NewsUCIPEM n. 685 – 21 gennaio 2018

NewsUCIPEM n. 685 – 21 gennaio 2018

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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02 ABORTO VOLONTARIO Contraccezione e aborto. È record di pillole tra le giovani italiane.

03 ADOZIONI E AFFIDO Sostenere adozioni e affido: così cresce il «patto natalità».

04 ADOZIONI INTERNAZIONALI I dati pubblicati dagli enti autorizzati relativi al 2017.

06 AFFIDO CONDIVISO Divorzio: via libera all’app per gestire i figli senza conflitti.

06 AMORIS LÆTITIA Indicazioni sul capitolo VIII dell’Amoris Lætitia.

09 ASSEGNO DI MANTENIMENTO Verso l’addio al tenore di vita anche per il coniuge separato.

10 Matrimonio troppo breve? Niente assegno di mantenimento.

11 ASSEGNO DIVORZILE Divorzio: assegno alla moglie che si è occupata dei figli.

11 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – N. 2, 17 gennaio 2018.

14 CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA Rivista di Sessuologia, volume 41, n. 2, dicembre 2017.

14 CHIESA CATTOLICA Dieci tesi per lo sviluppo di ordine e matrimonio (Andrea Grillo)

15 La Chiesa è aperta. Ora diamole una donna cardinale.

17 CHIESA VALDESE Garantire luoghi sicuri e protetti a bambini e giovani.

17 L’autodeterminazione delle donne è un principio irrinunciabile.

18 COGNOME MATERNO AI FIGLI Nuovo Progetto per la XVIII Legislatura.

19 COM. ADOZIONI INTERNAZIONALI Protocollo di collaborazione con la Repubblica di Belarus.

19 CONGEDO PARENTALE Licenziato il papà che non sta col figlio durante il congedo.

20 CONSULTORI FAMILIARI I consultori in rete colla comunità e al fianco delle famiglie normali

20 Consultorio di Castel Bolognese. Genitori in Attesa

21 CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Mantova. Etica Salute & Famiglia – gennaio 2018

21 CONTRACCEZIONE 9 modi in cui i non cattolici stanno combattendo la contraccezione

22 DALLA NAVATA III Domenica del tempo ordinario- Anno B -21 gennaio 2018.

22 L’ora della vocazione. Commento di Enzo Bianchi.

24 DEMOGRAFIA Natalità in caduta anche in Francia. Dura e utile lezione.

25 DIRITTI Diritti umani, il messaggio laico del papa.

26 EREDIEredità sul coniuge in comunione o separazione dei beni

26 ETS (già onlus) NON PROFIT Requisiti per l’ammissione di nuovi associati negli ETS.

28 Codice Terzo settore, come sarà regolato il periodo transitorio.

29 EUROPA Nozione di coniuge nel contesto de libera circolazione dei cittadini

29 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI «Patto per la natalità», il Forum fa appello alla politica.

30 Famiglia. Il Forum sfida la politica. Ora un #PattoXNatalità.

34 Fare un figlio non può far diventare poveri.

34 Natalità, priorità assoluta nei programmi dei partiti.

35Il patto per la natalità piace alla politica

36 FRANCESCO VESCOVO DI ROMAI laici non sono servitori.

37 Intervista a Riccardo Di Segni, rabbino di Roma.

37 GENETICA Genetisti italiani: le razze umane non esistono, non usare termine.

38 GENITORI ADOTTIVI Piccolo vademecum per essere pronti a fare i “bravi genitori”.

40 GESTAZIONE SURROGATA Maternità surrogata o surrogato di maternità?

43 GIORNATA PER LA VITA Messaggio della CEI per 40a Giornata nazionale per la Vita.

44 MIGRANTI Migranti e salute. Ultimi aggiornamenti.

44 MINORI «Progetto rete» per salvare i minori senza famiglia.

45 Tutori e minori nello studio dell’Agenzia Ue sui diritti fondamentali.

45 NULLITÀ CANONICA MATRIMONIALEcomporta la cessazione del giudizio civile di separazione.

46 Ammessa la delibazione sentenza ecclesiastica anche dopo 10 anni.

46 OMOFILIALa chiesa e la contaminazione omosessuale

53 PARLAMENTO Comm. Infanzia Indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia

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ABORTO

Contraccezione e aborto. È record di pillole tra le giovani italiane

Gli ultimi dati sugli aborti mostrano l’impressionante trend di crescita nel consumo di farmaci «del giorno dopo» o «dei cinque giorni dopo». Un fenomeno educativo e sociale da capire

Continua ad aumentare la forbice fra i trend degli aborti volontari (che diminuiscono) e dell’acquisto di pillole potenzialmente abortive (sempre in rialzo). Secondo i dati resi noti l’11 gennaio dal Ministero della Salute, infatti, nel 2016 mentre il numero di interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) è stato pari a 84.926, il 3,1 per cento in meno rispetto al 2015, le vendite di Ulipristal acetato (EllaOne), la cosiddetta pillola dei 5 giorni dopo, hanno raggiunto quota 189.589: 145.101 erano le confezioni distribuite nel 2015, 16.797 nel 2014, 11.915 nel 2013 e 7.796 nel 2012. «L’andamento di questi ultimi anni, come già presentato lo scorso anno – si legge nella relazione del Ministero –, potrebbe essere almeno in parte collegato alla determina Aifa del 21 aprile 2015 che elimina, per le maggiorenni, l’obbligo di prescrizione medica».

vedi newsUCIPEM n. 684, pag. 3 – 14 gennaio 2018

Il rialzo riguarda anche la cosiddetta pillola del giorno dopo, il Levonorgestrel (Norlevo), disponibile in farmacia anch’esso senza prescrizione medica: 214.532 le confezioni vendute nel 2016, 161.888 quelle del 2015. Il trend in continua crescita nasconde però un imprecisato numero di aborti, numericamente non tracciabile, che è vissuto dalle donne in completa solitudine, e soprattutto senza consapevolezza. «La contraccezione d’emergenza per molte giovani donne rischia di essere adottata come metodo contraccettivo ordinario – spiega il farmacologo Mario Eandi –. Si deve sottolineare che i rischi di un uso prolungato della pillola del giorno dopo, identificata oggi prevalentemente con l’ulipristal, non sono ancora completamente documentati». Come indica anche la scheda tecnica, «la somministrazione ripetuta di EllaOne durante uno stesso ciclo mestruale non è consigliabile, dal momento che la sicurezza e l’efficacia di EllaOne in queste circostanze non sono state ancora studiate». «Il profilo di sicurezza di ulipristal nella contraccezione d’emergenza – precisa Eandi – è stato descritto dal report 2014 di farmacovigilanza condotto su oltre un milione di donne che ne hanno fatto uso: un totale di 553 donne hanno manifestato 1.049 reazioni avverse al farmaco. La gravidanza indesiderata è stata registrata in 282 casi (26,9%); nausea, vomito, dolori addominali in 139 casi (13,3%); cefalea, vertigini in 67 casi (6,4%); metrorragia, ritardi mestruali e gonfiori e dolori della mammella in 84 casi (8,0%)». Includendo anche i casi riportati negli studi clinici, «il totale delle gravidanze è risultato pari a 376; 232 (62%) con esito noto: 28 nati vivi (29 neonati), 34 aborti spontanei, 151 aborti in- dotti, 4 gravidanze ectopiche e 15 gravidanze in corso al momento del report».

Le donne spesso «non hanno consapevolezza di quello che stanno facendo, non conoscono gli effetti collaterali e non sanno che si tratta di una pillola abortiva, che non provoca solo un blocco dell’ovulazione ma un’alterazione a livello dell’endometrio – rimarca Cleonice Battista, ginecologa del Campus Bio-Medico di Roma – . Ecco perché è fondamentale educare i ragazzi a stili di vita volti al benessere e alla salute, e sensibilizzarli sul fatto che la sessualità dev’essere collocata all’interno di un progetto di vita. Persino l’Oms ora parla non più di educazione sessuale ma olistica: è emerso chiaramente che la massiccia campagna per l’uso del profilattico non ha fatto diminuire le gravidanze in giovane età né le malattie sessualmente trasmissibili».

Del resto, come per la procreazione medicalmente assistita, sottolinea Eugenia Scabini, professore emerito di psicologia sociale e presidente del Comitato scientifico del Centro studi e ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica di Milano, «per queste pillole esiste una base di assoluta ignoranza sugli effetti a lungo termine per la salute». A ciò poi si aggiunge «un’incapacità di riflettere sul senso e gli effetti di un comportamento che in questi casi le donne pagano caro: mentre infatti di fronte all’aborto volontario ci sono effetti drammatici, e un ripensamento che viene fuori spesso anche in età adulta, queste pratiche non fanno affrontare neanche una scelta positiva o negativa». Non sapendo se davvero la pillola ha provocato un aborto, «rimane tutto nel dubbio, in una zona ambigua. E l’ambiguità, dal punto di vista psicologico, è uno degli aspetti più terribili, perché non consente neanche di guardare in faccia il problema. Provoca in sostanza un evitamento, un meccanismo molto primitivo che non permette di maturare».

L’aborto, di conseguenza, diventa «assolutamente privato, silenzioso, in sostanza un diritto – ribadisce Maria Teresa Ceni, presidente del Centro di aiuto alla vita di Abbiategrasso, Magenta e Rho (Milano) –. Per di più, ormai si è abbassata notevolmente la soglia del giudizio morale rispetto all’atto che la donna va a compiere». Non potendo disporre inoltre di alcun filtro, «viene eliminato totalmente qualsiasi confronto sociale». Non è secondario poi «dal punto di vista sanitario l’enorme problema cui dovremo far fronte: non sappiamo infatti tra dieci anni quale sarà lo stato di salute a livello dell’utero: non essendo necessaria la prescrizione medica, le donne infatti possono assumere queste pillole senza alcun controllo sanitario».

L’aumento dei farmaci potenzialmente abortivi, come evidenzia Maria Grazia Colombo, vicepresidente del Forum delle associazioni familiari, fa emergere in definitiva «il fallimento nel rapporto educativo». Si tratta di un «procedimento, se possibile, ancora più negativo dell’aborto: sembra meno invadente, invece lo è molto di più. Facendo tutto in solitudine, nel nascondimento, in realtà si va a minare la persona dal di dentro. Per i ragazzi è una situazione molto a rischio, porta all’assenza di decisioni condivise, a un egoismo esasperato. E dentro questa dimensione si creano situazioni difficili da sanare. Per questo, anche se non è affatto semplice, la famiglia dovrebbe intervenire. Ma prima di tutto occorre ristabilire un patto educativo tra genitori e insegnanti».

Graziella Melina Avvenire 18 gennaio 2018

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/una-pioggia-di-pillole-sui-giovani-italiani

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ADOZIONI E AFFIDO

Sostenere adozioni e affido: così cresce il «patto natalità»

Una ventina di associazioni si uniscono assieme in «Insieme per accogliere», supportate da Cei e Forum delle famiglie: un modo per rilanciare adozioni, affidi e una cultura della solidarietà familiare. Sostenere il patto per la natalità. Rilanciare la cultura dell’accoglienza. Avviare una grande iniziativa capace di coalizzare le migliori risorse pubbliche e private per trasformare adozione e affido da pratiche residuali a progetto popolare e condiviso di bene comune.

Un sogno possibile nel momento in cui i dati parlano di un crollo verticale delle adozioni internazionali e di una crescente indifferenza verso la cultura dell’accoglienza? E, allo stesso tempo, di un aumento del ricorso alla fecondazione assistita come ‘prima scelta’ nel caso di sterilità di coppia? Nessuno nega la complessità della situazione e la difficoltà di fare breccia in un atteggiamento sociale sempre più radicato che sembrerebbe mettere da parte la logica dell’apertura, del dono, della solidarietà generazionale. Ma i rappresentanti delle associazioni che giovedì pomeriggio hanno accettato di confrontarsi con il direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia, don Paolo Gentili, e con il presidente del Forum delle associazioni familiari, Gianluigi De Palo, si sono detti consapevoli del rischio di impegnarsi in una sfida straordinaria. Quella di inventare un nuovo e più convincente approccio all’adozione – nazionale e internazionale – e all’affido nelle sue diverse modalità, proprio quando questi istituti che parlano di responsabilità, generosità, e condivisione sembrano conoscere i giorni più amari. Una ventina le associazioni sedute intorno a un tavolo (tra le altre Age, Aibi, Progetto famiglia, Rinnovamento nello Spirito, Cammino neocatecumenale, Masci, Opera San Vincenzo, Terz’ordine secolare francescano, Famiglie per l’accoglienza, Maestri cattolici, Famiglie numerose, Cif, Mcl, Associazione Papa Giovanni XXIII).

Non tutte aderenti al Forum e non tutte caratterizzate da una specifica vocazione per l’adozione e l’affido. Eppure la sensazione dei presenti è stata quella di vivere un grande momento di svolta. Dallo sguardo rassegnato di chi, di fronte a difficoltà obiettive e analisi non esaltanti, rinuncia alla partita, alla proposta gioiosa di chi crede che il bene della parte più preziosa della società, i bambini e i ragazzi meno fortunati, sia sempre e comunque un obiettivo da perseguire con convinzione. Ma come fare? Intanto il progetto ha già un nome, “Insieme per accogliere” e alcuni punti fermi che Cristina Riccardi di Aibi ha sintetizzato nella volontà di non lasciare sole le famiglie disponibili, di mostrare il lato positivo dell’accoglienza, di raccogliere testimonianze forti, di lavorare per un cambiamento culturale, di sostenere il lavoro delle istituzioni che ancora credono nella possibilità di accompagnare e qualificare l’impegno delle famiglie accoglienti. Perché questi professionisti che non hanno smesso di sorridere a chi apre le porte di casa a un bambino che non ce l’ha esistono nei Tribunali per i minorenni, negli uffici degli assistenti sociali, nei Comuni e nelle Asl che coordinano i servizi per l’affido, nelle comunità d’accoglienza. Ma anche in alcuni ruoli chiave (Garante per l’infanzia, Commissione per le adozioni internazionali) che hanno la possibilità di sostenere e accompagnare il nuovo progetto.

«Spesso – ha detto Riccardi – sentiamo parlare di adozione e di affido solo come problema. Dobbiamo cercare di rovesciare questa situazione». Proprio nei numeri relativi alle adozioni, spesso presentati solo come la prova di un’eclisse senza fine, si possono invece cogliere spiragli di speranza. Tra le circa diecimila coppie che ogni anno presentano domanda per l’adozione nazionale, poco più del dieci per cento riuscirà a raggiungere il suo obiettivo. Non si tratta né di sfortuna né di ostacoli burocratici. Quello è infatti il numero di bambini adottabili che si rendono disponibili ogni anno in Italia. Per le altre novemila coppie si apre un lungo percorso di attesa, spesso senza esiti, oppure il passaggio all’adozione internazionale che richiede però costi e disponibilità non sostenibili da tutti. Rendere più facile e più agevole questo percorso, soprattutto abbattendo radicalmente i costi, sarebbe il messaggio più incoraggiante per le famiglie intenzionate ad aprirsi all’accoglienza, trattenute finora da troppe notizie negative.

«Insieme per accogliere – ha aggiunto Nino Di Maio di Progetto famiglia – dovrà avere il sostegno del maggior numero possibile di associazioni e di realtà nazionali e locali. Accogliere fa crescere la coppia e umanizza la società». Rosaria D’Anna, presidente nazionale Age, ha sollecitato una campagna informativa rivolta ai tanti genitori che non hanno ancora approfondito la possibilità di aprirsi ai percorsi dell’adozione e dell’affido, mentre Marco Giordano, segretario del Tavolo nazionale per l’affido, ha spiegato che tutte le famiglie avrebbero la possibilità di aprirsi all’accoglienza seguendo la logica dei piccoli passi, per esempio cominciando con l’affido diurno, prassi poco conosciuta, poco impegnativa, eppure capace di costruire relazioni positive.

Luciano Moia Avvenire 20 gennaio 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/sostenere-adozioni-e-affido-cos-cresce-il-patto-natalit

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

I dati pubblicati dagli enti autorizzati relativi al 2017

In base all’articolo 17 delle Linee Guida emanate dalla Commissione Adozioni Internazionali tutti gli enti dovrebbero rendere pubblici i dati aggiornati sulle procedure completate, almeno ogni 6 mesi Riportiamo i dati pubblicati, ad oggi, sui siti web o social dagli enti che hanno rispettato le regole.

 

Sembra incredibile: eppure, chi volesse andare a scoprire l’andamento numerico delle attività di adozione internazionale degli Enti autorizzati in Italia dalla Commissione Adozioni Internazionali (CAI) cercando sui loro siti web o social scoprirebbe, per il 50% di essi, che sorprendentemente non risultano presenti i dati aggiornati del numero di minori e di coppie che hanno felicemente concluso le procedure di adozione nell’anno appena terminato.

Un dato che sicuramente stupisce, ma che è certificato dai fatti: dei 62 enti autorizzati a livello nazionale, solo la metà – ovvero 31 – hanno pubblicato i propri dati nel rispetto delle indicazioni contenute all’interno dell’articolo 17 delle Linee Guida emanate nel 2008 dalla Commissione Adozioni Internazionali – tuttora in vigore – circa i “criteri per l’autorizzazione all’attività degli enti previsti dall’articolo 39-ter della legge 4 maggio 1983, n.184 e successive modificazioni“, che ha fondato il sistema attualmente vigente in Italia per le procedure di adozione internazionale.

L’articolo in questione, intitolato ‘Diffusione dei dati rilevanti per una corretta informazione del pubblico’, sancisce in effetti che “l’Ente è tenuto a rendere noti“, tra i vari dati, pure “il numero di adozioni realizzate in ogni Paese, in ciascuno degli ultimi tre anni“. Non solo: il testo aggiunge che “in ogni caso, l’ente deve impegnarsi ad aggiornare i dati almeno ogni sei mesi“, raccomandando al comma 2 “la predisposizione di un’apposita pagina informativa nel sito web dell’ente, che sia di facile accesso e comprensione“.

Invece, 31 Enti autorizzati non hanno pubblicato le informazioni online sui numeri delle proprie procedure di adozione effettuate. Ma pure dei restanti, va annotato come 5 abbiano pubblicato dati non aggiornati al 31 dicembre 2017 e, infine, 3 abbiano indicato solto la cifra totale delle procedure concluse dall’inizio della propria attività, senza certificare gli aggiornamenti semestrali, come richiesto espressamente dalle Linee Guida, per cui diventa impossibile capire quante adozioni sono state realizzate nel 2017.

Insomma, l’esito per chi volesse saperne di più è una ‘giungla’, tra mancati numeri e cifre disomogenee rispetto a quanto richiesto dalla CAI. Una complicazione che, di certo, non facilita il compito a quelle coppie che magari avrebbero la volontà di essere informate sull’andamento dell’universo adottivo per decidere se e a chi affidare il proprio ‘sogno’ d’amore familiare.

Qui sotto riportiamo la graduatoria decrescente, aggiornata al 31 dicembre 2017, relativa alle procedure adottive completate dagli enti autorizzati che hanno reso pubblici i numeri della loro attività, nel rispetto della normativa:

 

Newsletter Ai.Bi. 18 gennaio 2018

www.aibi.it/ita/ladozione-internazionale-nel-2017-secondo-dati-pubblicati-dagli-enti-autorizzati-nonostante-lobbligo-solo-la-meta-degli-enti-li-rende-noti-la-classifica-minori-adottati-ai-bi-seconda

L’Ente Istituto La casa-Milano ha pubblicato: Adozioni concluse n. bambini (10/01/2018)

Bolivia Bulgaria Cile Colombia totale

2017 0 3 08 06 17

2016 0 4 18 05 27

2015 0 6 19 04 29

2014 1 5 35 11 52

2013 1 5 16 13 35

www.istitutolacasa.it/showPage.php?template=istituzionale&id=4

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AFFIDO CONDIVISO

Divorzio: via libera all’app per gestire i figli senza conflitti

Tribunale di Modena, seconda Sezione civile, sentenza n. 2259, 28 dicembre 2017

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_28799_1.pdf

Il tribunale di Modena dà il via libera al divorzio congiunto delle parti che accettano di seguire il Progetto Anthea, per la gestione dei figli tramite applicazione.

Il tribunale di Modena, primo in Italia ha dato il via libera al ricorso congiunto per lo scioglimento del matrimonio di una giovane coppia che ha deciso di aderire al progetto Anthea: l’app “salva conflitti” creata dall’avvocato Giovanni Casale per aiutare i genitori, separati e divorziati a gestire tutti gli aspetti che riguardano i figli senza farsi la guerra.

Dunque per quanto riguarda i minori, gli ex coniugi comunicano tra loro solo tramite l’applicazione telematica. Col risultato che rimane tutto scritto nero su bianco e le parole costituiranno «prova ineludibile e incontestabile dalle parti» e testimonianza chiara dei rapporti della ex coppia.

Nel caso specifico di Modena, il giudice ha sciolto il matrimonio tra le parti, una delle quali difesa proprio dall’avv. Casale, recependo le condizioni concordate dai genitori di adesione al progetto Anthea, prospettate «nell’interesse della prole» e «non contrarie alla legge», al fine di facilitare la gestione delle problematiche che possono riguardare la prole e la gestione della conflittualità genitoriale. Così si legge nella sentenza (giudice relatore Sira Sartini).

I due si sono impegnati ad utilizzare la relativa applicazione telematica in modo esclusivo per qualsiasi comunicazione che possa riguardare i minori e ben consapevoli che tutte le comunicazioni che “intercorreranno tra essi potranno essere oggetto di produzione documentale rappresentando prova ineludibile ed incontestabile dalle parti”. Non solo. Il mancato uso dell’applicazione, si legge ancora nel provvedimento, “non potrà essere oggetto di giustificazione alcuna e potrà essere liberamente valutato dal magistrato in caso di decisioni che derivino da atti e procedimenti attivati a seguito di insorta conflittualità tra i genitori successivamente”.

Il progetto Anthea, presentato in Parlamento alla commissione bicamerale peer l’infanzia, è un’applicazione per smartphone e tablet che consente ai genitori di avvalersi di una serie di servizi e di scambiarsi informazioni e accordi, con la consapevolezza che potranno far fede in sede giudiziale in quanto lo storico di esse potrà essere scaricato e prodotto in giudizio. Per ogni evento creato (ad esempio “accompagnare il bambino in piscina”) ci potranno essere feedback di gradimento o di non adesione. Anche il mancato uso dell’applicazione non è giustificato e può essere oggetto di valutazione da parte del giudice nel caso di successivi conflitti.

Il giudice potrà valutare in tempo reale il comportamento delle coppie e ai genitori sarà consentito dialogare tra loro su una piattaforma informatica “controllata”. Il fine, da un lato è quello di tutelare gli interessi dei minori e dall’altro di consentire ai coniugi un contatto “sano” e costruttivo, lontano dalle aule di tribunale.

Gabriella Lax News studio Cataldi 22 gennaio 2018

www.studiocataldi.it/articoli/28799-divorzio-via-libera-all-app-per-gestire-i-figli-senza-conflitti.asp

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AMORIS LÆTITIA

Indicazioni sul capitolo VIII dell’Amoris Lætitia

Accompagnare, discernere, integrare le tre parole chiave.

Noi vescovi delle Chiese locali dell’Emilia Romagna rendiamo grazie al Signore per il recente percorso sinodale sulla famiglia raccolto nell’esortazione Amoris Lætitia(AL) che papa Francesco ha offerto a tutta la Chiesa e desideriamo esprimere la nostra profonda gratitudine e vicinanza a tutte le famiglie: a quanti, sentendosi chiamati, si stanno preparando a celebrare il loro matrimonio; alle famiglie che ogni giorno lo vivono nella fedeltà; a quanti sono in condizioni difficili per le avverse condizioni economiche, per la perdita del lavoro, per disgrazie e lutti; a chi patisce le ferite della lacerazione e della separazione; a chi vive situazioni «di fragilità e di imperfezione» (AL 296).

  1. La bellezza del matrimonio cristiano, via di santità. Intendiamo in primo luogo riaffermare la bellezza e intangibilità del matrimonio sacramentale, via di santità proclamata costantemente dal magistero e ribadita da papa Francesco. Infatti «come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro» (AL 35). Ribadiamo che è possibile vivere il matrimonio in pienezza con l’aiuto della grazia sacramentale, della preghiera e della cura pastorale. Siamo riconoscenti alle famiglie cristiane che testimoniano l’amore sponsale e a quanti rimangono fedeli al matrimonio, nonostante le separazioni, talvolta in modo eroico.

  2. La «via caritatis». Sulla via rilanciata da AL si sviluppa l’impegno di noi vescovi insieme alle nostre Chiese locali. E proprio su questa via intendiamo offrire percorsi e opportunità di discernimento alla comunità cristiana, per la riscoperta e l’annuncio del vangelo del matrimonio, per la crescita dell’amore degli sposi e per l’accompagnamento dei giovani al matrimonio; a chi opera con e per le famiglie – presbiteri, sposi, persone consacrate, laici, esperti – e, in forma particolare, a quanti chiedono di essere accolti e accompagnati a discernere e integrare la loro condizione familiare di separati e divorziati risposati o divorziati conviventi. Questa è la «via caritatis» (AL 306) che vogliamo percorrere insieme. Il nostro atteggiamento aiuterà tanti a mettersi in questione e a fare una nuova scoperta dell’amore di Dio nella propria situazione. Con questo intento ci riferiamo ora al cap. VIII di AL, per una sua piena recezione nella nostra Regione.

  3. Per un cammino di carità e verità. Alcune persone – anche sollecitate dalla pubblicazione di AL – si rivolgono alla Chiesa presentando la loro condizione di divorziati risposati o divorziati conviventi: interrogandola sul grado della loro appartenenza alla comunità, sulla loro idoneità ad assumere il compito di padrini o madrine, sulla possibilità di essere riammessi alla comunione eucaristica. Ringraziamo il Signore per questi incontri, consapevoli che l’intera comunità cristiana è chiamata a maturare un cammino di accoglienza, coniugando carità e verità, senza scadere nei facili estremismi di un lassismo che legittimi ogni situazione e di un rigorismo che condanni le persone. Per questo ci sembra importante indicare gli elementi essenziali sui quali le nostre Chiese locali possano delineare dei percorsi che si concretizzino in proposte diocesane, vicariali o parrocchiali e siano di aiuto al discernimento proposto da sacerdoti e operatori pastorali nelle singole situazioni.

  4. L’accoglienza iniziale. È indispensabile prima di tutto che i singoli e le coppie che chiedono aiuto alla Chiesa incontrino persone capaci di accoglienza: i sacerdoti, i consacrati, altre coppie oppure esperti disponibili. Il primo contatto può avvenire attraverso strade diverse e anche occasionali, ma è certamente essere utile disporre in ogni diocesi la possibilità di inviare i richiedenti ad una équipe di persone preparate e incaricate dal vescovo per questo percorso, in stretta collaborazione con l’ufficio diocesano per la famiglia e con il Tribunale ecclesiastico. La varietà delle situazioni è talmente ampia, che non si può immaginare un percorso iniziale uguale per tutti e nemmeno ipotizzare una casistica dettagliata. È bene chiarire fin dall’inizio del percorso che l’obiettivo del cammino non è di per sé quello di riammettere i richiedenti all’assoluzione sacramentale e quindi alla comunione eucaristica e che non vi sono tempistiche prestabilite o prove da superare. È un percorso, non un corso. L’obiettivo è invece quello di illuminare la coscienza delle persone, per aiutarle a farsi un retto giudizio circa la loro situazione. «Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio» (AL 300).

  5. Criteri di verifica per il cammino. Da AL 298-300 possiamo ricavare alcuni criteri sui quali compiere il discernimento per giungere a una coscienza illuminata. Alcuni riguardano la prima unione, quella sacramentale:

  1. 1) gli sforzi per salvare il matrimonio; 2) la responsabilità nella separazione (voluta oppure subìta); 3) la certezza soggettiva “in coscienza” che il primo matrimonio è nullo; 4) la possibilità o meno di sanare la separazione; 5) il comportamento verso i figli quando l’unione è entrata in crisi; 6) gli eventuali tentativi di riconciliazione; 7) l’interesse per la situazione del partner abbandonato.

  2. Altri criteri riguardano la seconda unione: 1) il consolidamento nel tempo; 2) la presenza di figli e il loro bene; 3) la dedizione; 4) l’impegno cristiano; 5) la consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione; 6) la possibilità o meno di tornare indietro senza cadere in nuove colpe; 7) l’impatto della nuova relazione sul resto della famiglia, sulla comunità dei fedeli e sui giovani orientati al matrimonio.

  1. La verifica canonica e l’accompagnamento consultoriale. Chi tiene i primi contatti cercherà di valutare l’esistenza effettiva del vincolo matrimoniale. Dove possibile, le persone richiedenti saranno indirizzate al Tribunale ecclesiastico, le cui procedure sono state riformate e semplificate da papa Francesco nel documento Mitis Iudex Dominus Iesus (15 agosto 2015), per verificare le possibilità e le condizioni di un cammino di riconoscimento della nullità del precedente matrimonio. Sarà poi utile, da parte di coloro che accompagnano i richiedenti, consigliare un percorso in un Consultorio familiare di ispirazione cristiana, soprattutto nel caso in cui sussistano risentimenti nei confronti del primo coniuge o qualora le ferite affettive, inevitabilmente legate all’esperienza della separazione, si mostrino ancora aperte e influiscano sulla nuova unione. Il rasserenamento nei confronti del coniuge dal quale ci si è separati è necessario anche per poter compiere un cammino autentico di conversione e di penitenza.

