NewsUCIPEM n. 705 – 10 giugno 2018

NewsUCIPEM n. 705 – 10 giugno 2018

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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01 ADOZIONE INTERNAZIONALE Governo Conte. Le richieste di Ai. Bi. e Forum Famiglie.

02 AFFIDAMENTO FIGLI Motivare con rigore per disattendere la volontà del minore.

02 ANONIMATO DEL PARTO Parto anonimo: si ha diritto a conoscere le proprie origini?

04 ASSEGNO DI MANTENIMENTOCome si calcolano gli alimenti a moglie e figli.

07 ASSEGNO DIVORZILE Assegno di soli 200 euro per l’ex moglie disoccupata

08 CHIESA CATTOLICA Sinodo Amazzonia, Baldisseri: Sui ministeri libertà alla discussione.

09Donne-prete, la sfida a Francesco

10 “Dispositivo-Ratzinger”. Una delle radici dell’attuale paralisi.

13 COMM. ADOZIONI INTERNAZIONALI Rimborso spese adottive 2012\2017.

13 CONSULENTI COPPIA E FAMIGLIA A Milano un nuovo Corso per Consulenti Familiari.

13 CONS. F. ISPIRAZIONE CRISTIANA Rivista Consultori familiari oggi-giugno 2018.

13 Roma Al Quadraro. Sportello adolescenti, risposta disagio giovani.

14 CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Pescara. Gruppi di Parola.

15 DALLA NAVATA X Domenica del Tempo ordinario – Anno B – 10 giugno 2018

15Commento di E. Bianchi.

16 ENTI TERZO SETTORE Non profit: il 6,4% degli studenti fa alternanza qui.

17 FORUM ASS. FAMILIARI Natalità, conciliazione lavoro-famiglia, sostegno nuclei ceto medio.

18 FRANCESCO VESCOVO DI ROMALa svolta profetica di papa Francesco: Un convegno brasiliano.

20 FUCI Identità e alterità. L’uomo e le relazioni.

22 MATRIMONIO Sposarsi: conviene?

24 NULLITÀ MATRIMONIALE Francesco e la riforma del processo di nullità, a che punto siamo?

25 OMOFILIA Scoprire di essere gay dopo sposato: che succede?

26 PATERNITÀ Il rifiuto di sottoporsi al test del DNA fa presumere la paternità

26 UNIONI CIVILIPrimo divorzio tra due donne

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

Governo Conte. Le richieste di Ai. Bi. e Forum Famiglie ai nuovi governanti del Paese

Tra le priorità indicate da Amici dei Bambini un presidente politico per la CAI, il ‘bonus adozioni’ da 10mila euro per le famiglie che scelgono l’adozione, l’istituzione ufficiale dell’adozione europea e maggior attenzione all’Africa

Il Forum Famiglie chiede una nuova centralità dei nuclei familiari, alle madri che lavorano e la tanto attesa rivoluzione fiscale a misura di famiglia.

Governo Conte. Le richieste di Ai.Bi. Una sequenza di punti che non vuole e non dovrà assomigliare a una ‘lista della spesa’, quanto – piuttosto, è l’auspicio di quanti hanno scritto e parlato – a un piano organico, strutturato, consequenziale e coeso per ridare a chi si occupa della quotidianità concreta di bambini, famiglie, persone il peso che merita nella comunità italiana. Un’attenzione che, negli ultimi anni, è risultata alquanto rarefatta per varie motivazioni.

Ai.Bi. fin dalla nomina del Governo da parte del Presidente della Repubblica Mattarella ha chiesto al neoministro per la Famiglia e le Disabilità Lorenzo Fontana di “non ripetere gli errori di Riccardi, Kyenge e soprattutto Renzi”, con una gestione scellerata e lacunosa della Commissione per le Adozioni Internazionali, strumento per eccellenza di supporto e spinta dell’adozione internazionale nel nostro Paese. “Un presidente politico per la CAI, un ‘bonus adozione’ da 10mila euro per le famiglie che hanno adottato, l’adozione europea e un Piano Africa per l’infanzia abbandonata in quel continente” è stata l’indicazione di Amici dei Bambini, esplicitata in un editoriale ripreso da Vita.it

www.vita.it/it/article/2018/06/04/adozioni-internazionali-4-proposte-al-ministro-fontana-per-rimediare-a/147061/?utm_source=http://www.vita.it/?utm_source=newsletter&utm_campaign=feb1

News Ai. Bi. 7 giugno 2018

www.aibi.it/ita/governo-conte-le-richieste-di-ai-bi-forum-famiglie-e-terzo-settore-ai-nuovi-governanti-del-paese

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AFFIDAMENTO DEI FIGLI

Obbligo di motivare con rigore la decisione di disattendere la volontà del minore –

Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 12957, 24 maggio 2018.

Nel giudizio di separazione personale tra coniugi il giudice non è tenuto a recepire, nei suoi provvedimenti, le dichiarazioni di volontà che emergono dall’ascolto del minore o le conclusioni dell’indagine peritale. Tuttavia, qualora intenda disattendere tali dichiarazioni e tali conclusioni, ha l’obbligo di motivare la sua decisione con particolare rigore e pertinenza.

La tutela del diritto fondamentale di sorellanza e fratellanza impone la necessità di preservare nelle separazioni tra coniugi la conservazione del rapporto tra fratelli e sorelle e di non adottare provvedimenti di affidamento che comportino la loro separazione se non per ragioni ineludibili e, comunque, sulla base di una motivazione rigorosa che evidenzi il contrario interesse del minore alla convivenza.

Redazione Il caso.it (Doc. 4775) 4 giugno 2018 Ordinanza

news.ilcaso.it/news_4775?https://news.ilcaso.it/?utm_source=newsletter&utm_campaign=solo%20news&utm_medium=email

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ANONIMATO DEL PARTO

Parto anonimo: si ha diritto a conoscere le proprie origini?

Il diritto alla privacy della madre scompare con la sua morte. Il diritto a conoscere le proprie origini non riguarda solo i genitori ma anche fratelli e sorelle.

Un tempo i figli che ignoravano l’identità dei propri genitori erano in molti; spesso le ragioni erano collegate alla povertà delle famiglie che le obbligava a lasciare i neonati in mani di persone più agiate o, comunque, in grado di poterli mantenere. Oggi purtroppo, sebbene per ragioni diverse, si assiste ancora a situazioni in cui il figlio non conosce il nome del padre o della madre o di entrambi. Non sono poche le coppie di fatto che si lasciano proprio nel momento in cui sta per nascere un bambino al quale il padre naturale, così facendo, nega il riconoscimento. La legge prevede inoltre la possibilità del parto anonimo per la madre. In quest’ultimo caso, ci si chiede spesso se esiste il diritto a conoscere le proprie origini.

Il padre non può restare anonimo, la madre sì.Il riconoscimento del figlio è un obbligo solo paterno. La madre invece ha diritto – qualora lo chieda al momento del parto – di rimanere anonima fino alla sua morte. Da un lato, dunque, se il padre non riconosce come proprio il figlio naturale (quello cioè nato fuori dal matrimonio) commette un illecito e può essere da questi citato in giudizio per versargli il risarcimento del danno dovuto alla perdita di una figura genitoriale di riferimento (una sorta di danno da “carenza affettiva”). Dall’altro lato, però, il figlio che vuol conoscere le proprie origini biologiche materne può presentare una domanda di accesso alla cartella clinica dell’ospedale ove è nato, ma l’identità della madre gli potrà essere svelata solo dopo che questa decede. È in tale momento infatti che cessa il diritto alla privacy della donna e, con esso, anche il rispetto della volontà, da questa espressa al momento del parto, di rimanere anonima. È questo l’importante chiarimento fornito dalla Cassazione a più riprese.

www.laleggepertutti.it/163423_figli-il-padre-non-puo-rimanere-anonimo-la-madre-si

Il diritto della madre al parto anonimo. Ogni madre ha diritto a partorire in anonimato. La domanda può essere fatta prima o durante il parto. Questo significa che, al momento della nascita, se anche il padre non intende riconoscere il figlio, quest’ultimo verrà preso in consegna dal personale medico dell’ospedale che provvederà a sbrigare tutte le pratiche amministrative relative alla dichiarazione di nascita avendo cura di non nominare la madre. La dichiarazione di nascita andrà eseguita entro 10 giorno dal parto.

In questo modo viene garantito sia il diritto all’anonimato della madre, sia il diritto del figlio a una identità anagrafica e alla protezione (questi infatti sarà affidato a una casa famiglia e poi potrà essere adottato).

In caso di parto anonimo, la madre ha diritto di ottenere una assistenza psicologica e sanitaria e di avere informazioni riguardanti forme di sostegno alla maternità ed alla genitorialità, aiuti a livello socio-assistenziale e sanitario. Ha inoltre diritto ad essere informata, in caso di incertezza sulla scelta da operare, sulla possibilità di usufruire di un ulteriore periodo di riflessione dopo il parto di massimo due mesi richiedendo al Tribunale per i minorenni la sospensione della procedura di adottabilità.

In caso di parto anonimo, il figlio potrà sapere il nome della madre? Se la madre decide di restare anonima, le sue generalità vengono coperte da privacy per 100 anni. In pratica, il figlio non potrà accedere né al certificato di assistenza al parto, né alla cartella clinica ove sono riportate le generalità della donna.

Il figlio però può venire a conoscenza dell’identità della madre prima dei 100 anni solo in due casi:

  1. se la madre ci ripensa e revoca la richiesta di anonimato. Difatti la richiesta di parto anonimo può essere revocata in qualsiasi momento della vita. Ciò però non toglie che la donna possa recriminare il diritto all’affidamento del figlio, specie se questo è stato già adottato;

  2. oppure nel momento in cui la madre muore.

Tale concetto è stato di recente chiarito a più riprese dalla Cassazione [sent. n. 15024/2016].

www.laleggepertutti.it/121482_parto-la-madre-resta-anonima-ma-non-dopo-la-sua-morte

Secondo la Corte Suprema, il diritto all’anonimato della donna viene meno con il suo decesso. Del resto, se così non fosse, si avrebbe la cristallizzazione della scelta della madre di restare anonima anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio di conoscere le proprie origini, in evidente contrasto con la necessaria «reversibilità del segreto» [Previsto dall’art. 93, co. 2, D.lgs. n. 196/2003]. Si pregiudicherebbe anche il diritto della madre di “ripensarci” e di comunicare le proprie generalità al figlio: diritto che spetta per tutto il corso della vita della madre stessa, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta.

Parto anonimo: quali effetti? Nel momento in cui la madre manifesta la volontà di partorire in forma anonima, l’ufficiale di stato civile, quando riceve la dichiarazione di nascita da parte del personale medico-infermieristico dell’ospedale ove il bambino è nato, gli dà un nome e un cognome e procede alla formazione dell’atto di nascita in cui risulterà scritto “figlio di donna che non consente di essere nominata” ed effettua la segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni per la sua dichiarazione di adottabilità. Questa procedura può essere interrotta dalla richiesta di un termine per il riconoscimento, non superiore a due mesi, presentata da uno dei genitori. Decorso il termine, se il genitore non effettua il riconoscimento, il tribunale per i minorenni provvede a dichiarare lo stato di adottabilità.

Diritto a conoscere le proprie origini. Il figlio ha diritto a conoscere le proprie origini. Compiuti 25 anni può infatti presentare al tribunale dei minori una domanda per accedere alle informazioni relative alla sua origine e all’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche dopo i 18 anni, ma solo se vi sono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica.

Se però, come abbiamo detto, il diritto di essere riconosciuto dal padre è incondizionato (pertanto il giovane che sappia o ha il sospetto dell’identità del padre, può fare un azione per il riconoscimento coattivo), non vale lo stesso nei confronti della madre che invece ha chiesto di rimanere anonima. In quest’ultimo caso, come abbiamo anticipato, il figlio ha diritto a conoscere le proprie origini materne solo nel momento in cui questa decede.

Inoltre la Cassazione ha di recente detto [sent. n. 6963/20.03.2018] che il diritto a conoscere le proprie origini non si estende solo ai genitori, ma anche ai fratelli e sorelle di cui il figlio può chiedere quindi di sapere i nomi.

La Corte ha ritenuto che un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma, possa includere, oltre ai genitori biologici – in particolare nell’ipotesi in cui non sia possibile risalire ad essi – anche i più stretti congiunti come i fratelli e le sorelle. Si tratta per l’adottato di un diritto di primario rilievo nella costruzione dell’identità personale che si completa con la scoperta della propria genealogia biologico-genetica.

Redazione news La legge per tutti 4 novembre 2017

www.laleggepertutti.it/211271_parto-anonimo-si-ha-diritto-a-conoscere-le-proprie-origini

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Come si calcolano gli alimenti a moglie e figli

Criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento per l’ex coniuge e per i figli minorenni o maggiorenni: l’abbandono del tenore di vita come parametro di quantificazione dell’assegno di divorzio.

Con la separazione e il divorzio, il coniuge che sta meglio economicamente, ossia che ha un reddito più alto, deve mantenere l’ex famiglia: moglie e figli. Non importa che la separazione sia avvenuta contro la sua volontà, per volere cioè solo dell’altro coniuge che, magari, non è più innamorato, ha perso ogni interesse o non condivide lo stile di vita dell’altro. L’unico caso in cui si è esonerati dal pagamento dell’assegno di mantenimento, almeno all’ex coniuge (e non ai figli), è quando quest’ultimo ha posto un comportamento contrario ai doveri del matrimonio, ricevendo con il cosiddetto “addebito”. È ad esempio il caso di chi tradisce, si allontana definitivamente da casa per non tornarvi più, di chi umilia o maltratta l’altro, lo vessa, gli fa mancare i mezzi materiali di cui vivere o l’assistenza morale. In tutte le altre ipotesi, il problema diventa subito definire come si calcolano gli alimenti a moglie e figli. Ed è purtroppo proprio su questo campo che le coppie non trovano mai accordo e finiscono per optare per una separazione giudiziale piuttosto che consensuale. Con tutte le conseguenze che ne derivano, sia in termini di tempi che di costi.

Le guerre giudiziali si giocano a volte per poche decine di euro al mese in più o in meno. Questo perché non esiste un criterio certo, definito e matematico per stabilire come si calcolano gli alimenti a moglie e figli. La legge fissa solo dei parametri generici, sulla scorta dei quali il giudice deve orientarsi in base alla valutazione dei fatti concreti e delle prove addotte. Insomma, ogni caso è a sé ed è impossibile fare pronostici.

Anche i numerosi calcolatori online che si trovano su internet non hanno alcuna validità scientifica posto che, come abbiamo appena detto, nessuna norma fissa come quantificare il mantenimento dell’ex coniuge o dei bambini.

Detto ciò, in questo articolo cercheremo quanto meno di capire quali sono gli elementi e i parametri che possono influire in questa valutazione del tribunale. Valutazione che, se dovessero sopravvenire nuovi e ulteriori fatti, potrà sempre essere rivista in un momento successivo.

Come si calcolano gli alimenti della moglie?Innanzitutto dobbiamo fare delle precisazioni di tipo terminologico. In verità non è corretto parlare di “alimenti” ma di mantenimento. E neanche. Abbiamo un:

  1. Assegno di mantenimento che è quello che viene determinato dopo la separazione in attesa che la coppia divorzi;

  2. Assegno di divorzio (o divorzile) che è quello determinato dopo il divorzio.

Gli alimenti – almeno da un punto di vista giuridico – sono tutta un’altra cosa. Ma poiché non è questa la sede per parlarne, rinviamo alla nostra guida:

www.laleggepertutti.it/167952_come-chiedere-gli-alimenti

  • Assegno di mantenimento nella separazione consensuale. Se marito e moglie si separano in via consensuale saranno loro stessi a decidere l’ammontare dell’assegno di mantenimento. Anche se in teoria il presidente del tribunale dovrebbe fare un controllo di merito su tale ammontare, non essendo possibile rinunciare del tutto a questo diritto se non in presenza di valide ragioni per farlo (ad esempio la disponibilità di altri redditi), alla fine dei conti ciò non succede mai. Così il provvedimento del giudice che omologa l’accordo dei coniugi si limita quasi sempre a prenderne atto e a convalidarlo.

