NewsUCIPEM n. 708 – 1 luglio 2018

NewsUCIPEM n. 708 – 1 luglio 2018

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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01 ABORTO VOLONTARIO La vera possibilità di scelta.

02 ADOZIONE Anche per i single?

03 AFFIDAMENTO FIGLI Figli affidati solo alla madre se il padre è inaffidabile.

04 CONDIVISO Bimbi contesi, 10mila i genitori «espropriati».

05 ASSEGNO DI MANTENIMENTONon provata la nuova convivenza stabile e continuativa.

05 CHIESA CATTOLICA Profezie di coniugi e resistenze di celibi: un cambio di paradigma.

07 Donne ed uomini sposati possono essere ordinati preti.

07 CINQUE PER MILLE Rendiconto.

08 CONSULENTI COPPIA E FAMIGLIA Decalogo dell’Amore coniugale, secondo mons. Bruno Forte.

09 Impariamo ad “arrabbiarci meglio”.

10 DALLA NAVATA 13° Domenica del Tempo ordinario – Anno B – 1 luglio 2018.

10 Commento di E. Bianchi.

12 DIRITTO DI FAMIGLIA Separazione e divorzio: ultime novità,

15 FAMIGLIA Famiglia anagrafica, famiglia fiscale e nucleo familiare: differenze

16 FORUM ASS.ni FAMILIARI Tra Boeri e Governoemerge che si deve lavorare per unpattoXnatalità.

16 GENITORI Genitori che litigano: il figlio minore va tolto?

19 OMOFILIA Matrimonio tra persone dello stesso sesso.

19 OMOGENITORIALITA Diritti di ogni figlio. Nascere orfani?

20 PARLAMENTO Temi sensibili: nasce «Vera Lex», osservatorio trasversale.

21 TRANSGENDER Che significa transgender.

22 UNIONI CIVILI E CONVIVENZE Differenze.

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ABORTO VOLONTARIO

La vera possibilità di scelta

Esiste nella realtà quotidiana una associazione la cui attività tiene insieme i sostenitori pro-life con quelli pro-choice (autonoma scelta): sono i Cav, cioè quei Centri di aiuto alla vita che rendono concreta, per le donne incinte in condizioni difficili e complicate, la possibilità di scegliere che fare. La legge 194\1978 ha attivato infatti soltanto la parte relativa alla possibilità di abortire: per chi è in dubbio è concesso — e non sempre avviene — un frettoloso colloquio con uno psicologo.

La costellazione dei Cav — ora sono 349 in tutto il paese, e salvano dall’aborto una media di 7.000 bambini l’anno — si propone invece di aiutare queste donne da ogni punto di vista, a partire dalle condizioni di vita e di lavoro fino ai disagi e alle paure psicologiche. Non si tratta di crociati contrari all’aborto, ma di persone normali, capaci di buon senso e generose. Le donne che vorrebbero tenersi il figlio ma non possono sono così aiutate a risolvere gran parte dei problemi che questa situazione comporta, e sono poi seguite negli anni successivi. Anche per periodi lunghi.

Già nel 2002 questa esperienza era stata raccontata in un libro — con prefazione di Claudio Magris — dove erano raccolte le storie di maternità difficile che si erano risolte grazie ai Cav, e ora il curatore Gianni Mussini, che studia e insegna letteratura italiana, ne ha pubblicato una versione più ricca (Donne in cerca di guai. Avventure di maternità, Novara, Interlinea, 2018, pagine 302, euro 12) che contiene articoli e interviste uscite nel corso di un quindicennio, tutte centrate sul tema dell’aiuto alla maternità.

Articoli e interviste scritti anche da persone che non sono in teoria contrarie all’aborto, ma che comunque preferiscono la vita e apprezzano il lavoro di questi centri. Donne che ne hanno fatto esperienza, e che poi hanno saputo scegliere la maternità, come Ornella Vanoni, uomini che la madre non ha voluto abortire come Andrea Bocelli, il tenore cieco.

Fra queste vicende recenti o passate, ne spicca una di straordinaria importanza: l’aborto drammatico e sofferto, sempre rimpianto, di Dorothy Day, recentemente dichiarata venerabile (e speriamo presto beata). Una santa che ha sofferto e rimpianto il suo aborto giovanile costituirebbe per tutte le donne un esempio straordinario della misericordia della Chiesa, della capacità di ritornare alle fonti evangeliche del perdono. E nessuno più dei volontari dei Cav, che salvano tante vite, sa quanto sarebbe importante e significativo, quanto questa attenzione alle angosce delle donne gravide aiuterebbe a far nascere altri esseri umani.

Lucetta Scaraffia Osservatore romano 26 giugno 2018

www.osservatoreromano.va/it/news/la-vera-possibilita-di-scelta

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ADOZIONE

Anche per i single?

Un botta e risposta ‘virtuale’ e dai contorni particolari quello tra la segnalazione del blog di Concita Di Gregorio su Repubblica e l’editoriale di Mariolina Ceriotti Migliarese su Avvenire. Perché un conto è crescere senza una figura genitoriale a causa della sua prematura scomparsa e un altro è quello di progettare fin dal principio tra adulti di creare un ‘sistema’ che produca figli orfani

Il ‘no’ di Ai.Bi. a far crescere un bimbo abbandonato orfano di un genitore. Un forte no all’eventuale scelta ‘di Stato’ di far crescere dei bambini abbandonati ‘orfani’, all’origine, affidandoli con adozioni a genitori-single: è quanto emerge, in sintesi, dal confronto tra il punto di vista egoistico di un medico che ha scritto una lettera a Concita Di Gregorio per la sua rubrica su Repubblica e quello dell’editoriale di Mariolina Ceriotti Migliarese, pubblicato qualche giorno fa su Avvenire.

“Certamente non sono rari nella storia umana i casi di bambini cresciuti solo dalle donne”, puntualizza Migliarese. “Tante donne coraggiose si sono rimboccate le maniche, si sono aiutate tra loro, hanno amato, accudito e fatto crescere figli che l’assenza del padre non ha necessariamente reso patologici o incapaci di vivere”, specifica ancora l’editorialista di Avvenire.

Sembra proprio una risposta indiretta a quanto aveva scritto una donna-medico di 37 anni per la rubrica ‘Invece Concita’: “Nell’ospedale dove lavoro, è nato un bambino meraviglioso, che la mamma ha abbandonato alla nascita. Il piccolo veniva accudito ogni giorno dalle infermiere e dalle ausiliarie del nido; io nelle pause di lavoro, lo prendevo in braccio, lo facevo addormentare e quando potevo gli davo il biberon. Avevo comprato per lui le tutine, i completini in caldo cotone, i calzini, il carillon, la copertina. Siccome mi ero molto legata a lui, avevo deciso di chiedere il suo affidamento al Tribunale dei Minori. Purtroppo, però, partivo enormemente svantaggiata perché non facevo parte dell’elenco degli affidatari e, poi, perché ero, e tuttora sono, single“, sottolinea.

Da qui, la critica perché “in Italia non esiste una legge che consente ai single di adottare bambini, (se non affidi speciali) e io non lo ritengo giusto, perché sono sicura di poter dare a un bambino quello di cui una mamma biologica lo ha privato”. Ma il bimbo non è rimasto solo: è stato dato a una coppia senza figli in attesa da tempo, con conseguente “dolore immenso” della signora-medico. Già. Perché innanzitutto ci sono delle liste di attesa nazionali che non possono comunque, in nessun modo, essere bypassate da un’ondata emotiva di una dottoressa, per il sol fatto che opera nell’ospedale in cui la creatura è stata abbandonata. E poi, anziché ragionare dal punto di vista del bisogno dell’adulto, cosa che di per sé già induce al sospetto circa quanto potrà dare al bimbo, forse la dottoressa e chi con lei pubblica la sua missiva dovrebbe iniziare finalmente a mettersi nei panni del bambino: fragile, indifeso, con il bisogno – lui sì che lo sa – di un padre e di una madre.

Perché, come spiega molto bene l’editoriale di Migliarese, “che differenza c’è, dunque, tra l’essere cresciuti da due donne perché il padre è scomparso, ed essere cresciuti da due donne che hanno scelto di mettere al mondo un figlio senza il padre? Malgrado le apparenze, la differenza c’è ed è molto importante: solo nel secondo caso, infatti, gli adulti decidono consapevolmente che il bambino nasca orfano di padre”. Con la specificazione che “orfano è una parola che significa ‘privo di un genitore’ e genitore significa ‘colui che ha generato’”.

E poiché “il padre non è più importante della madre, e nemmeno la madre lo è più del padre”, “è necessario che entrambi possano essere presenti, almeno nel nostro immaginario”. Ecco perché alla sollecitazione al Parlamento della dottoressa, Migliarese risponde che “è dunque di estrema urgenza avviare una riflessione, per evitare che i dati di fatto prendano rapidamente il sopravvento, portando a ‘normalizzare’ ciò che non può essere normalizzato”.

News Ai. Bi. 25 giugno 2018

www.aibi.it/ita/adozioni-ai-single-si-o-no-al-di-sopra-di-tutto-i-diritti-inviolabili-del-minore-abbandonato

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AFFIDAMENTO DEI FIGLI

Figli affidati solo alla madre se il padre è inaffidabile

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 16738, 26 giugno 2018.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_30986_1.pdf

Deve ritenersi legittimo l’affido esclusivo della figlia minore alla madre in attesa che il padre, inaffidabile e disinteressato, recuperi la funzione genitoriale, senza dunque che sia esclusa la possibilità di un futuro ripristino dell’affidamento condiviso.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione, con cui i giudici si sono pronunciati sul ricorso di un padre separato.

In prime cure, i giudici avevano affidato la figlia minore in via esclusiva alla madre e, in appello, il padre aveva contestato tale decisione chiedendo disporsi l’affidamento condiviso della figlia a entrambi in genitori.

La Corte territoriale, dopo una verifica effettuata in concerto con i servizi sociali, decideva di revocare la sospensione delle facoltà di visita del padre e incaricava, a limitazione della responsabilità genitoriale di quest’ultimo, i servizi socio-assistenziali educativi di vigilare sulla situazione della figlia e di predisporre un progetto di ripresa delle relazioni con il genitore.

In Cassazione, l’uomo si duole tra l’altro dell’esclusione dell’affido condiviso, nonché della grave limitazione del suo diritto a frequentare la figlia, ritenendo all’uopo mancante qualsiasi elemento relativo alla sua incapacità genitoriale.

Affidamento condiviso derogabile se pregiudizievole per il minore, Respingendo il ricorso, gli Ermellini rammentano come, in tema di affidamento dei figli minori, viene operata dal giudice una valutazione prognostica nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione.

Tale giudizio va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità a un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore (cfr. Cass, sent. n. 18817/2015).

La regola dell’affidamento condiviso dei genitori, rammenta la Cassazione, è derogabile solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore, con la conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sull’inidoneità educativa ovvero sulla manifesta carenza dell’altro genitore.

Nel caso in esame, la Corte territoriale ha valutato tutta una serie di elementi per decidere sull’affidamento della minore e ha riscontrato un comportamento gravemente dismissivo della responsabilità genitoriale da parte del padre.

Questi non solo non aveva contribuito per anni al mantenimento della figlia, senza che risultassero condizioni economiche ostative, ma aveva cessato da anni di incontrare la bambina e aveva volutamente interrotto il percorso di avvicinamento alla piccola che era stato predisposto dai servizi territoriali su incarico del giudice istruttore di primo grado all’esito di ben due C.T.U. che avevano consigliato un percorso mediato e protetto, almeno nella prima fase, di incontri padre-figlia.

Pertanto, la Corte territoriale aveva ritenuto seriamente pregiudizievole per la minore l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale al padre anche per gli atti che avrebbero riguardato la vita quotidiana della figlia. L’incapacità genitoriale dell’uomo era comprovata anche dal suo totale disinteresse verso i primi due figli avuti dalla precedente moglie e con i quali l’uomo aveva interrotto da più di 10 anni i rapporti.

Nonostante la rilevata incapacità e il rifiuto del ricorrente a recuperare il rapporto con la figlia, la Corte d’Appello ha revocato la sospensione della facoltà di visita stabilendo una ripresa dei rapporti che avrebbe potuto attuarsi solo su richiesta del padre e previa valutazione degli operatori specializzati.

In sostanza, i giudici hanno lasciato aperto uno spazio per la ripresa dei rapporti, nella prospettiva di un auspicabile recupero della funzione genitoriale ovvero di una modifica degli atteggiamenti dell’uomo, senza escludere la possibilità di un futuro ripristino dell’affidamento condiviso.

Appare quindi evidente, conclude la Cassazione, come non possa muoversi alcuna censura alla decisione impugnata.