  2. Percorso personale con un sacerdote. Il cammino dovrà incrociare costantemente la parola di Dio, cioè il Vangelo proclamato e vissuto nella Chiesa. A questo scopo è necessario che le persone in cammino siano accompagnate da un sacerdote, che periodicamente li aiuti a confrontarsi con la persona e l’insegnamento di Gesù, “volto della misericordia” del Padre, che chiama a percorrere la via stretta dell’amore. «Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere» (AL 300). Ogni sacerdote, ogni confessore, può accostare e accompagnare le coppie e le persone che si rivolgono a lui, ricordando che non agisce mai “in proprio”, ma sempre con la Chiesa e nella Chiesa e può egli stesso rimandare le persone richiedenti ad altri confratelli; vi sono infatti situazioni che possono richiedere al sacerdote più tempo a disposizione e maggiori conoscenze e a volte vi sono da parte dei fedeli esigenze di riservatezza e di maggiore facilità nel dialogo con alcuni rispetto ad altri.

  3. Percorso comunitario e con una équipe. È auspicabile che si rendano accessibili dei gruppi dove il confronto con la parola di Dio possa avvenire nella comunicazione reciproca tra i partecipanti; la dinamica di gruppo permette di far circolare esperienze e di arricchirsi a vicenda, mettendo a confronto con il Vangelo i propri percorsi di vita. Molti gruppi esistono e operano già con frutto nelle nostre comunità, coinvolgendo anche persone, coppie e famiglie ferite dalla separazione. è comunque opportuno preparare nelle diocesi, come sopra accennato, anche équipes di presbiteri, consacrati, laici e coppie-guida che siano disponibili – sotto la cura diretta o indiretta del vescovo – a questo servizio specializzato, senza che questo possa sostituire l’accompagnamento personale da parte di un sacerdote.

  4. Il discernimento sui rapporti coniugali. La possibilità di vivere da “fratello e sorella” per potere accedere alla confessione e alla comunione eucaristica è contemplata dall’AL alla nota 329. Questo insegnamento, che la Chiesa da sempre ha indicato e che è stato confermato nel magistero da Familiaris Consortio 84, deve essere presentata con prudenza, nel contesto di un cammino educativo finalizzato al riconoscimento della vocazione del corpo e del valore della castità nei diversi stati di vita. Questa scelta non è considerata l’unica possibile, in quanto la nuova unione e quindi anche il bene dei figli potrebbero essere messi a rischio in mancanza degli atti coniugali. È delicata materia di quel discernimento in “foro interno” di cui AL tratta al n. 300.

  5. Un servizio comunitario. Non potrà mancare, almeno ad un certo punto del percorso, l’esperienza di un servizio nell’ambito di una comunità cristiana. Si potranno proporre servizi connessi alle attività caritative ed assistenziali, all’animazione oratoriale e sportiva, al canto e alla musica e così via. Questo impegno fa crescere sia coloro che lo assumono, sia la comunità cristiana; i primi potranno sperimentare la vita concreta di una comunità, con le sue ricchezze e i suoi limiti, e questa a sua volta si renderà conto che alcuni fratelli e sorelle stanno percorrendo un cammino di pieno reinserimento al suo interno, sensibilizzandosi alla loro condizione e favorendo anche la preghiera per loro.

  6. Significato dell’eventuale riammissione ai sacramenti. Nel caso in cui il percorso sfoci nella richiesta di riammissione ai sacramenti, sarà opportuno stabilirne le modalità, per evitare da una parte situazioni conflittuali e scandali e dall’altra la sensazione che la riammissione rappresenti una questione privata e una sorta di “eccezione” concessa ad alcuni (cf. AL 300). In ogni caso, è opportuno che la comunità nella quale i richiedenti si sono riaffacciati e hanno svolto un servizio, partecipi in qualche misura alla loro piena reintegrazione.

  7. Gratitudine alle famiglie, ai presbiteri, ai consacrati. La vita delle famiglie sta a cuore alla Chiesa e a noi vescovi che, grati per la famiglia nella quale siamo stati generati ed educati, vogliamo procedere insieme con commossa vicinanza e umile premura a tutte le famiglie, in modo particolare a chi vive con fatica, sente il dolore delle ferite e chiede sostegno per rinnovare fedeltà e speranza. Vogliamo esprimere la nostra gratitudine anche ai presbiteri, ai consacrati e a tutti coloro che camminano con le famiglie e ne accompagnano i momenti gioiosi e faticosi. La famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria ci indichi la strada e ci accompagni.

I Vescovi dell’Emilia Romagna Bologna, 15 gennaio 2018

www.imola.chiesacattolica.it/home_diocesi/news/00000474_Indicazioni_sul_capitolo_VIII_dell_Amoris_Laetitia.html

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Verso l’addio al tenore di vita anche per il coniuge separato

Corte d’ Appello di Roma Sezione Famiglia ordinanza n. 3019 5 dicembre 2017

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_28841_1.pdf

La Corte di Appello di Roma conclude “in assoluto” per l’esclusione di un assegno di mantenimento a favore di un coniuge debole. Un’ordinanza della Corte di Appello di Roma porta contributo alla tesi che i tempi siano maturi per abbandonare il riferimento al tenore di vita vissuto in costanza di matrimonio non solo per l’assegno divorzile, ma anche per quello alla separazione. Un contributo, per la verità, che giunge a conclusione di un ragionamento non completamente sviluppato, per cui le circostanze occasionali – e quindi non ripetibili – rischiano di schermare e indebolire valide considerazioni di principio.

In breve, un provvedimento presidenziale che dispone la corresponsione di un assegno di mantenimento alla separazione di 1400 € viene reclamato dall’obbligato e il reclamo è accolto sulla base del fatto che la prima decisione non ha valutato la particolare storia della coppia e le risorse di entrambi: “la valutazione effettuata dal Presidente circa la mera comparazione tra la situazione economica dei coniugi nell’attualità ha omesso di considerare rilevanti peculiarità della vicenda coniugale e personale di vita delle parti che non possono non avere riflesso nella disciplina dei diritti/doveri nascenti dalla separazione”. In effetti, entrambi sono alla seconda esperienza matrimoniale, entrambi con figli, e hanno sviluppato le proprie attività lavorative in modo del tutto indipendente, per cui non c’è stato contributo della signora alla carriera del marito. Tutto questo non è che l’elenco delle circostanze che determinano la componente compensativa dell’assegno; mentre non è in discussione alcuna eventuale componente risarcitoria.

Quindi, iniziando a trarre le conclusioni la CA osserva anzitutto che “se pure il xx può essere ritenuto titolare di una attività professionale produttiva di redditi significativamente superiori, anche potenzialmente, rispetto a quelli ricavabili dalla coniuge con la propria attività commerciale…” ” … diversamente dalla coniuge egli non è titolare di un proprio patrimonio immobiliare e, uscito dalla casa familiare, di proprietà della coniuge, ha reperito una casa in locazione”.

Ora, affermare che la maggiore produttività del marito è compensata da una inferiore condizione patrimoniale sembra funzionale a concludere che non c’è differenza di benessere economico all’interno della coppia: il che azzera la componente assistenziale dell’assegno. Tuttavia, si nota la totale assenza di qualsiasi riferimento al tenore di vita. In altre parole, quanto fin qui esposto dovrebbe servire a stabilire il quantum di un eventuale assegno, una volta superato il problema dell’an. E per rispondere a quest’ultimo quesito, secondo giurisprudenza ante Cass. 11504/2017, si sarebbe dovuto valutare se l’aspirante beneficiaria avesse mezzi propri che le consentissero di godere dello stesso tenore di vita precedente.

https://renatodisa.com/wp-content/uploads/2017/05/corte-di-cassazione-sentenza-n-copia.pdf

Viceversa, alla conclusione negativa si arriva per una strada del tutto indipendente da tale variabile, neppure considerata: “tali presupposti inducono a ritenere quest’ultima, ai fini della decisione in via provvisoria e urgente, del tutto in grado, per la capacità di lavoro, di reddito e di patrimonio, dimostrata e conseguita già prima del matrimonio e successivamente mantenuta, di provvedere con i propri mezzi a se stessa”. Dunque ciò che si utilizza è direttamente una analisi della capacità di autosostentamento: “Ritenuto pertanto che non sussistano, allo stato, i presupposti per l’attribuzione alla moglie di un assegno di mantenimento, ne dispone la revoca con decorrenza dall’ordinanza stessa”. Ovvero si aderisce allo stesso principio di autoresponsabilità utilizzato costantemente dalla Suprema Corte nel corso del 2017 a partire dalla citata sentenza nel caso dell’assegno divorzile.

Mantenimento: addio al tenore di vita anche nella separazione? Sembra, dunque, che nella conclusione si sia raggiunta quella auspicabile generalità che rende citabile e iterabile il provvedimento. Resta il fatto che non viene svolta alcuna considerazione di principio. Ovvero, visto che perfino la probabile fonte ispiratrice di legittimità prende la distanze da una estensione all’assegno di mantenimento alla separazione sarebbe stato opportuno – se non necessario – che si dicesse qualcosa a giustificazione della scelta. Qualcosa che esiste e non è neppure troppo complicato trovare. In effetti, va stretta alla sensibilità sociale l’insistenza su differenze che, pur di natura puramente formale, hanno rilevanti ricadute concrete, quando la sostanza che le ha fatte introdurre in pratica non esiste più; come nel caso di separazione e divorzio. Suona come accanimento accademico che non vuole arrendersi alla evidente inadeguatezza sostanziale. Resta il fatto che, in attesa di un mutamento legislativo, si deve resistere alla tentazione di ignorare i vincoli giuridici, in una sorta di esproprio proletario, e cercare nel diritto vigente la legittimazione per letture diverse. E queste nel problema che ci occupa sono fornite, in estrema sintesi, dalla comparazione tra l’art. 156 c.c. e l’art. 5 comma 6 della legge 898/1970.

www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-vi/capo-v/art156.html

www.altalex.com/documents/leggi/2012/06/27/disciplina-dei-casi-di-scioglimento-del-matrimonio

In questo secondo caso, per valutare l’eventuale obbligo di corrispondere un assegno divorzile si fa riferimento ai “redditi di entrambi”, associandoli così come erano in costanza di matrimonio. Naturalmente ciò non comporta necessariamente di doversi riferire al tenore di vita comune di un tempo, esistono altre spiegazioni. Tuttavia, se per il divorzio questo elemento non è considerato determinante, l’espressione utilizzata all’art. 156 c.c., in cui si dà importanza solo ai “redditi dell’obbligato”, ovviamente attuali e non pregressi, pur rammentando che formalmente i separati sono ancora coniugati, in concreto rende a maggior ragione meno plausibile che l’assegno al coniuge separato debba essere commisurato alla vita di un tempo. In altre parole, se si svincola l’assegno divorzile dal tenore di vita a maggior ragione lo si deve fare per quello alla separazione.

Marino Maglietta news studio Cataldi 18 gennaio 2018

www.studiocataldi.it/articoli/28841-mantenimento-verso-la-cancellazione-del-riferimento-al-tenore-di-vita-anche-per-il-coniuge-separato.asp

Matrimonio troppo breve? Niente assegno di mantenimento

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 402, 10 gennaio 2018.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_28769_1.pdf

La Cassazione nega l’esborso non essendosi instaurato un vero rapporto affettivo nella coppia sposata per interesse economico per soli 28 giorni. Un matrimonio concordato e fondato su reciproci interessi economici, seguito da una separazione dopo appena 28 giorni, che non ha consentito alla coppia di instaurare un vero rapporto affettivo. Per tali ragioni non spetta alcun assegno di mantenimento al coniuge.

Lo ha precisato la Corte di Cassazione, respingendo la domanda della ex moglie volta a ottenere l’assegno di mantenimento a suo favore.

In sede di merito, sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano respinto la richiesta di mantenimento avanzata dalla donna a seguito della separazione dal marito: i giudici avevano rilevato come il matrimonio fosse durato solo 28 giorni, tra l’altro senza che i coniugi avessero convissuto insieme e senza che si fosse instaurata una vera comunione materiale e spirituale tra loro. Inoltre, le parti si erano reciprocamente accusate di aver concordato il matrimonio per motivi estranei alla volontà di un’effettiva unione.

Lui, alto ufficiale dell’esercito USA, avrebbe beneficiato di gratifiche economiche conseguenti al matrimonio e riconosciute agli appartenenti alle forze armate, lei, invece, si sarebbe indotta al matrimonio dopo essersi fatta rilasciare assegni post-datati nonché, nel corso della brevissima unione, si sarebbe fatta consegnare dal marito 110mila dollari in contanti.

Un contesto che rende infruttuosa l’impugnazione della donna in Cassazione volta a ottenere una pronuncia a lei favorevole: la difesa ritiene che la breve durata del matrimonio non precluda il diritto all’assegno di mantenimento, ove di questo ne sussistano gli elementi costitutivi, rappresentati dalla non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente e dalla non titolarità da parte del medesimo di adeguati redditi propri (che gli consentirebbero di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio) nonché dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti.

Gli Ermellini, invece, ritengono che la Corte territoriale abbia espresso una coerente valutazione della vicenda prospettata dalla ricorrente ai fini dell’acceleramento della sussistenza o meno del diritto all’assegno di mantenimento e abbia decido di escluderlo. Trattasi, per la Suprema Corte, di una vicenda “eccezionale” in cui non si è realizzata alcuna comunione spirituale e materiale tra i coniugi al momento della separazione, essendosi, invece, riscontrata esclusivamente la realizzazione di accordi economici tra le parti senza che vi sia stata alcuna condivisione di vita e instaurazione di un vero rapporto affettivo qualificabile come affectio coniugalis.

Lucia Izzo Newsletter Giuridica Studio Cataldi 16 gennaio 2018

www.studiocataldi.it/articoli/28769-matrimonio-troppo-breve-niente-assegno-mantenimento.asp

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ASSEGNO DIVORZILE

Divorzio: assegno alla moglie che si è occupata dei figli

Tribunale di Milano, nona Sezione civile, sentenza n. 9868, 3 ottobre 2017,

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_28089_1.pdf

Se la moglie si è occupata dei figli e non ha più l’età per lavorare, ha diritto all’assegno di divorzio. I presupposti del mantenimento dopo il divorzio.

Sei una madre che ha dedicato la propria vita al servizio della famiglia? In particolar modo ha rinunciato a lavorare per curare la crescita e l’educazione dei tuoi figli? Ebbene se il tuo matrimonio è fallito, hai diritto all’assegno di mantenimento. È in sintesi, la conclusioni a cui sono arrivati i giudici del Tribunale di Milano che, con una recente sentenza hanno riconosciuto l’assegno di divorzio a favore del coniuge cosiddetto più debole, cioè quello privo di indipendenza economica, ma soprattutto sprovvisto della capacità lavorativa di potersela procurare. Ma andiamo per ordine e cerchiamo di comprendere qual è il percorso che è stato seguito dai giudici citati per riconoscere l’assegno di divorzio alla moglie che si è occupata dei figli.

Assegno di divorzio: i presupposti. Come già ampiamente descritto nella pubblicazione “redditi sproporzionati: niente assegno divorzile”, elementi quali la differenza di reddito tra i due ex coniugi oppure il tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio o anche il grado di contribuzione alla crescita del patrimonio familiare non sono più sufficienti a consentire il riconoscimento dell’assegno di divorzio a favore del cosiddetto coniuge più debole. In altri termini, se, ad esempio, la moglie guadagna meno dell’ex marito, ma è in grado di poter avere un’adeguata indipendenza economica, non può pretendere l’assegno di mantenimento sol perché l’ex coniuge guadagna più di lei. Da questo punto di visto, il tenore di vita avuto in corso di matrimonio non può essere minimamente preso in considerazione. Si tratta di affermazioni che sono state fatte proprie dalla storica quanto recente sentenza del maggio scorso della Cassazione [n. 11504 del 10.05.2017]

https://renatodisa.com/wp-content/uploads/2017/05/corte-di-cassazione-sentenza-n-copia.pdf

e ribadite nei successivi pronunciamenti degli Ermellini [n. 20525 del 29.08.2017]

www.studiofronzonidemattia.it/wp-content/uploads/2017/09/Cassazione-Civile-29.08.2017-n.-20525.pdf

che sembrano ormai aver tracciato un solco da cui non potrà farsi ritorno. In conclusione, presupposti indefettibili per avere diritto all’assegno di divorzio sono diventati:

  • le insufficienti condizioni economiche del soggetto destinatario del mantenimento (in genere la donna, ma potrebbe essere anche l’uomo dell’ex coppia);

  • le obiettive difficoltà del coniuge più debole a provvedere autonomamente alle proprie necessità.

Non è infrequente nella storia di una tipica famiglia italiana che la moglie si sia occupata e si occupi della crescita e della cura particolare dei figli. Alcuni potrebbero definirlo un ruolo naturale e quasi dovuto che, nella realtà dei fatti, si rivela per la donna/casalinga un percorso praticamente impossibile da cambiare. Se infatti la moglie si è sempre dedicata alla gestione della casa e dei figli, magari rinunciando al proprio lavoro, anche e con il consenso del marito, è obiettivamente difficile, soprattutto ad una certa età, trovare lavoro e rendersi indipendente. Se queste sono state le caratteristiche essenziali del cosiddetto menage familiare e la coppia si separa prima e poi divorzia, sarà molto probabile che il coniuge più debole, cioè la donna, si veda riconosciuto l’assegno di divorzio a carico del marito lavoratore e percettore di reddito. In particolare, nel caso esaminato dal Tribunale citato in precedenza, l’ex moglie, ormai ultracinquantenne e lontana dal mondo del lavoro da oltre vent’anni non essendo obiettivamente in grado di rendersi indipendente economicamente (soltanto per l’età non è più appetibile per un’occupazione), si è vista giustamente riconosciuta l’assegno di divorzio/mantenimento, già oggetto di previsione in sede di separazione dei coniugi.

Marco Borriello La legge per tutti 19 gennaio 2018

www.laleggepertutti.it/191613_divorzio-assegno-alla-moglie-che-si-e-occupata-dei-figli

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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 2, 17 gennaio 2018

Nuovo rapporto CISF 2017: presentazione a Roma, 25 gennaio 2018 [vedi il programma]. Sono ancora aperte le iscrizioni alla presentazione del Rapporto Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali (Edizioni San Paolo, 2017) giovedì 25 gennaio 2018, a Roma, presso la sede dell’AGCOM (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), Sala Angrisani, Via Isonzo, 21/b, dalle 10.00 alle 17.30. Per ragioni organizzative è necessaria l’iscrizione, che può essere effettuata anche on line

newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/attachments/newscisf0118_allegato.pdf

Come in tutti gli altri Rapporti Cisf, il volume contiene una miniera di dati, riflessioni, analisi, difficilmente sintetizzabili. Per questo segnaleremo di volta in volta, in questa Newsletter, alcune riflessioni specifiche dei vari autori, in forma sintetica, in modo da esplorare in qualche modo tutte le gallerie di questa miniera. E magari sollecitare la curiosità, in chi legge, di approfondire il tema attraverso la lettura dell’intero volume…

  1. La prima di queste “spigolature” è ricavata dal capitolo curato dal prof. Piermarco Aroldi, sociologo dell’Università Cattolica di Milano, ed è riservata al tema generale della “mediatizzazione dell’esperienza e delle relazioni”

newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/attachments/newscisf0218_allegato1.pdf

Sempre a proposito del rapporto CISF, ma dall’estero… Sono disponibili on line gli atti di un interessante expert meeting europeo promosso da AGF (rete di associazioni familiari attiva in Germania), tenutosi a Berlino il 3 luglio 2017, sulla sicurezza di Internet per le nuove generazioni (cui ha partecipato anche il Cisf) dal titolo “Growing up digital – how can we make the internet safe for children and young people?” (Crescere nel digitale: come possiamo rendere sicura Internet per bambini e giovani?)

http://ag-familie.de/media/docs17/2017_AGF_ExpertMeeting_Digitalisation_Docu_web.pdf

Malta. È ancora possibile iscriversi al convegno “Couple Relationships in the 21st Century: Evolving Contexts and Emergent Meanings” (Relazioni di coppia nel 21.o secolo. Contesti in mutamento e significati emergenti), 64.a Conferenza Internazionale del ICCFR (International Commission on Couple and Family Relationships), che si terrà a Malta dal 7 al 9 febbraio 2018

www.um.edu.mt/__data/assets/pdf_file/0007/335365/programme.pdf

Il Cisf (membro del Board direttivo dell’ICCFR) sarà presente con un workshop ispirato dai contenuti del Rapporto Cisf 2017, su “relazioni familiari e reti digitali”. Un altro workshop sarà realizzato (sui più recenti mutamenti della relazione di coppia) da un altro soggetto proveniente dall’Italia, l’AICCEF, associazione professionale dei consulenti familiari.

Conoscere l’associazionismo familiare in Europa per promuovere la famiglia. Il Cisf (Centro Internazionale Studi Famiglia) in collaborazione con il Centro di Ateneo – Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sta promuovendo una ricerca esplorativa sulle associazioni familiari a livello europeo, attraverso un questionario per le associazioni familiari da compilare on line. La raccolta dei dati si concluderà a fine gennaio. Le associazioni che non hanno ancora compilato il questionario possono ancora farlo

https://unicatt.eu.qualtrics.com/jfe/form/SV_3U8yD6AYUtMJCx7

Donne coraggiose. Il premio “International Women Courage Award” istituito nel 2007 dal Governo degli Stati Uniti, viene conferito annualmente a donne di tutto il mondo che abbiano dimostrato un eccezionale coraggio nel difendere la pace, la giustizia, i diritti umani, l’uguaglianza e l’emancipazione femminile, spesso correndo gravi rischi personali. Le premiate per l’anno 2017 sono: Suor Carolin Tahhan Fachakh, delle Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA) in Siria; Rebecca Kabugho, attivista del movimento cittadino LUCHA nella Repubblica Democratica del Congo; Fadia Najib Thabet, attivista per i diritti umani nello Yemen, Natalia Ponce de Leon, presidente della Fondazione “Natalia Ponce de Leon” in Colombia, nata per difendere i diritti delle vittime di aggressioni con l’acido; Malebogo Molefhe, attivista per i diritti umani in Botswana

www.frammentidipace.it/Pages/PrimoPiano/4139/Donne_coraggiose

Parco di Pinocchio: Viaggi d’Istruzione tra Cultura e Divertimento. Le Scuole sono interlocutori privilegiati dell’attività culturale della Fondazione Nazionale Carlo Collodi che è oggi impegnata anche in molti progetti europei sui temi dell’interculturalità, dell’integrazione, dell’ambiente, dell’arte nell’insegnamento, dell’alimentazione ed in generale sulla trasmissione di valori positivi per l’infanzia, con Pinocchio come testimonial e filo conduttore. Le Scuole sono anche le protagoniste della vita del Parco di Pinocchio che riserva loro una accoglienza speciale, con laboratori, attività e spettacoli dedicati.

http://www.pinocchio.it/il-parco-per-le-scuole/

  • Dalle case editrici

  • San Paolo, Selfie. Istantanee dalla generazione 2.0, Esposito M., Feder S., Polgatti A., Taverna F.

  • Vallardi, Lasciamoli sbagliare. Imparare a farsi da parte per crescere figli felici, Lahey J.

  • Provincia Autonoma di Trento, Denatalità, giovani e famiglia: le politiche di transizione all’età adulta, Malfer L., Siniscalchi E.

  • San Paolo, Famiglia. Le parole che cambiano il mondo, Papa Francesco

  • Elledici, Le nuove beatitudini in famiglia, Valli A. M.

  • Pellegrino Pino, Disconnettiti, fuori c’è il sole! Spunti di pedagogia digitale per educatori e genitori, Elledici, Torino, 2017, pp. 39, € 5,00.

Il punto di partenza dell’autore di questo smilzo ma prezioso volumetto è preciso: non possiamo stare allafinestra e guardare la storia che passa. L’avanzata della comunicazione digitale è inarrestabile, e per i nostri ragazzi, una vita senza le debite appendici elettroniche non è vita! Il nostro compito è un altro: interpretare il nuovo che avanza, per orientarlo a nostro favore. I mezzi di comunicazione digitale di per sé sono neutri, sta a che li utilizza scegliere di usarli in maniera positiva. È questo il tema serio – peraltro al centro del Rapporto CISF 2017, ampiamente presentato nelle precedenti newsletter – di questo breve lavoro. Nella prima parte, vengono presentati gli indubbi vantaggi di cui siamo debitori alla comunicazione digitale. Nella seconda, si va alla scoperta delle principali insidie anti-uomo nascoste in essa. Nella terza, vengono offerte una serie di proposte operative per proteggerci (e per proteggere i nostri figli) da tali insidie e valorizzare la preziosa invenzione del linguaggio digitale ai fini di una sempre maggiore umanizzazione. Il tutto – ed è ciò che principalmente valorizza l’opera – con un linguaggio rapido, sintetico, rispettoso del lettore e del suo (spesso poco) tempo a disposizione, e soprattutto, chiaro!

newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/attachments/newscisf0218_allegatolibri.pdf

Donne (e uomini) senza figli: numeri che fanno pensare (11/01/2018). Si conferma che anche nel nostro Paese la maternità è sempre di più una scelta possibile, dentro traiettorie di vita sempre più differenziate, e non costituisce più un “futuro già scritto”. È certamente un indicatore di maggiore “libertà” nella costruzione dei progetti individuali di vita. Ma il dato tradisce anche qualche criticità.

www.famigliacristiana.it/articolo/donne-e-uomini-senza-figli-numeri-che-fanno-pensare.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_17_01_2018

Una società che invecchia. La ricetta tedesca per governare questa realtà. L’Europa si avvia inesorabilmente a diventare una società formata in gran parte da anziani. Come affrontare questo inevitabile futuro. Ecco alcuni suggerimenti dalla Germania che parlano di centralità della famiglia, mantenimento dell’anziano nel proprio contesto sociale e abitativo e maggiore flessibilità nella fase finale della vita lavorativa.

www.famigliacristiana.it/articolo/la-ricetta-tedesca-per-governare-linvecchiamento-della-societa.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_17_01_2018

  • Specializzarsi per la famiglia. Master biennale in Scienze del Matrimonio e della Famiglia – Ciclo Speciale: è proposto dal Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, in collaborazione con l’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia della CEI. Si rivolge agli agenti di pastorale familiare delle Chiese locali. Si terranno lezioni frontali distribuite in tre settimane di frequenza per ogni anno (una in primavera, due in estate), corsi integrativi on-line e percorsi di specializzazione per aree tematiche attraverso tutoring. Si prevedono anche stages formativi. Date: 5-9 marzo 2018 (Roma); 9-21 luglio 2018 (Corvara -BZ). Iscrizioni entro 28 febbraio 2018.

newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/attachments/newscisf0218_allegato2.pdf

Save the date

  • Nord:e Io (di) chi sono?“. Storie di figli adottivi, presentazione di due volumi sull’adozione (di Simona Sarti e Giusi Musumeci), promosso da Famiglie per l’accoglienza-Bergamo, Calcinate (BG)..

www.famiglieperaccoglienza.it/2018/01/06/incontro-e-io-di-chi-sono-storie-di-figli-adottivi/

  • Centro: Né poveretti, né speciali. Spunti per un’informazione più consapevole sulle disabilità, giornata di formazione per giornalisti (con crediti ECM), promosso da Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità In collaborazione con Superabile Inail e Redattore sociale, Roma.

www.giornalisti.redattoresociale.it/media/336366/brochure_ne_poveretti_ne_speciali.pdf

  • Sud: Narcisismo patologico e relazioni affettive, incontro promosso da Scuola di Psicoterapia Cognitiva- Reggio C., Associazione Ecopoiesis, Reggio Calabria, 26 gennaio 2018.

www.apc.it/evento/narcisismo-patologico-e-relazioni-affettive/?instance_id=2833

  • Estero: The Future of Troubled Families: Supporting Families with Multiple Disadvantages (Il futuro delle famiglie in difficoltà: come sostenere le famiglie multiproblematiche), incontro promosso da Public Policy Exchange, Londra, 25 gennaio 2018.

www.publicpolicyexchange.co.uk/media/events/flyers/IA25-PPE_flyer.pdf

Iscrizione alle newsletter http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/gennaio2018/5061/index.html

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CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA

Rivista di Sessuologia, volume 41, n. 2, dicembre 2017

La morfologia dell’Eros, a cura di Giada Mondini e Gino Zucchini

https://www.cisonline.net/rivista-di-sessuologia

Confermata l’attivazione dei seguenti corsi:

” 16 febbraio 2018: Master in Psicoterapia Mansionale Integrata

www.cisonline.net/scuola-di-sessuologia/master/psicoterapia-mansionale-integrata

” 02 marzo 2018: Disforie di Genere: supporto al percorso di transizione

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CHIESA CATTOLICA

Senza vocazione o solo per vocazione? Dieci tesi per lo sviluppo di ordine e matrimonio

Se osserviamo lo sviluppo che negli ultimi secoli hanno avuto i due “sacramenti del servizio” – ordine e matrimonio – possiamo scoprire che il dibattito recente mette in luce una sola grande questione. Ossia la riscoperta della “logica di vocazione” dei due sacramenti. In particolare possiamo riscontrare un fenomeno parallelo – ed opposto – che riguarda i due sacramenti:

    1. Da un lato il matrimonio – istituzionalizzandosi progressivamente nel XIX e XX secolo – ha emarginato il tema “vocazione e discepolato”, presupponendo astrattamente una identificazione tra livello naturale, civile ed ecclesiale. La recente riscoperta del profilo vocazionale è ancora troppo formale e poco riflessa.

    2. D’altro canto, il lavoro ecclesiale sulla ordinazione – a partire dai decreti tridentini sui Seminari – ha profondamente elaborato “vocazione e discepolato” del soggetto ministeriale, ma non di rado ha spostato “solo su quel piano” la attenzione formativa, trascurando dinamiche naturali e culturali di prima grandezza.