  • Assegno di mantenimento nella separazione giudiziale. Quando invece la coppia decide di farsi guerra, l’assegno di mantenimento viene determinato dal giudice. Il tribunale quantifica l’importo in modo tale da garantire all’ex coniuge il medesimo tenore di vita che aveva durante la convivenza. Questo dovrebbe implicare, almeno in linea teoria, un calcolo di questo tipo: i redditi dei due coniugi vengono prima sommati tra loro e il risultato diviso per due. Così, ad esempio, se il marito guadagna 2.000 euro al mese e la moglie 500, il risultato di questa operazione (2.500 diviso 2) porterebbe ad avere 1.250 euro a testa. Il che significa che il marito dovrebbe versare all’ex moglie un mantenimento pari a 750 euro.

Difatti nella convivenza, gli stipendi dei due coniugi concorrono a formare il tenore di vita della famiglia (tenendo conto che, anche in un regime di separazione dei beni, ciascuno ha l’obbligo di provvedere alle esigenze familiari sulla base delle proprie possibilità comiche). Pertanto, per determinare il tenore di vita della famiglia va considerata la ricchezza complessiva dei due coniugi e, nel momento in cui questi si separano, per lasciare immutato tale tenore, anche la ricchezza va divisa in due.

Si tratta però di un calcolo approssimativo, generico e solo virtuale che non tiene conto ancora di una serie di parametri che a breve vedremo e che vanno a influire sull’ammontare del mantenimento. Fra l’altro non bisogna tenere conto solo degli stipendi dei coniugi ma di qualsiasi altra potenzialità economica (ad esempio la titolarità di patrimoni immobiliari, investimenti, ecc.).

  • Quando spetta l’assegno di mantenimento? Presupposto per l’assegno di mantenimento è la disparità dei redditi tra i due coniugi. In secondo luogo il coniuge con il reddito più basso non deve aver subito l’addebito, nel qual caso non potrà ottenere il mantenimento ma, tutt’al più, gli alimenti se le sue condizioni non gli consentono la sopravvivenza.

  • Quali redditi si considerano per calcolare l’assegno di mantenimento? Numerose sono le variabili che possono influire sul calcolo della ricchezza dei due coniugi e che pertanto possono, nel caso di titolarità in capo al marito, comportare un aumento dell’assegno o, nel caso di titolarità in capo alla, una diminuzione. Ad esempio rilevano:

  • il godimento della casa familiare: come noto, in presenza di figli, la casa finisce alla moglie presso cui i bambini vengono collocati;

  • la disponibilità di redditi da lavoro dipendente o autonomo o imprenditoriale;

  • la titolarità di azioni, obbligazioni o altra ricchezza moglie;

  • l’incremento di redditi derivanti da fattori sopravvenuti (un’eredità, una vincita al gioco, ecc.);

  • le elargizioni economiche fornite da familiare a un coniuge durante il matrimonio se si protraggono anche durante la separazione con regolarità e continuità.

  • Quali elementi possono influire sull’assegno di mantenimento? Come abbiamo anticipato, scopo del mantenimento è di garantire il medesimo tenore di vita. Ma bisogna anche tenere conto del fatto che, con la separazione, le spese vive della famiglia si duplicano (ad esempio non ci sarà più un solo affitto da pagare, una sola bolletta, una sola assicurazione dell’auto). Il che significa che sarà impossibile mantenere il medesimo tenore di vita. Il giudice è quindi chiamato a considerare:

  • da un lato tutte le spese cui va incontro chi deve pagare il mantenimento: come l’affitto, il mutuo della casa intestata, ecc.;

  • dall’altro le spese e i benefici che ricadono sul coniuge che invece percepisce il mantenimento: da un lato la casa familiare, ma anche le relative spese condominiali, e così via. Ad esempio vanno ricomprese le seguenti spese:

  • spese condominiali o canoni di locazione;

  • spese di manutenzione della casa familiare e di altri immobili nella disponibilità della famiglia;

  • spese per personale domestico: colf, baby sitter, badante;

  • bollette per le utenze;

  • tassa rifiuti;

  • IMU;

  • spese scolastiche e per la frequenza a scuole private;

  • spese mediche;

  • spese per le vacanze estive e durante altri periodi dell’anno;

  • bolli e assicurazione di vetture e motocicli;

  • ricariche telefoniche;

  • spese per trasporti pubblici.

Oltre alle spese cui gli ex coniugi vanno incontro, per calcolare l’assegno di mantenimento all’ex coniuge concorrono anche i seguenti elementi:

  • breve durata del matrimonio: secondo una giurisprudenza consolidata, tanto breve è stato il matrimonio tanto inferiore è il mantenimento;

  • giovane età del coniuge beneficiario dell’assegno: tanto più questi è capace di lavorare, ed è nelle condizioni di salute per farlo, tanto maggiore è su di lui l’onere di non gravare sull’ex;

  • formazione ed esperienza lavorativa del coniuge beneficiario dell’assegno: se questi è in grado di procurarsi un reddito non potrà pesare per molto sulle tasche dell’ex. Può assumere rilevanza la possibilità effettiva di svolgere un’attività retribuita da parte del coniuge economicamente più debole, attività che sia adeguata alla qualificazione professionale e alla dignità personale del coniuge tenuto anche conto delle condizioni economiche e sociali godute prima della crisi matrimoniale;

  • presenza di patrimoni nascosti: il giudice è libero di avviare indagini (tramite la polizia tributaria) per verificare se i dati fiscali dichiarati dai coniugi corrispondono al vero. Tuttavia l’effettiva ricchezza può essere anche desunta dallo stile di vita tenuto dalla coppia (viaggi, abitazioni di lusso, ecc.);

  • presenza di una nuova famiglia e di sopravvenuti figli da parte del coniuge tenuto a versare l’assegno: il diritto a formarsi un nuovo nucleo familiare è infatti tutelato dalla Costituzione e non può essere ostacolato o peggio sanzionato con l’obbligo di mantenere intatto l’assegno di mantenimento all’ex. Questa circostanza quindi ne implica una diminuzione sostanziale.

Assegno di divorzio. Passiamo ora a verificare come si calcola l’assegno di divorzio. Questo non è che la continuazione dell’assegno di mantenimento, sebbene con una finalità diversa. Se nessuno contesta che qualcosa è cambiato, il giudice può fare riferimento alla regolamentazione della separazione.

Al di fuori di tali ipotesi la cassazione ritiene che gli accordi con cui i coniugi in sede di separazione intendono regolare i loro reciproci rapporti economici in relazione al futuro divorzio, con riferimento all’assegno di mantenimento, sono nulli per illiceità della causa.

La concezione dell’assegno di divorzio è stata radicalmente cambiata con la Sentenza Grilli del 10 maggio 2018 firmata dalla Cassazione [sent. n. 11504/10.05.2017]. Secondo il mutato orientamento, tale assegno non deve più essere finalizzato a garantire lo stesso tenore di vita che la coppia aveva quando era ancora convivente, ma solo l’autosufficienza economica al coniuge più debole.

Chi chiede l’assegno di divorzio deve dimostrare che non è in grado di provvedere a se stesso e che ciò non dipende da propria inerzia nel cercare lavoro. L’accertamento dell’autosufficienza economica avviene in base a indici precisi:

  • possesso di redditi;

  • possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari;

  • capacità e possibilità effettive di lavoro;

  • stabile disponibilità di un’abitazione.

Questi elementi possono spostare l’ago della bilancia e decretare il diritto o meno all’assegno di divorzio. Chi percepisce l’assegno e teme di perderlo, tuttavia, non sarà chiamato – precisa la Cassazione – a fornire la difficile (se non impossibile) prova dell’impossibilità assoluta di trovare un’occupazione, se la sua mancata autosufficienza possa comunque desumersi. Secondo il Tribunale di Milano [2], per indipendenza economica si deve intendere la capacità dell’ex coniuge (ossia di una persona adulta e sana, tenuto conto del contesto sociale in cui vive) di provvedere al proprio sostentamento, ossia di mantenersi da solo. Ciò richiede il possesso di risorse sufficienti per le spese essenziali (vitto, alloggio) o per esercitare i diritti fondamentali (medicine, trasporto, ecc.). Un reddito che non consente di provvedere a queste spese “primarie” per la persona non può garantire l’autosufficienza e l’indipendenza economica. Ma a quanto ammonta questo reddito? Secondo il giudice lombardo corrisponde al reddito sufficiente per accedere al «gratuito patrocinio», ossia 11.528,41 euro all’anno: circa mille euro al mese. Superata questa soglia si dovrebbe negare l’assegno di divorzio.

Un altro indice, poi, potrà ravvisarsi nel «reddito medio percepito nella zona in cui il richiedente vive ed abita».

Alla luce di ciò si può dire che attualmente hanno diritto all’assegno di divorzio solo coloro che:

  • non sono più nell’età o nelle condizioni di salute per lavorare;

  • hanno almeno 45-50 anni e si sono sempre dedicati alla famiglia, per cui hanno perso un legame col mondo del lavoro; quindi non hanno come mantenersi;

  • pur essendo giovani, danno prova di aver tentato di trovare un lavoro e che la loro disoccupazione non è dipesa da inerzia.

Gli alimenti dei figli? Per il mantenimento dei figli valgono due regole fondamentali:

  1. è necessario garantire loro lo stesso tenore di vita di cui godevano quando i genitori erano uniti;

  2. il mantenimento non cessa con la maggiore età ma con l’indipendenza economica degli stessi. Indipendenza che, tuttavia, qualora dovesse essere persa dopo poco (si pensi a un figlio assunto a tempo indeterminato ma licenziato dopo solo un anno), non fa più rivivere il diritto al mantenimento. Sicché, una volta perso l’assegno questo non può più essere rivendicato, neanche a seguito di perdita di lavoro.

Al crescere dell’età del figlio cresce la presunzione che la sua assenza di reddito non dipenda dalle condizioni di mercato ma da inerzia. Sicché la Cassazione ha ritenuto che oltre i 35 anni si perde naturalmente il diritto al mantenimento.

Come stabilire che il figlio è divenuto indipendente? Non si può trattare di un lavoro precario né di uno non confacente alla sua formazione. Non è tale una borsa di studio, ma lo è un contratto part-time.

Come si quantifica il mantenimento per i figli? L’assegno deve essere quantificato non considerando solo il reddito ma anche altri elementi di ordine economico suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti, quali la disponibilità di un consistente patrimonio anche mobiliare e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso.

Nel determinare l’importo dell’assegno di mantenimento il giudice deve valutare anche la complessiva consistenza dei patrimoni dei genitori. Facendo riferimento alle risorse economiche la legge impone di prendere in considerazione non soltanto i redditi da attività lavorativa, ma più in generale ogni altra forma di reddito o utilità, come il valore dei beni mobili o immobili posseduti, le quote di partecipazione sociale, i proventi di qualsiasi natura percepiti.

Non rientrano invece tra le risorse economiche da considerare ai fini dell’assegno di mantenimento gli aiuti che i familiari forniscono a un coniuge durante o dopo il divorzio o comunque i contributi eventualmente corrisposti da terzi non giuridicamente vincolati.

Il genitore affidatario del figlio minorenne ha diritto a percepire gli assegni familiari corrisposti per il figlio all’altro coniuge, indipendentemente dall’ammontare dell’assegno di mantenimento.

Per quantificare l’assegno di mantenimento dei figli il giudice deve tenere conto dei seguenti parametri:

  • le attuali esigenze del figlio (anche sotto il profilo dell’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, dell’assistenza morale e dell’opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione);

  • il tenore di vita goduto dal figlio durante la convivenza con entrambi i genitori: a tal fine, il giudice non può limitarsi a considerare soltanto il reddito ma deve valutare anche altri elementi di ordine economico in grado di incidere sulle condizioni delle parti, quali la disponibilità di un consistente patrimonio anche mobiliare e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso. Il giudice non può disporre la riduzione dell’assegno, anche se si tratta di una somma cospicua, sul solo rilievo che un importo elevato potrebbe risultare diseducativo. Ciò perché la legge impone di determinare l’assegno considerando le esigenze dei figli in rapporto al tenore di vita goduto durante la convivenza con entrambi i genitori e alle risorse e ai redditi di costoro;

  • i tempi di permanenza presso ciascun genitore;

  • le risorse economiche di entrambi i genitori, in relazione alla consistenza dei loro patrimoni (i redditi da attività lavorativa, ma più in generale ogni altra forma di reddito o utilità, come il valore dei beni mobili o immobili posseduti, le quote di partecipazione sociale, i proventi di qualsiasi natura percepiti);

  • la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore (come fare la spesa, cucinare, accompagnare i figli a scuola, provvedere alle faccende domestiche, lavare, stirare, aiutare i figli nello svolgimento dei compiti scolastici). Maggiore è il tempo che il figlio trascorre con un genitore, maggiori sono i compiti di natura domestica.

Nell’assegno di mantenimento sono comprese solo le spese ordinarie.

Oltre a ciò il giudice ordina al genitore obbligato di corrispondere una percentuale (di solito il 50%) delle spese straordinarie (ad esempio le spese mediche, per attività sportive, per viaggi e istruzione).

www.laleggepertutti.it/150094_mantenimento-figli

Redazione La Legge per tutti 4 giugno 2018

www.laleggepertutti.it/211762_come-si-calcolano-gli-alimenti-a-moglie-e-figli

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ASSEGNO DIVORZILE

Assegno di soli 200 euro per l’ex moglie disoccupata

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 14231, 4 giugno 2018

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_30722_1.pdf

La Cassazione insiste sull’addio al tenore di vita, quale parametro di riferimento per la misura dell’assegno divorzile, e ribadisce la valutazione esclusiva sulla base dell’indipendenza o autosufficienza economica

Ex moglie disoccupata e senza altri redditi? Percepirà comunque un assegno di divorzio minimo. Lo ha confermato la Cassazione, respingendo tutte le osservazioni proposte da una donna nei confronti dell’assegno di soli 200 euro al mese disposto a carico dell’ex marito.

La vicenda. La signora ricorreva avverso la sentenza della Corte d’Appello di Salerno che nel dichiarare cessati gli effetti civili del matrimonio, aveva posto a carico dell’uomo un assegno divorzile di appena 200 euro mensili. Sosteneva, invece, che nel procedere alla valutazione delle condizioni economiche delle parti, la sentenza impugnata non aveva tenuto conto della disparità delle rispettive posizioni, atteso che, a seguito della separazione, la stessa non era in grado di “mantenere autonomamente il tenore di vita pregresso, essendo disoccupata e sfornita di redditi, in quanto priva di una qualificazione professionale, non disponendo di una propria abitazione, per effetto della vendita della casa coniugale da parte del marito e avendo dovuto per tale motivo trasferirsi” in altra città.

Sbaglia la donna, scrivono nel provvedimento, ad invocare il tenore di vita pregresso, quale parametro di riferimento per la commisurazione dell’assegno divorzile. Ciò perché, come affermato dal più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, “l’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, al cui accertamento l’art. 5 della legge n. 898 del 1970 subordina il riconoscimento del contributo in questione, dev’essere valutata con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica dello stesso” (cfr. Cass., Sez. VI, n. 23602/2017; Cass., Sez. I, n. 11504/2017).

Anche a voler ritenere, concludono dal Palazzaccio, che, “attraverso l’allegazione del proprio stato di disoccupazione e dell’indisponibilità di redditi propri e di un’abitazione la donna abbia inteso fare riferimento a tale diverso parametro”, la censura non può trovare ingresso in Cassazione, giacché si risolve nel richiamo ad elementi già presi in considerazione dalla sentenza impugnata, e dunque nella sollecitazione di un nuovo apprezzamento dei fatti, non consentito in sede di legittimità.