Lucia Izzo news Studio Cataldi 28 giugno 2018

www.studiocataldi.it/articoli/30986-figli-affidati-solo-alla-madre-se-il-padre-e-inaffidabile.asp

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AFFIDO CONDIVISO

Bimbi contesi, 10mila i genitori «espropriati»

«Ho smesso di vivere 468 giorni fa. Era il 10 marzo dell’anno scorso quando il mio ex marito si è presentato con i carabinieri all’asilo e ha portato via il mio bambino di cinque anni. Da allora non lo vedo più. Noi abitiamo al Sud. Loro in una città della Toscana». Lo racconta tra le lacrime una giovane madre siciliana che chiameremo Cristina, al centro di una vicenda giudiziaria quasi incredibile. «Ora la mia vita ha senso solo per riportare a casa mio figlio, per tornare a riabbracciarlo e per spiegargli che tutte le cose bruttissime che gli hanno detto in questi mesi a proposito della mamma non sono vere. Ma ho tanta paura, prego e piango senza sosta pensando al mio bambino costretto a stare con un uomo che conosce solo superficialmente e con una donna, la nuova compagna di lui, che gli risulta del tutto estranea». Mamme e padri separati che, per decisione unilaterale dell’ex, non possono più vedere i propri figli. Casi tutt’altro che rari purtroppo.

Aveva fatto scalpore nell’ottobre del 2012 il caso di Cittadella, in provincia di Padova. Le immagini di quel bambino caricato a forza sull’auto della polizia avevano suscitato sgomento e indignazione. Ma nel frattempo i casi si sono moltiplicati, sono troppi, non fanno più notizia. Secondo le associazioni di separati sarebbero almeno diecimila in Italia i genitori “orfani” di figli. Minori trasferiti da una residenza all’altra per decisione di un giudice, spesso con modalità traumatiche come quelle di Cittadella. Madri e padri costretti inoltre a sopportare in tanti casi le conseguenze subdole ma deleterie di quella pratica definita alienazione genitoriale. Come impedirne la replica? Impossibile purtroppo. La legge 54 del 2006 sull’affido condiviso, ineccepibile sul piano dei principi, non assicura però l’applicazione concreta dei fondamenti che l’avevano ispirata, lasciando ampia discrezionalità ai giudici. Da almeno 5-6 anni si parla della necessità di riformare la norma. Tanti progetti, nulla di concreto. E per quanto riguarda l’alienazione parentale la situazione è ancora più fluida, visto che gli specialisti sono tutt’altro che concordi nel definirne natura e conseguenze.

Nella storia di Cristina c’è tutto questo e anche di più. Un figlio sottratto con la forza, per quanto con il “timbro” del tribunale. L’alienazione parentale. E poi anche lo stalking, denunciato e riconosciuto da un tribunale che però, per un altro giudice finisce per non aver alcun significato nel momento in cui si va a discutere la collocazione del figlio. Cortocircuiti di una giustizia minorile che, se risulta attenta ed efficace in alcune aree del Paese, appare invece gravemente carente in altre. «Ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito nel giugno 2010. Ci siamo sposati nel gennaio 2011. Ma il matrimonio è apparso subito in bilico. Dopo poco più di sei mesi ci siamo separati», riprende Cristina. Una decisione assunta in modo superficiale, forse più per motivi legati a un’opportunità di lavoro che non per convinzione autentica. Considerazioni messe nero su bianco di fronte al giudice del Tribunale ecclesiastico di Firenze che nel 2014, riconoscendo validi i motivi della richiesta, emette sentenza di nullità. Ma intanto, nel gennaio 2012, nasce Gabriele e, subito dopo, comincia lo stalking. Il motivo è evidente.

Nel processo di separazione i genitori hanno deciso per l’affido congiunto con la collocazione presso la madre. Ma, forse anche per le insistenze della nuova partner, il padre non ci sta. Vuole il bambino con sé. E cerca di ottenerlo con ogni mezzo: centinaia e centinaia di messaggi minacciosi, telefonate, intimidazioni. Fino a che Cristina, impaurita e sgomenta, denuncia l’ex coniuge. Dopo oltre due anni di indagini, l’uomo viene rinviato a giudizio dalla procura di una città siciliana che riconosce il contenuto «intimidatorio, offensivo e denigratorio» – come si legge negli atti – di quelle reiterate molestie. Nel frattempo però un altro tribunale segue percorsi diversi e apparentemente contraddittori. Nonostante l’esistenza di perizie da parte dei servizi sociali che attestano come Cristina sia una madre attenta e premurosa, il giudice di un tribunale toscano – dove l’ex marito risiede – decide che, fermo restando l’affido congiunto, il piccolo debba però cambiare residenza. Non più presso la madre ma presso il padre. Ma come? – si affannano a sottolineare gli avvocati di Cristina – l’uomo è stato rinviato a giudizio per stalking prolungato e pesante nei confronti della madre del piccolo.

Se il bambino andrà con lui, l’evidente conflittualità impedirà alla donna di vedere ancora suo figlio. Ma l’iter non si ferma. Viene emanata un’ordinanza e nel marzo 2017 l’uomo arriva in Sicilia, entra all’asilo e, scortato dalle forze dell’ordine, preleva il bambino. Il percorso giudiziario della vicenda sarà ancora lungo – per questo motivo abbiamo preferito omettere luoghi, nomi e particolari – ma al di là dell’esito è evidente come la vittima di questo groviglio di relazioni spezzate e di leggi male applicate, sia facilmente identificabile. È un bambino che oggi ha sei anni a cui il conflitto tra i genitori ha già causato pesanti disturbi emotivi. Tanto che per gli esperti dei servizi sociali non è abbastanza maturo per affrontare da settembre l’ingresso nella scuola elementare. Dovrà rimanere un altro anno alla materna. E poi cos’altro dovrà sopportare? La stessa domanda vale per le migliaia e migliaia di bambini come lui, al centro di dispute giudiziarie, e in attesa di vedere una legge che sappia tutelare il loro diritto a una crescita serena e senza traumi.

Luciano Moia Avvenire 30 giugno 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/bimbi-contesi-10mila-i-genitori-orfani

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Non provata la nuova convivenza stabile e continuativa dopo la separazione

Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 16982, 27 giugno 2018.

Prima di revocare l’assegno di mantenimento dopo la separazione è necessario valutare gli effetti economici concreti che la nuova convivenza determina nel coniuge che l’ha instaurata. Sentenza

www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=15905#.Wzh_wbh9hoA

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CHIESA CATTOLICA

Profezie di coniugi e resistenze di celibi: un cambio di paradigma in atto

Proseguendo una riflessione più ampia, sollecitata dalle recenti prese di posizione in materia di “intercomunione”, ritengo opportuno sviluppare in modo più complessivo le questioni che riguardano la comunione ecclesiale e la comunione sacramentale in relazione ad identità cristiane appartenenti a diverse confessioni. Lo sviluppo della dottrina implica una “cambio di paradigma”, per usare una delle espressioni più suggestive e coraggiose della Costituzione Apostolica “Veritatis Gaudium”. La teologia accademica, proprio in virtù di questo compito di “rivoluzione culturale” fissato dalla citata Costituzione Apostolica, deve coraggiosamente aprire nuove strade, per consentire ai pastori di riflettere intorno alla tradizione sulla base di categorie e di nozioni davvero di ampio respiro, senza restare costretti in concetti troppo angusti, e pensati in orizzonti ristretti, superati e chiusi nel passato. Vorrei pertanto riprendere sommariamente quanto presentato nel mio post precedente www.cittadellaeditrice.com/munera/la-comunione-del-non-cattolico-dal-pericolo-di-morte-alla-comunita-di-vita-e-di-amore

e sviluppare poi, in una serie di punti, alcune linee di riflessione su di un piano nello stesso tempo più antico e più nuovo.

1. Una impostazione inadeguata della questione. Come appare evidente, la esigenza di collegare le questioni della “condivisione della mensa eucaristica” con la “condizione matrimoniale dei soggetti” appare una strada feconda e promettente, ma solo purché venga affrontata con gli strumenti realmente più adeguati. Qui, come è evidente, costatiamo un primo punto di debolezza del dibattito in corso: il riferimento dal can. 844, 3-4, appare particolarmente fragile e determina una comprensione inevitabilmente marginale ed eccezionale della esperienza di comunione. Va detto, infatti, che il can. 844 pensa la “possibile comunione” come esperienza di singoli individui (non di coniugi), in stato di necessità (e non in forma stabile di vita), e disposti a far propria la “fede cattolica” (e non a restare nella loro differenza confessionale). Queste tre determinazioni, di fatto, appartengono ad un altro orizzonte mondano ed ecclesiale, e comunque si riferiscono a circostanze assai diverse. Sperare di costringere la realtà coniugale dentro queste categorie è una pretesa azzardata, tipico frutto di un approccio molto clericale. A me pare, infatti, che la proposta avanzata dalla maggioranza dei Vescovi della Conferenza Episcopale Tedesca, certamente dettata da ragioni pastorali serie ed urgenti, sia stata argomentata e motivata con ragioni troppo marginali, e all’interno di un quadro dottrinale e disciplinare che risulta sostanzialmente inadeguato. Il fondamento della nuova possibilità non può stare nel canone 844, ma solo nell’approfondimento che del matrimonio e della eucaristia sono stati fatti negli ultimi decenni.

2. Matrimonio, convivenza e comunione originaria. Un grande aiuto, per una impostazione convincente della questione della “intercomunione”, dovrebbe essere riconosciuto nella condizione di “coniugi” dei soggetti implicati nella nuova possibilità. La loro natura di “sposi nel Signore”, sia pure con un profilo diverso dal punto di vista sacramentale, costituisce una condizione privilegiata nel cammino ecumenico. I Vescovi implicati nella discussione potrebbero facilmente riconoscere che la Chiesa, da molti secoli, ha ripetuto una verità che oggi stentiamo a riconoscere: ossia che dove un uomo e una donna, in una comunità di vita e di amore, iniziano ad esistere uno per l’altro, a generare, a comunicare, a gioire e a sopportare, lì si realizza un mistero di grazia che costituisce “il segno più limpido” della alleanza tra Cristo e la Chiesa. La teologia medievale ha saputo riconoscere che il matrimonio è l’unico dei sacramenti ad esistere, in origine, prima della caduta nel peccato. Esso, a differenza degli altri sacramenti, compresa l’eucaristia, dice una comunione di grazia che sta prima di ogni caduta. S. Tommaso ha detto che “ratione significationis” è il più importante dei sacramenti. Questa antica verità ha portata radicale: si colloca alla base della esperienza e la Chiesa deve collocarla nel suo luogo proprio, prima della legge ecclesiale, e anche prima della legge civile. Se il “matrimonio naturale”, in altre parole se la “convivenza” porta in sé questo mistero, è evidente che quando un cattolico e una protestante vivono insieme, insieme generano, e “non sanno più dove comincia uno e dove finisce l’altro”, lì la Chiesa deve mettersi in ascolto: sono loro i “magistri” e gli altri diventano “ministri”. Anche se sono vescovi.

Il dibattito dell’ultimo mese sembra aver dimenticato totalmente questo lato tanto promettente. Ha preferito considerare i singoli coniugi astrattamente rispetto al loro vincolo, assumendoli come individui che rispondono alle regole dottrinali di apparati ecclesiali, gestite da funzionari celibi che, pur con tutta la buona volontà, non riescono a cogliere le dinamiche di comunione implicate nella condizione coniugale. Questo mi pare un difetto che, sia pure in modo differenziato, accomuna molte delle parti in gioco. Su questo occorre un autentico lavoro di approfondimento, che richiede un coraggioso cambio di paradigma. Non si tratta di approfondire il can 844, ma di lasciarlo da parte, in modo risoluto e senza ulteriori esitazioni. Il canone, evidentemente, continua a essere uno strumento prezioso, ma per altre questioni e secondo altre priorità. Esso non riguarda direttamente le vicende dei coniugi cristiani di diverse confessioni, la cui vita chieda di esprimere la comunione coniugale nella comunione ecclesiale e sacramentale.

3. Eucaristia, penitenza e unzione: non per la morte, ma per la vita. Un secondo aspetto non riguarda il matrimonio, ma l’eucaristia e in generale i sacramenti considerati dalla normativa vigente. Anzitutto si deve dire che il codice, nel momento in cui propone “aperture” alla amministrazione della eucaristia (come anche della penitenza e della unzione) pensa la realtà sacramentale in una forma minimale, e ciò almeno in due sensi: pensa alla ricezione e non alla celebrazione, pensa in vista della morte del soggetto e non in vista della vita. Questi sono i limiti strutturali del punto di vista normativo, che rischiano di compromettere ogni valorizzazione dei sacramenti nella strutturazione della vita dei coniugi, nella loro dinamica di vita e di preghiera, di sacrificio e di lode. I sacramenti sono risorsa anche per il cammino ecumenico solo se vengono pensati secondo la logica del Concilio Vaticano II, non secondo le logiche minimaliste che spesso i giuristi e i burocrati impongono alla realtà ecclesiale. I coniugi cristiani, sia pure appartenenti a diverse confessioni, se entrano nella dinamica dei sacramenti cattolici, devono aver ben chiaro che cosa la tradizione cattolica propone loro in questi sacramenti: non semplicemente “fare la comunione”, non semplicemente “ricevere la assoluzione”, non semplicemente “morire con i conforti della fede”. Ciò che oggi dobbiamo considerare, nella esperienza dei matrimoni tra un coniuge cattolico e un coniuge cristiano non cattolico, è la possibilità di offrire la celebrazione eucaristica, il fare penitenza e la preghiera nella malattia grave anche alla esperienza del cristiano non cattolico. Questa ricchezza di parola e di preghiera, di “ritus et preces” deve essere considerata strutturale per la vita di comunione dei coniugi. Nella loro comunione originaria dovrebbe diventare ordinario potersi accogliere reciprocamente nelle diverse Chiese, valorizzando in modo differenziato il bisogno di comunione, di conversione e di consolazione che la loro vita materiale e spirituale esige.

