newsUCIPEM n. 614 – 11 settembre 2016

newsUCIPEM n. 614 – 11 settembre 2016

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ADOZIONE INTERNAZIONALE Boschi: “Dopo la pausa estiva, la priorità è convocare la Cai”.
ADOZIONI INTERNAZIONALI Repubblica del Congo. Approvata la nuova legge per le adozioni-
Romania. 2016 i tempi per l’adozione internazionale sono più brevi
AMORIS LAETITIA Ipse dixit. “Amoris laetitia” va interpretata come dice lui.
Nell’esortazione postsinodale. Altro che ambiguità.
ANONIMATO DEL PARTO Figlio sempre legittimato ad accedere ai dati della madre biologica
ASSEGNO DI MANTENIMENTO Revocato se l’ex moglie va a convivere
CENTRO GIOVANI COPPIE 8 incontri 2016-2017. Il limite. Alla personale ricerca della felicità.
CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA Sessuologia NewsOnline.
Settimana del benessere sessuale – Seminari e Corsi formativi.
CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF Newsletter n. 15/2016, 7 settembre 2016.
CHIESA CATTOLICA Benedetto XVI si racconta «Nessuno mi ha ricattato»
Lombardi: una bella sorpresa il libro intervista con Benedetto XVI.
Le donne per s.Paolo: La Chiesa condizionata da alcuni suoi versetti
Le donne x s.Paolo, schemi superati e parziali, già fatta autocritica.
CONSULTORI FAMILIARI Andria.Il Vescovo fa visita al consultorio diocesano “Voglio Vivere”
Crema. Consultorio Familiare Diocesano “Insieme” apre il sito web.
CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Milano 2. Consultorio Mangiagalli. Insieme possiamo.
Pescara- Percorsi di conoscenza di se stessi-
Portogruaro. Consultorio Fondaco. Percorsi formativi 2016 – 2017
Roma 1.Corso di Meditazione Profonda e Autoconoscenza.
Centro di ascolto per familiari di persone omosessuali.
Taranto. Seminario di Formazione su “Confrontarsi sui Bisogni”.
CONVIVENZE DI FATTO Separazione tra conviventi con figli minori: quali diritti e doveri?
DALLA NAVATA 24° Domenica del tempo ordinario – anno C – 11 settembre 2016.
Commento di Enzo Bianchi, priore a Bose (BI).
DEPRESSIONE Come aiutare una persona che soffre di depressione?
FEMMINISMO Un vero mutamento antropologico.
FERTILITYDAY I bambini non nascono sotto un Fertility day.
Fertilità, la vera anomalia italiana è che ci sono troppi figli unici.
GESTAZIONE PER ALTRI Unioni civili: la maternità surrogata resta impossibile.
MATERNITÀ Dopo uno stupro, rimane incinta. Come possiamo aiutarla?
MIGRANTI MINORI 5mila minori non accompagnati scomparsi da inizio 2016.
Minori stranieri non accompagnati, rapporto annuale Sprar.
PADRI DIVORZIATI Il dramma dei padri separati ridotti a bancomat.
PARLAMENTO Unioni civili e convivenze di fatto.
PROSTITUZIONE Punire i clienti è un primo passo
UNIONI CIVILI Breve nota sulla regolamentazione delle unioni civili
WELFARE Bonus bebè 2017: novità in arrivo.
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ADOZIONE INTERNAZIONALE
Boschi: “Dopo la pausa estiva, la priorità è convocare la Cai”
Abbiamo intenzione di convocare nuovamente la Cai, che non è stata convocata negli ultimi due anni, a settembre per riavviare un rapporto periodico con gli enti autorizzati”. Era stata chiara e diretta nel suo annuncio il ministro Maria Elena Boschi, presidente della Commissione per le Adozioni Internazionali, nel corso dell’audizione in commissione Giustizia alla Camera lo scorso 21 luglio 2016, avvenuta esattamente un mese dopo la sua nomina da parte del premier Matteo Renzi alla guida dell’autorità centrale italiana.
“La mia prima iniziativa, una volta diventata, presidente è individuare i membri della Commissione – aveva ribadito la Boschi – perché nel corso del tempo alcuni componenti sono decaduti o si sono dimessi: mi auguro già dopo la pausa estiva di essere in grado di convocare la Cai”. Annunci accolti e salutati con grande entusiasmo e giubilo da parte delle famiglie abbandonate per anni dalla precedente gestione Cai/Della Monica; delle associazioni familiari relegate in un angolino e degli Enti autorizzati che da oltre 2 anni non ricevono alcuna notizia ne’ segnale di lavoro, non hanno notizia di nuovi accordi bilaterali con i Paesi. Insomma tutto sembra ancora impantanato, fermo al palo. Tutto sembra assolutamente come prima.
L’estate è, infatti, trascorsa, settembre è già nel pieno ma alle belle parole e propositi della Boschi non sembra ancora seguire nulla di concreto. La Commissione continua, infatti, a non essere convocata, gli uffici di Villa Ruffo sono vuoti, sulle scrivanie non ci sono documenti o fascicoli che fanno pensare a un seppur minimo lavoro per fare rinascere le adozioni. Insomma scatta una domanda “Quelle delle Boschi erano solo belle parole?”.
Stesso empasse riguarda la banca dati su cui il Guardasigilli Andrea Orlando, nel corso della sua audizione alla commissione Giustizia della Camera, nell’ambito dell’indagine conoscitiva in vista della riforma della legge sulle adozioni, aveva sottolineato che a settembre ci sarebbe stato “il suo pieno funzionamento”. “Essendo condizionato dal completamento dell’informatizzazione dei Tribunali per i Minorenni – aveva precisato- e dato che questo traguardo è stato raggiunto almeno per 25 dei 29 Tribunali, e che il processo di informatizzazione sarà completato entro settembre”. Ma anche qui non sembrano esserci ancora notizie ufficiali in merito. L’idea di una banca dati risale al 28 marzo 2001 quando, con l’articolo 40 della legge 149, presso il ministero della Giustizia, si decise di istituire una Banca per la registrazione, da un lato, di nomi e profili dei minori adottabili e, dall’altro, quelli delle coppie disponibili all’adozione. Lo scopo era chiaro: agevolare la ricerca dei genitori più adatti all’adozione di ogni singolo bambino, comparando disponibilità e caratteristiche delle coppie con quelle dei minori e facilitando la comunicazione e lo scambio di informazioni tra i Tribunali italiani. Ma tutto per il momento rimane un fantasma. O meglio una chimera.
Ai. Bi. 9 settembre 2016
www.aibi.it/ita/adozione-internazionale-boschi-dopo-la-pausa-estiva-la-priorita-e-convocare-la-cai-a-meta-settembre-tutto-sembra-ancora-fermo-al-palo-come-listituzione-della-banca-d
Anche il Sito della CAI non è più stato aggiornato da metà giugno 2016
www.commissioneadozioni.it/IT.aspx?DefaultLanguage=IT
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ADOZIONI INTERNAZIONALI
Repubblica Democratica del Congo. Approvata la nuova legge per le adozioni internazionali
Lo scorso mese di luglio è entrata in vigore nella Repubblica Democratica del Congo un’importante riforma di legge che ha apportato delle modifiche al Codice della famiglia in vista di garantire una maggiore protezione all’infanzia e riconoscere alle donne pari condizioni rispetto agli uomini. La riforma ha, infatti, modificato il Codice della Famiglia del 1987, introducendo nuove norme, abrogandone o modificandone altre.
La nuova legge nasce dalla necessità di adattare il Codice alle innovazioni introdotte dalla Costituzione del 18 febbraio 2006, all’evoluzione della legislazione nazionale e si basa su trattati e accordi internazionali ratificati dalla RDC nel rispetto dei diritti fondamentali.
In particolare la nuova normativa pone due precise condizioni per l’attuazione delle adozioni internazionali.
Il nuovo Codice della Famiglia esige la costituzione, a carico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di un’Autorità centrale per le adozioni (articolo 652) come previsto per i Paesi aderenti alla convenzione de L’Aja e sancisce che, finché questa nuova autorità non verrà costituita, è sospeso l’esame dei nuovi dossier dell’adozione internazionale.
È questa la parte più importante- la nuova legge prevede che l’adozione internazionale di un bambino congolese può essere autorizzata solamente con gli Stati con i quali la RDC ha firmato una convenzione internazionale. Tale norma prevede quindi o l’adesione della RDC alla convenzione de L’Aja (in tal caso potranno adottare nel Paese africano tutti gli Stati aderenti alla Convenzione) oppure un accordo specifico con un Paese (quindi potranno adottare solo ì Paesi firmatari di un accordo bilaterale). Da quanto si può evincere dalla nuova legge, nulla ostacola che fin da ora si possa iniziare il percorso diplomatico con il Paese africano per la firma di un accordo bilaterale.
Alla luce di queste novità, sorge un dilemma tutto “italiano”: stando la paralisi dell’attuale CAI (Commissione adozioni internazionali), – per la risoluzione della quale è impossibile oggi stimare una data – l’Italia quando riuscirà a riprendere le adozioni internazionali con il Congo? Il nostro Paese potrà ancora adottare un bambino africano?
Ai. Bi. 7 settembre 2016
www.aibi.it/ita/repubblica-democratica-del-congo-approvata-la-nuova-legge-per-le-adozioni-internazionali-quando-litalia-potra-ancora-adottare-i-bambini-del-paese-africano

Romania dal 2016 i tempi per l’adozione internazionale sono più brevi
Ai.Bi. ottiene il riaccreditamento: per la prima volta varrà 2 anni. E buone notizie per i bambini rumeni in attesa di una nuova famiglia. Anche per i prossimi 2 anni i loro genitori adottivi potranno arrivare dall’Italia tramite Amici dei Bambini. Ai.Bi., infatti, ha ottenuto il riaccreditamento a operare nel settore delle adozioni internazionali in Romania. Il documento è stato firmato il 1° settembre 2016 da Gabriela Coman, presidente dell’Autorità Centrale di Bucarest, ovvero l’Autorità Nazionale per la Protezione dei Diritti del Minore e per l’Adozione (Anpda), che opera in seno al ministero del Lavoro, della Famiglia, della Protezione Sociale e delle Persone Anziane. Per la prima volta il riaccreditamento a seguire le procedure adottive in Romania sarà valido per 2 anni – quindi fino al 31 agosto 2018, contrariamente a quanto avveniva in precedenza, quando l’autorizzazione aveva valore annuale.
Nel 2013 le autorità di Bucarest hanno deciso di riaprire le adozioni internazionali, chiuse il 1° gennaio 2005. Nello stesso anno, Ai.Bi. ottenne il riaccreditamento a operare nel Paese, autorizzazione di cui Amici dei Bambini era in possesso già prima del momentaneo stop stabilito dal governo rumeno. Nel 2015 il primo bambino rumeno adottato da Ai.Bi. ha fatto il suo ingresso in Italia, mentre nei primi 8 mesi del 2016 altre 4 coppie che hanno conferito mandato al nostro ente hanno ricevuto l’abbinamento e sono ora in attesa di poter concludere l’iter adottivo in Romania.
La presenza di Ai.Bi. nel Paese è una grande opportunità. Ricordiamo infatti che la legge di Bucarest prevede che un bambino rumeno possa essere adottato all’estero solo da coppie miste (in cui uno dei due coniugi sia rumeno) o da coppie sue connazionali (ovvero in cui entrambi i coniugi siano rumeni). La popolazione proveniente dal Paese dei Carpazi e residente in Italia a fine 2015 superava il milione di persone. Facile capire, quindi, quanto possa essere probabile per un bambino rumeno abbandonato o orfano trovare una nuova famiglia nel nostro Paese.
Oltre a quelli legati alla nazionalità degli aspiranti genitori adottivi, quali sono i requisiti fondamentali per poter accogliere un bambino rumeno? Innanzitutto i coniugi devono essere sposati da almeno 3 anni o aver convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un triennio. Per quanto riguarda l’anagrafe, la differenza di età tra i coniugi e l’adottato deve essere compresa tra i 18 e i 45 anni. Ma è prevista un’eccezione: è possibile derogare a questo limite se la coppia adotta due o più fratelli, se esiste già un figlio naturale minore in famiglia o quando uno solo dei due coniugi supera il limite massimo di età di non oltre 10 anni.
Ma chi sono i bambini adottabili in Romania? Secondo la legislazione vigente, possono essere adottati all’estero i minori per i quali non si è trovata una famiglia adottiva nel loro Paese entro un anno dalla sentenza irrevocabile di approvazione dell’apertura della procedura di adozione nazionale. Fino al 31 dicembre 2015 questo termine era di 2 anni: un progetto di legge approvato il 16 settembre 2015 ha dimezzato questo periodo, rendendo di fatto più rapidi i tempi dell’adozione internazionale.
Ai. Bi. 5 settembre 2016 www.aibi.it/ita/romania-ai-bi-ottiene-il-riaccreditamento
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AMORIS LAETITIA
Ipse dixit. “Amoris laetitia” va interpretata come dice lui.
Dopo ripetute anticipazioni da più parti, domenica 11 settembre 2016 anche il sito paravaticano “Il Sismografo” ha pubblicato – confermandoli – i testi integrali sia della lettera dei vescovi della regione di Buenos Aires ai loro sacerdoti, sia della lettera di commento di papa Francesco: Intercambio de cartas sobre los “Criterios básicos para la aplicación del capítulo 8 de Amoris laetitia”. La respuesta de Papa Francisco
La lettera dei vescovi argentini intende offrire delle linee guida per l’applicazione del controverso capitolo ottavo della “Amoris laetitia, quello che riguarda i divorziati risposati. E nel quinto e sesto dei dieci punti in cui articolano le loro indicazioni i vescovi ammettono che a coloro che si trovano in questa situazione può essere data l’assoluzione e la comunione sacramentale, anche quando non “non riescano a mantenere il proposito” di vivere tra loro in continenza sessuale. Fin qui niente di nuovo. Perché non si contano i vescovi e i cardinali che già interpretano in questo senso “Amoris laetitia”. Come numerosi sono anche coloro che non trovano formulata con sufficiente chiarezza tale “apertura” nell’esortazione postsinodale. Ma questa volta c’è il papa che prende posizione. E sposa come unica giusta interpretazione del testo la prima: “El escrito es muy bueno y explícita cabalmente el sentido del capítulo VIII de ‘Amoris laetitia’. No hay otras interpretaciones. Y estoy seguro de que hará mucho bien”. “Il testo è molto buono e spiega in modo eccellente il capitolo VIII di “Amoris laetitia”. Non c’è altra interpretazione. E sono sicuro che farà molto bene”.
Curiosamente, però, lo stesso giorno in cui “Il Sismografo” ha diffuso la lettera del papa che interpreta “Amoris laetitia” così, “L’Osservatore Romano” ha pubblicato il commento di un cardinale spagnolo – stimatissimo da papa Francesco – che del medesimo capitolo ottavo dell’esortazione dà un’interpretazione più restrittiva: Altro che ambiguità nell’esortazione postsinodale.
Il cardinale è Fernando Sebastián Aguilar, 86 anni, già vescovo di Pamplona, missionario dei Figli del Cuore Immacolato di Maria. E ha originariamente pubblicato il suo commento sul settimanale “Vida Nueva”. A proposito della comunione ai divorziati risposati, Sebastián Aguilar sostiene che il papa “pensa anche ai molti cristiani che si sono rifatti una vita come hanno potuto e, al tramonto della loro esistenza, desiderano riconciliarsi con Dio e con la Chiesa”. Il cardinale non è più esplicito. Ma sembra ammettere l’assoluzione e la comunione per costoro avanti negli anni, quando potrebbero più facilmente ottemperare alla condizione, ribadita da Giovanni Paolo II, di vivere come fratello e sorella.
Sebastián Aguilar è stato fatto cardinale da papa Francesco, che è da tempo fervente lettore dei suoi libri, al punto da dichiararsi suo “alunno”. Ed è di fama progressista. Da giovane fu il teologo preferito del cardinale Tarancón, icona del cattolicesimo conciliare in Spagna. Ma è anche personaggio molto schietto. Fece colpo, poco dopo la nomina a cardinale, una sua intervista sugli omosessuali che vanno rispettati e sull’omosessualità che invece è da condannare: > L’omosessualità è peccato? Risponde il neocardinale di cui Bergoglio si dice “alunno”. Non solo. Sebastián Aguilar è anche autore della prefazione a un saggio del cardinale Gerhard L. Müller, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, di netta contrapposizione alle tesi dell’altro cardinale Walter Kasper, capofila storico dei fautori della comunione ai divorziarti risposati.