La signora rimane quindi a bocca asciutta e dovrà pagare anche le spese processuali, ammontanti a 1.500 euro oltre ad accessori di legge.

Marina Crisafi Newsletter Giuridica Studio Cataldi 7 giugno 2018

www.studiocataldi.it/articoli/30722-divorzio-assegno-di-soli-200-euro-lper-l-ex-moglie-disoccupata.asp

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CHIESA CATTOLICA

Sinodo sull’Amazzonia, Baldisseri: “Sui ministeri libertà alla discussione”

All’Assemblea dell’ottobre del 2019 sarà presente anche una rappresentanza di indigeni

La Chiesa «è prudente e lascia libertà alla discussione»: il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo, delinea così il perimetro del dibattito che riguarderà la necessità di «valutare e ripensare i ministeri» all’assemblea che Papa Francesco ha convocato a ottobre del 2019 sul tema “Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale”.

https://it.zenit.org/articles/card-lorenzo-baldisseri-presenta-il-documento-preparatorio-dellassemblea-speciale-del-sinodo-dei-vescovi-per-la-regione-panamazzonica

Nel corso della conferenza stampa per la presentazione del documento preparatorio, oggi in Sala Stampa vaticana, molte domande dei giornalisti si sono concentrate su un passaggio del testo, contenuto nel paragrafo 14, nel quale si legge che: «Occorre individuare quale tipo di ministero ufficiale possa essere conferito alla donna, tenendo conto del ruolo centrale che le donne rivestono oggi nella Chiesa amazzonica. È altresì necessario sostenere il clero indigeno e nativo del territorio, valorizzandone l’identità culturale e i valori propri. Infine, bisogna progettare nuovi cammini affinché il popolo di Dio possa avere un accesso migliore e frequente all’eucaristia, centro della vita cristiana».

Un riferimento implicito alla possibilità di ordinare uomini sposati di provata fede, i cosiddetti “viri probati”, per rispondere al «gemito di migliaia di comunità private dell’Eucaristia domenicale per lunghi periodi» a causa dell’estensione dell’Amazzonia? I «nuovi cammini», ha risposto Baldisseri citando il documento, «dovranno incidere sui ministeri, sulla liturgia e sulla teologia (teologia india)». Questo, ha proseguito, «sarà il cammino da fare, vediamo in che maniera: qui abbiamo le domande che facciamo», ma il documento preparatorio, ha ricordato, non è l’Instrumentum laboris, ossia il testo di lavoro che verrà compilato a valle delle risposte raccolte da oggi dalla Segreteria del Sinodo. «Non abbiamo noi le risposte o le proposte o i suggerimenti».

Con il documento, ha insistito il porporato, «abbiamo fatto un grande lavoro di investigazione, grazie soprattutto alla Repam, la Rete Ecclesiale Panamazzonica che è sul posto, e abbiamo scorso queste esigenze, queste urgenze, nel documento parliamo anche di “gerarchia delle urgenze”, che qui sono state messe in fila». Ora c’è un «lavoro da fare» ma «io non posso dare nessuna risposta».

A chi domandava quali sono gli spazi della discussione, al di qua della esclusione delle donne dal sacerdozio, recentemente ribadito dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede Luis Ladaria, e al di là della prassi attuale, Baldisseri ha spiegato che «gli spazi sono quelli che la Dottrina della Chiesa dice e quella che è la disciplina attuale: ma siccome la Chiesa non è statica, ha 2000 anni di storia e c’è sempre un movimento, vedremo… Io non posso dire quel che accade e nemmeno sapere quali sono gli spazi, posso dire che lo spazio attuale è quello che è stato definito recentemente, poi lasciamo aperto a chi vuole opinare, dire, parlare».

www.lastampa.it/2018/05/29/vaticaninsider/il-prefetto-della-fede-il-no-alle-donne-prete-dottrina-definitiva-ntbyfKGbbnANB0TxEzeIgO/pagina.html

«Nella Chiesa – ha proseguito il porporato toscano – abbiamo imparato da Papa Francesco che quel che conta è avere parresia, franchezza di dire e anche fare delle proposte: siamo in questa linea. Noi come Sinodo abbiamo tranquillamente posto nel documento preparatorio queste frasi, queste esigenze che venivano naturalmente dal basso, da quello che abbiamo ascoltato. Ora non mettiamo i buoi davanti al carro: vogliamo solo offrire questo spazio di discussione, di ricerca. La chiesa non opprime l’intelligenza, non dice “non pensiamo più”, lascia la libertà di potersi esprimere. Naturalmente c’è un magistero, una disciplina che è presente ed è costituita. Ma non potrei dire di più di quel che è stato scritto nel documento».

In particolare, la «sottolineatura» relativa al ruolo della donna «non viene da qui, viene da molto lontano», ha detto Baldisseri, «continuamente possiamo ascoltare le parole del Papa come di altri che c’è bisogno di dare più spazio alla donna a tutti i livelli». E se qualcuno faceva notare che il termine “viri probati” è assente dal documento preparatorio, il segretario del Sinodo ha risposto che «questa espressione che gira da parecchio tempo è stata presa e interpretata in vari modi: noi qui abbiamo collocato la parola “ministeri” perché vogliamo far decantare questa espressione. Lasciamo libertà alla gente di dirla, ma non esigete che noi la dobbiamo dirla in questa forma. Qua non c’è una dichiarazione ufficiale da parte della Santa Sede sui “viri probati”, lasciamo che questo tema faccia il suo corso e vedremo quel che potrà accadere. Certo è che il discorso non si concentra in un tema come questo, qui si parla di “ministeri” e i ministeri sono tanti, non ci sono solo i “viri probati” di cui si parla, persone già sposate che possano accedere al sacerdozio».

Insomma, «la Chiesa è molto prudente e lascia libertà alla discussione: non vogliamo precludere niente» e «al tempo stesso la Chiesa in questo momento è nella sua posizione classica, quella dell’insegnamento che riguarda il sacerdozio nella disciplina della Chiesa latina». In generale, ha sottolineato Baldisseri, «lasciamo il tempo necessario alla riflessione affinché possiamo raccogliere queste riflessioni e poi proporle nell’Instrumentum laboris ai padri sinodali».

(L’articolo prosegue)

Jacopo Scaramuzzi Vatican insider 8 giugno 2018

www.lastampa.it/2018/06/08/vaticaninsider/sinodo-sullamazzonia-baldisseri-sui-ministeri-libert-alla-discussione-PtaXGB3cWxCk2RCnyt9rvM/pagina.html

 

Donne-prete, la sfida a Francesco

L’ipotesi dell’ammissione della donna-prete incombe anche sul pontificato in corso, che non può smentire il categorico no, in proposito, di papa Wojtyla ma, nel contempo, vede cardinali, a lui vicini, che hanno idee diametralmente opphttp://www.cittadellaeditrice.com/munera/il-dispositivo-ratzinger-una-delle-radici-dellattuale-paralisi-ecclesiale/oste su una prospettiva rivoluzionaria rispetto allo status quo della Chiesa romana. Giovanni Paolo II, riprendendo, con piglio più energico, il no già pronunciato nel 1976 da Paolo VI, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 1994 proclamò: “In virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa».

A parte Chiese della Riforma che da decenni hanno donne pastore e vescove, anche in casa cattolica il mondo teologico, e anche gruppi di base più agguerriti, respinsero il tono ultimativo del pontefice polacco. E sostennero che Gesù, scegliendo dodici apostoli maschi, si era semplicemente adattato alla mentalità patriarcale della sua epoca, senza voler dare norme per il futuro della sua Chiesa. Del resto gli apostoli erano tutti ebrei, ma poi come vescovi furono scelti uomini provenienti dal mondo pagano. Divenuto papa, Bergoglio ha ribadito la intangibilità del “no” del predecessore.

Ma due mesi fa l’arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schönborn, in un’intervista auspicò che al più presto fosse convocato un Concilio per accogliere la donna in tutti i ministeri ecclesiali, compresi diaconato, sacerdozio ed episcopato: «La questione dell’ordinazione è una questione che può essere chiarita solo da un Concilio. Un papa non può decidere da solo». Quel prelato austriaco non è un teologo qualsiasi: infatti Francesco lo stima tanto che nell’aprile del 2016 affidò proprio a lui la presentazione ufficiale della sua esortazione apostolica Amoris lætitia che, caso per caso e dopo discernimento, ammette all’Eucaristia persone divorziate e risposate civilmente. Perciò, l’uscita di Schönborn, arrivata come un fulmine, ha posto non pochi problemi al papa, il quale ha infine deciso di tacere, affidando la risposta a monsignor Ladaria Ferrer, il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede che a fine giugno riceverà da lui la porpora. Egli, la settimana scorsa, con un articolo su “L’Osservatore Romano”, ha ribadito che ogni cattolico deve accettare il “no” di Wojtyla, come se fosse un pronunciamento infallibile.

Però l’arcivescovo di Vienna non ha fatto “mea culpa”; e settori cattolici hanno accusato Ladaria di voler “mantenere strutture patriarcali che, certo, non sono volute da Dio”. Insomma: la disfida è ormai lanciata, e il problema graverà sul futuro conclave, quando sarà. Il nuovo pontefice vorrà, allora, ribadire uno status quo che scricchiola da tutte le parti o, invece, convocherà un Concilio, presenti “padri” e “madri”, per affrontare un tema cruciale per la Chiesa del terzo millennio?

Luigi Sandri “Trentino” 4 giugno 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201806/180604sandri.pdf

 

Il “Dispositivo-Ratzinger”. Una delle radici dell’attuale paralisi ecclesiale

In questo testo vorrei analizzare con una certa precisione un “modello di argomentazione” che a partire dagli anni ‘70 si è diffuso nel discorso ecclesiale cattolico e ha assicurato progressivamente una vera e propria “paralisi” di quell’orientamento alla riforma e ai processi di aggiornamento, che il Concilio Vaticano II aveva provvidenzialmente reintrodotto nella vita della Chiesa. Altrove ho già trattato il fenomeno, identificando una sorta di “stile magisteriale”, che si basava su una strategia paradossale: negando la propria autorità, esso conserva tutta la sua autorità.

http://www.cittadellaeditrice.com/munera/chiesa-in-uscita-e-esercizio-dellautorita-oltre-un-luogo-comune-del-magistero-recente

1. Il problema della autorità. Nel testo citato osservavo già due anni fa come, nel dibattito ecclesiale scaturito dalle parole profetiche di papa Francesco sulla “Chiesa in uscita” e sul “superamento della autoreferenzialità” non si fosse ancora chiaramente compreso quanto questa priorità, che giustamente il papa ha enunciato fin dai primi giorni del suo ministero – e che già era chiaramente presente nel suo testo presentato alla Congregazione dei Cardinali in conclave – richiedesse una profonda revisione dello stile con cui la Chiesa pensa e agisce rispetto al tema del “potere” e della “autorità”. Per poter “uscire dalla autoreferenzialità” e diventare davvero “eteroreferenziale” – ossia per non mettere al centro sé, ma l’Altro e l’altro – la Chiesa deve anzitutto riconoscere di essere investita di una reale ed efficace autorità. In altri termini, essa deve poter confidare nella possibilità di intervenire autorevolmente sulla propria dottrina e disciplina – su ciò che pensa di sé e su ciò che fa di sé -, senza cedere alla tentazione di “impedirsi un ripensamento”, magari in nome della fedeltà alla tradizione.

Se la Chiesa pensa che l’unico modo di essere fedele al Vangelo sia continuare in tutto e per tutto come prima – sia dottrinalmente sia disciplinarmente – si convincerà subito di dover restare assolutamente immobile per essere pienamente se stessa. Farà dell’immobilismo la sua ossessione. A questa tentazione Francesco ha voluto rispondere con tre anni di una parola profetica, che vuole anzitutto persuadere la Chiesa e il mondo di due cose:

  1. che la fedeltà è mediata dal movimento, dalla conversione, dall’uscire per strada, non dalla stasi, dalla paura e dal chiudersi tra le mura;

  2. che per muoversi occorre riconoscersi la autorità di stare nella storia della Chiesa e della salvezza in modo partecipe e attivo, non come spettatori muti e passivi o come semplici “notai”.

Ma questa considerazione trova più di una resistenza non soltanto nella inevitabile inerzia del modello da superare, ma anche in alcuni “luoghi comuni”, di cui vorrei considerare quello che possiamo esprimere come la riduzione della autorità alla “rinuncia alla autorità”. Si tratta di un luogo comune molto affascinante, che assume talvolta una notevole rilevanza nella esperienza ecclesiale e che il magistero può e deve utilizzare in passaggi complessi. Si traduce, formalmente, in una dichiarazione di “non possumus”. E’ questo uno dei punti chiave del “magistero negativo”, che la tradizione antica, medievale e moderna ha coltivato con attenzione e con cura. Si tratta, in ultima analisi, di una “autolimitazione del magistero”. Ma tale autolimitazione, che di per sé è a garanzia di “altro”, e che dunque dovrebbe arginare e ostacolare le forme della autoreferenzialità ecclesiale, è entrata con grande forza nella esperienza ecclesiale degli ultimi decenni, in particolare a partire dalla fine degli anni 70.

2. Il “dispositivo di blocco”. Ora vorrei identificare con maggior chiarezza il cuore di tale argomentazione in un ragionamento artificioso – che per certi versi appare come una sorta di “sofisma” – e che non è difficile attribuire a J. Ratzinger, in una parabola temporale di almeno 35 anni, che va dal 1977 al 2012. Si tratta di un “dispositivo teorico” che realizza, mediante una indiscutibile finezza retorica, un risultato prestabilito: bloccare ogni cambiamento e far prevale, affettivamente prima che concettualmente, un primato dell’antico sul moderno. E’ un “dispositivo di blocco”, che blocca affettivamente, “per attaccamento”, ogni progetto di riforma.

Prima di analizzare le tappe principali di questo interessante fenomeno, che per brevità chiamerò “dispositivo-Ratzinger”, vorrei chiarire meglio la peculiarità del mio approccio:

a) L’apporto di questo “modello di pensiero” è assai significativo poiché riguarda prima il Ratzinger Arcivescovo, poi il Ratzinger Prefetto e infine il Ratzinger papa: è cioè il frutto non del “primo Ratzinger”, libero da impegni pastorali, ma del “secondo e ultimo Ratzinger”, impegnato con responsabilità crescenti a livello diocesano e poi, ben presto, di Chiesa universale.

b) Il cuore della argomentazione è il frutto non soltanto di una indiscutibile competenza teologica, ma anche della abdicazione alla ragione, in una forma piuttosto marcata, per dar spazio ad un “affetto”, o, ancora meglio, ad un “attachement”, ad una “attaccamento” irrinunciabile e assunto come auctoritas indiscutibile: la ratio cede ad una auctoritas affettivamente sovradeterminata, e per questo incontrollabile.

c) Per tale motivo oso attribuire al ragionamento la qualificazione di “dispositivo”: esso non spiega razionalmente, ma avvalora retoricamente e impone giuridicamente una soluzione che non ha solide basi se non in un affetto. Ciò determina l’effetto di far “evaporare” ogni legittima istanza di cambiamento, che trasforma immediatamente, e direi quasi violentemente, in una contraddizione con gli affetti e perciò in una negazione e in una minaccia della tradizione.

d) Funziona, infine o forse anzitutto, da supporto teorico perfetto, quasi da assioma indiscutibile, per affermare un assetto resistente e immobile della Chiesa, di fronte ad un mondo minaccioso ed infido, al quale la Chiesa non deve piegarsi. Recuperando temi e motivi dell’antimodernismo di un secolo prima, il “dispositivo” funziona perfettamente da “blocco” contro un Concilio Vaticano II percepito, sempre meno come risorsa e sempre più come “deriva”.