Questa asimmetria determina oggi diversi scompensi. In particolare chiede contemporaneamente una duplice integrazione:

  • da un lato di recuperare la “logica di vocazione” del sacramento del matrimonio

  • dall’altro di riscoprire la “logica naturale e culturale” del sacramento dell’ordine

Non è un caso che il Sinodo sulla Famiglia, quello sui Giovani ed anche la Commissione pontificia su diaconato e donna attestino bene questo “travaglio vocazionale”, in cui poter configurare in modo più adeguato non soltanto la “formazione dei soggetti”, ma anche la corrispondenza della Parola di Dio alla esperienza e della esperienza alla Parola di Dio. Scoprire che il matrimonio non è solo “secondo natura”, ma illumina anche una “vocazione ecclesiale”, e che la vocazione ecclesiale al ministero comprende anche logiche naturali e culturali – di cui la tradizione ha saputo tener conto e su cui noi facciamo tanta fatica – appare oggi compito ecclesiale primario.

Su questo punto vorrei formulare “10 tesi”, per cercare di gettare qualche luce ciò che sta accadendo:

  1. Sull’ordinazione, dovremmo dire che la presenza del “diacono uxorato” ha già portato la donna – ma solo in quanto moglie – in una “assunzione di responsabilità” per il ministero del marito. Questo semplice fatto ha alterato le logiche rigorosamente celibatarie che hanno caratterizzato l’esperienza latina degli ultimi secoli.

  2. Ciò ha introdotto una variabile le cui implicazioni sono solo agli inizi e che deve essere integrata dalla acquisizione di una eminentia auctoritatis della donna in campo politico, sociale, pubblico. Questa differenza è irriducibile. Ad una riduzione “privata” della autorità femminile il mondo tardo-moderno – non senza sbandamenti e distorsioni – ha saputo scoprire e sviluppare un profilo pubblico della autorità femminile.

  3. La Chiesa non può semplicemente “subire” questo sviluppo. Deve assumerlo, orientarlo e dargli pienezza. Ma non può smentirlo in un movimento autoreferenziale e autoritario, magari citando – come autorità indiscutibile della tradizione – i pregiudizi medioevali sul maschile e sul femminile e, per di più, confondendo con essi il Vangelo e la Parola di Dio. Nulla di peggio può capitare alla Chiesa che piegare l’autorità di Dio a garanzia della resistenza dello status quo.

  4. Pertanto “lavoro storico” e “lavoro sistematico”, sul diaconato femminile o sulla vocazione matrimoniale, non possono mai identificarsi. Per usare le parole di Romano Guardini, il primo ci dice che cosa è stato nel passato, ma il secondo – e solo il secondo – può dirci che cosa dovrà essere nel futuro. In altri termini, la storia non può essere l’alibi per non decidere.

  5. Anche circa il matrimonio, una forte accentuazione “vocazionale” ha spesso costituito anche un “alibi” per non affrontare la questione femminile all’interno della Chiesa, chiudendola nella alternativa tra “moglie”, “madre”, “sorella” e “figlia”. Il necessario ripensamento del matrimonio dipende, non secondariamente, da una nuova soggettività femminile che abita la Chiesa da non più di un secolo.

  6. Tale soggettività non sta soltanto in privato, non sta solo “in foro interno”. La svolta che di recente, e con decisione, Amoris Lætitia ha assunto nel concepire la pastorale familiare, ha ancora il limite di proporre una soluzione “in foro interno”, la cui articolazione comunitaria appare ancora esile e di cui si fa ancora fatica a considerare e a riconoscere l’impatto “pubblico”, al quale si dovrà provvedere anche giuridicamente.

  7. Ciò, d’altra parte, è coerente con una lunga e sapiente tradizione, che ha il limite di una gestione delle questioni che trova nella differenza radicale tra “foro interno” e “foro esterno” una logica antica e nobile, ma che non corrisponde più alla nostra esperienza relazionale contemporanea. Il tema della “identità femminile” fa esplodere le categorie medievali/moderne che ne avevano ridimensionato il ruolo, proprio in una rigida opposizione tra “rilevanza privata e irrilevanza pubblica”.

  8. La resistenza della Chiesa nel superare questa irrilevanza dovrà trovare forme linguistiche e istituzionali più adeguate. Non solo in ambito familiare, ma anche in ambito ministeriale. Per non lasciarsi condizionare più dalle logiche della società chiusa che dalla parola del Vangelo. Per coniugare il Vangelo in una società aperta, nella quale la identità vive sempre di differenze, che tuttavia non possono essere predeterminate né teoricamente né disciplinarmente.

  9. Questa apertura alle nuovo identità non è né perdizione dell’uomo né negazione di Dio, ma è relazione al mistero. E’ il mistero di Dio e dell’uomo, del Dio fatto uomo e dell’uomo riconciliato con Dio, ad esigere che al ministero ecclesiale, e al ministero ordinato, possano accedere non solo uomini, ma anche donne.

  10. Resistere nella antica negazione – fondata non sul giudizio ponderato di una chiesa aperta dallo Spirito, ma sul pregiudizio viscerale di una società chiusa – significherebbe, ormai, resistere ostinatamente non alle futili innovazioni alla moda, ma alla potenza di novità del Vangelo

Andrea Grillo blog: Come se non 15 gennaio 2018

www.cittadellaeditrice.com/munera/senza-vocazione-o-solo-per-vocazione-dieci-tesi-per-lo-sviluppo-di-ordine-e-matrimonio

 

La Chiesa è aperta. Ora diamole una donna cardinale

Intervista a Timothy Radcliffe, teologo, biblista, domenicano, maestro generale dell’ordine dal 1992 al 2001, vive a Oxford, dove è Doctor in Divinity, il più alto titolo per uno studioso di religione.

Papa Francesco lo ha nominato consultore del dicastero pontificio per la Giustizia e la pace. E della Chiesa di Bergoglio,Radcliffe è voce autorevole, coraggiosa nel calare la fede nella realtà di oggi. Come nel libro che uscirà a maggio per l’Editrice missionaria italiana, “Alla radice la libertà. Come interpretare i segni dei tempi”, che «la Lettura» ha visto in anteprima.

Radcliffe, lei ammette che «la Chiesa è spesso percepita nemica della libertà». Si può essere liberi e cristiani?

«Molti pensano a Dio come a un poliziotto che chiede sottomissione. Ma è un totale fraintendimento della tradizione giudaico-cristiana, incentrata sull’invito di Dio a vivere in amicizia con Lui e con tutti. Ogni amico degno di questo nome è però esigente e in grado di trasformarci. I dieci comandamenti sono offerti a Mosè come “amico di Dio”. E l’invito all’amicizia culmina in Gesù, che accoglie anche i reietti. Se noi accettiamo la sua amicizia, saremo trasformati. Non perché ci sottomettiamo a richieste estreme ma perché liberati in un infinito amore».

Il domenicano Yves Congar disse di aver amato la verità come fosse una persona. Oggi però, lei avverte, «l’idea stessa di verità è diventata vaga».

«La ricerca della verità implica il coinvolgimento con chi ha idee diverse, per arrivare a una verità più ampia. Fin da Socrate. Ma i moderni mezzi di comunicazione ci chiudono spesso dentro la community di chi la pensa come noi. Nota Jonathan Franzen: “Le voci che non si conformano restano in silenzio. E da qualunque parte tu sia, ti senti in diritto di odiare ciò che odi”. La tendenza è bollare la visione degli altri come non senso, spazzatura, assurdità. Un fallimento dell’intelligenza e dell’immaginazione».

Come reagisce la Chiesa?

«Ha mostrato spesso, purtroppo, la paura di ascoltare davvero chi ha visioni differenti. Ma al cuore della cristianità c’è il piacere della differenza. La verità di Gesù è rifratta in quattro Vangeli. La Bibbia abbraccia la differenza tra Antico e Nuovo Testamento. Gesù, quella più grande di tutte: tra Dio e l’umanità. La Chiesa sarà accettata come maestra solo se saremo disposti a imparare da chiunque abbia saggezza o verità da condividere».

Lei denuncia una «globale ritirata dalla complessità» in favore di slogan e tweet come «Brexit means Brexit» e «Make America great again». Ha votato al referendum sulla Brexit?

«Sì, per il remain. Amo la profonda varietà delle civiltà europee. Il dibattito è stato superficiale. I

tabloid hanno bombardato le persone con titoli semplicistici. Molti hanno votato leave per la britannica diffidenza verso una burocrazia lontana. Più nel profondo, le grandi ineguaglianze delle moderne società fanno sì che in tanti non si sentano a casa nella loro stessa società. Non vedono un futuro e pensano di non contare nulla. Questa pena del sentirsi invisibili rinforza il rigetto dell’Ue.

Ma la Brexit non risolverà la crisi esistenziale vissuta da tanti».

La perdita di complessità è tra le cause dei fondamentalismi? Il Papa suscitò polemiche dicendo che «nessun popolo è criminale, nessuna religione terrorista. Ci sono persone fondamentaliste in ogni religione».

È d’accordo?

«Sì. I1 cuore della nostra risposta al fondamentalismo è lo studio. Sono appena tornato dall’Iraq, dove le sorelle domenicane guidano scuole con musulmani, yazidi e cristiani. Il fondamentalismo, scientifico, economico, nazionalistico, è una tentazione della modernità. Nessuna delle grandi religioni è per natura fondamentalista, tuttavia a volte è infettata da questo limite della modernità».

Rifiuto delle differenze e ritiro dalla complessità spiegano anche l’ostilità verso i migranti?

«Nella Bibbia lo straniero non solo è benvenuto, è una benedizione! I migranti saranno fonte di rinnovamento per la stanca e vecchia Europa. Ma non possiamo aspettarci che chi si sente straniero nel suo Paese, accolga gli stranieri. I1 benvenuto ai migranti va accompagnato da un profondo impegno per chi si sente marginalizzato, altrimenti le tensioni nelle nostre società esploderanno».

Al sinodo sulla famiglia, nel 2015 e 2016, la Chiesa si è chiesta come poter essere la «casa di tutti» oggi che alcuni sono divorziati e risposati, altri convivono, altri hanno partner dello stesso sesso. Lei che cosa ne pensa?

«Bisognerebbe sentirsi a casa nella Chiesa, indipendentemente dal tipo di relazione in cui si è impegnati. Gesù ha mangiato e bevuto con tutti. Ma una buona casa è anche impegnativa. Ti invita a diventare più virtuoso, più coerente, più impegnato, più onesto. Nell’accogliere le persone, sempre frutto di storie complesse, partiamo dal dove sono e dal chi sono. Invece di vedere i divorziati e risposati come falliti, potremmo considerarli coraggiosi che non rinunciano al desiderio di un impegno per sempre. Le persone gay posseggono doni per arricchire la Chiesa e la società. Tutti siamo pellegrini in cerca della strada verso Dio».

Si arriverà a ordinare le donne?

«Il loro posto nella Chiesa è una delle più grandi questioni da affrontare. Centrale non è tanto l’ordinazione ma dare alle donne sia autorità sia voce. Le sante Caterina da Siena, Teresa D’Avita, Teresa di Lisieux e molte altre sono grandi teologhe. Ora, come si può inserire questa autorità nelle strutture della Chiesa? Spero ci saranno donne diacono, così che la loro voce sia ascoltata dai nostri pulpiti. E perché non una donna cardinale, come il cardinale Tobin ha suggerito?».

Lei dice che la pluralità della Chiesa può aiutare nell’era della globalizzazione. La struttura ecclesiastica è ancora troppo accentrata?

«Dal XVI secolo l’Europa è stata caratterizzata da una crescente cultura del controllo. Lo vediamo nell’evoluzione dello Stato moderno, che sorveglia tutti gli aspetti delle nostre vite. La Chiesa ne è stata contagiata e ha contribuito a questa cultura. Papa Francesco sta cercando di decentralizzare. Questo richiede un lasciare andare il controllo. Ma credere nello Spirito Santo è sempre un lasciare andare il controllo, perché non sappiamo in anticipo dove verremo portati. Può spaventare ma è anche eccitante!».

L’autrice Hilary Mantel, cresciuta come cattolica, ha detto che «la Chiesa non è più per persone rispettabili». Vatileaks, abusi. Come ritrovare fiducia?

«Gesù non ha fondato la Chiesa per “persone rispettabili”. I rispettabili del suo tempo, i farisei, furono scandalizzati dai non rispettabili che Gesù accolse. Ma questo non basta. Gli abusi sessuali da parte del clero sono orribili e la Chiesa deve chiaramente mostrare che li affronta con onestà, con pentimento e con la determinazione di essere un posto supremamente sicuro per le persone vulnerabili. Dobbiamo essere franchi sui nostri fallimenti. Pietro rinnegò Gesù. E i Vangeli non lo nascondono. Un’altra sfida è capire il perché degli abusi. Abbiamo bisogno dei migliori psicologi, in modo da impedire che possa riaccadere».

Alessia Rastelli la Lettura 21 gennaio 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201801/180121radclifferastelli.pdf

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CHIESA VALDESE

Garantire luoghi sicuri e protetti a bambini e giovani

La Chiesa valdese presenta un nuovo documento: Linee guida per la tutela dei minori e la prevenzione dell’abuso. Un apposito gruppo di lavoro nominato dalla Tavola Valdese e dalla Commissione sinodale per diaconia ha elaborato delle “Linee guida per la tutela dei minori e la prevenzione dell’abuso”, presentate al sinodo delle chiese metodiste e valdesi del 2017.

www.chiesavaldese.org/documents/linee_guida_minori.pdf

Si tratta della prima tappa di un più ampio percorso di sensibilizzazione e formazione che, per come esplicitato nel documento, ha come scopo quello di rafforzare l’attenzione delle istituzioni ecclesiastiche, ad ogni livello, su un tema di grande importanza e attualità, dotandosi di «strumenti che possano aiutarci a rendere i nostri ambienti luoghi sicuri e protetti, in cui bambini e giovani possano trovare spazi di libera espressione e valorizzazione rispettosi della loro dignità, dei loro tempi, delle specificità di ciascuno, prevenendo comportamenti inadeguati e situazioni di abuso, ma anche ispirando fiducia e imparando a cogliere e gestire in modo adeguato eventuali segnali di sofferenza e disagio».

Le linee guida (disponibili anche nella versione inglese) sono state inviate alle chiese e ai responsabili di centri giovanili e istituti diaconali con l’auspicio di favorire, in appositi momenti di confronto e formazione, la messa a punto di azioni efficaci e coerenti a partire da quanto sperimentato sul campo, nella estrema varietà di situazioni che si possono riscontrare nella realtà ecclesiastica: dalle scuole domenicali delle chiese locali, ai campi e le colonie per bambini e giovani, fino ai servizi professionali per minori organizzati da istituti piccoli e grandi in varie parti d’Italia.

Il gruppo di lavoro incaricato è in questi mesi impegnato nella predisposizione di ulteriori linee guida e procedure, dirette a fornire indicazioni puntuali da seguire nel quadro della selezione di volontari, collaboratori e personale dipendente da impegnare in attività con minori; nello svolgimento di colloqui confidenziali (da parte di pastori/e e diaconi/e nelle attività di cura d’anime); per l’uso di foto, video e social media; per la gestione delle segnalazioni di situazioni in cui si sospettino abusi o comunque comportamenti inappropriati a danno di minori e l’avvio delle conseguenti procedure di accertamento, cautelari e disciplinari.

Principi cardine: la scelta di dare sempre la priorità all’esigenza di tutela dei minori e quindi l’impegno contro ogni forma di tolleranza e volontà di copertura di comportamenti che mettano a rischio o ledano il loro benessere e la loro dignità

Alessandra Trotta Riforma.it 19 gennaio 2018

riforma.it/it/articolo/2018/01/19/garantire-luoghi-sicuri-e-protetti-bambini-e-giovani-0?utm_source=newsletter&utm_medium=email

 

L’autodeterminazione delle donne è un principio irrinunciabile

La Gestazione per altri al centro dei due giorni di lavoro delle diacone e pastore battiste, metodiste e valdesi. Uno degli argomenti affrontati nell’aggiornamento ricco e stimolante delle pastore e diacone battiste, metodisti e valdesi – BMV – (tenuto a Roma l’8-10 gennaio 2018) è stata la GPA (gestazione per altri). Nella sua introduzione al tema, la pastora Daniela di Carlo ha illustrato le varie posizioni all’interno del movimento delle donne. Nella nostra discussione, pur non potendo affrontare questioni di natura legislativa, sono emersi i seguenti punti.

  • Pensiamo che l’autodeterminazione delle donne sia un principio irrinunciabile e non trattabile. Tuttavia rileviamo l’ambivalenza di una libertà che nei fatti si fonda tutto al più sulle proprie capacità economiche.

  • Non possiamo che condannare lo sfruttamento del corpo delle donne e il commercio di neonati e neonate nei paesi del Sud globale a favore di un Nord ricco.

  • Le materie bioetiche, infatti, sono attraversate di questioni di disparità e d’ingiustizia sociale. Prioritario sarebbe facilitare le procedure di adozione.

Venendo al dibattito odierno ci siamo interrogate su alcune questioni di fondo. Per esempio, ci siamo chieste se ad essere problema è la GPA in quanto tale o l’omogenitorialità?

Ci è parso, da una parte, che dietro un «Sì» assoluto alla GPA si nasconde una «mistica della paternità» per la quale un figlio è tale solo se ha un comune patrimonio genetico con il padre. Ritorna con forza – soprattutto all’interno dell’economia neoliberista – l’idea del figlio come proprietà e continuazione di sé invece di considerarlo all’interno di una comunità più ampia di relazioni.

Dall’altra parte, però, dietro un rifiuto assoluto alla GPA abbiamo individuato una «mistica della maternità» la quale sostiene la benevolenza fondamentale della relazione madre-figlio/a. Tale presunta benevolenza non solo non corrisponde all’esperienza pastorale ma rischia anche di definire le donne a partire dalla maternità. Da anni, infatti, le donne lottano per liberarsi da un’identificazione con la «natura» o la «generazione» tout court. Ci sembra importante non inchiodare i generi a ruoli stereotipati per poter accogliere tanto la libertà femminile quanto le capacità delle nuove generazioni di uomini di vivere ruoli paterni di cura e tenerezza.

Vorremmo riconoscere l’importanza della relazione tra madre e figlio o figlia mettendo in evidenza, però, che la relazione (a differenza della fusione) è possibile solo dopo aver riconosciuto l’alterità della piccola creatura.

Siamo consapevoli che la GPA interroga già le nostre chiese, per esempio, attraverso le richieste di battesimo e presentazioni di bambini e bambine nati e nate in questo modo. È evidente che in tale caso le chiese non sono chiamate a pronunciarsi su stili di vita bensì a compiere un gesto liturgico che metta al centro la bambina o il bambino.

Elizabeth Green Riforma.it 19 gennaio 2018

riforma.it/it/articolo/2018/01/19/lautodeterminazione-delle-donne-e-un-principio-irrinunciabile-0?utm_source=newsletter&utm_medium=email

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COGNOME MATERNO AI FIGLI

Nuovo Progetto per la XVIII Legislatura

Il DdL S.1628 è già morto e sepolto con lo scioglimento delle Camere.

www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00802290.pdf

Ecco allora una Proposta mirata “Disposizioni sul Nome della persona e sul Cognome dei coniugi e dei figli”, ispirata alle sentenze della Cedu e della Consulta, potrebbe invece riscuotere consensi.

Introduzione alla Proposta di Legge. Prima di esporre il senso e la lettera dei singoli articoli, vorrei richiamare l’attenzione su due condizioni operative che provengono, oltre che da personali convinzioni, dal contenuto esplicito della Sentenza della CEDU del 7 gennaio 2014 e dalla Sentenza della Corte Costituzionale 286/2016.

La Corte Europea ha valutato un ricorso proposto da una coppia italiana coniugata, che avrebbe voluto attribuire alla sua prima figlia il solo cognome della madre e non il cognome del padre. Nel dichiarare legittima la richiesta, la Corte argomentava che la decisione della coppia di chiedere per la figlia l’aggiunta del cognome materno tramite istanza al Prefetto, intervenuta nel corso dei lunghi processi, non sanava il vulnus recato alla libertà e al diritto dei genitori dall’impossibilità di attribuzione alla nascita del solo cognome materno e concludeva con una sentenza di condanna per l’Italia.

www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=10121#.WmhgjzdG07U

Quel che consegue a tale decisione della CEDU appare evidente: nessuna proposta di legge sul cognome dei figli può escludere o confinare a casi gravi il diritto dei genitori di scegliere il cognome o i cognomi da attribuire alla prole, interferendo con la libertà dei genitori di gestire nel modo da essi ritenuto più idoneo la vita privata familiare. Non è possibile pianificare dunque assoluti; il solo doppio cognome non è praticabile e non lo è nemmeno il singolo cognome materno o paterno. La legge deve invece prevedere le diverse possibilità e deve farlo in modo esplicito e chiaro, senza creare presupposti ideologici o di comodo che determinino una qualsiasi disparità nella coppia genitoriale.

La Corte Costituzionale a sua volta, nell’analizzare la condizione del figlio cui veniva negato dal sistema vigente di assumere alla nascita due cognomi collegandosi a ciascuno dei genitori, ha posto nel dovuto rilievo quanto importante sia per la formazione della personalità del figlio relazionarsi con entrambi i rami del suo parentado più stretto. Delineava con ciò se non una inderogabilità al doppio cognome quanto meno una preferibilità dello stesso a tutto vantaggio del figlio.

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2016&numero=286

Nella proposta che con questa petizione si presenta si è quindi formulato un insieme di norme che indirizzano esattamente in questo senso, proponendo il doppio cognome in assenza di qualsiasi indicazione contraria dei genitori. Si è prevista però la possibilità alternativa, ovvero l’attribuzione del cognome di un solo genitore in caso di una volontà espressa concordemente dai genitori in tal senso.

Nella pianificazione dell’ordine dei cognomi si è seguito un criterio di assoluta parità della coppia, stabilendo con l’art. 5 che, in assenza di indicazione contraria anche da parte di uno solo dei genitori, la priorità sia data per regola al cognome materno. Ciò in virtù di quella prossimità neonatale che all’atto della nascita lega il figlio esclusivamente alla madre, condizione bilaterale che sarebbe discriminante e in opposizione alle politiche di genere, che esigono rispetto per la donna, continuare ostinatamente a occultare.

L’eventuale discordia sull’ordine trova la sua equa soluzione nel sorteggio e non in un assurdo e viziante ordine alfabetico, che introduce un elemento di disparità nella coppia (se si sa in partenza che si sarà vincenti non si è disposti a mediare per un accordo), oltre a costituire nel tempo un fattore di esaurimento dei cognomi alfabeticamente meno favoriti, con conseguente impoverimento della ricchezza dei cognomi italiani.

Né l’ordine in cui sono posti i due cognomi rischia di introdurre forzature limitando la libertà delle generazioni successive, giacché ciascun genitore indica quale dei suoi eventuali due cognomi intende attribuire al figlio, indipendentemente dall’ordine nel quale personalmente li ha.

Infine, la centralità dell’interesse del figlio, unitamente alla consapevolezza che egli è l’unico titolare del cognome o dei cognomi che gli sono stati attribuiti – cognome o cognomi che acquista e che non gli vengono trasmessi in quanto non costituiscono un bene ma uno strumento strutturante la personalità individuale (Trib. Civile di Palermo, Sez. I, sentenza 865/1982) – ha determinato la formulazione di una norma che prevede la possibilità di modifica del o dei cognomi alla maggiore età, per garantire al soggetto che li porta una pacifica convivenza con se stesso.

Segue l’articolato

Iole Natoli Noi donne 21 gennaio 2018

http://cognomematernoitalia.blogspot.it/p/iole-natoli-e-il-cognome-materno.html

www.noidonne.org/articoli/cognome-materno-ai-figli-nuovo-progetto-per-la-xviii-legislatura-14533.php

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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

Protocollo di collaborazione con la Repubblica di Belarus.

www.commissioneadozioni.it/media/155060/protocollo_italia_bielorussia_2017%20(1).pdf

In data 30 novembre 2017 a Minsk è stato sottoscritto il nuovo protocollo di collaborazione tra la Commissione per le Adozioni Internazionali e il Ministero dell’Istruzione della Repubblica di Belarus in materia di adozione dei cittadini minorenni della Repubblica di Belarus da parte dei cittadini della Repubblica Italiana.

La firma è avvenuta nel corso di un proficuo incontro tra il Ministro dell’Istruzione Igor Vasilievich Karpenko e il vice presidente della Commissione per le Adozioni Internazionali dott.ssa Laura Laera, alla presenza di una delegazione bielorussa e di una delegazione italiana, composta dall’Ambasciatore Stefano Bianchi, dal Primo Segretario Paolo Tonini e dal Consigliere d’Ambasciata Enrico Nunziata.

In questa occasione è stata anche formalmente consegnata la lista degli aspiranti all’adozione di minori bielorussi con le integrazioni richieste. L’auspicio unanime è che si possa giungere nei prossimi mesi all’espletamento delle relative procedure.

Comunicato stampa 16 gennaio 2018

www.commissioneadozioni.it/it/notizie/2018/protocollo-di-collaborazione-con-la-repubblica-di-belarus—pubblicazione-protocollo.aspx

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CONGEDO PARENTALE

Licenziato il papà che non sta col figlio durante il congedo parentale

Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 509, 11 gennaio 2018.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_28786_1.pdf

Il diritto potestativo ad astenersi dal lavoro non è del tutto discrezionale e può soggiacere a controlli. Attenzione a come si utilizzano i congedi parentali: se non sono dedicati allo svolgimento di attività in favore del figlio il licenziamento è dietro l’angolo.

Si trova a casa, ad esempio, un papà che per oltre la metà dei giorni di congedo chiesti al suo datore di lavoro non si è dedicato in nessun modo al piccolo e che, a seguito di quanto deciso dalla Corte di cassazione non ha più speranze di veder ribaltata la decisione dell’azienda di licenziarlo.

L’uomo, a difesa del suo comportamento, aveva addotto che nel TU maternità e paternità non vi è alcuna traccia della necessità di gestire il congedo garantendo al minore una presenza prevalente e che l’istituto sarebbe volto esclusivamente (e genericamente) a soddisfare i bisogni affettivi e relazionali del figlio.

Ma per la Corte tale giustificazione non “regge”: è vero che il congedo parentale è un diritto potestativo, ma ciò non vuol dire che il suo esercizio sia del tutto discrezionale e non soggiaccia a controlli.

Se il lavoratore abusa di tale suo diritto, infatti, lede l’affidamento che ha riposto in lui il datore di lavoro e priva quest’ultimo della propria prestazione lavorativa in maniera del tutto ingiusta. Senza considerare che, in simili casi, la percezione dell’indennità corrisposta dall’ente di previdenza risulta indebita.

In merito alle altre attività svolte dal genitore durante il congedo e idonee a giustificare il suo licenziamento, la Cassazione ha precisato che non è necessario che il lavoratore eserciti il diritto per attendere ad altra attività lavorativa, ma è sufficiente che egli si dedichi a qualunque altra attività che non sia in diretta relazione con la cura diretta del bambino. Ciò che conta, infatti, non è quello che il genitore fa durante il congedo ma quello che non fa.

Valeria Zeppilli studio Cataldi 13 gennaio 2018

www.studiocataldi.it/articoli/28786-cassazione-licenziato-il-papa-che-non-sta-col-figlio-durante-il-congedo-parentale.asp

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CONSULTORI FAMILIARI

I consultori vogliono lavorare in rete con la comunità e al fianco delle famiglie “normali”

L’Uneba Nazionale, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Catania e la Scuola Superiore di Scienze dell’Educazione San Giovanni Bosco, ha promosso a Catania, nei giorni di giovedì 18, venerdì 19 e sabato 20 gennaio 2018, un Convegno sull’infanzia e l’adolescenza di particolare rilevanza sociale, scientifica e culturale, sulle seguenti tematiche: “Bambini e Ragazzi: quale futuro? Fra responsabilità e nuovi modelli di genitorialità per la Famiglia e per la Comunità”

www.uneba.org/convegno-uneba-a-catania-pi-attenzione-ai-minori-pi-impegno-nelleducazione

news ucipem n. 682 31 dicembre 2017, pag.6

Don Edoardo Algeri, presidente di CFC Cosa vuol dire educare bene in famiglia?

E’ questa la domanda che si pongono i consultori, ha raccontato don Edoardo Algeri, presidente della Confederazione italiana dei consultori famigliari di ispirazione cristiana, nel suo intervento “Il lavoro nei consultori famigliari: un sostegno alla famiglia in prevenzione” che ha chiuso la 1° giornata del convegno.

La risposta, ha spiegato, passa per tante mediazioni personalizzate. “Bisogna adeguarsi alla singolarità di ciascun bambino e dare ad ognuno una risposta appropriata, trovando un equilibrio tra affetti e norme”.

Allo stesso modo, anche il lavoro dei consultori non può fermarsi a modelli fissi. Né limitarsi ai casi più drammatici.

Così don Algeri ha presentato i modi e gli obbiettivi dell’operato dei consultori. “Dobbiamo avere un orientamento alla normalità, a sostenere la quotidianità delle famiglie. Bisogna collocare il lavoro delle famiglie nel contesto del lavoro con tutta la comunità. (…) Non essere come un ambulatorio, ma piuttosto avviare nuove prassi di domiciliarità come L’home visiting per le neo mamme”.

“Vogliamo affiancare al lavoro individuale il lavoro di gruppo e avviare percorsi per genitori che non siano solo di apprendimento frontale, bensì di ascolto reciproco. Serve un incontro con gli altri attori del sistema per fare rete e lavorare assieme. Ma senza dispensarsi dall’intervenire!”

“L’intervento del consultorio deve continuare in più cicli di vita della famiglia: la famiglia cambia, e nel tempo ha bisogno di risposte diverse”.

