NewsUCIPEM n. 712 – 29 luglio 2018

NewsUCIPEM n. 712 – 29 luglio 2018

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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02 ADOTTABILITÀ Dissenso del genitore titolare della relativa potestà.

02 Falliti gli interventi a sostegno della genitorialità inevitabile è l’adozione.

02 ADOZIONE Chi adotta fa il bene comune.

03 AFFIDO CONDIVISO Affido materialmente condiviso: un’opportunità per i nostri figli.

04 AMORIS LÆTITIA L’eros, una dimensione fondamentale dell’amore coniugale.

05 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI Condannato il padre disoccupato che non lo ha mai versato ai figli.

06 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 24, 25 luglio 2018.

08 CHIESA CATTOLICA Le vicende del figlio tra “ancien régime” e Vangelo.

09 CONSULTORI ISPIRAZ. CRISTIANA Adolescenti e paura di crescere – Convegno a Cerea (VR).

10 Latina, il Consultorio vince un bando del ministero della Giustizia.

11 CONSULTORI UCIPEM Mantova. Etica Salute & Famiglia – luglio 2018.

10 Nuove apparecchiature mediche per l’Ucipem di Pescara.

10 DALLA NAVATA 17° Domenica – Anno B –29 luglio 2018.

11La moltiplicazione dei pani. Commento di Enzo Bianchi.

12 DEMOGRAFIA La Cina spinge per il secondo figlio.

13 DIRITTO DI FAMIIGLIA Accordo innanzi al Sindaco: l’altra soluzione consensuale.

14 DIVORZIO Divorzio: si può revocare il consenso e cambiare idea?

16 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI De Palo: “Subito no-tax area di cittadinanza per ogni figlio”.

16 GENDERIl farmaco gender. Deve riguardare solo pochi casi eccezionali.

17 Così avremo corpi bambini e menti adulte. Troppi rischi

18 Disforia di genere. Il «farmaco gender»? Eticamente lecito

19 HUMANÆ VITÆ 50 anni dopo. Siamo ancora davanti al suo punto nodale.

21 50 anni di Humanæ Vitæ, Paolo VI e quello sguardo “positivo”

21 Paolo VI profetico per una regolamentazione naturale nascite.

22 Contraccezione e dogma papale.

23 Perché l’appello di Paolo VI è ancora pieno di senso?

25 Per 50 anni, i papi hanno difeso l’errore di Paolo VI.

27 L’antropologo Marengo: Nella Humanæ vitæ la profezia di Paolo VI.

29 Ma l’amore può essere peccato?

31 MATRIMONIO Il marito non vuole avere più figli. Fa bene a chiedere il divorzio?

32 MINORI NON ACCOMPAGNATI Un minore non accompagnato in affido? Pronte 18 famiglie.

33 OMOGENITORIALITÀ Bimbi di coppie gay. Gli strappi dei sindaci e i ricorsi delle procure

34 PROCREAZIONE ASSISTITA Negli anni le tecniche di Pma non hanno alcun miglioramento.

35 SEPARAZIONE Negoziazione assistita: il focus è sul procedimento.

375 STALKING Stalking conseguenze psicologiche

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ADOTTABILITÀ

Dissenso del genitore titolare della relativa potestà.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 18827, 16 luglio 2018

In tema di adozione particolare, il dissenso manifestato dal genitore titolare della responsabilità genitoriale, anche se non convivente con il figlio minore, ha efficacia preclusiva ai sensi dell’art. 46, comma 2, della L. n. 184 del 1983, salvo che non sia stata accertata una situazione di disgregazione del contesto familiare d’origine del minore in conseguenza del protratto venir meno del concreto esercizio di un rapporto effettivo con il minore stesso da parte del genitore esercente la responsabilità.

Redazione Il Caso.it 23 luglio 2018 ordinanza

news.ilcaso.it/news_4988?https://news.ilcaso.it/?utm_source=newsletter&utm_campaign=solo%20news&utm_medium=email

Ove vi sia stato il fallimento degli interventi a sostegno della genitorialità inevitabile è l’adozione.

Corte di Cassazione. Sentenza n.19774, 21 luglio 2018.

Via libera all’adozione di tre minori di etnia rom che non vanno a scuola, hanno un igiene scarsissima e sono di fatto affidati a una sorella maggiore. Ove vi sia stato il fallimento degli interventi a sostegno della genitorialità ed i minori siano perennemente in condizioni di disagio fisico e mentale, inevitabile è l’adozione.

I minori, due dei quali figli di padre non dichiarato ed il terzo figlio di un secondo uomo, attuale ricorrente, continuavano a trovarsi in situazioni di disagio e degrado sociale e fisico. Inadeguato l’ambiente familiare data la assenza della madre spesso in custodia cautelare in carcere ed assenti tutti gli altri soggetti del nucleo familiare disposti a prendersi cura dei bambini. Inutili ed inefficaci erano state anche le misure assunte per il recupero della capacità genitoriale e comunque non immediati i risultati che avrebbero consentito ai bambini di vivere in un contesto familiare consono ed adeguato. Il ricorso viene dichiarato inammissibile e i minori sono dichiarati pertanto adottabili.

Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia 27 luglio 2018

www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17507637/ove-vi-sia-stato-il-fallimento-degli-interventi-a-sostegno-della-genitorialit%C3%A0-e.html

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ADOZIONE

Chi adotta fa il bene comune

«L’adozione ha valore non solo per i bambini e le famiglie. È anche un formidabile strumento di politica pubblica». Sul numero del magazine in distribuzione, l’analisi della Garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano, che per la prima volta parla della sua esperienza privata di madre adottiva.

Filomena Albano. Mia figlia è nata in un Paese lontano e quando lei è nata io non c’ero. È accaduto tanto tempo fa ma il ricordo di quei giorni è nitido e fermo, come se si trattasse di ieri. Incontrarla è stato guardarla negli occhi e riconoscerla all’istante, pensare che mia figlia non poteva che essere lei e che diventare mamma così, dopo tante avventure, era stata la gioia della mia vita. Le emozioni possono essere condivise, ma quelle più intime fanno parte della storia delle persone e delle famiglie che hanno conosciuto l’adozione. Si tratta spesso di un’esperienza corale che coinvolge zii, nonni, amici, colleghi. Di una risorsa che, da individuale, diventa collettiva e che negli anni ha costituito per l’Italia un patrimonio di solidarietà. In queste mie brevi riflessioni l’esperienza privata — che condivido per la prima volta con i lettori — e l’esperienza pubblica si contaminano, per trasmettere la speranza che il patrimonio di vissuti, professionalità, storie e affetti, consolidato negli anni in cui l’Italia è stato il secondo Paese al mondo per l’adozione internazionale, non vada disperso.

Perché, come sanno bene le famiglie che hanno vissuto questa esperienza straordinaria, l’adozione dà la vita non solo ai bambini ma anche ai genitori ed è ricchezza per un intero Paese. È una delle espressioni più alte di solidarietà sociale e di comunanza tra persone che sono disposte ad abbracciare una genitorialità consapevole.

È, allo stesso tempo, segno tangibile della predisposizione ad aprirsi verso l’altro, verso realtà spesso lontane, non solo da un punto di vista geografico. E proprio perché rappresenta l’incontro tra l’aspetto privato e l’aspetto pubblico, tra un amore che si costruisce e si sceglie ogni giorno e la consapevolezza di svolgere una funzione sociale alta, l’adozione internazionale deve essere adeguatamente nutrita, sostenuta e valorizzata.

In Italia la realtà dell’adozione, pur diffusa, continua a non essere percepita nella società come ordinaria. Per tale motivo, spesso, chi adotta si trova a vivere in una dimensione di unicità che rende difficile comunicare la propria esperienza. Eppure è chiaro il valore dell’adozione quale strumento a favore dell’infanzia, realizzando concretamente il diritto fondamentale dei bambini e delle bambine ad avere una famiglia.

Quelle che nascono attraverso l’adozione sono famiglie che mettono in discussione il concetto di famiglia basato sul legame di sangue. Sono famiglie di cuore. È dunque doveroso mettersi loro accanto, perché solo “legandosi” solidalmente si crea la possibilità di accompagnare la crescita dei bambini e di offrire loro una base affettiva per sviluppare i propri talenti. Per tali motivi l’investimento sulle reti territoriali, istituzionali e associative, che si occupano di preparare all’adozione e di offrire servizi di post adozione, è cruciale. Lo chiedono le famiglie e lo chiedono gli operatori. Ma, soprattutto, è centrale per il benessere dei bambini e delle bambine adottati, anche in chiave preventiva per evitare che situazioni di fragilità e vulnerabilità possano…

Filomena Albano News Vita.it 26 luglio 2018

www.vita.it/it/article/2018/07/25/chi-adotta-fa-il-bene-comune/147690

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AFFIDO CONDIVISO

Affido materialmente condiviso: una grossa opportunità per i nostri figli

L’impegno preso dal Governo per una prossima riscrittura delle norme sull’affidamento dei figli offre importanti opportunità per adeguare i nostri standard ai suggerimenti della comunità scientifica e del Consiglio d’Europa.

Nel mondo occidentale il principio della bigenitorialità viene fatto partire dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, promulgata a New York il 20 novembre 1989, ratificata ai sensi della L. 27 maggio 1991, n. 176.

In realtà, però, presso alcune corti degli Stati Uniti già nel 1970 gruppi di magistrati avevano iniziato a redigere sentenze che prevedevano l’affido congiunto della prole in caso di divorzio dei genitori. Ben presto gli analisti si resero conto che dietro la locuzione joint custody si potevano celare differenti forme di affidamento: in molti casi dietro il concetto di pari responsabilità genitoriali si nascondevano forme di affidamento identiche a quelle normalmente previste in caso di affidamento esclusivo (si trattava della cosiddetta joint legal custody) mentre in altre a una suddivisione giuridico—formale si aggiungeva una condivisione materiale delle cure e dei tempi di permanenza (joint physical custody).

Negli anni, dopo diverse interpretazioni del momento temporale da cui si dovesse far partite la cosiddetta condivisione materiale (non meno del 25-30-33-35-40% del tempo con ognuno dei genitori) possiamo oggi dire che prevale la concezione che il punto di cut-off debba essere collocato al 33% (come stabilito dall’International Council on Shared Parenting) o al 35% (come si usa fare in Australia e USA). Anche in ambito scientifico gli studi oggi prendono prevalentemente in considerazione questi due parametri (il 33 o il 35%) che vengono calcolati considerando il parametro dei pernottamenti.

In Europa il primo Paese a introdurre l’affidamento legalmente condiviso come forma privilegiata fu la Svezia nel 1989, anticipando di alcuni mesi la convenzione ONU sui Diritti del fanciullo. Seguirono la Francia nel 1993, il Belgio nel 1995 e l’Olanda nel 1998. In tutti i casi fu un fallimento perché i tribunali continuarono a promulgare provvedimenti monogenitoriali che relegavano un genitore in un ruolo marginale. Si resero così necessarie modifiche legislative (non tutte fruttuose) in tutti questi Paesi (Svezia 1998, Francia 2002, Belgio 2006 e Olanda 2009) per cercare di passare da un affidamento legalmente a uno materialmente condiviso.

Senza minimamente prendere in considerazione le esperienze estere di chi aveva intrapreso questa strada prima di noi, solo assai faticosamente, con un lavoro di quattro legislature, in Italia si è riusciti a far passare come forma privilegiata l’affidamento formalmente (o legalmente) condiviso nel 2006.

Il risultato, però, è stato ovviamente (visti i presupposti degli altri Paesi) fallimentare e per fare capire a tutti il senso di questo fallimento paragoniamo la nostra situazione con quella di alcuni Paesi progrediti e bigenitoriali. In Italia l’affido a tempi paritetici è stimato intorno all’1-2%. In Belgio raggiunge il 30%, in Quebec il 25%, in Svezia il 40%.

In Italia l’affido materialmente condiviso non paritetico riguarda il 3-4% dei minori, tasso fra i più bassi al mondo, in Belgio il 25%, in Quebec il 30%, in Svezia il 30%.

In Italia l’affido materialmente esclusivo (al di fuori del range 65-35%) riguarda oltre il 90% dei minori, in Belgio circa il 50%, in Quebec circa il 45%, in Svezia il 30%. Nel nostro Paese troviamo quindi una situazione estrema che sicuramente non rispecchia la volontà del legislatore (pur coi limiti dell’enunciato della legge 54/2006) e che sta danneggiando milioni di minori italiani.

L’affido materialmente condiviso protegge i minori. E come? Nell’ottobre 2015 il Consiglio d’Europa –dopo attenta valutazione della letteratura scientifica e dei risultati ottenuti nei Paesi Occidentali che avevano attuato una politica di affido materialmente condiviso- ha promulgato la risoluzione 2079 –autentica pietra miliare-con la quale si invitano i 47 Stati membri a promuovere una politica di shared parenting (con tempi più o meno paritetici e comunque mai al di fuori del range 35-65%) per tutti i bambini oltre i 12 mesi. Questa politica è servita infatti a ridurre ovunque il rischio di parental loss (perdita genitoriale) e a ridurre il conflitto intergenitoriale a lungo termine. Inoltre nei Paesi con presunzione legislativa o giurisprudenziale di affido materialmente condiviso si osserva una maggior diversificazione e modulazione dei provvedimenti giudiziari.

In Italia recentemente si sono dichiarate ufficialmente a favore dell’affido materialmente condiviso sia la Società Italiana di Scienze Forensi sia la Società Italiana di Psicologia Giuridica.

Esaminando nel dettaglio la letteratura scientifica accreditata pubblicata tra il 1977 e il 2014 (74 studi comparativi pubblicati su riviste a comitato di lettura -“peer reviewed”-o report governativi) troviamo inoltre ben pochi studi sfavorevoli all’affido materialmente condiviso: essenzialmente tre: uno molto vecchio su casistica esigua “Ongoing Postdivorce Conflict: Effects on Children of Joint Custody and Frequent Access” (Johnston, J.R., Kline, M. And J.M.Tschann, 1989), e due più recenti che hanno suscitato molta discussione: “Child-focused and child-inclusive divorce mediation: comparative outcomes from a prospective study of postseparation adjustment” (McIntosh J.E.,. Wells Y.D., Smyth B.M., and Long C.M., 2008) e “Overnight Custody Arrangements, Attachment, and Adjustment Among Very Young Children” (Tornello, S. L., Emery, R., Rowen, J., Potter, D., Ocker, B. and Xu, Y. 2013).

Su questi studi grava però l’ombra di gravi errori metodologici e significativi bias (Warshak R. A.2016, Nielsen L.2014, Warshak R.,A.2014, Millar P., Kruk E.2014, Poussin G.2016).

A differenza che nell’area del conflitto e della perdita genitoriale, in cui i risultati sono chiari e indiscutibili, nell’ambito del benessere a breve termine può a prima vista essere difficile distinguere tra un effetto causale (l’affido materialmente condiviso causa benefici a prescindere da altri fattori) o un effetto di selezione del campione (teoria per cui ad un assetto di affido materialmente condiviso giungerebbero mediamente genitori già in partenza più collaborativi, ragionevoli e attenti di quelli che pervengono ad un affido materialmente esclusivo). Di certo, oltre all’effetto preventivo di childhood adversity quali conflitto e parental loss, si dimostra inequivocabilmente una generale non nocività dell’affido materialmente condiviso nelle sue varie modalità di messa in pratica. Comunque il rapido incremento dell’affido materialmente condiviso in Svezia (dove l’alternato puro è passato dall’1% del 1998 al 28% del 2006 fino al 40% del 2014) o di alcune regioni spagnole (in Catalogna l’affido materialmente condiviso è passato dal 2010 al 2015 dal 20,6 al 40,5%, in Comunità Valenciana dal 13,8 al 35,8%) lascia pensare che il meccanismo selettivo sia assolutamente secondario. (cfr. Vezzetti V., 2016, “New approaches to divorce with children: a problem of public health”, Journal of Health Psychology Open July-December 2016: 1–13n DOI: 10.1177/2055102916678105).

Affido paritetico/alternato e materialmente condiviso sono la stessa cosa? Spesso si fa confusione fra queste due denominazioni. L’affido alternato è una particolare modalità di estrinsecazione dell’affido materialmente condiviso. Esso prevede una ripartizione paritetica dei tempi. In letteratura non esistono dimostrazioni scientifiche dei suoi vantaggi (per scarsità di studi) rispetto alle altre forme di affido materialmente condiviso ma solo nei confronti dell’affido materialmente esclusivo.

Da più parti, però, si ipotizza – e chi scrive concorda- che possa agire positivamente sulla variabile conflitto genitoriale praticamente azzerando le liti legate al mantenimento della prole (mantenimento diretto puro). A tutt’oggi, comunque, per una vasta serie di motivi prevalentemente sociali e/o culturali che sarebbe qui troppo lungo descrivere, l’affido alternato è una modalità molto diffusa in diversi Paesi ma pur sempre minoritaria.

Dott. Vittorio Vezzetti, membro fondatore dell’International Council on Shared Parenting e Presidente della Piattaforma Europea per la joint custody and childhood Colibrì.

Newsletter Studio Cataldi 23 luglio 2018 –

www.studiocataldi.it/articoli/31225-affido-materialmente-condiviso-una-grossa-opportunita-per-i-nostri-figli.asp

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AMORIS LÆTITIA

L’eros, una dimensione fondamentale dell’amore coniugale»

Don Enrico Parolari, tra i promotori dell’XI convegno sulla famiglia in programma a Barzio, anticipa alcuni contenuti dell’appuntamento, durante il quale affronterà il tema a partire dagli spunti offerti dalla “Amoris lætitia

A Barzio l’XI convegno sulla famiglia. Un aspetto molto prezioso, anzi necessario perché l’amore sia veramente coniugale e coinvolga la totalità della persona. Parliamo della dimensione erotica dell’amore matrimoniale, posta al centro dell’XI convegno sulla famiglia, in programma a Barzio sabato 28 luglio.

Un appuntamento ormai tradizionale – promosso da Centro Studi Psicanalisi del Rapporto di Coppia di Cremeno (Lc) e Milano e Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici (Sezione Lombardia), con il sostegno dei Comuni di Cremeno e Barzio, della Parrocchia di Barzio, del Centro Orientamento Educativo, della Banca della Valsassina – Credito Cooperativo e del Bar Pasticceria Passoni di Barzio – quest’anno dedicato al ricordo di Gianni Bassi, come spiega don Enrico Parolari, tra i promotori dell’evento: «Sì, il convegno è segnato dalla memoria piena di riconoscenza di Gianni Bassi, che con sua moglie Rossana, attraverso lo studio, la ricerca e la formazione, ha contribuito non poco alla riflessione sulla qualità dell’intimità della relazione di coppia e all’accompagnamento della coppia, nella sua complessità e profondità, nell’intreccio tra mente, corpo e spirito. Il tema di questo XI convegno sulla famiglia è stato pensato insieme a lui, negli ultimi giorni della sua vita terrena, vissuti con l’entusiasmo e la speranza di chi sa guardare sempre in avanti».

Tema di cui Parolari ci anticipa alcuni risvolti: «Si può correre il rischio di dissociare il matrimonio dalla sua dimensione erotica non solo per una concezione che non investe più su un legame matrimoniale integrale e fedele, ma anche per un eccesso di rigidità moralistica che evita di considerare l’importanza e la delicatezza della dimensione erotica per la qualità del legame coniugale. Ma l’esortazione apostolica di papa FrancescoAmoris lætitia”, nel quarto capitolo, mette a tema proprio l’amore nel matrimonio e, dentro questa riflessione sulla carità coniugale, focalizza l’attenzione sull’amore appassionato (142-152): il mondo delle emozioni, la tensione tra gioia e piacere, la dimensione erotica dell’amore. Sono pagine di una finezza e profondità uniche, nelle quali si indica la via di un’autentica pedagogia dell’amore. Sì, perché ad amare veramente si impara. Occorre ricordare che proprio lì dove si esprime il massimo della vulnerabilità e del dono è facile scadere nella manipolazione e addirittura nella violenza (153-157), nella mancanza di rispetto dell’altra persona e di chiusura della comunicazione. Lo stile della dimensione erotica tra donna e uomo, tra moglie e marito, tra madre e padre, offre il contesto appropriato ed eloquente per l’educazione sessuale dei figli (280-286), sempre più necessaria all’interno e all’esterno della famiglia».

Parolari sottolinea come non ci sia da meravigliarsi che il magistero tratti così esplicitamente il tema: «Chi si scandalizza si è perso le straordinarie catechesi sul corpo di Giovanni Paolo II, che papa Francesco rielabora in modo chiaro, sintetico e semplice. Purtroppo anche nel dibattito sull’Amoris lætitia, interno ed esterno alla Chiesa, si è perso il cuore di questa esortazione apostolica, che incoraggia alla fedeltà del matrimonio, esplicitandone le dinamiche così umane e così spirituali».

Sarà proprio Parolari, riprendendo i passaggi essenziali dell’Amoris lætitia e, proponendo la lettura di testi significativi di Gianni Bassi, a introdurre il convegno. Rossella Semplici affronterà il tema dell’educazione sessuale in famiglia, da trattare in modo delicato e appropriato. Laura Mannichedda offrirà spunti di riflessione sull’intimità, tanto esteriorizzata nella cultura attuale, ma poco vissuta. Nella seconda parte verrà affrontato il lato oscuro dell’amore, la manipolazione e la violenza, mettendo in evidenza come i comportamenti più distruttivi prendano le mosse da gesti, atteggiamenti e stili più ordinari che progressivamente avvelenano l’amore. Infine Adele Colombo proporrà una meditazione teologica sull’«intima unione» tra i coniugi, come cuore della relazione matrimoniale e radice della sua santità (Gaudium et Spes 48). Dice ancora Parolari: «Questo mutuo donarsi in un unione sempre più vera nelle diverse stagioni della vita, nella fedeltà, costituisce non solo il cardine della relazione matrimoniale, ma anche il luogo originale per i coniugi dell’esperienza stessa di Dio». Nell’intervallo e al termine della mattinata non mancherà lo spazio per il dibattito.

Al convegno sono invitati coniugi e genitori, giovani coppie e nonni, chi si prende cura della relazione di coppia e familiare nella pastorale, nella formazione, nell’accompagnamento e nelle diverse associazioni che si occupano della famiglia.

ChiesadiMilano 28 luglio2018

www.chiesadimilano.it/news/chiesa-diocesi/leros-una-dimensione-fondamentale-dellamore-coniugale-228455.html

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI

Condannato il padre disoccupato che non ha mai versato il mantenimento ai figli

Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, Sentenza. n. 34952, 23 luglio 2018

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_31339_1.pdf

Per la Cassazione il totale disinteresse manifestato dal padre, per anni, nei confronti della figlia non consente neppure di applicare la sospensione condizionale della pena. Nonostante la giovane età (35 anni), non sfugge alla condanna di cui all’art. 570 del codice penale il padre disoccupato che ha omesso reiteratamente di versare l’assegno di mantenimento nei confronti della figlia. La condotta dell’uomo, che si è disinteressato della bambina per anni, non consente neppure l’applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione, pronunciandosi sul ricorso di un uomo, condannato per il reato di cui all’art. 570, secondo comma, c.p. (Violazione degli obblighi di assistenza familiare).

Il padre, nel dettaglio, si era sottratto agli obblighi inerenti la qualità di genitore, non corrispondendo alcuna somma per il mantenimento della figlia minore alla quale aveva fatto mancare i mezzi di sussistenza.

In Cassazione, l’imputato contesta la motivazione della Corte territoriale per non aver tenuto conto della sua effettiva situazione economica e personale: l’uomo, da sempre impegnato in lavoretti saltuari, rileva di non aver mai goduto di alcun reddito sin dall’epoca della nascita della figlia e, anzi, dallo stesso instaurarsi della convivenza come confermato dalla stessa ex convivente

Anzi, secondo un accordo intercorso con l’ex convivente, l’imputato si era impegnato a versare solo cinquanta euro mensili quale contributo al mantenimento della bambina e il giudice del merito non avrebbe accertato l’apprezzabile incidenza dell’inadempimento sulla disponibilità dei mezzi economici in capo agli aventi diritto tale da determinarne lo stato di bisogno.

Tuttavia, per gli Ermellini l’operato della Corte territoriale è esente da critiche e censure. I giudici rammentano che, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, “incombe sull’interessato l’onere di allegare gli elementi dai quali possa desumersi l’impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione”.

