condiviso della figlia minore chiedeva che venissero adottati i più opportuni provvedimenti al fine di consentire il regolare esercizio della potestà genitoriale verso la figlia ormai adolescente e con cui i rapporti si erano ormai rarefatti, tra le altre cose, a causa della conflittualità intergenitoriale e della notevole distanza frapposta dal trasferimento dalla Sicilia a Milano del genitore affidatario.

La Corte territoriale, sulla scorta delle risultanze della relazione dei servizi sociali da cui emergeva sia la persistente incapacità dei genitori ad avere rapporti collaborativi nell’interesse della figlia sia delle parole di quest’ultima che riferiva del disinteresse che l’appellante avrebbe manifestato nel corso degli anni nei suoi confronti, confermava sul punto le precedenti decisioni del tribunale.

            Da qua il ricorso per cassazione per un duplice motivo: violazione del diritto della minore a godere di un rapporto “stabile e continuativo” con entrambi i genitori ex articolo 337 ter Codice civile e violazione dell’articolo 709 ter Codice civile per non aver adottato la corte territoriale, sulla scorta di una motivazione ritenuta insufficiente, gli opportuni provvedimenti di coercizione indiretta volti ad interrompere comportamenti ostruzionistici così da favorire il recupero del rapporto tra il genitore non affidatario e la minore.

2. La decisione. Risolte alcune questioni di carattere procedurale in ordine all’inammissibilità di documentazione non prodotta nei precedenti gradi di giudizio che non attengano all’ammissibilità del ricorso (o del controricorso) stesso, ed alla ricorribilità per cassazione del decreto della corte d’appello contenente provvedimenti relativi all’affido di figli minori senza distinzione tra figli nati da genitori uniti in matrimonio e non sulla base del proprio consolidato orientamento [Corte di Cassazione, Sezione I, n. 6132, 26 marzo 2015.], i giudici di legittimità hanno confermato il provvedimento della corte di merito che invece aveva dato torto al genitore ricorrente.

            La conferma della soluzione adottata dalla corte d’appello meneghina, è stata letta da molti commentatori come un’esplicita presa di posizione della Suprema Corte contro la previsione dei cosiddetti “tempi paritari” prevista dalla riforma.

            L’entusiasmo con cui è stata accolta la decisione è in realtà eccessivo se non del tutto mal riposto.

3. Il principio di diritto. Vale infatti la pena di ricordare che, trattandosi di pronunce di una corte di legittimità, il vero aspetto a cui occorre guardare non è la soluzione pratica adottata nella singola fattispecie quanto il principio giuridico affermato.

            La Suprema Corte non ha avuto dubbi nel ribadire “alla regola dell’affidamento condiviso può derogarsi soltanto se la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore, precisando che ai fini dell’affidamento esclusivo non è sufficiente la mera considerazione della distanza oggettiva esistente tra i luoghi di residenza dei genitori, la quale può incidere esclusivamente sulla disciplina dei tempi e delle modalità della presenza del minore presso ciascuno di essi, o della conflittualità che caratterizza i rapporti tra gli stessi, ma occorre una specifica motivazione che tenga conto in positivo della capacità educativa del genitore affidatario ed in negativo dell’inidoneità o delle manifeste carenze dell’altro genitore”.

            La sentenza merita di essere segnalata non solo per l’avere la Suprema Corte ribadito il proprio precedente orientamento in tema di limiti all’applicazione del principio o per il doppio profilo motivazionale su cui dovranno fondarsi eventuali deroghe applicative, ma per la portata generale che viene riconosciuto all’applicazione dell’istituto dell’affido condiviso e del principio di bigenitorialità derogabile “soltanto” nel caso in cui vi sia la prova di eventuali pregiudizi per il minore.

            I giudici di piazza Cavour hanno innanzitutto ribadito, sulla scorta di un’ormai risalente affermazione, che la conflittualità intergenitoriale – al pari della distanza e di altri fattori (età, sesso, relazione genitore-figlio, reddito) che la letteratura scientifica definisce come “fattori di confondimento” – sono irrilevanti al fine di negare al minore il diritto alla stabilità ed all’integrità delle relazioni con entrambi i genitori come previsto da una lunga serie di norme costituzionali o di convenzioni internazionali.

Richiamando la propria precedente giurisprudenza, la Corte di legittimità ribadisce come “Alla regola dell’affidamento condiviso può infatti derogarsi solo ove la sua applicazione risulti «pregiudizievole per l’interesse del minore».

            Non avendo, per altro, il legislatore ritenuto di tipizzare le circostanze ostative all’affidamento condiviso, la loro individuazione resta rimessa alla decisione del Giudice nel caso concreto da adottarsi con «provvedimento motivato», con riferimento alla peculiarità della fattispecie che giustifichi, in via di eccezione, l’affidamento esclusivo. L’affidamento condiviso non può ragionevolmente ritenersi comunque precluso, di per sé, dalla mera conflittualità esistente fra i coniugi, poiché avrebbe altrimenti una applicazione, evidentemente, solo residuale, finendo di fatto con il coincidere con il vecchio affidamento congiunto. Occorre viceversa, perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale appunto da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore (come nel caso, ad esempio, di una sua anomala condizione di vita, di insanabile contrasto con il figlio, di obiettiva lontananza). Per cui l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza quindi, all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento” [Cassazione Civile Sezione I, 18 giugno 2008 n. 16593].

L’affermazione secondo cui “Il giudizio di separazione, nel quale vengono adottati provvedimenti che concernono il minore, non determina automaticamente – nel caso di rilevante conflittualità tra le parti in causa – una situazione di conflitto di interesse tra genitori e figli” [Cassazione Civile Sezione I, 24 maggio 2018, n.12957; idem ex multis Cassazione Civile Sezione I, 3 gennaio 2017, n.27] trova amplissimo consenso scientifico.

            Un recente consensus report di 110 tra ricercatori ed esperti a livello internazionale, ha infatti escluso qualunque interferenza tra il tenore dei rapporti tra i genitori ed i vantaggi che il minore riceve dall’integrità delle sue relazioni con gli stessi: “Più che amplificare gli effetti dannosi di conflitto genitoriale, la genitorialità condivisa può proteggere i bambini da alcune delle sue conseguenze negative.

            La possibilità di escludere automaticamente la custodia fisica congiunta quando una coppia è etichettata come «altamente conflittuale» comporta ulteriori inconvenienti oltre a negare ai bambini il beneficio protettivo di una relazione educativa. Si trasmette il messaggio che generare o sostenere il conflitto può essere una strategia efficace per eludere l’affidamento condiviso.

            Questo scoraggia la comunicazione civile e la cooperazione tra i genitori, e può ridurre il tempo dei bambini con il genitore meno arrabbiato, in particolare se l’altro genitore non riesce a riconoscere e sostenere il bisogno dei bambini per una relazione positiva con entrambi i genitori. La qualifica di «coppia ad alta conflittualità» implica che entrambi i genitori si impegnino attivamente in un conflitto. Anche se questo è vero in alcuni casi, in altri casi l’espressione è impropria perché un genitore può essere una vittima della rabbia vendicativa dell’altro genitore o di tentativi di emarginare il coinvolgimento del genitore nella crescita del bambino” [R. A. Warshak “Social Science and Parenting Plans for Young Children: A Consensus Report”, University of Texas Southwestern Medical Center 2014].

            Alle stesse conclusioni sono arrivati i medesimi ricercatori riguardo all’età: “Non c’è evidenza della necessità di ritardare l’introduzione di un frequente e regolare coinvolgimento (pernottamento incluso) di ambedue i genitori coi propri figli e in generale i risultati degli studi rivisitati in questo documento sono favorevoli ai piani genitoriali che meglio equilibrano il tempo dei bambini presso le due case”, e ad altri fattori quali il reddito dei genitori e la qualità della relazione genitore-figlio, ritenuti dalla letteratura scientifica del tutto irrilevanti rispetto ai benefici effetti per la salute ed il benessere psicofisico del minore derivanti dalla tutela dell’integrità della relazione genitoriale conseguente a forme di affido materialmente condiviso[L. Nielsen “Joint Versus Sole Physical Custody: Children’s Outcomes Independent of Parent–Child Relationships, Income, and Conflict in 60 Studies”, Journal of Divorce & Remarriage, 2018].

            È auspicabile dunque, che venga fatta in questo modo giustizia di tutta una serie di elementi spuri – tipicamente età, distanza, reddito – troppo spesso richiamati dai tribunali [Da ultimo, Tribunale Potenza – Sezione Civile 18 maggio 2018] e che fanno ricadere sul minore le scelte degli adulti.

Il secondo aspetto che appare meritevole di segnalazione riguarda il doppio accertamento che dovrà compiere il giudice di merito al fine di escludere l’applicazione del principio: occorrendo “una specifica motivazione che tenga conto in positivo della capacità educativa del genitore affidatario ed in negativo dell’inidoneità o delle manifeste carenze dell’altro genitore”.

            Al netto della poco condivisibile terminologia utilizzata – la valutazione che il giudice è chiamato a fare non riguarda un’indeterminata idea di “capacità educativa”, quanto la verifica delle migliori condizioni di distribuzione del tempo del minore tra i genitori separati al fine di tutelarne l’integrità delle relazioni con entrambi – quel che è particolarmente significativo è che non si tratta di accertare quale tra i due genitori sia il migliore ma di verificare, in caso di affido esclusivo,  l’assenza di fattori ostativi in capo all’uno e la presenza di una fattori favorevoli in capo all’altro.

4. Le novità della riforma. Ultimo importantissimo aspetto della sentenza in commento riguarda quello che appare essere lo snodo cruciale della riforma: la previsione di un meccanismo di generale applicazione del principio tale da renderlo sempre applicabile salvo che non si accerti la sussistenza di condizioni negative rappresentate da gravi inadempimenti degli obblighi di cura, educazione ed istruzione previsti dall’articolo 147 Codice civile, o di fatti di reato posti in essere in danno della persona del minore o in presenza di esso.

            Molti hanno obiettato che la previsione ex lege di soluzioni predeterminate contrasti con l’esigenza di una specifica valutazione nel singolo caso dell’interesse del minore. Al di là del fatto che ove mai un tale pericolo sussista seriamente bisognerebbe però prima spiegare perché ciò non sia vero anche rispetto alle norme attuali la cui applicazione è palesemente inficiata da stereotipi di genere, vale la pena evidenziare come la soluzione di riforma avanzata preveda una serie di ipotesi di esclusione dell’applicazione del principio di bigenitorialità tutte costruite attorno all’interesse del minore.

            La sentenza in commento, laddove ammette l’esclusione dell’istituto “soltanto se la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore” non fa altro che invece che anticipare – e condividere – il cambio di paradigma previsto dal disegno di legge: non più una del tutto teorica ricerca caso per caso dell’interesse del minore ma un’applicazione generalizzata di quella che s’è rivelata essere la migliore soluzione possibile per la tutela della salute ed il benessere psicofisico dei minori salvi i casi in cui ricorrano circostanze predefinite dal legislatore stesso che giustifichino soluzioni diverse.

            In conclusione, ben vengano regole chiare e predeterminate, costruite attorno all’interesse del minore a partire dalla tutela della sua salute ed integrità psicofisica individuati in modo scientifico e non su valutazioni di tipo vagamente emotivo.

News Filo diritto        22 Aprile 2019

www.filodiritto.com/affido-condiviso-portata-fattori-di-confondimento-e-obblighi-di-motivazione?utm_source=newsletter-apr&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter

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ANONIMATO

Per ogni Giorgio salvato, si calcola ci siano dieci neonati finiti in discarica.

“Gli abbandoni potrebbero moltiplicarsi se al diritto di parto in anonimato si dovesse contrapporre, in futuro, il diritto dei figli alla ricerca delle origini. Bisogna, invece, promuovere e informare sull’esistenza del parto in anonimato, rendere capillari le “Culle per la Vita” e portare avanti la proposta di legge sull’adozione del nascituro, come già avviene negli Stati Uniti“ – così Marco Griffini – presidente di Amici dei Bambini – intervistato da Elisabetta Rosaspina per il Corriere della Sera sulla triste vicenda del neonato abbandonato tra l’immondizia nei pressi del Cimitero di Rosolina, in provincia di Rovigo.

Leggi l’intervista del Corriere della Sera. In un cassonetto 30 minuti dopo la nascita «Così lo abbiamo salvato».

            Non era stato partorito da più di mezz’ora. Aveva ancora addosso il tepore della madre, ma era destinato a essere smaltito con i rifiuti di un cassonetto, accanto al cimitero di Rosolina, in provincia di Rovigo. Giorgio ha pianto, e questa è stata la sua salvezza. Una passante diretta al camposanto, ieri mattina poco prima delle dieci, si è affacciata al bidone da cui provenivano gli strilli, pensando forse a un gatto intrappolato. Ha visto invece un neonato nudo e sporco agitarsi in una sacca da tennis rossa. «Quando è arrivato in ospedale ad Adria, Giorgio era ancora ben idratato ha detto il direttore generale dell’Ulss 5, Antonio Compostella –, probabilmente aveva fatto anche una poppata prima di essere infilato nel cassonetto». Il primo e ultimo atto materno ricevuto dalla donna che lo ha messo al mondo. La prima madre adottiva, invece, è stata una decina di minuti più tardi l’infermiera dell’ambulanza del Suem n.8, Giorgia Cavallaro, che gli ha offerto anche un nome, almeno provvisorio: «L’ho preso in braccio, lui ha aperto gli occhi, mi ha guardato, gli ho fatto una carezza sul minuscolo viso, lui ha cercato subito con la bocca il mio dito. Aveva fame. E per tutto il viaggio ha succhiato il mio dito, mentre me lo tenevo stretto al petto». Non accadeva da 19 anni, un fatto del genere nella zona. L’ultimo caso che si ricordi è quello di una donna nigeriana, trovata in pieno travaglio dietro a un cassonetto da una pattuglia della polizia. In ospedale la puerpera aveva firmato la rinuncia al bimbo, lasciandolo in adozione.

Giorgio, come altri quattro o cinque neonati dall’inizio dell’anno in Italia, ha urlato e ce l’ha fatta, «le stime dicono che ogni anno ne vengono abbandonati e non ritrovati a centinaia» avverte Marco Griffini, presidente dell’Ai.Bi. Associazione Amici dei Bambini, organizzazione non governativa formata da famiglie adottive e affidatarie. A centinaia? «Non si può sapere il numero esatto, ma per uno salvato si calcola che ce ne siano quasi dieci che spariscono in discarica, chiusi dentro buste di plastica, senza che nessuno li veda o se ne accorga».

Era meno crudele l’Italia degli anni 50, che lasciava i figli indesiderati sui gradini di una chiesa?

«All’epoca non c’era la legge sul parto nell’anonimato rammenta Griffini -. Questo significa che oggi una madre può avere un bambino, con tutta l’assistenza sanitaria, e poi rinunciare a lui in ospedale. Almeno gli avrà dato la vita e suo figlio penserà a lei con riconoscenza. Chi lo butta in un cassonetto non conosce la legge, spesso si tratta di straniere. Oppure vuole eliminarlo. E i motivi possono essere tanti: è figlio di un incesto, di una violenza, di una relazione extraconiugale». Della madre di Giorgio ancora non si sa quasi nulla. La «carnagione caucasica», cioè bianca, del bimbo è la sola traccia, assieme alla placenta: «Sembra nato dopo una gravidanza giunta senza problemi alla 37esima settimana hanno valutato in pediatria -, a partorirlo dovrebbe essere stata una donna giovane e sana».

Per Griffini gli abbandoni, più o meno brutali, come questo, potrebbero moltiplicarsi se, al diritto di partorire anonimamente, si dovesse contrapporre in futuro il diritto dei figli di «nn» a conoscere le proprie origini. Le «culle per la vita», eredi della vecchia ruota degli esposti, funzionano a ritmo ridotto rispetto alle aspettative, sempre per scarsa informazione. L’Ai.Bi. caldeggia la proposta di legge sull’adozione del feto, in vigore negli Stati Uniti, che assegna nuovi genitori al nascituro prima che veda la luce: «In Italia ci sono 35 mila minori “fuori famiglia”, che vivono cioè in comunità educative da zero a 18 anni. Erano 15 mila vent’anni fa» segnala il presidente. Non è questo il destino di Giorgio. Fra pochi giorni o settimane avrà già una mamma felice in attesa, proprio di lui.

            La vicenda Ieri a Rosolina (Rovigo) una 70enne, nei pressi di un bidone dell’immondizia, poco fuori dal cimitero, ha trovato un neonato abbandonato e ha dato l’allarme. Era nudo, dentro una sacca da tennis in una zona ecologica. Il bimbo aveva la placenta attaccata ed è stato salvato dall’ipotermia. È stato chiamato Giorgio, in onore dell’infermiera che lo ha preso per prima.