Tornando alla lettera dei vescovi argentini, va detto che in vari episcopati trova sempre più spazio il proposito di offrire delle linee guida per l’interpretazione dei punti più controversi di “Amoris laetitia”.
Anche in Italia è così. Sabato 10 settembre il vescovo di Parma Enrico Solmi, già presidente della commissione episcopale per la famiglia e la vita e partecipe di entrambi i sinodi, ha dichiarato al quotidiano “Avvenire” che è opportuno “collocare ‘ Amoris laetitia” nella riflessione ufficiale della Chiesa italiana e farne oggetto di un’assemblea” dei vescovi. E interpellato sulla necessità di “linee guida applicative” ha risposto: “Sì, penso che sarebbe il caso di pensarci”. Nella stessa pagina di “Avvenire” don Paolo Gentili, direttore dell’ufficio CEI per la pastorale della famiglia, ha a sua volta elencato una serie nutrita di iniziative ed incontri già in cantiere per l’applicazione dell’esortazione postsinodale.
Sandro Magister 11 settembre 2016 http://magister.blogautore.espresso.repbblica.it

Nell’esortazione postsinodale. Altro che ambiguità
Pubblichiamo un articolo del cardinale arcivescovo emerito di Pamplona y Tudela apparso sull’ultimo numero del settimanale spagnolo «Vida Nueva».
Sinceramente non capisco come menti così illustri possano dire che l’esortazione di Francesco sulla famiglia è ambigua. Dice chiaramente ciò che vuole dire. Il fatto è che dice quello che alcuni non possono accettare perché non lo capiscono.
Il Papa ripete varie volte la dottrina cattolica sul matrimonio e sulla famiglia. Insiste sul carattere istituzionale e irrevocabile del matrimonio. Spiega magnificamente perché quest’ultimo, essendo un’istituzione dell’ordine della creazione, è al tempo stesso sacramento, segno e strumento dell’unione con Cristo e della grazia di Dio, alleanza di amore irrevocabile, cammino di purificazione e di santificazione. Presenta la sua indissolubilità come un dono di Dio mediante il quale i coniugi riescono a essere l’uno per l’altro segno e presenza dell’amore irrevocabile e fedele di Dio per ognuno di noi. Ma, al tempo stesso, il Papa pensa ai molti cristiani e non cristiani che non percepiscono la grandezza del matrimonio e neppure il suo valore umano e religioso; e pensa anche ai molti cristiani che hanno fallito nel loro matrimonio, si sono rifatti una vita come hanno potuto e, al tramonto della loro esistenza, desiderano riconciliarsi con Dio e con la Chiesa.
Che cosa facciamo di loro? Li mandiamo all’inferno? Di fronte a ciò, il Papa raccomanda attenzione e misericordia. Le situazioni personali sono molto diverse. Non bastano le norme generali o le assoluzioni generali, ma neppure le condanne generali. Occorre tener conto delle circostanze concrete, attenuanti o aggravanti, che possono esserci in ogni storia. Anche la questione delle circostanze attenuanti è dottrina tradizionale della Chiesa. Ce lo hanno sempre insegnato così. Ma ora il Papa ci invita ad applicare questa dottrina di sempre alla vita matrimoniale, tenendo conto della confusione in cui molte persone vivono i temi della sessualità e del matrimonio.
Ciò non è ambiguità, bensì realismo e misericordia e, se insisteste, giustizia.
Fernando Sebastián Aguilar L’Osservatore Romano, 9-10 settembre 2016
http://ilsismografo.blogspot.it/2016/09/spagna-nellesortazione-postsinodale.html
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ANONIMATO DEL PARTO
Figlio sempre legittimato ad accedere ai dati della madre biologica
Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 15024, 21 luglio 2016.
News La previdenza 8 settembre 2016 sentenza
www.laprevidenza.it/notizie/cassazione-civile/figlio-sempre-legittimato-ad-accedere-ai-dati-della-madre-biologica-cassazione-sezione-civile-sezione-i-sentenza-2172016-n-15024
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Assegno di mantenimento revocato se l’ex moglie va a convivere
L’ex moglie non ha più diritto all’assegno di mantenimento da parte del precedente marito se va a vivere a casa del nuovo partner con cui ha una stabile relazione. Se, dopo la separazione o il divorzio, l’ex moglie va a convivere dal nuovo compagno, e non si tratta di un breve soggiorno di qualche mese, ma di una convivenza stabile (assimilabile a quella matrimoniale), perde l’assegno di mantenimento. A ricordarlo è la Corte di Appello di Roma [sentenza 01 marzo 2016].
La pronuncia non è la prima e non sarà neanche l’ultima che sacrifica l’assegno di mantenimento all’avvio di una nuova relazione stabile, basata sulla convivenza, da parte di uno dei due ex coniugi con un nuovo partner. Anche la Cassazione è da tempo assestata su questa linea di pensiero. Ed è giusto che sia così: chi decide di avviare una nuova relazione non può rimanere a carico del precedente marito, finendo per far sopportare a quest’ultimo anche i costi della nuova convivenza. Convivenza che, come tutte quelle basate sulla stabilità, deve vedere i rispettivi compagni artefici del proprio destino e della gestione domestica cui vanno incontro. Con ognuno dei due che si dà da fare per contribuire al ménage quotidiano, senza che ciò possa andare ai danni di una terza persona, che non ha – per ovvie ragioni – scelto ciò.
Dunque, il coniuge separato che instaura una nuova convivenza stabile e duratura (gli avvocati la chiamano convivenza more uxorio, ossia secondo gli usi tipici delle coppie sposate) perde il diritto a ottenere l’assegno di mantenimento. Ma attenzione: il marito non può, di punto in bianco, sospettando l’altrui relazione, smettere di pagare il mantenimento, ma dovrà prima andare dal giudice affinché, con un nuovo provvedimento, cancelli il precedente e annulli l’obbligo dell’uomo di versare l’assegno mensile. Insomma, solo il tribunale può decidere l’inizio e la fine dell’obbligo del mantenimento.
Nel corso di tale procedimento, l’ex marito – che a tal fine dovrà farsi assistere da un avvocato – è tenuto a dimostrare il cambiamento delle condizioni economiche della precedente moglie, ossia a dar prova della sua convivenza con il nuovo compagno. Prova che può essere fornita anche mediante testimoni.
E se la donna è disoccupata? Se quest’ultima è andata a vivere a casa del nuovo compagno solo per risparmiare i soldi dell’affitto, trovare una sistemazione dove andare a dormire e per tutelare anche i figli nati dal precedente matrimonio? Le cose non cambiano neanche in questo caso, se tra i due c’è una relazione effettiva e stabile: per la legge le sue condizioni economiche si considerano migliorate e, quindi, non c’è più possibilità per ottenere di nuovo l’assegno di mantenimento.
E se la convivenza cessa? Anche in questo caso è verosimile che il giudice le neghi il diritto che, una volta perso, non potrà più essere ripescato perché la donna non può far scontare al primo marito il frutto delle sue successive cattive scelte.
Redazione LPT 8 settembre 2016
www.laleggepertutti.it/132016_assegno-di-mantenimento-revocato-se-lex-moglie-va-a-convivere
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CENTRO GIOVANI COPPIE
Incontri 2016-2017
Incontri 2016-2017: il limite. 8 conferenze per riflettere insieme.
1° incontro: Alla personale ricerca della felicità in compagnia dei propri limiti.
13 ottobre 2016 ore: 21-23. Piazza San Fedele, 4, Milano, sala Matteo Ricci
Elisabetta Orioli – psicologa psicoterapeuta
Adriano Pennati – formatore www.centrogiovanicoppiesanfedele.it
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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA
Newsletter CISF N. 15/2016, 7 settembre 2016
Parlare di famiglia senza ascoltarla? Appunti personali di Francesco Belletti, Direttore Cisf
CHANGING FAMILIES RELATIONS – GENDER AND GENERATIONS
Relazioni familiari in cambiamento – genere e generazioni.
Dortmund, 31 agosto – 3 settembre 2016 Ottavo Congresso ESFR (European Society on Family Relations)
Ho avuto l’opportunità di partecipare ad un interessante convegno internazionale sulla famiglia, organizzato da una rete interuniversitaria europea soprattutto di psicologi e sociologi, che si occupa di relazioni familiari (ESFR), network avviato nel 2002 che vede anche significative presenze italiane. Tre giorni pieni di incontri e discussioni, oltre 50 workshop, sui temi più eterogenei, una sessione poster dove erano illustrate ricerche innovative su adozione, solidarietà tra le generazioni e cura dei nonni, responsabilità genitoriali, ecc. Insomma, una grande occasione di confronto.
Quello che però è stato più impressionante – e non in positivo! – è stata una forte tendenza, da parte dei ricercatori, ad applicare uno schema ideologico sulla realtà, con un approccio valutativo sorprendente, se comparato al rigore dei metodi di indagine utilizzati. Le ricerche erano condotte seriamente, con rigore, sia quelle quantitative, su numerosi campioni, sia quelle qualitative, con interviste in profondità a pochi soggetti, raccolta di diari, storie di vita ecc.
Ma mi ha colpito il fatto che le opinioni espresse venivano catalogate come “progressive” o “traditionalist”, giudicandole così buone o cattive secondo la mappa dei valori dei ricercatori, e non rispettando le scelte delle persone interpellate. Tipico è il caso della “freedom of choice”, della libertà di scelta, davanti al modo in cui conciliare famiglia e lavoro per le giovani coppie (e le giovani donne). In molti contesti nazionali emergeva che molte famiglie vogliono stare più tempo con i propri bambini piccoli, e i genitori preferiscono congedi, o un uso forte del part-time, proprio per poter fare meglio i genitori, anziché più servizi per tornare al lavoro prima possibile. Ma questa “libertà di scelta” veniva stigmatizzata, dai ricercatori, come espressione di un modello liberista, mentre invece sarebbe stato più “giusto” (parole dei ricercatori, sia chiaro…) che subito i bambini (tutti i bambini) venissero inseriti in asili nido a tempo pieno. Ad esempio in Finlandia si parlava anche di asili nido con pernottamento. Ma proprio la Finlandia, tra gli altri Paesi del welfare scandinavo, è la nazione dove ci sono meno famiglie che mandano i figli al nido, perché preferiscono stare con i propri figli più a lungo, Ma “No, non va bene”, è un “traditional model” di cura, e in quanto tale deve cambiare”.
In breve: si rischia una sociologia prescrittiva, dove non sono le persone a poter scegliere, ma sono i ricercatori a dire che alcuni comportamenti sono giusti e altri sono sbagliati: e non conta cosa vogliono scegliere le persone. Così le famiglie non sono ascoltate davvero, ma sono invece “portate” e condizionate verso i comportamenti giusti. E non importa cosa vogliono le persone, perché tanto la “freedom of choice”, la libertà di scelta, è un residuo della società tradizionale. Quando finalmente tutti faranno come dicono i ricercatori, allora sì che la società sarà giusta e moderna… Molto istruttivo, il tutto (e anche un po’ preoccupante).
Francesco Belletti
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Ultimi arrivi dalle case editrici
Schermi Mario, Educare e Punire. L’esperienza educativa nella difficile impresa di “liberare” e “contenere”, Edizioni La Meridiana, Molfetta (BA), 2016, pp. 218, € 18,50
La punizione gode di uno scarso credito pedagogico: l’attenzione anche pubblica si alza ogni qual volta la cronaca segnala avvenimenti dove, in contesti educativi, si adoperano punizioni e azioni che abbiano un carattere repressivo. Eppure, la punizione è conseguenza di una trasgressione violata, quindi, di fatto, ha una sua ragion d’essere. È indubbio che nelle nostre pratiche educative private, così come nelle nostre pratiche pubbliche, si continui a ricorrere alla punizione (ai castighi, alle pene) ogni volta che gli ordini relazionali, sociali, normativi sono stati violati o anche soltanto messi a rischio. Ma allora: che ne è dello scarso credito? Allora, sono poi così sostenibili le tesi pedagogiche che escluderebbero il ricorso alle punizioni, quali soluzioni incapaci di promuovere, orientare il crescere del soggetto? Sono legittime le interpretazioni che scorgerebbero, nel e dietro il punire, le intenzioni di perpetrare un “abuso educativo”? Che ne è di quell’educazione, che pure attraverso il punire intendeva rieducare? Questo libro indaga perciò il delicato rapporto tra punire ed educare, con l’obiettivo di evitare che il non parlare del tema punizione possa far perdere alle pratiche educative il fine di responsabilizzare le persone rispetto alle conseguenze delle loro azioni.
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Rapporto UNICEF 2016 – La condizione dell’infanzia nel mondo.
Progressi senza equità: 69 milioni di bambini a rischio
Leggi il prezioso rapporto Unicef, ricco di dati e confronti internazionali, nella versione italiana completa.
Scarica il pdf in
www.unicef.it/doc/6894/rapporto-unicef-2016-la-giusta-opportunita-per-ogni-bambino.htm
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Dall’estero Un recente documento della Fondazione Caritas in Veritate (Ginevra) sull’Eutanasia, a partire dal Magistero, per affrontare la crescente ambiguità con cui a livello internazionale si promuovono presunti “diritti umani” sulla morte procurata.
Death and Dignity: New Forms of Euthanasia. A Catholic Perspective on the Human Right to a Dignified Death http://www.fciv.org/publications
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COFACE: Pacchetto europeo sulla conciliazione. Un documento organico sulla relazione tra famiglia e lavoro, elaborato e promosso tra il 2013 e il 2015 da una federazione europea di associazioni familiari con numerose indicazioni, non sempre condivisibili o adeguate al contesto italiano, ma ricco di stimoli e di dati. Il link fa riferimento alla versione italiana. www.coface-eu.org
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Famiglie forti, comunità forti. 63. Conferenza internazionale ICCFR – Trento, 17 – 19 giugno 2016
Già disponibili gli ATTI, a cura della provincia Autonoma di Trento.
www.trentinofamiglia.it/Attualita/Archivio-2016/Settembre/La-pubblicazione-Famiglie-forti-comunita-forti
Sempre sullo stesso convegno si segnala l’uscita di un dossier a cura dell’AICCEF (www.aiccef.it), come numero speciale della loro rivista ufficiale (Il Consulente Familiare, n. 3, luglio-settembre 2016), che riporta anche diverse e interessanti reazioni da parte di singoli partecipanti all’evento.
Vedi news UCIPEM n. 612, 28 agosto 2016, pag. 8
Vedi news UCIPEM n. 613, 4 settembre 2016, pag. 6
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Save the date.
Nord: hey brother! Convegno internazionale sul tema dei siblings, fratelli e sorelle di persone con disabilità, Fondazione Paideia, Torino, 23-25 settembre 2016.
La grande Festa della Famiglia 2016. “Famiglia luogo della misericordia”, Forum delle associazioni familiari, Il Nuovo Giornale, Piacenza, 17-18 settembre 2016.
Centro: Il Buon Pastore dà Vita alla Famiglia, Corso di formazione permanente in pastorale familiare per sacerdoti, Istituto Giovanni Paolo II, Roma, 4 ottobre – 24 novembre 2016.
La famiglia, piccola Chiesa, Dialogo su alcune pagine di Amoris laetitia, Istituto Superiore di Scienze religiose Sant’Apollinare, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, sabato 8 ottobre 2016.
Sud: “Non solo nel cuore”: l’educatore tra passione e professionalità”, XV convegno del Coordinamento Nazionale delle Comunità di Tipo Familiare per Minorenni e Mamme con Bambino(C.N.C.M.), Napoli, 6 e 7 ottobre 2016.
Estero: Early Childhood in Times of Rapid Change, ISSA Conference 2016 (International Step by Step Association), Vilnius (Lituania), 11-13 ottobre 2016.
Iscrizione alle newsletter http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
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CENTRO ITALIANO di SESSUOLOGIA
Sessuologia NewsOnline
E’ in pubblicazione on-line in pdf il secondo numero del nuovo SessuologiaNewsOnline che ci introduce all’ormai vicina Settimana del Benessere Sessuale 2016. Il primo numero è stato edito a giugno 2016.