La Cassazione ritiene che lo stato di disoccupazione, considerata la giovane età dell’imputato, e la mancata dimostrazione delle cause che rendono a questi difficoltoso il reperimento di un’occupazione, valgono a integrare l’estremo della colpevole incapacità di adempiere integrativo del reato. Infatti, l’indisponibilità da parte dell’obbligato dei mezzi economici necessari ad adempiere si configura come scriminante soltanto se essa perduri per tutto il periodo di tempo in cui sono maturate le inadempienze e non è dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’obbligato.

La Corte territoriale ha dunque correttamente ritenuto integrante il reato contestato la condotta del prevenuto di perseverante inadempimento all’obbligo contributivo in favore della figlia minore, per non avere egli mai stabilmente lavorato, godendo sin dall’insorgere della relazione di convivenza con la madre della propria figlia di aiuti economici. Ancora, non è stato dimostrato uno stato di completa impossidenza dell’imputato, non avendo egli mai versato alcunché per il mantenimento della figlia minore pur avendo svolto, sia pure saltuariamente, attività lavorativa e tanto a fronte di un situazione di bisogno presuntivamente esistente e non vinta dalla difesa.

A nulla vale l’accordo intercorso tra l’uomo e la sua ex: la misura del contributo relativo al mantenimento dei figli minori non può essere oggetto di accordi tra le parti non omologati o validati dal giudice, trattandosi di materia indisponibile e come tale sottratta alla libera determinazione delle parti.

La Cassazione ritiene che all’imputato non possa neppure essere concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, stante la persistenza della condotta criminosa: come rilevato dai giudici a quo, infatti, l’uomo aveva per anni tenuto una condotta di totale disinteresse morale e materiale per la figlia minore.

Lucia Izzo Newsletter Studio Cataldi 27 luglio 2018

www.studiocataldi.it/articoli/31339-condannato-il-padre-disoccupato-che-non-ha-mai-versato-il-mantenimento-ai-figli.asp

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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 24, 25 luglio 2018

  • Premio anello debole 2018. Sempre più preziosa l’ormai consolidata tradizione promossa dalla Comunità di Capodarco all’interno dell’evento “L’altro festival” (quest’anno la XXII edizione), per un premio per video-filmati (corti e cortissimi) e altri materiali audiovisivi, capaci di raccontare i tanti esempi della solidarietà in atto. Segnaliamo qui il video premiato nella categoria cortissimi, emergenza nella notte

www.capodarcolaltrofestival.it/edizione-2018/cortissimi/emergenza-nella-notte.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_24_07_2018

che descrive con linguaggio sobrio l’emozione di un parto difficile notturno, gestito in Sierra Leone grazie ad un modello di ambulanze che porta le donne dalla propria casa a centri medici decentrati, e fino all’ospedale, in caso di complicazioni. Un bell’esempio, non ideologico, di cooperazione internazionale.

www.capodarcolaltrofestival.it/news/2018/06/vincitori-2018.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_24_07_2018

  • L’Humanæ Vitæ dopo cinquant’anni. Valore della vita, sessualità e umanesimo integrale. In edicola, su Famiglia Cristiana n. 29 (domenica 22 luglio), l’intervento del direttore Cisf in merito ad un documento del Magistero che fin dalla sua approvazione ha suscitato reazioni vibranti e contrastanti.

www.famigliacristiana.it/articolo/humanae-vitae-quellenciclica-politicamente-scorretta.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_25_07_2018

  • Sempre sullo stesso numero leggi l’intervista a Luciano Moia, autore di un prezioso volume che ricostruisce la storia e gli elementi chiave del dibattito di allora e di oggi.

  • Moia Luciano, Il metodo per amare. Un’inchiesta, San Paolo, Cinisello B., 2018, € 14,00. Il volume raccoglie e sistematizza un prezioso lavoro di osservazione e racconto delle vicende ecclesiali e sociali collegate alla Humanæ Vitæ, viste ed analizzate dal punto di vista privilegiato di chi ha seguito le tematiche familiari nel vivo della comunità ecclesiale e sociale italiana. Ne emerge un quadro a colori vivaci, estremamente eterogeneo, per un dibattito in cui troppo spesso il tema specifico (e certamente controverso) dei “metodi di regolazione delle nascite” ha nascosto il più ampio obiettivo del documento, quello di rappresentare il valore assoluto della vita umana e della sessualità come pienezza dell’umano, in un momento storico instabile e mutevole (basti ricordare la data di promulgazione dell’enciclica, quel “Sessantotto” che sarebbe diventato sinonimo quasi proverbiale di rivolta contro ogni tradizione, ogni regola, ogni ordine costituito) (F. Belletti).

www.famigliacristiana.it/articolo/un-libro-inchiesta-sullhumanae-vitae-profezia-da-rilanciare-senza-puntare-il-dito.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_25_07_2018

  • L’Europa verso il suicidio demografico (Europe 2050: Demographic Suicide, Fondazione Schuman, Parigi). Testo a cura di Jean-Michel Boussemart e Michel Godet, European Issues, n°462, 13 febbraio 2018). In Europa nel 2017 il numero delle morti ha superato quello delle nascite (5,3 milioni di morti, a fronte di 5,1 milioni di nascite). Ennesima conferma di una situazione demografica dai contorni sempre più drammatici. Illuminante, in questo senso, l’analisi dei dati demografici ufficiali e delle proiezioni UE al 2050 elaborato qualche mese fa dalla Fondazione Schuman.

www.robert-schuman.eu/en/doc/questions-d-europe/qe-462-en.pdf

  • Disabilità. A che punto siamo sul “dopo di noi”? Merita attenzione, su un tema così importante per tante famiglie italiane, una recente intervista del Presidente della Fondazione Nazionale Anffas Dopo di Noi, Emilio Rota.

www.anffas.net/it/news/6813/due-anni-di-dopo-di-noi-anffas-fotografa-limpatto-della-legge

  • Specializzarsi per la famiglia Laurearsi in media education. Un tema innovativo ormai consolidato. L’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Milano) offre una “Laurea Magistrale in Media education intraprende lo studio delle discipline della formazione immergendosi nelle grandi questioni del rapporto tra educazione e media. Con un forte orientamento pratico e modalità didattiche innovative, il corso sviluppa competenze disciplinari e metodologiche nelle aree della comunicazione, dell’educazione e della loro integrazione”.

https://offertaformativa.unicatt.it/cdl-media-education-2018

Ovviamente l’interesse su questi temi porta a segnalare l’ultimo Rapporto Cisf 2017 (Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali), utile strumento informativo, anche grazie ad una originale indagine su un campione nazionale di oltre 3.700 famiglie italiane

http://cisf.famigliacristiana.it/cisf/cisf-news/articoloCISF/rapporto-cisf-2017-presentato-a-roma—rassegna-stampa.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_24_07_2018

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  • Il buon pastore dà vita alla famiglia, corso di formazione permanente in pastorale familiare per sacerdoti, (part-time), promosso dal Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, Roma, dal 9 ottobre al 29 novembre 2018. www.istitutogp2.it/public/DepliantBuonPastore.pdf

  • Save the date

  • Nord La cassetta degli attrezzi. Tecniche e strumenti per la prevenzione e la cura della violenza all’infanzia, congresso internazionale promosso dal CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia), Milano, 5-6 ottobre 2018.

http://cds.redattoresociale.it/File/Allegato/587966.pdf

  • Centro Conflitti distruttivi e conflitti costruttivi disfunzionalità e sviluppo della capacità negoziale nel sistema familiare e di coppia, incontro con Camillo Loriedo promosso da IITR (Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale), Roma, 10 novembre 2018.

www.iipritalia.it/_HOME/download/corsi_intensivi/2018/loriedo/WS%20Loriedo%20-%20Conflitti.pdf

  • Sud Servizio sociale professionale: nuove tecnologie avanzano!, convegno nazionale promosso da SOS-servizisocialionline.it e da Studio Professionale di Servizio Sociale, con crediti formativi per assistenti sociali, Montesilvano (PE), 20 ottobre 2018.

www.cnoas.it/cgi-bin/cnoas/vfile.cgi?i=LLBLSLZIILXLCLDSHHOOYN&t=brochure&e=.pdf

  • Estero Demography, inequality & social policy, conferenza internazionale annuale promossa dalla BSPS (British Society for Population Studies) in collaborazione con la NVD (Netherland Demographic Society), Winchester (UK), 10-12 settembre 2018.

www.lse.ac.uk/social-policy/research/Research-clusters/british-society-for-population-studies/annual-conference

Per i linkhttp://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/luglio2018/5086/index.html

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CHIESA CATTOLICA

Le vicende del figlio tra “ancien régime” e Vangelo

Legittimo, illegittimo, naturale, adottivo, contronaturale

La tarda modernità, per come è stata vissuta dalla Chiesa cattolica, ha messo in primo piano la comunione familiare come “tema di incontro-scontro” tra la tradizione e il nuovo mondo che si dischiudeva: esso era stato inaugurato dalla rivoluzione industriale e dalle rivoluzioni politiche di fine settecento e primi ottocento. Non vi è dubbio che il magistero cattolico, soprattutto a partire da Pio IX, ma in seguito e in crescendo, da Leone XIII in poi, ha interpretato le vicende della “unione sessuale” e della “generazione filiale” come decisive per la identità del cittadino cattolico del tempo. Questo grande fenomeno di “apertura” della società, che ha toccato profondamente la “comunione matrimoniale” e il “riconoscimento filiale”, è stato vissuto in modo profondamente traumatico e spesso tematizzato con i toni della difesa ad oltranza dello status quo. La difesa della comunione matrimoniale e familiare, pur giustificata dalla grande novità che si profilava, correva il rischio di identificarsi sostanzialmente con la difesa dell’ancien régime e con la totale svalutazione delle novità importanti che stavano nascendo nella società, nelle coscienze, nelle forme di vita e anche nelle comunità ecclesiali.

I figli tra natura e istituzione. La vicenda della “generazione” è stata, a questo proposito, del tutto esemplare: per lunghi secoli la “forma canonica” – introdotta dal Concilio di Trento nel 1563 – aveva avuto anche una funzione regolativa nella distinzione tra “filiazione legittima” e “filiazione naturale”. La Chiesa, con intuizione profetica, da metà del XVI secolo in poi, aveva “legittimato” i figli nei loro diritti mediante il grande artificio istituzionale della “forma canonica”. Aveva in qualche modo “de-naturalizzato” il rapporto, per garantirne forme e autorità, Ma con il passare dei secoli, e con il crescere di una cultura giuridica liberale, la “legittimità” della filiazione diventava appannaggio dei nuovi stati liberali. A questo sviluppo non prevedibile la Chiesa reagiva, da fine 800, lungo due strade diverse: da un lato contrapponendo legge a legge (da cui il sorgere del codice di diritto canonico nel 1917); dall’altro contrapponendo natura ad artificio: Casti connubii, nel 1930, e Humanæ Vitæ nel 1968, indicano bene la forza di questa seconda via, di riscoperta del “naturale” rispetto al “legittimo”.

Forma canonica e legge naturale. Le vicende dei “figli” sono rimaste profondamente condizionate da queste scelte argomentative e procedurali. Da un lato il figlio naturale è risultato discriminato rispetto al figlio legittimo: ciò per l’Ancien régime era del tutto evidente e anche raccomandabile e la Chiesa, in modo mai unilaterale, stava dentro questo modello, senza esasperarlo. Non solo per ricevere la eredità, ma anche per essere ordinati preti, la condizione di “figlio naturale” era considerata come impedimento. Un interesse sociale al patrimonio e alla autorità discriminava necessariamente la irregolarità. Ma più tardi le cose hanno potuto anche capovolgersi. Di fronte ad una “legittimazione” del figlio secondo logiche diverse e nuove, il richiamo alla “natura” diventava principio per discriminare il figlio legittimato e per chiederne il non riconoscimento. Le locuzioni “figlio naturale” o “figlio illegittimo” dicono, della stessa persona, due prospettiva di lettura e di soluzione. Per questo ritengo che oggi potrebbe essere una utile provocazione parlare di “figli contronaturali”, la cui identità rischia di essere semplicemente pregiudicata dal giudizio sui comportamenti distorti o addirittura delittuosi dei possibili genitori. Poiché, nella surrogazione della maternità, non sono da escludersi strumentalizzazioni, ricatti, pressioni su terzi, che permettano questa filiazione “in persona alterius sexus absentis”. In gioco vi è un effettivo rischio di disumanizzazione e di contraddizione grave nei confronti della dignità delle donne e dei neonati. Ma, pur con tutto questo vasto ambito di questioni effettivamente delicate, il figlio “si dà” nella sua esistenza e merita di essere considerato in modo concreto e non astratto. Lo spazio di discernimento dei giudici resta inaggirabile. E questo riconoscimento di complessità è, se non un bene, almeno un male minore. Non vedere o non provvedere è una falsa soluzione.

Eguaglianza tra i figli: progresso e rischi. Vorrei far notare come qui agisca, opponendo una comprensibile resistenza, una “cultura della legge” di carattere apertamente pre-moderno e che merita di essere considerata, nei suoi pro e nei suoi contro. Per capire che cosa sia in gioco in queste rappresentazioni assai diffuse voglio passare attraverso un esempio per me illuminante.

Alcuni anni fa, in occasione della approvazione della legge che equiparava figli legittimi, naturali e adottivi (2012) mi capitò di ascoltare una obiezione proveniente da un professore di diritto canonico che mi ha molto illuminato. La legge, infatti, introduceva per la prima volta il principio di unicità dello stato di figlio: ciò, se valutato dal punto di vista del figlio, appare come una grande conquista, che superava secoli di pesante discriminazione. Ma, se considerata dal punto di vista “pedagogico”, la novità poteva apparire anche come un grande rischio. Qui lascio la parola al collega canonista che disse: “Così i genitori non si sposeranno nemmeno più per regolarizzare la condizione dei loro figli”. Questa osservazione rivela una concezione della legge che la considera dal punto di vista esclusivamente “pedagogico”. Le leggi orientano e educano i cittadini. Questa concezione, che è classica, fatica in molti casi a considerare che la legge non solo “orienta e plasma il dover essere”, ma “riconosce e governa l’essere”. Risponde ad un progetto, ma governa anche fatti.

La legge come pedagogia e come riconoscimento. Dietro a questa reazione io vedo profilarsi un rapporto più complessivo con il mondo tardo-moderno. Vi sono, infatti, anche oggi tendenze a ragionare sulla legge in modo solo pedagogico. Sia ben inteso: è proprio la perdita di percezione della dimensione pedagogica della legge una delle croci maggiori del nostro tempo. Ma ciò non implica che, per rispondere al relativismo giuridico, dobbiamo diventare tutti fondamentalisti e dimenticare la complessità dei fenomeni.

Come ricordava P. Sequeri, due mesi fa su Avvenire, la generazione è uno dei punti ciechi della riflessione teologica sulla famiglia. Essa richiede una comprensione teologica nuova, che tenga conto dell’orizzonte trinitario e creaturale del generare, senza dimenticare come le forme storiche della condizione di figlio non devono far pesare sui figli le eventuali colpe dei padri. «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (Gv 9,2) diceva il senso comune dei discepoli a proposito del cieco nato. Anche S. Tommaso d’Aquino rimane in questa logica quando, a proposito dei “figli illegittimi” da escludere dalla ordinazione scrive: “Quia obscuratur hominis claritas ex vitiosa origine, ideo ex illegitimo toro nati a susceptione ordinum repelluntur” (S. Th. Suppl. 39, 5, c). Alcune risposte ecclesiali e anche istituzionali, di fronte a nuove e complesse forme di esperienza filiale, rimangono su questi registri e rischiano o di non vedere il fenomeno nuovo (“non esistono figli contronaturali”) o di pregiudicarlo in schemi vecchi (“non riconosciamoli per salvarli dal peccato”). Non credo che queste risposte tengano conto della complessità nuova, alla quale possiamo rispondere solo con nuove categorie, capaci di riconoscere non solo il male da combattere, ma il bene possibile, che pure esiste, e la comunione di fronte alla quale dobbiamo sempre saperci inchinare. Se sapessimo guardare alla tradizione con gli occhi di Philomena – la protagonista del famoso film inglese – sapremmo custodire le ragioni dei figli, anche quando derivano da forme di vita che a nostro avviso sarebbero da censurare o da condannare. Dobbiamo salvare gli spazi di comunione effettiva: anche quando non corrispondono ai nostri ideali.

Saper riconoscere spazi effettivi di comunione. La realtà della comunione è più grande della Chiesa e dello Stato: è come Dio. La comunione che vedevamo garantita dall’ancien régime era e resta piena di valori, ma appare anche segnata da gravi ingiustizie. Le libertà che pretendono gli uomini di oggi sono assai rischiose e non di rado contraddittorie, ma non sono incapaci di dischiudere veri spazi di comunione, che vanno riconosciuti e custoditi. Il Vangelo – dobbiamo sempre ricordarlo anzitutto a noi stessi – non è mai garantito soltanto dal passato. E ci invita a vigilare non anzitutto contro il male che può sempre sorprenderci, ma piuttosto in vista del bene, che viene come un ladro, quando e da dove meno te lo aspetti.

Andrea Grillo blog: Come se non 29 luglio 2018

www.cittadellaeditrice.com/munera/legittimo-illegittimo-naturale-adottivo-contronaturale-le-vicende-del-figlio-tra-ancien-regime-e-vangelo

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CONSULTORI FAMILIARI DI DICHIARATA ISPIRAZIONE CRISTIANA

Adolescenti e paura di crescere – Convegno a Cerea (VR)

Sabato 10 novembre 2018 – ore 9.00 – 12.00

Consultorio Familiare “La Bussola” –

Interverrà Enrico Parolari

Psicologo-Psicoterapeuta Centro accompagnamento Vocazionale Milano

Direttore editoriale della rivista Tredimensioni

www.consultoriolabussola.it

www.cfc-italia.it/cfc/index.php/86-federazioni-regionali/triveneto/articoli-triveneto/430-consultorio-familiare-la-bussola-convegno

 

Latina, il Consultorio diocesano familiare vince un bando del ministero della Giustizia

Sarà il Consultorio diocesano familiare di Latina “Crescere insieme” a realizzare quest’anno il progetto “Percorsi di mediazione” disposto dal ministero della Giustizia. Proprio in questi giorni, infatti, alla struttura diocesana è stato comunicato che ha vinto il bando di gara nell’ambito delle azioni disposte dall’ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per Lazio, Abruzzo e Molise.

Il Consultorio diocesano dovrà realizzare sedici percorsi di mediazione penale a favore di persone adulte in messa alla prova, così come disposto dalle recenti normative penali. Poi, ogni percorso sarà gestito in modo tale da promuovere, favorire e realizzare momenti di incontro e di confronto tra imputati/indagati e le vittime, anche non dirette, in un contesto neutro e rispettoso delle esigenze degli interessati.

Dal momento che uno degli obiettivi del progetto è quello di sensibilizzare la comunità locale verso forme di giustizia alternative e fondate sulla riparazione e sull’impegno civico, sarà compito del Consultorio anche quello dei promuovere la cultura della mediazione e della giustizia ripartiva nell’ambito territoriale di competenza dell’ufficio locale esecuzione penale esterna di Latina (Ulepe).

Un ambito, questo, in cui il Consultorio diocesano ha già maturato una certa esperienza grazie ai progetti avviati dal 2006 ad oggi. Tra questi anche uno che riguarda la messa in prova di adulti indagati o imputati di reati punibili fino a 4 anni di carcere. Il programma prevede – sotto la supervisione del giudice – come attività obbligatorie, l’esecuzione gratuita di un lavoro di pubblica utilità, l’attuazione di condotte riparative per eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché il risarcimento del danno causato e, dove possibile, l’attività di mediazione con la vittima del reato.

Agenzia SIR 24 luglio 2018

http://m.agensir.it/quotidiano/2018/7/24/diocesi-latina-il-consultorio-diocesano-familiare-vince-un-bando-del-ministero-della-giustizia

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Mantova. Etica Salute & Famiglia – luglio 2018 Anno XXII, n. 7

  • Norma morale e coscienza personale nella vita della Chiesa. Gabrio Zacchè

  • Dopo il suicidio di un adolescente. Racconto di un intervento nella scuola Paolo Breviglieri

  • I donatori di sangue danno un grandissimo contributo alla scienza medica Attilio Pignata

  • Ostetrica mi dica. Cistite: tipologie, sintomi, fattori di rischio e prevenzione Alessandra Venegoni

  • Psicologo mi dica. La filiazione Giuseppe Cesa

www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/index.php/pubblicazioni/etica-salute-famiglia/134-etica-salute-famiglia-luglio-2018

 

Nuove apparecchiature mediche per l’Ucipem di Pescara

Pescara. Grazie alla solidarietà il Consultorio familiare UCIPEM di Pescara e il centro di Diagnostica senologica dell’Ospedale “Bernabeo” di Ortona saranno dotati di nuove apparecchiature per assistere i propri pazienti. Le nuove dotazioni sono state rese disponibili grazie alla donazione di UniCredit e all’impegno del Consultorio familiare UCIPEM, nato con l’intento di offrire consulenza aperto a tutti, di G.A.I.A. onlus, Associazione di volontariato fondata a sostegno delle donne operate al seno.

A disposizione del Consultorio UCIPEM ci sarà un nuovo ecografo multidisciplinare carrellato particolarmente utile nell’attività di prevenzione, (…). La consegna simbolica dei fondi per le nuove strumentazioni è avvenuta oggi presso la filiale UniCredit di Pescara – Piazza Unione 18, alla presenza di Massimo Bruno, Responsabile Commerciale Abruzzo, Fabrizio Tartaglia, Responsabile dei Rapporti con il Territorio. Per G.A.I.A. onlus (Generosità Attiva Ideazione Attenta) sarà presente Patrizia Bonora, Presidente dell’associazione e per UCIPEM Loris Di Vittorio, Direttore del Consultorio, Mario Cappelluti, segretario amministrativo. (…)

Abruzzo live 25 luglio 2018 www.abruzzolive.it/?p=95576

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DALLA NAVATA

17° Domenica – Anno B –29 luglio 2018

2Re 04, 44 Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.

Salmo 144, 18 Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità.

Efesini 04, 06 Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.

Giovanni 06, 15 Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

 

La moltiplicazione dei pani. Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose.

L’ordo delle letture bibliche dell’annata liturgica B ha previsto che, giunti nella lettura cursiva di Marco all’evento della moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,35-44), si interrompa la lettura del vangelo più antico e la si sostituisca con la lettura dello stesso episodio narrato nel quarto vangelo. Per cinque domeniche si legge dunque il capitolo 6 di Giovanni, un testo che richiede una breve introduzione generale.

In verità questo capitolo, tutto incentrato sul tema del “pane di vita”, che mai appare altrove, sembra piuttosto isolato nello svolgimento del racconto giovanneo. Con buona probabilità, si tratta di un brano aggiunto più tardi per dare alla chiesa giovannea una catechesi sull’eucaristia, essendo il racconto della sua istituzione mancante nel quarto vangelo, sostituito da quello della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-17). Questo capitolo in ogni caso è decisamente importante nel quarto vangelo, perché proprio attraverso la comprensione eucaristica Pietro e gli altri discepoli giungono alla confessione dell’identità di Gesù: per i giudei è il figlio di Giuseppe, semplicemente un uomo della Galilea (cf. Gv 6,42), mentre Gesù dichiara di essere il Figlio di Dio, colui che è e disceso dal cielo come inviato del Padre (cf. Gv 6,57); la vera identità di Gesù è proclamata con la confessione di Pietro, che riconosce in lui “il Santo di Dio” (Gv 6,69).

Dell’evento della moltiplicazione dei pani i vangeli ci danno ben sei testimonianze perché Matteo e Marco hanno conservato due tradizioni di quel “prodigio”, recepito dalla chiesa come profetico del dono del pane eucaristico dato da Gesù ai suoi discepoli la sera della sua passione. Il quarto vangelo in modo ancora più esplicito lo narra come “segno” (semeîon) che annuncia il dono del corpo e del sangue, dell’intera vita di Gesù.