Uneba 18 gennaio 2018

www.uneba.org/don-edoardo-algeri-i-consultori-vogliono-lavorare-in-rete-con-la-comunit-e-al-fianco-delle-famiglie-normali

 

Consultorio di Castel Bolognese. Genitori in Attesa

Sono confermati anche per il 2018, dal 20 gennaio gli incontri del ciclo “un bebè in arrivo”, dedicati ai Genitori in attesa ed organizzati dal Consultorio familiare e dal Centro per le famiglie, insieme ad altri servizi ed associazioni del territorio.

Gli incontri, ad ingresso libero e gratuito, aiutano a rispondere alle domande più comuni di un genitore in attesa, offrendo informazioni utili e interessanti per l’accoglienza dei bimbi in arrivo, oltre che essere un’occasione di conoscenza dei servizi, degli operatori e delle associazioni attive nel nostro territorio.

  • La cura del bebè… vaccini…sicurezza”, con pediatra ed assistente sanitaria. Un’occasione in cui parlare di accudimento, sonno, allattamento, vaccinazioni, informazioni sulla sicurezza fuori e dentro casa.

  • “Cara mamma, caro babbo: informazioni utili sulle norme a tutela della genitorialità e sui servizi per l’infanzia”, con l’assessorato alle pari opportunità e all’infanzia, la consigliera di parità, i patronati e i sindacati. Un’occasione per conoscere i diritti dei neogenitori e capire quali sono le varie tipologie di servizi per l’infanzia.

  • “Bebè a costo zero: scelte semplici, naturali e consapevoli per crescere vostro figlio senza svuotare il portafoglio”, con il Gruppo Allattando a Faenza. Un’occasione per sapere come si può risparmiare, quando sembra con l’arrivo di un bambino occorra fare acquisti di ogni tipo!

  • “E’ semplice ma non sempre facile: confronto alla pari tra mamme per affrontare al meglio l’impegno pratico dell’allattamento”, con il Gruppo Allattando a Faenza. Un’occasione per saperne di più sull’avvio dell’allattamento e sul suo mantenimento, conoscendo le strategie concrete per affrontare i disturbi più comuni.

  • Novita’ 2018!!! “…e di colpo papa’! Una bellissima occasione da non perdere per dare voce anche al punto di vista maschile sui temi della gravidanza, nascita, allattamento, cura, sostegno! Sono invitati tutti i papà con le loro compagne! Possiamo scoprire, condividendo le esperienze, qualcosa di nuovo finora non condiviso e rimasto tra le pieghe delle giornate piene dei neogenitori”, con il Gruppo Allattando a Faenza. Gli incontri si svolgono presso il Centro per le famiglie (via degli insorti 2, Faenza).

www.comune.castelbolognese.ra.it/Archivio-notizie/Un-bebe-in-arrivo

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Mantova Etica Salute & Famiglia – gennaio 2018

  • Editoriale

  • Il biotestamento è legge, ma restano problemi ed incertezze. Armando Savignano

  • In gruppo per sviluppare la resilienza: l’esperienza di Viaggiare nella tempesta. Paolo Breviglieri

  • Cultura della vita. Anche il piccolo “terminale” è figlio. Alberta Gavioli, Elisabetta Fermi

  • Menopausa e Consultorio pubblico. Cristina Danielis

  • Vita del consultorio

  • I tre cardini di una relazione: grazie, permesso, scusa. Alessandra Venegoni

  • Ostetrica mi dica: Chissà se avrò il latte! Alessandra Venegoni

  • Psicologo mi dica: … è qui la festa? Giuseppe Cesa

  • Il post del mese

www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/index.php/pubblicazioni/etica-salute-famiglia/122-etica-salute-famiglia-gennaio-2018

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CONTRACCEZIONE

9 modi in cui i non cattolici stanno combattendo la contraccezione

Essere contrari alla pillola (e ad altre forme di contraccezione artificiale) non riguarda più solo i cattolici. Al Benedictine College stiamo organizzando un simposio per celebrare il 50° anniversario dell’enciclica Humanæ vitæ. Mentre preparavamo la conferenza ho scoperto un intero mondo di persone che si oppongono alla contraccezione. Ecco alcune ragioni non religiose per le quali le donne sono sempre più contro la pillola.

  1. Le donne parlano degli effetti collaterali della pillola. In un video non family-friendly di Crack’d intitolato “Se le pubblicità sul controllo delle nascite fossero oneste”, una donna spiega a cosa porta la contraccezione. “La pillola è fantastica”, dice con entusiasmo. “Ha effetti collaterali come acquisto di peso, nausea, depressione, emicranie che potrebbero indicare un cancro o mancanza di desiderio sessuale, e quindi non si trarrà mai piacere dal sesso”. La donna prosegue descrivendo cosa fanno anche dispositivi come quelli intrauterini, diaframmi eccetera, tralasciandone però uno.

  2. Il collegamento tra contraccezione e cancro al seno è ormai chiaro. Man mano che sempre più fonti di informazione riconoscono il collegamento tra controllo delle nascite e tumore al seno, le donne chiedono perché non sia stato detto loro prima. “È il momento di riesaminare i contraccettivi ormonali e di ricordare ai medici che dovrebbero discutere rischi e benefici dei farmaci prima di prescriverli”, ha affermato un medico alla rivista Time.

  3. Molti evidenziano il legame tra contraccezione e depressione. Sappiamo che la contraccezione porta anche alla depressione, e le persone condividono sempre più le proprie storie al riguardo. A peggiorare le cose, scrive Sindha Agha, “mi sono imbattuta nel titolo ‘Studio sul controllo maschile delle nascite cancellato per una serie di effetti collaterali’. Il 3% dei partecipanti ha riportato la depressione come effetto collaterale. La citazione di un professore di Biologia sul New York Times mi ha fatto venire i brividi: ‘Il 20 o 30% delle donne che assumono la pillola orale per il controllo delle nascite sperimenta depressione e deve prendere dei farmaci per curarla…’ Se fossi stata un ragazzo si sarebbero comportati nello stesso modo?”

  4. La contraccezione è stata collegata al suicidio. Il rischio di depressione, riferisce la rivista Time, include il suicidio, come spiega l’American Journal of Psychiatry. “Il rischio assoluto di suicidio associato ai contraccettivi ormonali è ancora estremamente basso”, si legge sul Time, ma quando i ricercatori danesi hanno studiato i decessi nel loro studio hanno verificato che “tra le donne che usavano contraccettivi ormonali o li avevano usati di recente il rischio di tentato suicidio era quasi il doppio rispetto alle donne che non avevano mai assunto contraccettivi. Il rischio di suicidio era triplo”.

  5. L’agenda miliardaria dietro la contraccezione è chiara. Le donne sono comprensibilmente stanche di essere usate come pedine in un’alleanza tutt’altro che santa tra i politici e il mondo degli affari. “’Seguite il denaro’ sembra essere un buon consiglio, anche quando si parla di alcune questioni sociali spinose”, ha sottolineato Peter Schweizer in The Daily Beast. Studiando il mandato contraccettivo dell’era Obama, ha notato che “i principali sostenitori finanziari del Presidente Obama sono proprio le grandi compagnie farmaceutiche che beneficiano del mandato”.

  6. Le donne del Terzo Mondo sono stanche di essere trattate con condiscendenza. Troppo spesso le élites occidentali vogliono eliminare la povertà eliminando i poveri. Le donne africane sono stanche di essere trattate come se dovessero essere gestite da europei e americani illuminati che ne sanno più di loro. Obianuju Ekeocha promuove instancabilmente questo aspetto. Seguitela su Twitter, dove troverete in cima alla sua pagina: “Sono una donna africana. Non ho bisogno di preservativi gratis. Non ho bisogno di contraccettivi gratuiti. Non ho bisogno di diritto all’aborto. Quello di cui ho bisogno è l’educazione”.

  7. Il degrado ambientale provocato dalla contraccezione è devastante. La contraccezione umana, che si fa largo dalle fognature ai ruscelli, sta provocando danni catastrofici ai pesci, addirittura facendoli diventare transgender.

  8. Le donne stanno dicendo al mondo cos’hanno deciso. Il risultato – al di là di qualsiasi ragione religiosa – è che le donne nella sofisticata Francia e le millennials americane su Vogue stanno dicendo al mondo che non vogliono più sentir parlare della pillola.

  9. Le forme naturali di pianificazione familiari stanno diventando sempre più popolari tra i non cattolici

Tom Hoopes 16 gennaio 2018

Come mostra questo articolo britannico, c’è un mercato per i modi di gestire in modo naturale le dimensioni della famiglia. La Pianificazione Familiare Naturale è ovviamente la via da seguire, perché richiede sacrificio da parte sia degli uomini che delle donne – e il sacrificio è temporaneo. Qualcuno avrebbe dovuto pensarci 50 anni fa.

Traduzione di Roberta Sciamplicotti Aleteia 18 gennaio 2018

https://it.aleteia.org/2018/01/16/9-modi-in-cui-non-cattolici-si-stanno-rivoltando-contro-la-contraccezione/

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DALLA NAVATA

III Domenica del tempo ordinario- Anno B –21 gennaio 2018

Giona 03, 02 Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico.

Salmo 25, 05 Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza

1Corinzi 07, 31 Passa infatti la figura di questo mondo!

Marco 01, 15 Gesù diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

L’ora della vocazione. Commento di Enzo Bianchi, priore emerito nel convento di Bose (BI)

Ognuno di noi, soprattutto se anziano ma non colpito da demenza senile, va sovente con i suoi ricordi al passato, in particolare a quello che è stato l’inizio, il cominciare di una vicenda, di un amore che lo ha segnato per tutta la vita e che ancora lo fa vibrare. Anche il cristiano fa questa operazione di cercare nel passato, quasi per rivivere l’ora della conversione; o meglio, per moltissimi l’ora della vocazione, quando si è diventati consapevoli con il cuore che forse ci era rivolto un monito, che forse il Signore voleva che fossimo coinvolti nella sua vita più di quanto lo eravamo stati fino ad allora. Noi la chiamiamo, appunto, ora della vocazione.

La pagina del vangelo di questa domenica, in cui torniamo ad ascoltare il vangelo secondo Marco, vuole essere proprio un racconto di vocazione in cui può specchiarsi chi predispone tutto per ascoltare la chiamata di Gesù, oppure può essere l’occasione per ricordarla come un evento del passato, che può avere ancora o non avere più forza, addirittura significato. Gesù, torna in Galilea, la terra della sua infanzia, per iniziare a proclamare un messaggio che sentiva dentro di sé come una missione da parte di Dio Padre. Incomincia questa vita di predicazione e di itineranza dopo che Giovanni, il suo rabbi, il suo maestro, colui che lo ha educato nella vita conforme all’alleanza con Dio e lo ha anche immerso nelle acque del Giordano (cf. Mc 1,9), è stato messo in prigione da Erode, è stato ridotto al silenzio, lui che era “voce” (cf. Mc 1,3; Gv 1,23). È la fine di chi è profeta, e Gesù, subito se la trova davanti come necessitas umana: se egli continuerà sulla strada del suo maestro, prima o poi conoscerà la persecuzione e la morte violenta.

Gesù inizia a proclamare la buona notizia, il Vangelo di Dio, nella consapevolezza che il tempo della preparazione, per Israele tempo dell’attesa dei profeti, che il tempo della pazienza di Dio ha raggiunto il suo compimento, come il tempo di una donna gravida. Alla fine della gravidanza c’è il parto, e così Gesù annuncia: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”. Ecco la sintesi della sua predicazione: c’è l’inizio di un tempo nuovo in cui è possibile far regnare Dio nella propria vita; affinché questo avvenga occorre convertirsi, ritornare a Dio, e poi credere alla buona notizia che è la presenza e la parola di Gesù stesso. È solo un breve versetto che esprime questa novità, eppure è l’inizio di un tempo che dura ancora oggi e qui: è possibile che Dio regni su di me, su di te, su di noi, e così accade che il regno di Dio è venuto.

Ormai, grazie alla presenza di Gesù, alla sua vita e alla sua parola, è possibile a ogni persona lasciar regnare su di sé solo Dio, non gli idoli o altri padroni. Ma perché questo possa avvenire occorre la fede: “Credete, abbiate fede-fiducia!”. Questa parola di Gesù, capace di scuotere oggi come allora i cuori addormentati, è rivolta a noi che siamo sempre tentati di confidare sulle nostre opere, finendo così per svuotare la fede. A noi che domandiamo: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” (Gv 6,28), Gesù risponde: “Credete!”, per insegnarci che “questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Sì, il cristiano non dimentichi mai che le molte opere buone sono sempre opere “nostre”, ma tutte trovano la loro radice vivificante e il loro senso nell’unica opera di Dio, la fede. “Tutto è possibile a chi crede” (Mc 9,23), dirà con forza Gesù.

Di fronte a questa gioiosa notizia, ma anche a questa nuova possibilità offerta dalla presenza di Gesù, ci siamo noi uomini e donne, che ancora oggi ascoltiamo il Vangelo. Che cosa facciamo? Come reagiamo? Stiamo forse vivendo quotidianamente, intenti al nostro lavoro, alla nostra occupazione quotidiana per guadagnarci da vivere, poco importa quale sia; oppure siamo in un momento di pausa; oppure siamo con altri a discorrere… Non c’è un’ora prestabilita: di colpo nel nostro cuore, senza che gli altri si accorgano di nulla, si accende una fiammella. “Chissà? Sento forse sento una voce? Riuscirò a rispondere ‘sì’? Sarà per me questa voce che mi chiama ad andare? Dove? A seguire chi? Gesù? E come faccio? Sarà possibile?”. Tante domande che si intersecano, che svaniscono e ritornano a ondate. Ma se sono ascoltate con attenzione, allora può darsi che in esse si ascolti una voce più profonda di noi stessi, “più intima del nostro stesso intimo” (Agostino), una voce che viene da un aldilà di noi stessi, eppure attraverso noi stessi: la voce del Signore Gesù! È così che inizia un rapporto tra ciascuno di noi e lui, sì, lui, il Signore, presenza invisibile ma viva, presenza che non parla in modo sonoro ma attrae…

Qui nel vangelo secondo Marco questo processo di vocazione è sintetizzato e per così dire stilizzato dall’autore, che narra solo l’essenziale: Gesù passa, vede e chiama; qualcuno ascolta e prende sul serio la sua parola: “Seguimi!”, e si coinvolge nella sua vita. È ciò che è vero per tutti ed è inutile dire di più: sarebbe solo un inseguire processi psicologici… Ma l’essenziale è stato detto, una volta per tutte: accolta la vocazione, si abbandonano le reti, cioè il mestiere, si abbandonano il padre e la barca, cioè l’impresa famigliare, e così ci si spoglia e si segue Gesù. Obbedire alla chiamata del Signore coincide con un rinascere a vita nuova, con un ricominciare. E ogni nascita richiede una buona separazione: solo chi ha fatto una buona separazione, infatti, sarà capace di dare vita a una nuova unione, con Cristo e con la comunità dei fratelli e delle sorelle.

Attenzione però: la vocazione è un’avventura piena di grandezza ma anche di miseria! Per comprenderlo, è sufficiente seguire nei vangeli la vicenda di questi primi quattro chiamati. Il primo, Pietro, sul quale Gesù aveva riposto molta fiducia, vivendo vicino a lui spesso non capisce nulla di lui (cf. Mc 8,32; Mt 16,22), al punto che Gesù è costretto a chiamarlo “Satana” (Mc 8,33; Mt 16,23); a volte è distante da Gesù fino a contraddirlo (cf. Gv 13,8); a volte lo abbandona per dormire (cf. Mc 14,37-41 e par.); e infine lo rinnega, dice di conoscere se stesso e di non avere mai conosciuto Gesù (cf. Mc 14,66-72 e par.; Gv 18,17.25-27). Andrea, Giacomo e Giovanni in molte situazioni non capiscono Gesù, lo fraintendono e non conoscono il suo cuore. I due figli di Zebedeo, in particolare, sono rimproverati aspramente da Gesù quando invocano un fuoco dal cielo per punire chi non li ha accolti (cf. Lc 9,54-55); e sempre essi, al Getsemani, dormono insieme a Pietro. Ma c’è di più, e Marco lo sottolinea in modo implacabile, con un contrasto che non potrebbe essere più netto: coloro che qui, “abbandonato tutto seguirono Gesù”, nell’ora della passione, “abbandonato Gesù, fuggirono tutti” (Mc 14,50)…

Povera sequela! Sì, la mia sequela, la tua sequela, caro lettore o lettrice. Non abbiamo davvero molto di cui vantarci… Dobbiamo solo invocare da parte di Dio tanta misericordia e ringraziarlo perché, nonostante tutto, stiamo ancora dietro a Gesù e tentiamo ancora, giorno dopo giorno, di vivere con lui. E non dimentichiamolo: la promessa di Gesù è più forte delle nostre infedeltà, delle infedeltà dei suoi discepoli. Ecco perché essi, dopo l’alba di Pasqua, saranno ancora pescatori di uomini e annunciatori del Regno, capaci di trasmettere a tutti la buona notizia. Chi infatti ha ascoltato la buona notizia e vi ha aderito con tutta la propria vita, sarà sempre capace – nonostante sé! – di annunciare agli altri il Vangelo del Regno che viene e che, in Gesù risorto, si fa vicino a tutti e a ciascuno.

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12057-ora-vocazione-2018

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DEMOGRAFIA

Natalità in caduta anche in Francia. Dura e utile lezione

Il crollo della natalità francese è un fatto che deve preoccupare tutta Europa. Se la Germania in ragione della sua forza economica è considerata la “locomotiva” del Continente, la Francia – in virtù della sua politica fortemente natalista – per anni ha rappresentato il modello cui tendere per assicurarsi un futuro demografico e la stabilità dello Stato sociale. Ora il mito vacilla: nel 2017 sono nati 17mila bambini in meno rispetto all’anno prima, è il terzo calo consecutivo della stessa entità, e il numero di figli per donna è sceso a 1,88, un tasso di fecondità ancora alto rispetto alla media europea di 1,6, ma in veloce ridimensionamento rispetto ai 2 figli del 2012. Uno choc, insomma. Non a caso la stampa transalpina ieri usava termini come «declino inquietante» e drammatica «fine di un’eccezione».

La crisi del “serbatoio” europeo di bambini rappresenta però una straordinaria opportunità per riflettere su quali sono le politiche familiari più adatte in questa fase storica e quali errori non dovrebbero essere commessi. L’analisi è ancora più necessaria nel momento in cui quasi tutti i partiti italiani hanno promesso un’attenzione speciale alla natalità in vista delle elezioni del 4 marzo, e alla vigilia della richiesta ufficiale di un “patto” trasversale su questo tema che il Forum delle famiglie avanzerà oggi a tutte le forze politiche.

La frenata delle nascite in Francia si deve ovviamente a molti fattori, con le ragioni culturali che si uniscono a quelle economiche. Si è visto ad esempio che il calo maggiore riguarda le donne più giovani, tra i 24 e i 35 anni, mentre l’età del primo figlio è salita a 30,6 anni, segni entrambi che i percorsi di studio e carriera giocano il loro ruolo. È anche probabile che l’instabilità lavorativa renda oggi più difficile anche per le coppie d’Oltralpe fare progetti a lungo periodo. Così come è possibile che le nuove generazioni abbiano attese diverse in termini di numero di figli rispetto al passato. Un segno di forte mutamento dei costumi si trova peraltro nella crescita dei Patti di convivenza (185mila), che hanno ormai quasi raggiunto i matrimoni, in forte calo (221mila).

Fin qui nulla di nuovo rispetto a quanto si registra all’incirca in tutti i principali Paesi dell’Occidente, dove la dimensione culturale dell’individualismo appare in avanzata a scapito di una prospettiva orientata all’altruismo e alla condivisione responsabile. Di fronte alla crisi economica scoppiata nel 2008, però, e che ha generato ovunque cali delle nascite, finora la Francia aveva rappresentato una felice eccezione dovuta proprio alla forza della sua politica familiare, generosa e aperta a tutti. Adesso questa diga è venuta meno. Come mai? Anche se non può essere dimostrato con certezza, l’impatto dell’azione di François Hollande, che nei suoi 5 anni di presidenza ha tagliato a colpi d’accetta alcuni degli storici sostegni alle famiglie, penalizzando soprattutto la classe media, è indicata da molti osservatori come una causa importante. Dal 2012 Hollande tra le altre cose ha introdotto limiti per gli assegni familiari, il bonus nascite e il plafond del “quoziente fiscale”, ha limato i benefit alle neo mamme e non è riuscito ad aumentare i posti al nido e migliorare i piani per favorire la conciliazione famiglia-lavoro. Una strada che la presidenza Macron sembra purtroppo voler proseguire colpendo l’universalità delle misure e minando la dimensione natalista delle politiche familiari francesi a favore di una visione ridistributiva.

In buona sostanza la Francia, pur con 60 miliardi di spesa alla voce “Famiglia e figli” (l’Italia ne impiega circa la metà), si trova con un sistema di sostegni meno adeguato di un tempo a rispondere all’emergenza demografica. Perché diventando sempre meno inclusivo, cioè non più aperto a tutte le famiglie, ha probabilmente eroso il capitale della fiducia.

La denatalità è un problema comune a tutti i Paesi europei, e in un contesto in cui l’equilibrio della popolazione nei fatti è assicurato solo dagli immigrati, nessuno sembra possedere la formula magica.

La Svezia, con buoni risultati, ha puntato da tempo su un modello che prevede tasse elevate, servizi gratuiti a tutti, incentivi universali e un contesto ‘family friendly‘ a 360 gradi. La Germania ha investito molto negli ultimi anni su asili nido, misure per la conciliazione e assegni universali ai genitori, e oggi si prepara a sorpassare la Francia. La Polonia, col tasso di fecondità più basso del Continente (1,34), ha introdotto un corposo bonus per ogni figlio dopo il secondo, senza limiti di reddito, e lanciato una curiosa campagna di spot ispirata alle ‘salutari’ abitudini dei conigli.

Ogni Paese ha la sua storia e le sue tradizioni. L’Italia si trova in una fase di profonda rielaborazione delle politiche familiari. La lezione francese insegna che solo una visione pragmatica, non ideologica, e di lungo periodo, riesce a fornire risposte adeguate al desiderio di genitorialità. I soldi sono necessari, insomma, almeno quanto i fattori culturali e morali. Ma se sono spesi male ogni sforzo diventa vano.

Massimo Calvi Avvenire 18 gennaio 2018

www.avvenire.it/opinioni/pagine/dura-e-utile-lezione

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DIRITTI

Diritti umani, il messaggio laico del papa

E il Papa finalmente lo ha detto, chiaro e tondo: “Non esiste una cultura superiore a un’altra”. Parlava a Temuco nella regione cilena della Araucanìa dove vivono i Mapuche (letteralmente “il popolo della Terra”) i soli nativi del Sudamerica sopravvissuti alla colonizzazione europea e alle violenze di Stato. L’occasione era quindi propizia e Francesco l’ha colta al volo. Ma a ben guardare il discorso del Papa va ben oltre la sorte dei nativi sudamericani e la storia della violenta colonizzazione europea cui parteciparono i pii missionari.

Francesco parla dello ieri ma anche, e forse soprattutto, per parlare dell’oggi. Lasciando infatti stare la colonizzazione dei secoli passati sono almeno trent’anni che l’intero Occidente a guida americana si bea d’essere una “cultura superiore” che è il modo attuale di declinare il razzismo, nei suoi vari aspetti, poiché quello classico, dopo Hitler, non è più praticabile. È in nome di questa “cultura superiore” che da trent’anni aggrediamo, con la violenza delle armi o dell’economia, altri popoli che hanno vicende storiche diverse dalla nostra e culture che non vogliono omologarsi alla nostra.

Tutto ciò, naturalmente, è addobbato con i buoni sentimenti, con la difesa dei cosiddetti “diritti umani” che noi per primi calpestiamo quando irrompiamo in realtà diverse. Quando sento parlare di“diritti umani” metto mano alla pistola perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno. Debbo rifare la filastrocca? La rifaccio, anche se Travaglio sostiene che repetita non iuvant: Serbia (1999), Afghanistan (2001 e, per ora, 2018), Iraq (2003), Somalia (2006/2007), Libia (2011). Ma in questo discorso rientrano anche le decennali sanzioni all’Iran che si permette di essere una teocrazia e non una democrazia, il Venezuela di Chavez e ora di Maduro che con tutta probabilità è il prossimo obbiettivo del nostro imperialismo, e anche la Corea del Nord che osa, nientemeno, essere comunista.

Il Papa infatti dice un’altra cosa che è un corollario dell’attacco alla “cultura superiore”: “unità non significa un’uniformità asfissiante che nasce dal predominio del più forte”. È un attacco diretto e senza remore alla globalizzazione e al modello di sviluppo occidentale che, come dice Francesco, sta asfissiando tutti i popoli del mondo, compreso il nostro. Ma il Papa dice anche una terza cosa che si collega alle prime due: “non c’è sviluppo in un popolo che volta le spalle alla terra”. Non è un discorso puramente ecologico, e in questo senso quasi banale, ma riguarda il ritorno alla terra, all’agricoltura, dove risiede il nostro futuro semmai, continuando di questo passo, avremo ancora un futuro. Perché è dalla terra che noi traiamo il cibo, non dal cemento, non dal carbone, non dal petrolio, non dall’industria, non dalla finanza.

Questo profondo discorso di Papa Francesco è stato praticamente ignorato o messo sottordine da tutti i giornali, compreso, ahinoi, il nostro. Disturberebbe il manovratore. Il titolo di testa del Corriere della Sera di ieri è centrato su questa fondamentale questione: “Primarie 5 Stelle, liti e ricorsi”. Del discorso del Papa parla sì, e in termini corretti (è l’unico a farlo) ma solo a pagina 13 per la firma di Gian Guido Vecchi. Repubblica, il più laido dei giornali che si dicono laici, lo fa a pagina 15, ma soffermandosi solo sugli aspetti pietistici del discorso. Solo Avvenire coglie la polpa del discorso del Pontefice a Temuco, titolando: “Non c’è una cultura superiore all’altra”. E così in questa Italia degradata e provinciale, anche giornalisticamente (probabilmente il discorso di Francesco avrebbe avuto un diverso rilievo se avesse parlato dalle logge Vaticane) a noi che ci definiamo degli “onesti pagani” per leggere qualcosa che abbia un senso, che dia una direzione sul nostro presente e sul nostro futuro, ci tocca comprare, d’ora in poi, Avvenire, Famiglia Cristiana e anche L’Osservatore Romano.

Massimo Fini Il Fatto Quotidiano 19 gennaio 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201801/180119fini.pdf

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EREDI

Eredità sul coniuge in comunione o separazione dei beni

Quanto influisce il regime patrimoniale dei coniugi in caso di morte del marito o della moglie? In caso di comunione dei beni spetta di più che nella separazione?

Quando muore uno dei due coniugi, il regime patrimoniale scelto in precedenza dalla coppia incide sull’ammontare dell’asse ereditario che finisce al superstite. Questo perché, in regime di comunione dei beni, il coniuge ancora in vita ha già diritto alla metà di tutti i beni dell’altro, prima ancora dell’apertura della successione; pertanto la divisione tra gli eredi riguarda solo l’altra metà del patrimonio.

Come noto, ogni coppia che si sposa entra, in automatico, nel regime di comunione dei beni salvo diversa scelta dichiarata all’atto del matrimonio. Quindi, a meno che marito e moglie non abbiano espressamente dichiarato di preferire la «separazione dei beni», gli acquisti effettuati anche da uno solo dei coniugi «cadono in comunione»: significa che il 50% della proprietà spetta all’altro.

Non rientrano nella comunione i beni di cui il marito o la moglie erano già titolari prima del matrimonio, quelli ricevuti in donazione anche dopo il matrimonio o che sono il frutto di risarcimenti del danno. Invece, i beni acquistati da ciascuno dei coniugi dopo il matrimonio ricadono immediatamente in comunione. Se i coniugi acquistano insieme, acquisiscono la titolarità congiuntamente e in parità di quote del bene che confluisce nella comunione legale. Se un solo coniuge acquista separatamente, estende la titolarità del bene o diritto anche all’altro coniuge ed il bene confluisce nel patrimonio comune. Ciascun coniuge è cioè contitolare di diritti ed obblighi per l’intero bene e non solo per una quota dello stesso. Non importa che l’acquisto sia effettuato con denaro oggetto della comunione o personale o con denaro proveniente dall’attività lavorativa di uno dei coniugi, fatta salva la possibilità per i coniugi di specificare che l’acquisto non confluisca in comunione.

Invece, con la separazione dei beni i coniugi conservano la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio. Ciascuno quindi rimane proprietario integrale dei propri beni.

Che succede se muore uno dei due coniugi? I suoi beni andranno in successione: significa che andranno divisi tra i suoi eredi secondo quanto prevede il testamento o, in assenza, in base alle regole fissate nel codice civile. Tuttavia, in caso di comunione dei beni la divisione tra gli eredi riguarda solo il 50% dei beni stessi, atteso che l’altro 50% spetta di diritto al coniuge in comunione; invece in caso di separazione dei beni ad andare in successione è l’intero patrimonio del defunto e non solo la metà.

Ad esempio, immaginando una coppia in comunione con un solo figlio, che deve dividere una casa di proprietà del marito appena deceduto; in tal caso si avrà che:

  • il 50% della casa spetta al coniuge superstite (cui andrà anche il diritto di abitazione all’interno dell’immobile, vita natural durante);

  • il 50% restante andrà così diviso (secondo le regole della successione): la metà (cioè il 25% dell’immobile) alla moglie e l’altra metà (ossia il residuo 25%) al figlio.

Invece, se la coppia era in regime di separazione dei beni, l’immobile andrà interamente in successione e pertanto:

  • il 50% del complessivo immobile andrà alla moglie;

  • l’altro 50% al figlio.