            1% è la quota di bimbi adottati entro il primo anno d’età in Italia. Il 39% ha fra gli 1 e 4 anni. La percentuale maggiore è fra i 5 ei 9 anni (47%) 2,7 milioni Sono i bambini che nel mondo vivono in un istituto in attesa di essere adottati secondo i dati dell’International social) service

News Ai. Bi.    25 aprile 2019

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ASSEGNO DIVORZILE

Assegno di divorzio: diritto solo in 4 casi

La regola ha sempre le sue eccezioni. Ma quando le eccezioni si moltiplicano, la regola cessa di essere tale e diviene solo un insieme di ipotesi. Così è successo all’assegno di mantenimento dell’ex moglie: dopo che due recenti sentenze della Cassazione civile [Cass. prima Sezione, sent. n. 11538, 10 maggio 2017], e [Cass. Sezioni Unite, sent. n. 18287, 11 luglio 2018]) ne hanno stravolto i limiti, si può ormai parlare di un diritto non già generale, ma sussistente solo in specifici casi, al ricorrere di rigorose condizioni che vanno dimostrate in tribunale. Queste condizioni sono fissate non dalla legge ma dalla giurisprudenza. Ne abbiamo individuato quattro: quattro casi in cui la moglie ha ancora diritto all’assegno di divorzio. È necessario conoscerli bene, anche per evitare inutili conflitti matrimoniali che potrebbero non condurre da nessuna parte.

            Assegno di mantenimento e di divorzio: differenze. Il nostro discorso è limitato solo all’assegno di divorzio e non a quello di mantenimento. La differenza è sostanziale e la possiamo comprendere con questa semplice spiegazione:

  • l’assegno di mantenimento è quello che viene stabilito (di comune accordo o dal giudice) quando la coppia si separa. Esso ha lo scopo di garantire un cuscinetto al coniuge più “povero” che, dall’oggi al domani, si trova a doversela cavare da solo. In pratica chi, tra marito e moglie, ha il reddito maggiore deve versare all’altro un assegno mensile che gli consenta – per quanto possibile – di mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva quando ancora la coppia era unita. Questo significa sostanzialmente una divisione delle entrate in modo da livellare eventuali disuguaglianze economiche;
  • L’assegno di divorzio viene invece determinato (di comune accordo o dal giudice) con la sentenza di divorzio e, per forza di cose, si sostituisce all’assegno di mantenimento (che pertanto viene cancellato). Lo scopo di tale contributo – che dovrà durare molto più a lungo di quello di mantenimento – è di garantire al coniuge più povero un’autosufficienza economica, la possibilità cioè di mantenersi da solo, ma solo laddove non possa farlo da sé. In altri termini, se il coniuge più debole ha già uno stipendio che gli consente di badare a sé stesso non può rivendicare alcun contributo dall’ex. Se questo stipendio è invece insufficiente a mantenersi, andrà integrato con l’assegno divorzile. A maggior ragione per chi è disoccupato che avrà diritto al contributo di quanto necessario per sopravvivere (salvo alcuni “aggiustamenti” di cui a breve parleremo).

Da ciò si può comprendere che, almeno in teoria, l’assegno di divorzio dovrebbe essere più ridotto rispetto a quello di mantenimento.

Condizioni per ottenere l’assegno di divorzio. Se l’assegno di mantenimento scatta quasi in automatico, al solo sussistere di una differenza economica tra i due coniugi (potendosi semmai discutere dell’entità in presenza di un matrimonio durato poco tempo), l’assegno di divorzio non è così scontato. E ciò perché la condizione per ottenere l’assegno di divorzio è sostanzialmente una: bisogna meritarlo. La Cassazione ha voluto infatti evitare che gli alimenti divenissero una sorta di rendita vitalizia e parassitaria. Pertanto, laddove l’ex moglie possa ancora lavorare non può pretendere di “campare alle spalle del marito”. Se è disoccupata dovrà essere lei stessa a dimostrare al giudice che tale condizione non dipende da lei ma da ragioni esterne alla sua volontà, collegate cioè:

  • Alla sua età: dovrà cioè dimostrare di aver raggiunto quella soglia di età (dalla Cassazione fissata all’incirca con i 45-50 anni) oltre la quale è molto più difficile trovare un impiego;
  • Alla salute: dovrà cioè provare di avere una patologia che le impedisce di lavorare;
  • Alla formazione professionale acquisita negli anni;
  • Alla crisi del mercato occupazionale: dovrà dimostrare di aver cercato un’occupazione e di non aver trovato nulla; a tal fine non basta la prova dell’iscrizione alle liste di collocamento dei centri per l’impiego, ma anche l’invio di curriculum alle aziende, la partecipazione a bandi e concorsi, la richiesta di colloqui di lavoro, ecc. Insomma, la donna deve convincere il giudice di aver fatto di tutto per trovare un posto e non di esserci riuscita non per propria colpa. Se la donna non fornisce queste prove non potrà rivendicare alcun assegno di divorzio.

Oltre a queste situazioni, le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che l’assegno di divorzio deve servire anche a riconoscere il giusto merito di chi ha speso tutta la propria vita in favore della famiglia, rinunciando ad una propria carriera per il bene del coniuge e/o dei figli. Il richiamo alla casalinga è fin troppo scontato: a questa, che con il suo sacrificio ha permesso al marito di dedicarsi al lavoro ed aumentare la sua ricchezza, è sempre dovuto un mantenimento. Deve però risultare che la scelta di fare la casalinga sia stata condivisa da entrambi i coniugi e non solo una volontà unilaterale per sottrarsi al lavoro.

I 4 casi in cui alla ex moglie spetta il mantenimento. Possiamo così sintetizzare i casi in cui il giudice è tenuto a riconoscere un assegno di divorzio all’ex moglie.

  1. La donna di mezza età. Il primo caso è quello della donna di mezza età che non ha lavoro. Superati i 50 anni è difficile, se non impossibile, trovare un’occupazione. La donna di mezza età disoccupata, quindi, è già di per se stessa meritevole dell’assegno di mantenimento. Si pensi al caso di colei che, pur avendo lavorato quando era sposata, è stata poi licenziata. O a chi invece ha solo un part-time e che difficilmente riuscirebbe a convertilo in un full-time considerata l’età.
  2. La donna priva di formazione professionale e di esperienze lavorative. La donna che non ha maturato una formazione professionale o che è priva di esperienze lavorative per essersi dedicata alla famiglia ha quasi sempre diritto al mantenimento, a meno che non sia così giovane da potersi dire che la sua carriera nel mondo del lavoro è appena iniziata. La donna dovrà allora dimostrare che l’assenza di una occupazione per tutto il periodo in cui è stata sposata le ha impedito di maturare esperienze tali da consentirle di crescere professionalmente e di rendersi “appetibile” per eventuali assunzioni o capace di gestire un’attività in proprio. È l’ipotesi della casalinga o di colei che, magari, ha aiutato il marito nella sua azienda o nello studio professionale.
  3. La donna inabile al lavoro. In alcuni casi le donne – così come gli uomini – possono maturare patologie che impediscono loro di lavorare. In questi casi l’assegno di divorzio è una forma di sostegno per una disoccupazione non colpevole.
  4. Disoccupazione incolpevole. L’ultimo caso in cui all’ex moglie spetta l’assegno di divorzio è quando questa è disoccupata ma riesce a dimostrare al giudice che tale condizione non dipende da sua volontà ma dal mercato occupazionale e dalla crisi. Quindi, come abbiamo detto in precedenza, la donna dovrà fornire la prova di aver cercato un lavoro e di non esserci riuscita. Servirà non solo l’iscrizione al centro per l’impiego, ma anche le ricevute delle raccomandate con cui si è chiesto un colloquio di lavoro o ci si è limitati a inviare il curriculum ai fini di un’assunzione, la partecipazione a bandi e concorsi nella pubblica amministrazione, gli stage o i periodi di volontariato, qualsiasi esperienza utile per arricchire il proprio curriculum.

La Legge per tutti      22 aprile 2019

www.laleggepertutti.it/282600_assegno-di-divorzio-diritto-solo-in-4-casi

 

Assegno di divorzio: va rivisto solo se sopraggiungono fatti nuovi

Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 11177, 23 aprile 2019

www.studiofronzonidemattia.it/wp-content/uploads/2019/04/Cassazione-Civile-23.04.2019-n.-11177.pdf

            Le sentenze di divorzio sono suscettibili di modifica qualora sopraggiungano fatti nuovi idonei a mutare l’assetto patrimoniale considerato con la decisione; rimane esclusa invece la rilevanza dei fatti precedenti e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio di divorzio. La Corte di Cassazione ha chiarito i principi che sottendono alla revisione delle condizioni di divorzio ai quali il giudice deve attenersi.

In particolare, nel caso di specie, il Tribunale e la Corte d’Appello avevano accolto l’istanza di modifica delle condizioni di divorzio presentata da un marito, riducendo l’assegno divorzile riconosciuto a favore dell’ex moglie sulla base di due circostanze sopravvenute: a) il reperimento da parte della donna di un nuovo lavoro, seppur precario e a tempo determinato; b) il riacquisto di una piena capacità lavorativa stante il superamento dei postumi di un incidente accusati dalla donna in pendenza del giudizio di divorzio.

L’ex moglie ha presentato ricorso in Cassazione lamentando come la Corte d’Appello: a) avesse omesso di considerare che la ricorrente, già al tempo del definito giudizio di divorzio, lavorava, ancorché con contratto a tempo parziale in ragione dei propri problemi di salute; b) avesse errato nell’aver ritenuto nuova e sufficiente a mutare l’entità dell’assegno la semplice supposizione che la ricorrente avesse acquistato una “attuale capacità lavorativa”.

La Suprema Corte ha ritenuto infondata la prima doglianza della ricorrente, evidenziato come la Corte d’Appello non avesse omesso di considerare che la stessa svolgesse già un lavoro part time al tempo della decisione di divorzio, ma ne avesse al contrario specificatamente tenuto conto, valorizzando il fatto che al momento della pronuncia sull’istanza di modifica erano definitivamente scomparsi i problemi fisici sofferti dalla donna, così da permetterle di reperire una occupazione, non più solo a tempo parziale, ma oggi anche a tempo pieno.

La Suprema Corte, invece, ha ritenuto fondata la seconda censura sollevata dalla ricorrente, reputando la pronuncia impugnata non in linea con i principi giurisprudenziali sottesi alla modifica delle condizioni di divorzio: secondo tali principi, infatti, la revisione dell’assegno divorzile “postula l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi idonea a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione delle condizioni suddette di entrambi le parti. In particolare, il giudice a tal fine… deve limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e ad adeguare l’importo e lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale-reddituale accertata”.

Nel caso esaminato, invece, la Cassazione ha evidenziato come la Corte d’Appello, pur considerando come circostanza nuova rispetto all’epoca del divorzio il fatto che la ex moglie potesse, diversamente da allora, lavorare a tempo pieno e non parziale, aveva aggiunto altresì che ella avrebbe dovuto già da tempo impegnarsi nella ricerca di una attività lavorativa, essendosi i coniugi separati ancora nel 1996. Ad avviso della Suprema Corte, pertanto, il Giudice di secondo grado ha errato nel dare rilievo ad una circostanza riferita alle condizioni economiche delle parti anteriori alla pronuncia di divorzio, mentre avrebbe dovuto chiarire se ed in che misura il divario delle rispettive situazioni economiche esistente all’epoca del divorzio fosse stato concretamente inciso dall’intervenuto, decritto miglioramento delle condizioni della ricorrente.

La Corte di Cassazione ha dunque rinviato la decisione alla Corte d’Appello che, nel revisionare l’entità dell’assegno in questione, dovrà attenersi ai principi sanciti dalla recente sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in ordine alla quantificazione dell’assegno divorzile.

            Studio Fronzoni & De Mattia           28 aprile 2019

www.studiofronzonidemattia.it/assegno-divorzio-va-rivisto-solo-sopraggiungono-fatti-nuovi

 

Divorzio: la nuova convivenza cancella l’assegno

Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 5974, 28 febbraio 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_34426_1.pdf

Se l’ex coniuge, percettore di assegno divorzile, instaura una nuova famiglia, ancorché di fatto, viene definitivamente meno il suo diritto all’esborso. Nonostante si tratti di un principio ormai consolidato, la Corte di Cassazione, prima sezione civile, ha dovuto ribadirlo nell’ordinanza n. 5974/2019.

Gli Ermellini, nel dettaglio, hanno accolto il ricorso di un uomo contro il provvedimento che aveva respinto la sua richiesta di cessazione dell’obbligo di corrispondere alla ex moglie un assegno di divorzio pari a 250 euro mensili.

            Tuttavia, la Corte d’Appello, all’esito anche di informative disposte tramite polizia tributaria, riteneva che il reclamante non avesse comprovato un fatto sopravvenuto legittimante la modifica delle condizioni di divorzio. In particolare, per i giudici non rilevava la circostanza che il coniuge beneficiario dell’assegno avesse instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, occorrendo la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza avesse influito in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto.

            Una decisione contestata dall’uomo in Cassazione, in particolare quanto alla considerazione del fatto rappresentato dalla stabile convivenza della ex moglie con un’altra persona. Censura che i giudici del Palazzaccio accolgono richiamando il consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità sul punto (cfr. Cass. 6855/2015; conf. Cass. 2466/2016; Cass. 4649/2017; Cass. 2732/2018).

La Corte ribadisce che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso.

            Invero, precisa il Collegio, la formazione di una famiglia di fatto, costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo, è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.

            I giudici richiamano anche quanto precisato dalla Cassazione nell’ordinanza n. 18111/2017, ovvero che non assume rilievo nemmeno la successiva cessazione della convivenza di fatto intrapresa dall’ex coniuge beneficiario.                 https://sentenze.laleggepertutti.it/sentenza/cassazione-civile-n-18111-del-21-07-2017

            Nel caso di specie, dunque, il fatto sopravvenuto della convivenza instaurata dalla ex con altra persona, giustificava la revisione dell’assegno divorzile. Pertanto, la decisione impugnata che ha escluso che la convivenza more uxorio dell’ex coniuge, beneficiario di assegno, facesse venir meno il diritto all’assegno stesso, non è conforme ai richiamati principio di diritto. La sentenza va, dunque, cassata con rinvio.

Lucia Izzo News Studio Cataldi        27 aprile 2019

www.studiocataldi.it/articoli/34426-divorzio-la-nuova-convivenza-cancella-l-assegno.asp

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ASSOCIAZIONI-MOVIMENTI

            L’impegno di Ai.Bi. con “I bambini di Chernobyl

Il 26 aprile del 1986 un grave errore in un test di routine della centrale nucleare di Černobyl’ (Ucraina settentrionale) causò l’esplosione di un reattore. La nube radioattiva, che si è diffusa in tutta Europa fino al Mediterraneo, inghiottì la città di Pripyat. Una cittadina, allora ricca e fiorente con più di 50mila abitanti, chiamata ‘la città dei bambini’, perché qui vivevano i dipendenti delle centrali nucleari e le loro famiglie, mogli e figli.

            A 33 anni dall’esplosione del reattore nucleare ancora oggi le conseguenze sono drammatiche: innumerevoli sono stati i casi di malformazione, di tumori e di altre malattie mortali dovute alle radiazioni. A pagare il prezzo più alto, allora come oggi, sono i bambini: i bambini di Chernobyl.

Era questo il nome dell’iniziativa realizzata da Ai.Bi. nel quartiere Sviatoscenskyi, nella zona periferica di Kiev, per aiutare i bambini ucraini, colpiti dal disastro. Un’iniziativa che ancora oggi vive attraverso le associazioni locali e che ha permesso a centinaia bambini e alle loro famiglie di ricevere servizi di sostegno alimentare, assistenza sanitaria e psicologica e attività di animazione per farli ricominciare a vivere.

            Ai.Bi. è rimasta vicina ai bambini dell’Ucraina attraverso il programma di sostegno a distanza “Bambini verso il futuro” volto a rendere più serena la vita dei bambini ucraini che si trovano in stato di abbandono o in condizioni di estrema difficoltà familiare.

News Ai. Bi.    26 aprile 2019

www.aibi.it/ita/pripyat-chernobyl-la-citta-dei-bambini-dove-33-anni-fa-e-morta-linfanzia

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BIGENITORIALITÀ

Cassazione: non basta Skype a limitare i danni della lontananza dei genitori

Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 11274, 24 aprile 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_34403_1.pdf

Svaluta la figura genitoriale in un’età cruciale per lo sviluppo dei minori, il giudice che nega ai familiari extra UE la permanenza in Italia ritenendo che i contatti con i figli possano essere mantenuti tramite i sempre più facili contatti audio-video e recandosi nel “vicino” paese straniero durante i periodi di vacanza scolastica.

            L’art. 31 del T.U. sull’immigrazione, non può essere interpretato in senso restrittivo, in quanto tutela il diritto del minore ad avere rapporti continuativi con entrambi i genitori anche in deroga alle altre disposizioni del decreto.

Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286         www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/98286dl.htm

La norma comprende qualsiasi danno grave che il minore potrebbe subire. Il chiarimento giunge dalla Corte di Cassazione.