In questo scritto vorrei mostrare questo “dispositivo-Ratzinger” in 4 versioni, storicamente progressive, quasi come una “messa a punto” sempre più affinata e acuta di esso. La presentazione riguarderà, in ordine, 4 documenti ecclesiali del tutto caratteristici di questo approccio:

  1. La “Lettera sulla prima confessione” dell’Arcivescovo di Monaco, Del 1977,

  2. La lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 1994,

  3. La Istruzione Liturgiam authenticam del 2001,

  4. Il Motu Proprio Summorum Pontificum, del 2007, a cui va aggiunta la “lettera ai Vescovi tedeschi” sulla questione del “pro multis”, del 2012.

Al cuore di ognuno di questi documenti, in un arco di ben 35 anni, si trova lo stesso meccanismo argomentativo, chiaramente riconoscibile, affascinante e distraente, limpido e insieme oscuro, in cui attaccamento e ragione si fondono e si confondono. Una breve indagine sarà in grado di portarne alla luce il punto cieco, ma anche il debito che tutti abbiamo verso questo modo di ragionare e di impostare la riflessione sulla tradizione ecclesiale e dal quale, se vogliamo rileggere significativamente il Concilio Vaticano II, dovremmo prima o poi liberarci.

3. Quattro esempi del “dispositivo”

3.1. Nelle premesse è insinuata la conclusione: Lettera sulla prima confessione. Il primo “luogo dottrinale” in cui è messo in opera il “dispositivo Ratzinger” è il rapporto tra prima confessione e prima comunione, che l’allora Arcivescovo di Colonia reimposta “contro” la svolta impressa dal suo predecessore, card. J. Doepfner, il quale aveva spostato la prima confessione dopo la prima comunione. La pretesa è di contrastare un “uso pedagogico” della tradizione, ma la teologia che dovrebbe guidare il nuovo avviso si identifica, semplicemente, con la “evidenza affettiva” del principio di autorità. Nel testo della lettera pastorale “Prima confessione e prima comunione dei fanciulli” (1977) Ratzinger arriva a capovolgere il senso della tradizione, pur di garantire la sopravvivenza della prassi (per lui) più tradizionale, affermando un primato di un sacramento di guarigione rispetto ad un sacramento di iniziazione, in grave tensione addirittura con il Concilio di Trento e con la differenza “di dignità” che esso esige sia riconosciuta tra i sacramenti. Egli afferma infatti: “solo con la confessione personale diventano vere le invocazioni di perdono della liturgia eucaristica e questa liturgia eucaristica della Chiesa conserva la sua grande profondità personale che per altro è il presupposto della vera comunione” (9). Giunge così a subordinare la comunione eucaristica alla confessione personale, come regola di approccio originario al senso della comunione stessa, con una evidente e grave forzatura della tradizione. Tutto questo, oltretutto, argomentato con una motivazione davvero sorprendente: il nuovo Arcivescovo chiede agli operatori pastorali di “lasciare le proprie idee più care per il bene della comunità”, ma di fatto, con questa lettera, egli impone le proprie idee più care – quelle per lui affettivamente più urgenti – a scapito del cammino di maturazione della comunità. Usare la Didaché come testo-chiave per affermare il primato della confessione individuale sulla comunione eucaristica è una argomentazione priva di fondamento e un uso della “auctoritas” del tutto anacronistico e privo di riscontro storico. Ma qui, per la prima volta, appare il “dispositivo Ratzinger”: argomentando senza vero rigore, e in modo puramente affettivo, egli ottiene soltanto una “conformazione autoritaria” del comportamento, senza motivazione teologica consistente.

3.2. Documenti non infallibili e prassi infallibili: la spiegazione di Ordinatio Sacerdotalis. Molti anni dopo, nel 1994, con Ordinatio sacerdotalis, di cui Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede fu il grande ispiratore, sul tema della “ordinazione delle donne al sacerdozio”, riprende con forza questo stile, dichiarando che “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”. Con una dichiarazione di “non autorità”, e di cui egli stesso chiarisce più tardi, la natura “non infallibile”, si vuole chiudere la questione, pur non escludendo che “altre ordinazioni” siano percorribili. La negazione della autorità determina la conferma della forma classica del potere ecclesiale e addirittura pretende di riconoscere, non infallibilmente, una tradizione infallibile. Sposta la infallibilità dal documento alla tradizione, con un salto mortale argomentativo assai azzardato. Senza assumere alcuna nuova autorità, si riconosce autorità soltanto al passato, senza tematizzazione alcuna delle novità culturali, antropologiche ed ecclesiali che l’ultimo secolo aveva recato, come se la storia non fosse. Nel cuore del documento, e della sua esplicazione successiva, appare con chiarezza, di nuovo, il “dispositivo Ratzinger”: affetto, attaccamento e autorità sostituiscono la ragione teologica. Sentimento e potere, al posto della ragione. Anzi, la ragione dovrebbe, a posteriori, limitarsi a giustificare il sentimento di attaccamento e il principio di autorità.

3.3 Per contraddire l’esperienza: traduzione letterale, anche senza destinatario in LA e nella lettera sul “pro multis”. Alcuni anni dopo, nel 2001, fu Ratzinger l’ispiratore della V Istruzione sulla Riforma Liturgica Liturgiam authenticam, dalla quale scaturiva una nuova versione del “dispositivo di blocco”, con la assoluta affermazione del “primato del latino” sulle “lingue vernacole”. L’effetto di questa teoria priva di alcun fondamento storico – nella quale si arrivava a stabilire la irrilevanza della lingua dei destinatari e la pretesa di “traslitterare le figure retoriche latine” – era duplice: la paralisi del rapporto tra periferia e centro nella gestione delle traduzioni liturgiche e la dimenticanza che la “vita ecclesiale” non pulsava più nelle vene del latino, ma in quelle delle lingue nazionali, che non erano più, ormai da 50 anni, lingue di traduzione, ma lingue di esperienza e di creazione. Una ripresa successiva, nella Pasqua del 2012, da parte di papa Benedetto, di una lettera ai Vescovi tedeschi, sulla questione del “pro multis” metteva in luce, ancora una volta, la forza del “dispositivo-Ratzinger”: la traduzione letterale “fuer viele” doveva imporsi “affettivamente” e “autoritativamente”, poiché sul piano concettuale doveva essere smentita da una catechesi accurata, che spiegasse come “per molti” significhi “per tutti”. Una immagine di singolare evidenza della contraddizione interna al “dispositivo-Ratzinger”.

3.4. Parallelismo rituale, con effetto anarchico: Summorum Pontificum, monstrum romanæ curiæ. L’ultima tappa di questo percorso efficace del “dispositivo” si incontra nel 2007, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, mediante il quale, mentre si creava un parallelismo di forme rituali del medesimo “rito romano”, ci si spogliava della autorità di orientare la liturgia ecclesiale lungo le linee della Riforma Liturgica e si rimettevano in pieno vigore i riti che la Riforma stessa aveva voluto superare, denunciandone i limiti e le distorsioni. Anche in questo caso il Magistero “si autolimita” poiché non avrebbe la autorità di orientare la tradizione e le scelte dei singoli ministri ordinati, ma in tal modo restituisce autorità a forme di esperienza preconciliare. Il “dispositivo-Ratzinger” qui argomenta di nuovo in modo astorico: “ciò che è stato santo una volta, deve poterlo essere sempre”. Dunque la Chiesa non si riconosce alcun potere di Riforma. Ciò che è stato di per sé si perpetua senza alcuna possibilità di orientamento o conversione. E un principio argomentativo, di per sé negativo e puramente astorico, dà causa ad effetti storici assai gravi: perdita di controllo dei Vescovi diocesani, accentramento del controllo in un organo “affettivamente condizionato” – la Commissione Ecclesia Dei -, il diffondersi di una rilevanza “politica” – in senso ecclesiale e in senso mondano – della “forma straordinaria” come “forma reazionaria”. Il dispositivo di blocco non ha fermato le cose: ha sicuramente bloccato lo sviluppo della Riforma e ha generato un vero e proprio “monstrum romanæ curiae”, con conseguenze laceranti facilmente prevedibili.

4. Francesco e il superamento del “dispositivo-Ratzinger”. Come è evidente, tutti questi impieghi del “dispositivo”, sia pure nella loro diversità di contesti e di intenti, fanno ricorso ad un “luogo comune” secolare del magistero. Hanno tutti in comune una sottile dialettica tra “perdita di potere” e “assunzione di potere”: nel momento in cui il magistero dice di “non avere autorità”, lascia nella autorevolezza lo “status quo”. Esso tende ad identificare ciò che è con ciò che deve essere. E pertanto blocca il dibattito sulla relazione tra iniziazione e guarigione, sul ruolo ministeriale delle donne, sulle forme della inculturazione liturgica e sul cammino organico della riforma liturgica. Non è difficile notare come questo “non riconoscimento di autorità” si identifichi con una conservazione del potere acquisito, spesso diventando principio e alimento di una rischiosa inclinazione alla autoreferenzialità. E, come abbiamo visto, nel “dispositivo-Ratzinger” questo risultato è ottenuto mediante una originale sintesi tra “attaccamento affettivo” e “ragione teologica ridotta al principio di autorità”.

In paragone a ciò, il “ritorno al Concilio” di papa Francesco appare segnato dalla esigenza di “ridare autorità” all’azione ecclesiale. Solo così essa potrà uscire dalla “tentazione della autoreferenzialità”. Ma per farlo deve assumere un diverso approccio alla tradizione. La Chiesa non si riconosce come una “storia chiusa”, come un “museo di verità da custodire”, ma come un “giardino da coltivare”. Per questo sarebbe molto utile rileggere il pontificato di Francesco, a cinque anni dal suo inizio, non come una forma incerta e “soft” di ministero pastorale, ma come un ripensamento della forma con cui la Chiesa non rinuncia ad esercitare la autorità e supera il “dispositivo di blocco” che J. Ratzinger aveva messo a punto con tanta finezza per 35 anni.

Francesco assume la esigenza di esercizio della autorità che i suoi predecessori avevano come sospeso, determinando sempre degli esiti caratterizzati da “paralisi”. Francesco ha disinserito il dispositivo, cambiando sia il ruolo dell’attaccamento affettivo, sia il ruolo della ragione teologica. Qui, a me pare, si colloca un elemento di profonda continuità con il Concilio Vaticano II e di inevitabile discontinuità rispetto al “dispositivo-Ratzinger”. La cui incidenza, tuttavia, non è ancora tramontata.

Andrea Grillo blog: Come se non 10 giugno 2018

www.cittadellaeditrice.com/munera/il-dispositivo-ratzinger-una-delle-radici-dellattuale-paralisi-ecclesiale

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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

Rimborso spese adottive 2012\2017.

Chiarimenti sul modello B (certificazione delle spese) e sulla certificazione ingresso in famiglia del minore

www.commissioneadozioni.it/it/rimborso-spese-adottive.aspx

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CONSULENTI DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA

A Milano un nuovo Corso per Consulenti Familiari

La società di formazione, consulenza ed editoria Sperling s.r.l. ha richiesto la collaborazione e il patrocinio dell’AICCeF per programmare ed attivare un nuovo Corso triennale di formazione per Consulenti della Coppia e della Famiglia, che si svolgerà a Milano e inizierà il prossimo settembre 2018.

L’interesse dimostrato dalla società Sperling per la Consulenza familiare e per le professioni d’aiuto, e il desiderio dell’AICCeF di formare nuovi Consulenti familiari in Lombardia dopo tanti anni di attesa, hanno prodotto una proficua sinergia e la programmazione di un Corso completo e qualificato, che avrà come docenti e conduttori nomi di grande competenza e professionalità.

La data del prossimo colloquio di ammissione è: sabato 23 Giugno 2018

c/o E-Network, corso di Porta Romana 46 Milano (orari da definire)

Per tutte le informazioni relative all’attivazione, alle modalità e alla iscrizione al corso di formazione vai su www.grupposperling.it/consulenza-alla-coppia-e-alla-famiglia.php

e sull’allegata Brochure del Corso di Consulenza alla coppia e alla famiglia

news Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari 6 giugno2018

www.aiccef.it/it/news/a-milano-un-nuovo-corso-per-consulenti-familiari.html

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CONSULTORI FAMILIARI DI ISPIRAZIONE CRISTIANA

Rivista Consultori familiari oggi-giugno 2018

La rivista “Consultori familiari oggi”, al suo 26° anno, è l’organo della Confederazione Italiana dei Consultori Familiari di Ispirazione cristiana.

  • Contributi alla vita consultoriale

Cura educativa ed etica della cura. Amelia Broccoli.

Empatia nella relazione educativa. Domenico Simeone

  • Questioni di vita sociale

  • Il valore dell’esperienza

  • Gestire relazioni

  • Recensioni

  • http://www.cfc-italia.it/cfc

Roma, Al Quadraro. Sportello adolescenti, risposta al disagio giovanile

Uno spazio psicologico può permettere ai propri vissuti emotivi e dolorosi di poter essere elaborati a livello psichico senza necessariamente essere “agiti”

%Il percorso evolutivo verso l’identità, che segna l’età adolescenziale, richiede impegno e può comportare disagio e momenti di blocco. «Il disagio è l’espressione di una domanda non ancora patologica riguardante i problemi psicologici e affettivi, le difficoltà familiari e/o di relazione, le difficoltà scolastiche, che gli adolescenti sperimentano». (Melucci, Fabbrini 1991).

È utile considerare il disagio come un processo, un percorso che, se esposto ad una serie di fattori negativi, definiti fattori di deprivazione e di rischio, può evolvere verso forme di disagio cronicizzate e in seguito di disadattamento. Accanto ai fattori di rischio è possibile identificare una serie di fattori protettivi come ad esempio l’autostima, la capacità di interazione sociale, la possibilità di creare legami affettivi, che si ritiene possano esercitare un’azione di tutela degli equilibri psicologici e comportamentali di un individuo, soprattutto in situazioni di stress. (Rocchetta, Tofani,1991).

In quest’ottica il Consultorio diocesano “Al Quadraro” offre lo Sportello adolescenti, che si propone come spazio in cui trovare diversi tipi di risposte. Offre la possibilità di soddisfare il bisogno di esprimere, comunicare, condividere ciò che a volte, se taciuto, può diventare fonte di disagio. Uno spazio in cui è possibile ricevere sostegno, ascolto, comprensione. Uno spazio dove più semplicemente è possibile ottenere informazioni da professionisti che offrono discrezione e competenza.

Per fare un esempio di come lo sportello d’ascolto permetta di approfondire la conoscenza di sé, vi racconto di Federico, 15 anni, che alla conclusione del suo percorso psicologico ha riferito gli obiettivi raggiunti: «possibilità di dialogo con mio padre: finalmente sono riuscito a dirgli come mi sono sentito quando è andato via e avevo solo 8 anni»; «rafforzamento emotivo e dell’autostima: do meno peso alle critiche»; «pensare e ragionare prima di agire»; «cultura psicologica: mi piace sapere come funzioniamo e avere spiegazioni».

Federico ci insegna che avere la possibilità di uno spazio psicologico può permettere ai propri vissuti emotivi e dolorosi di poter essere elaborati a livello psichico senza necessariamente essere “agiti”, come accade facilmente nel periodo adolescenziale. Lo sportello d’ascolto quindi può essere inteso come un catalizzatore di processi psichici ed è uno tra gli strumenti più utilizzati dalle scuole e più facilmente fruibili dai ragazzi.

Mina Calianni, psicologa-psicoterapeuta presso lo Sportello adolescenti del Consultorio.