In sintesi si può dire che, se da un punto di vista successorio non vi è alcuna differenza fra il regime patrimoniale della famiglia e i diritti ereditari dei coniugi (in quanto ciascuno dei due resta sempre erede dell’altro), le ricadute riguardano invece l’entità della percentuale dei beni che il coniuge superstite dovrà dividere con gli altri eredi: il 100% in caso di separazione dei beni, solo il 50% in caso di comunione.

Redazione News La legge per tutti 15 gennaio 2018

www.laleggepertutti.it/191323_eredita-sul-coniuge-in-comunione-o-separazione-dei-beni

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ETS (già ONLUS) NON PROFIT

Requisiti per l’ammissione di nuovi associati negli ETS

L’ammissione di nuovi associati e l’assemblea delle associazioni del terzo settore: il carattere aperto delle associazioni del Terzo Settore.

L’art. 23 del codice del Terzo Settore prevede che, se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente, l’ammissione di un nuovo associato è disposta con deliberazione dell’organo di amministrazione su domanda dell’interessato ed annotata nel libro degli associati.

Se l’organo amministrativo rigetta la domanda di ammissione deve comunicarne i motivi all’interessato entro sessanta giorni dalla deliberazione e questi, nei sessanta giorni successivi a tale comunicazione può chiedere che sulla sua istanza di ammissione si pronunci l’assemblea degli associati oppure un altro organo eletto dalla medesima.

Questi organi devono deliberare, se non appositamente convocati, in occasione della loro successiva convocazione (1°, 2° e 3° comma). In queste caratteristiche si sostanzia il c.d. “carattere aperto” delle associazioni del terzo settore.

Le norme di cui al precedente capoverso si applicano anche alle fondazioni del terzo settore il cui statuto prevede la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato (per esempio, un comitato dei fondatori o dei loro eredi e dei soggetti, fisici o giuridici, che sovvenzionano l’ente), in quanto compatibili e se non derogate dallo statuto (4° comma).

Nell’assemblea delle associazioni, sia riconosciute che non riconosciute, del terzo settore hanno diritto di voto tutti coloro che sono iscritti da almeno tre mesi nel libro degli associati, salvo che l’atto costitutivo o lo statuto non dispongano diversamente (art. 24, 1° comma). Ciascun associato ha un voto.

Agli associati che siano enti del terzo settore l’atto costitutivo o lo statuto possono attribuire più voti, siano a un massimo di cinque, in proporzione al numero dei loro associati o aderenti.

Si applica, in quanto compatibile, l’art. 2373 c.c. sull’impugnabilità a norma dell’art. 2377 c.c. delle deliberazioni assembleari approvate col voto determinante di coloro che hanno, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quelli dell’associazione, qualora la deliberazione possa arrecare danno all’associazione. Inoltre, gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità (2° comma).

Se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente, ogni associato può farsi rappresentare nell’assemblea da un altro associato mediate delega scritta, anche apposta in calce all’avviso di convocazione. Ciascun associato può rappresentare sino ad un massimo di tre associati nelle associazioni che hanno meno di 500 associati e di cinque associati in quelle con un numero di associati da 500 in poi. Si applicano, in quanto compatibili, i commi 4° e 5° dell’art. 2372 c.c. che prevedono che se la rappresentanza è conferita ad una società, associazione, fondazione o ad un altro ente collettivo o istituzione, questi possono delegare soltanto un proprio dipendente o collaboratore e che essa non può essere conferita né ai membri degli organi amministrativi o di controllo o ai dipendenti della associazione, né agli enti di qualsiasi tipo da essa controllati o ai membri degli organi amministrativi o di controllo o ai dipendenti di questi (3° comma).

L’atto costitutivo o lo statuto possono prevedere l’intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione ed anche l’espressione del voto per corrispondenza o per via elettronica o telematica, purché sia possibile verificare l’identità dell’associato che partecipa e vota (per esempio, mediante la posta elettronica certificata) (4° comma).

Come avviene per le società cooperative, l’atto costitutivo o lo statuto delle associazioni che hanno un numero di associati non inferiore a 500 possono prevedere e disciplinare lo svolgimento di assemblee separate, comunque denominate, anche rispetto a specifiche materie o in presenza di particolari categorie di associati o di svolgimento dell’attività in più ambiti territoriali. A tali assemblee si applicano, in quanto compatibili, i commi da 3° a 6° dell’art. 2540 c.c. sulle assemblee separate delle cooperative relativi all’obbligo di assicurare nell’assemblea generale la rappresentanza proporzionale delle minoranze espresse dalle assemblee separate, al fatto che i delegati all’assemblea generale nominati dalle assemblee separate devono essere degli associati, alla non impugnabilità autonoma delle deliberazioni delle assemblee separate ed alla impugnabilità delle deliberazioni dell’assemblea generale prese col voto determinante dei delegati eletti dalle assemblee separate irregolarmente tenute (5° comma).

Infine. Le norme di cui ai cinque precedenti capoversi si applicano anche alle fondazioni del terzo settore il cui statuto prevede la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato, in quanto compatibili e se non derogate dallo statuto (6° comma).

L’assemblea delle associazioni del terzo settore ha le seguenti competenze inderogabili:

a) nomina e revoca dei componenti degli organi sociali;

b) nomina e revoca, quando previsto, del soggetto incaricato della revisione legale dei conti;

c) approvazione del bilancio;

d) deliberazione sulla responsabilità dei componenti degli organi sociali e promozione dell’azione di responsabilità nei loro confronti;

e) deliberazione sull’esclusione degli associati, se l’atto costitutivo o lo statuto non attribuiscono la relativa competenza ad un altro organo eletto dall’assemblea (per esempio, un apposito comitato);

f) deliberazione sulle modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto;

g) approvazione dell’eventuale regolamento dei lavori assembleari;

h) deliberazione dello scioglimento, della trasformazione, della fusione o della scissione dell’associazione;

i) deliberazione sugli altri oggetti (argomenti) attribuiti alla competenza dell’assemblea dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto (art. 25, 1° comma).

Gli atti costitutivi o gli statuti delle associazioni che hanno almeno 500 associati possono disciplinare le competenze dell’assemblea anche in deroga a quanto esposto nel capoverso precedente, nel rispetto dei principi di democraticità, pari opportunità ed eguaglianza di tutti gli associati e di elettività delle cariche sociali (2° comma).

Gli statuti delle fondazioni del terzo settore possono attribuire all’organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato, di cui prevedono la costituzione la competenza a deliberare su uno o più degli argomenti del penultimo capoverso precedente a questo, nei limiti in cui ciò sia compatibile con la natura dell’ente quale fondazione e nel rispetto della volontà del/i fondatore/i (3° comma).

Dott. Visconti Gianfranco Fisco e tasse 19 gennaio 2018

www.fiscoetasse.com/approfondimenti/12952-requisiti-per-l-ammissione-di-nuovi-associati-negli-ets.html

Codice Terzo settore, ecco come sarà regolato il periodo transitorio

Arrivano le prime indicazioni del Ministero del lavoro e delle politiche sociali sull’applicazione nel periodo transitorio delle nuove disposizioni del Codice del Terzo settore (CTS) rivolte in particolare alle Regioni che saranno chiamate a rendere operativo il Registro Unico Nazionale del Terzo settore (RUN).

Il documento è disponibile sul sito internet del Ministero e fornisce alcuni preliminari chiarimenti riferiti alle organizzazioni di volontariato (Odv) e alle associazioni di promozione sociale (Aps) per i quali sono già operativi i registri nazionali e/o locali. Le Onlus, infatti, dovranno attendere le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate cui spetta la gestione della rispettiva anagrafe. Il Ministero ricorda prima di tutto che fino all’entrata in funzione del RUN, l’iscrizione agli attuali registri continuerà ad essere regolata dalle vigenti disposizioni normative. Questo significa che in caso di costituzione di un nuovo ente, ai fini dell’iscrizione nel registro APS e ODV nel periodo transitorio, si dovranno seguire le regole vigenti prima dell’entrata in vigore del codice (agosto 2017). Pur in mancanza di indicazioni operative da parte dell’Agenzia delle entrate questo stesso criterio varrà, molto verosimilmente, anche per tutti quegli enti che vorranno procedere all’iscrizione presso l’anagrafe delle ONLUS.

www.lavoro.gov.it/notizie/Pagine/Attuazione-Codice-del-terzo-settore-Circolare-di-diritto-transitorio.aspx

Per verificare la sussistenza dei requisiti utili per l’iscrizione nel nuovo registro le Regioni in questa fase dovranno seguire due diverse impostazioni tenendo conto della data di costituzione degli enti.

Quelli già costituiti al 3 agosto 2017 (data di entrata in vigore del Cts) avranno a disposizione 18 mesi di tempo per adeguare i propri statuti alla nuova disciplina. Pertanto, in questo periodo, la domanda di iscrizione all’istituendo RUN non potrà essere rigettata in caso di difformità con le norme del Codice, almeno fino alla fine di febbraio del 2019.

I nuovi enti, invece, dovranno adeguarsi da subito alle norme del codice ed in particolare alle disposizioni applicabili in via diretta ed immediata, a prescindere dalla operatività del Registro. Ad esempio in mancanza di quest’ultimo non sarà richiesto il rispetto degli obblighi di pubblicazione delle informazioni riguardanti l’ente (si pensi alla denominazione dell’ente, forma giuridica, sede legale, oggetto dell’attività di interesse generale etc..) o del deposito dei bilanci e dei rendiconti, inclusi quelli riguardanti le raccolte fondi. Inoltre non potrà essere utilizzata la procedura semplificata per l’acquisizione della personalità giuridica dal momento che è collegata all’iscrizione nel Registro (art. 22 CTS).

Alcune disposizioni invece entrano in vigore immediatamente e richiedono specifici requisiti che dovranno essere previsti obbligatoriamente fin dal momento della costituzione dell’ente, come il numero minimo di soci (almeno sette) e la forma giuridica di associazione riconosciuta o non riconosciuta, richiesta espressamente dal Codice per l’iscrizione nella sezione ODV e APS del Registro Unico (artt. 32 e 35). Dal momento che si tratta di elementi immodificabili in caso di inosservanza di queste disposizioni gli enti non potranno sanare la violazione, con impossibilità di accedere al Registro.

Per tutti gli ETS scatta l’obbligo del bilancio di esercizio, che andrà redatto in forma ordinaria o semplificata a seconda delle dimensioni, indipendentemente dal deposito presso il RUN. Va detto che in realtà la modulistica necessaria non è ancora pronta (servirà un intervento del Ministero del lavoro), ma, come chiarito nel documento, questa mancanza “non esonera gli enti da tale adempimento”. Quest’ultimo cambia a seconda dell’ammontare complessivo delle entrate dell’ente. Se al di sotto dei 220mila euro sarà sufficiente presentare un prospetto semplificato sotto forma di rendiconto finanziario per cassa. Superato questo limite invece è richiesto un vero e proprio bilancio di esercizio formato dallo stato patrimoniale, dal rendiconto finanziario e dalla relazione di missione con cui l’ente dovrà illustrare l’andamento economico e finanziario.

Il 1° gennaio 2019 sarà invece la data a partire dalla quale gli enti con entrate superiori a 100mila euro dovranno pubblicare sul proprio sito internet l’ammontare dei corrispettivi eventualmente attribuiti ai componenti degli organi di amministrazione e controllo, ai dirigenti e agli associati.

Resta invece ancora facoltativo l’obbligo di adozione del bilancio sociale per gli enti di maggiori dimensioni (con entrate superiori ad un milione di euro) che, in attesa delle linee guida previste dall’art. 14 del Cts manca ancora delle indicazioni necessarie.

Da ultimo, bisognerà prestare attenzione anche alla corretta denominazione gli enti. Odv e Aps potranno ancora utilizzare i vecchi acronimi per l’iscrizione nei rispettivi registri. Per qualificarsi come Ets, invece, dovrà attendersi l’attivazione del Registro Unico nazionale, in un’ottica di trasparenza specie nei rapporti con i terzi legati, in particolare, ai maggiori vantaggi per chi dona a favore degli Enti del terzo settore.

Gabriele Sepio, consulente del Governo per la Riforma del Terzo settore Vita.it 15 gennaio 2018

www.vita.it/it/article/2018/01/15/codice-terzo-settore-ecco-come-sara-regolato-il-periodo-transitorio/145621

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EUROPA

Nozione di coniuge nel contesto della libera circolazione dei cittadini

No agli ostacoli al diritto di soggiorno per il partner dello stesso sesso di un cittadino Ue, dovuti alla circostanza che lo Stato membro non riconosce il matrimonio tra persone same sex. Lo scrive l’Avvocato generale Wathelet nelle conclusioni depositate l’11 gennaio 2018 nella causa C-673/16, con le quali l’Avvocato generale ha proceduto a una lettura guidata dalla Carta dei diritti fondamentali e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo della nozione di coniuge nei casi in cui va applicata la direttiva 2004/38 sul diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_28773_1.pdf

E’ stata la Corte costituzionale rumena a chiamare in aiuto Lussemburgo. Al centro della controversia nazionale la richiesta di un cittadino rumeno che si era sposato a Bruxelles, dove lavorava, con un partner dello stesso sesso, cittadino statunitense. L’uomo aveva chiesto alle autorità rumene, in applicazione della direttiva 2004/38, di ottenere i documenti necessari perché il suo coniuge potesse lavorare in Romania per un periodo superiore a tre mesi. L’ispettorato generale per l’immigrazione aveva respinto l’istanza. Di qui l’azione giurisdizionale che è arrivata fino alla Corte costituzionale e poi a Lussemburgo.

Prima di tutto, l’Avvocato generale ha chiarito che la direttiva non effettua alcun rinvio al diritto interno e, quindi, la nozione di coniuge va ricostruita tenendo conto del diritto Ue e, in particolare, del principio della libera circolazione dei cittadini dell’Unione. Dalla direttiva risulta con chiarezza che la nozione fissata nell’atto Ue “prescinde dal sesso della persona sposata”. E’ vero – prosegue Wathelet – che gli Stati “sono liberi di prevedere o meno il matrimonio per persone del medesimo sesso nel proprio ordinamento giuridico interno” ma, di fatto, questa libertà incontra un limite nell’applicazione del diritto Ue. Di conseguenza, con riferimento alla direttiva, la nozione di coniuge include anche le persone dello stesso sesso perché è neutra “dal punto di vista del genere e indifferente al luogo in cui il matrimonio è stato contratto”.

A ciò si aggiunga che il diritto dell’Unione deve essere interpretato alla luce della realtà contemporanea e non può essere isolato dai mutamenti sociali, situazione che spinge l’Avvocato generale ad affermare che non si può più ritenere che la definizione di matrimonio comunemente accolta dagli Stati membri sia riferita unicamente a persone di sesso diverso. Accertato che la nozione di coniuge, per l’applicazione della direttiva 2004/38, è indipendente dal sesso, lo Stato membro è tenuto a riconoscere al coniuge dello stesso sesso, che accompagna il cittadino dell’Unione nel territorio di un altro Stato membro, un permesso di soggiorno superiore a tre mesi. Adesso la parola passa alla Corte.

Marina Castellaneta 18 gennaio 2018

www.marinacastellaneta.it/blog/lavvocato-generale-ue-chiarisce-la-nozione-di-coniuge-nel-contesto-della-libera-circolazione-dei-cittadini.html

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

«Patto per la natalità», il Forum fa appello alla politica

www.forumfamiglie.org/wp-content/uploads/2018/01/pattoXnatalita%CC%80.pdf

De Palo: «Sia la priorità assoluta nei programmi elettorali. Servono soluzioni concrete». Un piano in 7 punti. Le proiezioni drammatiche dei demografi Blangiardo e Rosina.

www.forumfamiglie.org/2018/01/17/un-patto-per-la-natalita-2/

«Chiediamo alla politica tutta un impegno chiaro sul tema della natalità. Questo Paese sta morendo nell’attesa di qualcuno che abbia il coraggio di metterlo come priorità assoluta nei prossimi programmi elettorali. Vinca chi vinca, ma si ricordi che i figli non sono un problema, ma la soluzione del problema». Questo l’appello accorato di Gianluigi De Palo, presidente del Forum nazionale delle associazioni familiari, che questa mattina ha lanciato un Patto per la natalità.

Lo ha fatto nel corso di una conferenza stampa organizzata nella Sala Nassirya del Senato, chiedendo con forza al mondo della politica, in vista delle elezioni del 4 marzo 2018, di «fare fronte comune» sforzandosi di «guardare al di là dei prossimi cinque anni». A motivare questa decisa presa di posizione sono i dati, drammatici, elencati nei sette punti del Patto formulato dal Forum. Quel che emerge è un Paese alle prese con l’inverno demografico più difficile della sua storia, reduce da quarant’anni di scelte politiche miopi.

«Secondo l’Istat – illustra Giancarlo Blangiardo, docente di demografia all’Università di Milano Bicocca – nel 2017 è legittimo stimare che ci saranno 460mila nati e 660mila morti. Dunque il saldo naturale sarà negativo di ben 200mila unità, un secondo record negativo dopo quello del 2016». Se si “guarda ai prossimi trent’anni, poi, la situazione è ancora più grave. Sempre stando alle proiezioni dell’Istat, i nati saranno 400mila e i morti 800mila, esattamente il doppio. «Dunque nel 2048 – osserva Blangiardo – ci saranno 600mila bambini in meno e 800mila ultranovantenni in più», con tutti gli effetti negativi che questo comporta in termini di costi sociali. «Possiamo solo frenare la discesa, non invertire la rotta. L’obiettivo è promuovere una reale politica demografica, non di contrasto alla povertà», ha quindi concluso riferendosi alla tendenza tutta italiana di supportare solo la natalità delle classi sociali povere.

Alessandro Rosina, ordinario di demografia all’Università Cattolica di Milano, si è soffermato sulle aspirazioni e i desideri dei giovani italiani. «Negli ultimi quarant’anni non è mai sceso il numero di figli desiderati (due, ndr.), ma è diminuita la capacità di realizzare i progetti di vita. La revisione al ribasso ha schiacciato il Paese e, dalle rinunce a livello individuale, ha prodotto costi sociali sempre più insostenibili». La media dei figli delle famiglie italiane, oggi, è di 1,3. Nel nostro Paese, complice anche la crisi economica che «ha congelato le scelte», le difficoltà personali hanno portato a rinviare di tre anni la decisione di avere il primo figlio, a 30 anni. La stessa età in cui in Francia le coppie aspettano il secondogenito. Senza contare che molti italiani, pur desiderandolo, non hanno i mezzi per andare oltre il primo figlio.

Il discorso si complica, poi, se si include il tema scottante della conciliazione casa-lavoro delle donne lavoratrici, sempre più costrette a dare le dimissioni. «È necessario dare un segnale ottimista – chiosa Rosina -. Finora ci siamo abituati allo svuotamento demografico, che ha gli effetti di un lento terremoto di cui però non percepiamo la scossa. Se ritorniamo a costruire le condizioni giuste, uscendo dalla crisi, creiamo un percorso valido che potrà portare risultati positivi» e risollevare la natalità. «È necessario passare dall’analisi alla sintesi, dalle parole ai fatti – conclude De Palo -. Ora serve che la politica metta in campo soluzioni concrete. Per i prossimi cinque anni saremo un pungolo costante per tutti».

Il Patto per la natalità (hashtag #pattoXnatalità) sarà presentato ancora il 26 gennaio, alle ore 10, nella Sala Santa Maria in Aquiro, in piazza Capranica, alla presenza delle donne delle associazioni e dei sindacati. Seguirà un successivo incontro con i direttori dei giornali per sensibilizzare su una tematica che accomuna tutti.

Antonella Pilia Romasette 18 gennaio 2018

www.romasette.it/patto-la-natalita-forum-appello-alla-politica

 

Famiglia. Il Forum sfida la politica. Ora un #PattoXNatalità

De Palo: unità, è in gioco il destino del Paese. Un Piano in 7 punti: natalità, lavoro femminile, servizi, sostegni alla famiglia. «Per troppo tempo la politica si è fermata alle analisi. Ha rimesso in fila dati allarmanti. Ha anche finto di intervenire. Ma non è mai arrivata a un punto di svolta. Tanti annunci, tante promesse, ma mai un vero piano per la famiglia, mai un vero progetto per arginare il crollo della natalità». Gigi De Palo, il giovane presidente del Forum delle Famiglie, ripete numeri quasi meccanicamente. Poi “chiama” la politica. «Nel 1965 nascevano in Italia un milione di bambini, oggi meno di 500 mila. Ho quattro figli, tra poco cinque, e ho il dovere di essere netto, esigente: se i partiti non trasformano le analisi in azioni concrete questo Paese affonda». Siamo al Senato nel giorno del #pattoXnatalità. «Abbiamo immaginato questo hashtag e su questo aspettiamo le risposte dei partiti e della società», dice il presidente del Forum preparandosi a chiedere ai partiti un impegno nuovo.

 

«Capisco la durezza della campagna elettorale e capisco le visioni differenti sui tanti temi del dibattito politico. Ma su questo punto, vi chiediamo un’unità di intenti. Occorre remare tutti nella stessa direzione per invertire la rotta. Si tratta di un segnale decisivo per ridare speranza all’Italia».

 

Il nostro Paese sta vivendo l’inverno demografico più difficile della sua storia e tante domande scuotono e interrogano società e politica: come mantenere il Pil, e il rapporto con il debito, con una popolazione in costante diminuzione? Come affrontare la crescente spesa sanitaria e pensionistica? Come sostenere i costi, anche sociali, di una popolazione sempre più anziana? «Gli effetti della denatalità, di cui ancora facciamo fatica ad essere pienamente consapevoli, saranno dirompenti e la politica ha il dovere di non guardare più alla prospettiva di parte o agli interessi elettorali. In ballo c’è il destino di una nazione e ora è indispensabile accantonare tutte le controversie ideologiche». Siamo al momento della verità.

 

Nel Patto per la Natalità (con De Palo nella Sala Nassirya di palazzo Madama ci sono Giancarlo Blangiardo, docente di demografia all’università di Milano Bicocca e Alessandro Rosina, docente di demografia all’università Cattolica di Milano) dietro i numeri prendono forma gli interrogativi. Sono 5,5 milioni le donne tra i 18 e i 49 anni che rinunciano ad essere madre (una donne fertile su due) perché essere madri e lavoratrici in Italia è ancora troppo difficile.

 

Parallelamente il 71% delle donne tra i 20 e i 34 anni mira ancora ad avere almeno due figli e soltanto il 7% è disposto a rassegnarsi a non averne. Ecco perché serve la politica. Perché sono ancora troppe le zone grigie. Perché nel 2016, secondo l’Ispettorato del lavoro, su dieci donne che hanno dato le dimissioni dal loro posto di lavoro otto erano mamme e una buona parte di queste spiegava la scelta con la difficoltà di «gestire insieme figli e lavoro».

 

E poi perché – ci raccontano i dati Istat – tra le famiglie con tre o più figli minori l’incidenza della povertà assoluta aumenta quasi del 50% passando dal 18,3 al 26,8 e finendo con interessare complessivamente quasi 140 mila famiglie».140 mila. Due stadi pieni di famiglie povere costrette a fare i conti con un Paese incapace di capire fino in fondo che i bambini sono un Bene Comune perché rappresentano il futuro.

 

Perché sono il futuro. Qualcuno si chiede quale sarà il futuro di De Palo. Qualcuno azzarda l’ipotesi di un suo impegno in politica. Lui scuote la testa.

 

«Nessuno nel Forum ha pensato di candidarsi. La sfida è unire la politica su un obiettivo. È trasformare Famiglia e Natalità nella grande priorità di tutti. E soprattutto unire voci solitarie in una grande orchestra. Servono interventi universali, coerenti e garantiti nella loro esistenza e durata, e non semplici aiuti occasionali. Serve una politica di lungo periodo che veda nella Famiglia un investimento irrinunciabile. Servono politiche economiche e fiscali serie e strutturali…». Un programma ambizioso con cui la politica è chiamata a fare i conti. Da oggi.

Arturo Celletti Avvenire 18 gennaio 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/forum-famiglie-patto-natalita-2018

 

Fare un figlio non può far diventare poveri

«Vinca il migliore, ma chiunque esso sia, prometta agli italiani che fare un figlio non sia più una della prime cause di povertà». Queste le parole di Gigi De Palo, presidente nazionale del Forum delle famiglie a margine della presentazione del #pattoXnatalità.

«Chiediamo alla politica tutta un impegno chiaro sul tema della natalità. Questo Paese sta morendo nell’attesa di qualcuno che abbia il coraggio di metterlo come priorità assoluta nei prossimi programmi elettorali. Vinca chi vinca ma si ricordi che i figli non sono un problema, ma la soluzione del problema».

Nei dati presentati quest’oggi dal Forum anche uno studio di Federconsumatori sul costo che deve sostenere una famiglia per portare un figlio alla maggiore età: «Un figlio costa dai 0 ai 18 anni di età circa 171mila euro. Un investimento grande che nella maggior parte dei casi andrà a pagare il debito pubblico di un Paese concorrente dove emigrerà per l’impossibilità di realizzare i suoi sogni».

Comunicato stampa 18 gennaio 2018

www.forumfamiglie.org/2018/01/18/pattoxnatalita-fare-un-figlio-non-puo-far-diventare-poveri

 

Natalità, priorità assoluta nei programmi dei partiti

“Il nostro Paese sta vivendo l’inverno demografico più difficile della sua storia”. Si apre così il #pattoXnatalità presentato preso la sala Nassyria del Senato dal Forum delle famiglie insieme ai demografi prof. Alessandro Rosina e prof. Giancarlo Blangiardo.

Gli effetti della denatalità, di cui ancora facciamo fatica ad essere pienamente consapevoli, saranno dirompenti: “Come affrontare la crescente spesa sanitaria e pensionistica? Come sostenere i costi, anche sociali, di una popolazione sempre più anziana?”.

Nonostante che per anni la politica ha considerato la natalità un tabù, è arrivato il momento di non guardare più alla prospettiva di parte o agli interessi elettorali “Su questo punto è indispensabile accantonare tutte le controversie ideologiche. I bambini devono essere considerati un Bene Comune perché rappresentano il futuro di tutti noi”.

“La politica – si legge nel #pattoXnatalità corredato di numeri e statistiche impietose sulla situazione demografica italiana – per troppo tempo si è limitata ad intervenire commentando di volta in volta gli allarmanti dati Istat senza, tuttavia trasformare quelle analisi in azioni politiche”.

Per questo il Forum chiede “a tutti i segretari, presidenti e portavoce dei Partiti e delle Liste in corsa per la prossima tornata elettorale, di considerare il tema della natalità come priorità all’interno dei vari programmi in vista delle elezioni”.

Le differenze di vedute non devono distogliere dal trovare un fronte comune sul tema della natalità: “Su questo punto – ve lo chiediamo con forza, appellandoci al vostro senso di responsabilità – è necessaria un’unità di intenti: occorre remare tutti nella stessa direzione per invertire questa rotta. Sarebbe un segnale decisivo per ridare speranza all’Italia”.

“La politica – si legge nel #pattoXnatalità corredato di numeri e statistiche impietose sulla situazione demografica italiana – per troppo tempo si è limitata ad intervenire commentando di volta in volta gli allarmanti dati Istat senza, tuttavia trasfo

Comunicato stampa 18 gennaio 2018

www.forumfamiglie.org/2018/01/18/pattoxnatalita-natalita-priorita-assoluta-nei-programmi-dei-partiti

Il patto per la natalità piace alla politica

La risposta della politica è arrivata. Immediata e convinta. Il sì al #PattoXNatalità lanciato questa mattina dal Forum delle Famiglie incassa un sì largo e soprattutto trasversale. Un sì forte e scandito da tutti i partiti. «Quando saremo al governo promuoveremo il più imponente piano per la difesa della famiglia e per il sostegno alla natalità che l’Italia abbia mai visto», dice Giorgia Meloni il presidente di Fratelli d’Italia. Matteo Salvini è altrettanto netto: «Tutto il mio supporto e quello della Lega al Patto lanciato dal Forum. Un Paese che non fa figli non ha futuro! Il sostegno a natalità e famiglie sarà priorità assoluta del nostro governo». C’è tutto il centrodestra. Ma c’è anche il Pd. E c’è il Movimento 5 Stelle. Il tema famiglia unisce.

Il partito democratico esce subito con il senatore Lepri: «Il Patto per la natalità presentato dal Forum delle famiglie alle forze politiche va accolto con convinzione. L’inverno demografico è infatti sotto gli occhi di tutti e può essere contrastato anche con lungimiranti politiche pubbliche. Matteo Renzi in più occasioni ha indicato il sostegno ai figli come priorità assoluta, a cui dedicare nuovi e significativi stanziamenti. Il Pd avanzerà ufficialmente la sua proposta sul tema nei prossimi giorni». Dopo Lepri arriva Lorenzo Guerini, il coordinatore della segreteria del Pd. «Il fatto che il nostro Paese soffra da tempo di una bassa, troppo bassa, natalità è certamente un problema molto serio e che investe la qualità del futuro di tutti. È giusto, come fa il Forum delle Associazioni familiari, sollecitare tutti a prendere sul serio questa questione attraverso il Patto per la natalità presentato oggi». Anche il componente della segreteria nazionale del Pd, Debora Serracchiani, si schiera: «Chi fa un figlio regala un pezzo di futuro all’Italia e le istituzioni devono essere al suo fianco per sostenerlo».