Gesù si trova in Galilea, sul lago di Tiberiade, quando decide di attraversare l’ampia insenatura per raggiungere l’altra riva, sempre sul lato occidentale del lago, forse per cercare un luogo di riposo e di preghiera. Ma “una grande folla” lo segue, e subito l’evangelista ce ne fornisce la ragione: Gesù ha compiuto molti segni sui malati, la sua azione e la sua predicazione destano stupore e curiosità. Questa sembra dunque essere un’ora di successo per lui, che sceglie di salire sul monte, come aveva fatto Mosè in occasione della celebrazione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Viene anche esplicitata un’informazione temporale: “era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei”. Era dunque un’ora vigiliare (come l’ora dell’istituzione eucaristica), e infatti il segno che Gesù opererà sarà il segno della Pasqua cristiana per eccellenza.

Seduto in alto, Gesù ha davanti a sé la grande folla, che osserva alzando gli occhi: è una folla in attesa! Ed ecco che liberamente e gratuitamente prende l’iniziativa di dare un segno, di compiere un gesto che racconti l’amore di Dio, il quale ama così tanto l’umanità da darle in dono suo Figlio (cf. Gv 3,16). Chiama a sé un discepolo, Filippo, e gli chiede: “Da dove potremo comprare il pane per sfamare costoro?”. In realtà Gesù sa cosa sta per compiere, perché la sua intenzione è frutto della sua comunione con i pensieri di Dio, che lui chiama “Padre”. Filippo invece compie i calcoli per determinare la spesa dell’acquisto del pane per tanta gente e Andrea fa presente che i cinque pane d’orzo e i due pesci che un ragazzo ha portato con sé sarebbero assolutamente insufficienti.

Allora Gesù, con la sua sovranità, chiede ai discepoli di far adagiare la folla su quell’erba verde che ricorda i pascoli dove Dio, il Pastore, conduce le sue pecore (cf. Sal 23,2), affinché abbiano cibo abbondante. Poi davanti a tutti compie il gesto: “prese i pani e, dopo aver reso grazie (eucharistésas), li distribuì a quelli che erano adagiati sull’erba, e lo stesso fece con i pesciolini, secondo il loro bisogno”. Ecco il segno dato e i gesti che preannunciano quelli dell’istituzione eucaristica nell’ultima cena:

Gesù prende nelle sue mani il pane, rende grazie a Dio (o lo benedice, secondo Marco e Matteo), lo spezza e lo dà, lo distribuisce ai discepoli.

È lui, il Cristo Signore, che dà, distribuisce (dédoken) quel pane che sfama cinquemila persone, quei cinque pani che, condivisi, riescono a saziare tutti. E proprio in virtù di questa azione totalmente decisa e fatta da lui stesso, potrà dire: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Così Gesù appare come il Profeta escatologico, ben più di Eliseo che aveva moltiplicato i pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44), perché non soccorre solo la fame, il bisogno umano di mangiare per vivere, ma fa il dono del suo corpo, amando i suoi fino alla fine (cf. Gv 13,1). Il pane, che è una necessità per l’uomo, per il suo bisogno di vivere, è anche ciò che Dio dona a ogni creatura (cf. Sal 136,25). Nel gesto di Gesù vi è dunque il venire incontro al bisogno umano ma anche la narrazione dell’amore di Dio, amore gratuito e sovrabbondante, eccessivo, che non chiede contraccambio, ma solo accoglienza e ringraziamento.

Anche l’ingiunzione di Gesù “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto” ha un significato particolare: non manifesta solo l’abbondanza del pane condiviso ma significa che sempre nella comunità del Signore ci sarà il pane eucaristico, che dovrà essere conservato con cura e sollecitudine.

Il racconto di questo segno si risolve però in un malinteso. Attraverso questo segno Gesù ha voluto rivelare qualcosa della sua identità e del suo inserimento nella storia di salvezza: è il Profeta, è il Messia, è colui che rinnova e trascende in un’inedita pienezza i segni operati da Dio stesso nell’esodo, ma la gente che giunge a questa comprensione di Gesù trae delle conseguenze che egli rigetta, fino a sottrarsi e a fuggire nella solitudine. Infatti, posta di fronte a quel segno profetico e a quel prodigio della moltiplicazione del pane condiviso, la folla pensa che sia giunta l’ora di proclamare Gesù Re dei Giudei e di celebrare la sua gloria. Equivoco, malinteso che svela come anche l’acquisizione della conoscenza di Gesù possa essere sviante e tradire la sua vera identità e l’autentica intenzione dei suoi gesti.

Percepire Gesù come re al modo dei re, dei potenti di questo mondo, sarebbe negare la missione che egli ha ricevuto dal Padre e acconsentire alle intenzioni del Principe di questo mondo, Satana. Gesù è il Re dei Giudei, e tale sarà proclamato sulla croce dal titolo che Pilato farà innalzare sul suo capo (cf. Gv 19,19); ma è un Re crocifisso, nella debolezza dell’uomo dei dolori, vittima dell’odio del mondo, solidale con i perseguitati, gli oppressi, i poveri, gli scarti della storia. La numerosa folla misconosce dunque quel Gesù che ha seguito, perché lo interpreta e lo vuole secondo i propri desideri e le proprie proiezioni, non essendo disposta ad accettare un Profeta e Messia conforme al disegno di Dio. È significativo che Giovanni annoti che “volevano impadronirsi di lui per farlo re”, volevano cioè ridurlo a un oggetto, un idolo plasmato dai loro desideri, volevano un Messia con un programma mondano. Ma Gesù rifiuta perché sa che quel potere che gli vogliono dare non è il vero potere conferitogli dal Padre. Come aveva fuggito le tentazioni di potere nel deserto (cf. Mc 1,12-13; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13), così ora si ritira nella solitudine della montagna, fuggendo dalla folla che lo acclama, discernendo l’illusione di un apparente successo, che non può né desiderare né accettare. Salendo su quel monte, da solo, lasciando a valle anche i discepoli, Gesù medita su quell’incomprensione e si affida nuovamente al Padre, affidandogli anche quella folla e quei discepoli che non avevano capito né il suo gesto né la sua intenzione.

Ma il seguito del racconto, che ascolteremo nelle prossime domeniche, ci rivelerà, attraverso un lungo discorso di Gesù che colui che ha dato il pane in abbondanza è in verità lui stesso il pane dato da Dio all’umanità per la pienezza della sua vita.

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12479-pani

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DEMOGRAFIA

La Cina spinge per il secondo figlio.

La Cina e i bonus per la natalità: dalla politica del figlio unico agli incentivi che contrastano l’avanzare di una popolazione fin troppo anziana. Resta l’interrogativo: non c’era allarme sovrappopolazione mondiale? Tutte menzogne? La scienza risponde.

Risale al 1798, il primo allarme demografico, lanciato dell’economista inglese Thomas Malthus: in un sistema finito come il Pianeta Terra, dove la crescita demografica avviene in progressione geometrica mentre le risorse crescono in maniera aritmetica, l’impoverimento della popolazione è un fenomeno irreversibile, a meno che uno stretto controllo della natalità fermi il dilagante boom demografico.

Dal 1798 al 2018, scienziati, economisti e demografi si sono interrogati sulla veridicità della correlazione ottocentesca: affermazioni riprese, smentite, riprese nuovamente e smentite duramente, la domanda resta ancora: siamo troppi sulla Terra?

Gli organismi internazionali non hanno mancato l’appuntamento con la domanda: le conferenze di Bucarest (1974), Città del Messico (1984) e de Il Cairo (1994) furono le decennali scadenze che l’ONU organizzò per discutere dell’andamento demografico e sue correlate criticità: povertà, cambiamento climatico, profughi e condizione femminile a cui un controllo sulle nascite sembrava la risposta ovvia al sovraffollamento mondiale.

La “Population Bomb” (1991) di Paul Ehrlich aggiungeva: “la battaglia per nutrire l’umanità è persa, centinaia di milioni di persone moriranno di fame e il tasso di mortalità aumenterà nei decenni a venire”… insomma, siamo troppi!

Non troppo lontana è la denuncia della FAO la cui stima più ottimistica è che entro il 2050 la quantità di acqua a disposizione di ogni singolo individuo scenderà del 73%.

Eppure… risale al 19 luglio 2018 l’annuncio del governo cinese sul lancio di bonus fiscali e sociali per stimolare le nascite. A causa di una popolazione troppo anziana, il decreto propone: congedi di maternità fino a 158 giorni, congedi di paternità, ricompense monetarie e distribuzione di pappe per neonati a base di latte fino al raggiungimento di 3 anni d’età del bambino.

Una Cina che chiede più nascite contro un allarme demografico smentito, nel 2015 dall’allarme sulla crisi della natalità lanciato da Wall Street Journal, il maggior quotidiano al mondo di affari e finanza. Attraverso una serie di grafici interattivi, l’articolo dimostra infatti che la popolazione in età lavorativa delle economie sviluppate registrerà un segno meno, e “entro il 2050 si ridurrà del 5%”. La popolazione in età lavorativa diminuirà del 26% in Corea del Sud, del 28% in Giappone, del 23% in Italia e Germania.

Dov’è la verità? Joel Cohen, ricercatore demografico della Rockfeller University di New York, spiega che non è affatto vero che la popolazione sta crescendo in modo esponenziale anzi sta crescendo con un tasso che è all’incirca la metà di quello che si registrava fino al 1965.

Oggi ci sono circa 7,3 miliardi di abitanti nel mondo, che dovrebbero diventare 9,7 miliardi entro il 2050.

News Ai. Bi. 24 luglio 2018 www.aibi.it/ita/siamo-in-troppi-cina-spinge-per-secondo-figlio

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DIRITTO DI FAMIGLIA

Accordo innanzi al Sindaco: l’altra soluzione consensuale per separazione, divorzio

Oltre alla negoziazione assistita, resa possibile grazie all’intervento degli avvocati, il secondo istituto giuridico a cui le parti possono far ricorso per la separazione, il divorzio la modifica delle condizioni di separazione e di divorzio conseguenti è l’accordo innanzi al Sindaco.

Più semplice è la struttura dell’istituto previsto dall’art. 12 del D.L. 12 settembre 2014, n. 132.

www.consiglionazionaleforense.it/documents/20182/200991/D.L.+n.+132-2014

Tale norma prevede che le parti possono concludere, innanzi al Sindaco quale Ufficiale dello stato civile del Comune di residenza di uno di loro o del Comune presso cui è iscritto o trascritto l’atto di matrimonio un accordo di separazione ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

Presupposti e procedimento. Il ricorso a detta procedura è escluso:

  • In presenza di figli minori;

  • In presenza di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave (L. n. 104/1992);

  • In presenza di figli maggiorenni economicamente non autosufficienti.

La Circolare Ministero Interno del 24 aprile 2015, n. 6 ha chiarito che il limite di operatività della norma è riferito ai soli casi di figli (minori, maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave, economicamente non autosufficienti) comuni alla coppia, ossia ai soli casi di figli comuni dei coniugi richiedenti. https://dait.interno.gov.it/documenti/circ-006-servdemo-24-04-2015.pdf

Ne discende che il ricorso alla procedura di cui all’art. 12 D.L. n. 132/2014 è invece possibile in presenza di figli (minori, maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave, economicamente non autosufficienti) non comuni alla coppia ma di uno solo dei coniugi richiedenti.

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/09/12/14G00147/sg

A differenza quindi dell’accordo concluso in sede di negoziazione assistita ex art. 6 D.L. n. 132/2014, l’accordo di cui all’art. 12 D.L. n. 132/2014 non può essere concluso in presenza di figli a meno che questi non siano maggiorenni ed economicamente indipendenti.

L’Ufficiale dello stato civile riceve da ciascuna delle parti, personalmente o con l’assistenza facoltativa di un avvocato, la dichiarazione che esse vogliono separarsi, divorziare o modificare le condizioni di separazione o di divorzio.

L’atto contenente l’accordo è compilato e sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento di suddette dichiarazioni. È previsto, inoltre, un termine di riflessione di trenta giorni al termine del quale le parti sono invitate a comparire innanzi all’Ufficiale dello stato civile per confermare l’accordo che, in mancanza di conferma, si intende revocato.

L’iter procedimentale risulta quindi assai semplificato, esaurendosi nella comparizione delle parti per due volte innanzi all’Ufficiale dello stato civile, una prima volta per fare le richieste dichiarazioni ed una seconda volta per confermarle.

L’accordo sostituisce, di fatto, i provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio.

L’accordo di separazione presentato al Sindaco è dunque titolo per ottenere il divorzio decorsi sei mesi dall’accordo stesso, ai sensi dell’art. 3, n. 2, lett. e, L. n. 898/1970 così come modificato dalla L. n. 55/6 maggio 2015.

La Circ. Ministero Interno del 28 novembre 2014, n. 19 ha chiarito che i sei mesi di separazione legale necessari per proporre la domanda di divorzio decorrono dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’Ufficiale dello stato civile.

www.google.com/search?q=L.+n.+55%2F2015Circ.+Ministero+Interno+del+28+novembre+2014%2C+n.+19+&ie=utf-8&oe=utf-8&client=firefox-b

L’Ufficiale dello stato civile procede direttamente all’iscrizione dell’accordo nei registri degli atti di matrimonio ai sensi dell’art. 63, comma 1, lett. g ter, Ord. st. civ. ed alla sua annotazione a margine dell’atto di matrimonio, come previsto dall’art. 69, lett. d ter, Ord. st. civ.

Il ruolo del Sindaco. La legge, a differenza di quanto accade nell’ambito della negoziazione assistita, non attribuisce al Sindaco alcun compito autorizzativo né tantomeno di controllo. Tuttavia, pur in mancanza di un’attribuzione in tal senso, al Sindaco sono imposte tutte le verifiche formali necessarie ai fini della formazione dell’atto. In particolare, il Sindaco deve accertare:

  • L’identità delle parti;

  • L’assenza di figli minorenni, incapaci, portatori di handicap grave o non economicamente indipendenti;

  • La sussistenza dei presupposti richiesti ex art. 12, D.L. n. 132/2014 (e dunque in caso di separazione che vi sia accordo ed in caso di divorzio che sussista il presupposto della separazione protratta per 6 mesi/1 anno).

L’assenza di un controllo sull’autonomia privata pone un dubbio di coerenza sistematica dell’istituto alla luce del fatto che tale controllo è invece previsto ad opera della procura nell’ambito della negoziazione assistita. Ciò lascia trapelare un rischio per la parte più debole che, nell’ambito di un procedimento in cui la difesa tecnica è solo facoltativa, non trova alcun presidio in via preventiva alla tutela dei propri interessi. Rischio del quale il legislatore sembra parzialmente rendersi conto laddove ha escluso l’applicabilità di tali procedimenti nell’ipotesi in cui le parti abbiano figli minori o incapaci o economicamente non autosufficienti o portatori di handicap grave.

Contenuto dell’accordo. L’art. 12, comma 3, D.L. n. 132/2014 prevede espressamente che l’accordo (di separazione, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio) non può contenere patti di trasferimento patrimoniale. Tuttavia, tale divieto, come chiarito dalla Circ. Ministero Interno del 24 aprile 2015, n. 6/2015, concerne i soli patti produttivi di effetti traslativi di diritti reali.

Ciò significa che l’accordo concluso davanti all’Ufficiale dello stato civile può contenere la previsione di un obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno periodico, sia nel caso di separazione consensuale (assegno di mantenimento) sia nel caso di richiesta congiunta di cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio (assegno divorzile), così come l’attribuzione dell’assegno, la sua revoca o la sua revisione, possono essere contenuti nell’accordo congiunto con il quale le parti richiedono la modifica delle precedenti condizioni di separazione o di divorzio.

Tutte le suddette disposizioni negoziali determinano tra i coniugi l’insorgenza di un rapporto obbligatorio che non produce effetti traslativi su di un determinato bene, effetti traslativi che sono invece preclusi dalla norma.

La circolare menzionata specifica anche che, nell’ambito dei detti limiti e per quanto chiarito, l’Ufficiale dello stato civile è tenuto a recepire quanto concordato dalle parti e non può entrare nel merito della somma consensualmente decisa né della congruità della stessa.

Rimane invece esclusa dall’oggetto dell’accordo la previsione della corresponsione, in un’unica soluzione, dell’assegno periodico di divorzio (una tantum) in quanto si traduce in una attribuzione patrimoniale (mobiliare o immobiliare) espressamente esclusa dalla norma.

L’art. 5, comma 8, L. n. 898/1970 impone peraltro che la corresponsione in un’unica soluzione dell’assegno divorzile sia dichiarata equa dal Tribunale e quindi esclude che gli effetti della norma possano prodursi all’esito di una procedura stragiudiziale.

Elena Falletti Articolo a cura di Studio Legale Rimini Altalex 27 luglio 2018.

www.altalex.com/documents/biblioteca/2018/07/26/separazione-personale-accordo-davanti-al-sindaco

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DIVORZIO

Divorzio: si può revocare il consenso e cambiare idea?

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 19540, 24 luglio 2018

È possibile, in caso di separazione e di divorzio, il ripensamento unilaterale al procedimento consensuale? Tu e tua moglie vi siete già separati da circa un anno e ora avete deciso di divorziare. Vi siete così incontrati e, così come avevate fatto per la separazione, avete stilato un accordo in cui condividete alcuni punti essenziali sull’assegno di mantenimento e sulle condizioni di visita dei figli. Avete poi depositato il ricorso in tribunale e atteso la prima udienza. Senonché, proprio il giorno prima di incontrarvi davanti al giudice, avete litigato in modo molto violento e aspro. Vi siete rinfacciati l’un l’altro la responsabilità per il fallimento del matrimonio e non avete risparmiato accuse nei confronti delle rispettive famiglie. Lei, ferita nell’orgoglio, ti ha detto che intende rinunciare al procedimento di divorzio consensuale e farti causa. «Strappo l’accordo» ti ha promesso. Tu sai però che l’atto è già stato depositato in tribunale dagli avvocati e, a meno di dichiarare il proprio dissenso in udienza stessa, è impossibile tornare indietro. Ma lei si richiama a quanto di solito avviene con la separazione che, a suo avviso, vale anche in sede di divorzio: si può revocare il consenso e cambiare idea. Chi dei due ha ragione? Un caso simile è stato deciso dalla Cassazione proprio ieri.

La sentenza in commento è particolarmente interessante perché fa comprendere le profonde differenze che ci sono, almeno sul piano processuale, tra il processo di separazione dei coniugi (che, in termini tecnici, viene definito un procedimento di “volontaria giurisdizione”, caratterizzato quindi – almeno nella generalità dei casi – dalla collaborazione tra le parti) e quello di divorzio (che, invece, ha una natura tipicamente contenziosa, dove le parti sono contrapposte). Questa sostanziale diversità di struttura tra i due tipi di cause porta a individuare una soluzione diversa alla domanda se si può cambiare idea e revocare il consenso al divorzio o alla separazione. Ecco cosa è stato detto in proposito dai giudici supremi.

Come si avvia la separazione o il divorzio? Partiamo innanzitutto da un presupposto. Come certamente saprai, esistono due modi per avviar un procedimento di separazione e uno di divorzio:

  • Procedura consensuale o “a domanda congiunta”: qui i coniugi presentano un ricorso condiviso nel contenuto. La loro intenzione quindi non è quella di farsi causa ma di chiedere al giudice di convalidare l’accordo e renderlo definitivo. In questo modo, viene ratificata l’intesa già raggiunta dalle parti;

  • Procedura giudiziale: in questa ipotesi, invece, l’ex marito e moglie non sono riusciti a trovare un accordo, pertanto si rivolgono al giudice affinché sciolga la comunione e/o il vincolo del matrimonio tra i due stabilendo tutte le condizioni personali e patrimoniali.

Posto che, sia per la separazione che per il divorzio, una volta iniziata la procedura giudiziale è sempre possibile abbandonare la causa e rinunciare al processo (ad esempio quando i due coniugi tornano insieme) oppure trasformarlo in un procedimento consensuale (quando i due trovano un’intesa nel corso del giudizio), in questo articolo ci occuperemo dell’altro caso: ossia se, una volta presentata la domanda congiunta di separazione o divorzio (la procedura cioè consensuale) questa può essere revocata.

Si può revocare il consenso al divorzio? Secondo la Cassazione, la revoca unilaterale del consenso al divorzio non comporta l’arresto del processo. Processo che quindi va regolarmente avanti. Il giudice dovrà innanzitutto verificare l’esistenza dei presupposti per lo scioglimento del matrimonio i quali, come noto, consistono nei seguenti aspetti:

  • Il decorso di un certo lasso di tempo dalla separazione: si deve trattare di almeno sei mesi se la separazione è avvenuta consensualmente o di un anno se invece è avvenuta in via giudiziale, ossia nel contrasto tra le parti. Il termine inizia a decorrere dalla data della prima udienza, quella davanti al Presidente del Tribunale e rivolta al tentativo di conciliazione;

  • L’assenza di qualsiasi riconciliazione tra i coniugi nel periodo tra la pronuncia di separazione e la richiesta di divorzio.

Verificata la sussistenza delle condizioni per il divorzio, il tribunale passa all’esame delle condizioni concordate in merito ai figli e ai beni, accertando che le stesse siano conformi alle norme inderogabili e all’interesse dei minori.

Alla luce di ciò, non si può bloccare la procedura di divorzio una volta che il ricorso congiunto e presentato da ambe le parti è stato già depositato. Risultato: l’accordo già raggiunto resta, non decade né può essere revocato; la causa va avanti anche se l’ex si rimangia il sì al ricorso congiunto.

Si può revocare il consenso alla separazione? Diversa, anzi diametralmente opposta, è la soluzione per quanto invece riguarda la separazione che, come detto, è un processo incentrato in linea di massima sull’accordo tra i coniugi che il giudice deve “ratificare” con un’attività di controllo che non può mai comportare un’integrazione o una sostituzione dell’accordo delle parti. Il che significa che se viene meno l’accordo il giudice non può procedere alla separazione consensuale, ma tutt’al più, verificato che non c’è più intesa sulle condizioni di separazione, interrompe la procedura e rinvia le parti al giudice di merito per istruire la causa vera e propria. Non è, quindi, come nel divorzio dove marito e moglie sono contrapposti sin dall’inizio e, anche quando il procedimento parte da un ricorso congiunto, viene richiesta una pronuncia fondata sull’accertamento dei presupposti di legge. L’accordo riveste una natura solo ricognitiva, per quanto riguarda i presupposti necessari allo scioglimento del vincolo, la cui sussistenza è soggetta alla verifica del tribunale che, sul punto, ha pieni poteri.

Differenze tra separazione e divorzio a domanda congiunta. Non si può quindi assimilare il divorzio alla separazione: solo in quest’ultimo caso la revoca del consenso da parte di uno dei coniugi fa venir meno il requisito indispensabile per l’accoglimento della domanda e quindi interrompe la procedura.

Invece, nel divorzio, la parte che ritira il consenso sul riconoscimento dei presupposti per sciogliere il vincolo non impedisce al giudice di accertarne l’esistenza. Quindi l’accordo iniziale – che è anche la base del procedimento – non può essere più revocato. In altri termini il ripensamento unilaterale sulla parte dell’accordo che riguarda figli e patrimonio è inammissibile. Proprio sui minori emergono altre differenze fra la separazione consensuale e il divorzio a domanda congiunta: nel primo caso il giudice può suggerire modifiche all’affidamento dei figli e rifiutare l’omologazione in caso di soluzione inadeguata; nel secondo la legge divorzio prevede l’adozione di provvedimenti temporanei e urgenti e la prosecuzione del giudizio nelle forme contenziose.

Redazione La legge per tutti 25 luglio 2018 Ordinanza

www.laleggepertutti.it/225077_divorzio-si-puo-revocare-il-consenso-e-cambiare-idea

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

De Palo: “Subito no-tax area di cittadinanza per ogni figlio”

“Non serve moltiplicare gli scaglioni di reddito, né andare avanti con bonus ‘per gentile concessione’. Il Forum Famiglie è preoccupato perché, negli ultimi tempi, l’anno della famiglia sembra non arrivare mai. Ma la natalità va rianimata adesso, attraverso una rivoluzione fiscale che metta al centro i nuclei familiari, soprattutto quelli con tanti figli, tenendo conto del reddito realmente disponibile. Per questo, chiediamo al Governo di realizzare subito, fin da questa Legge di Bilancio, le proposte messe oggi sul tavolo, prevedendo il calcolo contributivo secondo il Fattore Famiglia”: così il presidente nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, Gigi De Palo, commenta le parole del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, durante l’odierno Question Time alla Camera, relative alle misure allo studio dell’Esecutivo per rilanciare le nascite in Italia.