A pag.6 è riportato il codice deontologico degli operatori nell’ambito della sessualità umana.
www.cisonline.net/index.php?option=com_content&view=article&id=213&Itemid=218
http://www.cisonline.net

Settimana del benessere sessuale – Seminario e Corso di formazione
Seminario: Disforia di genere. Supporto al percorso di Transizione
Sabato 8 ottobre 2016 Ore 9,30-13,00 Villaggio del Fanciullo –Via Scipione dal Ferro 4 Bologna
Il Centro Italiano di Sessuologia organizza all’interno della Settimana del Benessere Sessuale indetta dalla FISS un seminario aperto a tutti per arricchire e o aggiornare le conoscenze sul tema della disforia di genere. La partecipazione è gratuita, è richiesta l’iscrizione scrivendo una mail a: cis@cisonline.net
Con…sesso informato il sesso e la malattia: verso una nuova consapevolezza
Corso di formazione Crediti ECM richiesti
Sabato 8 ottobre 2016 Ore 8-13 Sala Riunioni- Ospedale Murri JESI
Docenti: Dr. Behrouz Azizi – Jesi, Dr. Elisabetta Bini – Jesi, Dr. Fulvio Borromei – Ancona, Dr. Roberto Campagnacci – Jesi, Dr. Angelo Cavicchi – Senigallia, Prof. Carlo Cerioni – Jesi, Dr. Antonella Ciccarelli – Macerata, Dr. Carlo Costantini – Jesi AN, Dr. Angelo Curatola – Jesi AN, Dr. Maurizio Diambrini – Jesi AN, Dr. Vincenzo Ferrara – Jesi AN, Prof. Rosaria Gesuita – AN, Dr. Willy Giannubilo – Jesi AN, Dr. Luciano Giuliodori – Jesi AN, Dr. Walter La Gatta – AN, Dr. Giovanna Pace – Jesi AN, Dr. Giuliana Proietti- AN, Prof. Roberta Rossi – Roma, Dr.Giuseppina Salvucci- Jesi AN, Prof. Adriano Tagliabracci- AN
Per iscrizioni: chiara.sancricca@sanita.marche.it moira.marcelloni@sanita.marche.it
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CHIESA CATTOLICA
Benedetto XVI si racconta «Nessuno mi ha ricattato»
La rinuncia, le riforme, il successore, la lobby gay, il pensiero della morte. Ratzinger si confessa nel libro intervista «Ultime conversazioni» anche in edicola con il Corriere. «Decidere non è il mio forte ma non mi sento un fallito»
Il testo della rinuncia l’ho scritto io. Non posso dire con precisione quando, ma al massimo due settimane prima. L’ho scritto in latino perché una cosa così importante si fa in latino. Inoltre il latino è una lingua che conosco così bene da poter scrivere in modo decoroso. Avrei potuto scriverlo anche in italiano, naturalmente, ma c’era il pericolo che facessi qualche errore.
Non ero ricattato. Non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte. Nessuno ha cercato di ricattarmi. Non l’avrei nemmeno permesso. Se avessero provato a farlo non me ne sarei andato perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione. E non è nemmeno vero che ero deluso o cose simili. Anzi, grazie a Dio, ero nello stato d’animo pacifico di chi ha superato la difficoltà. Lo stato d’animo in cui si può passare tranquillamente il timone a chi viene dopo.
Felice del successore. Il mio successore non ha voluto la mozzetta rossa. La cosa non mi ha minimamente toccato. Quello che mi ha toccato, invece, è che già prima di uscire sulla loggia abbia voluto telefonarmi, ma non mi ha trovato perché eravamo appunto davanti al televisore. Il modo in cui ha pregato per me, il momento di raccoglimento, poi la cordialità con cui ha salutato le persone tanto che la scintilla è, per così dire, scoccata immediatamente. Nessuno si aspettava lui. Io lo conoscevo, naturalmente, ma non ho pensato a lui. In questo senso è stata una grossa sorpresa. Non ho pensato che fosse nel gruppo ristretto dei candidati. Quando ho sentito il nome, dapprima ero insicuro. Ma quando ho visto come parlava da una parte con Dio, dall’altra con gli uomini, sono stato davvero contento. E felice.
La Chiesa è viva. L’elezione di un cardinale latino-americano significa che la Chiesa è in movimento, è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi. Che non è congelata in schemi: accade sempre qualcosa di sorprendente, che possiede una dinamica intrinseca capace di rinnovarla costantemente. Ciò che è bello e incoraggiante è che proprio nella nostra epoca accadono cose che nessuno si aspettava e mostrano che la Chiesa è viva e trabocca di nuove possibilità.
Riforme: non sono forte. Ognuno ha il proprio carisma. Francesco è l’uomo della riforma pratica. È stato a lungo arcivescovo, conosce il mestiere, è stato superiore dei gesuiti e ha anche l’animo per mettere mano ad azioni di carattere organizzativo. Io sapevo che questo non è il mio punto di forza.
Sulla lobby gay vaticana. Effettivamente mi fu indicato un gruppo, che nel frattempo abbiamo sciolto. Era appunto segnalato nel rapporto della commissione di tre cardinali che si poteva individuare un piccolo gruppo di quattro, forse cinque persone. L’abbiamo sciolto. Se ne formeranno altri? Non lo so. Comunque il Vaticano non pullula certo di casi simili.
La Chiesa cambi. È evidente che la Chiesa sta abbandonando sempre più le vecchie strutture tradizionali della vita europea e quindi muta aspetto e in lei vivono nuove forme. È chiaro soprattutto che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi. Sono in corso capovolgimenti epocali, ma non si sa ancora a che punto si potrà dire con esattezza che comincia uno oppure l’altro.
Non sono un fallito. Un mio punto debole è forse la poca risolutezza nel governare e prendere decisioni. Qui in realtà sono più professore, uno che riflette e medita sulle questioni spirituali. Il governo pratico non è il mio forte e questa è certo una debolezza. Ma non riesco a vedermi come un fallito. Per otto anni ho svolto il mio servizio. Ci sono stati momenti difficili, basti pensare, per esempio, allo scandalo della pedofilia e al caso Williamson o anche allo scandalo Vatileaks; ma in generale è stato anche un periodo in cui molte persone hanno trovato una nuova via alla fede e c’è stato anche un grande movimento positivo.
Mi preparo alla morte. Bisogna prepararsi alla morte. Non nel senso di compiere certi atti, ma di vivere preparandosi a superare l’ultimo esame di fronte a Dio. Ad abbandonare questo mondo e trovarsi davanti a Lui e ai santi, agli amici e ai nemici. A, diciamo, accettare la finitezza di questa vita e mettersi in cammino per giungere al cospetto di Dio. Cerco di farlo pensando sempre che la fine si avvicina. Cercando di prepararmi a quel momento e soprattutto tenendolo sempre presente. L’importante non è immaginarselo, ma vivere nella consapevolezza che tutta la vita tende a questo incontro.
Corriere della sera 8 settembre 2016
www.corriere.it/cronache/16_settembre_08/benedetto-xvi-papa-libro-vaticano-de3aa4e4-7537-11e6-
86af-b14a891b9d65.shtml?refresh_ce-cp

Lombardi: una bella sorpresa il nuovo libro intervista con Benedetto XVI.
Esce oggi in tutto il mondo il volume intitolato “Benedetto XVI. Ultime conversazioni”, il nuovo libro intervista del giornalista tedesco Peter Seewald con il Papa emerito che tocca le tappe più importanti della sua vita: dall’infanzia sotto il regime nazista, la scoperta della vocazione, gli anni difficili della guerra, poi il servizio in Vaticano e il forte legame con Giovanni Paolo II, fino all’elezione al soglio pontificio e alla decisione della rinuncia al Pontificato. Benedetto XVI parla anche di Francesco, esprimendo la sua sorpresa e poi la sua gioia per questa elezione che dimostra come la Chiesa sia viva, dinamica e non congelata in schemi e questo – afferma – è incoraggiante. Su questo libro, edito da Garzanti nella edizione in lingua italiana, pubblichiamo il commento di padre Federico Lombardi, presidente del Consiglio di amministrazione della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI:
Il nuovo libro intervista delle conversazioni di Benedetto XVI con Peter Seewald, in libreria e nelle edicole in diverse lingue da questo venerdì 9 settembre 2016, è certamente per molti una sorpresa, ma possiamo ben dire una bella sorpresa. Una sorpresa nel senso che, data la chiara scelta di Benedetto XVI di dedicarsi ad una vita ritirata di preghiera e riflessione, forse non ci saremmo aspettati ora la pubblicazione di una nuova lunga conversazione con un giornalista. Una bella sorpresa nel senso che, superato il primo stupore, la tranquilla lettura del testo ci offre alcune perle molto preziose e di grande valore, altre utili e interessanti. Le perle più preziose sono, a nostro avviso, due, contenute nella Prima Parte e nel capitolo finale della Terza Parte del libro.
La prima e principale è la commovente testimonianza dell’esperienza spirituale dell’anziano pontefice emerito “in cammino per giungere al cospetto di Dio” (225). Insomma, Benedetto XVI parla serenamente di come sta vivendo nel raccoglimento e nell’orazione l’ultima tappa della sua vita. Giovanni Paolo II ci aveva dato la sua preziosa testimonianza di come portava nella fede la condizione della grave sofferenza della malattia. Benedetto XVI ci dà quella dell’uomo di Dio anziano, che si prepara alla morte. Lo fa con toni umili e umani, riconoscendo che la debolezza fisica gli rende difficile di restare sempre, come vorrebbe, nelle “regioni alte dello spirito” (23). Ci parla del grande mistero di Dio, ci parla dei grandi interrogativi che hanno accompagnato la sua vita spirituale e continuano ad accompagnarla, diventando forse ancora più grandi, come la presenza di tanto male nel mondo. Ci parla in particolare di Gesù Cristo, vero centro focale della sua vita, che “vede proprio davanti” a lui, “sempre grande e misterioso”, e del fatto che “molte parole del Vangelo le trovo ora, per la loro grandezza e gravità, più difficili che in passato” (26). L’anziano pontefice vive l’avvicinarsi alle soglie del mistero “non abbandonando la certezza di fondo della fede e rimanendo, per così dire, immerso in essa”. “Ci si rende conto che bisogna essere umili, che se non si capiscono le parole della Scrittura, si deve aspettare finché il Signore le schiuda alla nostra comprensione” (27). Egli parla serenamente dello sguardo sulla vita passata e del “peso della colpa”, del rimpianto per non aver fatto abbastanza per gli altri, ma anche della fiducia nell’amore fedele di Dio, del fatto che al momento dell’incontro “lo pregherà di essere indulgente con la sua miseria” e della convinzione che nella vita eterna “sarà davvero giunto a casa” (28).
Oltre a questa vera perla fondamentale, a nostro avviso l’aspetto più importante del libro, a un diverso livello – inferiore ma pure rilevante – va apprezzata la risposta chiara e serena a tutte le elucubrazioni immotivate sulle ragioni della sua rinuncia al pontificato, come se fosse stata causata dalle difficoltà incontrate a seguito di scandali o complotti. Di tutto ciò ora, sollecitato dalle domande di Seewald, Benedetto in prima persona fa piazza pulita con decisione, in modo ci auguriamo definitivo, parlando del cammino di discernimento con cui è giunto davanti a Dio alla decisione e della serenità con cui, una volta presa, la ha comunicata e attuata senza alcuna incertezza e non se ne è mai pentito. Insiste sul fatto che la decisione è stata presa non sotto la pressione di difficoltà incalzanti, ma anzi, proprio quando queste erano sostanzialmente state superate. “Io ho potuto dimettermi proprio perché riguardo a quella vicenda era ritornata la serenità. Non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte” (38). Ma a parte la risposta alle interpretazioni infondate, dalle parole di Benedetto risultano ribadite con chiarezza anche le motivazioni vere della rinuncia, e ciò con tale naturalezza che esse appaiono assolutamente ragionevoli e convincenti. In certo senso – ci sia permesso dirlo – la rinuncia da parte del Papa, quando sia effettivamente inadeguato all’esercizio della sua responsabilità nel governo della Chiesa per lo scemare delle forze fisiche e psichiche, si presenta come doverosa e “normale”. Pur restando evidentemente sovrana la libertà di ogni Papa in merito, non si può non costatare che la decisione di Benedetto ha offerto un modello di discernimento ed ha aperto concretamente – possiamo dire anche in questo caso “definitivamente”? – una possibilità di scelta più facilmente percorribile per tutti i suoi successori.
Questi due grandi argomenti sono quelli che a nostro avviso giustificano pienamente e rendono opportuna la pubblicazione di questo libro, Benedetto vivente. Del resto, nella Seconda e nella Terza Parte, la conversazione spazia su argomenti molto vari che riguardano l’intero arco della vita di Joseph Ratzinger, dalla famiglia di origine fino a tutto il pontificato. Come ha spiegato lo stesso Seewald in una recente intervista (Christ und Welt, Zeit online, 7.9.2016) è bene osservare che il libro è nato in realtà da alcuni colloqui concessi all’intervistatore (in agosto e novembre 2012, prima della rinuncia; in luglio e dicembre 2013, e febbraio 2014, dopo la rinuncia) in vista di una possibile futura biografia, rispondendo quindi con chiarimenti e approfondimenti a domande su situazioni, episodi, incontri di particolare interesse nelle diverse fasi della lunga vita e dell’attività dell’Intervistato.
Non sappiamo se e quando Seewald ci offrirà una vera biografia. Questo libro non lo è in alcun modo. Tuttavia, con sintetici paragrafi introduttivi ai vari capitoli e con una opportuna formulazione delle domande, Seewald ordina e contestualizza in rapida successione cronologica le risposte di Benedetto. La chiarezza e la profondità di molte risposte, come pure il loro tono personale e la loro assoluta sincerità rendono avvincente la lettura di un insieme di informazioni e riflessioni che altrimenti risulterebbe frammentario. A nostro avviso, possono presentare particolare interesse le pagine dedicate a temi di maggiore rilievo. Si possono segnalare ad esempio, il tema del nazismo nell’esperienza familiare ed ecclesiale del giovane Ratzinger; o il clima culturale quasi esaltante vissuto dal giovane professore di teologia a Bonn nel contesto della rinascita della Germania dopo la catastrofe della guerra; il suo personale contributo come esperto al Concilio Vaticano II in particolare sul tema fondamentale del rapporto fra Scrittura Tradizione e Magistero; la sua posizione sempre più critica nei confronti di altri teologi tedeschi sulla comprensione stessa della natura e della funzione della teologia in rapporto alla fede della Chiesa; il suo stretto e lunghissimo rapporto di vicinanza e collaborazione con Papa Wojtyla.
Molti saranno certamente interessati alle risposte che contribuiscono a tracciare un “bilancio” del Pontificato di Benedetto XVI a partire dalle sue linee orientatrici. Offriamo solo alcuni spunti. “C’era anzitutto quello che volevo fare: mettere al centro il tema di Dio e la fede e in primo piano la Sacra Scrittura. Provengo dalla teologia e sapevo che la mia forza, se ne ho una, è annunciare la fede in forma positiva. Per questo volevo soprattutto insegnare partendo dalla pienezza della Sacra Scrittura e della Tradizione… Io sapevo che il mio non sarebbe stato un pontificato lungo. Che non potevo compiere progetti a lungo termine e realizzare iniziative spettacolari…Non avrei convocato un nuovo Concilio, ma a maggior ragione volevo e potevo rafforzare l’elemento sinodale” (180). Benedetto ritorna più volte a mettere in luce lo spirito del suo Pontificato, riconoscendone in certo senso il segno distintivo nell'”Anno della Fede”: “un rinnovato incoraggiamento a credere, a vivere una vita a partire dal centro, dal dinamismo della fede, a riscoprire Dio riscoprendo Cristo, dunque a riscoprire la centralità delle fede” (217). Non vi è dubbio che la grande opera su Gesù ha un posto centrale nel pontificato di Benedetto XVI. Non era l’esercizio del teologo nel “tempo libero” lasciatogli dal servizio come Papa, ma era il suo più importante servizio alla Chiesa perché “se noi non conosciamo più Gesù, è la fine della Chiesa…e il pericolo che Gesù venga distrutto o svilito da un certo tipo di esegesi è enorme” (192-193). Nella riflessione teologica di Ratzinger la escatologia, cioè le “realtà ultime”, e la persona di Gesù hanno occupato un posto particolarmente importante. Non era una teologia separata dalla vita: ora essa si continua e sbocca nella sua quotidiana meditazione sulle realtà ultime, e nel suo vivere continuamente davanti a Gesù. Anche lo sguardo sul suo pontificato, nelle sue luci e nei suoi limiti, è lucido e sereno, come si addice a chi “contando i suoi giorni” ha imparato a guardare alle vicende di questo mondo con la “sapienza del cuore” (cfr Salmo 90), e può affidare a Dio con fiducia la sua vita e la sua opera.