La sfida del Forum arriva dall’Aula Nassirya di Palazzo Madama. Il presidente Gigi De Palo sfida: i temi famiglia e natalità siano priorità di tutte le forze politiche. La risposta arriva. Il primo a dire sì è il leader di Energie per l’Italia Stefano Parisi: «Negli ultimi cinquant’anni l’Italia ha smesso di fare figli. Un’emergenza sociale che deve diventare priorità politica. Ora proprio la politica unita investa con decisione per uscire dall’inverno demografico». Il secondo colpo arriva da Fi con Mara Carfagna: «Serve una politica unita che investa con decisione per affrontare l’emergenza demografica». Poi la collega di partito Mariastella Gelmini: «Un paese che non mette al mondo dei figli non ha fiducia nel futuro. E allora bene il Patto per la natalità. Si tratta di un promemoria importante per le istituzioni e per la politica perché troppo spesso le proposte per la famiglia finiscono nel nulla. Forza Italia ha inserito la natalità nel programma elettorale e siamo convinti che il prossimo governo avrà il dovere di sostenere la famiglia e di mettere in atto una effettiva tutela sociale della maternità».

Ora dopo ora le voci della politica si moltiplicano. Maurizio Lupi, uno dei leader di Noi con l’Italia, la quarta gamba del centrodestra: «Siamo ormai di fronte a un’emergenza demografica e sociale che non può essere affrontata con provvedimenti spot, c’è bisogno di una politica globale per la famiglia che oltre agli interventi per la natalità preveda anche una nuova normativa fiscale nella quale introdurre finalmente detrazioni diversificate in base al Fattore Famiglia come noi proponiamo da tempo». A fargli eco il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, leader di Civica popolare, su Facebook: «Il calo demografico italiano inciderà sulla sostenibilità del sistema previdenziale, sanitario e di welfare ma anche su occupazione e sviluppo sociale e culturale. Serve forte sostegno alle famiglie come nostra proposta di garantire asili nido gratis. Serve un #pattoXnatalità». Utilizza invece Twitter la candidata grillina alla presidenza della regione Lazio, Roberta Lombardi, per ricordare che «la famiglia è la cosa più importante che abbiamo. È il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro».

Alessia Guerrieri Avvenire 18 gennaio 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/celletti-docet

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

I laici non sono servitori

Cari fratelli, ringrazio per le parole che il Presidente della Conferenza Episcopale mi ha rivolto a nome di tutti voi. Prima di tutto desidero salutare Mons. Bernardino Piñera Carvallo, che quest’anno compirà 60 anni di episcopato (è il Vescovo più anziano del mondo, tanto in età come in anni di episcopato) e che ha vissuto quattro sessioni del Concilio Vaticano II. Bella memoria vivente! Tra poco si compirà un anno dalla vostra visita ad limina; adesso tocca a me venirvi a visitare e sono contento che questo incontro avvenga dopo quello che ho avuto con il “mondo consacrato”. Poiché uno dei nostri compiti principali consiste proprio nello stare vicini ai nostri consacrati, ai nostri presbiteri. Se il pastore si disperde, anche le pecore si disperderanno e saranno alla portata di qualsiasi lupo.

Fratelli, la paternità del vescovo con i suoi sacerdoti, col suo presbiterio! Una paternità che non è né paternalismo né abuso di autorità. È un dono da chiedere. State vicini ai vostri sacerdoti nello stile di San Giuseppe. Una paternità che aiuta a crescere e a sviluppare i carismi che lo Spirito ha voluto effondere sui vostri rispettivi presbitèri.

So che eravamo rimasti d’accordo per usare poco tempo perché già nei colloqui delle due lunghe sessioni della visita ad limina abbiamo toccato molti temi. Perciò in questo “saluto” mi piacerebbe riprendere qualche punto dell’incontro che abbiamo avuto a Roma, e lo potrei riassumere nella seguente frase: la coscienza di essere popolo, di essere Popolo di Dio.

Uno dei problemi che affrontano oggigiorno le nostre società è il sentimento di essere orfani, cioè di non appartenere a nessuno. Questo sentire “postmoderno” può penetrare in noi e nel nostro clero; allora incominciamo a pensare che non apparteniamo a nessuno, dimentichiamo che siamo parte del santo Popolo fedele di Dio e che la Chiesa non è e non sarà mai un’élite di consacrati, sacerdoti o vescovi. Non possiamo sostenere la nostra vita, la nostra vocazione o ministero senza questa coscienza di essere Popolo. Dimenticarci di questo — come mi esprimevo rivolgendomi alla Commissione per l’America Latina — «comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato».

La mancanza di consapevolezza di appartenere al Popolo fedele di Dio come servitori, e non come padroni, ci può portare a una delle tentazioni che arrecano maggior danno al dinamismo missionario che siamo chiamati a promuovere: il clericalismo, che risulta una caricatura della vocazione ricevuta.

La mancanza di consapevolezza del fatto che la missione è di tutta la Chiesa e non del prete o del vescovo limita l’orizzonte e, quello che è peggio, limita tutte le iniziative che lo Spirito può suscitare in mezzo a noi. Diciamolo chiaramente, i laici non sono i nostri servi, né i nostri impiegati.

Non devono ripetere come “pappagalli” quello che diciamo. «Il clericalismo lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo a poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli. Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il Popolo fedele di Dio (cfr. Lumen gentium , 9-14) e non solo a pochi eletti e illuminati».

Vigiliamo, per favore, contro questa tentazione, specialmente nei seminari e in tutto il processo formativo. Vi confesso, mi preoccupa la formazione dei seminaristi: che siano pastori al servizio del Popolo di Dio; come dev’essere un pastore, con la dottrina, con la disciplina, con i Sacramenti, con la vicinanza, con le opere di carità, ma che abbiano questa coscienza di Popolo. I seminari devono porre l’accento sul fatto che i futuri sacerdoti siano capaci di servire il santo Popolo fedele di Dio, riconoscendo la diversità di culture e rinunciando alla tentazione di qualsiasi forma di clericalismo.

Il sacerdote è ministro di Cristo, il quale è il protagonista che si rende presente in tutto il Popolo di Dio. I sacerdoti di domani devono formarsi guardando al domani: il loro ministero si svilupperà in un mondo secolarizzato e, pertanto, chiede a noi pastori di discernere come prepararli a svolgere la loro missione in questo scenario concreto e non nei nostri “mondi o stati ideali”.

Una missione che avviene in unione fraterna con tutto il Popolo di Dio. Gomito a gomito, dando impulso e stimolando il laicato in un clima di discernimento e sinodalità, due caratteristiche essenziali del sacerdote di domani. No al clericalismo e a mondi ideali che entrano solo nei nostri schemi ma che non toccano la vita di nessuno. E qui chiedere allo Spirito Santo il dono di sognare; per favore, non smettete di sognare, sognare e lavorare per una opzione missionaria e profetica che sia capace di trasformare tutto, affinché le abitudini, gli stili, gli orari, il linguaggio ed ogni struttura ecclesiale diventino strumenti adatti per l’evangelizzazione del Cile più che per un’autoconservazione ecclesiastica.

Non abbiamo paura di spogliarci di ciò che ci allontana dal mandato missionario. Fratelli, era questo che volevo dirvi come riassunto delle cose principali di cui abbiamo parlato nel corso delle visite ad limina.

Affidiamoci alla protezione di Maria, Madre del Cile. Preghiamo insieme per i nostri presbitèri, per i nostri consacrati; preghiamo per il santo Popolo fedele di Dio, del quale facciamo parte. Grazie

papa Francesco L’Osservatore Romano 18 gennaio 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201801/180118papafrancesco.pdf

www.osservatoreromano.va/vaticanresources/pdf/SPA_2018_003_1901.pdf

 

Intervista a Riccardo Di Segni, rabbino di Roma Passim

Rabbino Di Segni, lei da 17 anni è il capo religioso della più antica comunità ebraica della

diaspora, quella di Roma.

(…) È vero che san Francesco aveva origini ebraiche?

«Un libro lo afferma, ma non ne sono affatto sicuro. Senza fare paragoni, era ebreo don Lorenzo

Milani».

(…) [Cosa pensa] E di Papa Francesco?

«È un Papa che sa ascoltare. Gli ho chiesto di non citare più i farisei come paradigma negativo, visto che l’ebraismo rabbinico deriva da loro; e l’ha fatto. Gli ho chiesto di non cadere nel marcionismo, e mi pare ci stia attento».

Cos’è il marcionismo?

«L’idea — cara all’eretico Marcione e tuttora diffusa tra i laici che di religione sanno poco, come Eugenio Scalfari — che esista un Dio dell’Antico Testamento, severo e vendicativo, e un Dio del Nuovo, buono e amorevole. Ma Dio è uno solo. Ed è insieme il Dio dell’amore e il Dio della giustizia. Il Dio che perdona, e il Dio degli eserciti»

(…) Lei non ha punti di disaccordo con Papa Francesco?

«Ne ho molti. Ad esempio il Papa fa passare la domenica come un’invenzione cristiana; ma se voi avete la domenica, è perché noi abbiamo il sabato. Quando Francesco è venuto qui in sinagoga voleva discutere di teologia. Gli ho risposto di no: di teologia ognuno ha la sua, e non la cambia; discutiamo di altro».

(…) Chi è per lei Gesù?

«Innanzitutto, un ebreo. Conosceva la tradizione ebraica, ha predicato insegnamenti morali in gran parte condivisi dalla tradizione, in parte “eterodossi”. Ma per voi è il Messia, il figlio di Dio; per noi non lo è».

(…) Cosa pensa delle leggi sulle unioni civili e sul fine vita?

«Lo Stato fa le leggi che ritiene; i credenti fanno quel che ritengono, spesso dopo averci chiesto consiglio. La sedazione profonda non è un problema; ma l’idratazione e la nutrizione non vanno interrotte. Mai».

Voi rabbini potete sposarvi.

«Non possiamo; dobbiamo. Nella nostra visione, un uomo che non si sposa non è pienamente realizzato».

Come immagina l’aldilà?

«Non è al centro delle mie preoccupazioni. Noi crediamo che la vita non si fermi qui, in questo mondo, in questa dimensione. Per il resto abbiamo poche informazioni, ma confuse».

Noi cristiani crediamo alla resurrezione della carne.

«È un concetto ebraico, l’avete preso da noi. Ma non abbiamo un sistema ultraterreno definito come il vostro, con il Paradiso, il Purgatorio, l’Inferno. C’è l’idea della punizione e del premio; del resto discutiamo da millenni. Voi pensate gli ebrei come un monolito; ma da sempre non facciamo altro che litigare».

Dunque la lobby ebraica non esiste?

«In Italia “lobby” ha una connotazione negativa, in America no: è un gruppo di espressione che difende valori e interessi. E noi abbiamo valori e interessi da difendere».

Aldo Cazzullo in “Corriere della Sera” 21 gennaio 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201801/180121disegnicazzullo.pdf

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GENETICA

I genetisti italiani: le razze umane non esistono, finitela di usare questo termine

L’Associazione Genetica Italiana: “Proporre iniziative in favore di questo o quel gruppo di cittadini individuati su base razziale, non solo non ha senso dal punto di vista biologico, ma soprattutto si pone in evidente contrasto con la Costituzione”.

Attilio Fontana, candidato del Centrodestra alle elezioni regionali in Lombardia, ha dichiarato a Radio Padania che “la razza bianca è a rischio”. Simili opinioni aveva espresso, nel luglio 2017, Patrizia Prestipino, della Direzione del Partito Democratico, invocando misure in difesa della razza italiana.

In seguito a queste prese di posizione, diversi soci dell’Associazione Genetica Italiana (AGI) sono stati interpellati, da stazioni radio e testate giornalistiche, per chiarire cosa ci dica oggi la genetica a proposito dell’esistenza o meno di razze umane. Abbiamo detto tutti più o meno le stesse cose, e cioè che:

  1. Nel linguaggio corrente, la parola razza è ambigua. Può indicare tanto l’intera umanità (Einstein, dichiarandosi di “razza umana”), quanto una famiglia (“l’ultimo della sua razza”), con tante sfumature intermedie. Ma anche in ambito scientifico il concetto non è privo di ambiguità. Secondo Ernst Mayr, popolazioni locali abbastanza diverse l’una dalle altre da poter essere distinte rappresentano diverse razze o sottospecie (In Systematics and the Origin of Species, 3rd edn, Columbia University Press, New York, 1947, 98-106). Resta così aperto il problema di decidere cosa significhi “abbastanza diverse”.

  2. In molte specie, l’analisi del DNA permette di attribuire con precisione un individuo di origine sconosciuta a una regione geografica precisa. In questo caso, alla popolazione di ciascuna regione viene attribuito lo status di razza; esempi sono lo scimpanzé, la lumaca dei Pirenei, e molte piante. Invece in altre specie, in particolare specie molto mobili di uccelli o pesci di mare, le popolazioni di diverse regioni non si distinguono fra loro, e quindi non formano razze biologiche.

  3. Nel cane, nel cavallo, e in molte specie domestiche di animali e piante, ci sono razze ben distinte. Non si tratta però del risultato di un’evoluzione naturale, ma di incroci controllati da parte di allevatori e coltivatori. In ogni caso, a livello di DNA, le differenze fra razze canine sono centinaia di volte più grandi di quelle fra persone di continenti diversi.

  4. Il primo motivo per escludere che nell’uomo esistano razze biologiche è storico: dal Settecento in poi sono stati proposti decine di cataloghi razziali umani, comprendenti da 2 a 200 razze, e ognuno in conflitto con tutti gli altri. Gli astronomi sono d’accordo su quali e quanti siano i pianeti del sistema solare, i chimici sono d’accordo su quali e quanti siano gli elementi. Come ha sottolineato Frank Livingstone (On the nonexistence of human races, Current Anthropology 3:279-281, 1962) che invece nessuno sappia dire quali e quante siano le razze umane dimostra che attraverso il concetto di razza non si riesce a comprendere la nostra diversità biologica.

  5. Il secondo motivo per escludere che nell’uomo esistano razze biologiche è genetico. Lo studio dei genomi dimostra che ciascuno di noi condivide con qualunque sconosciuto, di qualunque continente, il 99,9% del suo DNA. Non basta: quell’1‰ di differenze è distribuito in modo tale che ciascuna popolazione ospita in media l’88% della variabilità dell’intera specie umane. In altre parole, individui di popolazioni anche lontane sono a volte molto più simili dei nostri vicini di casa. Ricordiamoci delle innumerevoli vite salvate ogni anno nel mondo dalle trasfusioni di sangue e dai trapianti di organi che coinvolgono anche persone di continenti diversi.

Da normali cittadini, ci sembra però che il problema principale non stia nella maggiore o minore esattezza con cui si adopera il termine razza nel discorso pubblico, ma nel senso di queste esternazioni. L’articolo 3 della Costituzione stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, senza distinzione di razza (né di sesso, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali). Proporre iniziative in favore di questo o quel gruppo di cittadini individuati su base razziale, non solo non ha senso dal punto di vista biologico, ma soprattutto si pone in evidente contrasto con la Costituzione.

Associazione Genetica Italiana 19 gennaio 2018

http://lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/01/19/i-genetisti-italiani-le-razze-umane-non-esistono-finitela-di-usare-questo-termine

www.associazionegeneticaitaliana.it/wp-content/uploads/2018/01/Dichiarazione-AGI-su-concetto-di-razza-umana-18-gennaio-2018.pdf

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GENITORI ADOTTIVI

Piccolo vademecum per essere pronti a fare i “bravi genitori”

Scrivo questo articolo per le coppie incamminate nel percorso adottivo che non hanno ancora a casa i propri figli. Vorrei avvertirle e prepararle: affinché non siano sopraffatte dalle incombenze pratiche contingenti, quando arrivano nella loro casa i bambini che tanto hanno desiderato. La mia personale esperienza, mi ha portato a verificare che purtroppo, un genitore adottivo, non gode di alcuni vantaggi che un generico genitore biologico ha nel periodo che precede l’arrivo dei figli.

Una mamma che annuncia l’inizio della propria gravidanza è sommersa dalle attenzioni e dai suggerimenti che amici e parenti iniziano a fornire su tutto quanto riguarda il “mondo bambino”; non solo, ma queste informazioni si allineano alla età del bambino, ovviamente già chiaramente conosciuta, a partire da un giorno di vita del nascituro fino a quando è maggiorenne e oltre. Ahimè, questo non accade per il genitore adottivo. In genere dal momento in cui comunica “aspetto un bambino”, a quando quel bambino si presenta in carne e ossa, è trascorso un tempo imprecisato; inoltre il bambino che mamma e papà potranno presentare “in società”, avrà una età che potrà essere di pochi giorni fino a più di dieci anni.

All’annuncio dell’attesa adottiva, nessun parente si prodiga in suggerimenti – magari più o meno graditi, ma comunque utili – su come avere cura dei futuri pargoli, ma solitamente si lanciano in domande, anche azzardate, per avere essi stessi informazioni dettagliate su quale sia la procedura adottiva e su come saranno e da dove arriveranno i futuri figli. Soddisfatta la loro curiosità, difficilmente poi, parenti amici colleghi e conoscenti, anche se è già avvenuto l’abbinamento e si sa già età e sesso dei nostri figli, allargano il discorso cercando di aiutarci a far parte della grande famiglia dei “genitori”.

Per quanto sopra, cari futuri genitori adottivi, io vi dico: fate valere i vostri diritti di genitori in attesa! Pretendete che vi si prenda per mano e vi si accompagni all’interno del “mondo bambino”, dove vi troverete di colpo catapultati e dove dovrete vivere per i prossimi anni; dove tutto quanto era parte della vostra vita precedente verrà spazzato via come l’arrivo di uno tsunami che travolgerà cose, ritmi, abitudini e visioni filosofiche del vostro vecchio mondo. Avete bisogno come Dante del vostro Virgilio, che vi accompagni nei gironi dell’Inferno, del Paradiso e del Purgatorio della vita del genitore e vi protegga dai pericoli che vi sono e che si presenteranno.

Perciò chiedete chiedete chiedete e pretendete, finché avete ancora tempo e siete ancora sufficientemente lucidi e carichi di energie. Chiedete alla cugina quali sono stati i maggiori problemi che ha dovuto affrontare con il suo primo figlio, con il secondo e con il terzo. Non dormiva? Non mangiava? Non parlava? Cosa hanno fatto, come hanno risolto. Lasciatevi trasportare anche per ore in discussioni e racconti che vi sembreranno fantascientifici, ma che diverranno negli anni seguenti il vostro pane quotidiano; iniziate ad abituarvi, ad allenarvi per bene e sarete subito sul pezzo una volta arrivati i bambini.

Pretendete informazioni su quali seggiolini per l’auto vanno usati secondo le età, perché perderete le ore a capire quale va usato e impazzirete a cercare su internet il modello meno caro, chiedendovi come è stato possibile che dal passare le ore alla ricerca dell’albergo più bello dove trascorrere le vacanze in coppia, ci si è ridotti a diventar matti per un dannato seggiolino per auto. Fatevi raccontare per filo e per segno le vicissitudini che hanno dovuto affrontare con la scuola frequentata dai figli e con la undicesima piaga d’Egitto mandata da Dio sulla terra, che sono i compiti a casa. Obbligate a dirvi tutto senza remore; chiedete a fratelli, colleghi di lavoro e amici; che si domanderanno perché mai di punto in bianco siete diventati la loro miglior spalla su cui sfogare le loro frustrazioni. Non sanno che vi stanno dando un aiuto pazzesco, che inoculandovi prima una dose di “figlite acuta”, vi avranno vaccinato contro la malattia vera, che si manifesterà con l’arrivo dei vostri figli.

Iniziate a informarvi su quali sono e quale reputazione hanno gli ospedali pediatrici della vostra città, sulle scuole della vostra città, sui negozi per bambini della vostra città, sui musei per bambini, sulle attività per bambini della vostra zona e via elencando: insomma, iniziate a entrare davvero, anche se non avete ancora i bambini con voi, nel “mondo bambino”.

Dovete farlo prima, perché dopo sarete alle prese con i vostri bambini lì davanti per davvero: che piangono, non stanno mai in silenzio e urlano metà del tempo, fanno capricci, non dormono e molto molto altro, e che a loro volta non sanno nella maggior parte dei casi, cosa sia il “mondo genitori”. Perché anche per i nostri figli, la questione non è per niente semplice. Come ha detto un bambino adottivo di nove anni dopo qualche annetto dall’arrivo in famiglia: “Mamma, sai una cosa? Pensavo che era più facile fare il figlio”. E già. Anche i bambini spesso non sanno fare i figli e mettono in campo tutte le loro fatiche, le loro difficoltà, le loro paure.

E allora almeno tutto quanto riguarda le questioni pratiche, è meglio che noi genitori ce lo prepariamo prima, così da lasciare tutto lo spazio possibile, una volta arrivati i bambini, alle questioni che riguardano la nostra relazione con loro, a tutto ciò che compete all’ambito emotivo, così da potere avere la massima empatia con i nostri figli, rassicurarli e rendere il loro “lavoro da figli” il più facile possibile.

Perché i bambini che si ritrovano a far parte di una famiglia per adozione e non per nascita, non sempre hanno una percezione realistica di cosa sia una famiglia. C’è chi in famiglia non è mai vissuto ed ha avuto solo esperienza di vita in istituto, chi ha avuto esperienza della famiglia affidataria, chi ha avuto esperienza della famiglia nella quale è nato, ma nella quale i bambini possono avere avuto vissuti molto diversi, da molto positivi a molto negativi. Per cui molto spesso i bambini idealizzano la loro nuova famiglia, mentre il confronto quotidiano con i genitori adottivi può essere molto faticoso e burrascoso.

Nella emergenza di questo mare agitato spesso non si ha né tempo né a dire il vero nemmeno la capacità, di affrontare anche tutti gli aspetti pratici che la vita di un bambino in famiglia richiede. L’aspetto pratico del ménage di una famiglia non è da sottovalutare. Preparatelo perciò per quanto possibile, prima dell’arrivo dei bambini. Obbligate le persone attorno a voi a farvelo conoscere e navigare e sperimentare prima, così da potere avere maggiore serenità e capacità quando i bambini saranno con voi.

Antonella Avanzini Genitori si diventa 14 gennaio 2018

www.genitorisidiventa.org/notiziario/piccolo-vademecum-essere-pronti-fare-i-bravi-genitori

http://www.genitorisidiventa.org/

Linee di indirizzo per favorire il diritto allo studio degli alunni adottati. MIUR dicembre 2014

www.istruzione.it/allegati/2014/prot7443_14_all1.pdf

In classe: l’importanza del conoscersi

www.genitorisidiventa.org/notiziario/classe-l%E2%80%99importanza-del-conoscersi

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GESTAZIONE PER ALTRI

Maternità surrogata o surrogato di maternità?

“La bellezza dell’amore non sta nelle misure delle forme, ma nello splendore dello sguardo” (cit.). Come si fa, nei casi della cosiddetta “maternità surrogata”, a consultare cataloghi che danno ogni genere di informazioni, per la propria scelta di genitorialità, per un figlio che si deve ricordare non essere proprietà di nessuno e che dovrebbe essere, invece, frutto d’amore e progetto della sua vita (e non un proprio programma)?

Il giurista gesuita Francesco Occhetta fornisce una definizione: “La maternità surrogata è una pratica di procreazione in cui la donna si impegna a portare avanti una gravidanza per poi consegnare il neonato che darà alla luce a una coppia committente. È tra i temi più delicati e scottanti del dibattito pubblico, a partire dai modi diversi in cui viene definita: è chiamata “gestazione per altri”, “gestazione d’appoggio”, oppure “utero in affitto”. Le domande antropologiche ed etiche che tale pratica suscita toccano la radice del significato di vita, di corpo, di rapporto madre-figlio, di dignità, di memoria, ma anche di dono e di reciprocità. Sembra che nel dibattito politico le categorie dell’umanesimo abbiano lasciato il posto a quelle del post-umanesimo, in cui la riflessione pubblica si limita ad accogliere (passivamente) i traguardi della tecnica”.

La maternità, in quanto tale, non può essere aggettivata o delimitata, meno che mai “surrogata”. Ha solo e specificatamente una funzione universale: trasmettere vita e amore. L’unica ferita che può provocare al figlio è il taglio del cordone ombelicale e non un abbandono già preventivato e commissionato. Non può essere previsto un compenso come per un qualsiasi lavoro. “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” (art. 37 comma 1 Costituzione).

“Fino a che punto – si chiede e chiede Occhetta -, dunque, l’idea del legame liquido che fonda la surrogazione può condizionare le domande e gli appelli più profondi della coscienza morale? Davvero vogliamo insegnare ai giovani che tutto può essere disponibile, soggetto a prezzo di mercato e controllato dagli interessi delle industrie biotecnologiche? Se si afferma culturalmente che nemmeno l’essere dei nascituri è indisponibile, dove fonderanno la propria libertà le giovani generazioni quando cresceranno? E quale tipo di rigetto avranno per la generazione che li ha resi disponibili? Sono queste le domande a cui rispondere come civiltà umana. La libertà è sempre “per qualcuno”, non è mai “da qualcosa”; non si realizza nello spazio infinito del moltiplicarsi dei bisogni-desideri, ma si costruisce nell’accoglienza del limite e della relazione con l’altro”.

Il grembo materno è il primo legame del nascituro con l’altro attraverso il cordone ombelicale, il primo confine con l’altro attraverso l’utero, la prima emozione dell’altro e dall’altro attraverso il liquido amniotico. Autorizzare la maternità surrogata è autorizzare ferite abbandoniche e traumi di cui si ignorano le conseguenze. Ci si preoccupa del pedigreee (certificato genealogico) degli animali domestici e non ci si preoccupa delle origini e del patrimonio genetico, emozionale e vitale dei propri figli. Maternità è dare materia alla vita, ma è il contrario della materialità della vita. Non è e non può essere il soddisfare egoismi o desideri propri o altrui addirittura con compensi, come con la maternità surrogata.

Il giurista gesuita continua: “La parte più debole rimane il nascituro, che “va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita”. A questo proposito, tra l’altro, non può non suscitare interrogativi il fatto che nel mondo ci siano circa 170 milioni di bambini abbandonati. Prendersi cura di loro attraverso l’adozione o l’affido, da sostenere come cultura politica, riporterebbe nei confini dell’umano il desiderio di diventare genitori e di crescere un figlio”. Prioritario è il benessere dei bambini e non quello degli adulti (art. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), benessere psicofisico che può essere compromesso nel caso di maternità surrogata perché, tra i tanti esempi che si possono annoverare, i bambini crescendo possono rimanere turbati nel venire a sapere delle loro origini. Con l’adozione e l’affidamento, invece, si contribuisce al benessere di bambini già in vita ma disagiata. Allora sì che diventa un atto di generosità e generatività.

“Allora diviene arduo – afferma Occhetta -, sotto il profilo giuridico prima ancora che morale, considerare la maternità surrogata una tecnica riproduttiva eterologa in caso di sterilità. Questo significherebbe svilire il valore della relazione che madre e figlio vivono nei nove mesi di gestazione. La maternità surrogata non può nemmeno essere ridotta, come ritengono alcuni bioeticisti, alla semplice donazione di un organo, perché l’utero, diversamente da un rene o un polmone, esiste per contenere un’altra vita e non ha altra funzione se non quella. Basterebbe poi una consultazione pubblica nei vari Paesi europei per capire che la maggioranza della popolazione è contraria alla pratica”. Ammettere la maternità surrogata significa non riconoscere la vera funzione della maternità e disgiungerla anche dal dolore e dai rischi che comporta, come la nascita pretermine (si veda la Carta dei diritti del nato prematuro) o la morte perinatale o il morire di parto.

Egidio Termine, regista de “Il figlio sospeso”, film sulla maternità surrogata, afferma in un’intervista: “Intanto mi oppongo ad un fatto storico che sta avvenendo da un punto di vista sociologico: il passaggio dall’umanesimo al post-umanesimo che vuole vedere e rielaborare la stessa antropologia umana. Da un punto di vista scientifico, filosofico ci si inventano delle teorie ma, purtroppo per loro, ci si scontra sempre con quella che è la natura dell’uomo, la vera antropologia dell’uomo, quasi a volere forzare un sentimento che mai potrà morire. Questa ricerca c’è sempre: una mamma sa sempre e comunque che da qualche parte ha un figlio”. Coloro che approvano e ricorrono alla maternità surrogata dovrebbero almeno riflettere sul particolare legame del cordone ombelicale e sull’importanza della conservazione del cordone stesso.

Il regista Termine incalza dicendo: “Si parla spesso di maternità surrogata focalizzando l’attenzione sulle madri che oggi possono essere anche quattro. Nessuno pensa invece al bambino, al figlio che è il protagonista di questo fatto sociale nuovo. Quindi mi sono messo dalla parte del bambino e lo stesso titolo “Il figlio sospeso” è esplicativo di questo mio punto di vista che parte appunto dalla necessità di attenzionare il bambino, il protagonista che viene scambiato nella maternità surrogata”. Con la maternità surrogata si va a incidere sullo status di figlio (figlio di chi e quanti?) e, pertanto, sull’identità. Nell’art. 7 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge la locuzione “conoscere i propri genitori”. “Proprio”, etimologicamente “vicino”, è ciò che appartiene esclusivamente a una persona. E nella maternità surrogata ciò non è garantito, perché quell’utero avrà dato o potrà dare alla luce altri figli sconosciuti e sparsi nel mondo cui viene negata aprioristicamente maternità naturale e rapporto di fratellanza.