“Apprezziamo l’idea del ministro Tria di trovare una soluzione armoniosa tra le due misure cardine del contratto per il governo del cambiamento, il reddito di cittadinanza e la no-tax area all’interno della Flat Tax”, sottolinea Francesco Bianchini, delegato al Fisco del Forum Famiglie. “Secondo il Forum Famiglie, il sistema previsto con il contratto di governo sarebbe già pronto all’uso se venisse interpretato in maniera coerente, in quanto la no-tax area non può non coincidere con la soglia di povertà individuata per il reddito di cittadinanza e, precisamente, in 780 euro mensili a persona, crescenti in base alla numerosità familiare e applicando la scala OCSE modificata. Tale no-tax area può e deve introdursi immediatamente, non essendo di ostacolo a quest’ipotesi di sostegno a natalità e benessere familiare le aliquote per scaglioni di reddito attualmente in vigore”.

Comunicato Stampa 25 luglio 2018

www.forumfamiglie.org/2018/07/25/fisco-de-palo-forum-famiglie-subito-no-tax-area-di-cittadinanza-per-ogni-figlio

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GENDER

Il «farmaco gender». Ma quel «sì» deve riguardare sol indicazioni diverse da quelle autorizzate” o pochi casi eccezionali

Quando è stato fatto tutto il possibile sul piano della psicoterapia questi restano soggetti a rischio suicidio e autolesionismo.

Il Comitato nazionale di bioetica (Cnb) ha ricevuto una richiesta dall’Agenzia italiana del farmaco sull’uso del farmaco triptorelina off label [indicazioni diverse da quelle autorizzate] per adolescenti con disforia di genere, o non congruità tra sesso alla nascita e genere percepito, per sospendere la pubertà per un periodo limitato per accertare la condizione e consentire la maturazione di una consapevolezza in merito al cambiamento di sesso. Si tratta di un tema complesso e delicato, per varie ragioni.

www.sanita24.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANO_SANITA/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/2018/07/24/disforia.pdf?uuid=AEXwZ8QF

Per ragioni scientifiche, perché come ogni trattamento fuori dalla indicazione originaria non esistono evidenze di sicurezza (bilanciamento rischi/ benefici) ed efficacia. Per ragioni filosofiche, perché diverse sono le posizioni, nel contesto del pluralismo che caratterizza il Cnb, sulla questione gender, tra chi ritiene che la disforia di genere sia una patologia e chi ritiene che sia una condizione, tra chi riconosce che la dimensione naturale debba prevalere sulla scelta individuale e chi considera il desiderio soggettivo come la dimensione prioritaria.

Il Comitato ha dovuto necessariamente muovere dal dato di fatto che alcune Società scientifiche internazionali e nazionali ne raccomandano l’uso e che tale farmaco sia già utilizzato nelle strutture sanitarie in Italia e all’estero e in forza di ciò ha ritenuto opportuno esprimersi contro la liberalizzazione, sottolineando l’esigenza etica che siano definiti i limiti dell’uso del farmaco, che viene oggi prescritto di fatto da medici generici e pediatri non specialisti. Il Comitato, sulla base di un approccio di prudenza, e certamente ben lontano dall’avallare un modello gender fluid [identità sessuale fluttuante] ha ritenuto che possa essere prescritto solo in casi eccezionali in adolescenti con disforia di genere e con grave sofferenza, rischio di autolesionismo e di suicidio non altrimenti trattabile, quando già è stato fatto tutto il possibile sul piano della psicoterapia e psicanalisi.

Queste possibili difficoltà del minore, che si traducono in rischi per la stessa vita del paziente, sono state confermate da tutti gli illustri professionisti auditi dal Comitato per la elaborazione del parere. Il Cnb ha voluto tenere primariamente in conto il principio etico di beneficienza nei confronti di un minore in stato di grave sofferenza. Inoltre, diversamente da quanto avviene oggi nelle strutture sanitarie, ha raccomandato che tale farmaco possa essere prescritto solo da una équipe specialistica, composta da un neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, un endocrinologo pediatrico, uno psicologo dell’età evolutiva e un bioeticista, con un protocollo diagnostico- terapeutico che accompagni gli adolescenti e le loro famiglie anche sul piano psico-sociale.

Il Comitato si è, dunque, preoccupato che siano evitate forme di automedicazione e trattamenti non adeguatamente monitorati. Ha raccomandato altresì una formazione dei pediatri, oltre che della rete socio-sanitaria, e studi di sicurezza/efficacia e follow-up [controlli periodici e programmati] sui casi trattati. Il Comitato, inoltre, ha ritenuto, come per ogni trattamento sanitario sul corpo del minori, che l’adolescente debba essere adeguatamente informato con «l’ausilio di professionisti del settore», nel contesto delle sue specifiche condizioni, ponendo sempre come prioritaria la sua salute psico-fisica (in conformità alla recente legge 219/2017).

Il Comitato ha peraltro sottolineato che il problema non è solo quello sollevato da Aifa della rimborsabilità del farmaco (il cui accesso deve essere equo ed omogeneo, come per tutti i farmaci), ma semmai e soprattutto il chiarimento sul piano normativo delle particolari condizioni etiche di somministrazione del farmaco. Va ricordata la postilla di dissenso di Assuntina Morresi e le astensioni dei rappresentanti dell’Istituto superiore di sanità e del Consiglio superiore di sanità, che non hanno espresso motivazioni in merito.

Laura Palazzani, vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica Avvenire 26 luglio 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/ma-quel-s-deve-riguardare-solo-pochi-casi-eccezionali

 

Farmaco gender. Così avremo corpi bambini e menti adulte. Troppi rischi

Ci saranno adolescenti confusi, fuori dall’evoluzione fisiologica ormonale: come potranno non sentirsi sempre più diversi? Maschio, femmina o altro? Per decidere, secondo molti, ci vuole tempo. E dunque bisogna fermare la pubertà per «guadagnare tempo» e aspettare qualche anno per stabilire se passare o no all’altro genere: per questo viene usata la triptorelina (Trp), quando si ha una diagnosi di disforia di genere (Dg), cioè quando il genere “percepito” non è congruente con quello alla nascita.

Ma che significa concretamente? Significa che se un bambino “si sente” una bambina (e viceversa) e si comporta di conseguenza, a 12 anni, quando il suo corpo inizia a cambiare per la pubertà, gli viene somministrata la Trp e la crescita si interrompe. Significa che se è un maschio si riduce il volume dei suoi genitali, non gli cambia la voce, non c’è il pomo di Adamo, mentre se è una femmina non cresce il seno, non arrivano le mestruazioni oppure si bloccano. Si ferma anche lo sviluppo delle ossa, e si cresce poco in altezza. Il volto, il corpo, l’aspetto rimangono bambini, «in uno stato neutrale di prima pubertà, in un limbo», dicono gli esperti. E così fino a 16 anni: se resta la convinzione di essere «nel corpo sbagliato», si va avanti con gli ormoni per cambiare sesso. E poi la chirurgia, a 18.

Fino a quattro anni di “sospensione” fisica, ma lo sviluppo cognitivo non si può fermare, e quindi c’è una persona fisicamente bambina ma che cognitivamente continua a crescere, anche se le emozioni e i sentimenti sono alterati: se si sopprime la spinta degli ormoni nativi, cosa avviene nelle relazioni con gli altri, in una pubertà così volutamente manipolata? Non siamo solo i nostri ormoni, ma siamo anche i nostri ormoni, e sappiamo bene quanto contino fra i 12 e i 16 anni. Con un corpo bambino e una “mente” più adulta, per anni, confusi di per sé e fuori dall’evoluzione fisiologica ormonale: come possono questi ragazzi non sentirsi sempre più diversi dai compagni di banco? Niente si sa degli effetti fisici a lungo termine, né se siano veramente reversibili: i dati scientifici ci sono solo per la Trp usata per lo scopo opposto, cioè interrompere la pubertà “patologica”, quando arriva troppo presto (6,7 anni) e non quando è fisiologica (12 anni). Cioè i dati disponibili sono per usi diversi.

Chi condivide il trattamento dice che così diminuisce la sofferenza legata alla Dg (ansia, depressione, autolesionismo, tendenze suicidarie, autismo), perché si eliminano i segni del corpo che non si vuole. E, nell’attesa, si capisce meglio chi si vuole diventare. Ma se il corpo è “neutro”, come si fa a ragionare su “chi” si vuole diventare? Manca proprio quello su cui si dovrebbe lavorare, cioè l’esperienza del corpo che cresce, dello sviluppo tipico dell’età. Si taglia via un pezzo di vita e si “riflette” sull’immaginario. E non c’è alcuna prova che depressione, ansia, tendenze suicide si curino bloccando la crescita. E chi stabilisce se la Dg è causa o effetto di tutto questo? Anche su questo non c’è alcun dato.

Infine, il consenso informato, che diventa un atto formale. Ma veramente pensiamo che un dodicenne, o un sedicenne, specie in queste condizioni, sia consapevole di cosa significhi cambiare genere, e non poter avere bambini in futuro? O che, forse, potrebbe congelare i suoi gameti, per essere poi madre biologica e padre sociale al tempo stesso, o viceversa? Dai pochi dati disponibili quasi nessuno desiste durante il protocollo: in Olanda, dove è nato e si è sviluppato, tutti quelli che lo hanno iniziato hanno poi cambiato sesso chirurgicamente alla maggiore età. Ma come si può pensare che suggerire precocemente il cambio di genere, con una pesantissima manipolazione nella fase cruciale dello sviluppo, sia «il migliore interesse» di questi ragazzini?

Assuntina Morresi, Membro del Comitato nazionale per la bioetica Avvenire 26 luglio 2018

pag.9 www.sanita24.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANO_SANITA/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/2018/07/24/disforia.pdf?uuid=AEXwZ8QF

www.avvenire.it/attualita/pagine/cos-avremo-corpi-bambini-e-menti-adulte-troppi-rischi

 

Disforia di genere. Il «farmaco gender»? Eticamente lecito

Per il Comitato nazionale di bioetica il trattamento «è giustificabile» se la diagnosi è espressa da un team multidisciplinare e se – pare incredibile – c’è «l’assenso libero» del bimbo.

Comunque lo si prenda, il problema degli adolescenti affetti da disforia di genere per cui, «in casi particolari, accertati e valutati», potrebbe essere consigliabile il ricorso alla Triptorelina, cioè un farmaco che blocca la sviluppo puberale in attesa di cambiare sesso, è destinato a rimanere insoluto. Martedì è stata resa nota la risposta del Comitato nazionale per la bioetica alla richiesta dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) che si interrogava sulla liceità dell’uso.

L’Aifa a sua volta è stata sollecitata da alcune associazioni di medici (endocrinologi, andrologi, sessuologi). Secondo il Cnb «il trattamento è giustificabile» quando la diagnosi di disforia è effettuata «in fase precoce da una equipe multidisciplinare e specialistica composta almeno da uno/a specialista in neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, endocrinologia pediatrica, psicologia dell’età evolutiva e bioetica».

Ma gli stessi esperti del Comitato di bioetica riconoscono che questi team multidisciplinari appartengono per ora al libro dei sogni e quanto conosciuto a proposito di questa malattia è decisamente inferiore a ciò che ci è ignoto. E allora? Il problema è che sulla necessità di ricorrere alla Triptorelina, molecola sintetica che inibisce l’ormone dello sviluppo testicolare e ovarico, gli esperti sono divisi. Ma se fino a pochi anni il farmaco rappresentava l’eccezione per casi davvero conclamati, oggi il ricorso sembra più frequente. Eppure le evidenze che giustificherebbero l’utilizzo di questa molecola sintetica prodotta per tutt’altro scopo – è un antitumorale – non sono mai facilmente individuabili. Lo stesso Comitato nazionale di bioetica riconosce nel suo parere che non esistono ricerche affidabili sul tema, non si sa nulla sugli effetti collaterali a breve e lungo termine, si ignora cosa possa capitare allo sviluppo emotivo-cognitivo dei ragazzi a cui verrà somministrata e, ciliegina su una torta che già così appare poco digeribile, si hanno anche notizie contrastanti sulla reversibilità degli effetti.

E cioè, se si sospende l’uso della Triptorelina, lo sviluppo sessuale riparte? Forse sì. Ma quali funzioni vengono mantenute e quali no? Cosa sarà della fertilità di questi giovani? Nessuno può dirlo. Ci sono ipotesi, anche queste contrastanti, provenienti dai Paesi dove il farmaco è già abitualmente utilizzato – Olanda in primis – ma nessuna certezza. Eppure tentare di rispondere a queste domande avrebbe dovuto risultare obbligatorio, prima di avventurarsi sulla liceità etica del farmaco. Il motivo è molto semplice. Le statistiche dei pochi centri specialistici che studiano la disforia di genere – in Italia sono formalmente nove, ma non tutti hanno la stessa esperienza – ci dicono che la persistenza della disforia di genere è compresa dal 12 al 27%. Vuol dire che su dieci preadolescenti che manifestano questo disturbo, almeno 7-8 risolveranno il problema al termine dell’adolescenza. I ‘falsi allarmi’ insomma sono molto più numerosi dei casi reali, su cui comunque ci sarebbe molto da riflettere.

Le statistiche – per limitarci ai problemi dell’identità di genere – parlano di un caso ogni 9mila abitanti. In Italia la legge che permette la cosiddetta ‘transizione sessuale’ risale al 1982, tra le prime in Europa, ma fino a pochi anni fa i casi segnalati e trattati erano limitatissimi. Oggi le richieste che arrivano ai centri sono decuplicate. Colpa della ventata di fluidità sollecitata – e spesso giustificata – dalle teorie del gender? Qualcuno ne è convinto, altri invece sostengono che l’incidenza statistica della disforia non sia affatto aumentata ma oggi venga più facilmente allo scoperto perché lo stigma sociale è ‘quasi’ scomparso e si è affermata una più diffusa accettazione culturale nei confronti di chi, per scelta personale o perché costretto da una forma patologica, evade dal binarismo sessuale.

La decisione dell’Oms, che il mese scorso ha deciso di spostare i disturbi dell’identità di genere dall’elenco delle malattie mentali, non contribuisce a semplificare il problema. La diagnosi rimane complessa, la componente psico-patologica è indubitabile, il peso culturale incombente. Eppure il Cnb si preoccupa del fatto che «l’assenso del minore al programma possa essere espresso in modo realmente libero». Ma qualche adolescente, per di più oppresso dalla sofferenza di un disagio che non comprende, può ‘liberamente’ decidere la sua preferenza per un sesso diverso da quello naturale, immaginandosi come sarà in futuro?

Luciano Moia Avvenire 26 luglio 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/ma-quel-s-deve-riguardare-solo-pochi-casi-eccezionali

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HUMANÆ VITÆ

Humanæ Vitæ, 50 anni dopo. Siamo ancora davanti al suo punto nodale

Quando l’enciclica fu resa nota, la reazione dell’opinione pubblica non fu favorevole. Critiche e rilievi vennero anche dall’interno della Chiesa. A distanza di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, però, siamo ancora posti davanti a quello che potrebbe essere ritenuto il suo punto nodale; quello che – come spesso hanno ripetuto San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – può essere chiamato “profetico”. Lo troviamo nel n. 9 dell’enciclica, dove Paolo VI evidenzia le note e le esigenze caratteristiche dell’amore coniugale

“Nell’amore non c’è solo l’amore. Vogliamo dire che nell’amore dell’uomo è racchiuso l’amore divino. Per questo il legame tra amore e fecondità è un rapporto così armonioso e segreto. Ogni autentico amore di un uomo e di una donna, ogni amore non egoista, tende a dar vita a un altro essere nato da questo amore. Qualche volta amare vuole soltanto dire ‘amarsi’; spesso l’amore non è che l’incontro di due solitudini. Ma quando si è superato questo stadio egoistico e si è capito che l’amore è gioia comune, dono reciproco, si trova il vero amore. Se è vero che l’amore è tutto questo, si comprende che esso non è separabile dal suo frutto”. Questa citazione di Paolo VI non proviene dal suo magistero ufficiale, ma dalla confidenza fatta ad un amico. Si legge, infatti, nei Dialoghi con Paolo VI di Jean Guitton, uno dei più rappresentativi pensatori cattolici del XX secolo, che di Giovanni Battista Montini fu amico fidato.

L’enciclica Humanæ Vitæ sarebbe stata resa pubblica solo il 29 luglio 1968. La confidenza di Paolo VI risale forse all’estate del 1966, quando egli portò con sé a Castel Gandolfo le ottocento pagine del dossier raccolto dalla Commissione costituita da Giovanni XXIII e ampliato nella sua composizione dallo stesso Paolo VI. Nelle parole che ho appena riportato, però, l’enciclica c’è già nel suo fondamentale messaggio radicato nel Vangelo. Si tratta della “inscindibile connessione” tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e quello procreativo. Con termini che sembrano richiamare la trascrizione di Jean Guitton, lo stesso Benedetto XVI individuò in questi termini il nucleo essenziale dell’enciclica: “Gli sposi, avendo ricevuto il dono dell’amore, sono chiamati a farsi a loro volta dono l’uno per l’altra senza riserve. Solo così gli atti propri ed esclusivi dei coniugi sono veramente atti di amore che, mentre li uniscono in una sola carne, costruiscono una genuina comunione personale. Pertanto, la logica della totalità del dono configura intrinsecamente l’amore coniugale e, grazie all’effusione sacramentale dello Spirito Santo, diventa il mezzo per realizzare nella propria vita un’autentica carità coniugale. La possibilità di procreare una nuova vita umana è inclusa nell’integrale donazione dei coniugi. Se, infatti, ogni forma d’amore tende a diffondere la pienezza di cui vive, l’amore coniugale ha un modo proprio di comunicarsi: generare dei figli. Così esso non solo assomiglia, ma partecipa all’amore di Dio, che vuole comunicarsi chiamando alla vita le persone umane. Escludere questa dimensione comunicativa mediante un’azione che miri ad impedire la procreazione significa negare la verità intima dell’amore sponsale, con cui si comunica il dono divino” (Messaggio al Congresso Internazionale “Humanæ Vitæ: attualità e profezia di un’enciclica” del 2 ottobre 2008).

Delle difficoltà riguardo alla sua accoglienza Paolo VI fu da sempre ben consapevole, così come lo era dell’ineludibilità del suo dovere di proclamare la dottrina cristiana. Presentandola nel linguaggio semplice cui egli amava ricorrere nelle udienze generali, durante quella del 31 luglio 1968 a Castel Gandolfo il Papa ripercorse rapidamente l’iter dell’enciclica indicandola come “presentazione positiva della moralità coniugale in ordine alla sua missione d’amore e di fecondità ‘nella visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, non solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna’” (n. 7). Egli accennò pure al senso avvertito della sua gravissima responsabilità, un sentimento, confidava, che “ci ha fatto anche non poco soffrire spiritualmente. Non mai abbiamo sentito come in questa congiuntura il peso del nostro ufficio… Quante volte abbiamo avuto l’impressione di essere quasi soverchiati da questo cumolo di documentazioni, e quante volte, umanamente parlando, abbiamo avvertito l’inadeguatezza della nostra povera persona al formidabile obbligo apostolico di doverci pronunciare al riguardo; quante volte abbiamo trepidato davanti al dilemma d’una facile condiscendenza alle opinioni correnti, ovvero d’una sentenza male sopportata dall’odierna società, o che fosse arbitrariamente troppo grave per la vita coniugale!”.

Nonostante tutto, però, Paolo VI rimaneva fiducioso che il suo documento “quasi per virtù propria, per la sua umana verità”, sarebbe stato alla fine bene accolto, nonostante la diversità di opinioni largamente diffusa e anche nonostante la difficoltà insita nella via tracciata per chi la volesse fedelmente percorrere. In realtà ciò non avvenne.

In quel 1968 giungeva al suo apice l’utopia della “liberazione sessuale”, la cui indispensabile condizione era l’uso degli anticoncezionali artificiali, che sotto quel profilo permettevano alla donna la medesima “non-punibilità” dell’uomo. In quello stesso anno si cominciò a parlare del rischio della “bomba demografica”, ossia del boom delle nascite: le prospettive sembrano catastrofiche, in pochi anni sul pianeta terra per le troppe bocche da sfamare non ci sarà più da mangiare a sufficienza… (ancora oggi c’è chi afferma che la prima causa della povertà è la crescita demografica!). Il rimedio a tutto ciò non può che essere il “controllo”, oppure, con linguaggio più soft, la “pianificazione” delle nascite.

In un articolo pubblicato su “La Rivista del Clero Italiano” per il quarantesimo di pubblicazione dell’enciclica, Maurizio Chiodi così indicava i profondi mutamenti intervenuti a partire da allora nell’ambito dell’esperienza umana del matrimonio e della sessualità: “L’accentuazione del modello della famiglia ‘nucleare’, la privatizzazione del matrimonio, la netta separazione tra privato e pubblico, l’intimizzazione e la riduzione affettiva del legame di coppia con la perdita della sua definitività, i cambiamenti dei significati della presenza dei figli nella famiglia, la caduta del tabù del sesso, l’erotizzazione della cultura, la trasformazione della sessualità in esperienza privilegiata e quasi esclusiva dell’emozione e del piacere, l’interpretazione ‘neutrale’ della sessualità, per la quale essa viene considerata un’inclinazione indifferentemente omo o eterosessuale” (2008/7-8, 518-519).

In questo clima diffuso l’enciclica di Paolo VI era inevitabilmente anacronistica. Considerata praticamente irricevibile nel contesto occidentale, l’enciclica ebbe al contrario un’accoglienza sostanzialmente positiva nei Paesi del Terzo Mondo e, in particolare, in America Latina.

Qui, com’è stato osservato, il documento fu considerato “come una coraggiosa e libera dissociazione della Chiesa dall’ideologia antinatalista dei ricchi Paesi occidentali, che essi sperimentavano in quegli anni con le sterilizzazioni forzate imposte dagli organismi internazionali” (Lucetta Scaraffia). Di un tale carattere “rivoluzionario” della morale cristiana Paolo VI era ben consapevole. Nel suo discorso all’Onu del 4 ottobre 1965 aveva detto: “Il rispetto alla vita, anche per ciò che riguarda il grande problema della natalità, deve avere qui la sua più alta professione e la sua più ragionevole difesa: voi dovete procurare di far abbondare quanto basti il pane per la mensa dell’umanità; non già favorire un artificiale controllo delle nascite, che sarebbe irrazionale, per diminuire il numero dei commensali al banchetto della vita”. Circa tre anni dopo, nell’Humanæ Vitæ ripeterà che la soluzione del problema demografico si trova in una “provvida politica familiare, di una saggia educazione dei popoli, rispettosa della legge morale e della libertà dei cittadini” (n. 23).

A distanza di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, siamo ancora posti davanti a quello che potrebbe essere ritenuto il suo punto nodale; quello che – come spesso hanno ripetuto San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – può essere chiamato “profetico”. Lo troviamo nel n. 9 dell’enciclica, dove Paolo VI evidenzia le note e le esigenze caratteristiche dell’amore coniugale.

Vale la pena riportarlo nei suoi quattro punti: “È prima di tutto amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale. Non è quindi semplice trasporto di istinto e di sentimento, ma anche e principalmente è atto della volontà libera, destinato non solo a mantenersi, ma anche ad accrescersi mediante le gioie e i dolori della vita quotidiana; così che gli sposi diventino un cuor solo e un’anima sola, e raggiungano insieme la loro perfezione umana. È poi amore totale, ossia una forma tutta speciale di amicizia personale, in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa, senza indebite riserve o calcoli egoistici. Chi ama davvero il proprio consorte, non lo ama soltanto per quanto riceve da lui, ma per se stesso, lieto di poterlo arricchire del dono di sé. È ancora amore fedele ed esclusivo fino alla morte. Così infatti lo concepiscono lo sposo e la sposa nel giorno in cui assumono liberamente e in piena consapevolezza l’impegno del vincolo matrimoniale. Fedeltà che può talvolta essere difficile, ma che sia sempre possibile, e sempre nobile e meritoria, nessuno lo può negare […]. È infine amore fecondo, che non si esaurisce tutto nella comunione dei coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite”.