Ad adire la Suprema Corte è una coppia di cittadini albanesi, genitori di due gemelli, che aveva proposto ricorso al Tribunale per ottenere l’autorizzazione (ex art. 31, comma 3, d.lgs. n. 286/98) a permanere nel territorio nazionale per un tempo determinato per gravi motivi connessi allo sviluppo psico fisico dei minori i quali dimoravano in Italia presso il loro zio paterno in possesso di regolare permesso di soggiorno. La domanda veniva rigettata e poi veniva respinto anche il successivo reclamo: secondo il giudice del gravame, non era possibile pronosticare che il distacco fisico dei minori dai genitori compromettesse gravemente lo sviluppo normale della personalità dei primi. Ciò in considerazione dell’età dei ragazzi, del fatto che questi erano inseriti in un ambito familiare allargato in cui era presente lo zio al quale i minori avrebbero potuto essere legalmente affidati sulla base delle “cospicue risorse morali ed economiche” di cui lo stesso disponeva.

            Inoltre, i giudici evidenziavano che i figli avrebbero potuto agevolmente mantenere i contatti coi genitori “tenuto conto sia delle sempre più facili e articolate possibilità di contatti audio video sia della ridotta distanza tra Italia e Albania che i ragazzi avrebbero potuto raggiungere nei periodi di vacanza scolastica”.

Tale decisione è contestata vittoriosamente da genitori in Cassazione. Gli Ermellini premettono che la disciplina di cui al terzo comma dell’art. 31 del T.U. sull’immigrazione non può essere intesa come volta ad assicurare una generica tutela del diritto alla coesione familiare del minore e dei suoi genitori: pertanto, incombe sul richiedente l’autorizzazione l’onere di allegazione della specifica situazione di grave pregiudizio che potrebbe derivare al minore dall’allontanamento del genitore (cfr. Cass. n. 9391/2018). Tale disposizione si inserisce in un più ampio quadro normativo che è segnato, sul piano delle fonti sovranazionali, proprio dalla contrapposizione dell’istanza di tutela del minore con l’esigenza di assicurare agli Stati una ordinata regolamentazione dei flussi migratori.

            Inoltre, rammenta la Cassazione, è proprio nella prospettiva del contemperamento di questi interessi che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha disconosciuto al diritto alla vita privata e familiare natura di diritto assoluto, dichiarando che lo stesso possa essere sacrificato sulla base di politiche statuali di disciplina dell’immigrazione. Anche il diritto all’unità familiare, spiega la Corte, non ha carattere assoluto nel nostro ordinamento, atteso che il legislatore, nel contemperamento dell’interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi dalle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri, può prevedere delle limitazioni, sicché è legittimo il mancato accoglimento dell’istanza di autorizzazione alla permanenza sul territorio italiano di un genitore straniero per la ritenuta insussistenza dei gravi motivi di cui all’art. 31, comma 3, del citato D. lgs. n. 286 del 1998.

In base a tali presupposti, la giurisprudenza delle Sezioni Unite ha chiarito che la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall’art. 31 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, può comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile e obiettivamente grave che, in considerazione dell’età o delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psico-fisico, deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto (cfr. SS.UU. sent. 21799/2010).

L’art. 31 del D.lgs. n. 286, quindi, non può essere allora interpretato in senso restrittivo, tutelando esso il diritto del minore ad avere rapporti continuativi con entrambi i genitori anche in deroga alle altre disposizioni del decreto, sicché la norma non esige la ricorrenza di situazioni eccezionali o necessariamente collegate alla salute del minore, ma comprende qualsiasi danno grave che lo stesso potrebbe subire, sulla base di un giudizio prognostico circa le conseguenze di un peggioramento delle condizioni di vita che abbia incidenza sulla sua personalità. In pratica, il minore sarebbe esposto a un tale peggioramento a causa dell’allontanamento dei genitori o dello sradicamento dall’ambiente in cui il medesimo è nato e vissuto, qualora segua il genitore espulso nel luogo di destinazione (Cass. 21 febbraio 2018, n. 4197).

            Il giudizio espresso dalla Corte di appello non appare allora rispondente a tali principi. Quando rileva che la relazione tra genitori e figli possa attuarsi tramite le sempre più facili e articolate possibilità di contatti audio-video, il giudice del gravame mostra di pervenire a una incongrua svalutazione del ruolo della figura genitoriale in un’età ancora cruciale per lo sviluppo del minore ed elude, in tal modo, l’esigenza di bilanciamento tra i diversi interessi che la norma sottende. Lo stesso quando prevede una frequentazione personale ridotta ai periodi di vacanza scolastica. Parola al giudice del rinvio.

Lucia Izzo      studio Cataldi 27 aprile 2019

www.studiocataldi.it/articoli/34403-cassazione-non-basta-skype-a-limitare-i-danni-della-lontananza-dei-genitori.asp

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CELIBATO

La chiesa, la pedofilia e quel tabù del celibato

La chiesa cattolica mentre tenta di affrontare lo scandalo dei preti pedofili — dibattendo le misure da prendere in caso di abuso sessuale e le responsabilità dei vescovi — si rifiuta di affrontare il problema di fondo: il fatto che l’istituzione del celibato è fallita. Secondo alcune ricerche, molti preti sono sessualmente attivi, chi con donne, chi con altri uomini, chi con minori. Un clero che ha tanti scheletri negli armadi non è in posizione favorevole per disciplinare i casi di predazione sessuale. Prendiamo il caso dell’arcivescovo americano Rembert Weakland: ha fatto pagare sottobanco circa 450 mila dollari a un suo amante (un uomo adulto) per farlo tacere; allo stesso tempo ha minimizzato il problema dei preti pedofili, trasferendoli in altre diocesi (come facevano tutti allora) senza cacciarli dal clero o denunciarli alle autorità.

È difficile dire se il suo segreto personale ha influito nella sua gestione dei preti predatori ma certamente l’ha reso letteralmente ricattabile. Il papa emerito Benedetto XVI ha appena pubblicato un saggio denunciando il permessivismo degli anni Sessanta per il “crollo dei valori” nella chiesa. Il tasso di preti gay è sicuramente alto: secondo le varie stime (che non sono scientifiche e variano da un paese all’altro) si attestano tra i 20 e il 50%.

“Essere preti è o sta diventando una professione gay”, ha scritto il reverendo Donald B. Cozzens, rettore di un seminario cattolico nell’Ohio, in un suo libro del 2000. Ma in realtà, le politiche repressive di papa Ratzinger e dei suoi predecessori (Paolo VI e Giovanni Paolo II) hanno molto contribuito alla crisi attuale. Per molti secoli la chiesa ha praticato una politica di “ipocrisia saggia”, chiudendo un occhio sul fatto che una forte percentuale di preti era incapace di rispettare il voto del celibato. La figura del prete o della suora libidinosi nel Decameron di Boccaccio non era solo una trovata letteraria ma una realtà sociale. Molti preti vivevano in concubinaggio con una “donna di servizio”; alcuni preti usavano l’intimità della confessione per sedurre le devote con tanti casi di figli illegittimi.

Ma tutto ciò fu in genere relegato a voce di paese e passò sotto il silenzio generale del “si fa ma non si dice”. L’omosessualità non era sconosciuta: nella disciplina dell’ordine benedettino i monaci che dividevano una stanza dovevano dormire vestiti e con le luci accese. Ambienti “homosocial” — seminari, collegi unisex, carceri — tendono a favorire l’omosessualità. “L’uomo è un animale che ama”, ha detto Richard Sipe, un ex prete psicologo che ha lasciato la chiesa per sposarsi. Al momento del Concilio Vaticano II (1962- 65), molti vescovi, soprattutto quelli in Sud America e in Africa, speravano che il concilio, nel suo tentativo di “aggiornare” la chiesa, avrebbe permesso ai preti di sposarsi, normalizzando la situazione di “concubinaggio” dilagante nei loro territori. Ma Paolo VI, che ha ereditato il Concilio da papa Giovanni XXIII, si è spaventato dalla rapidità dei cambiamenti nella chiesa e ha bloccato il dibattito, ignorando il parere di una commissione papale che sosteneva che non esistesse un impedimento teologico alla figura del prete sposato. Paolo VI ha invece impedito che si discutesse la questione e ha emanato la sua famosa enciclica contro la contraccezione artificiale Humanæ Vitæ. La delusione fu grande. Cominciò un esodo dal clero. Secondo Sipe, circa 125 mila preti hanno lasciato la chiesa per sposarsi. In compenso, la percentuale di preti gay è salita: è molto più facile nascondersi in una comunità tutta maschile con una cultura della segretezza e un’avversione allo scandalo.

Molti giovani cattolici sinceramente devoti sono entrati nel seminario sperando di fuggire ai loro impulsi sessuali prendendo il voto del celibato. Ma vivendo con tanti altri uomini con lo stesso orientamento si sono trovati in ambienti spesso pieni di attività sessuale e anche di abusi. Circa il 10% dei giovani seminaristi vengono abusati o sedotti da preti, amministratori o altri seminaristi, secondo Thomas Doyle, prete cattolico che come esperto di diritto canonico ha aiutato a gestire il problema dei preti pedofili per la chiesa americana. Secondo i tradizionalisti come Benedetto XVI, è tutta colpa dell’abbandono di valori chiari e del lassismo generale della cultura. Ma secondo Sipel’enfasi sui preti gay è uno schermo per il fallimento del celibato. I preti gay violano il celibato nelle stesse proporzioni di quelli etero”. La chiesa chiede ai preti una cosa che poche persone sono capaci di fare. Anche San Paolo, quando i primi devoti gli chiedevano se bisogna rinunciare alle donne, rispondeva: “Io sono celibe, ma non è per tutti. È meglio sposarsi che bruciare”.

Uno studio del 1985 ha stimato che se il celibato non fosse obbligatorio, le domande per entrare nel clero aumenterebbero del 400%. Anche se il celibato è una tradizione e non un principio che ha fondamenta nel Vangelo, i conservatori non hanno torto quando dicono che abbandonare le tradizioni è un segno di debolezza tipica di una chiesa in declino. La sociologia della religione insegna che le chiese “severe” tendono a essere più forti. Le chiese protestanti moderate — dove i preti sono sposati e a volte gay — stanno perdendo quota pure loro. Le chiese evangeliche — che hanno un’ideologia rigida ma permettono ai loro sacerdoti di sposarsi — vanno molto meglio. La chiesa cattolica, secondo Laurence Iannaccone, un economista e sociologo della religione, con il Concilio Vaticano II ha creato “il peggio dei due mondi”. Ha eliminato elementi che distinguono il cattolicesimo da altre religioni — il rito latino, l’obbligo di mangiare pesce il venerdì, gli abiti elaborati delle monache — ma ha tenuto le differenze che rappresentavano dei veri ostacoli: il matrimonio per i preti, l’ordinazione per le donne. Le alternative per papa Francesco, a questo punto, sono tentare una riforma audace subendo una rivolta, oppure adottare piccole mezze misure assecondando il lento declino. Tra le poche cose che può fare Francesco è rivitalizzare il diaconato, dove non ci sono veti né per gli uomini sposati né per le donne.

Alexander Stille         “la Repubblica”         28 aprile 2019

https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2019/04/27/news/la_chiesa_la_pedofilia_e_quel_tabu_del_celibato-224996027

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201904/190428stille.pdf

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – N. 16, 24 aprile 2019

Notre Dame de Paris, oltre le fiamme. Impossibile non pensarci. Fiamme che bruciano, ma anche muri che resistono. E una impressionante campagna di solidarietà per la ricostruzione. Ma l’immagine che colpisce di più è la preghiera in strada, spontanea e intensa – un modo di fare i conti con questo evento, facendosi “com-muovere”, ma anche “facendo per”.

www.youtube.com/watch?v=-aalXW4ClTw

Utile – e intensa – la semplice testimonianza di uno studente bielorusso, a Parigi per motivi di studio

https://it.clonline.org/lettere/2019/04/16/veglia-di-preghiera-notre-dame-parigi

Toronto. Protezione di minori migranti. Intervento del Cisf. All’interno del convegno internazionale AFCC “The Future of Family Justice: International Innovations” (Il futuro della giustizia minorile: innovazioni a livello internazionale, 29 maggio- 1 giugno 2019) il direttore Cisf (F. Belletti) presenterà una relazione all’interno di un workshop su “Come sostenere i minori rifugiati negli Stati Uniti e in Europa” (How to Support Refugee Minors Arriving in the US and Europe).

www.afccnet.org/Portals/0/AFCC%202019%20Toronto%20Annual%20Brochure.pdf?ver=2019-04-08-141344-173

Dalla presentazione del workshop: “Negli ultimi anni sono numerosi i rifugiati giunti in Europa e negli Stati Uniti, con una significativa percentuale di minori, alcuni arrivati anche con le loro famiglie. Questo workshop interdisciplinare intende analizzare le sfide che i servizi per minori hanno dovuto affrontare nelle nazioni ospitanti. Quali lezioni sono state apprese; quali sostegni di natura giuridica sono disponibili per i minori migranti e rifugiati. Verrà dedicata particolare attenzione alle esperienze in Stati Uniti, Italia e Germania” (Huge numbers of refugees have arrived in Europe and the US in recent years, a large proportion of them minors, some travelling without their families. This interdisciplinary workshop looks at the challenges that children’s services have overcome in the receiving countries; lessons learned; and what legal support exists for migrant and refugee minors. The focus is particularly on the issues as experienced in the US, Italy, and Germany). Interverranno: Francesco Belletti, Cisf, Milano (Italia) Sven Iversen, AGF (Association of German Family Organizations), Berlino (Germania): Anne Berger, JD, Berger & Small, Boston-Woburn (MA-US).

I tre relatori sono membri del Board dell’ICCFR, che insieme al Cisf sta organizzando la 65.a Conferenza Internazionale ICCFR-CISF, che si terrà a Roma dal 15 al 17 novembre 2019, su “famiglie e minori rifugiati e migranti. Proteggere la vita familiare nelle difficoltà” [Refugee and migrant children and families: Preserving family life through hard challenges].

https://iccfr.org/iccfr-conference-2019-in-rome-italy-migrant-families-and-children/call-presenters-rome

Il manuale (per i tutori) sulla giusta accoglienza dei minori stranieri non accompagnati (Toolkit for supporting unaccompanied migrant children in Europe – This practical toolkit has been developed as part of the EC co-funded ProGuard project to support you in your daily work as a guardian. It consists of information, tools and best practices related to guardianship for unaccompanied children and aims at protecting and implementing children’s rights for this special group of children in Europe).

Disponibile in 8 lingue, tra cui l’italiano, il manuale per una giusta accoglienza da parte dei tutori (guardians) dei minori stranieri non accompagnati è frutto dell’impegno congiunto di 11 partner di 10 Paesi nell’ambito del progetto co-finanziato dall’Unione Europea.     https://guardianstoolkit.eu/it/

Disponibile on line gratuitamente, il Toolkit è costituito da 4 sezioni: a) La tua missione? Come salvaguardare il superiore interesse del minore: un approfondimento del ruolo del tutore; b) Lavorare con gli altri: un focus sul funzionamento del sistema di tutela e protezione; c) Le tue conoscenze e competenze: un affondo sulle conoscenze e competenze, anche trasversali, necessarie al tutore nello svolgimento del suo delicato ruolo di guida, con particolare riferimento alle competenze interculturali. d) Il tuo benessere: un approfondimento sulle strategie da adottare per tutelare il proprio benessere, evitando stress eccessivi e rischio di burn out.

Comune di Bologna. Avviso pubblico di Vicinanza Solidale tra le famiglie. “La vicinanza solidale rappresenta una forma di solidarietà tra famiglie che ha la finalità di sostenere una famiglia attraverso la solidarietà di un’altra famiglia o di singole persone in una logica di affiancamento, condivisione e aiuto concreto. La vicinanza solidale può: accompagnare un bambino o una bambina nello svolgimento di alcune attività e in alcuni compiti relativi ai suoi bisogni di crescita (accompagnamenti/spostamenti, supporto scolastico, attività extrascolastiche e di tempo libero); accompagnare i genitori nel fronteggiare alcune difficoltà della vita quotidiana prestando attenzione a non sostituirsi a loro, promuovendo loro capacità (aiuto per il disbrigo di pratiche burocratiche, conciliazione tempi di cura con i tempi di lavoro); promuovere l’integrazione della famiglia nella vita sociale del territorio di appartenenza (affiancamento alla famiglia per favorire il suo inserimento nei contesti sociali del proprio territorio di residenza e la costruzione di nuove relazioni sociali)”.Il sito contiene moduli e regolamento (anche degli aspetti amministrativi eventualmente previsti).

Dichiarazione finale del XIII congresso mondiale delle famiglie di Verona. Se ne è parlato e discusso così tanto, che di questo evento restano più i giudizi degli altri che quello che è stato detto realmente. Per questo, a scopo documentario, si allega qui la “Dichiarazione finale” del XIII World Congress of Families di Verona. Così ognuno potrà farsi la propria idea, senza intermediari più o meno interessati.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf1619_allegato2.pdf

Dalle case editrici

  • Colella Maria Pia, Chiamati ad essere. Manuale della coniugalità, San Paolo, Cinisello B. (MI), 2018, pp. 117, € 12,00
  • Falcinelli Floriana, Raspa Veronica (a cura di), I servizi per l’infanzia. Dalle esperienze alla prospettiva 0-6, FrancoAngeli, Milano, 2018, pp. 150, € 20,00
  • Fondazione Migrantes, Rapporto italiani nel mondo 2018, Tau Ed.Todi (PG), 2018, pp518, € 20,00
  • Kleoponis Peter C., Uscire dal tunnel. Dalla dipendenza da pornografia all’integrità, D’Ettoris, Crotone, 2018, pp. 396, € 23,90.