Roma sette 8 giugno 2018

www.romasette.it/sportello-adolescenti-risposta-al-disagio-giovanile

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Pescara. Gruppi di Parola

per figli di genitori separati/divorziati in età della latenza (6 – 12 anni)

“Iscrivere vostro figlio ad un gruppo di parola è un’opportunità per lui di vivere meglio le trasformazioni familiari che state attraversando.” Marie Simon

Un “Gruppo di Parola” è un luogo per lo scambio di esperienze e di sostegno tra bambini dai 6 ai 12 anni i cui genitori sono separati o divorziati.

Perché un gruppo di bambini? I bambini sono coinvolti nella separazione dei loro genitori, o nella complessità di famiglie ricostituite: non sanno bene come esprimere la rabbia, la tristezza, i dubbi, le speranze, le difficoltà che incontrano per la separazione di papà e mamma. A volte non sanno con chi parlarne.

Partecipare al “Gruppo di Parola” permette loro di:

  • Esprimere ciò che vivono attraverso la parola, il disegno, i giochi di ruolo, la scrittura;

  • Avere delle informazioni, porre delle domande;

  • Mettere parola su sentimenti, inquietudini, paure;

  • Uscire dall’isolamento e trovare una rete di scambio e di sostegno tra pari;

  • Scoprire modi per dialogare con i genitori e per vivere la riorganizzazione familiare;

  • Affrontare tutto questo in un ambiente accogliente, per un tempo limitato, con il consenso dei due genitori e con l’aiuto di professionisti esperti nell’ascolto di bambini che vivono in famiglie separate.

Perché funziona? Attraverso la parola, il gioco, il disegno, la scrittura, le storie, il gioco di ruolo i bambini possono confrontarsi, in un contesto sicuro ed accogliente, sulle proprie paure e condividere le proprie strategie imparando poi ad attingere a questa esperienza nei momenti di bisogno. Nel gruppo, i bambini possono sentirsi liberi di parlare ed esprimersi, oppure di rimanere in silenzio, ascoltando le proprie emozioni e quelle degli altri, e ponendosi interrogativi importanti su di sé e sulla propria famiglia. Il gruppo protegge e rassicura i bambini, e permette di metter parola su temi “indicibili”, e di costruire una nuova fiducia e una nuova continuità nei legami. La ricerca ha dimostrato che partecipare ai Gruppi di Parola incrementa l’autostima e l’autoefficacia, libera dai sensi di colpa, contiene l’ansia e riduce il disagio dei bambini.

Partecipanti. Bambini dai 6 ai 12 anni in età della latenza; per un minimo di 4 ad un massimo di 8 partecipanti per ogni ciclo di gruppo.

Il Percorso prevede sei incontri:

  • Il primo incontro di un ora solo con i genitori destinato all’introduzione e alla chiarificazione delle dinamiche del laboratorio.

  • Tre incontri con i bambini di due ore ciascuno intervallati dalla “merenda”;

  • Quinto incontro diviso in due momenti: la prima parte di un’ora con i bambini, la seconda di un’ora anche con i papà e le mamme, per uno scambio tra genitori e figli.

  • Il sesto incontro prevede un colloquio finale di trenta minuti in cui le conduttrici incontreranno il singolo genitore/coppia genitoriale per chiarire quanto emerso nel gruppo di parola. La prenotazione a quest’ultimo incontro andrà concordato con la segreteria percorsi.

La conduttrice è la dr.ssa Simona Foschini, consulente psicopedagogista, mediatrice familiare formatrice, specializzata e diplomata presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma in Conduzione di Gruppi di Parola.

www.ucipempescara.org/percorsi/gruppi-di-parola-per-figli-di-genitori-separati-1

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DALLA NAVATA

X Domenica del Tempo ordinario – Anno B – 10 giugno 2018

Génesi 03, 09 Il Signore Dio lo chiamò e gli disse «Dove sei?»

Salmo 129, 03 Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti può resistere?

2Corìnzi 004, 15 Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta ad opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.

Marco 3, 28 «In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna».

 

La nuova famiglia di Gesù. Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose

Riprendiamo la lettura quasi cursiva del vangelo secondo Marco in questo tempo per annum e cerchiamo di essere molto attenti alla specificità del messaggio di questo vangelo.

Gesù è ormai riconosciuto come maestro affidabile, da alcuni come un profeta che continua la missione di Giovanni il Battista. Ma Gesù non abita nel deserto, non vive in solitudine e attorno a sé ha radunato una comunità di discepoli e discepole, tra i quali ne emergono dodici per la vita vissuta insieme a lui e per la partecipazione all’annuncio della venuta del regno di Dio. La parola autorevole di Gesù e la sua attività di cura e guarigione dei malati attivano molta gente, che vuole ascoltarlo e vederlo. Questo successo della sua predicazione talvolta impedisce di fatto a lui e alla sua comunità anche solo di saziarsi con un po’ di pane: non c’è tempo.

Quando Gesù è in casa a Cafarnao, la gente, sapendo dove si trova, viene a cercarlo e così questa fama desta preoccupazione nella famiglia di provenienza di Gesù e anche nella sua comunità religiosa. Marco osa ancora attestare questa diffidenza ostile a Gesù da parte dei “suoi”, i familiari che, venuti dal loro villaggio, cercano di mettere le mani su di lui, di prenderlo e portarlo via, giudicandolo “fuori di sé”, esaltato, impazzito. Gesù aveva operato scelte di vita che ai suoi familiari potevano sembrare stoltezza e follia. Aveva infatti abbandonato la famiglia, si era dato a una vita itinerante, viveva la condizione del celibe, del non coniugato, infamante per la cultura del tempo, e con il suo successo si era inimicato le stesse autorità religiose.

Giudicato “eversivo”, andava dunque fermato. Ma non era stato questo il destino dei profeti? Con il suo modo di vivere e di parlare, infatti, il profeta disturba, perciò si preferisce farlo tacere, giudicandolo pazzo, delirante, fino a pensare di eliminarlo fisicamente (cf. Os 9,7). Ma all’ostilità dei familiari si aggiunge quella delle legittime autorità giudaiche. Gli scribi, discesi da Gerusalemme in Galilea, sono preoccupati dell’ascolto di Gesù da parte delle folle. Se per i suoi familiari Gesù è pazzo, gli esperti delle sante Scritture lo ritengono posseduto da Beelzebul, il capo dei demoni, che – costoro affermano – opera in lui fino a scacciare dalle persone i demoni inferiori. Si faccia attenzione: costoro non negano che Gesù compia un’opera di liberazione, di guarigione delle persone che egli incontra e cura. Pensano che Gesù scacci i demoni che tengono in schiavitù uomini e donne, ma lo faccia da indemoniato: in lui agisce il capo dei demoni, Beelzebul (alla lettera: il signore dello sterco)! Questa l’insinuazione e il giudizio di quelli che contano, delle autorità della comunità religiosa cui Gesù appartiene.

Gesù però li chiama a sé, li smaschera e si rivolge a loro con linguaggio parabolico, mediante una domanda seguita da alcune affermazioni: “Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito”. Il concetto espresso da Gesù è chiaro: se fosse vero ciò che dicono gli scribi, se Satana, attraverso le sue azioni, insorgesse contro se stesso, ciò significherebbe che il suo potere sta andando in rovina, che non è più vincitore ma vinto. Per questo Gesù aggiunge, in modo decisamente convincente e non contestabile: “Nessuno può penetrare nella casa di un uomo forte e saccheggiarla, se prima non lo ha reso inoffensivo legandolo. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa”. Dunque Gesù può scacciare Satana perché lo ha legato, perché ha reso impotente colui che è forte, fin dalla sua immersione nel Giordano (cf. Mc 1,9-11) e dalla sua lotta contro Satana nel deserto (cf. Mc 1,12-13). Gesù d’altronde era stato annunciato da Giovanni il Battista come “il più forte” (Mc 1,7), colui che, munito della forza di Dio, ha “autorità” (exousía: Mc 1,22) e può comandare ai demoni che gli obbediscono (cf. Mc 1,27).

Ma la risposta di Gesù diventa anche un avvertimento grave e minaccioso, introdotto da un solenne “Amen”: “Amen, in verità vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie, per quante ne abbiano dette; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo non avrà mai perdono, sarà colpevole di una colpa definitiva”. Parole dure, che devono però essere accolte senza indulgere a fantasie o immaginazioni circa questo peccato contro lo Spirito santo. In realtà è un peccato banale, come è banale il male; è un peccato che non richiede particolare malvagità ma è semplicemente consumato da chi vede e discerne il bene che viene fatto eppure, piuttosto che riconoscere questa verità, preferisce chiamarlo male, attribuendolo a Satana. È il peccato che procede dall’invidia, dal non sopportare che un altro abbia fatto o faccia il bene, perché si vorrebbe solo se stessi come soggetti del bene; e non volendo riconoscere in un altro quel beneche viene da Dio, si preferisce attribuirlo al demonio. Quegli scribi vedevano il bene operato da Gesù ma, piuttosto che riconoscerlo come opera ispiratagli da Dio, sceglievano deliberatamente di imputarlo a Satana. Non riconoscere l’opera di Dio, non riconoscere l’azione dello Spirito santo, fino a stravolgere lo sguardo e il giudizio, attribuendo il bene operato a Satana, è davvero il peccato imperdonabile, dice Gesù! E questo – lo si ricordi – è un peccato spesso consumato dalle persone religiose, ancora oggi nella chiesa!

A complemento del giudizio negativo su Gesù da parte dei suoi e degli scribi, Marco racconta anche che la madre e i fratelli di Gesù giungono presso la casa dove egli dimora e, stando fuori, mandano a chiamarlo. Si tratta dei suoi familiari, di quanti erano usciti per portarlo via giudicandolo pazzo, oppure Marco si riferisce a un altro episodio in cui è soprattutto messa in rilievo la madre di Gesù? In ogni caso, l’evangelista sembra sottolineare che proprio i familiari che avevano dichiarato Gesù fuori di sé (exéste) in realtà restano fuori (éxo), fuori dallo spazio di Gesù. Egli viene avvertito: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”. Vogliono incontrarlo ma restano fuori dal suo spazio. Gesù, da parte sua, non si muove verso di loro, resta al suo posto, tra i suoi discepoli, in mezzo alla comunità riunita in cerchio attorno a lui, e volgendo lo sguardo su questo gruppo dice con forza: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.

In tal modo egli dichiara di conoscere e vivere i legami di una nuova famiglia, la comunità dei discepoli, legami che non nascono dalla carne o dal sangue, cioè dalla storia familiare, ma dal fare la volontà di Dio. La prossimità a Gesù non è decisa dal vincolo parentale ma si basa sull’ascolto della parola di Dio, sul realizzare la sua volontà, sul vivere la fraternità nel vincolo dell’amore quale figli e figlie di un unico Padre: Dio. Dopo questa dichiarazione di Gesù dobbiamo dunque chiederci: chi è veramente fuori e chi è dentro lo spazio di relazione e comunione con lui?

Certo, questa pagina evangelica appare dura e noi ci chiediamo anche come la madre di Gesù, Maria, abbia vissuto questo incontro mancato. Possiamo rispondere che lo abbia vissuto nella fede perché queste parole di Gesù, apparentemente dure, in realtà attestano la sua grandezza: Maria ha compiuto pienamente la volontà di Dio, per questo è stata per Gesù madre, degna di essere madre nella sua carne.

La lettura di questo brano avverte in ogni caso i discepoli e le discepole di Gesù in ogni tempo: anche loro conosceranno diffidenza e inimicizia da parte della famiglia di provenienza, conosceranno l’opposizione da parte delle autorità religiose, dovranno sempre interrogarsi sulla loro prossimità a Gesù, sperimentabile solo nel compiere la volontà di Dio, nel realizzare la sua parola e nell’accogliere l’aiuto preveniente e gratuito della sua misericordia

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12385-la-nuova-famiglia-di-gesu

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ENTI TERZO SETTORE

Il Forum del Terzo Settore al nuovo Governo: “Sia una priorità. Pronti da subito a collaborare

Nota stampa del Forum sottolinea che “i tempi per l’adozione dei decreti correttivi stringono”, per questo sul sito è stato lanciato il conto alla rovescia: 2 agosto 2018 la prima scadenza

“Ai nuovi ministri, in particolare – scrivono da via del Corso – a chi ricoprirà ruoli chiave per la tenuta e soprattutto per lo sviluppo del tessuto sociale italiano, va il nostro auspicio di una proficua collaborazione per la costruzione di una società più equa, inclusiva e sostenibile”

L’augurio di buon lavoro e, nel contempo, la sottolineatura dell’urgenza di ‘portare a casa’ i decreti correttivi per la riforma tanto agognata: è con questi contenuti che il Forum del Terzo Settore invia il primo messaggio ufficiale al neo-nato Governo.

Nella nota diffusa nei giorni scorsi dalla portavoce Claudia Fiaschi, si legge, in particolare, che le sfide che accompagneranno l’operato dell’Esecutivo nell’ambito del Terzo Settore sono “tante e fondamentali per il futuro del nostro Paese. Ai nuovi ministri, in particolare chi ricoprirà ruoli chiave per la tenuta e soprattutto per lo sviluppo del tessuto sociale italiano – sottolinea Fiaschi – va il nostro auspicio di una proficua collaborazione per la costruzione di una società più equa, inclusiva e sostenibile. Il Forum Terzo Settore è pronto a dare come ha sempre fatto il proprio contributo, e ad offrire le proprie competenze per il bene del Paese”.

Un impegno urgente, se è vero che la riforma del Terzo Settore, che interessa oltre 336mila enti, vede nelle prossime settimane delle scadenze importanti: “Già il prossimo 2 agosto, infatti, è il termine ultimo per l’emanazione dei decreti che dovranno definire, tra le altre cose, il nuovo quadro delle normative fiscali”, si legge nella nota del Forum. Ma sono numerosi gli aspetti della riforma che attendono ancora di essere attivati dalle nuove norme: l’istituzione del Registro Unico, le modalità di esercizio delle funzioni di controllo e monitoraggio sugli ETS, le ‘attività diverse’ che gli enti potranno svolgere.

“Si tratta di questioni di vitale importanza per il mondo del Terzo settore – aggiunge Fiaschi – un patrimonio sociale ed economico unico nel nostro Paese, che sta vivendo una fase storica di cambiamento in cui però ancora non si allontanano i timori legati all’incertezza del quadro legislativo. Ci auguriamo quindi che il nuovo Governo consideri prioritario questo tema per dare le risposte di cui le organizzazioni sociali hanno oggi bisogno e per elaborare le migliori soluzioni legislative possibili”.

Proprio per mantenere alta l’attenzione sui tempi della riforma, il Forum ha lanciato sul proprio sito web una sorta di conto alla rovescia che scandisce i giorni mancanti all’adozione dei provvedimenti previsti dal nuovo Codice del Terzo settore (D. Lgs 117/17): “Un contatore che a mano a mano che trascorrerà il tempo cambierà colore, passando dal verde al rosso, e che speriamo sia utile a non far arrestare il processo di riforma”, conclude la portavoce del Forum Terzo Settore. www.forumterzosettore.it

News Ai. Bi. 6 giugno 2018

www.aibi.it/ita/terzo-settore-il-forum-al-nuovo-governo-sia-una-priorita-pronti-da-subito-a-collaborare

 

Non profit e terzo settore: il 6,4% degli studenti fa alternanza qui

Non profit, terzo settore e volontariato: il 6,4% dei ragazzi nell’anno scolastico 2016/2017 hanno fatto alternanza scuola-lavoro qui. Ci hanno puntato più i licei (4,4%) dei tecnici e dei professionali, con 5.895 realtà ospitanti, divisi equamente fra non profit e terzo settore e volontariato (il report ha le due diciture “enti pubblici/privati Terzo settore (anche volontariato) e Enti pubblici/privati non profit) Le regioni con i numeri più realtà accoglienti in questi settori sono state la Lombardia e il Piemonte, seguiti poi da Lazio, Toscana, Emilia Romagna, Sicilia, Puglia e Campania.