Marcello Semeraro, vescovo di Albano, segretario del Consiglio dei cardinali (C9)

Agenzia SIR 25 luglio 2018

www.agensir.it/chiesa/2018/07/25/humanae-vitae-50-anni-dopo-siamo-ancora-davanti-al-suo-punto-nodale

50 anni di Humanæ Vitæ, Paolo VI e quello sguardo “positivo”

Nell’anniversario della pubblicazione riscopriamo le parole che Paolo VI dedicò all’Enciclica durante l’udienza generale tenuta una settimana dopo la pubblicazione del testo. Un mercoledì di piena estate, di folla e di un calore che non ha niente a che fare con la temperatura meteo. Paolo VI è a Castel Gandolfo e presiede l’udienza generale nell’Aula del palazzo pontificio. La sua prima frase stimola il fermento. “Le nostre parole – annuncia – hanno oggi un tema obbligato dalla Enciclica, intitolata Humanæ Vitæ”. È il momento che forse Papa Montini ha assaporato da giorni. Quello di rivolgersi direttamente alla gente e di parlare a cuore aperto di un tema che per anni, e fino a una settimana prima, lo ha assorbito nello sforzo di portare a compimento uno dei documenti più delicati e complessi del suo Pontificato e della Chiesa contemporanea.

L’aggettivo chiave. Poche righe ed ecco il punto nevralgico. “Questo documento pontificio (…) non è soltanto la dichiarazione d’una legge morale negativa, cioè l’esclusione d’ogni azione che si proponga di rendere impossibile la procreazione, ma è soprattutto la presentazione positiva della moralità coniugale in ordine alla sua missione d’amore e di fecondità”.

Le critiche e le riserve al testo, dentro e fuori la Chiesa, sono ben note a Paolo VI. Accade allora che l’abituale incedere del soliloquio, sobrio e solenne insieme, si spezzi. Ascoltando la registrazione di quella udienza generale, la sottolineatura “presentazione positiva” praticamente squilla nel microfono.

“L’Humanæ Vitæ è soprattutto la presentazione positiva della moralità coniugale”. Perché quell’aggettivo è come il punteruolo dell’emozione che per una volta incrina la posa di austera compostezza e rivela il cuore dell’uomo, non solo del Papa. Il cuore di chi – al di là del dibattito difficile generatosi attorno all’Enciclica – sente il bisogno di spiegare e spiegarsi. Raccontare che ciò che il Papa ha rivisto personalmente con scrupolo, paragrafo per paragrafo, per trasformarlo in un atto di magistero non è un sorta di pensiero autocratico insensibile e vessatorio, ma la riflessione dettata prima di tutto dall’amore di un padre nei confronti delle famiglie, specialmente di quelle che ogni giorno misurano la vita con la fede.

Lo stesso Papa Montini dichiara alla folla di non voler parlare in quella circostanza del contenuto dell’“Humanæ Vitæ”. A lui, in quell’ultimo giorno luglio, interessa dare spazio ai “sentimenti”. Quelli, sostiene, che gli hanno riempito l’“animo” durante i “quattro anni” della “laboriosa redazione” dell’Enciclica. “Il primo sentimento – confida – è stato quello d’una nostra gravissima responsabilità” che “ci ha fatto anche non poco soffrire spiritualmente (…) Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato”. L’uso del plurale sembra se possibile dilatare la fatica di un lavoro che Paolo VI non ha intenzione di dissimulare, in quell’aver centellinato l’ascolto e il confronto con tutte le voci competenti in materia.

E tuttavia, soggiunge più avanti “un altro sentimento, che ci ha sempre guidato nel nostro lavoro, è quello della carità, della sensibilità pastorale verso coloro che sono chiamati a integrare nella vita coniugale e nella famiglia la loro singola personalità”. E un terzo sentimento ancora, afferma, è quella della “speranza”. Su tutti, la speranza che “saranno gli sposi cristiani – dice – a comprendere come la Nostra parola, per severa ed ardua che possa sembrare, vuol essere interprete dell’autenticità del loro amore, chiamato a trasfigurare se stesso nell’imitazione di quello di Cristo per la sua mistica sposa, la Chiesa” e a “infondere nella famiglia moderna la spiritualità sua propria, fonte di perfezione per i singoli suoi membri e di testimonianza morale nella società”.

Alessandro De Carolis – Città del Vaticano Vatican news 25 luglio 2018

 

Paolo VI profetico a proporre una regolamentazione naturale delle nascite

Cinquant’anni dopo la pubblicazione, l’enciclica Humanæ Vitæ di Paolo VI si presenta agli occhi degli uomini di oggi in modo completamente diverso: nel 1968 era un documento coraggioso — e quindi controverso — che andava contro l’aria del tempo, quella della rivoluzione sessuale, per realizzare la quale erano fondamentali un contraccettivo sicuro e anche la possibilità di aborto. Era anche il tempo in cui gli economisti parlavano di “bomba umana”, cioè del pericolo di sovrappopolazione che minacciava i paesi ricchi e poteva diminuire la loro prosperità.

Due forze potenti, quindi, si schieravano contro l’enciclica: l’utopia della felicità, che la rivoluzione sessuale prometteva a ogni essere umano, e la ricchezza, che sarebbe stata la logica conseguenza di una diminuzione della popolazione su vasta scala.

Oggi, cinquant’anni dopo, vediamo le cose in tutt’altro modo. Queste due visioni utopiche si sono realizzate, ma non hanno portato i risultati sperati: né la felicità né la ricchezza, ma piuttosto nuovi e drammatici problemi. Se il crollo della popolazione nei paesi avanzati si sta confrontando a fatica con l’arrivo di masse di immigrati necessari ma al tempo stesso inaccettabili per molti, dal controllo medico delle nascite è iniziata l’invasione della procreazione da parte della scienza, con risultati ambigui, spesso preoccupanti e pericolosi.

Oggi, quando stiamo pagando tutti i costi di una brusca e forte denatalità, quando tante donne dopo anni di anticoncezionali chimici non riescono a concepire un figlio, ci rendiamo conto che la Chiesa aveva ragione, che Paolo VI era stato profetico a proporre una regolamentazione naturale delle nascite che avrebbe salvato la salute delle donne, il rapporto di coppia e la naturalità della procreazione. Oggi che le ragazze appassionate di ecologia si rivolgono ai metodi naturali di regolazione della fertilità, senza neppure sapere che esiste l’Humanæ Vitæ, oggi che i governi cercano di realizzare politiche che favoriscano la natalità, dobbiamo rileggere l’enciclica con altri occhi. E, invece di vederla come la grande sconfitta della Chiesa davanti alla modernità dilagante, possiamo rivendicarne la lucidità profetica nel cogliere i pericoli insiti in questi cambiamenti e felicitarci, noi cattolici, che ancora una volta la Chiesa non sia caduta nella trappola allettante delle utopie del Novecento, ma abbia saputo coglierne subito i limiti e i pericoli.

Ma pochi ci riescono: per molti è ancora difficile staccarsi dalla vecchia contrapposizione tra progressisti e conservatori, all’interno della quale l’enciclica è stata fatta a pezzi, senza coglierne lo spirito critico e la forza innovativa. Ancora adesso, nessuno sembra ricordare che, per la prima volta, un papa ha accettato la regolamentazione delle nascite e ha invitato i medici a ricercare metodi naturali efficaci.

È molto importante, perciò, riuscire a guardare l’Humanæ Vitæ con occhi nuovi, occhi di esseri umani che vivono nel secolo XXI, ormai consapevoli del fallimento di tante utopie e di tante teorie economiche che erano state proposte come infallibili. Solo così possiamo affrontare i problemi di oggi della famiglia, il nuovo ruolo delle donne e i difficili rapporti fra etica e scienza, le cui radici stanno — anche se per alcuni aspetti inconsapevolmente — in quel testo del lontano 1968.

Lucetta Scaraffia Osservatore Romano 24 luglio 2018

www.osservatoreromano.va/it/news/lhumanae-vitae-cinquantanni-dopo

 

Contraccezione e dogma papale

Sono trascorsi 50 anni da quando Paolo VI firmò la sua enciclica Humanæ vitæ sulla retta regolazione della sessualità. Quel documento del 25 luglio 1968 proclamava immorale la contraccezione, quel documento continua a turbare la Chiesa romana, divisa tra chi ritiene sempre validissimo il suo insegnamento e chi, invece, lo considera come uno dei più gravi errori del papato.

Quando, nel 1960, iniziò la commercializzazione della “pillola”, che impediva l’ovulazione, e dunque rendeva infecondi i rapporti sessuali, la scoperta del medico statunitense Gregory Pincus ebbe un successo strepitoso e, tra l’altro, pose inattesi problemi anche alle gerarchie cattoliche. Giovanni XXIII istituì una piccola commissione per valutare, dal punto di vista etico, quel farmaco; Paolo VI portò a settantacinque i suoi membri (cardinali, teologi, ma anche coppie di sposi). Nel frattempo il Vaticano II iniziò a discutere del tema: i vescovi “conservatori” ritenevano immorale l’uso di medicine che, deliberatamente impedendo la concezione, andava – a loro parere – “contro natura”; invece i “progressisti” erano orientati a lasciare alle singole coppie di scegliere in coscienza.

Papa Montini nel 1965 impedì al Concilio di decidere, e avocò a sé la questione. Infine, rifiutando il parere “liberal” della commissione, con la Humanæ vitæ ribadì l’immoralità della contraccezione. Il “no” del pontefice provocò un’ondata di reazioni nel mondo cattolico. Se alcuni settori plaudirono all’enciclica, molti altri – gruppi di laici, teologi – espressero critiche roventi: più di una Conferenza episcopale accolse con espliciti “distinguo” il documento; la belga, ad esempio, precisò che quello della Humanæ vitæ non era un insegnamento “infallibile”. Mai, all’interno della Chiesa romana, si era vista un’opposizione tanto vasta e insistita a un pronunciamento papale.

Paolo VI fu così colpito da tale opposizione che, nei successivi suoi dieci anni di regno, non pubblicò più encicliche. Giovanni Paolo II poi, assistito dal cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio), ribadì con assoluta fermezza quel documento: e, nelle nomine episcopali, una delle qualità dei possibili candidati era la loro assoluta fedeltà al testo montiniano.

Adesso, in questo cinquantenario dell’enciclica, si stanno susseguendo commenti di gruppi teologici e di cenacoli cattolici: e si sono riproposte le polarizzazioni di un tempo. Se alcuni ritengono “profetica” la Humanæ vitæ altri – come, in Italia, il movimento di riforma ecclesiale “Noi siamo Chiesa” – la considerano un errore. E, nel mondo, milioni di donne cattoliche usano regolarmente la “pillola” senza sentirsi in colpa e, anzi, ritenendo il “no” papale figlio di un altro tempo, e scientificamente incomprensibile. In tale contesto viene a trovarsi papa Francesco: difendere l’intangibilità del magistero del predecessore, oppure ammetterne la “caducità”? Un dilemma aspro, ma inevitabile.

Luigi Sandri “Trentino” 23 luglio 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180723sandri.pdf

 

Perché l’appello di Paolo VI è ancora pieno di senso?

Quando viene pubblicata, il 25 luglio del 1968, l’enciclica di Paolo VI Humanæ vitæ, l’ultima prima di un decennio di silenzio magisteriale, ma non pastorale e spirituale, si presenta come una sintesi perfetta della visione ampia e profonda che Giovanni Battista Montini ha sempre avuto dell’amore, dell’amore umano, coniugale, con le sue espressioni affettive e sensuali e con la sua dimensione spirituale che, in sé, è già una perfetta chiamata alla santità. E al matrimonio e alla famiglia, loro compimento sacramentale e storico, offre un’attenzione particolare, una predilezione pastorale, sicuro che in quel misterioso processo qual è l’amore, Dio fa cose grandi.

Alla radice vi è l’esperienza personale, osservata, ammirata, contemplata, dell’amore dei propri genitori, Giorgio e Giuditta, un amore pieno, che quasi diviene il modello di una visione della coniugalità che resterà intatta per tutta la vita. Ma certo, nella particolare sensibilità montiniana per l’affettività, un ruolo non secondario l’ha l’esperienza di condivisione umana e spirituale delle inquietudini giovanili degli studenti universitari di cui Montini, per qualche anno, siamo alla fine degli anni Venti, è guida spirituale.

L’Humanæ vitæ raccoglie e sintetizza insomma una sensibilità straordinariamente viva e vitale, collocandosi in un momento storico travagliato e in un clima culturale segnato da una profonda tendenza alla destrutturazione di ogni legame umano, alla liquefazione di ogni significato, alla mistificazione della parola stessa, che confonde, giustifica, inganna.

Amore: il magistero montiniano in proposito è assai articolato, mai dottrinale e inquisitorio e si muove sempre su due piani: da una parte la ricerca della pertinenza e della solidità della parola che descrive la cosa e dall’altra l’esperienza, in cui si colloca il nocciolo costitutivo dell’umanesimo montiniano: la realizzazione piena dell’umano, la ricerca di una vera, unica e possibile, felicità. Parola complessa quest’ultima, sottoposta a tali e tante manipolazioni da imporsi come la radice di ogni equivoco, il terreno fertile su cui opera con grande successo la lingua incantatrice del demonio, il grande seduttore, il mistificatore, l’origine di ogni male. Il risultato sembra essere quello che già aveva indicato Marcuse nel suo Uomo a una dimensione: “un’euforia nel mezzo dell’infelicità”.

Così occorre per Montini innanzitutto ricostituire nella sua originale natura proprio la parola e il suo significato originario. “L’amore vero — sottolinea Montini — è l’atto cosciente e volontario verso il bene. La natura ci aiuta a dirigerci verso il bene; l’inclinazione, amore istintivo e sensitivo, si fa atto di volontà; diventa vero amore; si tratta allora d’una duplice operazione: la scelta e la forza”.

Per Paolo VI, sul finire del magnifico e terribile decennio che ha visto la sua elezione al soglio pontificio, la chiusura del Concilio, le controversie interne ed esterne circa la sua applicazione che vanno al cuore della natura stessa della storia della Salvezza e della Chiesa, si tratta di riprendere la parola e dare dell’amore la giusta definizione, ridargli il giusto linguaggio, la sua vera prospettiva, difenderlo dalle insidie della sua mistificazione demoniaca. Si tratta di riproporre agli uomini e alle donne che vivono le lusinghe della modernità e soprattutto ne assumono i paradigmi lessicali e — dunque — interpretativi, le sole vere parole che dicono l’amore.

L‘Humanæ vitæ viene promulgata, dopo quattro anni di ricerche, di studi, di valutazioni, di ascolto di pareri. “Risponde questa Enciclica — spiega Paolo VI pochi giorni dopo la pubblicazione — a questioni, a dubbi, a tendenze, su cui la discussione, come tutti sanno, si è fatta in questi ultimi tempi assai ampia e vivace, e su cui la Nostra funzione dottrinale e pastorale è stata fortemente interessata. Il primo sentimento è stato quello d’una Nostra gravissima responsabilità. Esso Ci ha introdotto e sostenuto nel vivo della questione durante i quattro anni dovuti allo studio e alla elaborazione di questa Enciclica. Vi confideremo che tale sentimento Ci ha fatto anche non poco soffrire spiritualmente”.

Paolo VI sa perfettamente quali attese si fossero appuntate sull’enciclica, e quali discussioni essa avrebbe innescato. Il tema dell’amore e della sua espressione sensibile e storica era ed è cosa troppo importante nella vita di ogni uomo e di ogni donna. “Non mai abbiamo sentito come in questa congiuntura il peso del Nostro ufficio. Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato. Alcune circostanze a ciò relative vi sono note: dovevamo rispondere alla Chiesa, all’umanità intera; dovevamo valutare, con l’impegno e insieme con la libertà del Nostro compito apostolico, una tradizione dottrinale, non solo secolare, ma recente, quella dei Nostri tre immediati Predecessori; eravamo obbligati a fare Nostro l’insegnamento del Concilio da Noi stessi promulgato; Ci sentivamo propensi ad accogliere, fin dove Ci sembrava di poterlo fare, le conclusioni, per quanto di carattere consultivo, della Commissione istituita da Papa Giovanni, di venerata memoria, e da Noi stessi ampliata, ma insieme doverosamente prudenti; sapevamo delle discussioni accese con tanta passione ed anche con tanta autorità, su questo importantissimo tema; sentivamo le voci fragorose dell’opinione pubblica e della stampa; ascoltavamo quelle più tenui, ma assai penetranti nel Nostro cuore di padre e di pastore, di tante persone, di donne rispettabilissime specialmente, angustiate dal difficile problema e dall’ancor più difficile loro esperienza; leggevamo le relazioni scientifiche circa le allarmanti questioni demografiche nel mondo, suffragate spesso da studi di esperti e da programmi governativi; venivano a Noi da varie parti pubblicazioni, ispirate alcune dall’esame di particolari aspetti scientifici del problema, ovvero altre da considerazioni realistiche di molte e gravi condizioni sociologiche, oppure da quelle, oggi tanto imperiose, delle mutazioni irrompenti in ogni settore della vita moderna”.

La prospettiva che il pontefice addita per una corretta lettura dell’enciclica è quella “personalistica, propria della dottrina conciliare, circa la società coniugale, dando così all’amore, che la genera e che la alimenta, il posto preminente che gli conviene nella valutazione soggettiva del matrimonio” riconoscendo “ai coniugi la loro responsabilità e quindi la loro libertà, quali ministri del disegno di Dio sulla vita umana, interpretato dal magistero della Chiesa, per il loro bene personale e per quello dei loro figli”, a difesa “della loro dignità”, per “comprenderli e (…) sostenerli nelle loro difficoltà”, al fine di “educarli a vigile senso di responsabilità, a forte e serena padronanza di sé, a coraggiosa concezione dei grandi e comuni doveri della vita e dei sacrifici inerenti alla pratica della virtù e alla costruzione d’un focolare fecondo e felice”.

Vi è in Paolo VI la certezza che gli sposi cristiani e tutti gli uomini di buona volontà capiranno che “la Nostra parola, per severa ed ardua che possa sembrare, vuol essere interprete dell’autenticità del loro amore”. E se c’è una narrazione dell’amore che illude, che diverte, che schiaccia l’esperienza più grande ed umana al livello della caricatura, della barzelletta… Se c’è una narrazione dell’amore che radica nella menzogna, nella prospettiva cristiana “la prima cosa che si deve osservare nel matrimonio è il suo carattere sacro” e c’è un solo linguaggio che lo definisce e lo sublima, il linguaggio della carità: “Osiamo dunque pronunciare una grande parola: carità è diventato l’amore. Questo sacro impegno d’amore vivificato dalla grazia è infatti carità: coniugale, patema e materna; quella carità, che genera ed esige l’incremento di tutte le virtù, non solo di tutta la vita cristiana, ma anche della vita familiare”.

L’ultima enciclica di Paolo VI appare così come un grido appassionato e disperato per la salvezza dell’intera esperienza umana e religiosa. Perché minando la natura dell’amore, fiaccando la capacità d’amare dell’uomo, sovvertendo i significati della parola che lo descrive, viene minata l’intera costruzione millenaria che ha fondato la propria esistenza proprio sulla natura sacra dell’amore. Paolo VI si rende conto che in gioco non vi sono solo comportamenti sbagliati, debolezze umane come ce ne sono state sempre nella storia dell’umanità. La questione è ben più grave e profonda. Il demonio si è impossessato del linguaggio dell’amore, lo ha sovvertito, lo ha mistificato, lo ha reso liquido, ineffabile, impalpabile, facile, aderente alle esigenze del momento, moderno, a basso costo, consumabile.

La vita e la felicità degli uomini: ecco il terreno su cui si muove l’enciclica, a partire dalla certezza che la Chiesa è essa stessa “maestra d’umanità”, d’una umanità piena, concreta, niente affatto angelistica. Rifiutando ogni tentazione, presente in alcuni settori della Chiesa, di proporre agli sposi cristiani un rigoroso impianto dottrinale e precettivo e di snaturare il matrimonio riducendolo ad una forma di imperfezione della vita spirituale — come ha recentemente mostrato Gilfredo Marengo nell’opera La nascita di un’enciclica. Humanæ vitæ alla luce degli Archivi VaticaniPaolo VI rivendica per l’esperienza d’amore e per lo status matrimoniale una naturale vocazione proprio in quanto espressione di un “amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale”. Si tratta per Paolo VI di affrontare la questione dell’amore coniugale e della sua prospettiva generatrice “nella luce di una visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, non solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna”.

Anche in questo caso non viene mai meno, in Papa Montini, la visione epica della vita, la sola che possa garantirne il senso, anche nell’ordinaria esistenza, umile e povera. Vite grandi perché eroiche di un eroismo domestico. L’alternativa di una facile scorciatoia, pur nella consapevolezza che “i cambiamenti avvenuti sono infatti di grande importanza e di vario genere”, non solo pone questioni di ordine morale personale, ma si affaccia alla ribalta della società secolarizzata, come invasiva e drammatica operazione di potere, come inaccettabile intromissione del potere e dello Stato in una sfera delicata e personale, in cui il preziosissimo tesoro degli sposi è custodito in vasi d’argilla.

Ma vi è un’altra questione decisiva che l’Humanæ vitæ pone con evidente modernità e che si proporrà all’attenzione dell’uomo moderno soltanto qualche anno più tardi: il rapporto tra esperienza naturale ed esperienza artificiale. Insomma, il Papa si pone una delle domande cruciali della modernità che riguardano proprio il senso e il peso, il valore della tecnica nella vita dell’uomo, fin dentro lo spazio misterioso dell’innesco vitale. Non che Montini disconosca i progressi dell’uomo, le sue conquiste, le sue invenzioni. Come sempre è la questione dei fini (e dei significati) che lo preoccupa e soprattutto la possibilità del pensiero dell’uomo di riconoscere gli estremi della propria piena umanità.

L’Humanæ vitæ costituisce indubbiamente il punto centrale della visione diagnostica e della proposta etica e antropologica di Papa Montini sul tema della vita. Paolo VI coglie innanzitutto che le trasformazioni del costume e della mentalità incidono in primis su una nuova consapevolezza della sfera della sessualità e sulla sua gestione ed hanno ricadute significative non solo sulla natura stessa della relazione coniugale e sulla famiglia, anche in ambito cattolico, ma su un’intera visione di società e, in fondo, di umanità. Una società individualistica e sempre più emotiva: questo è il quadro di riferimento che ha davanti il Papa. Inutile sottolineare come tale deriva abbia portato a risultati devastanti proprio sul piano di una felicità possibile dentro l’orizzonte della “comunità d’amore” indicato dallo stesso Paolo VI. In questo senso la risposta autonoma di Montini alle grandi questioni teologiche e morali che sottostanno all’enciclica, che il Papa ha sì affidato ad un’apposita commissione ma di cui non accoglie le conclusioni, pone al centro della riflessione della Chiesa l’amore coniugale come amore pienamente umano, totale, fedele e fecondo, e come principio primo della società. E la famiglia come cellula vitale della Chiesa stessa, suo seme misterioso, prefigurazione della stessa Chiesa. “Chiesa domestica”, “cellula di Chiesa”, “piccola Chiesa”: la famiglia diviene il luogo santo del compimento cristiano, della fede vissuta come esperienza completa, dunque profondamente umana e insieme tesoro nelle mani di Dio.

L’Humanæ vitæ diviene così un inno all’amore, il grido appassionato di chi intravvede i rischi di una disumanizzazione che si profila innanzitutto nello spazio più libero, più profondo, più vivibile: la famiglia. Perché all’origine della storia della Salvezza, antica e nuova — spiega Paolo VI — vi sono proprio due coppie: la prima (Adamo ed Eva) è portatrice del peccato; la seconda (Giuseppe e Maria) è l’inizio della redenzione. Preservare e promuovere questo nucleo germinale diviene impegno profondo, radicale anche se, apparentemente, sconfitto. Ma per Paolo VI, si sa, è meglio perdere che equivocare. Perché nella sconfitta è fatta salva la verità, il nucleo prezioso da cui è possibile ricominciare.

Giacomo Scanzi Il sussidiario 23 luglio 2018

www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2018/7/23/HUMANAE-VITAE-Perche-l-appello-di-Paolo-VI-e-ancora-pieno-di-senso-/831583

 

Per cinquant’anni i papi e le strutture ecclesiastiche hanno difeso l’errore di Paolo VI. Ora bisogna abbandonare questa enciclica.