Francesco Occhetta osserva: “La valutazione etica della maternità surrogata […] non può limitarsi a stabilire una sorta di “argine” al limite delle tecniche di procreazione artificiali. Non si tratta nemmeno di fissare parametri – quanto sarebbe giusto o dove sarebbe troppo – per capire fin dove è possibile arrivare con uno strumento tecnico che di per sé dovrebbe essere neutro. Infatti, essendo coinvolte la persona e la sua dignità come oggetto dell’agire tecnico, bisogna ricordare quell’imperativo che Immanuel Kant identificava come punto chiave del comportamento umano: “Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua come nella altrui persona, sempre come fine e mai come semplice mezzo”. La valutazione etica di tale prassi si pone al più radicale dei livelli dell’umano, quello del senso della vita. Parlare di un approccio etico alla maternità surrogata significa portare la domanda morale al cuore della tecnica per cercare come questa possa servire l’uomo, senza servirsene. Trasformare la procreazione in una produzione rivela un decadimento della percezione dell’umano verso le derive del post-umano: l’uomo svuotato del significato antropologico unitario, che rimane malleabile e plasmabile secondo il desiderio dei più forti e dei più ricchi. Se lo sguardo che poniamo sulla maternità surrogata non si facesse carico di tale domanda sul significato umano di questa prassi, negheremmo la dignità umana, che invece ci permette di trovare risposte alle questioni qui sollevate. Proprio la storia del Novecento, con le sue pagine sanguinose, mostra come i crimini che l’umanità ha subìto abbiano di fatto espresso il volto più cruento eliminando il fondamento della dignità dalla coesistenza umana”. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (art. 1 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani). Nella maternità surrogata non sembra che siano garantite queste premesse. In particolare, esaminando la parola “dignità”, essa deriva da “degno” che, secondo alcuni etimologi, avrebbe la stessa radice dei verbi latini “dicere”, dire, e “docere”, mostrare: quelle peculiarità umane di dire e mostrare le radici della vita e della singola storia che appaiono compromesse nella maternità surrogata. Nell’abbandono di neonati o nel non riconoscimento, invece, per quanto disdicevole o disapprovabile quest’atto, vi è una storia e vi è una radice che può essere rammendata e rammentata dai genitori adottivi o da chi per loro.

Nel silenzio mediatico il 2 febbraio 2016, a conclusione dell’Assise per l’abolizione universale della maternità surrogata, è stata firmata a Parigi presso il Parlamento francese, la Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata (cosiddetta Carta di Parigi), promossa dall’associazionismo femminile. Vi si legge: “La maternità surrogata, detta “gestazione per altri” (GPA), praticata in diversi paesi, è la messa a disposizione del corpo delle donne per far nascere bambini che saranno consegnati ai loro committenti. Lungi dall’essere un gesto individuale, questa pratica sociale è realizzata da imprese che si occupano di riproduzione umana, in un sistema organizzato di produzione, che comprende cliniche, medici, avvocati, agenzie etc. Questo sistema ha bisogno di donne come mezzi di produzione in modo che la gravidanza e il parto diventino delle procedure funzionali, dotate di un valore d’uso e di un valore di scambio, e si iscrivano nella cornice della globalizzazione dei mercati che hanno per oggetto il corpo umano. Se nessuna legge lo protegge, il corpo delle donne è richiesto in quanto risorsa a vantaggio dell’industria e dei mercati della riproduzione. Certe donne acconsentono a impegnarsi in un contratto che aliena la loro salute, la loro vita e la loro persona, sotto pressioni multiple: i rapporti di dominazione famigliari, sessisti, economici, geopolitici. Infine, la maternità surrogata fa del bambino un prodotto con valore di scambio, in modo che la distinzione tra persona e cosa viene annullata. Il rispetto del corpo umano e l’uguaglianza tra donne e uomini devono prevalere sugli interessi particolari”.

A proposito della maternità surrogata, la storica Emma Fattorini ha posto l’accento sulla creazione del legame – definito dal linguaggio tecnico bonding – che inizia nel periodo pre-natale, si consolida alla nascita e raggiunge un suo equilibrio nei primi anni di età: “Si nega la relazione mente-corpo, alla base del rapporto madre-bambino. Lo “spezzettamento” della maternità in tanti segmenti, pezzi diversi, l’ovulo, l’ovocita, l’utero riducono la maternità a un processo meramente biologico. Come se la gravidanza potesse ridursi a un fatto meramente biologistico, secondo quel biologismo ottocentesco che ancora non aveva colto la relazionalità della vita intrauterina. Come se si potesse infrangere l’unità tra mente e corpo che è stata una delle più grandi scoperte della soggettività novecentesca. […] Lo stress, che si comunica, o gli effetti della musica che si sente o le infinite correlazioni madre-bambino – di cui è consapevole l’esperienza femminile – lasciano degli effetti di tipo epigenetico, come dimostrano recenti ricerche delle neuroscienze”. La maternità è una relazione esistenziale, vitale, difficilmente sostituibile come si evince pure dalla Carta dei diritti del bambino nato prematuro (2010): “Ogni neonato prematuro ha diritto ad usufruire dei benefici del latte materno durante tutta la degenza e, non appena possibile, di essere allattato al seno della propria mamma. Ogni altro nutriente deve essere soggetto a prescrizione individuale quale alimento complementare e sussidiario” (art. 5).

La filosofa Francesca Izzo sostiene: “Se si accetta, come nella maternità surrogata, anche in quella cosiddetta solidaristica, di spezzare l’unitarietà del processo, di segmentarlo in ovociti, gravidanza e neonato, togliendo alla gravidanza ogni “pregnanza” fisica, emotiva, relazionale e simbolica, facendone un processo meccanico/naturale, si incrinano le basi stesse dell’autodeterminazione. Paradossalmente, in nome della libertà si espropriano le donne di ciò che la determina e la fonda. È dunque propriamente in nome della libertà femminile che la surroga è inaccettabile”. Segmentare, spezzettare e disgiungere la gravidanza dalla nascita significa misconoscere o annullare la naturalezza e l’unicità di quello che è stato ritenuto e vissuto come il più bel momento nella vita della donna e della vita in generale (si pensi anche al mondo animale, in particolare ai mammiferi e al contatto che si stabilisce tra madre e cuccioli subito dopo il parto) e di tutto ciò che lo caratterizza, come l’importanza dell’allattamento materno (art. 24 lettera e) Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Vari gli indici normativi contrastanti con la maternità surrogata: il parere negativo del Comitato nazionale per la bioetica del 18 marzo 2016, in cui si ribadisce il disposto dell’art. 21 della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (1997); l’art. 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (2000); i valori costituzionali, tra cui quelli espressi dall’art. 2 e l’art. 32 Costituzione (la sentenza 272/2017 della Corte Costituzionale, che offre numerosi spunti di discussione su più fronti sulla maternità surrogata, ha altresì ribadito “l’elevato disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità”).

Un’altra voce è quella del teologo argentino Humberto Miguel Yáñez: “[…] la valutazione dell’autentica apertura alla vita non potrebbe ridursi a questione di “metodo”, ma deve riferirsi all’intenzionalità della coppia, la quale, nel coltivare un vero amore coniugale, dovrà discernere tutti gli aspetti e le condizioni che vi concorrono. Si valuterà certamente il metodo, ma soprattutto i criteri che rendono l’atto coniugale più adatto a esprimere l’amore coniugale e, quando occorra, la fecondità, la quale va distinta dalla mera fertilità”. “[…] sviluppare la medicina preventiva, l’educazione dei genitori e l’informazione ed i servizi in materia di pianificazione familiare” (art. 24 lettera f) Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Pianificazione familiare non è più (o non solo) prevenzione di gravidanze indesiderate e/o controllo del numero delle gravidanze, ma anche scelta del metodo di procreazione o, comunque, scelta del momento e del contesto in cui procreare. Tra maternità surrogata, conflittualità crescente ed esasperata, famiglie chiasmatiche ed altro, urge sempre più che la genitorialità sia autenticità, intenzionalità e fecondità. Questo è uno dei contenuti dell’indirizzo concordato della vita familiare di cui all’art. 144 cod. civ..

Occorre, pertanto, dare un’accezione nuova e più ampia a “pianificazione familiare”: attualmente i genitori rivelano un tale disorientamento o incapacità genitoriale che è necessario accompagnarli al senso e significato di genitorialità affinché comprendano e concretizzino cosa costituisca il benessere dei loro figli e cosa sia opportuno per la loro vita, dalle modalità di concepimento alla tipologia di relazioni parentali.

Anche la scrittrice Susanna Tamaro si è espressa: “Un amore che reclama diritti che razza di amore è? Il concetto di amore e quello di diritto sono assolutamente incompatibili. Non esiste il diritto di amore, così come non esiste il dovere di amare. Persino il Decalogo – oserei dire, il codice etologico dell’umanità – ci impone di onorare il padre e la madre, non di amarli. L’amore, per essere davvero tale, non richiede una legge a cui uniformarsi, ma piuttosto un’idea del bene, e l’idea del bene soggiace sempre a quella di reciprocità. Quale forma di reciprocità ci può essere in un rapporto di commissione della vita? Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso è il principio su cui è retta la società umana fino ad ora. Per esercitare un nostro diritto, dunque, costringiamo lucidamente una persona a venire al mondo privandola di ciò che fa di un uomo un uomo, vale a dire la genealogia, mettendo sulla sua vita una grande ipoteca di infelicità”[5]. I figli non sono oggetti di diritto né beni in commercio, sono soggetti di diritto e persone cui voler bene. Non si può pretendere di diventare genitori a tutti i costi a discapito di altri esseri nuocendo loro già dal concepimento, per cui bisognerebbe riflettere umanamente e umilmente sulle conseguenze della fecondazione eterologa e della maternità surrogata. “Riconosciuto che il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia): ambiente e atmosfera sono ciò che circondano già il nascituro.

“Il fanciullo […] avrà diritto ad un nome, ad acquisire una nazionalità e, nella misura del possibile, a conoscere i propri genitori ed essere da essi accudito” (art. 7 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). La fecondazione eterologa, la maternità surrogata, o altre metodiche dettate spesso da egoismi, non tutelano “nella misura del possibile” il bambino che ha diritto a “propri genitori”, diritto naturale, mentre non esiste il diritto degli adulti ad avere un figlio.

Un bambino: “Cos’è una madre surrogata?”. Un adulto: “Bambini, andate a giocare!” (dal dialogo di un film). È necessario e doveroso rispondere alle domande dei bambini o perlomeno non metterli di fronte a situazioni imbarazzanti e disorientanti per la formazione della loro opinione. Bisogna dire le cose in modo naturale e semplice con parole alla portata dei bambini e spiegare loro anche quello che non si condivide (perché non è certo nascondendolo che si risolve un problema) con la spontaneità che scaturisce stando con i bambini e rimanendo bambini. Educarli alla realtà e alla verità è educarli alla libertà, anche per “[…] assicurare al fanciullo capace di formarsi una propria opinione il diritto di esprimerla liberamente e in qualsiasi materia, dando alle opinioni del fanciullo il giusto peso in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità” (art. 12 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

“È il principio più importante dell’educazione: nessuno guida un altro dove non è mai stato” (il salesiano Bruno Ferrero): essere genitori è un salto nel buio ma, al tempo stesso, è portare luce nella vita dei figli indicando da dove sono venuti e dove potrebbero andare. bibliografia

Margherita Marzario Newsletter Giuridica Studio Cataldi 8 gennaio 2018

www.studiocataldi.it/articoli/28637-maternita-surrogata-o-surrogato-di-maternita.asp

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GIORNATA PER LA VITA

Messaggio del Consiglio Episcopale permanente per 40a Giornata nazionale per la Vita (4 febbraio 2018)

Il vangelo della vita, gioia per il mondo

“L’amore dà sempre vita”: quest’affermazione di papa Francesco, che apre il capitolo quinto dell’Amoris lætitia, ci introduce nella celebrazione della Giornata della Vita 2018, incentrata sul tema “Il Vangelo della vita, gioia per il mondo”. Vogliamo porre al centro della nostra riflessione credente la Parola di Dio, consegnata a noi nelle Sacre Scritture, unica via per trovare il senso della vita, frutto dell’Amore e generatrice di gioia. La gioia che il Vangelo della vita può testimoniare al mondo, è dono di Dio e compito affidato all’uomo; dono di Dio in quanto legato alla stessa rivelazione cristiana, compito poiché ne richiede la responsabilità.

Formati dall’Amore. La novità della vita e la gioia che essa genera sono possibili solo grazie all’agire divino. È suo dono e, come tale, oggetto di richiesta nella preghiera dei discepoli: “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (Gv 16,24). La grazia della gioia è il frutto di una vita vissuta nella consapevolezza di essere figli che si consegnano con fiducia e si lasciano “formare” dall’amore di Dio Padre, che insegna a far festa e rallegrarsi per il ritorno di chi era perduto (cf. Lc 15,32); figli che vivono nel timore del Signore, come insegnano i sapienti di Israele: «Il timore del Signore allieta il cuore e dà contentezza, gioia e lunga vita» (Sir 1,10). Ancora, è l’esito di un’esistenza “cristica”, abitata dallo stesso sentire di Gesù, secondo le parole dell’Apostolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù », che si è fatto servo per amore (cf. Fil 2,5-6). Timore del Signore e servizio reso a Dio e ai fratelli al modo di Gesù sono i poli di un’esistenza che diviene Vangelo della vita, buona notizia, capace di portare la gioia grande, che è di tutto il popolo (cf. Lc 2,10-13).

Il lessico nuovo della relazione. I segni di una cultura chiusa all’incontro, avverte il Santo Padre, gridano nella ricerca esasperata di interessi personali o di parte, nelle aggressioni contro le donne, nell’indifferenza verso i poveri e i migranti, nelle violenze contro la vita dei bambini sin dal concepimento e degli anziani segnati da un’estrema fragilità. Egli ricorda che solo una comunità dal respiro evangelico è capace di trasformare la realtà e guarire dal dramma dell’aborto e dell’eutanasia; una comunità che sa farsi “samaritana” chinandosi sulla storia umana lacerata, ferita, scoraggiata; una comunità che con il salmista riconosce: «Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 16,11).

Di questa vita il mondo di oggi, spesso senza riconoscerlo, ha enorme bisogno per cui si aspetta dai cristiani l’annuncio della buona notizia per vincere la cultura della tristezza e dell’individualismo, che mina le basi di ogni relazione.

Punto iniziale per testimoniare il Vangelo della vita e della gioia è vivere con cuore grato la fatica dell’esistenza umana, senza ingenuità né illusorie autoreferenzialità. Il credente, divenuto discepolo del Regno, mentre impara a confrontarsi continuamente con le asprezze della storia, si interroga e cerca risposte di verità. In questo cammino di ricerca sperimenta che stare con il Maestro, rimanere con Lui (cf. Mc 3,14; Gv 1,39) lo conduce a gestire la realtà e a viverla bene, in modo sapiente, contando su una concezione delle relazioni non generica e temporanea, bensì cristianamente limpida e incisiva. La Chiesa intera e in essa le famiglie cristiane, che hanno appreso il lessico nuovo della relazione evangelica e fatto proprie le parole dell’accoglienza della vita, della gratuità e della generosità, del perdono reciproco e della misericordia, guardano alla gioia degli uomini perché il loro compito è annunciare la buona notizia, il Vangelo. Un annuncio dell’amore paterno e materno che sempre dà vita, che contagia gioia e vince ogni tristezza.

www.avvenire.it/chiesa/pagine/messaggio-vita-2018

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MIGRANTI

Migranti e salute. Ultimi aggiornamenti

Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute

dell’Istituto superiore di sanità

www.epicentro.iss.it/argomenti/migranti/aggiornamenti.asp?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=18gennaio2018

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MINORI

Comunità d’accoglienza. «Progetto rete» per salvare i minori senza famiglia

Da oggi a Catania esperti e comunità d’accoglienza a confronto su una situazione sempre più drammatica. Una grande rete per i minori che vivono nelle comunità, per bambini e ragazzi immigrati non accompagnati, per i figli di famiglie fragili in condizioni di povertà che non dispongono degli aiuti essenziali per crescere. Una grande rete solidale nello spirito ma professionale nelle capacità di intervento, nelle competenze e nella progettualità ancorata da una parte all’impegno delle varie comunità di tipo familiare, dall’altra alle istituzioni assistenziali, a quelle del welfare, al privato-sociale. E dietro ci sono Comuni e Regioni agevolati da una legislazione più agile e più efficace, adeguata a una realtà in rapido cambiamento. E poi, a saldare un patto educativo da cui nessuna realtà sociale può sentirsi esclusa, la famiglia e la scuola.

Ecco il grande progetto che nascerà in questi giorni a Catania su sollecitazione dell’Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) che conta circa un migliaio di realtà aderenti tra cui almeno 150 impegnate con i minori in difficoltà. Non sarà solo un convegno di studi alla presenza di circa 400 esperti e addetti ai lavori quello che prende il via oggi all’Università catanese (‘Bambini e ragazzi quale futuro? Tra responsabilità e nuovi modelli genitoriali per la famiglia e per la comunità’) ma soprattutto un grido d’allarme per le condizioni di una sempre più larga fetta di giovani e giovanissimi che vivono nel nostro Paese.

In una condizione di drammatica denatalità, alla luce di una situazione economica in cui si avvertono solo timidissimi segnali di ripresa, in un quadro di crescente disgregazione familiare, possiamo permetterci di trascurare le condizioni di tanti minori? «La rete a cui pensiamo – spiega Franco Massi, presidente Uneba – punta a creare un percorso di ricerca e di azione non solo tra i nostri associati ma anche tra tutte le realtà che condivideranno questo progetto. Si tratta di mettere a punto una strategia comune, di coordinare gli interventi e di lavorare per arrivare condizioni uniformi di interventi tra le varie Regioni».

La fragilità delle famiglie. Povertà economica, disagio educativo, episodi di violenza. I drammatici episodi di cronaca di questi giorni confermano il legame drammatico tra emergenze familiari e teppismo criminale giovanile. Una situazione cui occorre uscire investendo in prevenzione giovanile. Il nostro Paese riserva a questo obiettivo un terzo di quanto fanno Francia e Germania. «Favorire la crescita e lo sviluppo dei nostri ragazzi in sistemi sociali meno turbolenti e più equilibrati – riprende il presidente Uneba – non è un costo ma un investimento». Si calcola che oggi in Italia siano almeno un milione i minori che, pur vivendo in famiglia, soffrono per condizioni di precarietà economica ed educativa. In questo caso l’intervento delle associazioni va indirizzato verso un duplice obiettivo, il sostegno al minore ma anche il supporto alla famiglia che non ce la fa. «La teoria ecologica – osserva ancora Massi – ci indica come il cambiamento dell’ambiente di vita e il lavoro delle istituzioni sul territorio influenzano in modo evidente la crescita dei giovani. Dobbiamo incidere in quel contesto con il concorso di tutti, dalla famiglia alla scuola, dalle realtà associative ai centri di aggregazione. Ecco perché la rete è importante».

Le nuove emergenze. Quando si parla di minori stranieri non accompagnati, si ignora che questi ragazzi non sono afflitti solo da bisogni materiali, ma sempre più spesso anche da disturbi del neuro sviluppo. La segnalazione arriva da tante comunità che chiedono aiuti e risorse per un intervento non casuale. Lo stesso allarme riguarda situazioni di disabilità, giovani che concludono il percorso riabilitativo nell’ambito penale, neomaggiorenni che devono abbandonare le comunità dopo il compimento dei 18 anni. Una varietà di emergenze che richiedono competenze e disponibilità a condividere esperienze e informazioni a 360 gradi. «Una rete, appunto – conclude il presidente Uneba – o ci mettiamo insieme, o questa generazione di giovanissimi sempre più fragili finirà per sfuggirci di mano».

Luciano Moia Avvenire 18 gennaio 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/minori-gli-invisibili-da-salvare

www.uneba.org/convegno-uneba-a-catania-pi-attenzione-ai-minori-pi-impegno-nelleducazione

 

Tutori e minori in uno studio dell’Agenzia Ue sui diritti fondamentali

Procedure di nomina troppo lunghe. Limitata disponibilità di tutori indipendenti e qualificati. Formazione non sempre adeguata. E’ quanto emerge da un breve studio presentato dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali dal titolo “Tutela dei minori privati delle cure genitoriali nell’Unione europea”

https://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://fra.europa.eu/en/publication/2018/guardianship-systems-children-deprived-parental-care-european-union-summary&prev=search

che ha fatto il punto sull’istituto della tutela, considerato uno dei tasselli più importanti per assicurare l’interesse superiore dei minori, in particolare di quelli non accompagnati e vittime della tratta.

Nel testo sono descritti i sistemi di tutela nei Paesi membri dell’Unione europea, con l’indicazione dei compiti, nonché gli strumenti predisposti a livello Ue accomunati dall’esigenza di tutelare i minori. L’Agenzia sottolinea che taluni problemi sorgono con riguardo ai minori non accompagnati non sempre assegnati tempestivamente a un tutore, nonché a lacune nella formazione dei tutori che, in alcuni casi, non è adeguata. Inoltre, l’Agenzia lamenta la mancanza di un approccio uniforme. Sottolineata l’importanza dell’assenza di forme di conflitto di interesse nella nomina dei tutori, l’Agenzia stigmatizza il comportamento di alcuni Paesi che permettono alle autorità competenti in materia di migrazione lo svolgimento di un ruolo nella nomina dei tutori.

Marina Castellaneta 19 gennaio 2018

www.marinacastellaneta.it/blog/tutori-e-minori-in-uno-studio-dellagenzia-ue-sui-diritti-fondamentali.html

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NULLITÀ CANONICA MATRIMONIALE

La nullità canonica del matrimonio comporta la cessazione del giudizio civile di separazione

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 30496, 19 dicembre 2017.

Qualora in pendenza del giudizio di separazione personale dei coniugi siano riconosciuti gli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, con decisione passata in giudicato, il giudizio di separazione viene meno per la cessazione della materia del contendere. La Corte di Cassazione ha dichiarato la cessazione della materia del contendere nel pendente giudizio di separazione personale dei coniugi, essendosi pronunciata, nelle more, sulla delibazione della sentenza canonica che ha dichiarato l’invalidità del matrimonio concordatario contratto tra le parti, riconoscendo in via definitiva effetti civili alla pronuncia del tribunale ecclesiastico.

Consolidata e condivisibile giurisprudenza di legittimità, cui si intende pertanto assicurare continuità, afferma poi che, qualora in pendenza del giudizio di separazione personale dei coniugi siano riconosciuti gli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, con decisione passata in giudicato, il giudizio di separazione viene meno per la cessazione della materia del contendere (Cass. sez. 1, sent. 10.7.2013,

Studi giuridici 5 gennaio 2018 Sentenza

www.studigiuridici.it/law/read/il-giudicato-sulla-nullit%C3%A0-canonica-del-matrimonio-comporta-la-cessazione-della-materia-del-contendere-nel-giudizio-civile-di-separazione

 

Ammessa la delibazione sentenza ecclesiastica di annullamento delle nozze religiose anche dopo 10 anni.

Corte di Cassazione, sentenza n. 1178, 18 gennaio 2018

Nonostante il matrimonio religioso della coppia sia perdurato per dieci anni ed abbia anche portato alla nascita di una figlia, purtroppo prematuramente scomparsa, la corte suprema di legittimità ammette la delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico che ha dichiarato nulle le nozze. Nel corso del giudizio infatti, secondo la corte, si è raggiunta la prova che la coppia, pur convivendo per dieci anni, non aveva mai raggiunto la “consuetudine coniugale”, stabile e continuata nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso riconoscibili comportamenti.

osservatorio sul diritto di famiglia 18 gennaio

www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17507282/ammessa-la-delibazione-della-sentenza-ecclesiastica-di-annullamento-delle-nozze-.html

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OMOFILIA

La chiesa e la contaminazione omosessuale

Le persone cristiane omosessuali stanno divenendo sempre di più, giorno dopo giorno, motivo di riflessione della Chiesa. Non si tratta, infatti, semplicemente di pressioni esterne – come sosteneva il documento del 1986 sulla cura pastorale delle persone omosessuali –, ma di una vera e propria koinonia, una comunità che accoglie le persone omosessuali e non considera la loro inclinazione oggettivamente disordinata.

La presenza di cristiani omosessuali sta contaminando la Chiesa al suo interno, perché la obbliga a ripensare la propria posizione sia sull’inclinazione omosessuale considerata oggettivamente disordinata sia sugli atti omosessuali considerati contrari alla legge naturale. Osservando con attenzione il dibattito che oggi avviene sul tema dell’omosessualità, si può affermare che è su questo tema che avviene la riflessione più profonda sul tema della differenza e del dialogo-scontro con l’altro, il diverso. L’omosessuale è in un certo senso il diverso per antonomasia, e l’omosessualità l’alterità incarnata, quel tipo di alterità che la cultura fa fatica ad assimilare. Paradossalmente la diversità omosessuale è oggi maggiormente riconosciuta dalla società civile, che spesso e volentieri si fa paladina per difenderne i diritti, che dalla Chiesa, che dovrebbe essere la casa sempre aperta e accogliente, in modo particolare per i suoi figli e figlie più deboli e marginalizzati. La difficoltà che ancora oggi ampi settori della Chiesa manifestano nel parlare serenamente di persone omosessuali e di omosessualità, dice di una resistenza, di quella chiusura culturale che si arrocca e si nasconde dietro a preconcetti, che non permettono al pensiero teologico di aprire nuove strade.

Il teologo Carmelo Dotolo [laico n. 1959] ha ricordato, in un suo recente saggio, che la teologia non può che determinarsi in dialogo con la situazione storica e culturale.

www.queriniana.it/libro/teologia-e-postcristianesimo-2139

Per fare questo, la teologia si deve aprire alla molteplicità dei saperi per non correre il rischio di una lettura unidirezionale e, quindi, parziale della realtà. È forse questo l’errore cronico dell’approccio alla realtà che ha accompagnato la riflessione teologica per molto tempo. Per uscire dal pericolo di un isolamento razionalistico, incapace di cogliere la molteplicità della realtà e dell’esistenza, la teologia non può che aprirsi al contributo delle scienze naturali e di quelle storico-critiche. Si percepisce la difficoltà che essa incontra tutte le volte che, nel dibattito culturale odierno, fa emergere un’autoreferenzialità legata più al legame ad uno schema di riferimento concettuale ereditato e non rinnovato, che ad un vero e proprio desiderio di conoscere il reale per come si manifesta. Come nel passato «emergeva sempre di più l’insostenibilità di un impianto teologico idealistico, mutuato dal paradigma neoscolastico, la cui fragilità stava nell’idea di produrre una teoria che descrivesse la struttura stabile del mondo reale», così nell’attuale panorama culturale c’è poco spazio per un sapere che non si mette in relazione con la molteplicità dei saperi. Del resto, lo stesso Bernard Joseph Francis [1904-1984 teologo gesuita], alcuni decenni orsono, nel suo famoso saggio sul metodo in teologia, percepiva la necessità di una teologia in ascolto autentico delle culture e della diversità di approcci epistemologici. Se il problema è lo sviluppo di una conoscenza più adeguata e più attenta al reale della condizione umana, allora non resta che prendere sul serio le indicazioni metodologiche del pensatore canadese. «La comprensione teologica della dottrina è storica e dialettica. È storica in quanto coglie i molti contesti differenti nei quali la medesima dottrina è stata espressa in maniera diversa. È dialettica in quanto avverte la differenza tra posizioni e contrapposizioni, e cerca di sviluppare le posizioni e di rovesciare le contrapposizioni». L’attenzione alla dimensione storica della riflessione teologica provoca la necessità di abbandonare quella desueta impostazione epistemologica che fa precedere l’idea alla realtà, rischiando di leggerla costantemente in modo distorto. Solo in questo modo la teologia può abbandonare il rischio di una razionalizzazione unidimensionale e astratta che, oltre ad essere incapace di dialogare con la molteplicità dei saperi, non riesce poi a consegnare

È in questo contesto di rinnovamento metodologico che la stessa teologia ha percepito negli ultimi decenni, che occorre approcciare in modo nuovo il tema delle persone omosessuali, abbandonando schemi di riferimento preconcettuosi, per porre attenzione alla realtà della situazione concreta, così come si manifesta nella storia. Prendo, allora, in esame alcuni recenti contributi in questa direzione, che ci possono aiutare ad affrontare le problematiche legate alle persone omosessuali, tentando percorsi nuovi, in dialogo con le molteplicità dei saperi.

Damiano Migliorini e il dialogo per una nuova sintesi. In un recente e corposo saggio interdisciplinare, [l’amore omosessuale- 2014-cittadella editrice]

www.psyeventi.it/?c=welcome&m=download&file=Lamore_omosessuale_%28scheda%29.pdf

la psicologa e psicoterapeuta Beatrice Brogliato [psicoterapeuta n. 1971] e il giovane studioso e ricercatore Damiano Migliorini [teologo, filosofo n. 1987] hanno provato ad indicare cammini nuovi nella riflessione teologica sull’omosessualità. Prenderò come riferimento la seconda parte del saggio, quella teologica, più consona alla ricerca del seguente lavoro. Il tema della legge naturale è il punto cruciale o perlomeno uno degli snodi teorici del dibattito teologico sull’omosessualità. Capire che cosa s’intende quando si parla di natura significa aprire o chiudere dei varchi nell’argomentazione. Se il bene supremo è la persona umana allora occorre stare attenti a non assolutizzare la natura.

Come ricorda il documento della Commissione Teologia Internazionale sul tema in questione: «La scienza morale e la Legge morale naturale non possono fornire al soggetto agente una norma che si applichi adeguatamente e autonomamente alla realtà concreta, eppure, essa non abbandona mai del tutto la coscienza alla sola soggettività». Occorre allora, vedere la Legge morale naturale come fonte d’ispirazione, mentre, per quanto riguarda i mezzi per raggiungere i fini, tocca allo sforzo di ogni singola persona. Le regole particolari per raggiungere i fini sono sempre ad appannaggio delle persone che vivono nella concretezza del reale. Occorre, dunque, stare attenti a non assolutizzare la natura, a non correre il rischio di farne un idolo e di tirarla nel dibattito dove essa stessa non può andare. La legge naturale non è un corpo statico né una lista di precetti definiti e immutabili, ma una fonte d’ispirazione. Ciò significa che questa legge, come ricorda Migliorini, «nel passaggio dal generale al particolare, richiede l’esercizio di un’ermeneutica infinita». Siccome l’omoerotismo si riscontra in tutte le epoche storiche, in tutte le culture ed è un orientamento che rientra nella media di un funzionamento psicologico sano, può entrare a pieno titolo tra ciò che è definito naturale. Per giustificare una simile affermazione Migliorini fa riferimento ad una serie di studi scientifici di recente pubblicazione. Non si tratta, dunque, di una perversione, perché il comportamento omosessuale produce un desiderio e un amore che riguarda l’intera personalità dell’altro.