Di seguito è possibile ascoltare l’intervista rilasciata da padre Lombardi ad Adriana Masotti
Notiziario Radio vaticana -9 settembre 2016 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

Le donne secondo san Paolo «La Chiesa condizionata da alcuni suoi versetti»
Penso che abbia completamente sbagliato bersaglio la professoressa Rosanna Virgili nel criticare aspramente su ‘Avvenire’ del 1° settembre il mio articolo redazionalmente intitolato ‘L’islam, il cristianesimo e la polemica sul burkini’ apparso su Repubblica del 27 agosto scorso. Vedi newsUCIPEM n. 613, pag.3
L’obiettivo del mio contributo infatti non era in alcun modo l’esegesi e l’ermeneutica del controverso pensiero di san Paolo riguardo alle donne, quanto piuttosto una riflessione sulla differenza tra Occidente e Islam a partire da tre fatti inequivocabili: 1) che per secoli e secoli nel mondo occidentale e nel mondo islamico si è avuta una palese sottomissione della donna al potere maschile; 2) che oggi nel mondo occidentale quella sottomissione della donna non c’è più; 3) che l’abbigliamento è un chiaro indice di tale evoluzione, visto che prima le donne occidentali non mostravano gambe e braccia in pubblico e portavano il velo in chiesa, mentre oggi agiscono del tutto all’opposto.
A mio avviso la sottomissione femminile del passato non può non avere una radice anche nel testo che per quei secoli era il punto di riferimento indiscusso, cioè la Bibbia, Nuovo Testamento compreso, così come oggi la condizione della donna nel mondo islamico si spiega anche in base al Corano. Intendendo negare questa mia impostazione e affermare invece che la sottomissione della donna non ha fondamento biblico, Virgili mi accusa di scorretta informazione, presenta alcuni testi di san Paolo e poi conclude: «Non si può negare una presenza autorevole e per nulla ‘sottoposta’ delle donne nelle comunità cristiane, che indossassero o meno il velo quando pregavano, o che tacessero durante le assemblee». Assumendo per buona tale affermazione, penso ci si debba chiedere: poi però cosa è successo? Come mai quella presenza autorevole e per nulla sottoposta delle donne nelle comunità cristiane è quasi subito del tutto sparita? Come ha potuto la gerarchia ecclesiastica del cristianesimo configurarsi come unicamente maschile?
A meno di sostenere che la tradizione ecclesiastica abbia operato un tale travisamento della Bibbia da configurarsi come tradimento, è evidente che la lettura tradizionale aveva la possibilità di ritrovare nella Bibbia non solo quanto afferma Virgili sul ruolo delle donne, ma anche il suo contrario. Ed è esattamente il caso del passo di san Paolo in 1Corinzi 11,3-10 da me riportato nell’articolo in questione e che alla mentalità dell’epoca presentava tre precisi concetti: 1) che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Cristo, e Cristo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente; 2) che la donna non solo è sottoposta, ma è addirittura finalizzata all’uomo, nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata a essere la ‘gloria’; 3) che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta.
Il fatto che Paolo altrove dica altre cose riguarda il suo pensiero in sé e per sé, non la storia degli effetti prodotti da alcune sue affermazioni. Ci sono i secoli di storia colmi di subordinazione femminile, c’è un preciso diritto matrimoniale che sanciva l’inferiorità della moglie rispetto al marito, a testimoniare gli effetti prodotti da un testo come 1Cor 11,3-10. Non ha quindi nessun senso, nel contesto del mio articolo, dire che san Paolo non la pensava sempre così, perché il merito del mio ragionamento non riguardava san Paolo in sé ma l’evoluzione dell’Occidente riguardo alla condizione femminile.
Virgili poi mi accusa di aver tagliato in modo indebito il passo di 1Corinzi e di fare «cattiva informazione biblica», ma si tratta di un’accusa infondata e che peraltro può essere rigirata a lei stessa. È infondata perché gli 8 versetti paolini sono da me riprodotti integralmente senza alcun minimo taglio e perché i versetti che seguono su cui Virgili insiste (11-12) non mutano per nulla la questione della sottomissione femminile a livello ecclesiale: la parità ontologica proposta da san Paolo a livello mistico in quei versetti non produce per lui parità ecclesiastica. Prova ne siano i successivi versetti 13-16 nei quali san Paolo riprende l’argomento della differenza uomo-donna per dire che la donna deve avere il capo coperto e l’uomo no. L’accusa di tagli indebiti poi può essere rigirata alla stessa Virgili, dapprima perché non cita i versetti di 1Cor 13-16 a completezza della pericope in oggetto, e soprattutto perché, assumendosi il ruolo di avvocato difensore di san Paolo, richiama alcuni testi paolini (1Cor 7, Ef 5, Gal 3,28) ma omette i più imbarazzanti a proposito delle donne, come 1Cor 14,34-35 e 1Tm 2,11-15.
Ecco il primo: «Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea». Ed ecco il secondo: «La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre. Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza».
È da testi come questi che proviene nell’arte occidentale la frequente raffigurazione del Serpente tentatore con il volto di donna, come anche l’assetto istituzionale maschile della Chiesa per mutare il quale le teologhe e le bibliste contemporanee giustamente lottano, teologhe e bibliste che sono una chiara contraddizione del pensiero paolino perché il Paolo storico non avrebbe permesso loro di insegnare.
Virgili afferma che «non c’è esegesi senza ermeneutica». È verissimo, ma la questione decisiva riguarda l’intenzione che anima l’ermeneutica. Perché per molti secoli i testi sopra citati venivano fedelmente rispettati, e oggi invece fanno problema alla coscienza al punto che ci imbarazzano e ne faremmo volentieri a meno? Virgili rimanda al Concilio Vaticano II, ma si tratta di una risposta parziale perché il Vaticano II fu a sua volta la conseguenza di un processo iniziato molto prima e che si chiama modernità. È stata la modernità a far evolvere la coscienza occidentale verso la parità uomo-donna e quindi a far sentire l’inaccettabilità di alcune espressioni bibliche, tra cui quelle di san Paolo sopra richiamate. Ed è sempre la modernità a segnare la più grande differenza tra mondo occidentale e islam, abbigliamento femminile compreso. Il Vaticano II ha chiamato la modernità «segni dei tempi» e ha visto in essa il lavoro dello Spirito di Dio che sempre assiste l’evoluzione del mondo.
Essere moderni in ambito teologico non significa essere genericamente progressisti. Significa piuttosto assegnare il primato non più all’autorità del testo, ma al bene dell’essere umano, a servizio del quale si giunge anche a piegare il testo biblico e il patrimonio dottrinale della Chiesa, perché si ritiene che non c’è nulla di più prezioso della vita umana e della sua fioritura. È da qui che nasce l’intenzione che nutre quell’ermeneutica capace di una nuova e più liberante esegesi su cui Rosanna Virgili ha messo l’accento nella sua infondata critica contro il mio articolo.
Vito Mancuso Avvenire 11 settembre 2016
www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut17

Le donne secondo san Paolo «Schemi superati e parziali È già stata fatta autocritica».
Un esercizio critico è quanto di più utile e civile ci sia al mondo ed esprimo il vero piacere di poter condividere un secondo passaggio di tale nobilissima e rara pratica, nel dibattito con il professor Vito Mancuso. Vorrei chiarire che uso l’aggettivo ‘critico’ nell’accezione filosofica di ‘razionale’, che è il modo in cui credo di averlo applicato a quanto il teologo scrive. Questo tipo di critica non si fa contro, ma circa un argomento, per valutarne la solidità, ma anche per allargare gli orizzonti. Chi ama il cuore delle cose apprezza questa critica; essa non tende, infatti, a dare un giudizio di valore, a disprezzare l’autore, né tanto meno a cancellare le sue tesi; non si misura in termini di asprezza, né di mitezza, perché è semplicemente una questione di metodo.
Non a caso lo studio scientifico della Bibbia utilizza – da Spinoza in poi – proprio dei metodi con dei criteri e delle tecniche approvate dai collegi degli esperti; essi sono: diacronici, sincronici, storico-critici (condotti con lo strumento della ragione, basati sulle scienze storiche, attenti agli studi comparati e vincolati ai suffragi tratti dall’archeologia); redazionali, narrativi e semiotici, strutturali, canonici e teologici. In tutti questi metodi, la prima indicazione per leggere un testo riguarda la sua delimitazione. Non ho criticato Mancuso di aver tagliato il testo, ma del criterio utilizzato per farlo e dell’uso immediatamente dogmatico dei versetti citati. Lo studio scientifico della Scrittura è frequentato nelle Chiese cristiane riformate e non solo ammesso ufficialmente nella Chiesa cattolica, da più decenni, ma esigito nella formazione culturale dei futuri preti, i quali debbono sapere chi fossero Schleiermacher e Martin Noth, se vogliono conseguire il Baccalaureato in Teologia, necessario per l’accesso ai ministeri ordinati. Ma anche i futuri insegnanti di religione studiano Bultmann e leggono Nietzsche, così come Levinas e Ricoeur. Sanno che Paolo sulle donne ha detto tutto e il contrario di tutto: «Il giudizio di Paolo circa il posto delle donne nella Chiesa è stato il campo di battaglia nel quale le questioni ecclesiali femministe sono state e sono, oggetto di scontro. La sua autorità è stata addotta, sia per ridurre le donne al silenzio, sia per promuoverne l’avanzamento nel ministero». È l’introduzione di un volumetto scritto da grandi teologhe e bibliste come Cettina Militello e Maria Luisa Rigato insieme a Jerome Murphy-O’Connor, uno dei più noti specialisti delle Lettere ai Corinti (Paolo e le donne, 2006, p.11). Credo che sia più doveroso informare sugli attuali approcci alla Scrittura, piuttosto che reiterare gli schemi usati in passato, come fossero ancora attuali.
Concordo pienamente con Mancuso quando dice che «la sottomissione femminile del passato non può non avere una radice anche nel testo biblico» e non mi sognerei mai di affermare che «la sottomissione della donna» non sia stata fondata anche su quelli, anzi ho scritto a chiare note che spesso i testi sono stati arbitrariamente utilizzati dai «sistemi religiosi»; non v’è dubbio che qualcosa debba essere successo per cui la «presenza autorevole delle donne nelle comunità cristiane è quasi subito del tutto sparita». Critico, invece, che Mancuso non faccia minima menzione dell’auto-critica che la Chiesa cattolica stessa ha fatto a proposito di questo modo di procedere, in relazione alla Bibbia. Un testo del Magistero come la Mulieris Dignitatem è stato commentato da una teologa seriamente critica, come Lilia Sebastiani, la quale scrive: «L’adiutorium simile sibi è stato soggetto a tanti equivoci di stampo patriarcale e androcentrico in passato. Se i Padri della Chiesa, non diversamente dai rabbini tradizionalisti, leggevano solo la donna come aiuto dell’uomo e non viceversa – per cui la donna finiva con il ritrovarsi essere aggiunto, complementare, pressoché ‘supplementare’ (…), la Mulieris Dignitatem riconosce e ufficializza quello che l’esegesi del secolo XX e soprattutto la riflessione biblica al femminile avevano già evidenziato, spesso in modo marginale e sospetto, rispetto alla predicazione più ufficiale. La donna e l’uomo sono creati da Dio come aiuto reciproco e non in vista di una funzione (…). Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione» (Consacrazione e Servizio, 5/2008).
Nella sua replica Mancuso chiarisce definitivamente: «È stata la modernità a far evolvere la coscienza occidentale verso la parità uomo-donna e quindi a far sentire l’inaccettabilità delle espressioni bibliche, tra cui quelle di san Paolo». Lo è stato sicuramente per molti aspetti. Ma ogni fenomeno va guardato anche in controluce. Il Concilio ha visto e accolto i «segni dei tempi», ma è stato, a sua volta, un grande «segno dei tempi». Tra il ’700 e il ’900 sono sorte in Europa migliaia di famiglie religiose femminili che si occupavano di welfare, quando ancora gli Stati non avvertivano affatto la responsabilità sociale e non garantivano né la salute, né l’istruzione, né il lavoro. Quanta profezia e ‘modernità’ in quelle donne! E che dire delle Abbadesse medievali che reclamarono il diritto di autonomia nel governo delle cose spirituali e materiali? Già nel primo secolo dell’era cristiana, i Vangeli si posero contro lo strapotere maschile nell’istituto matrimoniale, difendendo il diritto della donna di non essere ripudiata per qualsiasi capriccio del marito, o di non essere lapidata a motivo dell’adulterio (cf Mt 19; Gv 8). Delitti contro le donne ancora atrocemente attuali che le Scritture cristiane denunciano e ripudiano fortissimamente da almeno due millenni! Perché non dire anche questo, e, anzi, oggi, soprattutto questo?
Mancuso invita ad «assegnare il primato non più all’autorità del testo, ma al bene dell’essere umano, a servizio del quale si giunge anche a piegare il testo biblico». Sì, se con ciò si intenda il criterio dettato da Gesù: Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Il testo biblico non va piegato, ma capito e fruito nelle sue intrinseche ragioni; in quell’anima che è la Parola di Dio che modella e trasforma il suo Corpo nelle varie sintassi della storia. In un autentico auspicio di «fioritura dell’umano», la Scrittura va, certo, liberata e «fatta crescere» – diceva Gregorio Magno – ma non cestinata.
Infine, giusto per togliermi dall’imbarazzo, vorrei sdrammatizzare, con due curiose note autobiografiche, la questione dei testi che Mancuso mi addebita di non aver citato. Il primo: «Le donne nelle assemblee tacciano, perché non è loro permesso parlare» (1Cor 14,34-35). Ben diciotto anni fa nella prima ora di lezione sul Corpus Paulinum aprii proprio con questi versetti, con evidente stupore degli studenti. Dissi che chi avrebbe tenuto loro il Corso era una persona non legittimata a farlo, ma, proprio per questo, la più vicina a Paolo, il quale si era trovato, a sua volta, in tali condizioni. Dalle sue Lettere, infatti, si evince che mai fosse stato pienamente legittimato come Apostolo, non facendo parte dei Dodici e che molte fossero le discussioni, i rifiuti, i contrasti che sostenne per affermare la verità del Vangelo e il diritto di annunciarlo. Volli mettere subito in chiaro che, al di là dei contenuti, simile al mio era il pulpito biblico da cui veniva la predica.
Il secondo testo, quello della Prima Timoteo: «La donna impari in silenzio, in piena sottomissione.
Non permetto alla donna di insegnare (…) Ora lei sarà salvata partorendo figli…» (2,11-15). Per uno strano scherzo della vita sono stata la prima donna a tenere una Relazione per la Settimana Biblica Italiana, nell’Aula Magna del Pontificio Istituto Biblico, col pancione… mio figlio nacque dopo un mese, era il lontano 1998! Chissà se Paolo, quel giorno, si rigirò nella tomba; da parte mia sono certa che la salvezza verrà dai figli e spero che sia per tutti, non solo per chi li partorisce.
Rosanna Virgili Avvenire 11 settembre 2016
www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut4529
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CONSULTORI FAMILIARI
Il Vescovo di Andria fa visita al consultorio diocesano “Voglio Vivere”
Il Vescovo della Diocesi di Andria, Mons. Luigi Mansi, ha fatto visita al consultorio diocesano “Voglio Vivere” che ha illustrato tutte le attività svolte dai volontari presenti nella struttura. Volontari adesso sempre più convinti della loro opera grazie al senso di riconoscenza ed ospitalità ulteriormente incrementato grazie alla Visita del Vescovo. Lo spiega bene un servizio televisivo che linkiamo volentieri qui sotto.
Andria 5 settembre 2016
www.videoandria.com/2016/09/05/il-vescovo-di-andria-fa-visita-al-consultorio-diocesano-voglio-vivere-orgoglio-per-i-volontari-il-video/224774578

Crema. Consultorio Familiare Diocesano “Insieme” apre il sito web.
Il Consultorio è situato via Frecavalli 16, 26013 Crema (CR) www.consultorioinsieme.org
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Milano 2. Consultorio Mangiagalli. Insieme Possiamo.