La pornografia è una delle piaghe sociali meno conosciute, malgrado un gran numero di persone ne diventi dipendente, compromettendo l’integrità delle relazioni coniugali, familiari e anche lavorative. Gli effetti di una esposizione frequente e prolungata ai video pornografici sono nocivi per la salute fisica e mentale – come mostra l’autore di questo corposo saggio, psicoterapeuta americano specializzato in consulenza alle coppie e alle famiglie e in counseling pastorale –  ma se ne può uscire. Questo libro, come ben illustra la prefazione del card. Bassetti, intende quindi aiutare chi desidera conoscere il problema, informando sulle caratteristiche delle immagini pornografiche, sul loro impatto sul sistema nervoso, sulla dipendenza emotiva e chimica che ne deriva. Inoltre descrive la strada per riacquisire la libertà, riacquistando la propria integrità attraverso l’auto-aiuto, la terapia ed il sostegno dei gruppi d’incontro.

Save the date

  • Nord: I figli al centro. Famiglie e mediatori insieme, evento formativo nazionale AIMEF (Associazione Italiana Mediatori Familiari), Milano, 17 maggio 2019.
  • Www.aimef.it/data/eventi/593/allegato_d172e.pdf
  • Nord: Demografia e media, corso di aggiornamento promosso da Fondazione Centro della Famiglia di Treviso e dall’Ordine dei Giornalisti del VenetoTreviso, 10 maggio 2019.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf1719_allegato3.pdf

  • Nord: Sostenere le famiglie nel post-adozione attraverso percorsi di gruppo per genitori e figli, promosso dal CTA (Centro di Terapia dell’Adolescenza), Milano, 13 maggio, 27 maggio, 17 giugno 2019

www.centrocta.ithttps://www.aimef.it/data/eventi/633/allegato_c0936.pdf/sostenere-le-famiglie-nel-post-adozione-attraverso-percorsi-di-gruppo-per-genitori-e-figli-corso-per-operatori

  • Sud: E se a separarsi sono i genitori con figli disabili? In mediazione familiare per salvare il progetto genitoriale, evento promosso da CESMEF (Centro Servizi di Consulenza e Mediazione Familiare) e altri soggetti, Lecce, 7 maggio 2019.

www.aimef.it/data/eventi/633/allegato_c0936.pdf

  • Sud: L’attualità di un impegno nuovo. L’Appello ai liberi e forti (1919-2019), Convegno Internazionale per il Centenario Sturziano (seguirà programma dettagliato), Caltagirone (CT) 14-16 giugno 2019.
  • Estero: Work Forum on the Implementation of the UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities in the EU and the Member States (Incontro di lavoro sull’attuazione della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità nell’Unione Europea e negli Stati membri), promosso in collaborazione con le istituzioni europee Bruxelles, 13 maggio 2019 (nel link anche agli atti del Work Forum del 2018).

https://ec.europa.eu/social/main.jsp?langId=en&catId=88&eventsId=1400&furtherEvents=yes

Iscrizione                http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio        http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

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CHIESA CATTOLICA

Apocalittici e non magisteriali: due teologi commentano gli “Appunti” di Ratzinger

«Un testo un po’ fuori dall’ordine di riflessione del papa emerito», non solo dal punto di vista del linguaggio, ma anche degli esempi che vengono portati a sostegno delle tesi; e non è chiaro se ciò sia dovuto «all’invecchiamento, o al fatto che Benedetto XVI sia circondato da persone che lo sfruttano per sostenere una posizione anti papa Francesco». A parlare, commentando gli “Appunti” di Joseph Ratzinger sul tema degli abusi sessuali pubblicati sulla rivista tedesca per il clero bavarese Klerusblatt l’11 aprile 2019 scorso – ma prontamente diffuso da media e organi tradizionalisti e conservatori d’oltreoceano – è il teologo morale Giannino Piana, 80 anni, già docente di Etica cristiana all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Urbino e di Etica ed economia alla Facoltà di Scienze Politiche all’Università di Torino, ex presidente dell’Associazione italiana dei Teologi moralisti, in una intervista rilasciata a Fausto Gasparroni dell’Ansa (15/4).

Sul fatto che si tratti di una mossa mirante a ridimensionare l’azione pastorale e dottrinale di papa Francesco, Piana non ha dubbi: «Si ha l’impressione che dietro ci sia una manovra che va al di là del papa emerito, che nasconda una serie di riferimenti, anche nel linguaggio, non appartenenti alla riflessione di Benedetto XVI come si è presentata in passato, qui in certi tratti anche banale e persino un po’ volgare». E proprio l’elemento della volgarità appare al teologo in contraddizione con lo stile di Ratzinger: come nell’esempio della chierichetta violentata dal sacerdote che le diceva «questo è il mio corpo che è dato per te»: si tratta per Giannino Piana di «un riferimento volgare anche se tratta un aspetto gravissimo», che rende legittimo chiedersi quanto il papa emerito sia «in grado di esercitare la responsabilità in senso pieno», o quanto abbia «lasciato fare, condividendo comunque la linea di chi usa tutto questo contro l’attuale papa».

In merito al collegamento che Ratzinger crea tra pedofilia e ‘68, il teologo morale afferma che «un giudizio interamente in negativo di quel periodo è inaccettabile», poiché non tiene in considerazione «la centralità della coscienza» o «l’attenzione alla liberazione della donna»: «C’è una serie di fattori che vanno in direzioni diverse e che portano ambivalenze: ci sono sia elementi negativi sia positivi, che sono però la maggioranza. Nella stessa crisi dell’autorità, c’è l’aspetto positivo che va contro il potere incondizionato, e le ricadute negative nel caso di un’autorità legittima. È molto superficiale un giudizio tutto in negativo, non in grado di cogliere la complessità».

Analogamente «immotivato e ingiustificato» è il giudizio di Ratzinger sul «collasso della teologia morale cattolica» nel periodo postconciliare: «Un giudizio complessivo apocalittico ingiusto», cui perviene «mettendo in evidenza alcuni aspetti e radicalizzandoli», «Un giudizio implacabile, esagerato, che non tiene conto della complessità delle situazioni. Dire che c’è un rifiuto morale dell’autorità delle gerarchie è gratuito: la teologia è sempre libera di fare riflessioni, che poi fanno anche da supporto alle decisioni. E che le norme non esistano più non è sostenibile, si veda ad esempio il caso della bioetica. È tutto molto unilaterale, superficiale. Soprattutto l’accusa di fondo, che quella teologia morale abbia portato a una mancata condanna della pedofilia, è inaccettabile».

Si tratta di uno degli aspetti più contestati dello scritto di Ratzinger: «La pedofilia è stata sempre duramente contestata dalla teologia morale – insiste Piana –, nessun teologo moralista ha mai accettato la pedofilia: anzi, questo anche di fronte a un atteggiamento del Vaticano che era di non attenzione al problema, o quanto meno di non intervento». In conclusione, il teologo morale affronta la questione di fondo che ha reso possibile la diffusione del testo del papa emerito, ovvero la coabitazione dei due pontefici, aspetto delicatissimo, non ancora normato, ma che pretenderebbe un passo indietro da parte dell’“ex” papa: «Avrei auspicato – argomenta Piana – che, date le dimissioni, atto di coraggio e serietà, Benedetto si allontanasse dal Vaticano. È pericoloso per il governo della Chiesa diventare una possibile alternativa. Lui poi aveva promesso di ritirarsi nel silenzio e nella preghiera: e il silenzio si è rotto, soprattutto in questa circostanza, più pesante rispetto alle precedenti e in qualche modo occasionali, vedi il caso Viganò. Qui c’è anche uno spalleggiare la teologia pre-conciliare, che diventa anche una critica allo stesso Concilio». La situazione che deriva da questa coabitazione, è la valutazione finale di Piana, «è ormai abbastanza compromessa».

Sugli “appunti” di Ratzinger è intervenuto anche il teologo benedettino p. Ghislain Lafont, già docente all’Ateneo Sant’Anselmo e alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. In un’intervista su Settimana News (18/4), afferma di aver accolto lo scritto del papa emerito «senza sorpresa»: «Mi sembra che il saggio del papa emerito riassuma in qualche pagina l’essenziale del suo sguardo sulla storia recente della Chiesa e del mondo, del suo giudizio sulle correnti teologiche che hanno attraversato questo periodo, della sua visione teologica in generale. Non mi ha stupito perché non offre niente di originale in rapporto al pensiero e agli atti del teologo, del cardinale e del papa allora in esercizio».

Non sono questi appunti ad averlo turbato, quanto, semmai, «diverse posizioni che l’autore ha preso durante la sua vita. Dagli anni ‘70 col suo rifiuto netto della liturgia di Paolo VI (malgrado l’autorità magisteriale maggiore relativa alla promulgazione di questa regola della preghiera della Chiesa) fino, verso la fine del suo pontificato, al suo invito a restringere l’universalità della salvezza con una traduzione restrittiva del pro multis del canone della messa: non “per tutti”, ma “per molti”». Ratzinger, discepolo di sant’Agostino e san Bonaventura, «si è lasciato prendere dal pessimismo di questi grandi autori neoplatonici, per altro anche grandi mistici. Sono tentato di dire che abbiamo avuto un cardinale e poi un papa un po’ giansenista, mentre avremmo bisogno di un discepolo di san Tommaso: conoscitore come pochi della Scrittura e della tradizione dei Padri, ma, allo stesso tempo, filosofo, audace, interessato all’evoluzione della cultura, ottimista sulla libertà umana. Il san Tommaso di Marie-Dominique Chenu, di Etienne Gilson, di Umberto Eco! Lui che era stato all’inizio appassionato del Concilio, nel maggio del ‘68, si sarebbe attrezzato per fornirne un’interpretazione impietosa».

Lafont ammette che nel periodo postconciliare, come in tutte le epoche di grandi cambiamenti, ci sono stati «eccessi non solo morali, ma intellettuali, nel mondo come nella Chiesa»; «Ne ho sofferto anch’io e non ho trovato subito come reagire in maniera aperta alle prospettive inedite che lo stesso concilio non aveva previsto. Ma credo che sia vero il proverbio: “il rumore non fa del bene, il bene non fa rumore”. Se ci sono stati degli eccessi brucianti, c’è stato anche un lavoro in profondità, una apertura alle scienze umane, una rilettura intelligente delle categorie classiche e questo ha portato frutto. Non sono un teologo morale, ma mi vengono sulle labbra i nomi dell’epoca postconciliare: Bernard Häring, René Simon, Xavier Thévenot, Servais Pïnckaers, Marc Oraison, Eric Fuchs… Ce ne sono stati certamente altri al di là dei confini francofoni. Vi erano anche riviste di ottimo livello. Penso a Supplément de la Vie Spirituelle. No, non ho l’impressione che la teologia morale sia stata decadente. Era in ricerca. Il testo di Ratzinger, secondo il teologo, non crea alcuna «crisi magisteriale»: «Un papa emerito non ha più autorità magisteriale, come del resto un prefetto emerito della Congregazione della Dottrina della Fede. Il comportamento pubblico di Benedetto XV dopo le sue dimissioni è stato esemplare: ha mantenuto il silenzio e per questo documento, il primo reso pubblico dopo il 2013, si è assicurato in precedenza l’accordo per la pubblicazione da parte di papa Francesco e del cardinale segretario di Stato. Essendo stato il primo, contrariamente al suo predecessore, a sanzionare gli abusi sessuali del clero, aveva il diritto morale ad esprimersi su tale argomento se lo riteneva utile. Quello che ha scritto va riversato in questo triste dossier. Il lettore ha il dovere di riceverlo con rispetto, ma anche il diritto di valutarlo secondo il proprio giudizio. In ogni caso non è un documento magisteriale».

Ludovica Eugenio                  “www.adista.it”        27 aprile 2019

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201904/190428eugenio.pdf

 

Ratzinger. Appunti di teologia preconciliare

L’articolo scritto sotto forma di appunti di papa Benedetto XVI sugli abusi sessuali nella chiesa cattolica, pubblicato dal mensile tedesco Klerublatt, ha suscitato (ed è destinato a suscitare ancora a lungo) reazioni contrastanti di adesione incondizionata e di aperto e duro dissenso. Si tratta infatti di un testo controverso, caratterizzato da un linguaggio aspro – una vera e propria requisitoria dai toni drammatici – che risulta piuttosto inconsueto rispetto agli scritti precedenti del papa emerito. Oggetto della requisitoria – va detto fin dall’inizio – sono la teologia morale cattolica e la formazione seminaristica che si sono sviluppate nel postconcilio, nonché alcuni aspetti della azione pastorale della chiesa, in particolare la celebrazione dell’eucaristia.

Un documento che ha dunque una chiara finalità intraecclesiale, che intende mettere cioè sotto processo gli sviluppi di carattere teologico e pastorale, che hanno avuto luogo all’interno della chiesa dopo (e sotto la spinta) del Vaticano II. Il tema della pedofilia e quello della rivoluzione culturale che si è prodotta, a partire dal ’68 in Occidente (e non solo), per quanto quantitativamente rilevanti nell’economia del testo, appaiono elementi di contorno, che definiscono il contesto entro il quale è collocato il contributo che corrisponde alla vera preoccupazione di papa Benedetto XVI.

Un’analisi radicalmente pessimistica. La questione della pedofilia, della grande rilevanza che il tema ha assunto negli ultimi decenni all’interno della chiesa, è messa da papa Ratzinger in stretto rapporto con la svolta culturale iniziata nel ’68, che viene da lui definita come «un processo inaudito, di un ordine di grandezza che nella storia è quasi senza precedenti». Ad avere in essa un ruolo di primo piano è, secondo il papa emerito, la rivoluzione sessuale, grazie alla quale si è assistito alla rivendicazione di una completa libertà (fino alla giustificazione di ogni forma di trasgressione); il che ha determinato, di conseguenza, la caduta di qualsiasi criterio di valutazione etica del comportamento e, più in generale, di qualsiasi assetto normativo in campo morale. Non si può certo negare che il ’68 abbia prodotto mutamenti profondi nella coscienza dei singoli e nei costumi della società, e che abbia messo in discussione principi e valori tradizionali; ma la drasticità dei giudizi formulati da papa Ratzinger nei suoi confronti risulta eccessiva e non sembra essere sufficientemente giustificata. Come ogni processo di trapasso epocale, anche quello di quegli anni, ha avuto (e non poteva che avere) ricadute ambivalenti. Alla crisi dei principi e dei valori tradizionali si è infatti accompagnata la restituzione di centralità alla coscienza (e alla libertà di coscienza), il rifiuto di forme autoritarie di gestione del potere (di ogni potere) e l’affermazione della libertà personale, il superamento di una visione repressiva e tabuistica della sessualità e l’avvio del processo di emancipazione femminile.

Tutto questo rende inaccettabile, perché unilaterale, una valutazione radicalmente negativa come quella ricordata, e infondata la tendenza ad attribuire a quel periodo storico la causa del dilagare della pedofilia, fenomeno peraltro largamente presente anche in passato (è semmai merito del ’68 l’averlo sdoganato e fatto emergere alla luce del sole consentendo alle vittime di poter ottenere finalmente giustizia).un’accusa drastica e non motivata Ma il bersaglio centrale dello scritto di Ratzinger è rappresentato dalla messa sotto accusa di quello che egli definisce come il «collasso della teologia morale cattolica» – il termine collasso ritorna con frequenza nello scritto – alla quale viene addebitata la responsabilità di avere «reso inerme la Chiesa di fronte ai processi in atto nella società». L’accusa è motivata risalendo a quanto è avvenuto a seguito della riforma conciliare, quando l’abbandono dell’opzione giusnaturalistica e la constatazione dell’insufficienza di una rifondazione esclusivamente biblica, si sarebbe tradotta nella adesione a un assoluto relativismo; nell’assenso cioè a una teologia morale – come si legge nel testo– «definita solo in base agli scopi dell’agire», in cui non sussiste più «nulla di oggettivamente buono o cattivo» o nella quale si fa strada l’idea che non si dia più il bene «ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio».

La pesantezza di queste affermazioni e l’esplicita denuncia delle posizioni di alcuni moralisti – Bruno Schuller e Franz Bockle in particolare – impongono la formulazione di qualche osservazione critica. Si può non essere d’accordo con alcuni orientamenti assunti in quel periodo dalla teologia morale nel campo della sessualità, ma non si può certo affermare che si sia di fronte alla «dissoluzione della concezione cristiana della morale» e alla «dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale». Le questioni in causa – dall’esistenza o meno di azioni in sé malvagie (il cosiddetto intrinsice malum) alla presenza di beni indisponibili o di valori non negoziabili; dal riconoscimento dello specifico (proprium) della morale cristiana fino alla definizione del ruolo del magistero in materia morale – sono state affrontate dai teologi morali del postconcilio con attenzione alla complessità delle situazioni, senza tuttavia venir meno alla continuità con la più autentica tradizione cristiana.