4. Autorità episcopale e altre autorità. Per concludere, ciò che i Vescovi dovrebbero riconoscere, anche con una certa comprensibile fatica, è che nei matrimoni misti le diverse Chiese fanno una esperienza di déplacement [trasferimento] assai salutare. Si trovano scavalcate da una comunione reale, che alle loro categorie appare impossibile. Quando la realtà che hai davanti ti sembra impossibile, sempre è in questione una “teoria inadeguata”. Quando la realtà supera la possibilità, è in atto una profezia che, presto o tardi, deve essere onorata. Oggi il magistero episcopale deve riconoscere un magistero familiare. Non solo quando teorizza sulla famiglia, ma anche quando si occupa di ecumenismo. Deve riconoscere che, dove un cattolico e una protestante mettono su famiglia, lì si crea una esperienza ecumenica di dialogo, di confronto e di reciproco apprendimento che aiuta tutta la Chiesa a camminare. Ridurre tutta questa ricchezza alle categorie asettiche del Codice, alle sensibilità formalistiche di celibi senza famiglia, alle paure di pastori incapaci di esercitare quella “vigilanza” che spera sempre in un futuro davvero migliore, ciò sarebbe non solo una grave occasione perduta, ma forse anche potrebbe rappresentare – se così posso dire – una forma particolarmente insidiosa di peccato contro lo Spirito Santo.

Andrea Grillo blog: Come se non 25 giugno 2018

www.cittadellaeditrice.com/munera/profezie-di-coniugi-e-resistenze-di-celibi-un-cambio-di-paradigma-in-atto

 

Donne ed uomini sposati possono essere ordinati preti

Il Concilio Vaticano I nella Costituzione dogmatica Dei Filius (anno 1870), cap. III, definì che “si devono credere con fede divina e cattolica tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio, scritta o trasmessa per tradizione (in verbo Dei scripto vel tradito continentur) e che vengono proposte dalla Chiesa […] come divinamente ispirate e pertanto da credersi”. (Denzinger – Hünermann, n. 3011).

Ogni affermazione (o ogni pratica) che non rientri nel contenuto di quest’affermazione dogmatica può essere modificata dall’autorità suprema della Chiesa. Per quanto riguarda le verità o attività che si giustificano per mezzo del cosiddetto “Magistero Ordinario Universale” della Chiesa, bisogna stare attenti e non dare loro un valore assoluto ed intoccabile, poiché – come è ben noto e per fare un esempio – per secoli si è pensato che era verità di fede che il sole girasse intorno alla terra, fino al punto di condannare Galileo quando affermò il contrario. Ed oggi sappiamo che aveva ragione Galileo.

Un problema importante che oggi ha la Chiesa con riferimento alle “verità di fede”, sta nel fatto che possano esserci – ed a volte capita che ci sono – fatti “storici” o “sociologici” ai quali si dà un “valore dogmatico”. Proprio questo succede quando ci chiediamo se le donne o le persone sposate potranno essere preti.

Per quanto riguarda le donne, nell’Antichità non avevano gli stessi diritti degli uomini. Per questo non potevano essere testimoni ufficiali di nulla. Né prendere decisioni su altri. Né su loro stesse (J. Jeremias, Jerusalén en tiempos de Jesús, Ediciones Cristiandad, Madrid 1977, pp. 371-387 [trad. it., Gerusalemme al tempo di Gesù, EDB, Bologna 2000]). È logico che in tali condizioni non potevano rivestire incarichi di responsabilità in istituzioni pubbliche. Oggi la situazione sociale e giuridica della donna è completamente diversa. Ed in ogni caso quello che non si può fare è trasformare in rivelazione divina quello che non è altro che una situazione sociale già superata. La Chiesa non avrà credibilità finché continuerà a conservare la disuguaglianza della donna in dignità e diritti rispetto all’uomo.

Per quanto riguarda le persone sposate, il Vangelo non impone nessun obbligo rispetto al celibato. D’altra parte, l’apostolo Paolo dice che è un diritto degli apostoli vivere e viaggiare con una donna cristiana, come facevano Pietro ed i parenti del Signore (1 Cor 9,5). La continenza dei preti iniziò ad imporsi agli inizi del secolo IV nel concilio di Elvira (Granada). E la legge del celibato si impose progressivamente nel Medioevo. Fu stabilita come legge a partire dal II Concilio lateranense (nel 1138).

La legge del celibato non ha fondamento biblico. E si basa principalmente sulle idee e sul puritanismo che provenivano dallo stoicismo dei greci del sec. V a. C. (E. R. Dodds). Come giustifica la Chiesa la volontà di non cambiare questa legge, quando ogni giorno ci sono sempre meno preti e quindi molte parrocchie e comunità che non possono avere la loro vita cristiana organizzata e gestita come la stessa Chiesa impone obbligatoriamente? È urgente che la Chiesa studi questa questione a fondo e senza paura. Per cercare la soluzione alla quale i fedeli cristiani hanno diritto. Se non si farà in questo modo, sarà inevitabile verificare un fatto che esiste già: i gruppi di laici che clandestinamente celebrano l’Eucaristía senza prete.

In questa delicata questione è di somma importanza tenere presente che la dottrina della Sessione VII del Concilio di Trento sui sacramenti non contiene definizioni dogmatiche. Grazie agli Atti del Concilio si sa che i vescovi ed i teologi che presero le decisioni sui sacramenti, non arrivarono a mettersi d’accordo su un punto fondamentale: se condannavano come “eresie” o respingevano come “errori” le dottrine e le pratiche che avevano respinto in questa Sessione VII (Denz.-Hün., 1600-1630). Di conseguenza, la Chiesa può e deve sentirsi libera nel prendere, in tema di sacramenti e di liturgia, le decisioni che la stessa Chiesa consideri in questo momento come più urgenti e necessarie per il maggior bene spirituale e cristiano dei fedeli.

José María Castillowww.periodistadigital.com” 27 giugno 2018. Traduzione Lorenzo Tommaselli

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201806/180629castillo.pdf

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CINQUE PER MILLE

Rendiconto

La Finanziaria 2008 ha introdotto l’obbligo di predisporre un rendiconto della destinazione dei benefici ricevuti per tutte le associazioni che ricevono il Cinque per mille a partire dall’anno 2008 e seguenti.

Chi deve predisporre il rendiconto. Tutti i soggetti del volontariato beneficiari del cinque per mille sono tenuti alla rendicontazione entro un anno dalla percezione della somma e alla custodia di tale documentazione presso la sede legale per un periodo di dieci anni.

Sono tenuti alla trasmissione del rendiconto, della relazione illustrativa, degli allegati -nei casi previsti- indicati nelle Linee guida per la rendicontazione, nonché copia del documento d’identità del Legale rappresentante, i soggetti che per l’anno finanziario 2008 hanno percepito somme pari o superiori a 15mila euro e -a decorrere dall’anno finanziario 2009- somme pari o superiori a 20mila euro. La trasmissione deve avvenire entro 30 giorni dallo scadere del termine di redazione del rendiconto.

La trasmissione può avvenire tramite raccomandata con ricevuta di ritorno presso la sede del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali all’indirizzo:

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Direzione Generale del Terzo Settore e della responsabilità sociale delle imprese – Divisione I – Via Fornovo, 8 – 00192 Roma

L’eventuale documentazione contabile (ricevute, pezze giustificative, etc.) non deve essere allegata ma conservata presso la sede ed esibita qualora il Ministero ne faccia richiesta.

Il modello di rendiconto deve essere debitamente firmato dal legale rappresentante e accompagnato dalla copia della carta di identità.

Il fac-simile è composto di due parti:

  1. Nella prima tabella intitolata “Anagrafica” devono essere inserite le informazioni che permettono l’individuazione del soggetto beneficiario ed ulteriori dati che rendono l’ente raggiungibile da parte delle Amministrazioni competenti (numero di telefono, indirizzo di posta elettronica, numero di fax), nonché gli scopi sociali;

  2. Nella seconda parte, nella tabella intitolata “Rendiconto” vanno inseriti gli importi dei costi che sono stati coperti con la quota percepita, di cui va specificata la data di percezione del contributo; in questa griglia sono già riportate alcune voci di spesa a titolo esemplificativo.

Il modello di rendiconto, inoltre, può essere accompagnato da una relazione descrittiva per descrivere nel dettaglio gli interventi concretamente realizzati: tale relazione è indispensabile quando le Uscite della quota del Cinque per mille riguardano le Erogazioni ai sensi delle proprie finalità istituzionali (punto 4 del Modello) e Altre voci di spesa riconducibili allo scopo sociale (punto 5 del Modello).

E’ possibile per le associazioni beneficiarie del contributo accantonare in tutto o in parte l’importo percepito, fermo restando che l’Ente beneficiario deve specificare nella relazione allegata al rendiconto le finalità dell’accantonamento effettuato ed allegare il verbale dell’organo competente previsto dallo Statuto in cui viene deliberato l’accantonamento e specificata la destinazione delle somme. In caso di accantonamento va utilizzato il modello “Rendiconto per accantonamento“.

Note importanti. Si sottolinea che nelle linee guida ministeriali è previsto che i costi sostenuti con la quota del cinque per mille non possono derivare da obbligazioni che l’ente ha assunto prima della pubblicazione dell’elenco definitivo dei soggetti beneficiari da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Ciò significa pertanto che è possibile rendicontare spese sostenute solo a partire dalla data di pubblicazione dell’elenco definitivo per l’anno di competenza.

Inoltre il Ministero richiede che i documenti giustificativi vengano annullati con apposita dicitura attestante che la spesa è stata sostenuta con la quota del 5 per mille dell’Irpef e l’anno di riferimento del contributo cui è stata imputata la spesa e conservati per almeno 10 anni unitamente al rendiconto e relazione illustrativa. I giustificativi di spesa, salvo i casi espressamente previsti e comunque in copia, non devono essere inviati, ma conservati, in originale, presso la sede dell’Ente ed esibiti qualora il Ministero ne faccia richiesta.

Modulistica: Linee guida per la rendicontazione. https://csvpadova.org/5-per-mille-rendiconto

Fac-simile di modello di rendicontazione 5 per mille

https://csvpadova.org/wp-content/uploads/2010/12/Modello-rendiconto-5-per-mille.pdf

Fac-simile di modello di rendicontazione 5 per mille per accantonamento

https://csvpadova.org/wp-content/uploads/2010/12/Modello-di-rendiconto-per-accantonamento-5-per-mille.pdf

www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/Terzo-settore-e-responsabilita-sociale-imprese/focus-on/Cinque-per-mille/Pagine/La-rendicontazione-del-contributo.aspx

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CONSULENTI DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA

Decalogo dell’Amore coniugale e familiare, secondo mons. Bruno Forte

Per verificarsi sull’amore e viverne tutti i colori

Questo decalogo, che ho scritto anni fa insieme ad alcune coppie e che ha aiutato tante di esse a verificarsi sull’amore e a viverne i colori, meravigliosi e talvolta difficili, potrà servire anche a te/a voi due come semplice guida a fare un esame di coscienza, che spero sia opportuno e proficuo. Te/ve lo offro come un mio piccolo dono d’amore:

  1. Rispetta la persona dell’altro come mistero

  2. Sforzati di capire le ragioni dell’altro

  3. Prendi sempre l’iniziativa di perdonare e di donare

  4. Sii trasparente con l’altro e ringraziala/o della sua trasparenza con te

  5. Ascolta sempre l’altro, senza trovare alibi per chiuderti o evadere da lui/lei

  6. Rispetta i figli come persone libere

  7. Dà ai tuoi figli ragioni di vita e di speranza, insieme al tuo sposo/ alla tua sposa

  8. Lasciati mettere in discussione dalle attese dei figli e sappi discuterne con loro

  9. Chiedi ogni giorno a Dio un amore più grande

  10. Sforzati di essere per l’altro e per i figli dono e testimonianza di Lui

Il Signore porti a compimento l’opera bella che ha iniziato in te/in voi…

[Tratto da Bruno Forte, “I colori dell’amore. Il matrimonio e la bellezza di Dio” (Edizioni San Paolo)]

https://it.aleteia.org/2018/06/26/bruno-forte-decalogo-amore-coniugale-familiare/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it

 

Impariamo ad “arrabbiarci meglio”

Nel libro “Arrabbiarsi” di Valentina D’Urso (Il Mulino) viene analizzata sotto varie prospettive la rabbia, emozione da cui nessuno di noi può dirsi immune o vaccinato. Il testo divulgativo e perciò accessibile anche ai non addetti ai lavori, si apre con la citazione dei primi versi dell’Iliade, il poema epico per antonomasia:

“Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all’orco generose travolse alme d’eroi e di cani e di augelli orrido pasto lor salme abbandonò”.

La rabbia: conseguenza di una frustrazione. La guerra di Troia era scoppiata a causa della rabbia provata da Menelao per il rapimento della moglie Elena da parte del principe troiano Paride. Come ha intuito l’epica e ci insegna scientificamente la psicologia, la rabbia è quindi la conseguenza di una frustrazione, la perdita o l’impossibilità di beneficiare di qualcuno o qualcosa a cui si tiene.