Sono 937 le donne che solo nel 2015 si sono rivolte, al primo trimestre di gravidanza, al Centro di aiuto per la vita Mangiagalli. Ancora oggi e da oltre trent’anni, l’associazione è impegnata a fianco delle donne, delle madri, del nucleo familiare – indipendentemente dall’orientamento culturale, politico e religioso – affinché la scelta di mettere al mondo un figlio sia libera e si possano affrontare e superare insieme quelle ragioni che, in una situazione di solitudine, maternità/paternità difficile, incertezza rispetto al futuro, potrebbero indurre a considerare l’aborto una scelta percorribile.
Dal 1984 l’Associazione Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli lavora per una promozione concreta del diritto alla vita: presso la sede di via Commenda 12 ogni donna è accolta, al primo trimestre di gravidanza, in una piena libertà di accesso, dalle nostre operatrici. Il lavoro finora svolto all’interno della Clinica, sia in reparto sia in connessione con altre realtà; il volano del passaparola, rispetto alle esperienze positive già vissute; la capacità di costruire con ogni singola persona un progetto in cui siano accolti la sua storia, le sue paure ed emozioni, i suoi desideri e le sue speranze, sono i motivi che aiutano le donne a rivolgersi alla nostra associazione.
Le consulenti lavorano per esserci, per essere presenza. L’obiettivo è trasmettere alla persona che si incontra non solo informazioni in merito alle diverse attività svolte dal CAV ma anche la possibilità effettiva, reale, concreta di creare insieme una relazione che potrà accompagnare in questo percorso di scoperta, di vita, di nascita. Il progetto, costruito congiuntamente nel corso del colloquio dall’operatrice e dalla donna, ha lo scopo – grazie alla messa in campo di specialisti che si affiancheranno nei mesi a venire – di accogliere le difficoltà, fornendo loro anche risposte di ordine economico-materiale, e di far emergere quelle risorse speciali di cui ogni persona è portatrice.
L’attività di accoglienza relativa specificatamente ai primi tre mesi di gravidanza prevede la partecipazione quotidiana di un gruppo di lavoro costituito da 5 professionisti:
Un’operatrice presente all’interno della Clinica, dedicata alla diffusione di una corretta informazione sulle possibilità di sostegno, nel corso della gravidanza;
Due consulenti dedicate ai colloqui individuali;
Un’addetta alla gestione delle pratiche burocratico-amministrative;
Una consulente del consultorio per la presa in carico del progetto.
Il costo mensile del progetto Insieme, possiamo è di ottomila euro. Con:
100 euro puoi garantire, ad ogni donna, un giorno di servizio;
360 euro garantisci a quattro donne un giorno di servizio;
1500 euro puoi garantire a 20 donne una settimana di servizio.
www.cavmangiagalli.it/un-progetto-per-il-gala

Pescara- Percorsi di conoscenza di se stessi-
Alla scoperta di nuove possibilità e relazioni soddisfacenti. Il percorso mira, attraverso l’utilizzo di dinamiche esperienziali, a favorire la capacità di auto-ascolto, l’esplorazione di sé e del proprio mondo interiore, per acquisire maggiore consapevolezza di ciò che siamo.
Percorso di conoscenza di Se stessi (1.0) – I° livello
Facilitare il riconoscimento e la valorizzazione delle proprie risorse e l’accettazione/integrazione dei propri limiti. Favorire le relazioni all’interno del gruppo, attraverso stili comunicativi improntati all’autenticità e al rispetto di sé e degli altri. Facilitare l’ascolto dei propri bisogni e la comprensione dei propri stili comportamentali.
Il quadro di riferimento teorico-applicativo è basato sul modello della psicologia umanistica e fornisce ai partecipanti griglie di lettura e modalità di intervento integrate, al fine di offrire agli utenti sostegno e aiuto altamente personalizzati, partendo dalle esigenze e dalle caratteristiche di unicità e soggettività di ogni persona. Il Percorso si articola in 10 moduli di 3 ore ognuno, per complessive 30 ore.
La metodologia di apprendimento è teorico-esperienziale. Attraverso esercitazioni tecnico-pratiche si vuol favorire lo sviluppo e l’integrazione di abilità comunicative e di ascolto utili a migliorare la relazione con l’altro sia in ambito professionale che personale. Il 30% delle ore è dedicato alla parte teorica, il 70% alla pratica guidata.
Referente Progetto: Ivana De Leonardis (Consulente Familiare)
Calendario 1° Gruppo: disponibile a breve
Informazioni corsi@ucipempescara.org
Percorso di conoscenza di Se stessi (2.0) – II° livello
Per l’autunno è previsto un Percorso per coloro che hanno già partecipato al primo anno; sempre svolto in 10 moduli di 3 ore ognuno, più una giornata di approfondimento
www.ucipempescara.org/percorsi/percorso-di-conoscenza-di-se-2.0
www.ucipempescara.org/percorsi/v

Portogruaro consultorio Fondaco Percorsi formativi 2016 – 2017
A passo di coppia percorso per coppie in cammino 20, 27 ottobre, 4 novembre 2016
In ascolto di me laboratorio di espressione e conoscenza di sé: il mio contributo e i miei ostacoli nelle relazioni 10, 17, 24 gennaio 2017
http://www.consultoriofamiliarefondaco.it/?p=1219

Roma 1 Via della Pigna- Corso di Meditazione Profonda e Autoconoscenza
La M.P.A. (Meditazione Profonda e Autoconoscenza) è una via che porta a trovare in ogni essere il centro: prepara la strada per realizzare dentro di sé la presenza divina nel mistero dell’ultimo silenzio. Viene proposta un’esperienza concreta per liberarsi da quei conflitti e da quegli impedimenti emotivi, spesso inconsapevoli, che costituiscono un ostacolo al metodo meditativo.
Il corso consente di compiere un viaggio verso:
1. la scoperta che il proprio essere, pur essendo unitario, è formato da corpo, psiche e spirito;
2. l’accettazione di sé;
3. l’apertura alla dimensione onirica;
4. la guarigione dalle ferite del passato;
5. l’incontro con il proprio Io bambino;
6. la pratica della Meditazione Profonda;
7. il raggiungimento dell’ultimo silenzio
Il Corso, giunto alla sua sesta edizione, sarà animato dalla dr Marzia Pileri, membro del direttivo degli istruttori di Meditazione Profonda e Autoconoscenza, psicoterapeuta e consulente familiare.
Inizierà giovedì 13 ottobre 2016, dalle ore 16.00 alle 19.15, e continuerà nei giovedì successivi, per un totale di 6 incontri: 20 ottobre, 3 – 10 – 17 e 24 novembre 2016.
www.centrolafamiglia.org/corso-meditazione-profonda-autoconoscenza-2016
Centro di ascolto per genitori e familiari di persone omosessuali
RipartiAMO da Noi: un aiuto per ascoltarli, una mano per accoglierli Genitori sempre e per sempre. Davanti al coming out del figlio, davanti alle sue paure, turbamenti, disagi, sofferenze, l’accoglienza incondizionata dei genitori è la risorsa in più, il punto di svolta, la ricchezza cui attingere quando tutto intorno sembra vacillare. Essere genitori oggi vuol dire anche essere pronti a rimettere in discussione il proprio punto di vista, le proprie certezze incrollabili ma soprattutto le proprie aspettative sui figli e aprire la porta e le braccia a farsi nido sicuro e protettivo per la loro crescita anche davanti ad una scelta di omoaffettività.
Per esser risorsa occorre un aiuto, uno spazio in cui potersi narrare, in cui potere aprire il proprio cuore ad un ascolto accogliente ed empatico libero da giudizi e pregiudizi. Occorre un percorso su se stessi per potere essere guida per il figlio e ritrovare quell’equilibrio familiare momentaneamente messo in crisi. Perché la crisi possa diventare un’opportunità di crescita, verità e autenticità, un orizzonte di nuovo dialogo e nuove relazioni e legami significativi. Perché non si cresce da soli ma in comunione e condivisione a partire da ciò che si è realmente.
Il Centro La Famiglia offre un ascolto libero, sereno e qualificato ed un’accoglienza ed un accompagnamento condivisi per una crescita umana ed educativa. Come? Attivando in sede il venerdì dalle 10.00 alle 12.00 per genitori e familiari di persone omosessuali uno sportello di ascolto per incontri individuali; per informazioni ed appuntamenti contattare la Segreteria del Centro.
Tel: 06.6789407 – e-mail: info@centrolafamiglia.org
www.centrolafamiglia.org/ripartiamo-da-noi-una-mano-per-accoglierli-centro-di-ascolto-per-genitori-e-familiari-di-persone-omosessuali

Taranto. Seminario di Formazione su “Confrontarsi sui Bisogni”.
La Scuola Pugliese di Formazione alla Consulenza Familiare organizza un Seminario di Formazione su “Confrontarsi sui Bisogni”, che si svolgerà nei giorni 15 e 16 ottobre 2016 presso il Centro Giovanile “Padre Minozzi” di Policoro (MT).
Conduzione di dr Annamaria Trupo, psicologa, consulente familiare, supervisore AICCeF
dr Salvatore Caputo, consulente familiare, pedagogista
associazioneilfocolare@ilfocolare.it www.ilfocolare.it/p/scuola.html
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CONVIVENZE DI FATTO
Separazione tra conviventi con figli minori: quali diritti e doveri?
Dal mantenimento all’assegnazione della casa: la separazione dei conviventi con figli. Le probabili decisioni del giudice e gli accordi possibili per la coppia. Le diverse domande richiedono un esame della disciplina in tema di cessazione di una convivenza in presenza di figli minori, al fine di valutare quali diritti possa vantare la compagna dell’uomo riguardo al mantenimento (per sé e per il bambino) e alla casa di abitazione della coppia.
Il mantenimento del convivente dopo la separazione. Partiamo innanzitutto da un presupposto: per legge la compagna, nel caso di separazione, non potrebbe vantare alcun assegno di mantenimento per se stessa (inteso come importo in grado di garantire all’ex un tenore di vita analogo a quello avuto durante la vita insieme), non essendo la coppia sposata; tuttavia, la recente riforma sulle convivenze [Legge 20 maggio 2016, n. 76.] ha riconosciuto una maggiore tutela economica ai conviventi di fatto (definito come due persone maggiorenni, anche gay, unite da stabili legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile tra persone dello stesso sesso). La convivenza di fatto di tali soggetti determina, infatti, l’applicazione automatica delle disposizioni di cui alla nuova legge, senza che i conviventi debbano necessariamente registrare in qualche modo il loro rapporto (come invece previsto per le coppie gay che vogliano unirsi con un unione civile). Nello specifico basta che la convivenza risulti in base ad una semplice dichiarazione anagrafica [Ex art.4 e alla lettera b del comma 1 dell’art. 13 del D.P.R. n. 223/1989 – Regolamento anagrafico.]; anche se la legge ammette la possibilità che la convivenza di fatto possa essere provata in altro modo (dalla parte che ne abbia interesse).
Ai conviventi la legge ricollega in modo automatico una serie di diritti connessi alla vita sociale, come – solo per fare un esempio – quello di accesso alle informazioni sanitarie in caso di malattia o di ricovero del partner e, nell’ipotesi di cessazione della convivenza, prevede che quello che tra i conviventi si trovi in condizione di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, possa fare al giudice richiesta per ottenere gli alimenti, ossia una prestazione economica necessaria a far fronte ai bisogni primari. Tale prestazione alimentare, se richiesta al convivente, non ha una durata illimitata, ma potrà essere concessa per un periodo proporzionale alla durata della convivenza. A tal fine la legge, nel determinare l’ordine dei soggetti tenuti a versare gli alimenti, stabilisce che l’obbligo vada adempiuto dal convivente con precedenza sui fratelli e sorelle; ciò significa che dopo i genitori e i figli, l’obbligo grava sul convivente.
Il mantenimento dei figli nella convivenza di fatto. Ciò detto con riguardo ad eventuali pretese economiche da parte del convivente, veniamo al discorso del mantenimento del nascituro. A riguardo, va da subito chiarito che i diritti dei figli sono gli stessi, che siano essi nati fuori o dentro il matrimonio. I genitori debbono, infatti, provvedere al loro mantenimento (così come a dar loro assistenza morale, cura e istruzione) in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la capacità di lavoro professionale o casalingo sia che siano essi sposati, conviventi o separati [Art 316 bis cod. civ. e 337 ter co. 1 cod. civ.3]. Se ciò è vero, d’altro canto però la legge non indica il modo in cui debba avvenire tale contribuzione; non esiste, cioè, un criterio matematico al quale poter fare riferimento per calcolare il contributo periodico dovuto da un genitore all’altro per i figli non autosufficienti, in quanto occorre considerare una serie di fattori ai quali non sempre è possibile attribuire una valore economico.
Nello specifico, la legge individua delle situazioni di cui il giudice deve tener conto nel determinare la misura dell’assegno di mantenimento per i figli quali:
Le esigenze attuali del figlio: ossia le concrete necessità quotidiane e prevedibili del minore, gli esborsi quotidiani necessari per prendersene cura (cibo, vestiario, cure sanitarie, ambiente domestico, ecc);
Il tenore di vita goduto dal figlio durante la convivenza con entrambi i genitori: qui occorrerà guardare allo stile di vita che, prima della (eventuale) separazione, i genitori saranno stati in grado di offrire al bambino con riguardo alle abitudini quotidiane; anche dopo la separazione, infatti, l’obiettivo resta quello di garantire ai figli un tenore di vita il più vicino possibile a quello avuto in precedenza.
I tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore. E’ questo un fattore che non si può stabilire in via meramente ipotetica, visto che il lettore ancora convive con la compagna. Potrebbe essere ad esempio che i conviventi siano disposti ad una soluzione di affidamento alternato, che prevede che il bambino viva per tempi paritari nella casa del papà e della mamma; la legge riconosce ai minori, infatti, il pieno diritto di mantenere, con entrambi i genitori e i parenti di ciascun ramo genitoriale, rapporti equilibrati e continuativi.
Le risorse economiche di entrambi i genitori: e nel caso in esame, il lettore sembra essere – almeno allo stato attuale – l’unico soggetto in grado di portare reddito alla famiglia.
La valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore: la legge, cioè, attribuisce un valore economico (com’è giusto che sia) anche all’attività domestica dei genitori, come pure a quella di accudimento della prole. Attività queste solitamente svolta dalla donna e, che in mancanza, dovrebbero essere demandate a terzi soggetti con la necessità gli esborsi ad esse relativi (basti pensare ai costi di una colf, una baby sitter o una scuola privata).
Ciò detto in linea di massima, alcuni Tribunali hanno elaborato dei loro sistemi di calcolo che, prendendo a riferimento le ipotesi più frequenti di richieste di mantenimento formulate da uno dei genitori, portano ad a quantificazione “di massima” di un assegno pari ad un quarto del presunto reddito del genitore obbligato (se la casa familiare viene assegnata al genitore che richiede l’assegno) ovvero pari ad un terzo (nel caso, più raro, in cui l’altro genitore non chieda o non ottenga l’assegnazione della casa). Così, ad esempio, se al genitore collocatario della prole e assegnatario della casa coniugale non venga riconosciuto alcun assegno di mantenimento, la liquidazione del contributo al mantenimento del bambino potrà prevedere, una quantificazione dell’assegno di un quarto del reddito mensile del padre. Ciò naturalmente, sempre che non risulti l’esistenza di ulteriori fonti di reddito (anche” in nero”) da ambo le parti e tenuto conto della situazione economica complessiva. A tale importo andrà aggiunto l’obbligo di contribuire nella misura del 50% al pagamento delle spese straordinarie; spese queste costituite dagli esborsi legati a necessità degli figli occasionali o imprevedibili, non quantificabili in via preventiva, (ad esempio le spese mediche relative all’acquisto di un apparecchio per i denti o degli occhiali da vista, ecc)”.
La sorte della casa familiare in caso di separazione dei conviventi. Così come per il mantenimento, anche l’assegnazione della casa familiare (ciò il diritto di continuare ad abitarvi) ad uno solo dei genitori (quello ritenuto più idoneo a vivere stabilmente con i figli) è un fattore indipendente: dal fatto che la coppia sia sposata o meno, come pure dal titolo di proprietà.
L’assegnazione disposta dal giudice può avere ad oggetto solo l’abitazione (insieme ad oggetti e arredi) nella quale la famiglia ha vissuto prima della separazione; ciò allo scopo di garantire stabilità alla prole, non allontanandola dal proprio habitat domestico e dalle consuetudini di vita avute durante la coabitazione della famiglia unita. Ciò significa che se, ipoteticamente, uno non convivesse con la propria compagna, in caso di separazione egli dovrebbe senz’altro provvedere al mantenimento della figlio ma non rischierebbe in alcun modo che il giudice possa assegnare la casa paterna alla madre del bambino.