Nessun moralista cattolico ha mai negato l’esistenza di obblighi morali incondizionati; il problema su cui si è concentrata l’attenzione è semmai quello della concreta individuazione di tali obblighi in presenza di situazioni di conflitto di valori (o di doveri), nelle quali conta il perseguimento del «bene possibile» e, in alcuni casi (e non sono infrequenti) del «male minore» o – secondo una versione più laica – della «riduzione del danno». Non era questo l’intento (in questo caso positivo) della casistica del passato? La quale è stata, del resto, anche il modello di un rapporto tra teologia morale e magistero, analogo a quello che viene oggi ipotizzato da una parte consistente dei teologi morali. Anche in questo caso non si tratta infatti di negazione del ruolo del magistero, ma della richiesta di riconoscimento dello spazio di autonomia proprio della teologia morale – lo spazio decisionale che era assegnato nella casistica alla competenza dei moralisti e che costituiva l’ambito del dibattito tra teologi e scuole teologiche era di gran lunga superiore a quello di oggi – e dell’apertura di un dialogo più costruttivo e fecondo tra i due ministeri, entrambi necessari al corretto sviluppo della vita ecclesiale.

Esistono davvero le derive richiamate? Ma le derive segnalate, in termini allarmanti come effetto del «collasso morale e spirituale», non si arrestano qui: riguardano anche la formazione seminaristica e la prassi pastorale. Sul primo versante, quello della formazione seminaristica, i casi riportati dal documento di papa Ratzinger non sono generalizzabili. La denuncia in esso contenuta è pesante: si va dal costituirsi nei seminari di «club omosessuali» o di forme abnormi di promiscuità sessuale, fino alla presenza di atteggiamenti critici verso la tradizione favoriti anche da diversi vescovi – è curioso che si attribuisca la colpa di questa condotta al ricorso nella nomina dei vescovi al criterio della «conciliarità», che non è certo da svalutare, e che sembra sia stato in realtà poco applicato per far posto invece al criterio della fedeltà all’istituzione! –; episodi tutti che costituiscono di fatto, come risulta anche da indagini recenti, un fenomeno limitato e marginale.

Sul secondo versante, quello della prassi pastorale, l’attenzione di papa Ratzinger è incentrata soprattutto sulla celebrazione dell’eucaristia e sull’immagine di chiesa. La critica si appunta, nel primo caso, sulla diffusione di una forma celebrativa «declassata a gesto cerimoniale», incapace dunque di trasmettere la grandezza del mistero, e caratterizzata da una partecipazione generalizzata alla comunione senza alcuna verifica delle condizioni personali per l’accesso. Nel secondo caso si lamenta il mancato riconoscimento del mistero della chiesa, considerata sempre più come un «apparato politico» da analizzare facendo riferimento a parametri di efficienza mondana e mettendo tra parentesi il carattere di popolo di Dio chiamato alla santità.

Che vi siano stati (e vi siano) degli eccessi in talune celebrazioni postconciliari può essere senz’altro vero, come è vero che si corra talora in tali celebrazioni il rischio di vanificarne il respiro religioso – non si è ancora riusciti a ricreare (se non in casi piuttosto rari) un clima celebrativo capace di evocare in modo efficace il mistero –; ma non si possono dimenticare gli effetti positivi della riforma liturgica, che ha inaugurato una nuova stagione di accostamento dei fedeli alla Parola e del loro coinvolgimento partecipativo all’azione liturgica. Come non ricordare quanto avveniva in passato, quando le letture erano, a causa dell’uso del latino, del tutto incomprensibili ai più e l’accento posto sull’adempimento del precetto induceva molti a «prender messa» – così si diceva – entrando dopo le letture e l’omelia (e magari uscendo al momento della distribuzione della comunione), in quanto ciò era ritenuto sufficiente dai moralisti del tempo per la validità della partecipazione alla messa? E che dire di una chiesa, percepita esclusivamente come istituzione gerarchica e destituita tanto del carattere misterico quanto della partecipazione responsabile dei fedeli, i quali sono a tutti gli effetti – come ci ha insegnato il Concilio con l’introduzione delle categorie di «popolo di Dio» e di «comunione» – soggetti attivi di essa? la dottrina del Concilio in discussione?

Ha ragione Benedetto XVI di richiamare, nell’ultima parte del testo, la questione della fede come la vera ragione della crisi attuale e di porre l’accento sul fatto che essa è «un modo di vivere»; che ha, in altre parole, una dimensione personale, la quale implica il coinvolgimento dell’intera esistenza. Non si può negare pertanto che sussista un rapporto stretto tra fede e morale, e non vi è dubbio che dall’insieme del messaggio evangelico scaturisca una concezione originale (e specifica) della morale. Ma questo non significa che non possa darsi – come del resto è chiaramente documentato dalla cultura dell’Occidente (e non solo) – una morale laica, fondata su argomentazioni razionali, e che si possa affermare, al contrario – come è detto nel testo del papa emerito – che un mondo senza Dio sarebbe necessariamente un mondo privo di senso e di fondamento, nel quale «non vi sarebbero più i criteri del bene e del male» e verrebbe, di conseguenza, meno la misura dell’umano. Non viene con ciò messo radicalmente in discussione il rapporto tra fede e ragione, che è stato uno dei motivi dominanti della riflessione ratzingeriana? Non si può, in definitiva, non temere, alla luce delle considerazioni fin qui fatte, che lo scritto di Benedetto XVI diventi una sorta di manifesto di una teologia preconciliare, e possa, di conseguenza, svolgere la funzione di strumento autorevole nelle mani delle correnti più tradizionaliste presenti nella chiesa per contestare le prese di posizione dottrinali e pastorali dell’attuale pontefice.

Lo ha messo bene in evidenza il vaticanista di La Stampa Domenico Agasso jr., il quale, in un articolo di commento all’intervento di Ratzinger, scrive: «L’accusa è esplicita: il Papa emerito interviene con un testo che può rappresentare ‘una linea pastorale e teologica parallela a quella del Papa’ e si presta così ad essere usata come arma per gli avversari di Francesco» (Francesco e l’ombra di Ratzinger. La coesistenza che pesa sul Vaticano, La Stampa, 14 aprile 2019, p. 11).Un testo dunque, quello di papa Ratzinger, in cui emerge una visione pessimistica (persino tragica) della attuale congiuntura ecclesiale; visione che non sembra corrispondere a quella che ancora di recente papa Francesco ha presentato nell’esortazione apostolica Christus vincit a proposito della morale sessuale, dove si ammette che essa «è spesso ‘causa di incomprensione e di allontanamento dalla Chiesa’, in quanto è percepita come uno spazio di giudizio e di condanna » (n. 81), e si sottolinea che essa va invece considerata quale «dono di Dio», dunque come una realtà che, lungi dal dover venire tabuizzata, deve essere fatta oggetto di profondo rispetto e di gratitudine (n. 261).

Giannino Piana          “Rocca” n. 9 del 1 maggio 2019       pag. 44

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La “fiction” dietro l’idea del “papa emerito”

La storia delle dimissioni papali risale al Medio Evo, quando normalmente i papi non si dimettevano liberamente ma vi erano obbligati da concili, fazioni rivali dell’aristocrazia romana o da strategie di potenze europee. A quel tempo, il papato si faceva notare più per la sua importanza politica che per la sua sollecitudine pastorale o per il suo ministero ecclesiale. Tuttavia, l’annuncio di Benedetto XVI, l’11 febbraio 2013, del suo ritiro nel giro di poche settimane, alle 20 ora di Roma del 28 febbraio2013, pose le basi per una nuova era nella storia del papato. Il ritiro di Benedetto aveva ben poco a che fare con il papato del Medio Evo e non dovrebbe essere inquadrato come una continuazione del ritiro dei papi medioevali. Deve invece essere visto nel contesto del Concilio Vaticano II (1962-1965). L’espressione latina che Benedetto XVI ha usato per spiegare la sua decisione – ingravescentem ætatem (per l’età avanzata) – è anche il titolo del motu proprio che Paolo VI pubblicò nel 1970 che definì il limite di età di settantacinque anni per i cardinali della curia romana (e l’età di ottant’anni per partecipare ad un conclave per l’elezione di un nuovo papa).

Il Concilio Vaticano II e le dimissioni dei vescovi. In realtà fu un decreto del Vaticano II del 1965 a dare l’avvio all’idea di fissare un limite di età per i vescovi diocesani. E questo è il vero inizio della moderna visione teologica dell’idea della rinuncia del vescovo di Roma. Tra il 1962 e il 1965, i padri conciliari dedicarono molto tempo e molta energia per deliberare sulla necessità che i vescovi si dimettessero per motivi di età o per altre serie ragioni (soprattutto di salute). Faceva parte del dibattito riguardante il testo sul ministero pastorale dei vescovi, che portò al decreto Christus Dominus, promulgato durante l’ultima sessione del Concilio nel 1965.

“Poiché il ministero pastorale dei vescovi riveste tanta importanza e comporta gravi responsabilità, si rivolge una calda preghiera ai vescovi diocesani e a coloro che sono ad essi giuridicamente equiparati, perché, qualora per la loro troppa avanzata età o per altra grave ragione, diventassero meno capaci di adempiere il loro compito, spontaneamente o dietro invito della competente autorità rassegnino le dimissioni dal loro ufficio”, dice Christus Dominus (n. 21).“Da parte sua, la competente autorità, se accetta le dimissioni, provvederà sia ad un conveniente sostentamento dei rinunziatari, sia a riconoscere loro particolari diritti”, conclude.

Riluttanza a stabilire uno specifico limite di età. Nelle fasi iniziali del Vaticano II, quando un certo numero di vescovi cercò di imporre uno specifico limite d’età, ci fu un’opposizione significativa – specialmente da parte dei vescovi più anziani, che sentivano di essere considerati potenziali dimissionari. Dopo tutto, un limite di età tassativo (alcuni proposero perfino 65 anni) avrebbe significato che una buona percentuale di padri avrebbero dovuto dimettersi al termine del Concilio. Fu abbastanza rassicurante promettere che la norma sarebbe stata applicata solo ai vescovi nominati di recente e non sarebbe stata retroattiva. Alcuni vescovi favorevoli alle riforme avevano spinto per un limite di età di 75 anni già durante la fase preparatoria del Vaticano II. Ma la sottocommissione conciliare rigettò la proposta nell’ottobre 1964 dicendo: “Sembra abbastanza violento imporre per legge a tutti i vescovi il limite di età di 75 anni”. Per paura di una rivolta generazionale e di un’interruzione del concilio, il Vaticano II evitò di stabilire un’età specifica o particolari criteri per le dimissioni episcopali. È abbastanza sorprendente vedere oggi che nessuno al Concilio Vaticano II percepì l’assoluta novità di tale disposizione, che era tratta dalle leggi delle moderne burocrazie, piuttosto che da una ecclesiologia di comunione o dalla storia più antica dell’episcopato. Ma a quel tempo, e su quel particolare argomento, il concilio procedette sull’esempio delle burocrazie civili.

Il testo conciliare sulle dimissioni dei vescovi ebbe conseguenze inaspettate. Avrebbe avuto un’importanza capitale nel lungo termine nella storia istituzionale della Chiesa. Paolo VI non vi si oppose, al contrario. I dibattiti su un’età in cui dare obbligatoriamente le dimissioni e la procedura di nomina dei vescovi, produssero un insieme molto potente dal punto di vista istituzionale. E questo diede a Paolo VI un enorme potere nella creazione di un nuovo episcopato postconciliare.

Il papa non è esattamente come un altro vescovo. Per un singolare paradosso, il tentativo del Vaticano II di modernizzare e razionalizzare l’efficienza della classe episcopale a favore di un episcopalismo post-Vaticano I, ebbe come risultato un decreto conciliare che aumentava il potere burocratico di chi lo deteneva – il papa e la curia romana – di scegliere e nominare i vescovi. L’episcopalismo del Vaticano II costruito sul papalismo del Vaticano I. È importante ricordare che in tutte le discussioni del Concilio Vaticano II e nel primo periodo post-conciliare, nessuno cercò di applicare la nuova disciplina delle dimissioni obbligatorie al vescovo di Roma. Più che un tabù, l’ufficio papale era considerato semplicemente come qualcosa di diverso. Ci fu saggezza nell’approccio. Ecco perché la decisione di Benedetto XVI di ritirarsi – e di applicare al papato la disciplina originariamente immaginata solo per i vescovi residenziali – deve essere vista come il primo passo in una nuova fase della storia del papato. Segna discontinuità, non solo dai testi, ma anche dall’intento del Vaticano II.

Ma era solo un primo passo, che ora richiede di essere seguito da altre misure per il profilo ecclesiologico dell’istituzione. Qui Joseph Ratzinger ha creato qualcosa di nuovo che non era neppure previsto nel direttorio per il ministero pastorale dei vescovi del 2004, Apostolorum Successores. Questo è diventato evidente dopo che Benedetto ha recentemente pubblicato un saggio sull’origine della crisi degli abusi sessuali nella Chiesa. “Il Vescovo emerito avrà cura di non interferire in nulla né direttamente né indirettamente nella guida della diocesi ed eviterà ogni atteggiamento ed ogni rapporto che potrebbe dare anche solo l’impressione di costituire quasi una autorità parallela a quella del Vescovo diocesano, con conseguente pregiudizio per la vita e l’unità pastorale della comunità diocesana, dice Apostolorum Successores.

A questo fine il Vescovo emerito svolgerà la sua attività sempre in pieno accordo ed in dipendenza dal Vescovo diocesano, in modo che tutti comprendano chiaramente che solo quest’ultimo è il capo e il primo responsabile del governo della diocesi”, dice il direttorio

Benedetto XVI e una rottura col passato. Tuttavia, il documento vaticano non dice nulla sul ritiro del vescovo di Roma. E questo non sorprende, considerando che fu scritto nel 2004, nel periodo della fine agonizzante del pontificato di Giovanni Paolo II, che chiaramente affermava la sua convinzione che un papa non dovesse mai ritirarsi. Fare congetture sulla possibilità di dimissioni papali in caso di malattia o incapacità era una pericolosa “zona proibita” per i teologi e i preti a quel tempo. Il pontificato di Benedetto XVI finì con l’essere una rottura col passato e una ripartenza su questo argomento, ma con poca preparazione a livello sia teologico che giuridico. E questo ha causato alcune difficoltà e confusione. La carica attuale di “papa emerito” fu strutturata da Benedetto e dal suo entourage nelle settimane tra il momento in cui annunciò il suo ritiro e il giorno in cui effettivamente si dimise. La cosa non è estranea al ruolo dell’arcivescovo Georg Gänswein, nominato da Benedetto prefetto della Casa Pontificia nel dicembre 2012, solo alcune settimane prima dell’annuncio delle sue dimissioni dal papato. Era per “proteggere” Gänswein nel futuro pontificato. Ma limitava anche la libertà del nuovo papa che sarebbe stato bloccato con un prefetto recentemente nominato e che chiaramente Benedetto voleva che continuasse a svolgere quel ruolo ben oltre le sue dimissioni il 28 febbraio 2013.Si può paragonare questa situazione alla malvista istituzione barocca del “cardinal nipote”. Prima che questa istituzione fosse abolita nel 1692, i papi creavano cardinale il loro protetto. La berretta rossa avrebbe fornito al suo assistente una posizione elevata una volta che fosse obbligato a lasciare la scena per fare spazio al nuovo papa e alla sua famiglia. L’elezione di un papa poteva portare ad un drammatico ribaltamento di situazione per un cardinal nipote, perfino un conflitto con il nuovo papa.

Ma questo non è accaduto con l’arcivescovo Gänswein dopo il ritiro di Benedetto XVI. Una situazione nuova necessita di una legislazione nuova. Il nepotismo nella Curia Romana aveva certi vantaggi che mancano al nepotismo contemporaneo. La situazione attuale è più complicata. È il prodotto di un miscuglio di una burocrazia dei tempi moderni e una corte papale rinascimentale, che riflette i lati negativi di entrambi i sistemi, e solo pochi lati positivi. Non è solo un problema di strutture curiali. È anche un problema teologico. Ecclesiologicamente, almeno nella Chiesa occidentale, il titolo di “papa” deriva dal fatto di essere vescovo di Roma. Istituzionalmente, la presenza di un “emerito” dal marzo 2013 mostra che non è possibile concepire un precedente vescovo di Roma allo stesso modo di vescovi precedenti di altre diocesi. La rinuncia di Benedetto XVI ha posto fine a molte finzioni nella Chiesa cattolica. Ad esempio, che l’istituzione del papato nella Chiesa e nel mondo sia simile a quella di un vescovo diocesano. Dobbiamo valutare onestamente il problema che la rinuncia di Benedetto XVI ha sollevato, specialmente considerando alcune delle prime decisioni che prese quando progettò di dimettersi. Prima di tutto, deve essere abolito l’incarico di “prefetto della Casa Pontificia”. Poi, il papa precedente dovrebbe essere chiamato “vescovo emerito di Roma” non papa emerito. Dovrebbe anche smettere di vestirsi di bianco. Inoltre, le sue relazioni con i media non dovrebbe esser lasciate alla discrezione dei suoi segretari personali, che possono avere ogni interesse nell’estendere la sua influenza oltre i giusti limiti. I media ufficiali vaticani dovrebbero gestire tutte le dichiarazioni e altre comunicazioni che il precedente papa desidera fare. E questo è solo per cominciare. L’imminente 150° anniversario del Vaticano I (1869-1870) è una buona opportunità per affrontare la questione. Può essere troppo tardi per l’attuale pontificato, ma certamente non per il futuro del papato.