Dopo aver analizzato alcuni studi nell’ambito dell’etologia e della genetica, il nostro autore conclude che l’omoerotismo è un fenomeno culturale permanente e universale, sebbene si presenti in forme diverse lungo la storia. Verificata la naturalità dell’omosessualità, occorre appurare la liceità dei comportamenti omogenitali. Come per ogni organo del corpo umano, anche per i genitali non è possibile stabilire una sola funzione. Per questo Migliorini ne individua almeno tre: una fisiologica, una erotica e una riproduttiva. Finalizzare la sessualità esclusivamente al fine procreativo significa cadere nel biologismo. Seguendo gli studi di Jesus Peinado [https://globalhealth.washington.edu/faculty/jesus-peinado], Migliorini afferma che: «La sessualità umana può prestarsi alla possibilità di essere procreativa, in determinati momenti. La procreazione non rappresenta certo il destino della sessualità umana. Si tratta unicamente di una possibilità offerta in determinati momenti alla maggior parte delle persone». Il problema etico si pone, dunque, dove manca il significato unitivo, dove l’atto sessuale è avvolto da un clima di violenza, svuotato da un cammino relazionale. La teologia di San Tommaso, che ha esteso il fine procreativo a tutti gli atti sessuali genitali, ha posto in campo un finalismo di tipo organico, identificando natura e biologia. Certamente, la posizione di San Tommaso è frutto del suo tempo, vale a dire l’Alto Medio evo, epoca in cui il disprezzo per il piacere era sinonimo di virtù. Tutto ciò va visto nel quadro della prospettiva ecclesiologica del tempo di San Tommaso, periodo in cui il papato prende sempre più il sopravvento e la dicotomia tra laici e chierici si radicalizza. L’ideale ascetico proposto come modello unico di santità e il celibato come esigenza evangelica più alta che definisce il vero cristiano hanno gettato un’ombra profonda sul significato del piacere sessuale, considerato come una devianza dal fine naturale. In questa prospettiva, il fine unitivo e relazionale ha sempre faticato ad essere compreso nella sua valenza etica e valoriale, perché contraddiceva ciò che era considerato in modo assoluto come il vero valore della sessualità, vale a dire quello procreativo.

Recuperare la positività del piacere sessuale come elemento significativo della valenza relazionale dell’amore è, senza dubbio, uno dei grandi compiti del cammino attuale della Chiesa. Come sostiene Erik Borgman [teologo n. 1957], solamente ricollocando al centro del dibattito etico il senso autentico della felicità, considerandolo come fine generale dell’uomo, sarà possibile distanziarsi da ogni tentazione di fissare e irrigidire la natura, per mantenerla aperta al sentire concreto dell’uomo e della donna, per evitare di farsi troppo male. Per Migliorini, sia rimanendo nell’orizzonte delle categorie proposte dalla Chiesa sulla sessualità, sia all’interno del paradigma della Legge morale naturale, non è possibile escludere l’omosessualità dalle espressioni moralmente valide della sessualità. Per dare pieno valore a questa affermazione è necessario definire meglio il carattere oggettivo della sessualità e comprendere meglio il concetto di normalità sessuale. Alcuni casi tragici della storia, come ad esempio l’antisemitismo, c’insegnano che spesso i giudizi di normalità dipendono dai modelli sociali predominanti e anche il senso comune di tutto un popolo può, in alcune circostanze, sbagliare. Non solo il termine “normale” è soggetto ai condizionamenti culturali, ma assume anche significati diversi nelle diverse discipline. Da un punto di vista generale, si può ritenere normale ciò che rispetta il bene della persona umana. C’è allora, un’idea di normalità che è complessa, come d’altronde è complessa la persona umana. Secondo Xavier Thévenot [salesiano 1938-2004] l’idea di normatività sessuale «si sposta un po’ alla volta verso un’idea di normatività relazionale». In questa prospettiva, occorre integrare il discorso della sessualità all’interno della complessità della personalità. La normalità considerata dal punto di vista personalista, più che essere una definizione astratta, è un compito da realizzare.

Il problema dell’identità delle persone omosessuali, evidenziato dal tema della natura degli atti omosessuali, va di pari passo con l’altro importante problema del riconoscimento. Misconoscere la persona omosessuale, parlando di devianza o di atti intrinsecamente cattivi, significa negarla sia sul piano dell’identità personale, che su quello di un riconoscimento sociale. Il cammino del riconoscimento delle differenze è sullo stesso sentiero del principio dell’uguaglianza. Riconoscere il valore dell’unione di persone omosessuali significa prendere sul serio il valore unitivo del matrimonio, il valore della responsabilità di prendersi cura dell’altro, in una relazione di fedeltà. Secondo Migliorini, riconoscere le unioni di persone omosessuali sarebbe anche un segnale positivo per i giovani adolescenti omosessuali, che percepirebbero la possibilità di vivere seriamente una futura relazione con un partner, uscendo dai torbidi e negativi cammini delle forme discriminatorie.

L’autore si chiede se sarebbe possibile arrivare non solo a celebrazioni civili di persone omosessuali, ma anche a matrimoni religiosi, benedicendo davanti a Dio questo tipo di relazioni. «Riconoscere alcuni diritti civili alla coppia omosessuale (assistenza reciproca, assegnazione di case, reversibilità della pensione, eredità, ecc.) negando il vero e proprio matrimonio, dove condurrebbe?». Le coppie omosessuali chiedono di potersi prendere pubblicamente e reciprocamente un impegno consensuale. In questo modo, viene espresso il significato unitivo del matrimonio cristiano, poiché dice dell’impegno reciproco tra due persone legate da un sentimento d’amore, impegno dunque di fedeltà. L’unione omosessuale, che riconosce il valore del fine unitivo e della responsabilità nella fedeltà del partner, la rendono testimonianza dell’amore cristiano. Un suo riconoscimento, sostiene Migliorini, conferma e rafforza l’antropologia cattolica, la quale non può essere ridotta a un’antropologia fondata sulla perpetuazione della specie. La coniugalità nei suoi aspetti di fedeltà e indissolubilità può essere attribuita alla coppia omosessuale che sceglie d’impegnarsi in un progetto di fedeltà. Migliorini, nella sua argomentazione, insiste nell’evidenziare la positività dell’aspetto relazionale dell’amore omosessuale che, per certi aspetti, diventa feconda, perché arricchisce i soggetti coinvolti, dando loro nuova vita, una prospettiva futura, in altre parole una progettualità. In questa prospettiva, le persone omosessuali escono dall’ambito in cui la società le ha collocate, vale a dire nella sfera dei richiedenti diritti, ma potranno esercitare i loro carismi, esprimendo la loro possibilità di amare con responsabilità e in piena libertà. Anche se non verrà usato il termine matrimonio a livello sacramentale, ma benedizione di due persone omosessuali che si promettono amore fedele reciproco, avrà il valore di riconoscimento del significato umanizzante di una relazione omosessuale stabile.

Persone omosessuali e amore trinitario nella riflessione di Teresa Forcades

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L’opera della teologa catalana Teresa Forcades [medico, suora benedettina nata 1966], che insegna teologia queer a Berlino [https://it.wikipedia.org/wiki/Teologia_Queer], fornisce diversi spunti significativi nel cammino della ricerca sul rapporto tra omosessualità e Chiesa. In primo luogo, Forcades inserisce il discorso sull’omosessualità all’interno della teologia queer, della quale è una delle più importanti promotrici. Queer è un concetto antropologico utilizzato dalla Forcades affermare il carattere unico e originale di ogni individuo e «l’affermazione dell’impossibilità di utilizzare, nell’ambito della persona, qualsivoglia categoria, che sia di genere, di classe o di razza. Le categorie che classificano l’essere umano sono, per così dire, opacità, che non consentono di vederlo nel suo tratto di originalità». Questo cammino teologico intende fare i conti con la diversità sessuale senza esprimere nessuna condanna a priori, per aprirsi ad ogni possibile comprensione. Punto di partenza di questa riflessione teologica è la percezione dell’identità della persona intesa non in modo statico, ma dinamico. Il riferimento di questa intuizione è l’idea di creazione continua. Essere creati ad immagine e somiglianza di Dio significa assumere la responsabilità di collaborare all’opera della creazione, che è in continuo divenire.

In questa prospettiva, l’identità personale non è un dato acquisito una volta per tutte, ma una possibilità che ci viene offerta. Adulti si diventa grazie ad una costante assunzione delle proprie responsabilità e alla capacità di porsi in modo libero e creativo dinanzi alle strutture culturali, che assimiliamo e che ci fanno credere di essere in un modo invece che in un altro. «Uomini e donne – sostiene Forcades – sono chiamati ad avventurarsi in un processo personale che li porta in uno spazio che io chiamo queer, uno spazio aperto in cui l’identità è da cercare, non è qualcosa di già dato». Il fatto che la differenza sessuale sia un dato transculturale non significa che una persona deve rimanere all’interno di questa identificazione iniziale. Secondo Forcades, l’errore della società patriarcale e di un certo tipo di femminismo è pensare che quell’origine debba rimanere costante nel corso della vita. Ciò significa che il punto di partenza ha un genere, mentre il punto di arrivo no. «La mia identità infantile ha un genere (femminismo della differenza); la mia identità matura (o cristica) è transgender o queer». C’è quindi un cammino, un esodo, che ogni persona è chiamata a compiere se vuole divenire pienamente umana, un cammino che si compie durante tutta la vita. Essere adulto significa cammino in divenire vincendo la tentazione di fissarsi su un modello culturale identitario, per mantenersi aperti alla novità possibile. In questa prospettiva la diversità, lungi dall’essere un problema o una difficoltà, diviene una possibilità. Dobbiamo conquistare la nostra identità tutti i giorni.

Nel capitolo dedicato al tema del rapporto tra fede e gender, Forcades fa appello al senso della realtà nella linea indicata da papa Francesco nell’Evangelii gaudium. Se parlare di gender significa prendere in considerazione la comprensione culturale e soggettiva della sessualità, allora, quando sul piano della realtà s’incontrano delle differenze, sono proprio queste che vanno ascoltate. Non può più accadere, come invece purtroppo accade soprattutto in questo ambito così delicato, che sia la teoria a interpretare e a leggere la realtà. Quando in gioco ci sono le persone, il primato dev’essere sulla realtà e non il contrario. La teoria dev’essere il momento successivo all’ascolto della realtà.

Se, allora, è vero che esistono tre dimensioni del sesso biologico, vale a dire il sesso cromosomico, il sesso gonadico e quello genitale, già al primo livello la realtà manifesta che non vi sono solo due possibilità xx (femmina) e xy (maschio), ma diverse opzioni. Secondo Forcades anche se esistesse una sola persona al mondo dotata di una differenza cromosomica, sarebbe sufficiente per mettere in discussione la teoria. Dinanzi all’unicità della persona umana non c’è teoria che tenga, ma è questa che provoca le domande di senso. Non è, infatti, la persona per così dire diversa che deve adattarsi alla teoria, ma è la teoria che dev’essere modificata a partire della diversità osservata. Le sindromi di Klinefelter (xxy) e di Turner (x0) dimostrano che in natura non tutto rimane collocato nella dicotomia maschile e femminile, provocando la domanda: sono femmine o maschi? Questa diversità, che va al di là della dualità, non esiste solamente a livello cromosomico, ma anche a livello gonadico. Succede, infatti, che a volte uno abbia, senza saperlo, una gonade che al tempo stesso è tessuto ovarico e tessuto testicolare. «Non vogliamo vedere la complessità della realtà che ci circonda, ma è importante prenderne visione affinché la nostra teoria ne tenga conto». Anche a livello genitale esiste la diversità che non è possibile catalogare entro la dualità maschio e femmina. Forse, comunque, il livello più complesso è quello psicologico. Ci sono persone che, pur avendo un sesso biologico maschile a livello cromosomico, gonadico e genitale ed essendo considerati quindi dalla società maschi, hanno una coscienza femminile e viceversa: questo è il transessualismo. Spesso questa realtà, sostiene Forcades, la si ignora perché è difficile affrontarla. I cristiani, però, non possono chiudere gli occhi dinanzi alla realtà e non possono fasciarsi la testa dalle teorie culturali della società in cui vivono, perché sono ristrette e non tengono conto dell’interesse del singolo individuo. Sempre a livello psicologico, è importante tener conto di quello che avviene a livello del desiderio. Può succedere che emerga un desiderio verso una persona dello stesso sesso. Una teologia che si mantenga aperta alla realtà come manifestazione del divino, non può immediatamente ricorrere alla teoria del peccato quando appare una differenza, ma deve porsi in ascolto della complessità e non chiudersi nelle facili semplificazioni teoriche. Troppe volte il desiderio verso una persona dello stesso sesso è stata considerata come patologia. «Certo sono diverse dalla maggior parte delle persone – nel modo in cui le intendiamo normalmente – ma questo non significa che dobbiamo leggere questa differenza in modo negativo […] Alcune di queste persone non hanno complicazioni mediche e conducono una vita pienamente compiuta, stanno bene e non presentano problemi se non quelli di carattere sociale, dal momento che spesso non vengono accettate» . La grande sofferenza delle persone omosessuali non è dunque causata da problemi di tipo medico o psichiatrico, ma sociale, vale a dire dal fatto che la struttura patriarcale e maschilista della nostra società non accetta la differenza sessuale, la complessità della realtà, rifiutandosi così di ascoltarla, accompagnarla, integrarla. A detta della Forcades, il cui impegno in campo politico si è profuso su diversi temi, la comprensione della complessità della realtà dovrebbe allo stesso tempo condurre ad un cambiamento non delle persone cosìddette diverse, ma della società nel suo insieme, per fare in modo che nessuno si senta escluso.

Prendere sul serio la problematica delle persone omossessuali in un contesto sociale com’è quello occidentale, fortemente omofobo, comporta di non rimanere solamente sul piano della tolleranza, o dell’accoglienza, ma esige passi sempre più chiari verso l’integrazione delle persone omosessuali sia sul piano giuridico che religioso. Interessanti sono, a questo proposito, le riflessioni che la Forcades propone per motivare il suo essere a favore del matrimonio omosessuale. L’idea di complementarietà, che solitamente viene utilizzata per spiegare il senso del matrimonio non solo cristiano, secondo la nostra autrice non funziona, perché esprime in malo modo il senso autentico dell’amore. Il concetto di complementarietà è infatti, secondo Forcades, la riduzione del concetto di amore che deriva dalla prospettiva binaria. Amare una persona non può voler dire cercare una persona che ci completi. Per cogliere in profondità il significato autentico dell’amore, occorre uscire dagli stereotipi che provengono dalle semplificazioni della visione binaria della sessualità e, in un certo senso, abitare la complessità. Teresa Forcades, a questo proposito, utilizza la riflessione elaborata durante il lavoro di dottorato svolto sul tema della Trinità.

Dove possiamo trovare il significato autentico dell’amore di Dio se non osservando da vicino il mistero della Trinità? È allora a questo mistero che dobbiamo rivolgere la domanda sul significato dell’amore umano e non alla dottrina della Chiesa. L’amore trinitario non ha nulla a che vedere con la complementarietà. «Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono tre persone distinte: questo è il centro del pensiero trinitario nella storia. Sono differenti, ma non nel senso di uno che completa l’altro». Amare, in questa prospettiva trinitaria, non significa andare alla ricerca di qualcosa che ci manca e quindi ci completa. Dio non ci ama perché ne ha bisogno, per completarsi: la gratuità è centrale nell’amore trinitario e nel cristianesimo in generale. Per comprendere meglio il senso dell’amore trinitario Forcades fa appello ad un termine teologico: pericoresi, che significa fare spazio intorno. L’amore trinitario, come amore pericoretico, produce spazio intorno alle persone. In questa prospettiva, è comprensibile come l’amore autentico non solo esiga, ma produca libertà per la persona amata. «Percepisco che qualcuno mi ama quando sento che nella relazione, accanto a quella persona, lo spazio attorno a me si amplia. In questo tipo di relazione posso anche essere me stessa in qualcosa che ancora non so di me, si schiude uno spazio nuovo attorno a me in cui oso entrare. Questo spazio è la migliore definizione dell’amore».

Amare significa fare spazio all’altro in moda tale da permettergli di essere ciò che deve essere. Tutte le volte che la relazione si chiude nella complementarietà duale, rischia di collassare. La dinamica della pericoresi garantisce all’amore un dinamismo creativo. È per questo motivo, per il modo d’intendere l’amore, che Forcades afferma di essere a favore del matrimonio omosessuale. Non basta smettere di discriminare o diventare tolleranti nei confronti delle persone omosessuali. Occorre avere il coraggio di compiere un passo ulteriore. «Sono a favore del sacramento dell’amore fra due persone sia etero sia omosessuali, a patto che fra di loro vi sia un amore autentico fatto del riconoscimento di quello spazio che circonda ogni persona e la comprensione che il matrimonio riguarda anche la comunità nella quale vivono». Uscire dallo schema della sessualità duale, imposto dalla cultura incapace di elaborare un pensiero a partire della realtà che si manifesta nella sua complessità, permette di elaborare proposte sino ad ora impensabili.

Elaborazione concettuale che diviene significativa perché non sgorga dal nulla, ma dalla riflessione sull’amore pericoretico, così come si manifesta nel mistero della Trinità. In ogni modo Forcades non si ferma alla possibilità del sacramento del matrimonio per le persone omosessuali, ma arriva persino a criticare il matrimonio eterosessuale. Se, infatti, la santità appartiene a Dio, allora l’amore santo, prima di provenire da una relazione di complementarietà, si manifesta in quelle relazioni in cui l’amore non è un bisogno, ma una possibilità che offre spazio per un cammino di autenticità. C’è dunque santità anche nell’omosessualità. «L’omosessualità in sé non è più santa dell’eterosessualità, né vale il contrario, ma per il solo fatto che esiste (a prescindere dalla qualità morale della singola persona omosessuale) è una benedizione e apre alla diversità in un modo che arricchisce la nostra ricerca teologica».

Omosessualità e prospettiva relazionale nella teologia di Giannino Piana. In alcuni scritti il teologo italiano Giannino Piana [nato 1939] ha preso posizione non solo sul rapporto tra Chiesa e persone omosessuali, ma anche sulle dichiarazioni contenute in alcuni documenti ecclesiali. Secondo Giannino Piana, l’autorità ecclesiastica ha paura che l’attuale contesto socio-culturale, favorevole alle persone omosessuali, possa provocare delle rivendicazioni insostenibili da parte dei gruppi di cristiani omosessuali e, per questo, ha irrigidito la dottrina. Eppure, sono ormai diverse le discipline che orientano verso una comprensione più complessa della realtà, capace d’integrare quelle diversità che sino ad ora sono rimaste fuori dai rigidi schemi antropologici. L’autore fa riferimento sia alle scienze biologiche che a quelle psicologiche e sociali, giungendo ad affermare che «Ci hanno aiutato a prendere coscienza che la diversità dei modelli comportamentali tra i sessi non è dovuta prevalentemente a ragioni naturali, ma culturali, riproducibili, in ultima analisi, al diverso instaurarsi di rapporti di potere». In questa prospettiva, anche la riflessione filosofica ci ha aiutato a comprendere che anche il “maschile” e il “femminile”, prima di essere due elementi separati e contrapposti, sono invece dimensioni costitutive dell’umano, in quanto presenti tanto nell’essere-uomo, quanto nell’essere-donna, con modalità quantitative differenti, che danno origine a vere e proprie differenze quantitative. I contributi della scienza e della filosofia hanno permesso, secondo la riflessione di Giannino Piana, di superare le teorie naturalistiche, dalle quali scaturiva la condanna dell’omosessualità da parte della Chiesa, ma anche le teorie culturali incapaci di andare al di là del semplice riduzionismo della differenza sessuale come prodotto della cultura. «È venuta sempre più sviluppandosi una teoria interpretativa della differenza uomo-donna di carattere “relazionale”, tesa cioè a privilegiare come dato fondante la relazione». Dire relazione significa collocare la realtà della differenza sessuale nel quadro più ampio del contesto socio-culturale, tenendo anche conto della connotazione biologica. La prospettiva relazionale permette di cogliere poi che il rapporto uomo-donna, pur fondante, non esaurisce in sé tutte le possibili modalità espressive della relazionalità, «anzi, diventa la radice da cui si dipartono tutte le altre relazioni e il paradigma cui esse devono ispirarsi se intendono conservare il loro carattere pienamente umano».

A questo punto l’autore prende come punto di riferimento la riflessione biblica, la rivelazione ebraico-cristiana, per dimostrare come il primato della relazione s’incontri sia nelle pagine dell’Antico che del Nuovo Testamento. Senza dubbio, troviamo il discorso del primato della relazione nelle pagine della Genesi, dove l’uomo è definito come immagine di Dio. Il tema dell’immagine non è riferito alla singola persona, ma alla realtà della relazione che, anche se trova nel rapporto uomodonna il principale referente, si estende tuttavia ad ogni altra forma di rapporto interumano. «Da tali racconti – sostiene Piana – si evince che la differenza viene dopo (non solo cronologicamente) l’unità e che è a quest’ultima del tutto subordinata, al punto che l’umano si presenta fin da principio – si pensi alla figura dell’Adam collettivo – come un’unità che si esprime e si realizza in una differenza».

Secondo Giannino Piana il discorso sulla relazione e il riconoscimento dell’unità originaria dell’umano, pur non sminuendo l’importanza del significato della differenza sessuale, mette in luce il carattere secondario e dipendente che essa riveste di fronte all’attuazione dell’esperienza relazionale. Il Nuovo Testamento accentua tale impostazione in due direzioni. In primo luogo, interpretando in chiave trinitaria la categoria dell’immagine, che rende sempre più trasparente la priorità della relazione rispetto alle modalità secondo le quali si realizza. In secondo luogo, proponendo di fatto una modalità asessuata, al punto da ridimensionare l’importanza della differenza, attraverso la demitizzazione degli istituti tradizionali quali il matrimonio e la famiglia. L’autore, prendendo come riferimento alcuni testi del Vangelo di Luca, sostiene che Gesù ha relativizzato le istituzioni tradizionali dinanzi all’evento del Regno di Dio e alla radicalità delle esigenze evangeliche, che spingono l’uomo e la donna verso un cammino di conversione, di cambiamento radicale. Ancora più significativo, a detta di Piana, è il brano di Paolo della lettera ai Galati, in cui sottolinea la radicale caduta di ogni differenza dinanzi all’unità di tutti gli uomini in Cristo: «Non c’è più n’è giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna». La prospettiva che Paolo propone è senza dubbio sconvolgente, nel senso che, dinanzi al mistero di Cristo, ogni differenza non trova più alcuna giustificazione. «L’avvento della salvezza spinge l’uomo a vincere la tentazione di chiudersi entro modelli tradizionali per aprirsi a forme nuove, dove ciò che conta è la percezione di ogni soggetto umano come persona redenta dal Signore». Immediate sono le conseguenze sul terreno etico che questa riflessione comporta, soprattutto a riguardo dell’omosessualità. Secondo Piana, adottare il modello relazionale, più in linea con il pensiero ebraico- cristiano del modello naturalistico di matrice filosofico-aristotelica, significa apprendere a valutare i comportamenti interpersonali osservando prima di tutto il livello di relazionalità conseguito. Ciò significa che la bontà morale di un rapporto è data dalla capacità che ha di esprimere il mondo interiore di due persone in modo autentico e profondo, prima di qualsiasi altra considerazione anche di ordine sessuale. Solo in questo modo si creano le condizioni per una autentica interpersonalità, «che si realizza nella misura in cui si abbandona la tentazione di trattare l’altro (l’altra) come oggetto e si riconosce invece la sua unicità irripetibile e la sua inestimabile dignità».

Giannino Piana è consapevole del rischio di idealizzare la relazione. Sappiamo, infatti, che la comunione e la comunicazione tra persone non sono mai totali e si sviluppano gradualmente. L’incontro tra persone va pensato come esperienza di vicinanza che lascia intatta la distanza o, dicendolo con la Forcades, che fa spazio all’altro. Senza dubbio, la relazione eterosessuale rimane il momento più alto di attuazione delle possibilità di comunione, come è senz’altro chiaro che la relazione omosessuale è segnata da limiti intrinseci, come l’assenza della fecondità procreativa. «Questo non significa tuttavia – sostiene Piana – che si debba a priori negare a quest’ultima la possibilità dello sviluppo di una vera reciprocità, talvolta soggettivamente maggiore di quella che ha luogo in alcune forme di rapporto uomo-donna connotate da dinamiche strumentalizzanti e alienanti». Occorre allora più che mai sottolineare il valore di ogni relazione autentica, che per potersi sviluppare deve prendere coscienza della propria identità, il riconoscimento della propria condizione, in un clima di superamento dei sentimenti di colpa paralizzanti. È a queste condizioni che è possibile giungere ad una piena maturità sessuale, che conduce a vivere nel segno del rispetto e della donazione di sé uscendo, in questo modo, dai percorsi oscuri della strumentalizzazione dell’altro.

Riflessioni conclusive. Ho riportato gli studi di Migliorini, Forcades e Piana sul dibattito Chiesa e omosessualità per mostrare gli sforzi che la teologia sta compiendo nella direzione dell’ascolto della realtà delle persone omosessuali. Si potrebbero sintetizzare questi tre contributi richiamando uno dei principi cardini del magistero di papa Francesco, espressi nell’Evangelii gaudium: la realtà è più importante dell’idea. Prima di lasciarsi fasciare la mente dalle teorie teologiche o dalle ideologie culturali è importante porre attenzione alla realtà. Del resto, è stata proprio questa la grande lezione che la fenomenologia del secolo scorso ha impartito non solo alla filosofia, ma anche a ogni scienza che prenda a cuore il cammino della verità. Lo stesso Feyerabend [filosofo n. 1924-1994] richiamava severamente gli scienziati, alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, a smettere di forzare l’esperienza per dimostrare le loro teorie elaborate a tavolino con l’unico obiettivo di pubblicare le loro ricerche ai fini della carriera accademica. La stessa cultura postmoderna, nella quale siamo immersi, nasce dal fallimento delle ideologie moderne sorte come interpreti della realtà, senza però un ascolto previo della stessa.

Forse sta succedendo la stessa cosa nella Chiesa nei confronti delle persone omosessuali. Ogni volta che esprime un giudizio negativo nei loro confronti è come se si lasciasse prendere dalla fretta di sistemare le cose, di rimettere tutto a posto, primo di ascoltare il dono che Dio vuole manifestare con le persone omosessuali. I lavori proposti, che rappresentano solamente un piccolo contributo di quel mare di studi che da varie parti del pianeta si sta producendo sul tema, ci offrono alcuni spunti significativi per comprendere in che modo la questione omosessuale stia contaminando in modo positivo la Chiesa anche se quest’ultima sta ancora resistendo. Il tema dell’omosessualità è uno di quei temi che diventano il tornasole del cammino di una cultura. Attorno ad esso, infatti, ruotano molti aspetti significativi che costringono la società a prendere posizione in un modo o nell’altro. Uno di questi è senza dubbio il valore dell’uguaglianza legato al tema della diversità. In che modo una società è capace di elaborare e modificare i contenuti culturali da essa stessa plasmati, per fare in modo che qualsiasi suo membro si trovi accolto? La società occidentale sta camminando nel riconoscimento delle persone omosessuali, come nel riconoscimento delle diversità. Mi sembra questo uno degli aspetti più significativi che caratterizzano la cultura nella quale viviamo, che da secoli si alimenta di valori cristiani: fraternità, solidarietà, uguaglianza, democrazie.

Per quanto riguarda il cammino delle Chiese cristiane, alcune di loro si sono già espresse positivamente nei confronti delle persone omosessuali. La Chiesa valdese, ad esempio, ha da anni elaborato un testo per la benedizione delle coppie omosessuali. La Chiesa cattolica è quella che sta facendo più fatica in questo cammino, anche se diversi settori di quella che potremmo definire l’ala progressista manifestano maggiori aperture nei confronti delle persone omosessuali. Le contaminazioni più significative che provengono dal dibattito sulle persone omosessuali sono il valore della sessualità, il tema della natura, la problematica legata al tema dell’uguaglianza. Sono temi sui quali, per ora, nessuno può dire di aver trovato la strada definitiva e, per questo motivo, esigono capacità di dialogo e serietà della ricerca. In questo caso, più che in altri, prima di giungere a delle definizioni o a delle dichiarazioni definitive, è fondamentale aprire lo spazio all’ascolto. Si tratta, in fin dei conti, di persone che vivono sulla loro pelle il dramma di una società e, spesso, di una Chiesa che non accetta la loro condizione, che vivono il peso della discriminazione. Ancora una volta papa Francesco, in questo cammino, ci è di grande aiuto e stimolo quando c’insegna a porre al centro la dignità della persona umana concreta, che va accolta come dono di Dio, qualsiasi sia la sua condizione sociale, politica o religiosa.

don Paolo Cugini 18 gennaio 2018 Tratto da: Adista Documenti n. 3\2018

www.adista.it/articolo/58131

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PARLAMENTO

Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza

Indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia

17 gennaio 2018 La Commissione Infanzia, con la relazione dell’on. Zampa e della sen. Blundo, ha approvato all’unanimità il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia(Doc. XVII-bis, n. 12)

http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2018/01/17/leg.17.bol0944.data20180117.com36.pdf

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