I due volti della rabbia. La religione cristiana annovera l’ira fra i sette peccati capitali, rappresentandola iconograficamente come una donna dal viso deformato da una smorfia che si strappa la veste e mostra il petto nudo. Nella filosofia platonica “l’anima irascibile” veniva invece vista in termini positivi in quanto orientata a sdegnarsi per il male e per l’ingiustizia lottando per gli obiettivi della ragione. Questi due volti della rabbia contestualmente radicati nella nostra cultura si ritrovano anche nella percezione di ciascuno di noi, dove sono presenti sia il sentire che arrabbiarsi può essere opportuno e legittimo, sia la coscienza del suo essere errato e nocivo. La consapevolezza di questa duplicità, come cita l’autrice, era già ben presente in Aristotele che, oltre venti secoli fa, così si esprimeva nell’Etica Nicomachea: “Chiunque può arrabbiarsi – è facile, ma arrabbiarsi con la persona giusta, in giusto grado, nel modo giusto e per la giusta causa – questo non è da tutti, e non è facile”.

La paura e il fascino della rabbia. Per certi aspetti la rabbia ci fa paura, perché quando ci arrabbiamo proviamo un violento rimescolamento interno, la sensazione di essere completamente in balia di un turbine cieco e incontenibile, che potrebbe indurci a comportamenti violenti e imprevedibili. D’altra parte quando siamo in preda alla rabbia ci sentiamo pieni di energia e coraggio, sicuri di noi stessi e sul da farsi, una volta tanto finalmente protagonisti.

Il viso della rabbia”. Il cosiddetto “viso della rabbia”, cioè l’espressione del volto tipica di chi sta provando questa emozione, viene colto immediatamente da tutti, grandi e bambini in qualunque parte del mondo. La ragione di questa spiccata sensibilità sta nel fatto che la rabbia è un’emozione che conduce rapidamente e potentemente ad agire, per cui la persona verso cui è orientata o che assiste da vicino alla sua esternazione teme la concreta possibilità di essere vittima di comportamenti aggressivi o comunque pericolosi per la propria incolumità.

L’identikit di chi soffre a causa della rabbia. L’autrice schematicamente individua tre tipologie di soggetti che soffrono nel confrontarsi con questa emozione. Ci sono coloro che rifuggono dall’esprimere rabbia perché temono così di poter mettere in crisi le loro relazioni. Altri che cercano di non alterarsi, perché l’esperienza ha insegnato loro che quando si arrabbiano stanno fisicamente e psicologicamente male. Per ultima c’è la schiera di coloro che vorrebbero arrabbiarsi più efficacemente, cioè gestire meglio questa energia per raggiungere compiutamente i propri scopi.

Possiamo diventare immuni dalla rabbia? No, non è possibile in quanto è impensabile che tutto ci vada bene nella vita tanto da non essere mai frustrati nel percorso di raggiungimento o mantenimento dei nostri obiettivi, materiali o immateriali. Infatti non dobbiamo cadere nella trappola di credere che ci si arrabbi solo per cose tangibili: spesso ciò che viene messo in pericolo o in discussione è la nostra dignità, il nostro punto di vista, i nostri valori, le nostre idee.

La rabbia come risorsa. La rabbia non dobbiamo quindi considerarla “un difetto di fabbrica” da riparare o celare, ma chiederci come impiegarla in chiave di risorsa positiva.

Strategie per gestire positivamente la rabbia. L’autrice dedica l’ultimo capitolo alle tecniche per “arrabbiarsi meglio” e non lasciarsi sopraffare dalla collera, citando anche consigli di semplice buonsenso ma utili.

  1. “Canta che ti passa”, sottintendendo che la musica può essere in grado di indurre uno stato emotivo che neutralizza l’ira.

  2. Quando è possibile o appena lo è, allontanati fisicamente dalla persona e dal posto dove si è scatenata la tua rabbia.

  3. Appena puoi, dopo l’arrabbiatura, cerca di riprendere le tue normali attività mentali o manuali, in particolare quelle che ti costringono ad essere particolarmente concentrato.

  4. Gratificati! Cerca di fare quanto prima qualcosa che ti fa particolarmente piacere: leggere, cucinare, passeggiare, fare shopping, svolgere un’attività fisica.

  5. Parlane con qualcuno a cui vuoi bene e che conosci per essere equilibrato, con il senso dell’umorismo, in grado di farti vedere ciò che di eccessivo o ridicolo c’è nella tua arrabbiatura.

  6. Non arrabbiarti ulteriormente quando qualcuno ti dice “non ti arrabbiare!” E non ribattere: “perché mi vedi arrabbiato?”, oppure “non sono arrabbiato!”.

  7. Metti mano alla penna! Scrivi una o meglio più lettere a chi ti ha fatto arrabbiare per esprimere tutto il tuo risentimento e la tua ira, senza mai imbucarle però! Questo esercizio serve a farti distaccare progressivamente dalla fastidiosa sensazione che la rabbia ti provoca, ti aiuta a riprendere il controllo, e a farti vedere più realisticamente chi ti ha fatto il torto. Questo funziona anche quando il “colpevole” è un tipo tosto o indigesto, come il marito (infatti è quasi sempre colpa sua per noi donne!) o la moglie (quando mai!), o addirittura il capoufficio o la suocera (sempre!).

E ricorda: quando ti sale il sangue alla testa morditi la lingua senza farti troppo male e prendi carta e penna.

https://it.aleteia.org/2018/06/29/7-strategie-gestire-rabbia/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it

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DALLA NAVATA

13° Domenica del Tempo ordinario – Anno B – 1 luglio 2018

Sapienza 49, 13. Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. 14. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra.

Salmo 29, 02. Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato, non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.

2Corinzi 08, 13. Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. 14. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno

Marco 05, 43. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

 

Toccare ed essere toccati da Gesù. Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose

Che cos’è l’impurità? Quando una persona è impura, cioè indegna di stare con gli altri e con Dio? Quando una persona è “segnata” da una situazione malefica? E potremmo continuare a porre domande simili o parallele, perché da sempre questi interrogativi emergono nei nostri cuori nelle differenti situazioni della nostra vita. E le risposte che noi esseri umani abbiamo dato, e magari ancora diamo, non sempre riflettono la volontà del Creatore, i sentimenti di Dio. Purtroppo le vie religiose tracciate dall’umanità spesso riflettono non il pensiero di Dio, ma sono piuttosto il frutto di sentimenti umani per i quali si sono trovate giustificazioni fonte di alienazione o di separazione tra gli umani.

In questi percorsi, il sangue, segno della vita negli animali e negli umani, ha attirato fortemente l’attenzione di sé. Ognuno di noi è nato nel sangue che fluisce dall’utero della madre e ognuno di noi muore quando il suo sangue non scorre più. Ecco dunque, al riguardo, la Legge e le leggi: il sangue che esce da una donna nel mestruo o alla nascita di un figlio la rende impura, così come ognuno quando muore entra nella condizione di impurità, perché preda della corruzione del proprio corpo. Il sangue rende impuri, rende indegni, e questa per una donna è una schiavitù impostale dalla sua condizione secondo la Legge, dunque – dicono gli uomini religiosi – da Dio. La donna impura per il mestruo o per la gravidanza non toccherà cose sante, non entrerà nel tempio (nel Santo) e per purificarsi dovrà offrire un sacrificio; anche chi toccherà una donna impura sarà reso impuro (cf. Lv 12,1-8; 15,19-30), impuro come un lebbroso e chi lo tocca, impuro come un morto e chi lo tocca. Di qui ecco barriere, muri, separazioni innalzati tra persona e persona, ecco l’imposizione dell’esclusione e dell’emarginazione. Certo, “a fin di bene”, per evitare il contagio, per instaurare un regime di immunitas: ma al prezzo della creazione di uno steccato e dell’indegnità-impurità posta come sigillo su alcune persone! Anche le misure di precauzione finiscono per diventare una condanna…

Ma Gesù è venuto proprio per far cadere queste barriere: egli sapeva che non è possibile che il sangue di un animale offerto in sacrificio possa togliere il peccato e rendere puri, mentre il sangue di una donna versato per il naturale ciclo mestruale o il corpo di un morto di cui occorre avere cura possano generare impurità, indegnità di stare con gli altri e davanti a Dio. Per questo i vangeli mettono in evidenza che Gesù non solo curava e guariva i malati, gli impuri, come i lebbrosi o come le donne colpite da emorragia, ma li toccava e da essi si faceva toccare. Gesù abolisce ogni sorta di separazione voluta dalla logica sacrale, poiché egli non era un uomo sacrale come i sacerdoti, essendo un ebreo laico, non di stirpe sacerdotale, e poiché vedeva nelle leggi della sacralità una contraddizione alla carità, alla relazione così vitale per noi umani. Amare l’altro vale più dell’offerta a Dio di un sacrificio (cf. Mc 12,33; 1Sam 15,22), essere misericordiosi è vivere il precetto, il comandamento dato dal “Dio misericordioso (rachum) e compassionevole (channun)” (Es 34,6). In Gesù c’era la presenza di Dio, dunque lui era “il Santo di Dio” (Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), ma egli non temeva di contrarre l’impurità; al contrario, egli proclamava e mostrava che la santità di Dio santifica anziché rendere impuri, consuma e brucia il peccato e l’impurità, perché è una santità che è misericordia (cf. Os 11,9: “Io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”). In questa azione di Gesù, inoltre, è impossibile non vedere una liberazione della donna da schiavitù e alienazioni imposte dalla cultura dominante.

Per questo Gesù lasciava che i malati lo toccassero, avessero contatto con il suo corpo (cf. Mc 6,56; Mt 14,36), per questo egli toccava i malati: tocca il lebbroso per guarirlo (cf. Mc 1,41 e par.), tocca gli orecchi e la lingua del sordomuto per aprirli (cf. Mc 7,33), tocca gli occhi del cieco per ridargli la vista (cf. Mc 8,23.25), tocca i bambini e impone le mani su di loro (cf. Mc 10,13.16 e par.), tocca il morto per risuscitarlo (cf. Lc 7,14); e a sua volta si lascia toccare dai malati, da una prostituta, dai discepoli, dalle folle… Toccare, questa esperienza di comunicazione, di con-tatto, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), questo comunicare la propria alterità e sentire l’altrui alterità… Toccare è il senso fondamentale, il primo a manifestarsi in ciascuno di noi, ed è anche il senso che più ci coinvolge e ci fa sperimentare l’intimità dell’altro. Toccare è sempre vicinanza, reciprocità, relazione, è sempre un vibrare dell’intero corpo al contatto con il corpo dell’altro.

Subito dopo Gesù viene condotto nella casa del capo della sinagoga Giairo, dove giace la sua figlioletta di dodici anni appena morta. Portando con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni, appena entrato in casa sente strepito, lamenti e grida per quella morte; allora, cacciati tutti dalla stanza, in quel silenzio prende la mano della bambina e le dice in aramaico: “Talità kum”, “Ragazza, io ti dico: Alzati!”. Anche qui la santità di Gesù vince l’impurità del cadavere, vince la possibile corruzione e comunica alla bambina una forza che è resurrezione, possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere vita. Nella sua attenzione umanissima, poi, Gesù ordina che a quella bambina sia dato da mangiare, quasi che lei stessa abbia faticato per rispondere alla santità di Gesù, il quale le comunica quell’energia divina di cui è portatore.

Toccare l’altro è un movimento di compassione;

toccare l’altro è desiderare con lui;

toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano;

toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;

toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”;

toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è;

toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione.

Dalla contemplazione di questa pagina del vangelo ci viene rivelato che la nostra carne, il nostro corpo non era indegno di Dio: per questo il Figlio di Dio si fece carne (cf. Gv 1,14), non in modo apparente ma in modo reale e autentico. È la nostra carne che è diventata la carne di Dio, e Gesù il Figlio, l’ha assunta non come un peso da cui liberarsi tornando al Padre, ma come un mezzo per incontrare l’umanità, per essere nostro fratello in piena solidarietà, uguale a noi in tutto eccetto che nel peccato. È grazie a questa carne che Gesù ha potuto toccare ed essere toccato, vivere il sentimento della misericordia e della compassione e rivelarci la vicinanza e la tenerezza di Dio. Anche noi come suoi discepoli e sue discepole, anche la chiesa deve “osare la carne” e saper abbracciare, toccare, curare la “carne di Cristo” nei sofferenti, nei malati, nei peccatori, in tutti i corpi degli uomini e delle donne che, con grida forti o mute, invocano la salvezza delle loro vite.

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12429-toccati-gesu

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DIRITTO DI FAMIGLIA

Separazione e divorzio: ultime novità

Se c’è una materia che, per anni, è rimasta sempre uguale a sé stessa è il diritto di famiglia. Dalla riforma avvenuta nel 1975 [Legge n. 151/1975; Legge n. 39/1975], anticipata dall’introduzione nel 1970 del divorzio [Legge n. 151/1975; Legge n. 39/1975], poco è cambiato fino al 2012. Quasi quarant’anni di sostanziale staticità nella gestione dei conflitti tra coniugi. Fino al 10 maggio 2017 [Cass. Sent. n. 11504/2017 del 10.05.2017], quando la Cassazione ha stravolto le regole sulla determinazione e quantificazione dell’assegno divorzile (il mantenimento cioè che viene fissato con la sentenza di divorzio). Da quel giorno, quotidianamente la Cassazione sta tentando di chiarire meglio quali sono i nuovi principi a cui attenersi e, in definitiva, le ultime novità in materia di separazione e divorzio.