Massimo Faggioli       “La Croix International” 23 aprile 2019 (traduzione: www.finesettimana.org)

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Crescono i cattolici nel mondo. Le statistiche tra il 2010 e il 2017

L’Osservatore Romano pubblica un articolo sulle principali dinamiche numeriche della Chiesa Cattolica nel periodo 2010-2017. Dato di partenza in questo arco di tempo, la crescita della popolazione cattolica mondiale del 9,8%, pari a 1.313 milioni nel 2017

Le informazioni sviluppate nel seguito sono finalizzate a fornire un’analisi quantitativa di grande sintesi dei fenomeni che hanno riguardato la Chiesa Cattolica nel periodo 2010-2017, con particolare riferimento alla distribuzione territoriale dei cattolici battezzati nel mondo, all’evoluzione dell’offerta di servizi pastorali, alla concentrazione delle diverse categorie di operatori pastorali sul territorio e alle potenzialità di rinnovo dell’attività pastorale da parte dei seminaristi maggiori.

Numeri in crescita. La popolazione cattolica mondiale è cresciuta fra il 2010 e il 2017 del 9,8%, passando da circa 1.196 milioni nel 2010 a 1.313 milioni nel 2017. Questo incremento è da ascriversi in maniera differenziata alle diverse situazioni continentali. Si registrano tassi di crescita superiori al dato mondiale in Africa (26,1%), in Asia (12,2%) e in Oceania (12,4%), mentre nelle altre due ripartizioni geografiche i tassi di variazione sono compresi tra il valore minimo di +0,3% dell’Europa e quello di +8,8 per cento dell’America.

            Nel rapporto tra il 2017 e il 2016, indici positivi del tasso di crescita dei cattolici caratterizzano tutte le ripartizioni territoriali: rispetto al dato mondiale dell’1,1%, i tassi di variazione in Africa e in Asia raggiungono rispettivamente il 2,5% e l’1,5%; l’Europa è il solo continente ad avere un trend quasi nullo (0,1%) mentre per l’America il tasso di crescita (0,96%) si attesta al di sotto di quello mondiale.

I diversi continenti. La distribuzione dei cattolici fra i continenti differisce nel 2017 notevolmente da quella della popolazione. L’America mantiene quanto a popolazione, un’incidenza sul totale planetario pari al 13,5%; di contro i cattolici raggiungono il 48,5%. In Asia l’incidenza dei cattolici è dell’11,1%, ma essa è notevolmente inferiore a quella che il contenente ha per quanto riguarda la popolazione mondiale (59,8%). L’Europa ha un peso per la popolazione inferiore di quasi quattro punti percentuali a quello dell’America, ma la sua incidenza nel mondo cattolico è quasi la metà di quella dei paesi americani (21,8%). Tanto per i paesi africani quanto per quelli oceanici il peso della popolazione sul totale mondiale è poco dissimile da quello dei cattolici (17% e 0,8%, rispettivamente per l’Africa e Oceania).

            Di particolare interesse appare la lettura dei dati per continente del numero relativo dei cattolici rispetto alla popolazione. Questi valori evidenziano al 2017, ma quelli dell’anno precedente risultano sostanzialmente simili, come la presenza dei cattolici sia differenziata nelle varie aree geografiche: si va da un 63,8% di cattolici presenti nella popolazione dell’America, al 39,7% in quella europea, fino al 3,3% in quella asiatica. Risulta di qualche rilievo sottolineare come l’area americana sia in sé molto differenziata: se nel Nord America la percentuale di cattolici è solo del 24,7%, in quella Centro Continentale e Antille (84,6%) ed in quella del Sud (86,6%) la presenza di cattolici appare ben più cospicua.

Il calo dell’Europa. Il risultato complessivo di queste dinamiche differenziate, sia per quanto riguarda gli aspetti demografici che la diffusione relativa di cattolici, conferma, per l’arco temporale considerato, l’accresciuto peso del continente africano (i cui cattolici salgono dal 15,5% a quasi il 17,8% di quelli mondiali) e il netto calo di quello europeo, per il quale la percentuale è scesa dal 23,8% del 2010 a meno del 22% del 2017. Per l’America si può parlare di consolidamento in positivo: ormai quasi la metà dei cattolici nel mondo appartiene a quel continente.

            In linea con l’evoluzione geografica della presenza di cattolici nel mondo, si registra un adeguamento delle strutture territoriali della Chiesa necessarie all’effettiva fruizione dell’offerta dei servizi pastorali. Quanto appena detto trova conferma nella distribuzione geografica delle circoscrizioni ecclesiastiche passare da 2.966 nel 2010 a 3.017 nel 2017, con un incremento di 1,7%. Nel dettaglio, il maggior aumento si registra in Africa (da 525 a 541 unità, pari al 3%), seguito da Asia con un aumento attorno al 2,3%, mentre in Europa il numero delle circoscrizioni ecclesiastiche (759 unità nel 2017) è cresciuto di appena 1,2%.

            Oltre alle strutture necessarie alla fruizione dei servizi pastorali, si può ora analizzare la dinamica di alcune forze di apostolato, nell’ordine vescovi, sacerdoti, diaconi permanenti, religiosi professi non sacerdoti, religiose professe, membri di istituti secolari, missionari laici e catechisti. Il complesso di tali operatori ammonta a fine 2017 a 4.666.073 unità, con un calo di poco meno del 2% rispetto al 2010. La ripartizione tra le diverse componenti è abbastanza difforme da continente a continente. Nella media mondiale, il rapporto percentuale tra l’insieme dei chierici e il totale delle forze di apostolato risulta alla fine del 2017 del 10%, con i valori inferiori in Africa (6,4%) e in America (8,4%) mentre con i valori superiori in Europa (19,3%) e in Oceania (18,2%). In Asia la percentuale è prossima a quella mondiale (10,4%).

Cresce il numero dei vescovi in America. Il numero dei vescovi nel mondo, tra il 2010 e il 2017, è aumentato del 5,6%, passando da 5.104 a 5.389 unità, con un incremento marcato in America (6,7%), mentre in Africa (3,6%) e in Europa (5,2%) i valori si collocano sotto la media. A fronte di tali dinamiche differenziate la distribuzione dei vescovi per continente, è rimasta sostanzialmente stabile nell’arco temporale considerato, con una maggiore concentrazione sul totale in America e in Europa, che da sole rappresentano quasi il 70 per cento. In Africa, dove la presenza di vescovi è andata aumentando in modo contenuto, la quota dei vescovi sul totale mondiale scende dal 13,7% nel 2010 al 13,4% nel 2017.

Il numero complessivo dei sacerdoti secolari e religiosi è alla fine del 2017 pari a 414.582. Rispetto all’anno precedente, quando il numero dei sacerdoti risultò di 414.969, vi è stato un calo di 387 unità. Questo vale a livello planetario in quanto per i singoli continenti le dinamiche sono differenziate. A fronte di significativi incrementi per l’Africa e per l’Asia, dove si registra un +2,6% e un +2,2%, rispettivamente, e ad una quasi stazionarietà per l’America, si pone l’Europa con un calo dell’1,7% e l’Oceania con un -2,1%. Da un esame di più lungo periodo emerge in maniera netta l’evoluzione di questo fenomeno.

I sacerdoti, i religiosi e gli operatori pastorali. A partire dal 2010 la consistenza dei sacerdoti ha presentato nel contesto mondiale delle sostanziali variazioni: si è osservata cioè dapprima una crescita che ha toccato il massimo nel 2014 (e rispetto al quale il valore iniziale del 2010 era inferiore dello 0,86%) e poi un costante calo che nel 2017 fa raggiungere un valore inferiore dello 0,3% rispetto alla punta più alta. Da una tale descrizione sembrerebbe si stia attraversando un periodo di crisi e che la popolazione sacerdotale dell’ultimo triennio sia caratterizzato da un trend di lenta decrescita inaugurato nel 2014. Tuttavia una prima sommaria analisi territoriale svolta a livello di subcontinenti mostra che i comportamenti locali sono profondamente differenziati tra loro, sicché l’evoluzione della popolazione sacerdotale nel mondo presa da sola cela una realtà multiforme e densa di significato. Già, infatti, se si considera a parte la sola Africa si rileva che nel periodo considerato il numero dei sacerdoti è andato via via sempre crescendo, realizzando tra il 2010 e il 2017 un incremento di 23,7%, essendo il numero dei sacerdoti passato da 37.527 nel 2010 a 46.421 nel 2017.

            L’America per tutto il periodo si mantiene pressoché stazionaria, ma passando alle varie partizioni del continente si notano stridenti disparità: nell’America del Nord si assiste ad una continua decrescita che si concreta in un calo del 9%. Nell’America Centro Continentale, nelle Antille e in quella Meridionale, l’andamento è immune da crisi ed è costantemente crescente, in modo tale che per i tre subcontinenti i valori del 2017 superano rispettivamente di 7,2%, di 10,6% e di 5,3% i valori iniziali. Nel Medio Oriente l’andamento ha seguito fino al 2017 una chiara decrescita; viceversa nella rimanente Asia Sud Orientale e nell’intero periodo di osservazione, si assiste ad una crescita costante e significativa che porta il 2017 ad un livello superiore di 19% rispetto a quello del 2010. Aspetti simili all’America del Nord si riscontrano in Europa e in Oceania. Nella prima il calo per tutto il periodo è stato dell’8,7% e per l’Oceania il dato del 2017 è inferiore di 4,0% rispetto a quello del 2010.

            Una variabilità ancora più marcata emerge se si opera la distinzione tra sacerdoti diocesani e sacerdoti religiosi. Mentre il numero dei primi nel pianeta è passato da 277.009 nel 2010 a 281.810 nel 2017, manifestando quindi una crescita dell’1,7%, quello dei sacerdoti religiosi appare in costante declino: erano, infatti, 135.227 nel 2010, scendono a 132.772 sette anni più tardi.

            La popolazione dei diaconi permanenti, sia diocesani che religiosi, continua a mostrare un trend di crescita elevato anche nel 2017: il numero, infatti, aumenta in questo anno dell’1,3% rispetto al dato del 2016. I diaconi costituiscono il gruppo di operatori pastorali in più forte evoluzione nel corso del tempo: 39.564 nel 2010 raggiungono le 46.894 unità nel 2017, con una variazione relativa di +18,5%. Se l’aumento si è manifestato ovunque, tuttavia, i ritmi di accrescimento permangono diversi fra le varie aree continentali: in Europa il loro aumento è significativo, essendo passati in sette anni da 13.151 a 14.819. Anche in America la dinamica è sostenuta: nel 2010 questo continente ne contava 25.441, mentre nel 2017 il numero sale a 30.813 unità. Si sottolinea che questa figura di operatori è fortemente concentrata e polarizzata dal punto di vista territoriale. In America (specialmente quella del Nord) e in Europa si concentra nel 2017 oltre il 97% dei diaconi mondiali, mentre è scarsa la presenza in Africa, in Asia e in Oceania: questi continenti rappresentano insieme appena il 3% della consistenza globale. Nonostante la forte espansione nel corso del tempo di tale categoria di operatori pastorali, la loro opera di coadiuvare i sacerdoti nell’espletamento dell’esercizio a favore dei fedeli cattolici presenti sul territorio rimane ancora contenuta. Nel mondo la distribuzione dei diaconi ogni 100 sacerdoti presenti, infatti, è appena pari a 11,3% nel 2017 e va da un minimo di 1 diacono per 100 sacerdoti in Africa e in Asia ad un massimo di 25 in America a causa della fortissima presenza dei diaconi soprattutto nell’America del Nord. Per le altre aree il rapporto assume valore intermedio: 8,5% in Europa e 9,8% in Oceania.

            Il gruppo dei religiosi professi non sacerdoti è andato riducendosi del 5,7% tra il 2010 e il 2017, essendo passati da 54.665 a 51.535 unità. Il trend decrescente è comune ai vari continenti con l’eccezione di Asia e Africa dove si osservano variazioni di +16,6% e di +2,5%, rispettivamente. Nel 2017 il peso dei religiosi professi in questi due continenti rappresenta complessivamente una quota di oltre il 40% del totale (da meno del 35% nel 2010), superando così la percentuale presente in America (28%). L’Europa (con variazione di -15,9% nel periodo) risulta essere sempre il continente con il maggior numero di professi non sacerdoti (14.865 unità nel 2017) con un peso relativo minore di quello riscontrato all’inizio del periodo.

            Le religiose professe rappresentano nel 2017 complessivamente un gruppo di 648.910 unità, per il 35,7% presenti in Europa, seguite dall’Asia che raggiunge quasi le 173 mila unità e dall’America che conta oltre 163 mila consacrate. Rispetto al 2010, il gruppo registra a livello mondiale una flessione del 10,1%. Il calo riguarda tre continenti (America, Europa e Oceania), con variazioni negative anche di rilievo (16,3% in America, 19,1% in Europa e 19,4% in Oceania). In Africa e in Asia, invece, l’aumento è sostenuto, superiore all’ 11,5% per il primo e al 4,6% per il secondo. La crisi che nel corso degli anni ha interessato le religiose professe non accenna, quindi, ad attenuarsi ed è utile notare, come risultato finale di queste dinamiche territoriali differenziate, che la frazione delle religiose in Africa e in Asia sul totale mondiale passa dal 32,1 al 38,1 per cento, a discapito dell’Europa e dell’America la cui incidenza si riduce nell’insieme dal 66,7% al 60,8%.

            Non è privo di interesse considerare le variazioni di altre categorie di operatori pastorali, pure attive nell’azione di catechesi della Chiesa Cattolica: in modo specifico, i membri degli Istituti Secolari, i missionari laici e i catechisti.

I membri degli Istituti Secolari (maschili e femminili) costituiscono la realtà numericamente meno significativa. Essi presentano un andamento complessivo in declino, con un calo del 15,5% essendo il numero passato da 26.800 nel 2010 a 22.642 nel 2017. Tale risultato si va a determinare nonostante l’unico continente che abbia presentato, oltre l’America, una variazione negativa, sia stato quello europeo. L’Europa, infatti, che nel 2010 concentrava circa il 67% del totale mondiale, rappresenta nel 2017 ancora una quota del 61% circa, determinando così il segno del bilancio globale.

Il numero dei missionari laici è, invece, passato dalle 335.502 unità nel 2010 alle 355.800 nel 2017, con un incremento di 6,1% in sette anni. Particolarmente significativo è il risultato di questa categoria di operatori pastorali in Europa, dove la consistenza dei missionari laici è aumentata dell’80,4%, superando le 11 mila unità a fine periodo. Nonostante tale sviluppo, tuttavia, il fenomeno dei missionari laici rimane una tradizione quasi esclusivamente americana, con una percentuale di 86,2% del totale mondiale a fine 2017 (sostanzialmente stabile dal 90% di sette anni prima).

            I catechisti, infine, costituiscono la realtà numericamente più significativa, con una consistenza di oltre 3,12 milioni di unità a fine 2017. Asia e Africa mostrano una dinamica evolutiva vivace, con tassi di crescita significativi, mentre Europa ed America registrano una leggera flessione. Anche per questo gruppo, si osserva una concentrazione relativamente prevalente nel continente americano, con la presenza di quasi 1,8 milioni di catechisti a fine 2017, corrispondenti a poco meno del 57% mondiale.

            Dopo un periodo di costante e sostenuto aumento del numero delle vocazioni sacerdotali, che ha avuto il momento di maggiore crescita nel 2011, successivamente prende l’avvio una lenta ma continua discesa che riporta il dato del 2017 ad un valore pari al 96,9% di quello del 2010. I candidati al sacerdozio nel pianeta passano da 118.990 nel 2010, a 120.616 nel 2011, a 120.051 nel 2012, a 118.251 nel 2013, a 116.939 nel 2014, a 116.843 nel 2015, a 116.160 nel 2016 e a 115.328 nel 2017, con un calo del 3,1% nell’intero periodo dal 2010. Le diversità geografiche risultano assai marcate. Mentre in Africa e in Asia, ma in special modo nel primo continente, gli andamenti si mostrano rilevanti (+16,1% in Africa e +1,2% in Asia), in Europa e in America si registrano rispettivamente diminuzioni del 16,3 e 13,5 per cento. Anche il ruolo dei continenti alla crescita potenziale del rinnovo delle compagini sacerdotali cambia nel corso del periodo osservato. Con riferimento all’anno 2010 si osserva che l’Europa contribuiva per il 17,3% al totale mondiale, l’America per il 30,7%, l’Asia per il 28,5% e l’Africa per il 22,6%. Sette anni più tardi il contributo americano scende al 27,3%, quello europeo al 14,9%, mentre l’Asia sale al 29,8% e l’Africa al 27,1%.

Le conclusioni. Al termine dell’analisi quantitativa, condotta sia in termini di consistenza che di variazioni, si possono evidenziare i principali cambiamenti che hanno coinvolto la Chiesa Cattolica nel periodo 2010-2017.