I dati emergono dal Focus “Alternanza scuola-lavoro” appena pubblicato dal Miur sui dati relativi all’anno scolastico 2016-2017. Nell’a.s. 2016/2017 circa 6.000 scuole hanno svolto progetti di Alternanza scuola-lavoro, per 76.246 percorsi attivati. L’impresa formativa simulata si ferma al 4,3% dei percorsi. Le studentesse e gli studenti del secondo biennio del percorso di studi che hanno svolto progetti di Alternanza scuola-lavoro sono stati 873.470, che salgono a 937.976 considerando anche quelli dell’ultimo anno di corso, per cui non c’era ancora l’obbligo. Le strutture ospitanti sono state complessivamente 208.325, di cui 132.873 imprese e 17.066 professionisti.

Sara De Carli Vita.it 6 giugno 2018

www.vita.it/it/article/2018/06/06/non-profit-e-terzo-settore-il-64-degli-studenti-fa-alternanza-qui/147099

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Priorità sono natalità, conciliazione lavoro-famiglia e sostegno ai nuclei del ceto medio

“Lo ripetiamo da tempo, lo abbiamo rilanciato in campagna elettorale con il nostro #pattoXnatalità e ora che è nato il Governo vogliamo ribadirlo con forza al premier Conte, augurando a lui e ai suoi Ministri buon lavoro: al Paese serve con urgenza una chiara e concreta politica per la natalità, per la conciliazione lavoro-famiglia, per il sostegno alle madri che lavorano, alle coppie giovani che non arrivano alla fine del mese, a chi desidera mettere al mondo un figlio”: è il messaggio che il Presidente nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, Gigi De Palo, invia al neo-presidente del Consiglio Giuseppe Conte e a tutta la squadra di Governo, nella giornata della Fiducia alla Camera dei Deputati.

“Il Dicastero sulla Famiglia – aggiunge De Palo – avrà un senso se saprà agire di concerto con il Ministero dell’Economia nel portare a compimento una riforma fiscale che sostenga le famiglie. Adesso, da più parti s’inizia a parlare in maniera seria di denatalità, tema che nel recente passato sembrava interessare solo al Forum. Speriamo si comprenda che è un argomento che riguarda tutti, maggioranza, minoranza, banche, imprese, mondo dei media e associazionismo. Non può essere delegato in toto alla politica”.

Il messaggio all’Esecutivo da parte del Forum Famiglie è chiaro: “Sembra che finalmente chi governa e chi non governa siano d’accordo nel mettere al centro le famiglie. Gli italiani sono stanchi delle polemiche che non portano da nessuna parte. È il momento dei fatti concreti: vediamo se il Governo Conte riuscirà a fare qualcosa. Noi, come sempre, faremo da pungolo costruttivo alle istituzioni, portando il nostro contributo”.

Chiusura sulla Flat-Tax: “Secondo le nostre simulazioni andrebbe a privilegiare i ceti più ricchi; i governi precedenti hanno aiutato i nuclei più poveri. Quando toccherà alle famiglie del ceto medio?”, conclude De Palo.

Comunicato 6 giugno 2018

www.forumfamiglie.org/2018/06/06/governo-de-palo-priorita-sono-natalita-conciliazione-lavoro-famiglia-e-sostegno-ai-nuclei-del-ceto-medio

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

La svolta profetica di papa Francesco: Un convegno brasiliano e 4 libri da scoprire (/1)

Sono stato a Porto Alegre, al bel Convegno organizzato dall’Istituto Humanitas Unisinos (IHU) sul tema della “Virada profetica” (svolta profetica) che Francesco ha introdotto nella vita ecclesiale, a partire dal 13 marzo 2013.

Come sempre accade, un Convegno non è mai soltanto una mera rassegna di conferenze, ma è anche luogo di confronto e di approfondimento personale tra diverse prospettive di lettura: direi che in questo caso la “lontananza” era proporzionale alla “profondità”. Aver viaggiato quasi fino alla “fine del mondo” – l’Argentina non è troppo lontana da Porto Alegre – mi ha permesso di comprendere alcune cose nuove, a proposito di Francesco e della recezione che del suo pensiero si sta operando nel mondo.

Vorrei utilizzare questo post per chiarire alcune delle prospettive che si sono venute manifestando più chiaramente, grazie ai lavori del Convegno e alle relazioni con altri teologi. E aprire lo sguardo su alcune pubblicazioni cui dedicherò attenzione in alcuni prossimi post.

a) Come comprendere Francesco? Il primo punto-chiave del Convegno sta nell’aver offerto una ermeneutica conciliare di Francesco. Da un certo punto di vista oggi Francesco, come papa, ci consente un accesso più fresco e più fecondo alla parola del Concilio Vaticano II. Ma è vero anche il contrario: ossia che senza un “retroterra conciliare” – quello che Marciano Vidal ha chiamato “presentimento” – è difficile comprendere davvero Francesco. Molte volte è stato detto, con toni anche giustamente differenziati: il Concilio Vaticano II è condicio sine qua non per una vera intelligenza del magistero di Francesco.

b) Una ricostruzione “anestetizzata” della sua profezia? Al centro della prospettiva di lavoro del Convegno IHU era la “svolta profetica” di papa Francesco. Il modo di intendere questa “svolta”, tuttavia, non appare del tutto condiviso. Da un lato, infatti, la profezia si presentava piuttosto come “interiore”, tradotta in modo da “non toccare la dottrina” e da introdurre “libere variazioni” sul piano della possibile disciplina. D’altro canto, la profezia era anche compresa come necessariamente “esteriore”, ossia collegata ad una riforma della Chiesa, ad una traduzione della dottrina, al una profonda rielaborazione della disciplina.

Anche il reperimento delle fonti, che possono spiegare questa alternativa, è stato piuttosto interessante nella sua differenziazione. Una lettura “filosofica” e “mistico-ascetica” di papa Francesco si orienta più facilmente ad una sostanziale continuità con i predecessori, anche in vista di una riduzione quanto maggiore possibile dello “scandalo” che Francesco porta nel cattolicesimo borghese.

Questo approccio non tematizza la teologia più per paura che per scelta. Ciò appare obiettivamente favorito da una lettura “filosofica” delle fonti di Francesco, che non procede fino in fondo nell’analisi teologica delle sue ispirazioni. Quasi viene “sospesa” la teologia, per far parlare soltanto mistica ignaziana e ispirazione filosofica. (Questo orientamento è presente soprattutto in Ivereigh e Borghesi).

Viceversa un approccio più decisamente teologico – ad esempio in campo morale, come proposto da Salzmann o da Suess – è in grado di identificare con molta lucidità le differenze e le novità che Francesco ha portato al dibattito e alle coscienze, con tutta la necessaria spinta profetica verso la riforma delle strutture e della forme di vita ecclesiale.

c) Il problema dell’immaginario papale. Ricostruire accuratamente le componenti originali del “pensiero di Francesco” è azione che si deve comporre con la pressione che l’”immaginario papale” esercita sull’esegeta. Non vi è qui storico o ermeneuta che si possa sottrarre alla influenza di un “pensiero sistematico implicito” che fa sentire il suo influsso sui “cardini” della ricostruzione. Mi sono accorto, in questo caso con particolare evidenza, della fragilità di molti “presupposti sistematici”, che soggiacciono alle analisi e alla considerazione dei dati. Tanto più forti sono questi condizionamenti, quanto più scarsa ne è la consapevolezza. Ciò accade soprattutto alle letture meno competenti sul – o meno interessate al – piano strettamente teologico.

d) La pretesa di una “assoluta continuità” rispetto al pre-Francesco. Nell’ambito di questi “pregiudizi” appare particolarmente insidiosa una preoccupazione legittima, ma unilaterale: quella di ostacolare la operazione che – da destra – vuole contrapporre frontalmente Francesco a Benedetto XVI. Poiché la discontinuità viene usata “da destra” per delegittimare Francesco, sembra imporsi una necessaria rassicurazione circa la piena e totale continuità tra i due papati.

Ma in questo modo viene messa a rischio proprio la profezia, che non può non indicare elementi sostanziosi e insuperabili di discontinuità. Nessuno può essere chiamato “profeta” se non indica “altre cose” e “cose altre”. Anche qui, a me pare che gli strumenti della indagine e le formule di giudizio risentano, in molti casi, di un respiro teologico troppo corto e troppo limitato o, almeno, troppo timoroso.

e) Diverse istanze: Europa, Nord America, Sud America. Un viaggio tanto lungo ha messo a nudo le diverse preoccupazioni dei diversi continenti implicati. Eravamo in Sud America, ma eravamo anche europei e nord-americani. Ed è emerso con molta chiarezza un fatto assai rilevante: ogni continente recepisce Francesco a suo modo: il Sud America ne riconosce bene le fonti autoctone, anche quando ne contesta alcune elaborazioni; il Nord America è piuttosto preoccupato di una “deriva di resistenza”, che attraversa profondamente il corpo episcopale, presbiterale e non secondariamente anche laicale. Viceversa in Europa una interferenza più massiccia sul “modello ideale” del papato permette un apprezzamento cattolico della profezia papale diffuso trasversalmente nel corpo ecclesiale.

Questo comporta una serie di conseguenze assai interessanti, nel modo di riflettere e nel modo di comunicare le riflessioni:

  • Non tutti sono ugualmente liberi di aderire alla profezia papale. Il condizionamento “locale” appare in alcuni casi assai pesante, pretendendo un “allineamento” del teologo rispetto al “pregiudizio” antiprofetico del cattolicesimo. Un cattolicesimo “non-profetico” – un cattolicesimo solo sacerdotale e regale – rischia di imporre una immagine di Francesco tutta interiorizzata. Per far fronte all’ultracattolicesimo reazionario, si propone un papa Francesco poco interessato alle riforme.

  • Un Francesco “pastorizzato” e “imborghesito” è il rischio che corre una sua normalizzazione alla luce di quanto appena indicato. Del tutto esemplare è stato, da un lato, il modo schietto e aperto di leggere “Amoris Lætitia” (Salzmann) o il Sinodo sulla Amazzoni (Suess) o la ripresa della ecclesiologia del Vaticano II (Faggioli) con tutte le sue conseguenze innovative, mentre in parallelo si affacciavano letture preoccupate di ritrovare in Francesco l’orizzonte di Familiaris Consortio piuttosto che scoprire gli avanzamenti obiettivi di Amoris Lætitia.
    f) Un progetto, in conclusione. Alla luce di queste considerazioni, ho pensato che sia opportuno dedicare una serie di post alla presentazione di alcune di queste “visioni sintetiche” di Francesco, che rendono assai complesso un bilancio unitario del suo pontificato. In esse cercherò di mettere alla prova i criteri di giudizio che il bel Convegno di Porto Alegre ha saputo suggerirmi. I testi che vorrei presentare sono i seguenti:

  • Ghislain Lafont, Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, Bologna, EDB, 2017;

  • Massimo Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Milano, Jaca Book, 2017;

  • Massimo Faggioli, Cattolicesimo, nazionalismo, cosmopolitismo. Chiesa società e politica dal Vaticano II a papa Francesco, Roma, Armando, 2018.

  • Peter Huenermann, Uomini secondo Cristo oggi. L’antropologia di papa Francesco, Città del Vaticano, LEV, 2017.

Dedicherò a ciascuno di essi un post, nei prossimi giorni. Se non fossi stato a Porto Alegre, avrei letto questi libri con ben altri occhiali.

Andrea Grillo blog: Come se non 4 giugno 2018

www.cittadellaeditrice.com/munera/la-svolta-profetica-di-papa-francesco-un-convegno-brasiliano-e-4-libri-da-scoprire-1

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FEDERAZIONE UNIVERSITARIA CATTOLICA ITALIANA

Nel mese di maggio (3-6) si è svolto a Reggio Calabria il 67esimo Congresso Nazionale della FUCI che ha espresso il valore dell’elaborazione dei giovani fucini a sostegno della vita ecclesiale, la società, la politica e la cultura del nostro Paese.

La prima tesi congressuale è importante non solo per i pregressi fucini, ma anche per gli operatori dei consultori familiari.

 

Identità e alterità. L’uomo e le relazioni

Dei giovani e della gioventù si sono date, nel tempo di ogni momento storico, moltissime definizioni. Il nostro tempo non è da meno: “Generazione Z” sembra essere l’etichetta convenzionalmente applicata ai giovani compresi nella fascia d’età dei nati dal 1990 in poi. In altri termini, tutti coloro i quali gravitano attorno all’età scolastica e universitaria.

Al di fuori di ogni pretesa classificatoria, vogliamo riflettere da giovani, in prima persona, sulla nostra identità. Nell’epoca dell’esasperazione narcisistica delle immagini, veicolate e amplificate dai vari strumenti tecnologici, nell’epoca dell’esercito del selfie, non è scontato guardarsi allo specchio per vedere in profondità la realtà del nostro stare al mondo.

Neppure è scontato disporre di uno specchio solido e perfettamente riflettente, nel momento in cui questo assume forma e consistenza liquida, per utilizzare un noto concetto di baumiana memoria: risulta allora difficile scrutare un’immagine chiara di un’identità frantumata e messa in crisi soprattutto in relazione alla «capacità di riconciliare le pluriformi e molte volte discordanti appartenenze attorno ad una visione unitaria della vita».

La via d’uscita, che qui proponiamo, potrebbe essere quella di considerare -proprio in questo periodo storico di individualismo esasperato- l’Altro come valore vivente a partire dal quale considerare la nostra identità. Dunque: chi sono io? Chi è l’altro?

La filosofia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia, fin dalle loro origini si sono interrogate su tali questioni. Senza pretendere di rendere conto esaustivamente delle varie teorie che hanno animato il dibattito scientifico in materia, ci soffermeremo su alcuni spunti di riflessione che ci consentano di avere gli strumenti necessari affinché il nostro discorrere sui giovani non sia un semplice parlar vano ma abbia basi più consapevoli. Partiamo dall’etimologia. Identità proviene dal latino identitas, derivato di idem, che significa “medesimo, stesso, uguale”. Sarebbe intuitivamente facile pensare dunque che l’identità sia un qualcosa di statico, immobile, di un ente sempre uguale a se stesso. Tuttavia potrebbe essere fuorviante e limitante questa accezione, per l’essere umano in generale e in particolare per i giovani: è evidente come non ci sia nulla di più in divenire dell’uomo e a maggior ragione di un giovane. Del resto, si tratta di una questione antica: la conciliabilità dell’immutabilità dell’essere con il divenire (tipico della dimensione umana) è una sfida della filosofia classica cui già Aristotele ha dato, a suo tempo, una risposta; un equivoco dipanato anche da Ricoeur, che distingue tra medesimezza e ipseità.

Questo dato, lungi dall’attestarsi come semplice ovvietà, è una premessa metodologica di non poco conto: la riflessione su una generazione non può e non deve essere totalizzante nella sua pretesa di restituire una fotografia statica dei giovani. Infatti, li si deve considerare sia nel divenire –che per i giovani significa futuro- sia nel rispetto dell’unicità dei soggetti di cui si discute, a dispetto anche delle evidenze statistiche. In tale materia, infatti, sono proprio le “minoranze” a dover suscitare interesse ed a queste vogliamo dare voce: nel nostro caso di giovani universitari cattolici impegnati, siamo ben consapevoli di essere una minoranza, su tutti i fronti: giovani, in una società sempre più vecchia; universitari, in un’Italia negli ultimi posti nelle classifiche della frequenza universitaria tra i paesi Ocse; cattolici, in un tessuto sociale ormai abituato a fare a meno di Dio; impegnati, in un Paese dove il numero dei NEET [giovani che non studiano e non lavorano] non stenta ad aumentare. Al netto di queste premesse, proviamo ad entrare in dialogo con le domande iniziali.