  1. Se l’ex va a vivere con un altro ha diritto al mantenimento. Con una recente pronuncia la Cassazione [Sent. n. 16982 del 27.06.2018] 17] ha detto che non ha diritto all’assegno di mantenimento il coniuge con il reddito più basso se decide di andare a vivere con un’altra persona e i due intraprendono una stabile convivenza. Ciò sempre che non riesca a dimostrare che il nuovo rapporto non influisce sulle sue condizioni economiche che devono essere equivalenti a quelle godute durante il matrimonio. L’instaurazione da parte del coniuge di una nuova famiglia, anche se di fatto (ossia non fondata sul matrimonio), fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno di mantenimento a carico dell’altro coniuge. Il relativo diritto rimane definitivamente escluso, essendo la formazione di una famiglia di fatto – tutelata ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione – come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole. Tuttavia il coniuge più debole che rivendica l’assegno deve dimostrare che quella convivenza non influisce in meglio sulle proprie condizioni economiche, restando i suoi redditi complessivamente “inadeguati” a fargli conservare tendenzialmente il tenore di vita coniugale. Tale prova può essere data dal medesimo coniuge con ogni mezzo anche in via presuntiva che possa fare ritenere – soprattutto con riferimento al tenore di vita e ai redditi della persona convivente, secondo il prudente apprezzamento del giudice – che dalla convivenza egli non tragga benefici economici idonei a giustificare il diniego, l’eliminazione o la riduzione dell’assegno.

  2. Assegno di divorzio misurato sulla base della durata del matrimonio. La durata delle nozze viene presa in considerazione come elemento per determinare se e quanto accordare come assegno divorzile, anche dopo la famosa sentenza Grilli. È quanto emerge da una ordinanza recente della Cassazione [n. 7342/18 del 23.03.2018]. La Suprema Corte “apre” alla durata del matrimonio come elemento che può essere tenuto in considerazione nell’ambito della valutazione sull’autosufficienza economica per stabilire se il coniuge richiedente ha diritto all’assegno divorzile o meno. Un matrimonio durato oltre 25 anni dà diritto all’assegno, sempre che il coniuge richiedente non abbia le capacità economiche per mantenersi da solo.

  3. Se la moglie non deposita in causa le dichiarazioni dei redditi degli ultimi anni. Nella causa di separazione e di divorzio il giudice ordina alle parti di produrre le dichiarazioni dei redditi degli ultimi due anni. Se la moglie che chiede il mantenimento nell’ambito del giudizio di divorzio non ottempera a tale obbligo, perde ogni diritto economico sull’ex marito anche se l’assegno le era stato riconosciuto con la sentenza di separazione. Lo dice il Tribunale di Genova [Sent. n. 834/2018]. L’impossibilità di valutare la reale situazione economica della richiedente esclude, infatti, a priori il riconoscimento dell’assegno divorzile, non sussistendo elementi per ritenere che la signora sia economicamente non autonoma. Come chiarito dalla Cassazione, l’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice verifica l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente o, comunque, all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, mentre nella seconda procede alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. Il giudizio sull’inadeguatezza o meno dei mezzi, peraltro, deve essere individuato con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica del richiedente. Ebbene, ha proseguito il collegio, nel caso in esame la signora non ha assolto all’onere che su di lei incombeva di provare l’inadeguatezza dei propri redditi a renderla economicamente autonoma. Ella infatti ha depositato solo vecchie dichiarazioni dei redditi ma non ha prodotto, benché invitata a farlo, quelle degli ultimi tre anni. In questo contesto, ha concluso il tribunale, l’impossibilità di valutare i redditi percepiti dal coniuge richiedente l’assegno divorzile negli ultimi tre anni preclude a priori il riconoscimento dell’assegno divorzile in suo favore, non sussistendo elementi per ritenere che la signora sia economicamente non autonoma.

  4. Breve storia del diritto di famiglia. Volendo ripercorrere una breve storia, ricordiamo solo che nel 2004 sono state approvate le norme in materia di procreazione assistita [L. n. 40/2004 ha concesso alle coppie di maggiorenni di sesso diverso di accedere alle tecniche di fecondazione, purché in età potenzialmente fertile, con esclusione della fecondazione eterodossa]; nel 2006 sono state adottate le norme sull’affidamento del figlio che hanno stabilito, come regola, l’affidamento condiviso (al posto di quello esclusivo) [L. n. 54/2006]. Nel 2012 è arrivata l’equiparazione dei figli naturali con quelli legittimi (ora chiamati rispettivamente «figli nati fuori il matrimonio» e «figli nati dentro il matrimonio») [L n. 2019/2012 e D.lgs. n. 54/2014], mentre nel 2014 è stata introdotta la possibilità di separarsi o di divorziare davanti al sindaco o con un accordo firmato dai rispettivi avvocati (negoziazione assistita) [DL n. 132/2014]. Infine, nel 2015, è stato approvato il cosiddetto divorzio breve che riduce a più di un terzo i tempi per passare dalla separazione al divorzio: se, in precedenza, erano necessari 3 anni, oggi il termine si riduce a 6 mesi (se la separazione è stata consensuale) e a 1 anno dalla prima udienza del tentativo di conciliazione (se la separazione è stata giudiziale) [Cass. ord. n. 25697/2017].

  5. La sentenza “Grilli” della Cassazione sull’assegno di divorzio. Se nulla è cambiato rispetto al passato per quanto riguarda l’assegno di mantenimento (quello cioè a seguito della separazione, il cui scopo resta ancora quello di garantire all’ex coniuge il medesimo tenore di vita che aveva durante la convivenza, con una sostanziale divisione dei redditi tra i due coniugi), dal 10 maggio del 2017 le cose cambiano radicalmente quando si divorzia. Col divorzio, infatti, cessa ogni legame tra moglie e marito e ciascuno dei due deve iniziare a badare a sé stesso. Questo significa che il coniuge con il reddito più elevato non è più tenuto a garantire all’ex – come invece è tutt’ora obbligatorio subito dopo la separazione – lo stesso tenore di vita che aveva durante il matrimonio, ma solo l’autosufficienza economica. Autosufficienza che consiste nel minimo per sopravvivere e sempre che lo stesso coniuge non sia in grado, per età e condizioni di salute, a procurarselo da solo. Scopo dell’assegno di divorzio – ed è qui la grande differenza con quello di mantenimento – è garantire all’ex moglie l’autosufficienza economica (ossia mantenersi da sola). Il che non significa necessariamente (come una volta) essere benestante qualora il marito lo sia; vuol dire solo «poter badare a se stessa». Ben si potrà quindi avere una situazione in cui, a fronte di un uomo con un reddito di 10mila euro al mese per attività imprenditoriale, la donna riceve un mantenimento di solo mille euro al mese. Dall’altro lato, se la donna ha già un proprio reddito minimo o altre forme di ricchezza (mobili o immobiliari) o dispone di aiuti da parte dell’ex famiglia, non ha diritto all’assegno di divorzio. Tanto per esemplificare, in una coppia dove l’uomo guadagna 5mila euro al mese e la moglie mille, se in passato alla donna sarebbe spettato un assegno di circa 1.500/2.000 euro mensili, oggi non le tocca più nulla. L’ex coniuge che rivendica il mantenimento non deve però solo dimostrare di avere un reddito insufficiente a vivere, ma anche di non essere nelle condizioni di procurarselo, avendo ad esempio superato l’età per reimmettersi sul mercato del lavoro o per non essere nelle condizioni fisiche di cercare un impiego. La conseguenza è che, allo stato attuale, possono ottenere l’assegno divorzile solo le donne che:

  1. sono state casalinghe per tutto l’arco del matrimonio e ormai hanno raggiunto i 50 anni, età “limite” – secondo la Cassazione – oltre la quale è difficile immettersi nel mercato del lavoro;

  2. per ragioni di salute non possono lavorare.

La Cassazione ha infatti escluso il mantenimento anche per la donna disoccupata, se giovane e con un bagaglio formativo tale da consentirle di cercare un posto. Non spetta quindi l’assegno di divorzio alla ex moglie che si rifiuta di cercare un lavoro. Il fatto di versare in stato di disoccupazione e in precarie condizioni economiche non è più una giustificante se le condizioni fisiche, mentali e la formazione della donna le consentono di cercare occupazioni. A complicare la vita alla donna si ci mette anche l’aspetto processuale, quello cosiddetto dell’onere della prova. È l’ex moglie, che rivendica l’assegno di divorzio, a dover dimostrare il mancato reperimento di un’entrata economica frutto della propria individuale attività lavorativa. In pratica, è lei che deve dar prova di una «disoccupazione incolpevole». Ed è incolpevole tutto ciò che non dipende dalla volontà del coniuge quando questi si è dato animo di cercare un lavoro e che le sue proposte non sono state accettate [Cass. ord. n. 25697/2017].

6. Nulla cambia durante la separazione. La Cassazione ha chiarito che il criterio di calcolo dell’assegno di mantenimento resta invariato per quanto riguarda la separazione. In questo caso l’ex coniuge più benestante deve garantire all’altro – sempre che non abbia subito l’addebito – lo stesso tenore di vita che aveva durante la vita coniugale. In questo modo si offre a quest’ultimo un ombrello di salvataggio per provvedere alle proprie esigenze nella immediatezza della mutata situazione familiare. In pratica, nel periodo intermedio che va tra la separazione e il divorzio, la Cassazione ha preferito lasciare le cose com’erano un tempo. Affinché il coniuge con un reddito più basso non si trovi, dalla sera alla mattina, senza possibilità di mantenersi e organizzare il proprio nuovo futuro, il coniuge col reddito più alto deve versargli un mantenimento tale da garantirgli lo stesso tenore di vita di cui godeva quando ancora conviveva col primo. Nel caso però di matrimonio lampo, durato pochi mesi, il giudice può escludere del tutto il mantenimento.

7. Nulla cambia per il mantenimento dei figli. La Cassazione ha chiarito che per i figli resta l’obbligo di versare il mantenimento garantendo loro lo stesso tenore di vita che avevano quando stavano con entrambi i genitori. Per loro quindi nulla cambia [Sent. n. 3922/2018].

8. La convivenza stabile con un’altra persona fa perdere il mantenimento. È ormai costante anche la giurisprudenza secondo cui perde il diritto all’assegno di mantenimento o a quello divorzile l’ex coniuge che va a vivere stabilmente con un’altra persona iniziando una vita di coppia basata sugli stessi principi del matrimonio (cosiddetta convivenza more uxorio, ossia la tradizionale coppia di fatto).

9. Quando una donna si può dire autosufficiente? Abbiamo detto che, dopo il divorzio, all’ex moglie non spetta più l’assegno di mantenimento se è autonoma e autosufficiente, a prescindere dal tenore di vita di cui ha goduto quando era ancora sposata. Il punto però è che ancora pochi tribunali hanno capito come capire se la moglie è autonoma e indipendente. Secondo il tribunale di Milano è autosufficiente la donna che riesce a procurarsi almeno mille euro al mese [ordinanza 22.05.2017]; tale è infatti la soglia di reddito sotto la quale spetta il gratuito patrocinio. La Cassazione ha però messo in guardia: nessun automatismo nella determinazione dell’indipendenza economica, bisogna valutare le situazioni concrete e reali [Sent. n. 3015/18 del 7.02.2018]. Tale parametro va valutato con la «necessaria elasticità e la considerazione dei bisogni del richiedente l’assegno, considerato come persona singola e non come ex coniuge, ma pur sempre inserita nel contesto sciale». Per determinare la soglia dell’indipendenza economica – scrivono ancora i giudici supremi – occorre aver riguardo alle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva e, dunque, né bloccata alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della normalità. È il giudice, secondo la propria coscienza, a dover interpretare questi parametri così generici. Insomma, chi si aspettava di leggere un importo preciso, come invece avevano fatto i giudici di Milano, è rimasto sicuramente deluso. Anzi, sembrerebbe quasi che la Cassazione voglia proprio evitare definizioni nette come è avvenuto nel capoluogo lombardo. Ma è anche vero che a nulla vale la svolta contenuta nella sentenza dello scorso anno se ai giudici viene di nuovo data la libertà di definire quando la donna possa essere indipendente e quando non lo è, perché in un campo così libero c’è il rischio che si torni ai medesimi criteri di un tempo.

Per entrare più nel dettaglio e capire se e quando la moglie è autosufficiente – e come tale non può accampare pretese economiche – bisogna considerare i seguenti fattori:

  1. Il possesso di redditi di lavoro autonomo o dipendente; così ad esempio, se la moglie ha un contratto part time di 400 euro al mese e il marito guadagna 5mila euro al mese, il giudice potrebbe obbligare quest’ultimo a versare alla moglie solo 600 euro al mese e non già – come sarebbe successo con le vecchie regole – qualche migliaio. Infatti ora la ricchezza non va più “divisa” tra gli ex coniugi e la moglie può dirsi soddisfatta integralmente se ha quel minimo per vivere;

  2. Il possesso di altri redditi di natura mobiliare (ad esempio investimenti o quote societarie) o immobiliari (ad esempio l’affitto di fondi rustici o di appartamenti); così il coniuge che percepisce un canone di affitto da un immobile di sua proprietà, dato in locazione, potrebbe non aver diritto al mantenimento se tale importo gli garantisce l’autosufficienza;

  3. Le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo;

  4. La disponibilità di una casa di abitazione: così, se il giudice assegna la casa familiare alla donna e il marito viene costretto ad andare via, il mantenimento viene ridotto in proporzione al risparmio di spesa che da tale situazione l’ex moglie ottiene.