            In breve, nel periodo considerato, il numero dei cattolici battezzati nel mondo è aumentato in maniera significativa, accompagnato dalla maggiore diffusione delle circoscrizioni ecclesiastiche. Prosegue in questi anni una crescente dicotomia tra le dinamiche dei continenti emergenti, Africa e Asia, e quella dell’Europa, che sta progressivamente perdendo centralità quale modello di riferimento, in coerenza con gli sviluppi demografici di fondo. L’America, complessivamente, mantiene una posizione intermedia, mentre l’Oceania, demograficamente meno rilevante, sembra costituire una realtà a sé stante. Quanto all’evoluzione dei vari operatori pastorali si osserva che, a livello planetario e continentale, soltanto i vescovi, i diaconi permanenti e i missionari laici, presentano una dinamica sempre positiva. Le altre categorie di operatori sono in calo, meno rilevante per i sacerdoti e molto più accentuata per i religiosi non sacerdoti e le religiose professe. Tra i continenti, spicca la vitalità dell’Africa e dell’Asia, gli unici due per i quali tutte le categorie di operatori pastorali presentano una crescita per di più molto marcata. In Europa appaiono particolarmente vistosi i cali dei religiosi non sacerdoti, delle religiose professe e anche dei sacerdoti. Una flessione simile a quella europea è evidenziata dall’America, che comunque è riuscita a garantire un lieve incremento nel numero dei vescovi, dei sacerdoti diocesani, dei diaconi permanenti e dei missionari laici.

            Si può sottolineare, in definitiva, che a fronte della contrazione numerica di alcune categorie di operatori pastorali, e cioè i sacerdoti, i religiosi non sacerdoti, le religiose professe e i membri di istituti secolari, a livello planetario, risultano in crescita i diaconi permanenti, i missionari laici ed i catechisti. Tali tendenze, dunque, evidenziano come si siano manifestate, in questi ultimi anni, delle scelte differenziate nel campo degli operatori pastorali e che sia in corso un riequilibrio delle varie categorie di operatori con fenomeni importanti di modifica delle preferenze e delle motivazioni nell’attuazione della missione pastorale. Si può notare, ad esempio, nel caso dei diaconi permanenti, dei catechisti e dei missionari laici, che il maggior incremento in termini assoluti e relativi si è verificato in Europa ed in America, i continenti meno attivi per quanto riguarda lo sviluppo di altre categorie di operatori pastorali.

Il numero dei candidati al sacerdozio sembra consolidarsi su un trend di lenta ma graduale contrazione: tra il 2010 e il 2017 i seminaristi maggiori sono globalmente diminuiti del 3,1%. Il quadro dei flussi continentali appare soddisfacente nella chiesa africana e asiatica, mentre in Europa ed in America la diminuzione appare molto evidente.

Vatican news  25 aprile 2019

www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-04/statistiche-chiesa-cattolica-osservatore-romano.html

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CINQUE PER MILLE

5 per mille, è tornato il tetto. La conferma dell’Agenzia delle Entrate

Era un sospetto: possibile che la somma del contributo per gli ammessi e per gli esclusi faccia esattamente 500 milioni? Adesso c’è la conferma dell’Agenzia delle Entrate: nel 2017 gli italiani hanno destinato al non profit una cifra maggiore di quella stanziata a copertura del 5‰ e di conseguenza è stato ricalcolato l’importo del contributo di ogni singolo ente.                Continua

VITA newsletter 25 aprile 2019

www.vita.it/it/article/2019/04/23/5-per-mille-e-tornato-il-tetto-la-conferma-dellagenzia-delle-entrate/151353

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CITAZIONI

Fulton Sheen: chiacchieri solo o fai davvero l’amore?

Coloro la cui conoscenza del sesso non è stata sublimata nel mistero dell’amore, e che sono quindi i più frustrati, ne parlano tantissimo

            Una donna non può amare un uomo se non lo conosce almeno un poco. Il “presentatemelo” è appunto l’esigenza preliminare di quella conoscenza che precede l’amore. Anche la “fanciulla dei suoi sogni” idoleggiati dal giovincello ha bisogno d’essere costruita in base ad alcuni frammenti di conoscenza. Ciò che è ignorato non è amato.

            Perfino negli animali l’amore ha inizio da quella conoscenza che procede dai sensi, ma la conoscenza dell’uomo viene dai sensi e dall’intelletto insieme. È come l’amore proviene dalla conoscenza, così l’odio proviene dalla mancanza di conoscenza. Il bigottismo è frutto dell’ignoranza. Sebbene all’inizio la conoscenza sia la condizione dell’amore nelle sue ultime fasi l’amore può accrescere la conoscenza.

            Un marito e una moglie che abbiano vissuto molti anni insieme hanno un nuovo genere di conoscenza reciproca che supera in profondità qualsiasi parola detta, o qualsiasi indagine scientifica: è la conoscenza che nasce dall’amore, una specie di percezione intuitiva di ciò che è nella mente e nel cuore dell’altro. Può darsi che noi amiamo più che non conosciamo. Una persona semplice in buona fede può amare Dio più di quanto non lo ami un teologo e avere, quindi, una comprensione più affinata che non quella degli psicologi riguardo ai modi in cui Dio agisce sui cuori degli uomini. La sola bontà, isolata dalla conoscenza, non solleciterebbe l’amore; bisogna prima che sia proposta alla mente e compresa come bene.

            La conoscenza può essere tanto astratta che motiva. La geometria è una conoscenza astratta, ma la conoscenza del sesso è una conoscenza emotiva. Un triangolo isoscele non suscita passioni, ma la conoscenza sessuale può suscitarli. Coloro che invocano un’educazione sessuale indiscriminata per prevenire le promiscuità dei sessi dimenticano che, a causa delle incidenze di carattere emotivo, la conoscenza del sesso può indurre disordini sessuali.

            Si obietta che se nessun uomo sapesse che in una casa c’è la febbre tifoidea, gli passerebbe la voglia di andarci. Giusto; ma la conoscenza del sesso non è la conoscenza della febbre tifoidea. Nessuno prova una passione ”tifoidea” che lo induca ad abbattere le porte della quarantena, mentre l’essere umano sperimenta una passione sessuale che ha bisogno di controllo. Una delle ragioni psicologiche per cui le persone per bene rifuggono dalle volgari discussioni sul sesso e che questa forma di conoscenza è per sua natura incomunicabile. Tanto personale è il suo metodo di comunicazione che i due interessati sono riluttanti a generalizzarlo. Esso è troppo sacro per venir profanato.

È una realtà psicologica che coloro la cui conoscenza della vita sessuale sia incanalata nel matrimonio e in un unico amore sono i meno proclivi a ritirarla dal chiuso del loro intimo mistero per trasportarla nel campo della pubblica discussione. E non perché il sesso li abbia delusi, ma perché esso si è trasformato nell’amore, e due creature soltanto possono condividerne i segreti. D’altra parte, coloro la cui conoscenza del sesso non è stata sublimata nel mistero dell’amore, e che sono quindi i più frustrati, sono proprio quelli che incessantemente sentono il bisogno di parlare di questi argomenti. I mariti e mogli le cui unioni sono caratterizzate dall’infedeltà sono i più loquaci in materia sessuale, mentre i padri e le madri che hanno avuto un matrimonio felice non ne parlano mai. La loro conoscenza, infatti, si è mutata in amore, per cui non sentono il bisogno di chiacchierarne. Coloro invece che presumono di intendersi profondamente di sesso, in realtà non sanno nulla del suo mistero, perché altrimenti non sarebbero così loquaci in materia.

            da        Fulton Sheen, Tre per sposarsi

https://it.aleteia.org/2018/08/17/fulton-sheen-chiacchiere-sesso-fare-amore/La legge per tutti        31 marzo 2019

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CONGRESSI – CONVEGNI – SEMINARI

La XXI Settimana nazionale sulla spiritualità coniugale e familiare.

            Una santità concreta, impastata di fragilità e fatica, ma non per questo meno preziosa. E’ l’orizzonte all’interno del quale gli sposi sono chiamati a vivere il Vangelo del matrimonio. Ad Assisi la XXI Settimana nazionale sulla spiritualità coniugale e familiare. Don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della Cei: partire dalla “rivoluzione della tenerezza” e “allenare i muscoli del cuore nel perdono” 

“Nei flutti della post-modernità, la tenerezza sponsale resta il grembo del quale la comunità cristiana è chiamata a prendersi cura, per accompagnare i suoi germogli alla statura adulta”. Parte dalla “rivoluzione della tenerezza” auspicata da Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, don Paolo Gentili, anticipando al Sir alcuni spunti di riflessione sulla XXI Settimana nazionale di studi sulla spiritualità coniugale e familiare che si svolge dal 25 al 28 aprile ad Assisi sul tema “Gaudete et exsultate nell’Amoris lætitia: vie di santità coniugale e familiare”. Nell’esortazione apostolica, infatti, il Pontefice afferma: “Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza” ed è “partecipando a questa rivoluzione”, assicura Gentili, che “in un lavoro artigianale di ricostruzione quotidiana dell’amore, marito e moglie possono vivere la Gaudete et exsultate nell’Amoris lætitia. L’orizzonte è quello di una santità concreta, impastata con la fragilità umana e la complessità dei ritmi moderni, e proprio per questo, profumata della novità del Vangelo”.

Francesco, sottolinea ancora Gentili, “scrollandosi di dosso secoli di storia che hanno contrapposto verginità e matrimonio, addomestica le nostre paure verso la carne” ricordando in Amoris lætitia che “Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso per le sue creature”. In tale contesto, afferma il Papa, “l’erotismo appare come manifestazione specificamente umana della sessualità. In esso si può ritrovare il significato sponsale del corpo e l’autentica dignità del dono”. Qui, annota il responsabile dell’Ufficio Cei, “si avverte tutta la forza delle catechesi sull’amore umano di San Giovanni Paolo II sulla sacramentalità del corpo”. E se oggi “siamo in un contesto culturale dove spesso il corpo è banalizzato nel suo significato più profondo”, la spiritualità, “nella logica dell’incarnazione, è tanto più alta quanto più concreta e espressa nel dono del corpo”.

            Don Gentili si sofferma sulle difficoltà e le fatiche della vita di coppia tra figli da crescere, lavoro, quotidianità, e mette in guardia dal “logorio” che “in molti casi” finisce per silenziarla. Ma guai ad accontentarsi di essere “genitori efficienti”; l’amore va sempre coltivato: “richiede accompagnamento e cura quotidiana”. Per questo, nel corso dell’incontro, si rifletterà su come “andare oltre le interruzioni dell’amore, allenando i muscoli del cuore nel perdono da vivere tutti i giorni”.

            Pierluigi Proietti, che con la moglie Gabriella costituisce la coppia di sposi collaboratori dell’Ufficio Cei, invita a “stare con i piedi per terra” e a contrapporre alla “cultura del provvisorio e alla fragilità dei legami l’audacia di un progetto di vita”. La moglie Gabriella spiega che in famiglia occorre prendersi cura l’uno dell’altro, “essere disposti nella coppia a crescere e a far crescere l’altro; con i figli a dare la libertà e il permesso di essere se stessi e di fiorire secondo i propri talenti e le proprie vocazioni”. Ma occorre inoltre “vivere il matrimonio da alleati contro un comune nemico: la discomunione sempre in agguato, complici nel bene, e non in competizione l’uno con l’altro”. E ancora, farsi carico dell’altro, “soprattutto delle sue fragilità, accogliendole e zappettandole amorevolmente giorno per giorno, senza essere passivi nel subire né frettolosi e pretenziosi nell’esigere”. Infine “mollare l’osso: chiedere perdono e perdonarsi ogni giorno settanta volte sette”.

            Dunque la comunione familiare può essere “un cammino di santificazione”? Sì, rispondono i coniugi Proietti, a condizione che sia “un cammino verso la piena umanizzazione” nel quale santità non è sinonimo di masochismo ma di beatitudine, ossia di felicità.

            Una “santità della porta accanto, dell’ordinario”, che “non fa notizia come quella straordinaria dei grandi santi, ma può spostare ugualmente le montagne e sgretolare la ‘durezza del cuore’ che tutti abbiamo”. E se la famiglia è “in continua conversione e lavoro su di sé, in un vero cammino di santificazione, cioè di progresso quotidiano verso una maggiore pienezza e felicità di tutti i suoi membri, nella consapevolezza che non si arriva mai alla perfezione ma, all’interno dei limiti di tutti, si può crescere”, finisce per essere attrattiva, assicura ancora Gabriella. “Quando le nostre coppie rifioriscono – racconta -, altre coppie si avvicinano e chiedono ‘ma cosa è successo? Siete cambiati…come avete fatto? Possiamo venire anche noi?”. “Quella fioritura – conclude – è il loro cammino di santificazione, è il Vangelo del matrimonio che sparge semi di evangelizzazione”.

Giovanna Pasqualin Traversa          Agenzia SIR 24 aprile 2019

agensir.it/chiesa/2019/04/24/famiglia-don-gentili-cei-accogliere-la-rivoluzione-della-tenerezza-e-allenare-il-cuore-al-perdono

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DALLA NAVATA

2° Domenica di Pasqua- Anno C – 28 aprile 2019

Atti Apostoli   05, 14. Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.

Salmo              117, 04. Dicano quelli che temono il Signore: «Il suo amore è per sempre».

Apocalisse        01, 19. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».

Giovanni         ..20, 30. Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

Le ferite di Gesù, alfabeto dell’amore

Venne Gesù a porte chiuse. In quella stanza, dove si respirava paura, alcuni non ce l’hanno fatta a restare rinchiusi: Maria di Magdala e le donne, Tommaso e i due di Emmaus. A loro, che respirano libertà, sono riservati gli incontri più belli e più intensi.

            Otto giorni dopo Gesù è ancora lì: l’abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare; li ha inviati per le strade, e li ritrova chiusi in quella stanza; eppure non si stanca di accompagnarli con delicatezza infinita.

Si rivolge a Tommaso che lui stesso aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, ad essere rigoroso e coraggioso, vivo e umano. Non si impone, si propone: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.

            Gesù rispetta la fatica e i dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del credere; non si scandalizza, si ripropone. Che bello se anche noi fossimo formati, come nel cenacolo, più all’approfondimento della fede che all’ubbidienza; più alla ricerca che al consenso!

            Quante energie e quanta maturità sarebbero liberate! Gesù si espone a Tommaso con tutte le ferite aperte. Offre due mani piagate dove poter riposare e riprendere il fiato del coraggio. Pensavamo che la risurrezione avrebbe cancellato la passione, richiusi i fori dei chiodi, rimarginato le piaghe. Invece no: esse sono il racconto dell’amore scritto sul corpo di Gesù con l’alfabeto delle ferite, incancellabili ormai come l’amore stesso.

            La Croce non è un semplice incidente di percorso da superare con la Pasqua, è il perché, il senso. Metti, tendi, tocca. Il Vangelo non dice che Tommaso l’abbia fatto, che abbia toccato quel corpo. Che bisogno c’era? Che inganno può nascondere chi è inchiodato al legno per te? Non le ha toccate, lui le ha baciate quelle ferite, diventate feritoie di luce. Mio Signore e mio Dio.

            La fede se non contiene questo aggettivo mio non è vera fede, sarà religione, catechismo, paura. Mio dev’essere il Signore, come dice l’amata del Cantico; mio non di possesso ma di appartenenza: il mio amato è mio e io sono per lui. Mio, come lo è il cuore e, senza, non sarei. Mio come il respiro e, senza, non vivrei. Tommaso, beati piuttosto quelli che non hanno visto e hanno creduto!

 Una beatitudine alla mia portata: io che tento di credere, io apprendista credente, non ho visto e non ho toccato mai nulla del corpo assente del Signore. I cristiani solo accettando di non vedere, non sapere, non toccare, possono accostarsi a quella alternativa totale, alla vita totalmente altra che nasce nel buio lucente di Pasqua.

p. Ermes Rochi, OSM

www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=45708

www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?criteri=1&liturgia=CP020&data=2019-04-28&autore=832

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DIRITTO DI VISITA

Diritto di visita escluso se la figlia rifiuta di vedere il padre

Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 11170, 23 aprile 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_34371_1.pdf

Sospese le visite tra il genitore e il figlio adolescente, affidato e collocato presso l’ex, che ha rifiutato di avere con lui ogni rapporto.

 Appare corretta la decisione del giudice che, anziché imporre rapporti affettivi per loro natura incoercibili, decide di favorire attraverso i servizi sociali una normalizzazione dei rapporti tra genitore e figlio.

            Lo ha precisato la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso di un padre che aveva chiesto al giudice di regolare il diritto di visita con la figlia sedicenne affidata e collocata presso la madre.

La Corte territoriale aveva disposto l’affido esclusivo della minore alla madre e aveva dato atto che la stessa, ormai sedicenne, nel corso dell’espletata CTUsi era ripetutamente espressa nel senso di non voler intrattenere un rapporto continuativo con il padre.

            Pertanto, il giudice a quo aveva confermato la decisione di sospendere le visite padre e figlia, demandando ai servizi sociali il compito di monitorare la situazione e favorire la ripresa dei rapporti con il genitore.