Chi sono io? L’identità come mancanza. «L’uomo è un essere generico e sprovveduto»: questo il pensiero che, nella sociologia moderna, unisce studiosi quali Gehlen, Herder e Geertz, che classifica l’essere umano come manchevole dal punto di vista istintuale e caratterizzato da “incompiutezza organica”; ciò significa che all’esterno egli trova delle strutture che danno forma a quella che è la sua “personalità impersonale” e contribuiscono alla costruzione della sua identità.

A riempire questa manchevolezza intervengono due fattori: la relazione con l’altro e la relazione con la società, intesa come insieme altrettanto generico di “altri” organizzati secondo le strutture del vivere socialmente tipico e inserito in una specifica cultura. In questa dimensione viene inserito il concetto di società, come quell’insieme di valori “presi per buoni” da tutti, capaci di produrre consenso e diventare principi cristallizzati in norme su cui si basa il vivere civile.

Tale costitutiva manchevolezza pone l’uomo nei confronti dell’esterno in una sorta di rapporto di dipendenza. Da qui nascono due questioni: quella del narcisismo, per quanto riguarda la relazione con l’altro, e quella delle appartenenze ormai definitivamente liquide, che generano disagio proprio per l’incapacità di sentirsi parte di quelle strutture che storicamente hanno contribuito alla costruzione dell’identità personale e comunitaria (Stato, famiglia, Chiesa, scuola, lavoro, persona)16.

Chi è l’Altro? L’identità è alterità. Prima ancora della relazione con la società, all’interno della quale l’uomo è inserito, interviene la relazione con l’altro: è qui che prende vita la costruzione del sé nell’orizzonte della polarità identità-alterità. Ed è qui che, oggi più che mai, le acque di una sana relazione intersoggettiva sono inquinate da un narcisismo sempre più dilagante nell’epoca della virtualizzazione dell’identità e delle relazioni, dovuta principalmente all’affermarsi dei nuovi canali di comunicazione.

Nel suo ultimo lavoro, L’espulsione dell’Altro, il filosofo contemporaneo Byung-Chul Han si interroga proprio sul concetto di autenticità nell’iperconnesso e virtuale mondo di oggi e su come le nuove modalità di espressione del narcisismo influenzino negativamente tanto la costruzione della propria identità quanto la relazione con l’altro. Se è vero che la costruzione della propria identità passa anche dal riconoscimento sociale che riceviamo, per colmare la “manchevolezza” di cui si trattava sopra, spesso questa dinamica può essere distorta se portata all’estremo. Invece di aprirsi all’altro può ingenerarsi un meccanismo per cui si satura tale sentimento con il ripiegamento su se stessi, in cui l’altro è visto non come possibilità di crescita data dal suo essere diverso da me, ma viene considerato come mezzo attraverso cui rispondere al desiderio di ricevere conferme e approvazione sociale, vergognandosi della propria manchevolezza.

«L’isolamento narcisistico dell’uomo, la strumentalizzazione dell’altro, la concorrenza universale distruggono il clima di gratificazione. Scompare lo sguardo che offre conferma e riconoscimento. Per uno stabile sentimento di autostima, dipendo dall’idea di essere importante per l’altro e di essere amato. Può anche essere un’idea vaga, ma è indispensabile per avere la sensazione di essere importanti. Responsabile dell’autolesionismo è proprio il non aver sensazione del proprio essere. Io incontro e sento me stesso solo grazie all’incontro con l’altro». Tale prospettiva specifica che questa manchevolezza viene colmata attraverso l’invenzione della cultura. Secondo una diversa corrente di pensiero, che fa capo a pensatori quali C. Levi-Strauss, Remotti, Leroi-Gourhan, la cultura viene fatta preesistere all’uomo, per cui non può essere nata per far fronte alle sue manchevolezze, è invece essa stessa che produce l’uomo come essere manchevole, divenendo causa della chiusura dell’uomo, in termini ad esempio dell’acquisizione di un linguaggio specifico, di tradizioni specifiche e di altre varie “specializzazioni”.

Il problema è che oggi si è incapaci di uscire da sé; chiusi e prigionieri di noi stessi, perdiamo ogni rapporto con l’altro. Anche la mania dei selfie ha poco a che fare con l’amor proprio: non è altro che il ripetersi a vuoto dell’io narcisistico rimasto solo. In tutto questo, grande importanza ha la comunicazione digitale, rispetto alla quale deve essere proposta una vera e propria educazione culturale che accompagni questa rivoluzione antropologica.

Come fare quindi per uscire dal Sé e non rimanere intrappolati nella condizione depressiva? «Solo il desiderio dell’Altro strappa da se stessi e porta a liberare l’io dalla depressione e dalla chiusura narcisistica in se stessi. Solo l’Eros, anzi solo la vocazione e la conversione all’Altro sarebbero un antidepressivo metafisico capace di mandare in frantumi il guscio narcisistico dell’io. L’amore presuppone sempre un’alterità, e non soltanto l’alterità dell’Altro, ma anche l’alterità della propria persona. La dualità della persona è costitutiva dell’amore per se stessi. Quando si estingue ogni dualità, si annega nel Sé. Senza dualità ci si fonde in se stessi». Questo ci deve far capire l’importanza di investire diversamente la propria voce e il proprio sguardo, affinché ci possano essere le basi per poter dare spazio all’Altro, per poter dare spazio a una società che sia portatrice di uno spirito di comunità contrapposta a quella attuale dell’individualismo, dell’incremento della produzione e dell’efficienza. Come cristiani e come fucini anche la spinta verso un “Altro”, il totalmente Altro, ci deve portare verso questa direzione. Questo piccolo-grande cambio di prospettiva e di presa di consapevolezza può generare una piccola-grande rivoluzione. La sensibilità cristiana, al riguardo, ha ancora qualcosa da dire al mondo: la necessità che il proprio esistere non sia fine a se stesso ma sia sempre per qualcuno.

Cambio di prospettiva: per chi sono io? Proprio a partire da questa “rivoluzione” è possibile affermare come le istanze profonde del cristianesimo siano ancora attuali e di queste ci sia ancora bisogno. È un cambio di paradigma ad essere necessario oggi, «Davanti al vuoto interiore si cerca invano di produrre se stessi, ma è solo il vuoto a prodursi. I selfie sono le forme vuote del sé. La mania del selfie acutizza il sentimento di vuoto. Non è l’amor proprio a provocarlo, bensì l’autoriferimento narcisistico. I selfie sono superfici lisce che per un breve momento oscurano il vuoto sé. Ma quando li si gira, ci si imbatte nel loro rovescio costellato di ferite che sanguinano. Le ferite sono il rovescio del selfie». «La comunicazione digitale ci mette in rete, ma nello stesso tempo ci isola. Essa annulla certo la distanza, ma l’assenza di distanza non genera alcuna vicinanza reale. Senza la presenza dell’Altro la comunicazione si trasforma in uno scambio accelerato di informazioni, essa non stabilisce relazioni, ma solo connessioni. È una comunicazione priva del prossimo, priva di qualsivoglia vicinanza al prossimo. Ascoltare significa qualcosa di completamente diverso dallo scambiarsi informazioni, nell’ascolto non avviene anzi alcuno scambio in generale. Senza prossimità, senza ascolto non si forma alcuna comunità. Comunità è comunità dell’ascolto».

Che è già nello spirito del cambiamento promosso dall’Evangelii Gaudium: «l’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2). D’altra parte, oggi nascono molte forme di associazione per la difesa di diritti e per il raggiungimento di nobili obiettivi. In tal modo si manifesta una sete di partecipazione di numerosi cittadini che vogliono essere costruttori del progresso sociale e culturale».

Da giovani universitari cattolici, vogliamo promuovere questo cambio di prospettiva: l’identità può essere concepita solo a partire dalla necessaria relazione con l’altro, rispetto al quale deve essere pensato il nostro agire. Questo significa anche ripensare nuove ed incisive modalità per riscoprirsi cristiani in Politica, per riuscire davvero a vedere il prossimo non come nemico ma come possibilità di ricchezza. Riprendendo le parole di Ricoeur, circa l’etica della costruzione del Sé, si deve partire dall’espressione «con e per gli altri. Propongo di dare il nome di sollecitudine a questo movimento del sé verso l’altro, che risponde alla chiamata del sé da parte di un altro. […] Mi pare che l’istanza etica più profonda sia quella della reciprocità, che costituisce l’altro in quanto mio simile e me stesso come il simile dell’altro. Senza reciprocità – o, per usare un concetto caro a Hegel, senza riconoscimento – l’alterità non sarebbe quella di un altro da sé, ma l’espressione di una distanza indiscernibile dall’assenza».

A conclusione di questa sezione, e rimanendo in una prospettiva ricoeuriana, risuonano le parole di Papa Francesco nel suo discorso in Egitto: dovere dell’identità, coraggio dell’alterità, sincerità delle intenzioni. Sebbene si tratti di parole pronunciate in un contesto differente, quello della pace e del dialogo interreligioso, sono sempre valide quando si tratta –in definitiva- di relazioni tra essere umani. Prendendo in prestito tali locuzioni ai fini di queste Tesi, desideriamo esprimere il nostro pensiero.

Dovere dell’identità, come affermazione che da giovani sentiamo di voler ribadire nei termini di una continua ricerca di sé dove l’altro è visto come valore vivente con cui entrare in un dialogo sincero e reciprocamente edificante. Coraggio dell’alterità, dove l’altro è visto come fratello e non come nemico da superare, evitare o eliminare.

Sincerità delle intenzioni, nel senso di ricordare sempre e promuovere il valore assoluto dell’uomo, considerato come fine e non come mezzo, sebbene la logica del mondo ne continui a promuovere una visione sempre più utilitaristica e fungibile.

Proprio a partire da questo cambio di paradigma che vogliamo proporre, riteniamo necessario che l’università per prima, in quanto istituzione socialmente preposta principalmente alla formazione di giovani lavoratori del domani, promuova una visione del lavoro non concorrenziale, ma che spinga alla cooperazione, già a partire dallo studio universitario. Infatti, ci sono professori che spingono alla concorrenza e all’homo homini lupus già tra i banchi dell’università. Da qui si genera quella concorrenza che impedisce di condividere gli appunti con il proprio collega, visto come avversario rispetto al quale avere una media migliore e, in questa logica, un lavoro migliore e più gratificante.

http://fuci.net/chi-siamo/archivio-documenti/category/274-tesi-congressuali?download=1460:tesi-congressuali-67-congresso-nazionale-f-u-c-i

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MATRIMONIO

Sposarsi: conviene?

Meglio il matrimonio o la convivenza? Qual è la differenza tra unione civile e matrimonio? Quali sono le conseguenze delle nozze?

In Italia il numero dei matrimonio è, da anni, in forte calo: questo non significa che le persone non si amano più ma, semplicemente, che sono molto più caute rispetto al passato. La crisi economica ha minato le certezze future; l’ingresso nel mondo del lavoro avviene sempre con maggiore ritardo, così da rinviare l’atteso giorno. Oltre a ciò, v’è da dire che una buona dose di sfiducia accompagna quanto devono ancora fare il loro ingresso accompagnati dalla marcia nuziale: che il matrimonio sia la tomba dell’amore pare una convinzione scientificamente dimostrata dal numero impressionante di coppie che scoppiano in brevissimo tempo.

Questi sono solo alcuni dei motivi che inducono gli italiani a optare per altre forme di unione, quale la convivenza o il fidanzamento perpetuo. Con questo articolo cercheremo di dare una risposta al seguente quesito: conviene sposarsi?

Perché conviene sposarsi? Cominciamo la nostra analisi illustrando i possibili motivi per cui sposarsi conviene ancora oggi.

Innanzitutto, il matrimonio rimane l’istituto più completo dal punto di vista della regolamentazione degli effetti giuridici conseguenti all’unione di due persone: chi si sposa (sia con rito civile che con rito concordatario) decide di condividere appieno la propria vita con quella del coniuge, con effetti non solo economici, ma anche morali.

Secondo il codice civile, con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e doveri; da esso deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione [Art. 143 cod. civ.]. Quello della coabitazione, in particolare, è un vero e proprio obbligo, nel senso che un coniuge non può abbandonare ingiustificatamente il tetto familiare.

Dal punto di vista economico, la legge dice che entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.

Al momento del matrimonio, i coniugi decidono se il regime patrimoniale dei loro beni sarà quello di comunione o di separazione: nel primo caso, (quasi) tutto ciò che entrerà nel patrimonio familiare successivamente al matrimonio sarà di entrambi i coniugi, indifferentemente da chi l’abbia effettivamente guadagnato.

Anche dal punto di vista successorio, il matrimonio garantisce al coniuge superstite il diritto ad una parte dell’eredità, diritto che non può essere in nessun modo messo in discussione e che non si perde nemmeno in caso di separazione personale.

Unioni civili: perché non sono come il matrimonio? Dal 2016 anche in Italia è stato introdotto l’istituto delle unioni civili [Legge n. 76/20.05.2016]. Si potrebbe quindi obiettare dicendo che non conviene sposarsi quando è possibile fare ricorso a questa diversa tipologia di connubio. L’affermazione è parzialmente vera, anche se va detto che tra unioni civili e matrimonio corrono delle profonde differenze:

  • L’unione civile può riguardare tanto persone dello stesso sesso che di sesso diverso;

  • L’unione civile, pur estendendo alla coppia molti dei diritti e dei doveri tipici del matrimonio, non riconosce espressamente l’obbligo di fedeltà né quello di collaborazione. Pertanto, gli obblighi reciproci derivanti dall’unione civile a carico delle parti riguardano la coabitazione e l’assistenza morale e materiale;

  • Nel matrimonio la moglie aggiunge il cognome del marito al proprio, mentre per l’unione civile è possibile che la coppia scelga il cognome di famiglia: le parti, mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile, possono indicare un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. Inoltre, i partner potranno anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso;

  • In caso di scioglimento dell’unione civile, esso ha effetto immediato e non è previsto nessun periodo di separazione.

Perché non conviene sposarsi? Detto del perché conviene sposarsi e delle differenze tra matrimonio e unione civile, vediamo ora perché sposarsi non conviene proprio. Cominciamo dal principio.

Organizzare un matrimonio comporta spese davvero ingenti, non solo per i promessi sposi, ma anche per le loro famiglie: l’inizio di una nuova vita è costoso e implica uno sforzo economico notevole.

Come detto, il matrimonio obbliga i coniugi a vivere sotto lo stesso tetto (salvo esigenze lavorative o altri casi particolari): tanta vicinanza, alla lunga, non sempre fa bene alla coppia, la quale potrebbe sentirsi “soffocare” e privare dei propri spazi personali. Vicinitas est mater discordiarum, dicevano i latini.

Le dolenti note, però, giungono nel caso di crisi coniugale: separarsi prima e divorziare poi costa un bel gruzzoletto in termini di spese legali. Per non parlare poi dell’affidamento della prole, vero e proprio campo di battaglia dove marito e moglie (e i rispettivi legali) affilano le armi per un duello all’ultimo sangue.

Dalla separazione e dal divorzio consegue, poi, l’obbligo per il coniuge economicamente più “forte” di versare un assegno di mantenimento all’altro, assegno che, molte volte, rappresenta un peso troppo grande da sostenere.

Mariano Acquaviva La legge per tutti 4 novembre 2018

www.laleggepertutti.it/211726_sposarsi-conviene

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NULLITÀ MATRIMONIALE

Papa Francesco e la riforma del processo di nullità matrimoniale, a che punto siamo?

Uno dei risultati di grande rilievo dei due Sinodi su Matrimonio e Famiglia (2014-2015) è stata la riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità matrimoniale, che non aveva subito cambiamenti sostanziali dai tempi di Papa Benedetto XIV, Lambertini.