Rileggendo la Humanæ Vitæ, i suoi limiti e i suoi errori appaiono ingigantiti rispetto a quelli che apparvero nel momento stesso in cui fu emanata. Da decenni essi sono stati posti in luce in tutti i modi da una vasta area di teologi, di credenti e di istituzioni ecclesiastiche. Per ricordarli e riassumerli alla meglio essi appaiono, salvo dimenticanze, i seguenti:

  • La sottovalutazione del ruolo della coscienza e della responsabilità personale della coppia in decisioni che siano conseguenza di una valutazione complessiva delle circostanze concrete in cui essa si trova, a partire da quelle più semplici e frequenti (difficoltà materiali a mantenere ed educare adeguatamente i figli);

  • Valore assoluto di una norma che si pretende inderogabile sempre e dovunque e che si pretende fondata sul diritto naturale (sempre più discusso e controverso!) di cui la Chiesa si ritiene unica vera interprete;

  • Preminenza assoluta del fine procreativo nel rapporto di coppia rispetto a quello della reciproco rapporto fondato sull’affetto, sulla solidarietà, sulla comunanza di vita, sul piacere sessuale;

  • La difficilmente comprensibile differenza qualitativa tra metodi naturali e metodi artificiali di contraccezione;

  • La pretesa della continuità e irriformabilità del magistero in materia di morale (fatto contraddetto, in modo ben conosciuto, dalla storia della Chiesa);

  • Linguaggio a senso unico laddove parla solo di “paternità responsabile” e non di “maternità responsabile”.

Prima e dopo l’enciclica. E’ importante ricordare una storia di fatti conosciuti e non contestabili. Paolo VI decise che il Concilio non doveva occuparsi di contraccezione. Ciò da una parte fu la conseguenza di un uso autoritario del magistero papale, dall’altra la testimonianza di un imbarazzo sulla difensiva per un dibattito inconsueto per un’assise sinodale (idem si potrebbe dire per questione del celibato dei preti). Il papa poi non accettò la linea della grande maggioranza della Commissione di esperti istituita ad hoc. Il seguito, ben noto, è di una pesantezza che, in partenza, non si sarebbe potuta ipotizzare.

Ben 49 conferenze episcopali, in un modo o nell’altro, espressero critiche ma soprattutto dall’inizio ci trovammo di fronte a una esplicita non receptio da parte della generalità delle coppie del popolo cristiano che è continuata da allora senza interruzioni e in modo geograficamente diffuso. Essa è stata tale che, a quanto ci risulta, ormai le prescrizioni dell’enciclica non sono ora più oggetto della confessione sacramentale. C’è stata una rimozione collettiva e generalizzata del problema dei metodi della contraccezione. Ci siamo trovati di fronte a un sensus fidelium che si è fatto interprete di una comprensione del Vangelo diversa e più “umana” di quella fatta dal sistema ecclesiastico nella persona del papa. Tutto ciò pone il problema generale di come la teologia morale debba determinarsi aldilà delle competenze canoniche.

Una gestione dell’Enciclica che ha fatto male alla Chiesa. Il fatto più grave è però un altro. Da allora, con una continuità durata decenni che ha dello straordinario e in barba al sensus fidelium, l’insegnamento sulla contraccezione della Humanæ Vitæ fu imposto ovunque nell’universo cattolico. Per certo sappiamo che nei criteri di scelta dei nuovi vescovi era indispensabile la prova che il candidato si fosse espresso a favore della linea ufficiale su questa questione. Nelle università e nei seminari diffusi nel mondo il sistema gerarchico è stato intransigente e destituzioni ed emarginazioni sono state numerose. Anche Bernhard Haering, il grande rinnovatore della teologia morale, ce ne andò di mezzo.

https://it.wikipedia.org/wiki/Bernhard_H%C3%A4ring

La situazione peggiore, ed incredibile per la sua temerarietà, si ebbe quando, all’inizio degli anni ottanta, esplose l’epidemia dell’AIDS. Nessuna deroga fu accettata e la disubbidienza di molte suore missionarie in Africa [a rischio di stupro] fu fatta nel silenzio perché non si doveva sapere!

Da poche settimane si è saputo che il Card. Wojtyla, oltre ad una linea molto rigida prima, dopo la pubblicazione dell’enciclica scrisse a Paolo VI per chiedere, di fronte alle contestazioni, una “Istruzione” di sconfessione delle critiche nel timore che esse “potessero costituire l’occasione per dare vita ad un processo molto più ampio di contestazione su altri elementi della fede e degli usi cristiani” (“Avvenire” del 4 marzo 2018 pag.18). Diventato papa, Wojtyla fu coerente per tutto il suo lungo pontificato; la sua linea non si modificò con papa Benedetto XVI. Insomma questa enciclica e la sua gestione hanno messo a nudo la radicale insufficienza di un magistero papale quando esso si isola, diventa autosufficiente non ascoltando la base del popolo cristiano, si rifà ai peggiori precedenti della storia, dimostrando così la sua fallibilità. In questo caso ha creato disorientamento nel popolo cristiano, crisi di credibilità e ha portato anche ad allontanamenti dalla vita di fede.

L’enfasi sulla morale sessuale e familiare. La gestione che è stata fatta dei contenuti della Humanæ Vitæ all’interno della teologia morale e della ordinaria catechesi fa parte di quella enfatizzazione di tutta la morale sessuale e famigliare che ha caratterizzato per un tempo immemorabile la proposta di vita cristiana offerta dalle strutture della Chiesa alla generalità dei battezzati. In questo modo è stato posto in secondo o terzo piano il messaggio più importante di Gesù, quello della pace fondata sulla giustizia, quello del riscatto degli oppressi e delle periferie esistenziali e sociali, quello del soccorso al samaritano. Il Concilio ha proposto un’ottica diversa, la Pacem in terris e la Populorum Progressio sono andate in questa direzione, la Teologia della Liberazione ha dato indicazioni che sono state contrastate spesso dal potere centrale della Chiesa. Ma solo con papa Francesco abbiamo un ribaltamento delle prospettive.

Papa Francesco, la destra e chi difende, a sorpresa, la continuità del magistero. Papa Francesco si è occupato molto del rapporto di coppia e della famiglia indicendo i due Sinodi del 2014 e del 2015 e poi con la Amoris Lætitia ma nella direzione di liberare la pesantezza del “sabato” del magistero precedente per aprirlo a un approccio pastorale. Ora, per capire la situazione è bene tenere presente che la Humanæ Vitæ viene sempre difesa senza “se“ e senza “ma” da tutta la destra cattolica, che vede in essa un baluardo contro ogni cedimento alla “morale permissivistica del mondo”, contro il superamento della centralità della morale sessuale fondata su leggi di natura e, sullo sfondo, per l’abbandono della stessa svolta conciliare. A tale scopo è stata fondata una apposita “Accademia Giovanni Paolo II per la vita umana e la famiglia(JAHLF)” che si pone come diretta contraltare della ufficiale “Pontificia Accademia per la Vita”.

Negli ultimi mesi si sono moltiplicati libri, studi, ricerche storiche sulla genesi dell’enciclica e convegni (all’ Università Gregoriana, all’Istituto Camillianum, all’ATISM, Associazione teologica per lo studio della morale). Per quello che conosciamo ci sembra che ci sia stata molta produzione impegnativa ma che, dal nostro punto di vista, essa si è tenuta ben lontana dal dire le esplicite e definitive parole di verità che sarebbero necessarie.

Nelle ultime settimane poi teologi, che si dicono vicini a papa Francesco, hanno tentato, in modo sorprendente, di collocare l’Humanæ Vitæ in una linea di continuità con il passato. Ha iniziato Pierangelo Sequeri (preside dell’Istituto teologico per le scienze del matrimonio, “Avvenire” del 10 maggio 2018), poi Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita (in un recente discorso a Gioia Tauro). Questa linea ci appare sconcertante e ci insinua il sospetto che sia stata ispirata per confermare un pesante statu quo. O forse per cercare di “nascondere” il principale errore del pontificato di Paolo VI in vista della sua santificazione il 14 ottobre?

I segni dei tempi. La rigidità dottrinale e la supponenza magisteriale che presiedettero alla scelta di Paolo VI impedirono la comprensione dei segni dei tempi di allora. Ora dobbiamo capire bene la situazione oggi. Il vedere il “mondo” e lo stare nel “mondo” ci mostra segni nuovi rispetto ai quali la questione della contraccezione artificiale ci sembra cosa di ben poco conto. Essi ci sembrano: la permanente difficile condizione della donna nel rapporto di coppia in cui la precarietà, determinata dalle condizioni sociali e anche culturali, gioca quasi sempre a suo sfavore; le cosiddette “nuove famiglie”; la condizione dei divorziati risposati; le unioni omosessuali; tutte le questioni poste dalla procreazione con metodi non naturali e via di questo passo.

Tante altre questioni, trattate nella Amoris Lætitia sono davanti ai nostri occhi, dalle condizioni concrete di vita (casa, lavoro…), a quella dei bambini senza famiglia, dalle ragazze madri ai vecchi senza cure e solidarietà, dalla condizione dei disabili all’educazione dei giovani ora sotto la pressione di potenti messaggi difficili da conoscere e controllare fino alla diffusa mentalità individualista che contrasta con la dedizione reciproca che ogni famiglia richiede. Questi attuali segni dei tempi interpellano chi cerca nel Vangelo “che dire”, “che proporre” e “che fare” cercando di capire dove è il bene, dove sono gli affetti veri, la generosità e la dedizione non tenendo conto solo delle norme civili e religiose e pensando di usare “la medicina della misericordia” e di operare sempre per il recupero quando emerge l’egoismo, la violenza, il male. Il “sensus fidelium” deve contribuire per il futuro a un nuovo difficile magistero centrale e locale. Interventi del tipo di quello della Humanæ Vitæ non debbono ripetersi.

Conclusioni. Nuovi segni dei tempi, non facili, incalzano, una conversione generale a un approccio pastorale ai problemi del sesso e della famiglia è necessaria, anche la consultazione dei giovani in previsione del prossimo Sinodo ad essi dedicato l’ha indicato con chiarezza. Chi si attarda a elucubrare sulla continuità del magistero dalla Casti Connubii alla Familiaris Consortio dalla Humanæ Vitæ in poi fa delle acrobazie inutili e si colloca in una posizione di retroguardia, buona solo per alzare le proprie bandiere identitarie o solo preoccupata dell’ortodossia ecclesiastica ben lontana dalle attese del Popolo di Dio.

L’Amoris Lætitia, che ha contraddizioni che sono state rilevate sia dai tradizionalisti che da alcune aree di progressisti di ispirazione conciliare, sicuramente non risolve tutti i problemi e, tuttavia, si sforza di indicare una strada alternativa a quella precedente, perché parte dalla concretezza delle situazioni, spesso complesse, e dalla necessità della formazione delle coscienze. Le nuove prospettive della teologia morale percorrono altre strade, hanno altre centralità, prime tra queste la tutela dell’ambiente e l’impegno attivo per il cambiamento delle strutture sociali e dei rapporti tra i popoli nel mondo. Speriamo e supponiamo che il Vaticano e le strutture ufficiali della Chiesa, nell’ipotesi comprensibile che non vogliano criticare esplicitamente l’enciclica, usino almeno questo cinquantenario per dimenticarla. Essa dovrebbe diventare ormai parte solo della storia della chiesa.

Noi siamo chiesa Roma, 23 luglio 2018

www.noisiamochiesa.org/?p=6922

 

L’antropologo Marengo: “Nella Humanæ vitæ la profezia di Paolo VI”

L’enciclica più discussa nella storia recente della Chiesa, eppure tra le meno conosciute nel suo contenuto integrale, come nel proprio iter di elaborazione. A mezzo secolo dalla pubblicazione dell’Humanæ vitæ (25 luglio 1968), uno studio ricostruisce la genesi del documento col quale papa Paolo VI condannò la contraccezione artificiale. Il risultato di questa ricerca storica è il volume ‘La nascita di un’enciclica’ (Libreria editrice vaticana, 288 pagine, 15 euro), a firma di Gilfredo Marengo, docente di Antropologia teologica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, che, in virtù di uno speciale permesso di papa Francesco, ha esaminato le carte degli Archivi vaticani, portando alla luce fatti inediti di un travagliato percorso di stesura.

Si scopre così che Montini nel 1967 condusse un sondaggio riservato sulla liceità della pillola tra i padri del primo Sinodo dei vescovi. Al Pontefice risposero per iscritto in 26 su 200. Sette i contrari.

Tra i favorevoli il cardinale Léon Suenens (Bruxelles), già critico con Paolo VI per la sua scelta di espungere il tema dal dibattito in seno al Concilio Vaticano II (1962-1965), e il vescovo brasiliano Aloisio Lorscheider, ‘il Pontefice’ del patriarca Albino Luciani che lo votò nel primo conclave del ’78 per poi uscire lui stesso Papa. Dall’altra parte, il giovane vescovo Karol Wojtyla (Cracovia), che, una volta sul soglio petrino, giustificherà più che altro in chiave antropologica l’opposizione alla contraccezione artificiale, e il Papa mancato, il cardinale Giuseppe Siri (Genova).

All’indomani di quella consultazione poteva sembrare inevitabile una svolta progressista sull’attuazione pratica della paternità responsabile, ‘benedetta’ dal Vaticano II (costituzione pastorale ‘Gaudium et spes’, 1965), e invece Montini preferì la continuità col magistero precedente, quello di Pio XI e Pio XII, favorevoli rispettivamente alla continenza naturale nei rapporti sessuali (Casti connubii, 1931) e al metodo Ogino-Knaus (‘Discorso alle ostetriche’, 1951).

Prima, però, Paolo VI bocciò, dopo un iniziale disco verde, un’enciclica sulla regolazione delle nascite scovata da Marengo negli Archivi vaticani e di cui finora non si sapeva nulla: la De nascendæ prolis, considerata dal Pontefice troppo dottrinale. Paolo VI accantonò anche il contributo (stavolta favorevole alla liceità della pillola) a lui consegnato nel 1966 dalla commissione ad hoc sulla contraccezione, costituita tre anni prima da Giovanni XXIII. Alla fine elaborò e pubblicò l’Humanæ vitæ che, predicando sul piano pastorale prudenza di giudizio ai confessori, chiuse alla contraccezione artificiale, ma senza pronunciarsi con i crismi dell’infallibilità sanciti dal Concilio Vaticano I (1869-1870).

Di questo e altri aspetti dell’enciclica parliamo direttamente con il professor Marengo che ha voluto esaminarla nella sua genesi.

Monsignore, perché ha sentito la necessità di uno studio così approfondito sull’Humanæ vitæ?

«Come è noto, siamo davanti a uno dei documenti ecclesiali più dibattuti e contestati. In questi anni mi sono convinto del fatto che molte di queste critiche dipendano, se non in modo esaustivo almeno in gran parte, da congetture sul processo seguito nell’elaborazione dell’enciclica. Per questo credo che uno studio rigoroso, centrato sulle fonti conservate negli Archivi vaticani, possa contribuire a restituirci le reali intenzioni di Paolo VI».

Ritiene anche lei che Humanæ vitæ nella memoria collettiva sia stata schiacciata sulla sua stigmatizzazione della pillola, facendo perdere di vista quell’urgenza pastorale di accompagnamento delle coppie così sentita da Montini e da lui espressa nella terza e ultima parte del testo?

«Il Papa in coscienza ha ritenuto di dover condannare la contraccezione artificiale, ma allo stesso tempo era consapevole della difficoltà di ricezione di un simile pronunciamento. Avvertiva la complessità per le coppie cristiane di accogliere questo giudizio morale sulla pillola. Non a caso nel dettato dell’enciclica è chiarissimo quanto Montini si spese nell’invitare i fedeli a riflettere, a capire le ragioni di un divieto che nelle sue intenzioni non era e non doveva essere una mortificazione della sessualità e dell’amore quanto piuttosto un obiettivo positivo da raggiungere con un percorso di accompagnamento».

Il no alla pillola di Montini si giustifica solo da un punto di vista morale o dagli Archivi vaticani emerge anche dell’altro?

«Le carte ci consegnano un Papa fortemente preoccupato per le politiche di birth control sponsorizzate dalle agenzie internazionali nei Paesi africani in via di sviluppo che in quegli anni uscivano dal colonialismo. Dalle nunziature apostoliche di quei territori gli giungevano in continuazione lettere nelle quali si denunciavano questi atteggiamenti. Purtroppo l’aver ridotto l’Humanæ vitæ al solo giudizio morale sulla contraccezione artificiale ha offuscato la grande intuizione di Montini che aveva previsto la drammatica denatalità dei nostri giorni. L’istanza morale e quella volta a contrastare il calo demografico in lui procedono di pari passo».

Contestato dagli ambienti progressisti per aver sottratto il tema della pillola dal dibattito conciliare e per non aver dato seguito alle indicazioni liberal elaborate dalla commissione ad hoc, va riconosciuto a Paolo VI di essersi rifiutato di considerare infallibile l’Humanæ vitæ. Chi spingeva per chiudere una volta per tutte il confronto nella Chiesa sulla contraccezione?

«Le pressioni arrivavano per lo più dagli ambienti curiali legati alla Tradizione. Gli stessi settori dai quali poi venne elaborata, tra il ‘67 e il ‘68, la ‘De nascendæ prolis’. Un documento che, a dispetto di qualche anticipazione di stampa uscita nei giorni scorsi, non apriva in alcun modo alla liceità della pillola. Il suo estensore, il domenicano padre Mario Luigi Ciappi, semmai era preoccupato di approntare una solida struttura dottrinale a sostegno della procreazione come fine primario delle nozze, bocciando di conseguenza, in verità in maniera definitiva più che infallibile, la contraccezione artificiale, e senza prendere in carico un forte profilo pastorale del testo».

Come si spiega il fatto che Montini non volle lasciare al dibattito conciliare un tema così delicato come quello della pillola?

«Paolo VI durante il Vaticano II ha sempre sentito l’urgenza di salvaguardare e mostrare all’esterno una Chiesa unita piuttosto che spaccata in varie posizioni. Con la ‘Gaudium et spes’ il Concilio affermò per la prima volta, da un lato, che se si vuole descrivere il matrimonio si deve partire dall’amore fra i coniugi, dall’altro, che la paternità responsabile è un valore e non una concessione come era stata intesa da Pio XII nel suo ‘Discorso alle ostetriche’. A questi risultati si approdò dopo un aspro e serrato confronto fra i vescovi che convinse Paolo VI del fatto che con molta probabilità mettere a tema un giudizio sui metodi di regolazione delle nascite avrebbe creato forti divisione tra i padri conciliari».

Alla fine decise lui e andò contro gli orientamenti della commissione speciale sulla pillola e della maggioranza dei vescovi, come dimostra nel suo piccolo anche l’esito del sondaggio del ’67.

«La chiarezza di giudizio, che Montini aveva maturato sul problema, lo convinse a procedere in una direzione differente da quanto in vario modo la maggioranza di chi aveva consultato gli suggeriva. Certamente è stata una decisione non facile, ma lui la prese con grande serenità, pur consapevole che questo lo avrebbe esposto a reazioni critiche forti, come di fatto avvenne».

Oggi pensa che vi siano margini per un aggiornamento dell’enciclica?

«Non si tratta di ‘aggiornare l’enciclica’, ma di fare tesoro del suo insegnamento, alla luce di tutto quanto, in questo mezzo secolo, la vita ecclesiale ha maturato sui temi fondamentali del matrimonio e della famiglia, da Giovanni Paolo II all’attuale Papa. Personalmente considero profetica la decisione assunta dal Paolo VI nel ’68. I contenuti dell’Humanæ vitæ probabilmente hanno ancora bisogno di essere meglio accolti e compresi»

Intervista a Gilfredo Marengo a cura di Giovanni Panettiere blog Pacem in terris 25 luglio 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180727marengopanettiere.pdf

www.quotidiano.net/blog/panettiere/cinquantanni-dallenciclica-anti-pillola-lantropologo-marengo-nella-humanae-vitae-la-profezia-di-paolo-vi-31.4950

Ma l’amore può essere peccato?

Mezzo secolo fa, con l’enciclica Humanæ vitæ, Roma metteva al bando pillola e preservativo. Il magistero si allontanava così dai fedeli – e sottovalutava il fatto che Dio ha dato agli esseri umani il libero arbitrio

Quando nel 1968 fu pubblicata, l’enciclica Humanæ vitæ scatenò violente reazioni. Molte donne cattoliche e molti uomini cattolici avevano sperato che papa Paolo VI avrebbe ammesso la pillola come mezzo contraccettivo. Anche la commissione consultiva in Vaticano glielo aveva più volte consigliato. Dopo lunghe discussioni però il papa seguì un desiderio inizialmente segreto della facoltà teologica di Cracovia: la pillola rimase proibita. Interessante dal punto di vista storico è il fatto che fu l’influenza dell’allora cardinale Karol Wojtyla determinante per la stesura dell’enciclica.

Che quel documento sia poi stato molto positivamente da lui considerato, una volta diventato papa Giovanni Paolo II, non suscita meraviglia. Tuttavia nel cattolicesimo reale, l’enciclica nel corso dei decenni è stata dimenticata. Infatti, anche in ambienti cattolici la sessualità aveva acquistato un significato positivo e del tutto diverso rispetto a ciò che nelle generazioni precedenti si sarebbe potuto pensare. La sessualità umana, secondo ampio consenso, non doveva essere limitata alla sola funzione di procreazione.

Inoltre, è vero che tutto è possibile a Dio, ma anche agli esseri umani molte cose sono possibili: la pillola permetteva di rendere la sessualità godibile in maniera diversa. Le relazioni sociali e i ruoli di genere cambiavano ad una velocità vertiginosa dopo il 1968. E questa svolta storica non poteva non avere conseguenze nella teologia e negli ambienti cattolici.

L’enciclica Humanæ vitæ ebbe come conseguenza l’allontanamento perplesso dei cattolici dal magistero. Heinrich Böll scrisse nel 1968 che l’enciclica chiedeva “sottomissione secondo la cosiddetta obbedienza per fede”. Che chiedeva “cieca dedizione” e che questa pretesa trascinava i cattolici in una fossa col magistero. Tuttavia non è più necessario evadere da una condizione di minorità che ci si era autoinflitti, se si è già evasi. Secondo il magistero la pillola sarebbe contro natura, non voluta dal Dio creatore.

Il fatto è che a molti mancava la fede in questa tesi perché avevano usato la propria ragione ed erano arrivati ad un’altra conclusione. Una volta che i fedeli hanno attivato la propria capacità razionale, il magistero può ammonire quanto vuole. Quello che non convince, non convince.

Le discussioni su Humanæ vitæ dimostrano in maniera esemplare quanto fortemente si distanzino la teologia del magistero e la prassi cattolica. Perfino gli ambienti cattolici conservatori non si lasciano prescrivere la propria pratica sessuale. E neppure temono di manifestare ad alta voce la propria critica a dichiarazioni di papi o di vescovi. A livello globale, il cattolicesimo può certo essere descritto in varie maniere. Nelle società occidentali è però sicuramente arrivato alla modernità, che è come è, cioè plurale. Le persone che si definiscono cattoliche sono prima di tutto persone del proprio tempo.

La discussione sulla Humanæ vitæ, diventata intanto ormai quasi storica, segnala un problema di fondo. Perciò non dovrebbe essere portata avanti solo dalla teologia scientifica, ma affrontata nelle strutture ecclesiali dalla gerarchia. E, innanzitutto, dovrebbe essere identificata come sintomatica di una crisi di fondo che accompagna la teologia fin dal XIX secolo e che continua a scuoterla.

Di che cosa si tratta? Da queste discussioni si può vedere la scarsa consapevolezza storica nella prassi di insegnamento della Chiesa. Invece di accettare che non solo cambiano le condizioni politiche e sociali, ma che cambia anche ciò che determina il pensiero delle persone a livello normativo, l’unica preoccupazione che si ha è quella della propria identità.

Il discorso attuale della pari dignità che spetta a tutti gli esseri umani non è caduto dal cielo ma è stato conquistato faticosamente. Le risorse della religione cristiana hanno giocato un ruolo in questo, ma non sono bastate. Anche lì, ad esse è stato necessario affiancare la ragione. Che anche i concetti della sessualità vissuta siano sottoposti alla trasformazione storica lo si può ricavare da qualsiasi studio storico-culturale.