Vediamo, comunque, come la legge disciplina i casi in cui l’immobile sia concesso in comodato d’uso per soddisfare le esigenze abitative della famiglia. In tal caso, come ha chiarito di recente la Cassazione [Cass. Sez. UU., sent. n. 20448/2014.], tali esigenze non possono intendersi cessate con la separazione; quando vi sono figli, infatti, resta ferma la necessità di soddisfare le loro necessità abitative. I giudici supremi hanno perciò affermato che, in questo caso, la lunga durata e la stabilità che caratterizza le esigenze abitative di un nucleo familiare escludono che si possa applicare la disciplina sul comodato precario (che comporta il diritto del comodante di chiedere la immediata restituzione del bene in qualsiasi momento e senza necessità di uno specifico motivo). In pratica, anche se tra padre e figlio non è stato stabilito un termine di durata del contratto di comodato, se esso ha ad oggetto un immobile destinato alle esigenze abitative della famiglia, allora va inteso come un comodato di lunga durata, soggetto alle regole del comodato tradizionale.
Ciò significa, all’atto pratico, che il padre del convivente potrà chiedere il rilascio dell’immobile solo quando:
cessino le esigenze abitative della famiglia (non quindi con la separazione), ma col raggiungimento della autosufficienza economica del nipotino;
quando sorga un suo bisogno urgente e imprevisto di riavere la casa (situazione difficile da ipotizzare per chi come lui risulti proprietario di diversi altri immobili!).
Da quanto detto si comprende che anche se il convivente dovesse acquistare la casa del padre, ciò non farebbe venire meno la possibilità che la sua compagna ne ottenga l’assegnazione in caso di separazione. Se, infatti, l’immobile è di proprietà esclusiva di una delle parti, il giudice, potrà comunque assegnarne il godimento al genitore presso cui abbia deciso di collocare i minori (di solito la mamma, specie se i minori sono in tenera età). In tal caso, tuttavia, nel disporre il contributo al mantenimento in favore del figlio, il tribunale potrà tenere conto del titolo di proprietà (della parte estromessa dal godimento del bene) e, quindi, del valore economico dell’assegnazione, eventualmente stabilendo un assegno di mantenimento di minor importo rispetto a quello astrattamente prevedibile.
Separazione tra conviventi: i possibili accordi. Ciò detto in linea generale, vediamo quali strade si potrebbero prospettare al lettore in caso di separazione dalla compagna, al di fuori di quella (contenziosa) in cui sia il giudice a decidere la misura dell’assegno per il bambino e la sorte della casa familiare. La coppia potrebbe accordarsi in merito al mantenimento e all’affidamento del piccolo e al godimento della casa con maggiore libertà, sottoponendo al giudice le condizioni concordate per ottenerne la semplice approvazione (in termini giuridici “omologazione”). In tale ipotesi, infatti, la legge prevede che “il giudice prende atto, se non contrario all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”.
In altre parole, i conviventi non avrebbero l’obbligo di esibire prove documentali dei redditi o di altro genere al giudice, ma solo di attestare al magistrato di aver trovato una soluzione conforme e comunque non palesemente dannosa per l’interesse morale e materiale del bambino (lo sarebbe, ad esempio, quella in cui i genitori si accordassero affinché la mamma lasci la casa, per andare a vivere con il piccolo in una abitazione assolutamente inadeguata alle sue esigenze, magari perché sottodimensionata o priva di ogni impianto a norma e di qualsivoglia tipo di confort).
Ciò detto, e parlando sempre in astratto, è possibile ipotizzare delle possibili soluzioni in merito alla casa; soluzioni che il giudice potrebbe autorizzare ove le ritenga rispondenti agli interessi del bambino; in mancanza di accordo, invece, egli non potrà che decidere riguardo alla casa familiare di attuale abitazione e ai beni in essa contenuti, senza poter considerare l’utilizzo di diversi immobili.
Ad esempio la coppia può accordarsi:
per la cosiddetta assegnazione parziale della casa, attraverso la sua suddivisione in due unità abitative distinte e separate. Questa forma di assegnazione è da escludersi in due casi: a) se le dimensioni o la struttura non ne consentano la divisione; b) quando tra la coppia vi sia una forte conflittualità;
per l’affido alternato in casa: con esso il bambino rimane nella casa familiare dove, invece, sono i genitori a darsi il cambio. Ciò, per consentire al bambino di rimanere nel proprio habitat domestico senza doversi spostare. Questa soluzione è più facilmente praticabile quando ciascun genitore possa contare sull’esistenza di un altro immobile o dell’ospitalità di un altro familiare (come ad esempio quello dei propri genitori);
l’utilizzo di un’altra casa di cui la coppia abbia la disponibilità: ad esempio, nel caso in esame, il padre del convivente potrebbe mettere a disposizione del nipotino (e della mamma) un appartamento diverso (magari più piccolo dall’attuale).
Il mantenimento dei figli se aumenta il reddito. Per quanto concerne invece il mantenimento, ove gli introiti dovessero aumentare (in ragione della cessione di qualche immobile produttivo di reddito da parte del padre) è naturale che la sua compagna potrà chiedere un aumento del contributo al mantenimento per il figlio poiché ciò significherebbe che il padre potrebbe essere in grado di dare al piccolo maggiori risorse e sostegno. Va comunque tenuto presente che la legge consente, come soluzione alternativa o integrativa dell’assegno di mantenimento, la possibilità di trasferire ai figli anche la proprietà di beni.
E’ altrettanto vero che pure il convivente avrebbe diritto a chiedere una riduzione del contributo da versare al figlio qualora l’attuale compagna dovesse trovare un’occupazione. Il contributo, infatti, è sempre proporzionato ai redditi e alle sostanze di ciascun genitore.
In ogni caso, tenuto conto che l’interesse sarebbe soprattutto quello di garantire il benessere e una serena crescita del bambino, mai come in questo caso è bene pensare a soluzioni che sappiano soppesare tutti gli interessi in gioco: l’interesse della piccolo a stare sia con la mamma che col papà, a ricevere cure adeguate da entrambi, a coltivare e conservare i rapporti con i nonni e gli altri parenti.
Guardare in questa direzione sarà molto più facile e naturale una volta che il bambino sarà nato, senza concentrarsi solo ed esclusivamente su se stessi. Solo con la pratica quotidiana sarà possibile valutare le effettive necessità della nuova famiglia, constatare se vi sia il supporto (da ambo le parti) di altri familiari (nella specie i nonni) e, di conseguenza, guidare la coppia alle soluzioni più adeguate al loro caso se, e solo se, la attuale convivenza della coppia, non dovesse proseguire.
Maria Elena Casarano Lpt 3 settembre 2016
www.laleggepertutti.it/129267_separazione-tra-conviventi-con-figli-minori-quali-diritti-e-doveri
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DALLA NAVATA
XXIV Domenica del tempo ordinario – anno C – 11 settembre 2015.
Esodo 32, 14. Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo-
Salmo 51, 13. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito.
1 Timoteo 01, 12. Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me.
Luca 15, 07. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose (BI)
“Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!”
Il brano evangelico di questa domenica è molto lungo: contiene infatti le tre parabole della misericordia che Luca raggruppa al capitolo quindicesimo del suo vangelo. Avendo già commentato nel tempo quaresimale (IV domenica) la parabola dei due figli (Lc 15,11-32), rifletto oggi sulle due parabole gemelle pronunciate da Gesù per giustificare il suo comportamento criticato da scribi e farisei. Sì, perché Gesù durante il suo viaggio verso Gerusalemme continua a insegnare, registrando però reazioni, contestazioni e più spesso mormorazioni da parte di quelli che, professandosi religiosi e volendosi custodi della Legge, non riescono ad accettare il suo stile e sentono il dovere di recriminare contro di lui.
I primi versetti del capitolo mettono proprio in evidenza due comportamenti opposti nei confronti di Gesù e della sua predicazione. Pubblicani e peccatori si sentono attirati da Gesù e vengono a lui per ascoltarlo, mentre i pretesi giusti, gli osservanti legalisti, denunciano con un certo disprezzo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!”. Il tema della contestazione è significativo: la comunione che si instaura a tavola. Su tale argomento – non lo si dimentichi – la chiesa nascente ha giocato la sua fedeltà a Gesù, ha dovuto scegliere tra ciò che lui aveva insegnato e ciò che veniva dalla venerabile tradizione, ciò che si era sempre fatto (cf., in particolare, At 10): si doveva scegliere se accostare i peccatori e lasciarsi accostare da loro fino ad andare alla loro tavola e ad accoglierli alla propria, oppure rifiutare la comunione della tavola con uomini e donne segnati dal peccato, a maggior ragione da un peccato pubblico e noto a tutti, perché non era lecito instaurare la comunione tra puri e impuri, tra giusti e peccatori.
Nei vangeli Gesù è sovente a tavola, invitato da farisei o da peccatori, e nessuno è mai escluso dalla sua tavola. Mangiare insieme a tavola doveva essere per Gesù un evento carico di significato, una possibilità feconda di comunione, di conversione, di riconciliazione: lo mostra anche solo la moltiplicazione dei pani nel deserto (cf. Lc 9,10-17 e par.), segno profetico di un banchetto nuziale a cui tutti saranno chiamati e nessuno escluso. Gesù vuole raggiungere i peccatori là dove sono e farsi raggiungere dai peccatori dove lui è. A tavola accade qualcosa: attraverso la comunione del cibo passa una comunione non solo di parole, ma di pensieri e di sentimenti, nei quali può operare lo Spirito di conversione e di rinnovamento. Proprio per questo Gesù non è restato nel deserto con il suo maestro Giovanni il Battista, ma ha scelto di entrare nelle città e nei villaggi, nelle case della gente, per sedersi a tavola con gli uomini e le donne che incontrava sul suo cammino di annunciatore del Regno. La sua libertà, il suo stringere le mani di gente “perduta” secondo la Legge, il suo mettersi accanto a gente smarrita, scartata e condannata dall’opinione pubblica: tutto questo scandalizzava!
Per spiegare e rivelare la vera intenzione sottesa al suo vivere la comunione con i peccatori a tavola, Gesù consegna dunque alcune parabole. La prima si apre con una domanda: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?”. Accade a volte che una pecora che, insieme alle altre, forma il gregge e pascola guidata dal pastore, si smarrisca, resti sola, cada in un dirupo, senza poter più raggiungere le altre. È una pecora perduta che può solo conoscere la morte ad opera di bestie selvagge, o delle ferite, o della fame. Allora il pastore lascia le altre novantanove nel deserto e va a cercarla con grande cura, finché non l’ha trovata.
Perché il pastore fa questo, perché si affatica per una sola pecora, quando ne ha altre novantanove? Il vangelo apocrifo di Tommaso riporta questa parabola con una significativa aggiunta: “la pecora più grossa si perse” (detto 107), quasi a giustificare la ricerca da parte del pastore di una pecora più preziosa, dunque più amata. Secondo Luca, invece, il pastore non fa preferenze, ma piuttosto ama tutte le pecore personalmente, perché di ognuna conosce la voce e il nome (cf. Gv 10,3-4.14): questa pecora, dunque, è semplicemente perduta, va verso la morte, e ciò spinge il pastore a cercarla! Quando si ama, non si seguono i calcoli dell’aritmetica! Il pastore non si accontenta di aspettare che la pecora torni, ma va alla sua ricerca, perché ogni pecora, se è amata, va cercata. Come non pensare qui alla strofa del Dies irae: “Quaerens me sedisti lassus”; “Signore, a forza di cercarmi ti sei seduto stanco”? Sì, il pastore della parabola è Dio, che continua a pensare a chi si è perduto, a chi l’ha abbandonato per scelta o per errore, e non si dà pace finché la pecora amata non ritorni nella sua intimità. E così Dio “abbandona” le altre pecore per salvare quella perduta.
Noi conosciamo invece pastori che non hanno questo stile indicato da Gesù. Hanno anche loro cento pecore, ma quando una di loro si perde, assaliti dalla paura ammoniscono le altre: “State attente, restate nel recinto, perché fuori ci sono i lupi, i nemici del gregge. Io vi proteggo stando qui con voi, ma voi non ripetete l’errore della pecora che si è perduta!”. E così il giorno successivo un’altra pecora si smarrisce, ma loro ripetono gli stessi ammonimenti e restano a guardia del recinto. Poi un’altra se ne va, poi un’altra ancora… ma il pastore che vuole proteggere le pecore non va a cercarle. Così resta pastore di una sola pecora, mentre le altre novantanove se ne sono andate, perdute perché il pastore aveva paura, perché era geloso del suo gregge, perché non aveva coraggio né audacia.
Il pastore della parabola di Gesù, invece, cerca, cerca e non si arrende finché non trova la pecora perduta. Allora, caricatala sulle spalle, per evitarle la stanchezza e l’angoscia della solitudine patita, la porta a casa e convoca gli amici e i vicini per fare festa: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Questa festa è profezia, segno della festa che avviene in cielo, perché anche Dio si rallegra quando un perduto è trovato, un morto torna in vita, un peccatore si converte. E attenzione: si converte perché Dio lo cerca, lo trova, se lo carica sulle spalle e lo porta a casa. La pecora resta passiva, è l’azione di salvezza di Dio, sempre preveniente, a salvarla!
Segue poi una parabola parallela, in cui Gesù narra di una donna che ha dieci monete e ne perde una. Allora cosa fa? Si dà da fare, accende la lampada, spazza la casa e cerca con cura, finché non trova la moneta che pensava fosse perduta per sempre. Poi chiama le amiche e le vicine e fa festa insieme a loro. Qui non c’è un animale, che con il pastore ha relazioni, ma solo una piccola moneta. Per capire bene la parabola bisogna però cogliere dove cade il suo accento, ovvero sulla gioia del ritrovamento da parte della donna, evento in cui è inscritta la dinamica pasquale: il perduto è ritrovato, il morto è risuscitato.
Insomma, Dio è sempre alla ricerca del peccatore, non è un Dio dei giusti, dei puri, che ama solo quelli che gli rispondono coerentemente. Dio sa che in verità tutti gli esseri umani sono peccatori, in un modo o nell’altro, e allora cerca di far sentire a tutti e a ciascuno il suo amore fedele e mai meritato. Ci porge questo amore, ce lo offre, ma se noi non sentiamo il bisogno di un Dio che ci renda giusti, se non sappiamo, o non vogliamo sapere, di essere peccatori, allora impediamo a Dio di venirci a cercare. Preghiamo dunque di discernere colui che “cercandoci, si è seduto stanco”, e non pensiamoci nell’ovile, perché siamo pecore perdute!
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10825-costui-accoglie-i-peccatori-e-mangia-con-loro
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DEPRESSIONE
Come aiutare una persona che soffre di depressione?
Si è calcolato che nel 2020 la depressione diventerà la seconda malattia più diffusa al mondo dopo le patologie oncologiche. Secondo i dati del ministero della Salute italiano, il 2% dei bambini e il 4% degli adolescenti hanno avuto almeno un episodio di depressione della durata di due settimane nella loro vita.
Il costo sociale della patologia depressiva in Italia, in termini di ore lavorative perse, è pari a 4 miliardi di euro l’anno, mentre a livello europeo è stato stimato un costo pari a 92 miliardi di euro. Inoltre, secondo l’agenzia italiana del farmaco, solo 1/3 dei malati di depressione assume la terapia farmacologica prescritta e tra questi solo il 31% la prende in maniera appropriata. Sono infatti elevati gli episodi di abbandono della terapia dopo i primi giorni di assunzione a causa degli iniziali effetti collaterali del farmaco, che tuttavia tendono a ridursi drasticamente dopo alcune settimane di trattamento.
Se ci troviamo di fronte a una persona che soffre di depressione, possiamo provare ad aiutarla in diversi modi, mentre ci sono frasi e parole che al contrario sarebbe meglio evitare di dire. Innanzitutto, contrariamente a quanto spesso si tende a pensare, una persona depressa non lo è per sua volontà così come non dipende solo da lei uscirne. Per questo motivo, espressioni di incoraggiamento come “reagisci, dipende solo da te!”, anche se dette in buona fede e con le migliori intenzioni, possono avere un effetto controproducente, in quanto la persona depressa si sente già in colpa ed impotente rispetto alla propria condizione.