Con i due Motu proprio ”Mitis Iudex Dominus Iesus” e ”Mitis et Misericors Iesus, pubblicati il 15 agosto 2015, Papa Francesco, riordinava ex integro la materia, stabilendo tre tipi di processo: ordinario, breviore e documentale.

Dei tre tipi, l’ordinario e il breviore esprimono il reale mutamento rispetto al 1700: l’abolizione della doppia conforme e cioè la nullità di matrimonio con una sola sentenza affermativa nel processo ordinario (lasciando comunque la possibilità dell’appello della parte contraria); e l’introduzione di un tipo assolutamente nuovo di processo quello detto breviore, da pronunciarsi personalmente dal Vescovo capo della Diocesi.

Il tema, così a cuore al Santo Padre, che era emerso come urgenza nel cammino di due Sinodi, è stato rilanciato recentemente durante la 71ª Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, che ha previsto un aggiornamento circa la riforma del regime amministrativo dei Tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale. Tutto questo, tenendo conto anche delle difficoltà di vario genere che frenano i Vescovi nell’applicazione di tale grande riforma.

Ne abbiamo parlato con Mons. Sergio Melillo, Vescovo di Ariano Irpino, uno dei primi in Italia ad aver accolto le istanze del Santo Padre.

Monsignor Melillo a suo parere perché Papa Francesco è tornato personalmente a parlare su questo tema?

Francesco insegna che due perle devono accompagnare tale Riforma: prossimità e gratuità. Per il Papa prossimità significa che il giudizio, per quanto possibile, si celebri nella chiesa diocesana.

La gratuità, rimanda al mandato evangelico secondo il quale “gratuitamente si è ricevuto e gratuitamente si deve dare”; per cui richiede che la pronunzia ecclesiastica di nullità non equivalga tout-court, nella mente del fedele, ad un costo prefissato. Come pastore so bene che la nostra gente, se informata opportunamente, comprende l’equa oblazione di giustizia da parte di persone abbienti.

Qual è il cuore della riforma e la sua esperienza diretta?

Innanzitutto è la visione di prossimità alle famiglie ferite, è una scelta fondamentale della pastorale di oggi. Questa riforma va a colmare una distanza tra la vita pastorale e la modalità per affrontare le questioni interne giudiziali. L’impostazione di Papa Francesco e quindi anche i due Motu Proprio “Mitis”, nonché i tribunali che alcuni vescovi hanno eretto, hanno fatto in modo di accostare la visione della pastorale familiare in questa direzione.

La dimensione pastorale del vescovo, deve comprendere la sua funzione personale di vescovo giudice, nel processo detto breviore. Il che non solo manifesterà la prossimità del pastore diocesano ai suoi fedeli, ma anche la presenza del Vescovo come segno di Cristo sacramento di salvezza.

Francesco insiste che il Vescovo sia visto dai suoi fedeli come un Padre prossimo alle loro difficoltà e ai loro fallimenti; incarnando la figura di Cristo che si pone la pecora smarrita sulle spalle; abbandonando finalmente il modo giuridico-burocratico di amministrare la giustizia.

Ho vissuto personalmente nella mia diocesi, in cui ancora c’è un rapporto personale e diretto con i fedeli, il valore di rendere possibile un dialogo fecondo con le singole persone. Anche in questo senso ritengo che la riforma possa dirsi veramente epocale

Adesso sarà più facile poter avere la nullità del matrimonio?

E’ una domanda cruciale che richiede risposte chiare al fine di non diffondere confusione e abusi.

  1. La differenza tra divorzio e nullità di matrimonio o annullamento ecclesiastico di matrimonio risiede nel punto fondamentale che la Chiesa non è libera di sciogliere un vincolo sacro che risulti evidentemente valido (mentre lo Stato moderno purtroppo ammette la possibilità di sciogliere il vincolo civilmente valido).

  2. Il processo matrimoniale, condotto secondo la legge canonica e secondo coscienza, può stabilire se il fedele per determinati motivi previsti dal legislatore canonico (esempio: per grave difetto di conoscenza o maturità, per costrizione, per aver escluso i figli…) abbia emesso un consenso viziato cioè nullo.

  3. Se il Vescovo nel processo detto breviore e il Vicario giudiziale nel processo ordinario si tengono fedeli al principio fondamentale che non può dichiararsi nullo un matrimonio senza la certa evidenza processuale dei fatti, non dovrebbe esistere il rischio né di abusi, né di paura o timore di rispondere alle domande dei fedeli che chiedono la verità sul proprio vincolo.

Papa Francesco ha espresso più volte nel suo magistero che il Pastore nonostante ogni possibile difficoltà, deve rimanere immune dal pericolo di abusi e paure, in quanto incarna Cristo sacramento di pace. Mi pare che il Santo Padre con la sua paterna insistenza nel suo ultimo incontro con Lui, ha inteso aiutare noi vescovi a superare la difficoltà di accedere in piena e totale obbedienza alla Riforma, mettendo fine per esempio, ai Tribunali Regionali proprio in ossequio alla legge della prossimità.

Che ne pensa dell’impatto di Amoris Lætitia nelle chiese diocesane d’Italia?

Innanzitutto dobbiamo a Papa Francesco immensa gratitudine per l’Esortazione apostolica Amoris Lætitia, per due motivi: perché ci ha tracciato un cammino ricco e attuale per il recupero della bellezza e quindi della possibilità della famiglia cristiana; e in secondo luogo perché insieme ai Vescovi riuniti con Lui nei due Sinodi chiede a noi pastori di renderci artefici di una chiesa della Misericordia. Sta a noi pastori fare in modo che questo grande documento non corra il rischio di altri documenti pontifici divenuti soltanto memoria d’archivio. Papa Francesco ci chiede con Amoris Lætitia di non consegnare ai posteri una chiesa pusillus grex, un circolo di pochi chiusa al soffio creatore dello Spirito.

Silvia Costantini Aleteia 8 giugno 2018

https://it.aleteia.org/2018/06/08/riforma-nullita-matrimoniale-sintesi/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it

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OMOFILIA

Scoprire di essere gay dopo sposato: che succede?

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile – 1, ordinanza n. 11808, 15 maggio 2018

Non è più possibile convalidare la sentenza di annullamento del matrimonio del Tribunale ecclesiastico dopo tre anni. Non resta che la separazione e il divorzio.

Immaginiamo che una persona, dopo alcuni anni di matrimonio, scopra di essere gay. L’impossibilità di tenere segreta questa delicata situazione, lo porta a confessare al coniuge la propria omosessualità. Così gli propone un distacco sereno e pacifico. L’altro, invece, non ci sta: si sente preso in giro e vorrebbe ottenere un risarcimento del danno o, quantomeno, l’annullamento del matrimonio per potersi risposare in chiesa. Tra i due litiganti, a decidere sarà il giudice perché, giocoforza, se marito o moglie decide di citare l’altro in causa, quest’ultimo non potrà sottrarsi e obbligarlo a concludere un accordo bonario. Ma cosa dirà, in ipotesi di questo tipo, il tribunale? Cerchiamo di analizzare tutte le possibili soluzioni, anche alla luce di una recente ordinanza della Cassazione che ha spiegato che succede se si scopre di essere gay dopo sposati.

La prima domanda che ci si deve porre è se chi scopre di essere gay può essere ritenuto responsabile della fine del matrimonio e, pertanto, può subire il cosiddetto addebito. Dichiarare la propria omosessualità è una violazione dei doveri del matrimonio e quindi una colpa, anche se taciuta per molto tempo? La risposta non può che essere negativa: l’orientamento sessuale non è indicativo di una responsabilità. Tuttavia, lo diventa nel momento in cui il gay confessa anche di aver avuto rapporti sessuali con altre persone. L’infedeltà non conosce sesso: si è infedeli – e quindi colpevoli – anche se si tradisce il coniuge con una persona del proprio sesso. Questo significa che, in ipotesi del genere, non c’è scusa che tenga: il marito o la moglie che scopre di essere omosessuale e che rivela di aver anche solo un rapporto platonico (e, a maggior ragione, fisico) con un altro omosessuale, non può più chiedere l’assegno di mantenimento o rivendicare diritti ereditari (conseguenze queste che scattano con l’addebito). Dall’altro lato, chi nonostante sia gay non ha mai tradito il coniuge non può essere considerato responsabile e quindi subire l’addebito.

Chiaramente, in quest’ultima ipotesi, sono anche escluse possibili richieste di risarcimento del danno. Quanto invece all’infedeltà, il risarcimento è ammesso solo quando tale comportamento ha leso pubblicamente la reputazione dell’altro coniuge (ad esempio, una relazione nota a tutta la collettività). Da quanto abbiamo detto, ne discende che la prima e banale conseguenza, nel caso in cui una persona scopra di essere gay, è che l’altra può chiedere la separazione e poi il divorzio. Alla richiesta consegue anche l’addebito solo quando c’è stata la scoperta di un tradimento; ma se di tanto non vi dovessero essere le prove, sarà più conveniente optare per una separazione consensuale.

La seconda domanda che si pone è se, nel caso in cui una persona scopre di essere gay dopo sposata, l’altra può chiedere l’annullamento del matrimonio alla Sacra Rota, o meglio al Tribunale ecclesiastico. La risposta, in questo caso, è affermativa. La rivelazione dell’omosessualità, anche dopo molti anni di matrimonio, porta con sé la nullità del matrimonio per la chiesa. Ma non sempre per lo Stato italiano. Come noto, la sentenza del tribunale ecclesiastico deve essere convalidata dalla Corte di Appello; ebbene, secondo la Cassazione [Sent. n. 1494/2015, n. 26188/2016, n. 1780/2012, n. 8926/2012] questa “delibazione” può avvenire solo se non ci sono stati più di tre anni di convivenza «come coniugi» dalla celebrazione del matrimonio. Quindi, se una persona scopre la propria omosessualità entro tale termine, può chiedere l’annullamento del matrimonio alla Sacra Rota e poi far convalidare la pronuncia alla Corte d’appello territorialmente competente, potendosi così risposare in chiesa. Viceversa, se lo fa dopo molti anni, magari a seguito della nascita di un figlio, la sentenza ecclesiastica non avrà valore per la legge italiana e la coppia risulterà ancora sposata nonostante la sentenza del tribunale ecclesiastico. Non resterà allora che chiedere la normale separazione e poi il divorzio.

Qui di seguito riportiamo alcuni orientamenti della giurisprudenza dei tribunali che abbiamo ritenuto pertinenti con il discorso in oggetto. (omissis)

Redazione news La legge per tutti 4 giugno 2018

www.laleggepertutti.it/211663_scoprire-di-essere-gay-dopo-sposato-che-succede

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PATERNITÀ

Il rifiuto di sottoporsi al test del DNA fa presumere la paternità

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 14458, 19 aprile 2018.

www.studiofronzonidemattia.it/wp-content/uploads/2018/06/Cassazione-Civile-05.06.2018-n.-14458.pdf

Il rifiuto ingiustificato del presunto padre a sottoporsi ad indagini ematologiche è un elemento probatorio di così alto valore indiziario tale da poter dimostrare da solo la fondatezza dalla domanda di riconoscimento di paternità avanzata dalla presunta figlia.

La Corte di Cassazione ha così stabilito nell’ordinanza allegata, in un procedimento per la dichiarazione di paternità del presunto padre biologico.

Nel caso esaminato, il Tribunale e la Corte d’Appello di Genova avevano dichiarato la paternità sulla base: a) dell’incontroversa relazione sentimentale e convivenza con la madre all’epoca presunta del concepimento; b) delle deposizioni testimoniali in ordine alla presenza dell’uomo alle visite mediche relative alla gravidanza; c) delle riproduzioni fotografiche che ritraevano i presunti padre e figlia insieme durante i primi anni di vita di quest’ultima; d) dell’ingiustificato rifiuto dell’uomo a sottoporsi al test del DNA.

Ha presentato, dunque, ricorso in Cassazione il presunto padre sminuendo gli elementi fattuali emersi nei precedenti giudizi e denunciando l’eccessiva rilevanza attribuita al suo diniego a sottoporsi alle indagini ematologiche.

La Suprema Corte ha, in via preliminare, ribadito l’orientamento giurisprudenziale, correttamente applicato dalla Corte d’Appello (rifiuto-ingiustificato-sottoporsi-ctu-genetica-sufficiente-fondare-convincimento-del-giudice-sulla-paternita), secondo cui l’ingiustificato rifiuto a sottoporsi al test del DNA è un elemento di fondamentale importanza sì da poter fondare da solo il riconoscimento di paternità.

A tal riguardo ha altresì evidenziato come, seppur il nostro ordinamento riconosca ad un soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, tuttavia è pienamente consentito al Giudice trarre da tale comportamento un rilevante elemento di prova, senza che ciò possa inficiare in alcun modo il diritto di difesa costituzionalmente garantito.

Inoltre, la Cassazione ha sottolineato come “il rifiuto aprioristico della parte a sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza”, tenuto conto del fatto che il sanitario che compie l’accertamento è tenuto al segreto professionale.

La Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso e confermato la paternità del ricorrente.

Studio Fronzoni De Mattia 7 giugno 2018

www.studiofronzonidemattia.it/rifiuto-sottoporsi-al-test-del-dna-presumere-la-paternita

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UNIONI CIVILI

Primo divorzio tra due donne

E’ successo a Vicenza, due donne sposate da un anno, hanno avviato le pratiche per lo scioglimento del vincolo per incompatibilità di carattere emersa con la convivenza

Dopo i matrimoni gay, arrivano anche i primi divorzi. A due anni dell’entrata in vigore della legge Cirinnà sulle unioni di fatto, alcune coppie hanno iniziato a “scoppiare.

Il matrimonio risale al maggio di un anno fa, dopo qualche mese però sono iniziati i conflitti, dovuto, come spiegano, ad una incompatibilità di carattere, emersa solo nel corso della convivenza. Da qui la decisione avviato le pratiche per lo scioglimento del vincolo. Le due donne, i cui nomi restano giustamente coperti dalla privacy, hanno trovato un accordo sull’utilizzo della casa, di cui risultano proprietarie al 50%. C’è l’accordo anche sulla custodia degli animali domestici: gatto e cane. Circa il diritto agli alimenti non è stata avanzata alcuna richiesta. La prima udienza nei giorni scorsi, davanti alla presidente della seconda sezione civile Marina Caparelli. Ora toccherà al giudice decidere.

I dati sulle unioni civili, a due anni dalla Cirinnà. Come riporta il Corriere, dai dati del Ministero dell’Interno sulle unioni civili, risulta Verona la provincia veneta in cui si è pronunciato il maggior numero di sì: 102 in tutto, con 96 segue Venezia, che si piazza all’undicesimo posto della classifica nazionale. Padova e Vicenza con 84 e 78 unioni civili occupano le posizioni 14 e 15. Otto posizioni più sotto, con 60 unioni, Treviso. Rovigo solo 13. Mentre Belluno ne conta appena 11.

Come funziona il divorzio nelle unioni civili? Ricordiamo che la legge Cirinnà disciplina anche la rottura del rapporto. Ciascun componente della coppia in virtù di quanto previsto dalla legge numero 76/2016, è libero di chiedere in qualsiasi momento il divorzio, anche se l’altro non è d’accordo. Servirà però formalizzare lo scioglimento del legame.

E’ possibile il divorzio senza separazione: rispetto a quanto avviene per il matrimonio, nel caso delle unioni civili lo scioglimento è più veloce: non è necessario passare per la formale separazione, ma è sufficiente che i partner comunichino all’ufficiale di stato civile, anche disgiuntamente, la loro intenzione di dividersi.

Da questo momento lo scioglimento del vincolo converge con la disciplina del nostro ordinamento prevista in caso di matrimonio: in Tribunale, davanti al Sindaco o con la negoziazione assistita da avvocati.

Gabriella Lax Newsletter Giuridica Studio Cataldi 7 giugno 2018

www.studiocataldi.it/articoli/30724-primo-divorzio-tra-due-donne.asp

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