Coloro che ritengono la teologia uno studio troppo impegnativo, possono anche limitarsi alla Bibbia, ma per favore, con un po’ di cervello, il che significa: leggere comprendendo bene e tenendo presente il contesto storico.

Il libro di Ruth costituisce ad esempio una pietra miliare nella riflessione su come possa essere introdotta maggiore equità nei rapporti tra i sessi. Essere conservatori in senso teologico significa perciò anche non mantenere sempre le stesse idee sui rapporti sociali. Ma significa tornare sempre di nuovo a riflettere su ciò che deve valere.

Nei testi biblici non si trova la diretta Parola di Dio. In essi è invece documentato il processo di una riflessione su quale Dio deve essere sperato – e a quale Dio ci si vuole rivolgere. Anche l’ebreo Gesù di Nazareth, che il cristianesimo ritiene essere l’incarnazione di Dio, ha partecipato decisamente a questo processo. E lo ha fatto nelle condizioni sociali, cultural-religiose di allora. Non sapeva nulla di condizioni di vita completamente diverse e di una modernità fondata sul riconoscimento reciproco. Ma ha impersonato un Dio che vuole sensibilità per l’ambivalenza della vita umana.

Ciò che segna la differenza rispetto ai tempi passati nella “modernità riflessiva” (Herbert Schnädelbach) è sapere che ciò che viene considerato volontà di Dio deriva da prassi di negoziazioni umane e che le persone possono solo sperare che Dio corrisponda a ciò. Ma questo Dio non deve essere in contrasto con il diritto di una autodeterminazione individuale socialmente equilibrata, se la libertà è il valore più alto. Ma non si dovrebbe neppure pensare Dio meno ben disposto verso la

libertà umana (ndr., testo originale: Aber man sollte Gott auch nicht kleiner denken als der menschlichen Freiheit wohlgesinnt zugetan.). E perciò è anche difficile immaginare che Dio abbia un forte interesse nella regolamentazione in riferimento all’esercizio della sessualità nei rapporti tra partner.

Chi vuole avere influenza sulla definizione delle relazioni non potrà puntare semplicemente su una autorità che si è autoattribuita. In futuro il cattolicesimo potrà essere efficace e culturalmente determinante se non rifiuterà le nuove visioni del mondo. Questo non ha nulla a che fare con l’adeguamento allo spirito del tempo, bensì con la scelta, anche in questioni di fede, di non spegnere la ragione.

Perciò quando qualcuno sostiene che nessun papa può cambiare l’insegnamento di Humanæ vitæ perché l’enciclica è espressione del magistero universale della Chiesa, questo stupisce. Tale dichiarazione non provoca allarmate reazioni dei media, se non sugli organi di stampa dell’ambiente ristretto, anche solo perché la logica dell’enciclica non ha mai convinto e perciò al di fuori degli ambienti della teologia è stata più o meno dimenticata. Se però nel complesso nell’opinione pubblica prende piede l’impressione che gli argomenti addotti sono sorpassati, la Chiesa perderà ulteriormente in credibilità. E questo sarebbe un peccato, perché il Vangelo del Dio fatto uomo, anche in un mondo trasformato e diventato molto diverso, può ancora parlare agli esseri umani.

Magnus Striet,

professore di teologia fondamentale e antropologia filosofica all’Università di Friburgo in Brisgovia.

www.zeit.de 20 luglio 2018 traduzione: www.finesettimana.org

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180721striet.pdf

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MATRIMONIO

Mio marito non vuole avere più figli. Faccio bene a chiedere il divorzio?

Una nostra lettrice, raccontando la situazione che sta vivendo in famiglia, ci ha chiesto se è possibile divorziare e chiedere la nullità per una “promessa” mancata dal partner.

Buonasera, sono mamma di un bimbo di due anni, arrivato dopo 11 anni di matrimonio. Mio marito non vuole più altri figli, premetto che sia nel periodo del fidanzamento sia negli 11 anni di attesa mi ha sempre detto che sarebbe stato bello averne due. Per me viene a mancare la sua promessa fatta davanti a Dio nel giorno del suo matrimonio. Il nostro rapporto per questo motivo e altri si sta deteriorando. Secondo voi il solo fatto di non voler più figli è un buon motivo per chiedere la separazione? La mia idea di famiglia per suo volere non ha più senso. Vi ringrazio”.

Sul tema del possibile divorzio, Aleteia ha ascoltato don Héctor Franceschi, Ordinario di Diritto Matrimoniale Canonico presso la Pontificia Università della Santa Croce. «Come prima cosa – ha premesso il docente – il solo fatto di non voler avere più figli non giustifica la separazione, se intendiamo la separazione coniugale di cui parla la Chiesa, che riguarda sia l’adulterio dell’altro coniuge che una situazione che metta in pericolo la integrità fisica o spirituale del coniuge o dei figli, o qualora il coniuge renda troppo dura la vita coniugale (cfr. canoni 1152 e 1153 del Codice di Diritto Canonico). Se si arrivasse a quella situazione si potrebbe chiedere la separazione mentre perdura tale situazione (non si deve confondere, però, la separazione con il divorzio civile e tantomeno con la nullità del matrimonio)».

Franceschi ha spronato, a chi si trova in una situazione simile, a «fare tutto il possibile per salvare il matrimonio, pensando anche al bene del figlio, che ha bisogno di un padre e una madre». Perciò, rispondendo accoratamente, sottolinea: «tenti di capire il perché del rifiuto del marito. Chieda aiuto in parrocchia o in un buon consultorio familiare. Tenti una terapia di coppia. So che il momento è duro, ma se si riuscisse a salvare quell’unione vedrà che alla fine ringrazierà il Signore».

Se, malgrado tutto, il marito non dovesse abbandonare questa presa di posizione «e si scoprisse che sin dall’inizio aveva una chiara e determinata volontà di avere soltanto un figlio, senza importargli cosa lei pensasse e volesse, e non si riesce a cambiare la situazione, sarebbe ipotizzabile una possibile nullità del matrimonio per diversi motivi, ma per dare una risposta più certa avrei bisogno di più dati».

Come ipotesi di nullità, «ci potrebbe essere l’esclusione della prole se nel momento delle nozze il marito si era riservato totalmente la decisione su se e quando avere un figlio e soltanto uno, senza tener conto che la moglie parlava apertamente di almeno due figli».

Un’altra ipotesi «sarebbe il consenso condizionato da parte di lei, se si sposò con la volontà determinata di avere almeno due figli e ora, nello scoprire che la volontà del marito era quella di avere soltanto uno, si è sentita tradita e ritiene che il matrimonio non regge più. Come ho detto, però, queste sono soltanto ipotesi che dovrebbero essere valutate dagli esperti dopo un accurato colloquio con la donna».

In conclusione, secondo l’esperto di diritto canonico matrimoniale: «la moglie prima di tutto faccia l’impossibile per capire le ragioni di suo marito e fargli cambiare idea, perché in quella netta chiusura alla prole vi è qualcosa che non va e che porterebbe quasi sicuramente all’allontanamento e al fallimento, perché un amore che si chiude alla dimensione feconda è un amore egoista e che non aiuta neanche alla unione tra i coniugi». Se i tentativi falliscono, «allora potrebbe rivolgersi al parroco per chiedere consiglio sulla via da seguire».

Inoltre, va anche detto che nei Tribunali ecclesiastici «ci sono persone il cui compito è quello di consigliere e aiutare le persone che si trovano in situazioni come la sua». «Si rivolga al Tribunale – esorta Franceschi – per approfondire la problematica e vedere se, nel caso concreto, più che un matrimonio che non funziona o che è fallito, ci troviamo dinanzi ad un matrimonio nullo, cioè, che non è stato mai un vero matrimonio. Non mi resta che dirle che prego per lei e spero che trovi la miglior soluzione, sia per lei che per il piccolo».

Barbara Baffetti, filosofa e pedagoga, membro della Comunità del Centro Familiare Casa della Tenerezza di Perugia e conduttrice di Gruppi di Parola, a sostegno dei figli di separati, lancia un appello accorato alla donna: «Comprendo la sua frustrazione rispetto a quello che le pare un tradimento nei confronti del progetto nuziale, condiviso fin dagli inizi con suo marito. Il matrimonio dona agli sposi la possibilità di partecipare alla volontà creatrice del Padre, attraverso l’atto coniugale in cui s’intrecciano i due aspetti, unitivo e procreativo. Esso, proprio in virtù di ciò, nasce e si fonda su una fecondità della coppia che è prima di tutto comunione tra i coniugi».

La generatività degli sposi, sottolinea l’esperta di Pastorale Familiare, «prende avvio da lì, e forse la vostra si sta perdendo per tutta una serie di motivi su cui è importante fare una riflessione. Provate a rimettere in comunione, desideri e attese, paure e difficoltà, anche rispetto alla vostra genitorialità. Sappia che, per esperienza diretta del nostro Centro, che accompagna appunto le coppie in difficoltà, la crisi non è mai un fallimento a prescindere, ma se affrontata opportunamente, è un momento prezioso per far tornare il matrimonio fecondo, oltre il solo dato biologico. Penso che questa sia una responsabilità cui, lei e suo marito, siete richiamati entrambi, come sposi e genitori appunto».

Ora, infatti, fa notare Baffetti, «c’è anche un bambino di cui tenere conto. Lo avete accolto come un dono che ora siete chiamati a custodire con una paternità e maternità veramente responsabili. Come conduttrice di “Gruppi di Parola” per figli di separati, conosco il turbamento emotivo di questi bambini e la loro difficoltà a percepirsi ancora protetti da una famiglia; vedo la difficoltà a salvaguardare la genitorialità là dove si è interrotta la sponsalità, con le conseguenze negative che può ben comprendere. Perciò in nome di suo figlio, ma anche di un progetto cui Dio è ancora fedele, la invito a intraprendere un cammino di sostegno di coppia e le auguro che la tenerezza di Dio la porti a riscoprire la bellezza del suo matrimonio»

Gelsomino Del Guercio Aleteia 24 luglio 2018

https://it.aleteia.org/2018/07/24/non-vuole-figli-giusto-divorzio-nullita

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MINORI NON ACCOMPAGNATI

Un minore non accompagnato in affido? Pronte le prime 18 famiglie

Solo il 3% dei minori non accompagnati oggi sono in affido in famiglia: si pensa spesso non sia la scelta giusta per un diciassettenne con alle spalle un percorso di migrazione tanto duro. Invece 9 ragazzi su 10 lo preferirebbero alla comunità. Terreferme è un progetto pilota che ha già formato 260 persone: obiettivo 50 ragazzi affidati a una famiglia entro la fine del 2018. Selezionati i primi 10 ragazzi

Il più piccolo ha 14 anni, il più grande ne ha appena compiuti 18 ed è in prosieguo amministrativo. Ci sono anche due sorelle, di 11 e 15 anni. Sono dieci complessivamente, prevalentemente maschi, arrivano tutti dall’Africa: Egitto, Costa d’Avorio, Mali, Gambia. Sono i primi minori non accompagnati che dalla Sicilia andranno in affido in famiglie della Lombardia e del Veneto, grazie al progetto Terreferme. Sono già 260 le persone formate tra coppie, singoli e operatori e le prime 18 famiglie sono state dichiarate idonee, avendo terminato il percorso di selezione fatto dai soggetti preposti. Il matching [abbinamento] tra famiglia e ragazzo è stato fatto, ora sono in corso le procedure per perfezionare l’abbinamento, così che gli affidi possano partire tra la fine di luglio e l’inizio di settembre, in tempo perché i ragazzi possano iniziare la scuola nel loro nuovo paese. L’idea di Terreferme infatti è quella di attuare una corresponsabilità nazionale rispetto all’accoglienza dei minori non accompagnati, che si trovano per il 42% in Sicilia, valorizzando le risorse di accoglienza di altre Regioni: altri corsi di formazione partiranno in autunno.

«Queste 18 famiglie sono soltanto le prime, quelle che erano disponibili ad accogliere un ragazzo fin da subito. La risposta è stata ottima e tutte le famiglie formate continueranno a ritrovarsi se lo vorranno, gli operatori territoriali lavoreranno in questa direzione: per continuare a formarsi o per appoggiare le famiglie che hanno già un minore in affido», commenta Liviana Marelli, referente minori per il CNCA. Terreferme è un progetto promosso da CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) e Unicef in collaborazione con il Garante dei diritti dei minori del Comune di Palermo, Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Ministero dell’Interno, AGIA, ANCI, AIMMF. L’obiettivo è di realizzare 50 affidi nel contesto del progetto pilota, costruendo un modello operativo validato e replicabile: dimostrare cioè che l’affido in famiglia di un minore non accompagnato è possibile e renderlo una prassi operativa, replicabile anche in altri luoghi. La corresponsabilità nazionale è un tratto peculiare del progetto, dal momento che – come detto più volte – i minori non accompagnati si trovano per lo più in Sicilia e regioni del Sud, mentre la disponibilità di famiglie affidatarie è più elevata al Nord.

I ragazzi candidati all’affido sono stati individuati da un team composto dagli assessori sociali del Comune di Palermo, operatori delle comunità di accoglienza, operatori territoriali del progetto. «Questo team analizza la situazione del ragazzo, la sua condizione oggettiva pregressa e attuale», spiega Marelli. Ogni candidato è stato ascoltato: «perché è fondamentale coinvolgerlo, avere la certezza che capisca bene cos’è l’affido, capire se aderisce al progetto». In questo momento gli operatori e le famiglie stanno studiano le modalità per la conoscenza con il ragazzo, conoscenza che precederà l’accoglienza vera e propria: foto, skype… le modalità sono diverse. «Fermo restando che ogni ragazzo sarà poi accompagnato all’accoglienza e all’incontro vero e proprio con la famiglia, i ragazzi non sono “pacchi” spediti dalla Sicilia al Veneto o alla Lombardia».

«Per i ragazzi l’accoglienza in affido sarà un’opportunità fantastica di inclusione: essere seguiti in modo prossimo da adulti molto inseriti nei contesti sociali in cui vivono apre ovviamente opportunità e il CNCA ha fatto un lavoro fantastico di mappatura delle risorse offerte dal territorio. Parallelamente occorre lavorare per rafforzare le competenze degli enti locali sull’affido di minori non accompagnati, perché fino ad oggi si è privilegiata l’accoglienza nei Centri: occorre preparare gli operatori affinché preparino minori e famiglie a questi percorsi», riflette Anna Riatti, coordinatrice del programma dell’Unicef in Italia per migranti e rifugiati. «Il valore aggiunto di questo progetto pilota sta nella definizione del processo, è un progetto pilota a livello mondiale, contribuirà all’agenda regionale e globale».

Proprio Unicef a gennaio e poi a maggio ha realizzato un sondaggio su oltre 600 ragazzi migranti e rifugiati, attraverso la piattaforma U-Report on the Move: a maggio nove minori non accompagnati su dieci hanno detto che vorrebbero essere ospitati proprio in una famiglia italiana, preferendola di gran lunga al centro di accoglienza o alla comunità (erano 8 su 10 a gennaio). Un’opzione di cui però solo il 35% dei MNA è a conoscenza. Il 72% dei minori che hanno risposto al sondaggio, preferirebbe vivere in famiglia per ritrovare l’ambiente famigliare perso a causa della migrazione, il 16% perché non ama la vita nei centri. Solo il 12% non vorrebbe vivere in famiglia per una questione di indipendenza o perché nel centro di accoglienza si è trovato bene. A fronte di questi desideri, la realtà dice che ´dati raccolti da Save the Children) solo il 3,1% dei MNA è in affido, benché molte coppie e singole persone (ricordiamo che l’affido, diversamente dalle adozioni, è possibile anche ai single) in questi mesi hanno sentito il desiderio di accogliere in famiglia uno dei tanti minori arrivati soli sulle nostre coste (qui la guida si tutto quello che occorre sapere per accogliere in affido un minore non accompagnato).

Ma perché l’affido in famiglia come risposta ai bisogni di tutela di un minore non accompagnato è una soluzione così poco praticata? «Le ragioni sono molte. L’impatto di flussi migratori importanti ha costretto a privilegiare soluzioni di emergenze e di prima accoglienza, anziché misure a lungo termine, inoltre il processo dell’affido è complesso, richiede un forte meccanismo di coordinamento tra tutte le istituzioni chiave (servizi sociali, tribunali minorili, prefetture, tutori…», continua Riatti. Eppure l’affido «è un’ottima soluzione. La prima è ragione è che lo vogliono i ragazzi», afferma Riatti. «Dal punto di vista del diritto, perché il diritto alla famiglia fa parte della CRC ed è contemplato come forma da privilegiare anche dai vari commenti generali del Comitato sui diritti dell’Infanzia per minori non accompagnati. L’affido infine può colmare alcune lacune della struttura di protezione dei MNA: la mancanza di un ambiente familiare in cui crescere, così importante per lo sviluppo di relazioni interpersonali, la collocazione di MNA in centri di accoglienza temporanei non strutturati ed idonei a ospitare adolescenti per un lungo periodo, l’accesso limitato e difficoltoso dei MNA all’assistenza sanitaria di base e al sostegno psico-sociale, ma anche l’educazione e le opportunità lavorative che potrebbero diventare più accessibili se seguiti da famiglie e operatori professionali».

Sara De Carli News Vita.it 26 luglio 2018

www.vita.it/it/article/2018/07/23/un-minore-non-accompagnato-in-affido-pronte-le-prime-18-famiglie/147667

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OMOGENITORIALITÀ

Bimbi di coppie gay. Gli strappi dei sindaci e i ricorsi delle procure

Da Nord a Sud è già scontro coi giudici sulle trascrizioni: «Violano la legge». La lista è lunga: Torino, Roma, Catania, Napoli. E pure Gabicce Mare (Pesaro) e Crema (Cremona). Eccoli i Comuni che nelle ultime settimane hanno trascritto certificati di nascita rilasciati da un Paese estero, relativi a bimbi “commissionati” da coppie omosessuali (sia formate da donne che da uomini) ottenuti attraverso l’acquisto di gameti e la gestazione in un utero affittato. Una pratica, quella della maternità surrogata, che la legge penale italiana vieta. E un riconoscimento – quello dell’atto di nascita estero – che cozza anche con il nostro codice civile secondo cui madre (dunque genitore) è colei che partorisce.

Di qui la mossa delle procure, che ben prima del ministro per la Famiglia hanno iniziato a esprimere le loro perplessità sulla “scia” delle trascrizioni. Capofila quella di Roma, che ha impugnato l’atto del Campidoglio relativo alla trascrizione del figlio di “due papà” per non aver avviato alcuna istruttoria interna sui documenti provenienti dall’estero. «Serve la verifica, e la pronuncia di un giudice», in sostanza, l’obiezione della procura. Anche per il principio di tutela del supremo interesse del minore, che va di volta in volta valutata in base alle relazioni familiari che lo circondano.

A muoversi nella stessa direzione, successivamente, la Procura di Pesaro, che ha competenza sulla cittadina litoranea di Gabicce: anche qui impugnazione della trascrizione dell’atto di nascita di due gemelli effettuata da quel Comune, perché «non basta produrre un documento californiano con la scritta ‘i gemelli hanno due padri’ per farci stare tranquilli», hanno spiegato i magistrati inquirenti. In ultimo, appena qualche giorno fa, quella di Belluno, dove il procuratore Paolo Luca ha fatto ricorso al Tribunale per dichiarare illegittima la trascrizione nei registri di nascita del Comune di Mel, in provincia di Belluno, di un bimbo con due mamme. «Non c’è alcuna connotazione di carattere morale in questa iniziativa, ci mancherebbe altro. Si tratta semplicemente di applicare la legge» ha spiegato. Un rotondo no al diritto creativo, in questo caso del sindaco. Secondo la Prefettura e, successivamente, la Procura in particolare la certificazione è illegittima perché viola il decreto del Presidente della Repubblica numero 396 del 2000 sull’ordinamento dello stato civile, secondo il quale il legame tra le donne non è riconducibile al concetto di matrimonio e non esiste alcun legame biologico o genetico tra la donna che non l’ha messo al mondo e il bambino.

La Cassazione d’altronde, con sentenza 24001 del 2014, aveva già ritenuto impossibile riconoscere «genitori» – e proprio per contrarietà all’ordine pubblico – due persone che avevano comprato un bimbo attraverso la maternità surrogata compiuta all’estero. In quel caso, tra l’altro, si trattava di una coppia etero, ma per i supremi giudici, in ogni caso, il fatto che l’utero in affitto fosse vietato dalle nostre leggi impediva il riconoscimento dei suoi frutti.

Francesco Dal Mas Avvenire venerdì 27 luglio 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/gli-strappi-dei-sindaci-e-i-ricorsi-delle-procure

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PROCREAZIONE ASSISTITA

Negli anni le tecniche di Pma non hanno avuto alcun miglioramento

Relazione del Ministro della salute Giulia Grillo al Parlamento sullo stato di attuazione della legge contenente norme in materia di procreazione medicalmente assistita (legge 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 15). Attività anno 2016. Trasmessa il 28 giugno 2018, pubblicata il 13 luglio 2018

www.salute.gov.it/portale/donna/dettaglioPubblicazioniDonna.jsp?id=2762

La storia della procreazione medicalmente assistita (Pma) in Italia è stata sia anomala che rappresentativa del “Mondo Nuovo” che porta con sé. Anomala: dopo una gestione anarchica da parte degli addetti ai lavori, nel febbraio 2004 è stata regolata dalla legge 40. Approvata dal parlamento, confermata da un referendum grazie all’astensione più ampia e consapevole della storia della repubblica (solo il 25,5% partecipò al voto), è stata subito violentemente osteggiata dalle ricche lobby di settore che, costruendo casi giudiziari, sono arrivati a sentenze che ne hanno smontato alcune colonne portanti, ripristinando e ampliando il prospero, precedente mercato.

Rappresentativa: le relazioni annuali al parlamento sulla sua applicazione mostrano che negli anni le tecniche in sé non hanno avuto alcun miglioramento, come “successo”, cioè come gravidanze per ciclo di trattamenti. E questo nonostante la liberalizzazione – in teoria non consentita ma concretizzata dopo le sentenze – del numero degli embrioni formati in laboratorio. Un dato su tutti: la Pma con gameti non congelati dava una percentuale di gravidanze su ciclo iniziato del 19,6% nel 2007 (prima dell’intervento della Consulta), rispetto al 17,3% nel 2016.

Sono aumentate però le coppie trattate, il numero dei trattamenti e quello dei bambini: nel 2016 i 13.582 nati con tutte le tecniche sono il 2,9% dei neonati italiani.

La novità è la modifica delle procedure: si producono più embrioni da congelare, e poi scongelare, in tentativi successivi di ottenere gravidanze. Nel 2016 abbiamo avuto, per la Pma omologa, l’1,4% in meno degli embrioni formati rispetto all’anno precedente, ma più embrioni crioconservati: 38.687, +12.2% rispetto al 2015 (nel 2008 gli embrioni congelati erano 763). Un problema intrinseco alla Pma, “risolvibile” solamente con la distruzione degli embrioni “sovranumerari”, non più richiesti dalle coppie, ancora vietata dalla L. 40.

Aumenta cioè il tenore manipolatorio della Pma, con l’aumento di cicli di congelamento-scongelamento embrionale, a cui si è aggiunta la fecondazione eterologa, cioè con gameti estranei alla coppia, vietata dall’impianto originario della L. 40 ma consentita dalla Consulta nel 2014. Sono stati sufficienti due anni per registrare un vero e proprio “boom” di questa tecnica: ben 1.457 i nati nel 2016, l’11% di quelli con Pma, con le coppie trattate aumentate in percentuale del 121% rispetto al 2015. E donne più anziane di quelle della omologa: 41,4 anni rispetto a 36,8 (comunque due anni in più rispetto alle media europea). Il che significa che l’eterologa viene usata per una infertilità “fisiologica”, dovuta all’età, e non patologica: il tentativo di diventare madri si sposta sempre più avanti negli anni. Un “effetto invecchiamento” della Pma, in generale: per l’omologa, le donne con più di 40 anni erano il 20,7%, e sono adesso il 35,2%.

I gameti dell’eterologa sono in massima parte importati: più dell’80% per il seme maschile, più del 90% per gli ovociti. Il blocco di più di due anni del recepimento di direttive europee da parte della Presidenza del Consiglio, nella scorsa legislatura (nonostante le sollecitazioni del Ministro Lorenzin), ha impedito campagne di donazione in Italia.