Quello che invece si può provare a fare per fornire un aiuto utile, può essere offrirsi di ascoltare e raccogliere il malessere dell’altro per cercare di comprenderlo, calandosi nei suoi panni. Ci si può rendere disponibili con la propria presenza affettuosa e discreta, dicendo semplicemente: “se hai bisogno, io ci sono”, “sono qui per te”. La comunicazione, il dialogo, la capacità di ascolto e di conforto, prima ancora dell’incoraggiamento a reagire, si rivelano come sempre fattori fondamentali quando si vuole fornire aiuto.
Ovviamente ci sono diversi tipi di depressione e diversi livelli di gravità della stessa, come per ogni tipo di malattia. Una persona che soffre di una grave depressione andrebbe sicuramente motivata ad affrontare i propri problemi anche con un professionista psicologo o psichiatra, per ricevere un aiuto psicoterapico e/o farmacologico appropriato.
Spesso, infatti, la terapia con antidepressivi può favorire quel miglioramento sintomatico che rende possibile anche avviare un successivo percorso psicoterapico. In caso di depressione lieve, al contrario, o di tipo reattivo (cioè conseguente alle situazioni avverse della vita), un approccio psicoterapico può già di per sé rivelarsi risolutivo.
Dr Laura Tirloni, psicologa – psicoterapeuta News la salute in pillole 8 settembre 2016
www.lasaluteinpillole.it/news_salute/come-aiutare-una-persona-che-soffre-di-depressione.asp
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FEMMINISMO
Un vero mutamento antropologico
Il femminismo ha provocato un terremoto che ha modificato l’organizzazione stessa del nostro mondo. Ce lo può spiegare?
Non si valutano mai troppo bene gli effetti che le rivendicazioni femministe hanno avuto sulla nostra vita comune. Se l’uguaglianza tra le donne e gli uomini è al tempo stesso il punto di conflitto centrale e il successo decisivo del femminismo, quest’ultimo è andato ben oltre nei suoi effetti, modificando in modo duraturo le condizioni del vivere insieme. Il punto cruciale è la messa in discussione da parte delle femministe della seconda ondata (all’inizio degli anni Settanta) della divisione tradizionale tra una sfera privata femminile e una sfera pubblica maschile. Rifiutando la gerarchia dei ruoli le femministe hanno fatto sparire il muro che separava le due sfere e hanno inaugurato una nuova organizzazione con tre poli: quello pubblico-politico (potere e Stato), quello privato-sociale (mondo del lavoro e società civile) e quello intimo-affettivo (vita sentimentale e familiare).
Ciò che è assolutamente nuovo è che le donne e gli uomini possiedono la stessa legittimità e nutrono le stesse aspirazioni in ognuno di questi tre poli. Non dico che questo sia sempre evidente e facile, ma resta il fatto che, sul piano dei principi, le une e gli altri sono considerati come aventi gli stessi diritti in questi tre ambiti dell’esistenza. Ciò significa che abbiamo messo fine all’assegnazione alle donne di ruoli privati e subalterni. Rivendicando di essere individui pienamente legittimati nella società, per tutte le funzioni e a tutti i livelli, le donne sono diventate “uomini come gli altri”.
Ma, e questo è un punto meno facile da cogliere, abbiamo anche messo fine all’esclusione degli uomini dalla sfera della vita intima e familiare. Questi ultimi chiedono sempre più di parteciparvi, aspirando anche loro a un equilibrio migliore tra la vita privata e quella professionale. Per esprimerlo in modo un po’ provocatorio, direi che gli uomini stanno diventando “donne come le altre”.
Ecco perché penso che stiamo vivendo un vero mutamento antropologico. La condizione femminile è posta sotto il segno della dualità: le donne sono individui di diritto, liberi e uguali, ma restano anche soggetti incarnati e sessuati. Ebbene, si dà il caso che questa duplice condizione, astratta e concreta, stia diventando il modello di ogni condizione. Anche gli uomini si caratterizzano per la dualità esistenziale e sono le donne a mostrare loro il cammino, perché sono state loro a sperimentare per prime come articolare nella propria vita la dimensione privata e quella sociale. È ciò che io chiamo convergenza dei generi, ossia l’avvento di una condizione umana generica di cui le donne costituiscono il modello.
Nelle nostre società occidentali, questa convergenza dei generi è già in atto, con i suoi aspetti positivi e negativi. In che modo questa rivoluzione antropologica del rapporto uomo-donna può portare a relazioni migliori?
La convergenza dei generi non deve essere considerata un livellamento o una disintegrazione delle condizioni femminile e maschile. Al contrario. Essa indica un arricchimento reciproco, per accumulazione, dei ruoli sociali e delle aspirazioni private. Le donne per lungo tempo sono state solo “private”, ridotte alle loro attività domestiche; oggi sono pienamente legittimate nella sfera sociale. Si tratta indubbiamente di un progresso molto positivo, soprattutto perché è la garanzia dell’indipendenza materiale delle donne. Da parte loro, gli uomini oggi s’impegnano nella sfera intima, dopo essere stati solo “pubblici”, possono aspirare alle gratificazioni della vita familiare. Anche di questo bisogna rallegrarsi. Da una parte perché le donne non sostengono più da sole il peso degli impegni privati, dall’altra perché questo cambiamento indica che la realizzazione personale per gli uomini non avviene più solo nel campo professionale, ma che ora possono legittimamente aspirare a un’esistenza privata armoniosa e gratificante.
Si può dunque immaginare un mondo futuro dove i due sessi assumano in modo equo e sereno gli oneri e le gratificazioni della vita privata e anche di quella sociale. Ma bisogna aggiungere subito che questo processo deve essere posto sotto il segno della libertà. In altre parole, non c’è a mio parere un modello ideale di esistenza: alcuni individui scelgono di dedicarsi maggiormente alla vita familiare, altri privilegiano la vita professionale. Che siano uomini o donne poco importa, l’importante è riconoscere loro la libertà di scelta. Una donna che smette di lavorare per dedicarsi ai figli non è più criticabile di un’altra che ritorna al lavoro due settimane dopo aver partorito o di un’altra ancora che fa la scelta di non avere figli. In altre parole, non c’è un modo giusto o sbagliato di essere donne. È proprio questa l’incredibile chance che noi, donne occidentali, abbiamo: quella di scegliere il nostro destino.
Oggi molte donne soffocano la loro natura femminile. Come e perché?
Qualsiasi donna occidentale deve oggi far fronte a una vita privata a volte sinonimo di maternità e a una vita sociale molto impegnativa. Per alcune donne tutto ciò comporta sacrifici nell’ambito della loro vita intima, coniugale e familiare. Di fatto non è sempre facile mediare tra le aspirazioni private e quelle professionali.
E soprattutto perché l’età in cui un individuo è in grado di realizzarsi professionalmente è esattamente la stessa in cui dovrebbe realizzarsi dal punto di vista personale. È tra i trenta e i quarant’anni che si va a vivere in coppia e si fanno figli, progetti che talvolta si scontrano con le esigenze del mondo del lavoro. Ciò crea situazioni a volte molto dolorose, donne che attendono troppo a lungo il “momento buono” per diventare madri e che non lo diventano mai.
I progressi dell’assistenza medica alla procreazione hanno a che fare con questo malessere che circonda oggi la maternità. Poiché le donne hanno meno figli, poiché scelgono generalmente il momento della loro gravidanza, poiché si vedono offrire tecnologie sempre più sofisticate, arrivano a pensare che desiderare un figlio voglia necessariamente dire averlo. Ebbene le cose non sono così semplici: spesso troppo tardi scoprono che è troppo tardi! Da parte mia sono favorevole alla procreazione medicalmente assistita (escludendo la questione delle madri surrogate che pone reali problemi etici), ma osservo, rammaricandomene, che alimenta l’illusione di un’onnipotenza procreatrice.
Che ne è oggi della dimensione incarnata dell’esistenza femminile?
Nella sua versione radicale, il pensiero femminista ha prodotto effetti sul modo in cui oggi concepiamo la condizione femminile, per dirla in breve, l’ha disincarnata. Gli studi sul genere, il femminismo materialista ereditato dalla seconda ondata e la tradizione dell’ugualitarismo repubblicano hanno in comune il fatto di privilegiare una definizione astratta che fa delle donne puri individui di diritto. La condizione femminile contemporanea è definita in termini di uguaglianza e di libertà, in una prospettiva che riduce il corpo femminile a nient’altro che il luogo per eccellenza della dominazione maschile. Ecco perché le tematiche associate alla corporeità femminile sono troppo spesso considerate vestigia della sottomissione delle donne all’ordine patriarcale.
Non nego la fecondità sociologica della nozione di genere. Gli studi sul genere ci permettono di mettere in luce i meccanismi attraverso i quali le disuguaglianze tra donne e uomini si perpetuano. Ma hanno anche implicazioni teoriche che non condivido. Il rifiuto di riflettere in termini di femminile e di maschile e il rigetto della dimensione necessariamente incarnata e sessuata dell’esistenza hanno prodotto un curioso escamotage: il soggetto del femminismo ha perso ogni consistenza, persino ogni realtà. Il pensiero femminista contemporaneo ha in qualche modo fatto sparire il soggetto femminile.
Da parte mia, propongo di reintrodurre la corporeità femminile e dunque anche il soggetto femminile nella riflessione femminista, perché mi sembra importante tener conto di quell’altro aspetto dell’emancipazione costituito per le donne dal presentarsi al mondo e agli altri in un corpo di sesso femminile.
In cosa consiste la singolarità dell’“esperienza del femminile”?
Mi piace definire l’esperienza del femminile come esperienza dell’incarnazione nel rapporto. Poiché le donne non possono vivere prescindendo dalla loro corporeità, e poiché sono dotate di una capacità materna, hanno un rapporto con il mondo che io definisco relazionale. La cosa ha chiaramente a che fare con la maternità, che è solo una potenzialità ma che produce effetti psichici, si concretizzi o meno.
Il semplice fatto di proiettarsi mentalmente nella maternità, una proiezione che nessuna donna può evitare, che voglia o meno dei figli, questo semplice fatto implica una riflessione sulla dimensione relazionale dell’esistenza femminile. Ogni donna sa di disporre di questa capacità di avere e soprattutto di allevare figli, ossia di entrare con loro in un processo di umanizzazione e di socializzazione. Ecco perché sostengo che le donne non sono mai in grado di concepire la possibilità di un’esistenza puramente individuale, ossia di un’esistenza che si dà un senso da sola, che non ha bisogno di nessun’altra esistenza per affermarsi e svilupparsi. In breve, le donne sono individui anti-individualisti. Per dirla in parole semplici, le donne non possono far finta che gli altri non esistano, mentre gli uomini ci riescono molto bene.
Non dico che tutti gli uomini siano egoisti patentati e neanche che tutte le donne siano pure altruiste. Penso semplicemente che non si può far finta che le donne non siano state, per secoli, relegate nella sfera domestica. Questa storia ha ripercussioni su quel che significa essere donna oggi, ossia un individuo allo stesso tempo privato e sociale, segnato dalla responsabilità secolare del parto, della cura dei più anziani e dei più vulnerabili.
Che differenza fa lei tra “femminile” e “femminilità”?
Bisogna distinguere tra ciò che dipende dall’ordine delle rappresentazioni e ciò che dipende dall’ordine dell’esperienza vissuta della corporeità. Quando si ragiona in termini di femminilità e di virilità, si è in una prospettiva essenzialistica di proiezione di un ideale sulla realtà. Disponibilità sessuale, dedizione materna e dipendenza materiale da un lato, vigore carnale, autonomia conquistatrice e sovranità sociale dall’altro. Queste rappresentazioni appartengono a un altro tempo, il tempo in cui il sesso biologico degli individui assegnava loro funzioni e ruoli precisi.
Io rifiuto questo registro della femminilità e della virilità e propongo d’individuare tutto ciò che il femminile e il maschile conservano di singolare in quanto modalità della costruzione identitaria con la quale dobbiamo tutti confrontarci. In un mondo in cui i ruoli e le funzioni non sono più assegnati all’uno o all’altro sesso, credo che dobbiamo più che mai riflettere sul significato che rivestono l’incarnazione e la sessuazione della nostra esistenza. Di fatto, chi può pretendere di vivere come “antropo”, ossia come soggetto puro, fuori da ogni incarnazione? Nelle nostre società desessualizzate, è al contrario la piena padronanza della propria singolarità sessuata a essere il marchio stesso della soggettività.
prof. Catherine Aubin Osservatore Romano 1 settembre 2016
http://www.osservatoreromano.va/it/news/un-vero-mutamento-antropologico
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FERTILITY DAY
I bambini non nascono sotto un Fertility day
Per aumentare la natalità nel nostro paese non basta una campagna pubblicitaria o una ridefinizione del bonus bebè. Servono risorse e misure strutturali che creino condizioni più favorevoli alla scelta di fare figli. Occupazione femminile, investimenti per la prima infanzia e ruolo dei padri.
Perché non basta il bonus bebè. Oggi, in Italia, il bonus per bimbo nato è di 80 euro mensili, complessivamente 960 euro all’anno per tre anni alle famiglie con un reddito che non superi i 25mila euro. I cambiamenti anticipati dal ministro della Famiglia Costa sono tre. Il primo riguarda l’età della madre. Il secondo è un ampliamento dei tempi in cui è possibile percepire il bonus, disponibile dal settimo mese di gravidanza. Il terzo riguarda la stabilità dell’intervento, a differenza delle misure una tantum precedenti. L’intervento ha come obiettivo la ripresa del tasso di fecondità nel nostro paese, che gravita attorno a 1,4 figli per donna ormai da anni ed è stimato dall’Istat a 1,35 per il 2015. Tuttavia, non è solo la stabilità del bonus bebè (o la possibilità di percepirlo prima della nascita del bambino) che può incentivare la natalità italiana. La letteratura che studia l’impatto delle politiche pubbliche sulla fecondità mostra che i trasferimenti monetari alle famiglie hanno effetti limitati: al massimo inducono quelle che già sono orientate ad avere figli ad anticipare la data delle scelte riproduttive.
L’obiettivo generale delle politiche deve essere ridurre i livelli di incertezza in cui si trovano le giovani coppie in Italia, che le porta a spostare più avanti – e a volte a rinunciare – alle tappe della vita adulta: indipendenza dalla famiglia di origine, lavoro, casa, figli. Secondo i dati Ocse, nel 2014 l’Italia era il paese in cui le madri alla nascita del primo figlio avevano l’età più elevata d’Europa: 30,7 anni contro una media Ue-28 di 28,5. La stima Istat per il 2015 è in ulteriore salita a 31,6. Mentre sono in Francia le mamme più giovani: 28,3 anni alla nascita del primo figlio. Questi dati possono giustificare la proposta di condizionare il bonus all’età della mamma. Ma non è necessariamente una buona idea per le ragioni che sono già state discusse. Come argomentano Marco Albertini e Alessandro Rosina, il bonus bebè rischia di essere solo “una misura di sostegno al reddito per coppie la cui situazione economica è poco florida”.
La bassa fecondità non è spiegata da una preferenza a non avere figli: la maggior parte delle donne italiane dichiara di volerne (la fecondità desiderata è di circa due figli per donna), a sottolineare come un contesto più favorevole potrebbe avere un ruolo importante per aumentarla. Un’analisi recente svolta su un campione casuale di circa 700 donne italiane senza figli tra i 20 e i 40 anni rivela che il 91 per cento si aspetta di avere un figlio in futuro e il 68 per cento di averlo nei prossimi tre anni.
Le misure che servono. Cosa crea un contesto favorevole? Servono politiche che incentivino l’occupazione femminile (che come si vede dai confronti internazionali e da quelli tra regioni italiane è positivamente correlata ai tassi di fecondità) e, in particolare, l’occupazione delle madri: secondo i dati Istat, circa il 25 per cento lascia o perde il lavoro dopo la gravidanza.
Occorrono investimenti per la prima infanzia, fortemente rallentati negli ultimi anni: continua a prevalere un modello di cura fortemente legato alle reti familiari e al supporto dei nonni. La possibilità di avere aiuti dai nonni aumenta la probabilità di avere un figlio, ma i nonni difficilmente possono farsi carico di più bambini, e questo limita le scelte di fecondità a un unico figlio. Il rilancio degli investimenti sulla prima infanzia risulta ancora più urgente per le dinamiche demografiche ed economiche che renderanno sempre più difficile il ricorso ai nonni: età di pensionamento allungate, tassi di fecondità tardivi, maggiore mobilità geografica nel mercato del lavoro. È cruciale rafforzare le politiche di incentivo ai congedi dei padri (ancora troppo poco coinvolti nella crescita dei figli, specie nei primi anni di vita, con conseguenze penalizzanti in particolare sulle possibilità occupazionali e sulle carriere delle mamme. Ogni politica di rilancio della fertilità deve includere, come è stato fatto nei paesi nordici, il ruolo dei padri. Associare il rilancio della fecondità solo a incentivi monetari alle madri può non essere particolarmente efficace se il nodo principale che blocca la decisione di fare figli è la divisione del lavoro di cura dei bambini tra uomini e donne, totalmente sbilanciata sulle madri. Dove madri e padri dividono in modo più equo e bilanciato il tempo da dedicare alla cura dei bambini, a partire dai periodi di congedo, la fecondità aumenta.