10. In crisi anche l’assegno di mantenimento. Di recente la Corte di Appello di Roma ha stabilito che, se la moglie è autosufficiente non va mantenuta sin dal momento della separazione. E non importa se il reddito del marito è significativamente più elevato. Conta la capacità dei coniugi, dopo la cessazione dell’unione, di badare a se stessi con i propri mezzi: capacità che, se sussistente, esclude il diritto a percepire qualsiasi assegno da parte dell’ex più ricco.

11. La morte del coniuge in causa. A fronte di un contrasto, la Cassazione ha affermato [sent. n. 4092/2018] che la morte del coniuge in pendenza di giudizio fa cessare la materia del contendere.

Redazione La legge per tutti 27 giugno 2018

www.laleggepertutti.it/196184_separazione-e-divorzio-ultime-novita

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FAMIGLIA

Famiglia anagrafica, famiglia fiscale e nucleo familiare: differenze

Cos’è la famiglia? Nel nostro ordinamento la definizione in un senso o nell’altro di un determinato concetto produce conseguenze diverse dal punto di vista giuridico. Inoltre, a seconda del contesto di riferimento, dell’istituto applicabile, dell’interpretazione da dare ai fini dell’accesso ad un’agevolazione, uno stesso concetto, apparentemente semplice come è quello di famiglia, può assumere significati completamente differenti e solo in parte sovrapponibili.

Dal punto di vista giuridico-amministrativo, la definizione generica di famiglia può essere suddivisa in più concetti: famiglia nucleare, famiglia anagrafica, famiglia fiscale, nucleo familiare.

  1. Famiglia nucleare: che significa? La famiglia nucleare o civile è quella che tutti tradizionalmente intendiamo come famiglia, composta da persone unite in matrimonio con effetti civili riconosciuti (genitori e figli). La famiglia nucleare o civile può anche non coincidere con la famiglia anagrafica, vediamo perché.

  2. Famiglia anagrafica: che significa? Per famiglia anagrafica [Art. 4 del Regolamento anagrafico sulla popolazione residente (n. 223/1989)] si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune. Una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona. Per aversi famiglia anagrafica devono sussistere i seguenti elementi costitutivi: la presenza tra i membri di un vincolo familiare o affettivo; la coabitazione e dimora abituale nella stessa abitazione. Ebbene tutte le persone coabitanti sotto lo stesso tetto possono costituire una famiglia anagrafica, a prescindere dal rapporto di parentela (per esempio perché legate da un vincolo affettivo – amici, colleghi, coinquilini, fidanzati ecc.).

  3. Differenza tra famiglia nucleare e famiglia anagrafica. La distinzione concettuale tra famiglia nucleare e famiglia anagrafica è stata individuata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato [sent. n. 770/1994]: mentre la famiglia anagrafica è istituto giuridico esclusivamente finalizzato alla “raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni” relative alle persone che hanno fissato nel Comune la propria residenza, la nozione giuridica di famiglia “nucleare”, ossia componibile da genitori e da figli, risulta presupposta e tutelata nel nostro ordinamento interno costituzionale, civile e penale, nonché nell’ordinamento europeo e internazionale. La struttura della famiglia “nucleare” è cristallizzata dal rapporto instaurato per effetto del matrimonio tra i coniugi ed, in particolare, dall’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”, dall’obbligo di contribuire , in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, ai bisogni della famiglia, dalla necessità di concordare l’indirizzo della vita familiare e dall’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole. Per contro, la famiglia anagrafica risulta – di per sé – ben più elastica nella sua costituzione e dissoluzione: essa può essere formata anche da un’unica persona e, soprattutto, si fonda sulla dichiarazione liberamente resa da parte di ciascuno dei suoi membri all’Ufficiale d’anagrafe. In altri termini, anche due persone estranee, per il solo fatto che abbiano dichiarato all’anagrafe di risiedere sotto il medesimo tetto, costituiscono una famiglia anagrafica. È esclusa la costituzione di una famiglia anagrafica qualora i “coinquilini” dichiarino che non vi è alcun rapporto di coniugio, parentela, affinità, adozione, tutela o vincoli affettivi. In tale ipotesi, a prescindere dalla coabitazione, le due persone non saranno considerate famiglia anagrafica e formeranno due nuclei familiari distinti.

  4. Famiglia fiscale: che significa? Ancora diverso è il concetto di famiglia fiscale. La famiglia fiscale è il nucleo familiare che identificato attraverso i dati fiscali e, quindi, le dichiarazioni dei redditi presentate dai suoi componenti. A differenza della famiglia anagrafica, costituita dai soggetti conviventi nella stessa abitazione, la famiglia fiscale è costituita dal contribuente dichiarante, dall’eventuale coniuge, dichiarante o meno, e da tutti i familiari fiscalmente a carico, indipendentemente dalla effettiva convivenza nella medesima dimora [Ministero Economia Finanza]. La famiglia anagrafica, invece, comprende anche i figli maggiorenni e gli altri familiari conviventi, nonché i conviventi di fatto, non fiscalmente a carico.

  5. Nucleo familiare: che significa? Ai fine Isee, il nucleo familiare è costituito dai soggetti componenti la famiglia anagrafica alla data di presentazione della Dichiarazione sostituiva unica (Dsu) [Art. 3 D.P.R. n. 159/2013]. I coniugi fanno parte dello stesso nucleo familiare anche se hanno diversa residenza anagrafica. In caso di mancato accordo, la residenza familiare è individuata nell’ultima residenza comune ovvero, in assenza di una residenza comune, nella residenza del coniuge di maggior durata. Il coniuge iscritto nelle anagrafi dei cittadini italiani residenti all’estero (Aire), è attratto nel nucleo anagrafico dell’altro coniuge. I coniugi con diversa residenza anagrafica costituiscono nuclei familiari distinti esclusivamente quando: è stata pronunciata separazione giudiziale o è intervenuta l’omologazione della separazione consensuale; quando la diversa residenza è consentita a seguito dei provvedimenti temporanei ed urgenti; uno dei coniugi è stato escluso dalla potestà sui figli o è stato adottato il provvedimento di allontanamento dalla residenza familiare; uno dei coniugi è stato condannato ed è stata proposta domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio; sussiste abbandono del coniuge, accertato in sede giurisdizionale o dalla pubblica autorità competente in materia di servizi sociali.

  6. Quando i figli escono dal nucleo familiare? Il figlio minorenne fa parte del nucleo familiare del genitore con il quale convive. Il minore che si trovi in affidamento preadottivo fa parte del nucleo familiare dell’affidatario, ancorché risulti nella famiglia anagrafica del genitore. Il minore in affidamento temporaneo è considerato nucleo familiare a sé stante, fatta salva la facoltà del genitore affidatario di considerarlo parte del proprio nucleo familiare. Il minore in affidamento e collocato presso comunità è considerato nucleo familiare a sé stante. Il figlio maggiorenne non convivente con i genitori e a loro carico ai fini Irpef, nel caso non sia coniugato e non abbia figli, fa parte del nucleo familiare dei genitori. Nel caso i genitori appartengano a nuclei familiari distinti, il figlio maggiorenne, se a carico di entrambi, fa parte del nucleo familiare di uno dei genitori, da lui identificato.

  7. Stato di famiglia: non è un concetto ma un certificato, rilasciato dal Comune, e attestante la composizione della famiglia anagrafica, cioè dell’insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, abitualmente coabitanti e dimoranti nello stesso Comune.

Maria Monteleone La legge per tutti 27 giugno 2018

www.laleggepertutti.it/217579_famiglia-anagrafica-famiglia-fiscale-e-nucleo-familiare-differenze

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Nella diatriba tra Boeri e Governo emerge che dobbiamo lavorare per un #pattoXnatalità”

“L’unico dato reale confermato per l’Italia, nell’odierna diatriba a colpi di slogan tra presidente INPS e Governo, sono i danni prodotti da anni di disattenzione della politica e delle istituzioni alle necessità concrete delle famiglie italiane, con il conseguente drammatico inverno demografico tuttora in corso. Questa situazione, come più volte ripetuto dal Forum Famiglie, sta per mandare a gambe all’aria la sostenibilità del nostro sistema previdenziale”: così il Presidente nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, Gigi De Palo, sugli interventi di Boeri e Salvini in occasione del Festival del Lavoro di Milano.

“La sola certezza conseguente che interessa ogni parte economica e sociale dev’essere l’impegno immediato e congiunto di tutti per cambiare la situazione fiscale, economica e sociale delle famiglie, stimolando le coppie a fare figli e a far ripartire il Paese”, conclude De Palo.

Comunicato stampa 29 giugno 2018

www.forumfamiglie.org/2018/06/29/pensioni-de-palo-nella-diatriba-tra-boeri-e-governo-emerge-che-dobbiamo-lavorare-per-un-pattoxnatalita

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GENITORI

Genitori che litigano: il figlio minore va tolto?

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 12363, 18 maggio 2018.

www.quotidianogiuridico.it/documents/2018/05/31/affidamento-del-figlio-ai-servizi-sociali-in-caso-di-eccessiva-conflittualita-tra-i-genitori#

Quando e come intervengono i servizi sociali per l’affidamento del bambino quando non gli viene garantita una crescita psicofisica serena. Se le discussioni sono il pepe della vita di copia, le litigate eccessive tra padre e madre possono creare un danno importante nello sviluppo psicofisico dei figli, specie se di tenera età. Ecco perché la Cassazione interviene con un’ordinanza nella quale ribadisce la necessità di affidare i minori ai servizi sociali nel caso in cui il clima in casa sia insopportabile. La Suprema Corte risponde così a diverse domande che in tanti si pongono: do fronte ai genitori che litigano, il figlio minore va tolto? È tenuto a subire oppure deve essere portato in un ambiente più sereno? E, soprattutto: il figlio perde di vista entrambi i genitori o può essere collocato presso uno di loro?

Genitori che litigano: perché si arriva ai servizi sociali. La recente ordinanza della Cassazione conferma l’affidamento ai servizi sociali dei figli minori delle coppie separate quando i genitori che litigano non sono in grado di superare le difficoltà che minacciano le loro competenze. Nel caso specifico, la Suprema Corte si è espressa su una coppia divorziata due anni dopo il matrimonio a causa di continui e violenti litigi. Un mese dopo le nozze era nato un bambino. I loro dissapori erano finiti in tribunale (e durante le udienze non era mancata qualche scena poco edificante). In primo grado, i giudici avevano deciso di:

  • Affidare il figlio ai servizi sociali collocandolo dalla madre;

  • Controllare gli incontri con il padre;

  • Prevedere per i genitori la sola ordinaria amministrazione nei confronti del figlio;

  • Fissare una sanzione pecuniaria a carico della moglie ed in favore di marito e figlio per inadempienze;

  • Fissare un assegno di mantenimento a carico del padre ed in favore del figlio;

  • Chiedere ai servizi sociali di accompagnare il bambino in un percorso psicoterapeutico con la necessaria collaborazione dei genitori.

La madre era ricorsa in appello chiedendo, tra le altre cose, che il figlio non fosse affidato ai servizi sociali. Tuttavia, la Corte aveva ritenuto che la donna avesse cercato nel frattempo di mettere il figlio contro il padre. Inoltre, i contrasti tra i genitori erano aumentati. Ecco perché la Corte territoriale aveva confermato la sentenza di primo grado. In sintesi: a due genitori che litigano da poco dopo il matrimonio e che non accennano a venirsi incontro, il figlio va tolto e affidato ai servizi sociali.

Genitori che litigano: cos’è l’affidamento ai servizi sociali. Si arriva così all’ordinanza in commento della Cassazione sul ruolo dei servizi sociali che devono farsi carico di un figlio tolto ai genitori che litigano. C’è da premettere, innanzitutto, che cosa si intende per affidamento. Il concetto riguarda la misura assistenziale che il tribunale dispone a favore di un minore (quindi di una persona incapace) in difficoltà perché si trova in un ambiente familiare non idoneo alla sua crescita psicofisica.

L’affidamento ai servizi sociali ha come scopo quello di mettere il minore che si trova in difficoltà nelle condizioni di avere un aiuto ed un supporto psicologico ed educativo dove manca quello della famiglia. La decisione di affidare un minore ai servizi sociali spetta all’Autorità giudiziaria quando il bambino si trova in una situazione che possa compromettere la sua crescita, specialmente se provocata da un divorzio, da una separazione o da una responsabilità genitoriale, come quella, appunto dei genitori che litigano in continuazione e senza badare al fatto che hanno davanti un bambino.

In particolare, il Tribunale per i Minorenni effettua le dovute indagini e, nel caso, dispone per decreto la misura in uno di questi modi:

  • Affida il minore ai servizi sociali e lo colloca presso uno dei genitori;

  • Comprime la responsabilità genitoriale e affida il minore solo ai servizi sociali.