E dall’interessantissimo allegato in appendice possiamo vedere nel dettaglio le interconnessioni evidenti fra centri italiani e stranieri sia per l’import di gameti, sia per il ciclo: export spermatozoi, fecondazione con “donatrici” in centri esteri, import embrioni congelati formati. Tipici della provetta italiana, ma non solo. Informazioni importanti e anche inquietanti, da approfondire.

Assuntina Morresi Avvenire 23 luglio 2018

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/piu-embrioni-non-gravidanze

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SEPARAZIONE

Negoziazione assistita: il focus è sul procedimento

Il procedimento di negoziazione assistita può essere utilizzato per raggiungere una definizione consensuale delle condizioni di separazione personale, di divorzio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

Si riporta un estratto integrale dell’approfondimento della prof. Elena Falletti, pubblicato su In Pratica Legale Famiglia.

Negli ultimi anni si è registrato un incremento dell’interesse nei confronti dei metodi di risoluzione stragiudiziale delle controversie, anche nell’ambito dei conflitti derivanti dalla crisi del matrimonio. In questo quadro, il D.L. 132 del 2014, convertito con modificazioni dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, ha introdotto due modalità per addivenire ad una soluzione consensuale della separazione personale, del divorzio e della modifica delle relative condizioni:

  1. La convenzione di negoziazione assistita (art. 6)

  2. L’accordo concluso dai coniugi innanzi al Sindaco (art. 12).

Due istituti distinti – l’uno reso possibile grazie all’intervento degli avvocati, l’altro direttamente gestito dalle parti innanzi all’Ufficiale dello stato civile – ma accomunati, sotto numerosi profili (con particolare riferimento all’ambito di operatività ed a buona parte degli effetti).

Presupposti e procedimento della negoziazione assistita. Il procedimento di negoziazione assistita può essere utilizzato al fine di raggiungere una definizione consensuale delle condizioni di separazione personale, di divorzio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

L’art. 6, comma 1, D.L. n. 132/2014 prevede che “la convenzione di negoziazione assistita da almeno un avvocato per parte può essere conclusa tra i coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio nei casi di cui all’art. 3, comma 1, n. 2, lett. b, L. n. 898/1970 e successive modificazioni, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio”. Il comma 3 della stessa norma prevede, inoltre, che “l’accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio”.

È dunque prevista una struttura negoziale bifasica che si articola in una prima convenzione di negoziazione assistita nella quale le parti e gli avvocati che le assistono definiscono le regole della negoziazione che si accingono ad intraprendere. A tale convenzione segue, in caso di esito positivo della negoziazione, la sottoscrizione dell’accordo di separazione, di divorzio o di modifica delle condizioni della precedente separazione o del precedente divorzio.

La regola fondamentale che deve caratterizzare la negoziazione è quella per cui le parti devono cooperare in buona fede e con lealtà al fine di risolvere in via transattiva la controversia che le vede coinvolte mediante l’assistenza dei propri avvocati.

Le parti hanno l’obbligo di individuare la durata massima della procedura la quale non può essere comunque inferiore ad un mese e non superiore a tre mesi (termine prorogabile di ulteriori trenta giorni su accordo delle parti).

L’accordo raggiunto grazie alla procedura di negoziazione assistita deve essere necessariamente perfezionato in forma scritta.

Il legislatore prevede la possibilità di ricorrere allo strumento della negoziazione assistita (art. 6, comma 2, D.L. n. 132/2014) sia in assenza, sia in presenza di:

  • Figli minori;

  • Figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 1, n. 2, lett. b), L. n. 898/1970;

  • Figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.

Nella prima ipotesi l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita è trasmesso al procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente il quale, quando non ravvisa irregolarità, comunica agli avvocati il nullaosta per i successivi adempimenti richiesti ai fini del conseguimento dell’efficacia dell’accordo.

Nella seconda ipotesi, ossia in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero non economicamente autosufficienti, “l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita deve essere trasmesso entro il termine di dieci giorni al procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente”. Il procuratore della Repubblica, dopo aver verificato la rispondenza dell’accordo all’interesse dei figli, lo autorizza. Qualora invece il procuratore della Repubblica ritenga che l’accordo sia contrario all’interesse dei figli, egli ha l’obbligo di trasmetterlo, entro cinque giorni, al presidente del Tribunale che fissa, nei successivi trenta giorni, la comparizione personale delle parti.

Tale previsione normativa origina numerosi interrogativi di carattere processuale con riferimento al suo coordinamento con le norme di rito che regolano i procedimenti di separazione, di divorzio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

Il dettato normativo sembra infatti alludere all’instaurazione di un procedimento di separazione consensuale o di divorzio o di modifica delle relative condizioni su domanda congiunta nell’ipotesi in cui il procuratore della Repubblica trasmetta, non ritenendo salvaguardati i diritti dei figli, l’accordo di negoziazione al presidente del Tribunale. Ciò suscita numerose perplessità derivanti dal fatto che in tale ipotesi manca, sotto il profilo formale, il deposito di un atto introduttivo ad opera delle parti, uniche legittimate ad esercitare il diritto personalissimo di separarsi o di divorziare.

Il Tribunale di Torino (Trib. Torino, 15 gennaio 2015) ha sul punto indicato la seguente soluzione di raccordo tra la fase di negoziazione davanti al procuratore della Repubblica e la fase innanzi al presidente del Tribunale: qualora i coniugi intendano recepire le osservazioni del procuratore della Repubblica, il presidente del Tribunale potrebbe autorizzare l’accordo; qualora invece le parti non intendano recepire le osservazioni del procuratore della Repubblica, i coniugi dovrebbero depositare un ricorso per l’avvio del giudizio di separazione consensuale o di divorzio su domanda congiunta (sul punto cfr. anche Trib. Termini Imerese, 16 marzo 2015).

In sede di negoziazione assistita, le parti possono raggiungere accordi che comportino trasferimenti immobiliari o stipulare contratti o atti soggetti a trascrizione e, in questo ultimo caso, troverà applicazione l’art. 5, comma 3, D.L. n. 132/2014 per il quale, proprio ai fini della trascrizione, la sottoscrizione del processo verbale di accordo dovrà essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

Nel silenzio della legge, valorizzando l’analogia dell’accordo di negoziazione assistita rispetto a quello di separazione consensuale, è possibile sostenere che, nell’ipotesi di separazione o di divorzio, i coniugi debbano necessariamente all’interno dell’accordo:

  • Manifestare il loro consenso a separarsi o a divorziare, indicando, in questo ultimo caso, il venir meno della comunione spirituale e materiale, nonché il fatto che siano trascorsi 6 mesi/1 anno – a seconda che le parti siano addivenute ad una separazione consensuale o giudiziale – dalla separazione;

  • Indicare, qualora vi siano figli minori, incapaci o portatori di handicap grave o economicamente non indipendenti, la regolazione concordata dei rapporti personali e patrimoniali tra i genitori e i figli e ciò anche per consentire al procuratore della Repubblica un controllo nel merito di tali disposizioni;

  • Prevedere un assegno di mantenimento o divorzile a favore del coniuge debole qualora ne sussistano i presupposti.

L’accordo, inoltre, al pari di quello di separazione consensuale, può avere ad oggetto gli stessi temi che fanno parte del c.d. contenuto facoltativo della separazione consensuale (ad es. trasferimenti immobiliari, divisione dei beni in comunione, ripartizione delle spese dei beni indivisi, costituzione di diritti di godimento su immobili in comproprietà, ecc.).

L’art. 6, comma 3, D.L. n. 132/2014 contiene un’importante prescrizione: è necessario che nell’accordo si dia atto che gli avvocati hanno esperito un tentativo di conciliazione delle parti e hanno informato i coniugi circa la possibilità di comporre il loro conflitto ricorrendo alla mediazione familiare. Si dovrà trattare di una negoziazione informata nel senso che l’avvocato nell’assumere il ruolo di assistente alla negoziazione, dovrà ottenere dal cliente un consenso consapevole che richiede, per poter essere definito tale, una previa conoscenza dei diritti e degli obblighi di tutti i soggetti coinvolti.

Ne discende che, con specifico riferimento agli aspetti patrimoniali, l’impegno a cooperare in buona fede e con lealtà implica una necessaria disclosure [divulgazione] avuto riguardo a tutti i documenti e a tutte le informazioni di cui la parte sia in possesso nei limiti in cui tali informazioni possano essere decisive ai fini della formazione del consenso. In questa prospettiva, l’avvocato dovrà ricevere dalle parti non solo i documenti che le stesse sarebbero tenute a produrre nell’ambito dei giudizi di separazione o di divorzio (dichiarazioni dei redditi relative agli ultimi tre anni), ma anche i documenti che il giudice ha il potere di ordinare a ciascuno di esibire in ordine alla propria posizione patrimoniale (estratti dei conti correnti, documentazione relativa alle proprietà immobiliari, ecc.).

Gli avvocati delle parti devono, infatti, garantire la conformità dell’accordo raggiunto “alle norme imperative ed all’ordine pubblico”, certificando le sottoscrizioni apposte dalle parti sotto la propria responsabilità (art. 5, comma 2, D.L. n. 132/2014). Per effettuare tale certificazione gli avvocati devono disporre di tutti gli elementi di fatto idonei ad incidere sulle condizioni della separazione e del divorzio e sulle condizioni relative ai figli in particolare.

È fatto poi obbligo all’avvocato della parte di trasmettere, entro il termine di 10 giorni (dalla data di comunicazione alle parti del provvedimento), all’Ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio è stato iscritto o trascritto, copia – autenticata dallo stesso – dell’accordo munito delle certificazioni relative all’autografia delle firme e alla menzionata conformità dell’accordo stesso alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Nel caso in cui l’avvocato non adempia al suddetto obbligo, va incontro ad una sanzione pecuniaria amministrativa da euro 2.000,00 ad euro 10.000,00. Tale sanzione amministrativa pecuniaria sarà applicata soltanto qualora nessuno degli avvocati abbia provveduto alla trasmissione dell’accordo.

Gli avvocati, infine, non possono impugnare l’accordo alla cui redazione abbiano partecipato (art. 5, comma 4, D.L. n. 132/2014).

Altalex, 23 luglio 2018. Articolo a cura di Studio Legale Rimini fac-simile della convenzione

www.altalex.com/documents/biblioteca/2018/07/20/negoziazione-assistita-e-separazione-personale-dei-coniugi

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STALKING

Stalking conseguenze psicologiche

Le vittime di stalking quasi sempre subiscono importanti conseguenze psicologiche a causa delle condotte persecutorie: vediamo quali sono e quali approcci terapeutici adottare.

La recente introduzione del reato di stalking, se ha certo aumentato la soglia di vigilanza nei confronti di un fenomeno a lungo tempo trascurato dall’opinione pubblica, non ha certo comportato una significativa riduzione del numero dei casi, complici anche la vaga formulazione delle norme e la difficoltà a provare in giudizio le condotte persecutorie che integrano la fattispecie penale.

C’è, tuttavia, un dato significativo e che ha ricevuto un certo margine di visibilità: si tratta del profilo delle conseguenze psicologiche patite dalle vittime di stalking, di cui negli ultimi anni ha cominciato a parlarsi con maggiore chiarezza, al punto che sono sorte moltissime associazioni e profili professionali specializzati per consigliare approcci terapeutici opportuni e per alleviare i sintomi più gravi.

Ma quali sono le conseguenze psicologiche dello stalking? E, prima ancora, quando si può parlare di stalking? Per rispondere a queste domande è opportuno analizzare, in primo luogo, la fattispecie considerata dalla legge come reato, per poi coglierne gli aspetti sociali e psichici dal lato della persona offesa; infine, vedremo quali sono le tecniche di supporto psicologico che hanno dimostrato maggiore efficacia per le vittime di stalking.

Cos’è lo stalking? Con questa espressione di origine anglosassone si intendono le condotte, solitamente tenute da un uomo ai danni di una donna, in forza delle quali un soggetto pone in essere una serie di atti volti ad intimidire, minacciare o perseguitare un’altra persona: non a caso, la fattispecie del codice penale incrimina gli “atti persecutori“, definiti appunto “stalking” nel gergo comune.

L’introduzione del reato di stalking nel nostro codice penale [Legge n. 11, 23 febbraio 2009] si è resa necessaria a causa della crescente preoccupazione sociale per questo fenomeno: con una cronaca nazionale costantemente occupata da pagine relative agli abusi subiti dalle donne, il legislatore ha sentito il bisogno di codificare, e quindi colpire, anche i comportamenti persecutori tenuti nei confronti della vittima che non comportassero violenza fisica o danni più gravi alla persona. In questo modo si è tentato di anticipare la soglia della tutela, in un’ottica squisitamente preventiva, così da evitare che l’ossessione di un soggetto per la propria vittima possa sfociare in condotte lesive ben più offensive.

www.camera.it/parlam/leggi/decreti/09011d.htm

La ratio della norma è anche quella di coprire, sotto le istanze del dibattito giurisprudenziale e sociale, con una regolamentazione ad hoc, anche le fattispecie non sussumibili all’interno di altre ipotesi di reato: in questo modo si ampliano le tutele nei confronti delle vittime delle condotte violente, colmando l’imbarazzante vuoto legislativo esistente. Questo è evidente se si analizza, dal punto di vista normativo, la fattispecie di stalking così come introdotta dal legislatore nel 2009: infatti, il reato in questione è inserito nel titolo relativo ai “Delitti contro la libertà morale della persona”.

Venendo ai tratti caratteristici della fattispecie, occorre osservare, in primo luogo, che integrano il delitto di atti persecutori non tutte le condotte poste in essere contro la volontà altrui, ma unicamente quelle, di varia natura, reiterate nel tempo, insistenti, e purché volte ad ingenerare ansia e paura nei confronti della vittima. In altri termini, non ogni attività ai danni, ad esempio, di un ex partner o di un ex coniuge, determina stalking: è necessario che queste condotte siano tali da causare una condizione di estremo disagio nella vittima, idoneo ad alterare il normale svolgimento della sua vita [art. 612-bis c.p.].

La legge non descrive analiticamente in cosa possano consistere queste condotte. I comportamenti rilevanti per la fattispecie, purché, come detto, idonei a provocare nella vittima uno stato di turbamento perdurante, possono andare dal pedinamento all’appostamento sul luogo di lavoro, oppure nei pressi dell’abitazione o nei luoghi abitualmente frequentati, ma viene considerato stalking anche l’invio continuo di messaggi via cellulare, internet e social, così come le continue telefonate (anche mute) ai danni della vittima. A rilevare, quindi, non è la quantità o la tipologia di condotte, quanto il fatto che esse abbiano un fine ed un effetto persecutori: ciò spiega perché il bene giuridico tutelato dalla norma è quello della libertà morale della vittima, cioè la sua integrità psichica, la sua capacità di autodeterminazione, tutti ambiti potenzialmente lesi, come approfondiremo di qui a breve, da chi pone in essere condotte di stalking. [Ciò che differenzia lo stalking dalla fattispecie generale di minaccia è la quantificazione dell’intimidazione: nella minaccia basta un semplice episodio, mentre l’art. 612-bis c.p. richiede delle condotte reiterate, tali da tradursi in una persecuzione ai danni della vittima. Ciò spiega, d’altra parte, perché il reato possa essere punito esclusivamente a titolo di dolo: ci deve essere, cioè, volontarietà da parte del carnefice di voler realizzare una condotta intimidatoria, a prescindere dalle finalità ulteriori perseguite.].

Va rilevato, per concludere sull’esame del reato di stalking, che questa fattispecie deve essere coniugata anche ad altri reati che tutelano le vittime di violenza: non a caso, infatti, la fattispecie di stalking è sussidiaria, nel senso che viene in considerazione solo quando il fatto non costituisce un delitto più grave. Allo stesso tempo, in considerazione del fatto che la maggior parte degli episodi di stalking avviene ai danni di persone con cui il reo ha o aveva un rapporto sentimentale, il recente decreto sul “femminicidio” [D.L. 93/2013, convertito nella Legge 119, 15 ottobre 2013] ha introdotto delle aggravanti per la pena quando il fatto è commesso dal coniuge o persona legata da relazione affettiva con la persona offesa, oppure ai danni di minori, donne in stato di gravidanza o persone disabili. www.lexitalia.it/leggi/2013-119.htm

Infine, integra una fattispecie di omicidio aggravato, idoneo a determinare la condanna all’ergastolo, quello provocato dallo stalker nei confronti della medesima persona perseguitata [Art. 576, n. 5-1, c.p.].

Cosa implica lo stalking per le vittime? L’analisi della fattispecie di stalking così come delineata dalla legge è fondamentale per comprendere quali sono le conseguenze psicologiche di questo delitto. Si è detto, infatti, che per integrare il reato di atti persecutori è necessario che vengano in essere condotte reiterate nel tempo, idonee a rappresentare casi di minaccia, molestia e offesa. Ma ciò non basta: infatti, vista la natura del bene giuridico protetto dalla norma che incrimina lo stalking (la libertà morale della vittima), è necessario che si producano determinate conseguenze ai danni della persona offesa.

In altre parole, non basta che le condotte siano astrattamente persecutorie, ma anche che siano in questo modo vissute dalla vittima, direttamente o tramite un familiare o congiunto coinvolto nel caso di specie. Queste conseguenze sono esattamente individuate dalla legge in tre ipotesi, indipendenti l’una dall’altra:

  • Quando la condotta dello stalker ingenera un perdurante e grave stato di ansia o di paura;

  • Quando, in alternativa, insorge un timore fondato per la propria incolumità o per quella di un familiare o altra persona cui la vittima sia legata dal punto di vista affettivo;

  • Quando, a causa delle condotte persecutorie, la vittima sia costretta a modificare le proprie abitudini di vita.

L’apprezzamento di queste conseguenze di ordine psicologico avviene, normalmente, durante il processo ai danni dello stalker: in quel momento dovrà essere dimostrato, attraverso apposite consulenze psicologiche e cliniche, oltre che alla testimonianza di terzi, che le condotte persecutorie siano state idonee a provocare un disturbo effettivo nella tranquillità di vita della vittima o che, viceversa, possa ritenersi legittimo il timore di avere a subire delle conseguenze più gravi da parte del persecutore. Si tratta, a ben vedere, di una dimostrazione non sempre agevole: infatti, molto spesso questo tipo di conclusioni vengono confutate con perizie contrarie, idonee a dimostrare o che non sussistono prove dello stato d’ansia o che quest’ultimo non ha raggiunto soglie di apprezzabilità tali da integrare la fattispecie di stalking.

E’ questo il motivo per cui diventa fondamentale conoscere nel dettaglio le possibili conseguenze psicologiche dello stalking: infatti, grazie all’analisi terapeutica e al prezioso ausilio degli esperti è possibile riuscire a dimostrare in giudizio che almeno una delle tre ipotesi richieste dalla legge si sia verificata. Uscendo dal campo propriamente legale, invece, cogliere tutti i possibili disagi che derivano dallo stalking è il primo passo da intraprendere quando si avviano le apposite terapie cliniche, capaci di poter alleviare la situazione di stress emotivo conseguente alle condotte persecutorie e di far tornare la propria vita alla normalità.

Stalking: le conseguenze psicologiche. Vista la capacità delle condotte persecutorie alla base dello stalking di alterare significativamente il benessere psicologico delle vittime, è evidente che le conseguenze psicologiche del delitto possano essere molto diverse: molto dipende dal grado di intensità e gravità degli atti persecutori adoperati. Altro elemento che può incidere pesantemente sulla intensità dei disagi emotivi patiti dalle vittime è quello legato alla persona del persecutore, dal momento che il tipo di rapporto tra quest’ultimo e la vittima è in grado di incidere sul maggiore o minore grado di malessere subito: non a caso, lo stalking prodotto da un ex partner (compagno, marito, fidanzato, e così via) è normalmente molto più sconvolgente per la vittima di quello subito da parte di un mero conoscente o addirittura di uno sconosciuto, vista la presenza di un legame intimo e affettivo condiviso in passato o tuttora in essere.

Innanzitutto, subire uno stalking è fonte di un elevato livello di stress: la continuità e frequenza degli atti persecutori genera uno stato di ansia e paure costante, capace di determinare una condizione di ipervigilanza, a sua volta responsabile di crolli di autostima, perdita di fiducia nelle relazioni e compromissione della vita sociale dell’individuo. Il sentimento più attestato nelle vittime di stalking è quello di abbandono, oppure la sensazione di non riuscire più a controllare adeguatamente la propria vita. D’altra parte, questa conseguenza scatena delle reazioni difensive da parte della persona offesa, che possono anche peggiorare il quadro psicologico complessivo: non è infrequente, infatti, che la vittima di stalking si adatti, letteralmente, alla condizione di continua minaccia, andando a ridurre, anche inconsciamente, tutte le possibili occasioni di vulnerabilità.

Se l’ex marito si apposta davanti all’ingresso dell’ufficio, si arriva ad abbandonare il posto di lavoro; se uno sconosciuto importuna una persona in un luogo di ritrovo abitualmente frequentato, si smette di recarvisi. Nei casi più gravi si riscontra una pesante riduzione della vita sociale, con conseguente crollo del benessere psicofisico; in ultima analisi, le vittime di stalking sono costrette a cambiare abitazione, oppure a modificare radicalmente le proprie abitudini quotidiane.

Un altro degli aspetti che accompagna solitamente le condotte persecutorie è il coinvolgimento di altre persone: familiari, amici, conoscenti, nuovi partner e così via vengono a loro volta sottoposti ad un clima di tensione che, se da un lato induce il timore per l’incolumità delle persone care, dall’altro contribuisce ad aumentare il senso di colpa della vittima, che si attribuisce la responsabilità di quanto sta accadendo.

Con questo quadro, le conseguenze psicologiche dello stalking più frequenti comprendono la sindrome post-traumatica da stress, l’ansia, difficoltà a dormire, riduzione dei rapporti sociali, ipervigilanza e depressione [Molti studi hanno dimostrato che le vittime di stalking riportano gravi ripercussioni psicologiche, lavorative e relazionali. Ad esempio, una ricerca di Pathè e Mullen del 1997 ha evidenziato che nel 94% dei casi si riferiscono modifiche allo stile di vita quotidiano, mentre supera il 70% del campione quello che riferisce di aver subito una pesante diminuzione delle attività sociali. Allo stesso modo, sono elevati i disturbi cronici del sonno, i disturbi alimentari, l’incremento nell’uso di alcool e sigarette. Secondo quanto confermato da uno studio Olandese (Kamphuis e altri, 2001-2003), si tratta dei classici disturbi che si riscontrano nelle vittime di traumi come disastri aerei, rapine, incidenti automobilistici e altri casi di disturbo post traumatico da stress].

L’approccio terapeutico per le vittime di stalking. La gravità e multiformità dei sintomi connessi alle conseguenze psicologiche dello stalking ha da tempo condotto la comunità scientifica a introdurre degli standard terapeutici volti a fornire sostegno alle vittime, in modo da garantire dei margini di miglioramento e di supporto rispetto alla grave condizione di alterazione psicofisica subita.

La fase terapeutica comporta l’avvio di un percorso psicologico, teso ad analizzare nel complesso la condizione di minaccia e di persecuzione subite, ma soprattutto ad attuare le più utili strategie per fronteggiarle: in questo modo, si invogliano le vittime a cercare aiuto, anche rivolgendosi alle forze dell’ordine, attuando una sorta di riscatto rispetto alla sensazione di impotenza vissuta. Questo aspetto non riguarda unicamente l’analisi psicologica individuale, ma può comportare anche l’inserimento all’interno di una rete sociale, come un’associazione o una comunità di vittime di stalking, in grado di aumentare il senso di protezione della vittima e ridurre la condizione di ipervigilanza e abbandono in cui versa.

Esistono anche delle strategie pratiche anti-molestia, che vanno dall’analisi sulle possibili reazioni dello stalker all’adozione di comportamenti in grado di rendere più semplice la gestione della propria vita: oltre al sostegno sociale e legale, infatti, si invogliano le vittime ad interrompere i contatti con lo stalker, a traslocare o cambiare lavoro o, addirittura, a prendere lezioni di auto-difesa, in modo da ristabilire la fiducia personale e ridurre il senso di impotenza.

www.laleggepertutti.it/222764_stalking-conseguenze-psicologiche

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