L’orientamento non coercitivo della Corte di Appello, spiegano gli Ermellini nell’ordinanza, appare correttamente motivato dall’esigenza di non imporre rapporti affettivi per loro natura incoercibili. Al più, è corretta, invece, la decisione di favorire attraverso i servizi sociali una normalizzazione dei rapporti padre-figlia.

            Nulla di fatto anche per l’istanza dell’uomo tesa a rivedere l’importo del mantenimento dovuto alla ragazza: la sentenza impugnata ha congruamente motivato il rifiuto della riduzione dell’assegno di mantenimento, che può essere disposta solo in presenza di circostanze nuove ed imprevedibili rispetto alla data di conclusione del giudizio di merito che nella specie risultano assenti.

            Infatti tutte le circostanze che l’uomo ha evidenziato, erano già emerse nei precedenti gradi di giudizio e risultavano essere già state prese in considerazione dal giudice di merito e pertanto correttamente la Corte di Appello ha confermato la pronuncia considerato che non sussistono fatti che non fossero già preesistenti.

Lucia Izzo      Studio Cataldi            28 aprile 2019

www.studiocataldi.it/articoli/34371-diritto-di-visita-escluso-se-la-figlia-rifiuta-di-vedere-il-padre.asp

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Manifesto. Verso le Europee: i 10 punti che stanno a cuore alle famiglie

            La Federazione delle associazioni familiari cattoliche della Ue ha fissato i dieci punti indispensabili per le aprire la strada a politiche coerenti per genitori e figli.

Famiglia come momento inclusivo. Come ponte di incontro e di dialogo per l’Europa. Come occasione buona e “sorridente” per far convergere tutte le forze politiche verso alcuni temi fondamentali, dalla natalità all’educazione, dalla conciliazione famiglia-lavoro al rispetto dell’istituto matrimoniale, dalla difesa della vita fin dal concepimento al ruolo dei genitori. Prima che la campagna elettorale per le Europee entri nelle fase parossistica e tutti siano disposti a promettere tutto e di più, compreso un impegno per la famiglia che almeno in Italia, purtroppo, non ha mai avuto piena cittadinanza, ricordiamo i dieci punti del Manifesto diffuso dalla Federazione delle associazioni familiari cattoliche europee (Fafce) a cui aderisce il nostro Forum delle associazioni familiari.

Alla Fafce, la più importante rete associativa familiare di ispirazione cristiana del continente, aderiscono una ventina di associazioni nazionali da altrettanti Paesi europei in rappresentanza di alcuni milioni di famiglie. In Italia, com’è noto, il Forum rappresenta 47 associazioni e 18 Forum regionali che a loro volta sono composti da Forum locali e da 582 associazioni per un totale di circa 5 milioni di famiglie. “È importante fare riferimento a questo testo perché è quello redatto e condiviso congiuntamente dalle 24 associazioni europee Fafce e tradotte in tutte le lingue – osserva Vincenzo Bassi, responsabile giuridico del Forum e vicepresidente della Federazione delle associazioni europee – perché sulla famiglia si è trovato un comune denominatore. In una realtà di divisione e di contrasti, abbiamo fatto in modo che la famiglia sia motivo di unità”.

Un traguardo tutt’altro che scontato. La discussione ha riguardato soprattutto il tema della complementarietà uomo-donna ma gli esperti sono riusciti a trovare sinteticamente una formulazione accettata da tutti che, pur ribadendo i valori di riferimento, ha evitato di sconfinare su polemiche come quella del gender. Concetti quindi espressi con un linguaggio nuovo, assolutamente chiaro sotto il profilo antropologico, ma inclusivo e non divisivo. “Il nostro obiettivo è che in questo manifesto si possano riconoscere politici di ogni schieramento, dalla destra alla sinistra – riprende Bassi – perché quanto espresso in questi dieci punti riassume efficacemente i valori cristiani senza sottolineature confessionali, con l’obiettivo principale di rilanciare la denatalità che, con variazioni diverse, è la grande emergenza dell’Europa. Abbiamo dimostrato che si possono dire le cose positive, chiare, profonde senza per forza schierarsi contro qualcuno”.

E il presidente del Fafce, Antoine Renard, illustrando nei giorni scorsi il senso del manifesto ha detto: “Deve arrivare un tempo nuovo in cui la famiglia sia considerata come risorsa politica”. Il “Manifesto per le elezioni europee” deve diventare un impegno “a riconoscere sempre il ruolo fondamentale della famiglia come unità di base della società”, in tutte le decisioni politiche che si affronteranno nella prossima legislatura.

Manifesto per le elezioni europee dal 23 al 26 maggio 2019

Come candidato per le elezioni europee, mi impegno a riconoscere sistematicamente il ruolo fondamentale della famiglia come unità di base della società. Quando si prendono decisioni politiche, prometto di impegnarmi, in particolare, a quanto segue:

  1. Verso un patto europeo per la natalità. L’inverno demografico è un’emergenza silenziosa che riguarda tutti i Paesi europei. L’Europa ha bisogno di una primavera demografica. I nostri figli sono il nostro bene comune. Mi impegno ad aumentare la consapevolezza in merito al declino demografico europeo, proponendo misure e strumenti concreti per cambiare gli attuali orientamenti.
  2. Applicazione del “Mainstreaming familiare” La famiglia è la pietra angolare della società. L’Unione europea deve tenere conto delle famiglie europee in tutte le sue decisioni, nel rispetto del principio di sussidiarietà. Mi impegno a promuovere il concetto di “impatto familiare” (Family mainstreaming) per ogni politica settoriale.
  3. Promuovere le voci delle famiglie. Le associazioni familiari sono la voce delle famiglie, articolandone autenticamente i loro bisogni e aumentando l’impegno civico. Mi impegno a far riconoscere il contributo e il ruolo delle associazioni familiari nella definizione e nello sviluppo dei programmi europei.
  4. Un’economia al servizio della famiglia. Le famiglie sono la fonte di resilienza per le società e aiutano ad alleviare le difficoltà delle finanze pubbliche. Mi impegno a sostenere politiche pubbliche che riconoscano la dignità della famiglia e il suo ruolo economico fondamentale per il bene comune, lavorando a favore della giustizia fiscale e promuovendo buone pratiche, come la “Carta europea della famiglia”.
  5. Necessario un lavoro dignitoso per ogni famiglia. La famiglia è un naturale attore-chiave per promuovere l’inclusione sociale. Mi impegno a lavorare per politiche che considerano il mercato del lavoro non solo in termini di economia e finanza, ma si focalizzino principalmente sulla persona e sui suoi talenti, come attiva modalità di partecipazione al bene comune e come strumento per prevenire la povertà, Inoltre mi impegno anche a riconoscere il valore del volontariato e del lavoro domestico svolto delle madri e dai padri di famiglia, come fondamentali contributi di coesione sociale.
  6. Equilibrio tra vita familiare e impegno professionale. La famiglia dovrebbe essere il punto di partenza da cui partire per la definizione delle condizioni lavorative, per offrire modi di vita e condivisione del tempo tali da garantire il mantenimento di condizioni di vita così da garantire il mantenimento di dinamiche demografiche positive e contribuire così alla coesione sociale. Mi impegno a promuovere una migliore articolazione dell’equilibrio tra vita familiare e vita professionale a beneficio della famiglia, includendo la domenica come giorno di riposo settimanale per tutti.
  7. Riconoscere la complementarità di donna e uomo. La famiglia è motore primario di generatività per tutta la società. Mi impegno a riconoscere la complementarità tra uomo e donna, rifiutando qualsiasi tentativo di cancellare le differenze sessuali attraverso politiche pubbliche.
  8. Rispettare e promuovere l’istituzione del matrimonio. Vincoli familiari più forti migliorano il benessere delle persone. L’Unione europea e gli Stati membri sono tenuti a rispettare l’istituzione del matrimonio e a promuovere le migliori pratiche per prevenire i fallimenti matrimoniali. Alla luce del principio di sussidiarietà, mi opporrò a qualsiasi interferenza dell’Unione europea nella definizione giuridica del matrimonio.
  9. Rispetto per la dignità umana della vita dall’inizio alla fine naturale. La famiglia è il luogo naturale in cui ogni vita è benvenuta. Mi impegno a rispettare la dignità di ogni vita umana, in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale. Incoraggerò tutte le buone pratiche e le politiche volte al prendersi cura di tutti i bambini, prima e dopo la nascita, e delle loro madri nonché delle famiglie affidatarie e adottive.
  10. Padre e madre, primi e principali educatori dei loro figli. Le famiglie hanno sempre favorito una prospettiva di più lungo termine, preparando un futuro più sostenibile. Mi impegno affinché l’Unione europea, in tutti i programmi educativi per i giovani rispetti e promuova il diritto dei genitori ad educare i propri figli secondo le proprie tradizioni culturali, morali e religiose, tese a favorire il bene e la dignità di ciascun figlio.

Luciano Moia Avvenire 24 aprile 2019

www.avvenire.it/europa/pagine/famiglia-manifesto-per-l-europa

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                                                  FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Francesco mi lascia sgomenta

            Francesco fa politica estera fuori da tutte le regole. Solo seguendo il Vangelo. Va ad Abu Dhabi dopo aver preparato con l’imano di Al Azhar un documento che verrà siglato dal papa cattolico e dalla massima autorità teologica dell’Islam: Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, davvero splendido: due uomini di religione che vedono la realtà politica con occhio laico, ma usano il loro linguaggio per mettere dei paletti nel terreno clericale – oggi da aggiornare perché pericoloso nelle accezioni tradizionali – senza essere accusati di interferire, ma anche usando in forma nuovissima il linguaggio della fede, di solito usato in funzione burocratico-istituzionale.

Ma Francesco usa anche la gestualità, non come Giovanni Paolo II, ma come se leggesse il Vangelo come un copione e si domandasse che cosa avrebbe fatto Gesù. Chi abbia visto il filmato dell’incontro con i leader del Sudan resta sbalordito e perfino interdetto. Dopo aver detto che le divergenze che li oppongono debbono restare senza debordare sul popolo, che tutti debbono aiutare a ottenere la convivenza di pace: solo così loro saranno ricordati come veri leader. Per la prima volta si constata la fatica dell’anziano papa che compie quello che evidentemente ritiene necessario: inginocchiarsi davanti a ciascuno dei tre personaggi, ogni volta rialzandosi aiutato da un assistente (e si sente l’affanno del respiro). Importante che, rendendosi conto che era a fianco di uno dei rappresentanti sudanesi, si è recato ad inginocchiarsi anche ai suoi piedi (nessun giornale ha citato il particolare).

Ero a disagio e mi immaginavo l’impressione degli ospiti. Ma Francesco aveva fatto quello che voleva senza usare il solito “magistero” e la solita interferenza.

Giancarla Codrignani

http://giancodri.women.it/francesco-mi-lascia-sgomenta

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OMOFILIA

Il Papa incontro il comico ateo Stephen Amos

Papa Francesco è convinto che chi rifiuta gli omosessuali «non ha un cuore umano»: lo ha detto nel corso di una conversazione con il comico britannico Stephen K. Amos, il cui contenuto è stato diffuso dalla BBC (21 aprile 2019). L’emittente pubblica ha pubblicato sui social network uno stralcio della conversazione in cui si vede Amos che spiega al Pontefice che non è un credente e che si è recato a Roma «in cerca di risposte e fede».

Il comico ha partecipato a un programma chiamato Pilgrimage: The Road To Rome, in cui otto personaggi noti, tutti con credenze e fedi diverse, indossano zaini e scarpe da trekking e camminano lungo il tratto italiano dell’antica Via Francigena, che inizia a Canterbury e finisce a Roma: hanno solo 15 giorni per camminare lungo 1.000 chilometri (Agi, 21 aprile 2019).

            «Da gay, non mi sento accettato», dice Amos. E Papa Francesco replica immediatamente che dare «più importanza all’aggettivo (‘gay’) che al sostantivo (‘uomo’) non è buono».

            «Siamo tutti esseri umani – prosegue Bergoglio – abbiamo dignità, se una persona ha una tendenza o un’altra, questo non toglie la sua dignità di persona», sostiene il pontefice argentino. «Le persone che decidono di rifiutare le persone per l’aggettivo sono persone che non hanno un cuore umano».

            Dopo la famosa frase «chi sono io per giudicare un gay», anche questo intervento del Papa, non mancherà di fare riflettere (Il Mattino, 22 aprile 2019)

Gelsomino Del Guercio  Aleteia       23 aprile 2019

https://it.aleteia.org/2019/04/23/papa-francesco-gay-stephen-amos-vaticano/?utm_campaign=NL_it&utm_source=weekly_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it

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SESSUOLOGIA

La vita sessuale è un aspetto elevato del progetto divino

La coppia cristiana deve conoscere bene il ruolo del sesso all’interno del progetto divino. È Dio a volerlo. Tra tutte le alternative possibili che Dio avrebbe potuto impiegare per generare e mantenere la specie umana, ha scelto il rapporto fisico e spirituale dell’amore coniugale. Dio ha voluto che la coppia umana fosse l’archetipo dell’umanità e che la sua generazione avvenisse per via sessuale.

            Attraverso questo atto, ha anche voluto approfondire l’amore della coppia. La conclusione a cui si giunge è quindi che Dio non solo ha inventato il sesso, ma lo ha dotato di profonda dignità e senso, e per questo ha stabilito delle regole perché venisse vissuto in modo corretto, perché non provocasse sofferenza.

            Dio ha voluto che l’essere umano fosse materiale e spirituale, una bella sintesi dell’animale che ha solo il corpo e dell’angelo che è solo spirito.

            Dotandolo di corpo, ha voluto che l’uomo fosse sessuato come gli animali, ma la sua vita sessuale doveva essere guidata non dall’istinto, come negli animali, ma dall’anima, e illuminata dall’intelligenza, abbellita dalla libertà, guidata dalla volontà e vissuta nell’amore.

            La vita sessuale è un aspetto assai sublime del progetto divino. Per questo, una coppia non deve mai pensare che Dio sia lontano nel momento dell’unione più intima, perché questo atto è santo e santificatore nel matrimonio e amato da Dio.

       L’amore coniugale ha un senso unico; due esseri dello stesso sesso – come ad esempio il padre e il figlio o due amici – non si complementano sul piano fisico.

            Il sesso nel suo debito contesto, nel matrimonio, ben inteso nei suoi aspetti spirituale e psicologico, è uno degli atti più nobili e significativi che l’essere umano possa realizzare, perché è fonte di vita e di celebrazione dell’amore. La virtù della castità, più che rinunciare al sesso, significa usarlo nel modo adeguato.

            Il dottor Alphone H. Clemens, direttore del Centro di Consulenza della Catholic University of America di Washington, D. C., ha affermato sull’atto sessuale che “è un atto di grande bellezza e profondo significato spirituale, perché l’amore coniugale tra due cristiani in stato di grazia è una fusione di due corpi che sono templi della Trinità e una fusione di due anime che partecipano alla stessa Vita Divina… Dall’altro lato, usato con proprietà, diventa una fonte di unione, armonia, pace e risoluzione. Intensifica l’amore tra lo sposo e la sposa, e funge da scudo contro l’infedeltà e l’incontinenza. La personalità umana integrale, anche nei suoi aspetti soprannaturali, è arricchita dal sesso, visto che anche l’atto d’amore coniugale merita grazie” (Clemens, 1969, p. 175).

            Raoul de Gutchenere afferma nel Judgment on Birth Control che “è stato riconosciuto da tempo che (…) i rapporti sessuali producono effetti psicologici profondi, soprattutto nella donna”, visto che lo sperma assorbito dal suo corpo svolge un ruolo dinamogeno, promuovendo l’equilibrio.

            In genere, l‘atto d’amore coniugale provoca rilassamento, vigore, fiducia in sé, soddisfazione, sensazione generale di benessere, sensazione di sicurezza e una disposizione che porta a dimenticare le difficoltà e le tensioni di minore importanza all’interno della coppia” (Apud [negli scritti] Clemens, p. 177).

            Non è un caso che San Paolo 2000 anni fa raccomandasse già ai coniugi cristiani: “Non astenetevi tra voi se non di comune accordo (…) perché satana non vi tenti nei momenti di passione” (1 Cor 7,5).

            Respingere il sesso senza motivo può rappresentare non solo un’ingiustizia nei confronti del coniuge, ma anche il pericolo di esporlo all’infedeltà e di esporre il matrimonio al fallimento. Questo dimostra che la coppia non deve rimanere per molto tempo separata indipendentemente dai motivi, soprattutto per ragioni non troppo importanti.

La lontananza prolungata tra gli sposi può generare una situazione di stress, soprattutto per l’uomo. Alcuni riescono a superare questa astinenza sessuale forzata con una sublimazione religiosa, ma non tutti hanno la stessa disposizione.

Bisogna dire, ad ogni modo, che gli esperti mostrano nelle loro ricerche che “altri fattori sono più importanti per la felicità matrimoniale rispetto al sesso”, visto che molte coppie superano i propri problemi e le proprie angosce con un amore autentico.

Felipe Aquino [Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

https://it.aleteia.org/2016/11/08/sesso-matrimonio-amore-piano-dio

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