Comprimere la responsabilità genitoriale significa, come nel caso dell’ordinanza in commento, limitare l’azione del padre e della madre alla normale amministrazione che riguarda il minore (comprese le spese di affidamento o di ricovero) e costringerli a seguire le indicazioni dei servizi sociali.

Se la domanda viene accolta, l’Autorità giudiziaria:

  • Convoca il minore (se ha compiuto i 12 anni oppure è, se di età inferiore, ha capacità di discernimento) ed il legale rappresentante dei servizi sociali;

  • Definisce il percorso educativo da seguire;

  • Stabilisce i compiti dei servizi sociali, che dovranno poi essere documentati.

Il provvedimento dell’Autorità giudiziaria è temporaneo e, per questo, non può essere impugnato dai genitori. L’affidamento ai servizi sociali verrà meno quando si sarà risolto il conflitto tra i genitori e, quindi, quando il minore potrà di nuovo trovare con loro un clima sereno che favorisca la sua crescita a tutti i livelli.

Genitori che litigano: il figlio minore va tolto alla madre? La legge n. 149/2001 decide se e quando il figlio minore va tolto ai genitori che litigano. Come detto, la priorità assoluta è il bene psicofisico del bambino ed il suo diritto a crescere e ad essere educato nella propria famiglia. Ecco perché il testo spinge le istituzioni ad aiutare i genitori in difficoltà economica, affinché la povertà non sia un ostacolo per crescere un figlio e che diventi un motivo per il suo allontanamento dal padre e dalla madre.

Se, però, le difficoltà in esame non riguardano solo la sfera economica ma quella affettiva, cioè se il figlio si trova a vivere in un contesto violento o fortemente degradato, è quando si mettono in moto le istituzioni pubbliche per proteggere il minore. La legge, a questo proposito, dice che il bambino «temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti, viene affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni di cui egli ha bisogno». Se non fosse possibile affidarlo a una famiglia, il minore dovrebbe essere accolto in una comunità familiare o in un istituto pubblico o privato, possibilmente vicino al suo nucleo familiare.

Genitori che litigano: come agiscono i servizi sociali. La segnalazione di una famiglia in cui i genitori litigano in continuazione o si manifesta una situazione di degrado arriva, di norma, ai servizi sociali da una persona che direttamente o indirettamente assiste a questi episodi: un parente, un’insegnante, un vicino di casa, testimoni della situazione che il minore è costretto a subire. I servizi sociali, a loro volta, fanno le dovute verifiche e, nel caso accertassero quanto è stato riferito, si rivolgono al tribunale competente per chiedere l’affidamento del bambino.

Qui ci sono due possibilità.

  1. La prima, che il minore non venga tolto alla madre ma che venga monitorato dall’assistenza sociale per quanto riguarda la scuola, le cure che riceve dai genitori, la salute. Padre e madre, nel frattempo, vengono aiutati a migliorare la loro situazione economica e sociale.

  2. L’altra è quella dell’affidamento temporaneo ad una famiglia, ad una comunità o ad un istituto. Viene disposto, come stabilisce la legge, dal servizio sociale locale, sentiti i genitori ed il minore stesso se ha già compiuto 12 anni ed ha capacità di intendere e di volere. Compito del giudice sarà quello di rendere esecutivo con decreto l’affidamento.

Genitori che litigano: si può rifiutare l’allontanamento? Se i genitori che litigano e ai quali è stato tolto il figlio minorenne non accettano la decisione sull’affidamento, viene chiamato in causa il Tribunale per i Minorenni, il quale, sulla base di quanto stabilito dal Codice civile [Artt. 330 e ss. ] potrà:

  • Far decadere la responsabilità genitoriale qualora padre e madre (o uno solo di loro) non rispettino o trascurino i loro doveri oppure abusino dei loro poteri con grave pregiudizio del figlio;

  • Togliere il figlio a entrambi i genitori o, comunque, a quello che pregiudica la sua crescita o abusa di lui.

Il tribunale deve indicare nel provvedimento:

  • Le motivazioni della decisione;

  • I tempi ed i poteri riconosciuti all’affidatario;

  • I rapporti che i genitori e gli altri parenti possono avere con il minore;

  • Il servizio sociale che deve monitorare la situazione ed informare il tribunale degli sviluppi;

  • La durata dell’affidamento.

Genitori che litigano: il figlio minore può tornare da loro? È chiaro che due genitori che litigano anche dopo il divorzio e che non hanno intenzione di migliorare il loro rapporto difficilmente rivedranno un figlio minorenne a casa dell’uno o dell’altro. Spetta sempre al tribunale decidere se deve revocare il provvedimento di affidamento del bambino ai servizi sociali perché le cose si sono sistemate in modo civile oppure prolungarlo perché con due genitori cos’ litigiosi c’è poco da fare.

In particolare, il giudice tutelare sente il servizio sociale incaricato ed il minore (sempre se ha compiuto i 12 anni o, se di età inferiore, nel caso abbia capacità di discernimento). Poi chiede al tribunale l’adozione di un nuovo provvedimento a tutela del minore in uno o nell’altro senso, cioè: tornare a casa dei genitori, di uno di loro (se separato o divorziato) oppure lasciarlo ancora in affidamento.

Genitori che litigano: che succede se non c’è accordo sulle visite? Se i genitori che litigano lo fanno anche dopo la separazione o il divorzio per questioni legate alle visite ai bambini (orari, turni nei giorni di festa, ecc.), subentrano sempre i servizi sociali, così come stabilito da una sentenza del Tribunale di Milano del 23 marzo 2016. In realtà, l’intento dei giudici è quello di evitare che le aule dei tribunali si riempiano di cause relative a problemi risolvibili fuori, cioè conflitti non gravi.

Carlos Arija Garcia La legge per tutti 24 giugno 2018

www.laleggepertutti.it/211766_genitori-che-litigano-il-figlio-minore-va-tolto

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OMOFILIA

Matrimonio tra persone dello stesso sesso

Corte di cassazione Sezioni Unite – Sentenza n. 16957, 27 giugno 2018

www.diritto.it/get-file-documento/?id=60120&mode=s

Il matrimonio fra persone dello stesso sesso è inesistente nel nostro ordinamento, ma la giurisdizione deve essere del giudice ordinario e non del giudice amministrativo.

Le questioni sullo status e sulla capacità delle persone, per centenaria tradizione, sono affidate alla decisione del giudice ordinario. Pertanto la decisione sulla possibilità di annullare la trascrizione di un matrimonio fra persone dello stesso sesso è propria del giudice ordinario e non di quello amministrativo.

Accolto dunque il ricorso di due donne, coniugatesi in Spagna, che aveva visto trascrivere il loro matrimonio nei registri di stato civile del Comune di Roma ma poi avevano subito l’annullamento della trascrizione per opera del prefetto, organo gerarchicamente superiore al sindaco, secondo la sentenza da loro impugnata. Le SSUU hanno quindi recentemente ammesso che il relativo potere di annullare la trascrizione del matrimonio omosessuale in quanto «sprovvisto di un elemento essenziale, la diversità di sesso dei nubendi», siccome la questione investe direttamente lo “status delle persone” può essere decisa unicamente dal giudice ordinario e non da quello amministrativo.

Osservatorio sul diritto di famiglia 29 giugno 2018

www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17507598/il-matrimonio-fra-persone-dello-stesso-sesso-%C3%A8-inesistente-nel-nostro-ordinament.html

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OMOGENITORIALITÀ

Omogenitorialità e diritti di ogni figlio. Nascere orfani?

Certamente non sono rari nella storia umana i casi di bambini cresciuti solo dalle donne; nei tempi di guerra come nei tempi di pace è successo spesso che i padri fossero assenti: morti in guerra, lontani per lavoro, oppure semplicemente latitanti, magari dopo aver messo incinta la donna madre del bambino. Tante donne coraggiose si sono rimboccate le maniche, si sono aiutate tra loro, hanno amato, accudito e fatto crescere figli che l’assenza del padre non ha necessariamente reso patologici o incapaci di vivere.

Perché dunque ci sconcerta e ci interroga la notizia che diversi sindaci, a Milano, a Torino e in altre città italiane, hanno voluto riconoscere bambini “figli di due madri”?

Pensiamo forse che queste donne non possano essere capaci, in quanto omosessuali, di dare ai bambini l’amore di cui hanno bisogno? Pensiamo forse di negare a questi bambini, in nome di qualche astratto principio, l’amore a cui hanno diritto? Che differenza c’è, dunque, tra l’essere cresciuti da due donne perché il padre è scomparso, ed essere cresciuti da due donne che hanno scelto di mettere al mondo un figlio senza il padre? Malgrado le apparenze, la differenza c’è ed è molto importante: solo nel secondo caso, infatti, gli adulti decidono consapevolmente che il bambino nasca orfano di padre.

Orfano è una parola che significa “privo di un genitore” e genitore significa “colui che ha generato”. Comunque si considerino le cose, ognuno di noi è generato senza possibilità di eccezione dai gameti di un uomo e di una donna, che sono dunque biologicamente nostro padre e nostra madre: il legame con loro è innegabile e ineludibile, perché impresso nel nostro corpo attraverso un patrimonio genetico fatto sia di caratteristiche fisiche che di inclinazioni temperamentali, che ci accompagneranno per sempre. Il legame biologico da solo è certamente insufficiente a fondare la genitorialità, ma rimane un legame potente; chi si occupa di adozioni sa bene ad esempio che qualsiasi adottivo, anche se accolto fin dai primi giorni di vita in una famiglia che ama e che lo ha amato, porta in sé una forte domanda sulle sue origini, che lo spinge sempre a cercare di scoprire chi erano i suoi genitori biologici.

Non a caso la necessità di tale ricerca si fa sentire soprattutto a partire dall’adolescenza, età nella quale si affacciano alla coscienza le principali domande sul sé, legate al tema della propria identità; a partire da questo momento il tema delle origini diventa cruciale sulla strada per diventare adulti e poter dunque a nostra volta generare, in una catena di relazioni che lega tra loro padri, madri e figli.

Il padre non è più importante della madre, e nemmeno la madre lo è più del padre: ognuno di noi sa bene, se analizza se stesso con sincerità, che entrambi sono o almeno sono stati cruciali per la sua vita. La loro presenza come la loro assenza, il loro essere stati figure positive o negative, lasciano in noi una traccia che non possiamo negare e con la quale facciamo i conti per tutta l’esistenza: tutto dunque può essere detto delle figure del padre e della madre, tranne che possano essere irrilevanti o indifferenti.

Proprio per questo è necessario che entrambi possano essere presenti, almeno nel nostro immaginario: il bambino orfano di guerra, il bambino figlio di madre nubile, il bambino abbandonato e adottato, tutti indifferentemente sanno di essere stati generati dall’incontro tra un uomo e una donna. Pur nella mancanza di uno o dell’altro genitore possono riconoscere che la loro origine dipende da entrambi: scoprono che il maschile e il femminile non si bastano da soli, e che hanno lo stesso valore perché sono entrambi indispensabili a generare la vita. Solo l’omogenitorialità può decretare di fatto l’assoluta irrilevanza di uno dei sessi: le due donne che fanno dell’uomo solo un donatore di seme, o i due uomini che fanno della donna una donatrice di ovulo e/o un’incubatrice per il feto, stanno dichiarando al bambino l’assoluta irrilevanza dell’altro sesso, che pure ha contribuito a generarlo e di cui porta in sé una parte così rilevante.

Nessun bambino può esser ‘figlio’ di due donne o di due uomini; il bambino di una coppia omogenitoriale può certamente essere frutto della scelta di due adulti che lo chiamano al mondo perché vogliono amarlo: ma sono adulti che, senza volerlo, lo fanno nascere orfano di un genitore e privo della possibilità almeno simbolica della sua esistenza.

Davanti a questioni di questo tipo, la nostra risposta appare confusa e spesso timorosa perché si è diffusa in modo drammatico la convinzione che tra i diritti di un adulto ci sia anche quello di avere bambini; questo modo di pensare non riguarda solo le coppie omosessuali, ma anche molte coppie eterosessuali, creando un clima propizio per il diffondersi del fenomeno. Ma i bambini, come ogni persona, possono solo essere soggetto di diritti e non certamente oggetto: dobbiamo tornare a vederli come un dono della vita, un regalo spesso immeritato, che non può essere preteso, ma solo accolto con riconoscenza e rispetto.

È dunque di estrema urgenza avviare una riflessione, per evitare che i dati di fatto prendano rapidamente il sopravvento, portando a ‘normalizzare’ ciò che non può essere normalizzato. Quando nasce un bambino, la prima cosa da fare, la più importante, è sempre quella di festeggiare la sua nascita come un dono per il mondo: una piccola persona nuova ha visto la luce, un miracolo che si ripete malgrado tutti i possibili errori. Comunque sia stato generato, un bambino ha il diritto di essere amato, e i bambini già nati hanno certamente pieno diritto di cittadinanza tra noi. Ma se davvero amiamo i bambini, dovremmo in primo luogo fermarci con decisione, e domandarci quali sono i loro veri diritti, quali le migliori opportunità per il loro sviluppo.

E se non troviamo un accordo, che valgano almeno per tutti il rispetto della legge e la saggezza del principio di precauzione, che utilizziamo in tanti ambiti certo meno decisivi.

Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra Avvenire 25 giugno 2018

www.avvenire.it/opinioni/pagine/omogenitorialita-nascere-orfani

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PARLAMENTO

Temi sensibili: nasce «Vera Lex», osservatorio trasversale

Al vaglio l’attività parlamentare su famiglia e vita. Adesioni bipartisan da Lega, Pd, Fi, Udc, Epi ed Idea. Si chiama ‘Vera Lex’, ed è un osservatorio bipartisan che nasce ad inizio legislatura per accendere un faro permanente sull’attività parlamentare, con particolare riguardo ai temi eticamente sensibili. Quelli destinati a intervenire sui valori fondanti della convivenza: dalla tutela della vita, alla dignità della persona umana, alla legislazione in tema di diritto di famiglia. Un modo per andare oltre il politically correct delle prese di posizione preconcette e degli slogan, ed entrare invece nel merito della concreta ricaduta nel vissuto di tutti i giorni.

«Un impegno a partire dalla parte migliore della nostra esperienza parlamentare, per proporla ad altri, parlamentari e non, che ne fossero interessati», spiega l’ex deputato Domenico Menorello, vicino a Energie per l’Italia di Stefano Parisi, nel corso della presentazione dell’iniziativa, ieri, alla sala Stampa della Camera.

Fra i promotori Paola Binetti, dell’Udc, l’ex deputato Gianluigi Gigli, presidente del Movimento per la Vita, gli ex ministri Maurizio Sacconi e Mario Mauro, gli esponenti della Lega Simone Pillon, Alessandro Pagano e Massimo Polledri, Eugenia Roccella di Idea, ma anche esponenti del Pd, come Giorgio Merlo e Maria Pia Garavaglia, e di Forza Italia, come il responsabile Comunicazione Antonio Palmieri.

L’obiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica prima che i temi arrivino in aula sull’onda di una sorta di stato di necessità, all’insegna del ‘prendere o lasciare’. Ma anche un modo per «continuare una amicizia nata da questa tensione proprio a Montecitorio e Palazzo Madama pur da partiti e posizioni differenti», spiega Menorello. Un esperimento che recupera esperienze passate in stretta collaborazione con parlamentari di maggioranza e opposizione. Da credente, per Binetti, si tratta anche di «leggere i documenti della Chiesa, dalla Veritatis Splendor alla Fides et ratio alla Laudato si’ alla luce del mutato contesto storico e legislativo». Ed elenca le tante criticità della passata legislatura, da monitorare anche nella loro concreta attuazione: «Le unioni civili, il testamento biologico, la legalizzazione della cannabis, la legge sui due cognomi. Una vera e propria opera di destrutturazione ideologica in atto».

Per Sacconi si tratta di difendere certi valori «alla luce di un idea di diritto naturale, e una visione antropologica, al di là dell’essere o meno credenti». Roccella segnala l’esigenza di monitorare anche «forzature in atto nel silenzio generale, ad opera di sindaci e magistrati, soprattutto sulla stepchild adoption e sull’utero in affitto».

Circa le prospettive con le quali si apre la nuova legislatura, per Sacconi «sarà difficile fare peggio della precedente», mentre Binetti si mantiene più prudente e, da esponente dell’opposizione spera di essere smentita nei fatti dopo i primi approcci che generano forti preoccupazioni sui temi dell’accoglienza e della solidarietà, in materia di immigrazione. Utilizzerà un metodo aperto a contribuzioni dall’esterno, questo osservatorio, privilegiando un linguaggio di verità nel dibattito politico.

Con l’ausilio di un sito (www.osserveralex.it), la creazione di aree di merito con relativi coordinatori, l’utilizzo dei social, dando vita anche a dei social forum pubblici o gruppi chiusi e promuovendo infine momenti pubblici, tre meeting tematici su base annua.

Angelo Picariello Avvenire 27 giugno 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/temi-sensibili-nasce-vera-lex-osservatorio-trasversale

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TRANSGENDER

Che significa transgender

La scarsa conoscenza di un argomento porta talvolta a discriminare ingiustamente delle categorie di persone a causa della loro identità sessuale.

Maschile e femminile, questi sono i generi riconosciuti e che individuano l’uomo e la donna attraverso una caratterizzazione fisica e sessuale. Gli organi sessuali, insieme agli ormoni, attribuiscono al corpo una forma ben definita che, in seguito allo sviluppo, in fase adolescenziale e pre-adolescenziale, diventa sempre più marcata. Per l’uomo cambia la voce, cresce la sua struttura fisica, le gambe e il petto si coprono di peluria, invece, il corpo della donna diventa più sinuoso, con l’aumento del seno e dei fianchi. Durante questa particolare fase della vita, non tutti hanno l’aspetto che desiderano e, al contempo, non tutti hanno una precisa esteriorità che possa evidenziarne il genere a prima vista. La tematica del genere sessuale è estremamente delicata in quanto investe una questione privata che, soprattutto nelle epoche precedenti, ha rappresentato uno strumento di persecuzione per molte persone che non rientravano nei canoni standard della società. Per queste ragioni viene automatico domandarsi: che significa transgender?

  1. Il sesso biologico. Nella biologia il sesso costituisce quel carattere che consente ad una specie vivente di riprodursi in natura. Il carattere è valido per gli animali e per gli uomini ed è determinato geneticamente con la coppia di cromosomi xx, che individua il genere femminile, e la coppia di cromosomi xy che individua quello maschile. Nonostante i processi naturali siano tali da apparire come una macchina perfetta volta alla prosecuzione delle varie specie, può accadere che l’individuo non possa essere classificato in queste due categorie per diverse motivazioni. Guardarsi allo specchio e non riconoscersi, non sentirsi rappresentati fino in fondo dal proprio corpo, non accettare il proprio aspetto fisico, sono solamente alcune delle sensazioni spiacevoli che vengono avvertite da persone che, non per loro colpa, non rientrano o non vogliono rientrare in una precisa caratterizzazione sessuale. Sull’argomento c’è molta confusione, si sentono termini che si rincorrono e che non hanno una grande attinenza su una problematica così seria che crea un reale disagio sociale. Ma, esattamente, cosa significa transgender?

  2. Il transgenderismo. Transgender è la persona che non si sente definita all’interno dello stereotipo di genere normalmente identificato come maschile e femminile. Per alcuni si tratta di una sorta di rifiuto psicologico, per altri, al contrario, è il corpo stesso a presentare caratteristiche sia maschili sia femminili. Si parla appunto di transgender, concetto che si differenzia da transessuale, proprio perché il genere non può essere individuato solo dal punto di vista sessuale ma un uomo e una donna presentano degli elementi che vanno ben oltre rispetto a questo semplice aspetto. In sostanza, il transgender è chi si colloca tra i due generi senza rientrare perfettamente in nessuno. L’identità di genere non è sinonimo di orientamento sessuale che sta ad indicare invece i generi per i quali si prova attrazione. Ad esempio, il transgender, che in origine nasce uomo ma sente dentro di sé di essere una donna, effettua un cammino di transizione che porta ad una netta trasformazione esteriore ma ciò non ha alcuna attinenza con i suoi gusti sessuali. In altri termini, il transgender può essere attratto sessualmente dal genere diverso dal proprio, ed essere dunque eterosessuale, oppure omosessuale, proprio come accade per tutte le persone.

Ad esempio, fanno parte di questa classificazione:

  • La persona ermafrodita, ossia chi, a causa di una anomalia della differenziazione sessuale, è dotato, sin dalla nascita, di entrambi gli organi sessuali, maschile e femminile.

  • La persona transessuale operata, ossia chi, attraverso operazioni chirurgiche e terapie ormonali, è transitata da un genere sessuale all’altro.

  • La persona transessuale non operata, ossia chi, pur non avendo subito operazioni chirurgiche conservando l’organo sessuale originario, mediante terapie ormonali e cure estetiche ha effettuato un passaggio sessuale di fatto.

  • La persona che non accetta la propria fisicità in quanto mancata espressione della propria identità intima.

  1. Il riconoscimento della legge. La legge italiana [164/1982.] attribuisce un riconoscimento solamente al transgender che, non sentendosi rappresentato dalla propria identità di genere, decide di cambiare sesso e lo fa materialmente mediante un’operazione chirurgica che interviene direttamente sui segni distintivi intimi. Solo chi effettua una reale transizione da un sesso ad un altro può presentare un ricorso per rettifica di sesso. Il Tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza e provvede anche alla modifica del nome e dei riferimenti all’Ufficio anagrafe e sui documenti di identità. Il ricorso deve essere presentato presso il Tribunale di residenza, redatto da un legale, con l’indicazione precisa dei fatti e la richiesta di cambiamento del genere. Il giudice, dopo avere valutato i documenti e ascoltato direttamente il ricorrente, emette la sentenza di autorizzazione al cambiamento di sesso.

Chi invece non procede alla transizione totale, pur presentando nei fatti un aspetto diametralmente opposto a quello d’origine, non può procedere alla rettifica di sesso.

Rossella Blaiotta La legge per tutti 29 giugno 2018

www.laleggepertutti.it/212669_che-significa-transgender

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UNIONI CIVILI E CONVIVENZE DI FATTO

Differenze

Cosa sono le unioni civili? Qual è la differenza con le convivenze di fatto? Matrimonio e unione civile sono uguali?

Nel 2016 anche in Italia è stata introdotta la normativa che regola l’unione tra persone dello stesso sesso e la convivenza tra persone che non abbiano contratto matrimonio. La legge ha colmato una lacuna presente nel nostro ordinamento, fornendo finalmente una disciplina a quanti, pur formando una famiglia, non possono (o non vogliono) contrarre matrimonio. Con questo articolo parleremo delle unioni civili e delle convivenze di fatto, mettendone in risalto differenze e aspetti principali.

Unioni civili: cosa sono? Come anticipato, una legge del 2016 ha introdotto le unioni civili [1]. Trattasi di istituto giuridico che tutela la convivenza tra persone dello stesso sesso, garantendo ad entrambe alcuni dei diritti e dei doveri tipici del matrimonio. Va necessariamente specificato, infatti, che tra unioni civili e matrimonio corrono delle profonde differenze:

  • L’unione civile può riguardare solo persone dello stesso sesso;

  • L’unione civile non riconosce espressamente l’obbligo di fedeltà né quello di collaborazione;

  • Nel matrimonio la moglie aggiunge il cognome del marito al proprio, mentre per l’unione civile è possibile che la coppia scelga il cognome di famiglia: le parti, mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile, possono indicare un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. Inoltre, i partner potranno anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso;

  • In caso di scioglimento dell’unione civile, esso ha effetto immediato e non è previsto nessun periodo di separazione.

Unioni civili e matrimonio: aspetti comuni. Nonostante le differenze sopra elencate, gli aspetti che accomunano le unioni civili al matrimonio sono numerose. Di seguito le principali:

  • Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni dell’unione;

  • Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato;

  • I regime patrimoniale dell’unione civile, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni.

  • Sotto il profilo successorio, l’unione civile conferisce alle coppie il diritto alla legittima.

Convivenze di fatto: cosa sono? Con la stessa legge del 2016 in Italia è stata introdotta anche la disciplina per le coppie che, di fatto, vivono come se fossero unite in matrimonio: sono le convivenze di fatto. Secondo la legge, per conviventi di fatto si intendono due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.

La convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso o eterosessuali può essere attestata da un’autocertificazione, redatta in carta libera e presentata al comune di residenza, nella quale i conviventi dichiarano di convivere allo stesso indirizzo anagrafico. Il Comune, fatti gli opportuni accertamenti, rilascerà il certificato di residenza e stato di famiglia. Non vi è alcun obbligo per i conviventi di presentare la predetta autocertificazione, in quanto la convivenza può essere provata con ogni strumento, anche con dichiarazioni testimoniali.

Lo status di convivente di fatto comporta il riconoscimento di specifici doveri e diritti. Tra i più significativi ricordiamo:

  • Stessi diritti che spettano al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario;

  • In caso di malattia grave tale da comportare un deficit della capacità di intendere e volere, il convivente può delegare l’altro a rappresentarlo in tutte le decisioni che lo riguardano in ambito di salute; al convivente è riconosciuto altresì il diritto di visita e di assistenza nelle strutture ospedaliere;

  • Il convivente superstite succede nel contratto di locazione al convivente defunto, e può anche essere inserito nelle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi popolari.

Unioni civili e convivenze di fatto: quali differenze? Dopo aver analizzato gli aspetti principali delle unioni civili e delle convivenze di fatto e averli paragonati entrambi al matrimonio, è facile dedurre le differenze che passano tra i due istituti. Le unioni civili sono state concepite per la tutela delle coppie omosessuali le quali a lungo sono state destinatarie di un trattamento differente rispetto alle coppie eterosessuali. Anzi, in effetti nessuna tutela specifica era per loro prevista. Pur non potendo essere equiparata in tutto e per tutto al matrimonio, l’unione civile è ciò che più si avvicina ad esso.

La convivenza di fatto, invece, è rivolta a tutte quelle persone, indifferentemente omosessuali o eterosessuali, che hanno deciso di non contrarre matrimonio né di sancire il loro legame attraverso l’unione civile, ma che comunque sono meritevoli di una tutela rispetto a determinati aspetti della vita, primo fra tutti quello della malattia.

Mariano Acquaviva La legge per tutti 30 giugno 2018

www.laleggepertutti.it/213119_unioni-civili-e-convivenze-di-fatto-differenze

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