Le politiche abitative, poco sviluppate nel nostro paese, sono un altro elemento importante per ridurre le incertezze delle coppie giovani e favorire le scelte riproduttive. Non a caso i tassi di fecondità sono tornati a crescere, dopo un forte declino, nei sistemi di welfare più amichevoli nei confronti delle famiglie – nei paesi nordici e in Francia, ma anche in quelli, come la Germania, dove gli interventi sono più recenti e meno generosi. È ora di ripartire, anche nel nostro paese
Alessandra Casarico, Daniela Del Boca e Paola Profeta La voce 5 settembre 2016
www.lavoce.info/archives/42640/i-bambini-non-nascono-sotto-un-fertility-day

Fertilità, la vera anomalia italiana è che ci sono troppi figli unici.
In molti Paesi europei molte donne non hanno figli o cominciano a farli a 30 anni. Però dal Regno Unito alla Finlandia, non si fermano al primo figlio. Perché il problema delle donne italiane non è certo di fertilità. È di disoccupazione. L’Italia è scesa nel 2015 alla cifra di 1,35 figli per donna (tra 15 e 49 anni). È il punto di arrivo di un calo cominciato nel 2010, dopo 15 anni di miglioramento del tasso di fertilità. Non è un dato record, lo stesso indicatore è stato più basso tra il 1986 e il 2005, con un minimo di solo 1,19 nel 1995. Il fatto allarmante però è, ancora una volta, il distacco dell’Italia dal trend europeo, che dal 2013 vede una ripresa di questo tasso, una ripresa non avvenuta nel nostro Paese. Neanche l’aumento degli immigrati, che sempre più stanno adeguando le proprie abitudini riproduttive a quelle degli autoctoni, è bastato a compensare il calo dei figli per donna tra gli italiani.
Dove sta il problema? L’Italia, è vero, è tra i Paesi con il più alto numero di donne senza figli, più del 20% tra i 40 e 44 anni. Solo la Svizzera ci superava negli ultimi dati. Paesi come Regno Unito, Irlanda, Austria, Finlandia comunque non sono molto lontani. Assieme ad altri Paesi nordici sono accomunati all’Italia da un’età media al primo figlio superiore alla media, tra i 29 e i 30 anni, non troppo distante dai 30,7 anni delle italiane.
Eppure il loro tasso di fertilità è decisamente maggiore. Lo si nota bene se incrociamo i dati sulla fertilità, appunto, con quelli sull’età al primo figlio. Non vi è una relazione così chiara e lineare come ci si aspetterebbe tra tasso di fertilità ed età media al primo figlio.
L’Europa appare invece divisa in quattro fasce. Vi sono Paesi in cui nonostante l’età più avanzata della media si ha un tasso di fertilità più alto di quello degli altri. Si tratta di Paesi del Nord Europa, Paesi Bassi, Irlanda, Svezia, Regno Unito, Finlandia. Vi sono certamente quei Paesi che hanno età media bassa e alta fertilità, come ci si aspetterebbe, come Albania, Georgia, Azerbaijan. Quelli che viceversa vedono un età media alta e in cui le donne hanno pochi figli, come Italia, Spagna, Portogallo. Però vi sono anche Paesi in cui nonostante l’età più avanzata della media si ha un tasso di fertilità più alto di quello degli altri. Si tratta di Paesi del Nord Europa, Paesi Bassi, Irlanda, Svezia, Regno Unito, Finlandia eccetera.
A questi corrispondono quei Paesi dell’Est in cui si partorisce prima ma evidentemente ci si ferma a un solo figlio. Il fenomeno è ancora più evidente se incrociamo l’età al primo figlio con il numero di figli stessi, e in particolare con la proporzione di donne con prole numerosa, tre o più figli. Vi sono altri Paesi in cui le donne sono emancipate, studiano, lavorano e in cui sempre più donne di figli non ne fanno. Eppure in questi stessi Paesi è più probabile che una donna dopo il primo figlio intorno al 29-30 anni non si fermi e ne faccia un altro, o due o tre. Ebbene, si conferma questa anomalia che vede Paesi con un’età media della donna al primo figlio poco inferiore a quella italiana avere molte più famiglie con tre o più figli. Anche il doppio se pensiamo a quelle con 4 o più. Si tratta di Irlanda, Finlandia, Regno Unito, anche Francia.
Dunque vi sono altri Paesi in cui le donne sono emancipate, studiano, lavorano, in cui evidentemente non esiste più una cultura che relega le donne solo al focolare domestico e a essere fattrici, certamente Paesi secolarizzati, più dell’Italia, e in cui sempre più donne di figli non ne fanno, eppure in questi stessi Paesi è più probabile che una donna dopo il primo figlio intorno al 29-30 anni non si fermi e ne faccia un altro, o 2 o tre.
Un’altra conferma arriva da un sondaggio sulle aspirazioni delle donne sulla famiglia. L’Italia è tra i Paesi in cui più donne vorrebbero solo un figlio e al contrario in cui meno ne vorrebbero più di due.
Colpisce il contrasto con l’Irlanda, Paese con età media al primo figlio alta quasi a livello italiano, e invece con tasso di fertilità decisamente elevato, dove il 45% delle donne vuole più di due figli, contro il 12% nel nostro Paese. Dunque si può anche cominciare ad avere bambini più tardi, dopo la laurea, dopo aver iniziato la carriera, e averne più di uno o due. Ma non è quello che avviene in Italia. Da cosa nasce allora questo fenomeno, che come si vede è molto frutto di libere scelte e aspirazioni più che di problemi di fertilità? Se incrociamo i dati sulla fertilità con quelli sull’occupazione femminile tra i 25 e i 34 anni abbiamo già una risposta. È interessante farlo a livello regionale, se prendiamo Paesi che hanno fertilità molto bassa come Germania o Spagna ma trend occupazionali differenti osserviamo che una relazione tra occupazione e fertilità esiste: È facile capire che più che un problema di fertilità quello che attanaglia l’Italia è un problema occupazionale, anche per le donne. Non è perfetta, ma c’è. E laddove l’occupazione femminile è più alta anche la fertilità aumenta. Ancora più chiara appare la correlazione se osserviamo le variazioni dal 2009, dall’inizio della crisi: laddove è peggiorata l’occupazione delle giovani donne, anche la fertilità è calata.
Si veda il caso della Germania Est, una volta area con bassissima natalità, dove la ripresa della fertilità è andata di pari passo con un aumento dell’occupazione superiore alla media europea e tedesca.
È facile quindi capire che più che un problema di fertilità quello che attanaglia l’Italia è un problema occupazionale, anche per le donne. E in particolare questo incide sulla scelta di avere più di un figlio, che è la vera discriminante che ci lascia indietro rispetto a Paesi in cui pure le donne aspettano a lungo prima di partorire o in cui in gran numero alla fine non hanno figli. Probabilmente sarebbe più efficace concentrarsi non su un problema medico di fertilità (che in ogni caso per molte coppie può esistere) o sulla scelta di avere un figlio (coloro che non ne hanno affatto non sono in Italia molto più che altrove), ma su quelle famiglie con un solo figlio che non allargano la famiglia magari pur avendone il desiderio.
Specifiche politiche, magari mutuate dagli esempi più virtuosi del Nord Europa, non sarebbero dannose, se non forse per i conti pubblici, ma solo la ripresa di una crescita vera, con un reale aumento dell’occupazione, potrebbe probabilmente invertire il trend che stiamo subendo.
Gianni Balduzzi l’inkiesta 7 Settembre 2016 con tabelle
www.linkiesta.it/it/article/2016/09/07/fertilita-la-vera-anomalia-italiana-e-che-ci-sono-troppi-figli-unici/31686/
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GESTAZIONE PER ALTRI
Unioni civili: la maternità surrogata resta impossibile
La legge italiana vieta l’utero in affitto. E la Cirinnà non consente alle coppie omosessuali la stepchild adoption. Solo uno dei due sarà genitore. Vivere insieme con gli stessi diritti di un matrimonio tra persone etero non è più così complicato. Il problema resta quello di avere un figlio. Con la maternità surrogata o con l’adozione. Uomini o donne legati da unioni civili si vedono costretti a fare degli slalom per colmare il loro desiderio di diventare genitori. Senza entrare in valutazioni morali, vediamo cosa prevede la legge in merito.
Maternità surrogata: che cos’è. La maternità surrogata consente di avere un figlio a chi non riesce a portare a termine una gravidanza. Ciò vuol dire che può interessare sia una coppia eterosessuale con problemi di infertilità sia una coppia omosessuale legata da un’unione civile. Nel caso delle unioni civili tra due persone di sesso maschile, il patrimonio genetico di uno di loro verrà trasferito in laboratorio sull’ovulo di una donna, conosciuta o sconosciuta che sia, ma che, comunque, non diventerà mai la madre legale del bambino.
Una pratica che viene siglata su un contratto per garantire, con tanto di dettagli, la massima trasparenza. Contratto che finirà sul registro dello Stato Civile. Così semplice? All’estero sì. A volte, legalmente, a pagamento. In Italia no. In nessun caso. Perché nel nostro Paese, la legge vieta la maternità surrogata.
Maternità surrogata: è legale? In Italia, dunque, la maternità surrogata è vietata dalla legge [Art. 12, legge n. 40/2004]. Non lo è, invece, in altri Stati, spesso meta non solo di coppie eterosessuali con problemi di fertilità, ma anche da coppie omosessuali che vogliono crescere un figlio. La legge Cirinnà [Legge 76/2016], dunque, che ha regolamentato in Italia le unioni civili rendendole, per molti versi, simili al matrimonio, non si è allineata da questo punto di vista con le normative in vigore in altri Paesi, anzi: per chi ricorre alla maternità surrogata resta la minaccia della reclusione fino a due anni e la multa fino ad un milione di euro.
Ma se il figlio surrogato lo si concepisce all’estero? Le probabilità di vedersi riconoscere in Italia la genitorialità di un figlio concepito all’estero grazie alla maternità surrogata, almeno da entrambi i componenti di un’unione civile, sono pressoché inesistenti. Già la coppia eterosessuale che rientra in Italia con un pargoletto e non dichiara che non è stato concepito da entrambi ma grazie ad un utero in affitto, commette il reato di falsità in atto civile [Art. 495 cod. pen.]. Il fatto si aggrava se il “pupo” non è figlio di nessuno dei due, ma che è nato in laboratorio dall’incontro tra un banco di seme ed un ovulo a pagamento. Nel primo caso, il piccolo sarà riconosciuto figlio del vero genitore biologico. Nel secondo caso, il bambino potrebbe essere dichiarato adottabile.
Nelle unioni civili tra due maschi, invece, il discorso è più lampante. Se entrambi rientrano dall’estero dicendo di essere tutti e due i genitori del bambino, è evidente che la coppia ha fatto ricorso alla maternità surrogata. In questo caso, la paternità del figlio verrà riconosciuta soltanto al padre biologico.
Qual è la differenza, allora, tra le coppie eterosessuali e quelle legate dall’unione civile? Per le prime, esiste la possibilità che chi dei due non è il genitore biologico può adottare il bambino dell’altro, grazie alla cosiddetta stepchild adoption, riconosciuta dalla legge italiana all’interno dei matrimoni. All’interno delle unioni civili, invece, questo non è possibile. Anche se il bambino è nato da una precedente relazione eterosessuale del padre naturale oppure è stato adottato prima che l’unione civile sia stata formalizzata. A meno che la coppia non trovi un giudice indulgente che applichi la norma dell’adozione del coniuge anche alle unioni civili.
Carlos Arija Garcia LPT 7 settembre 2016
http://www.laleggepertutti.it/131870_unioni-civili-la-maternita-surrogata-resta-impossibile
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MATERNITÀ
Dopo uno stupro, una donna rimane incinta. Come possiamo aiutarla?
Come si può aiutare una donna che è rimasta incinta in seguito a uno stupro? E soprattutto qual è il consiglio più utile per lei e la vita che porta in grembo? La risposta arriva da “Docat. Dottrina Sociale della Chiesa” (edizioni San Paolo), a cura della Conferenza Episcopale Austriaca. Una sorta di compendio “2.0” agile e rivolto alle nuove generazioni, con tanto di premessa di Papa Francesco.
Preti e consultori. In caso di stupro, si legge su Docat, vanno distinti due aspetti oggettivi. Da un lato, c’è un crimine terribile commesso contro una donna, un crimine che deve essere perseguito penalmente e considerato moralmente grave e deprecabile. La donna parte lesa deve ricevere immediatamente aiuto sia dalle istituzioni pubbliche, sia da assistenti spirituali. Un prete o il personale appositamente formato negli ospedali gestiti da enti ecclesiastici o nei consultori cattolici aiuteranno la vittima, la consoleranno e le suggeriranno i modi per superare l’accaduto.
Un disegno per il bambino. Dall’altro lato, tuttavia, il bambino che è stato generato è amato da Dio. Indipendentemente dal genitore, Dio ha un disegno su quel bambino. Per quanto siano pesanti le ferite interiori subite dalla donna, il bambino può diventare una consolazione e donarle nuova speranza. Qualsiasi cosa accada, Dio accompagna gli esseri umani e vuole il loro bene. A causa della libertà umana Dio non può impedire il crimine, ma può fare in modo che ne derivi nuova speranza, nuova vita.
Se accade l’aborto. Il bambino che nascerà ha bisogno di tutta la cura e l’amore di sua madre. Tuttavia, anche il contesto sociale della madre deve fare in modo che la donna incinta si senta protetta e accolta. In ogni caso, anche dopo un aborto, i consultori cattolici rimangono a fianco della donna per rielaborare insieme a lei l’esperienza vissuta.
Gelsomino Del Guercio Aleteia 9 settembre 2016
http://it.aleteia.org/2016/09/09/come-aiutare-donna-stupro-incita-chiesa-docat/?utm_campaign=NL_itutm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it
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MIGRANTI MINORI
Migranti, 5mila minori non accompagnati scomparsi da inizio 2016.
Oltre 5mila giovanissimi migranti “scomparsi” nei primi 6 mesi del 2016: 28 al giorno. Un numero di minori stranieri non accompagnati sbarcati in Italia che il 31 luglio di quest’anno aveva già superato quello dell’intero 2015: 13.705 contro 12.360. Molti rimangono confinati per un tempo indeterminato nei centri di prima accoglienza in cui dovrebbero rimanere al massimo 48-72 ore. E dai quali scappano con l’obiettivo di proseguire il loro viaggio verso altri Paesi europei, per poi trovarsi a vagare per strada, esposti a rischi ancora maggiori. Una situazione drammatica che mette in luce tutta l’inadeguatezza del sistema di accoglienza italiano che non riesce a fornire condizioni di vita dignitose alle migliaia di migranti minorenni che sbarcano da soli sulle nostre coste. E che ha indotto Filomena Albano, Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, a invocare una rapida uscita “dalla logica emergenziale” e “l’istituzione di una cabina di regia che abbia la fotografia della disponibilità delle strutture su tutto il territorio, per consentire il trasferimento nella seconda accoglienza nel rispetto dei tempi previsti dalla legge”.
Albano riprende quindi la proposta di una cabina di regia per il coordinamento dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, chiesta da anni dalle realtà del non-profit impegnate in questo campo, ma mai realizzata dalle istituzioni. Con il risultato che, a causa delle continua improvvisazione, la maggior parte dei giovani migranti soli resta bloccato per settimane nei grandi centri cronicamente sovraffollati, privi di servizi adeguati anche dal punto di vista igienico-sanitario. Dai quali inevitabilmente tenta la fuga. Solo 1.850 sono i posti a disposizione dei minori nei centri Sprar, destinati solo a coloro che richiedono asilo in Italia: una rete di piccoli centri gestiti da enti privati che fanno riferimento ai Comuni che hanno aderito a questo sistema di accoglienza, in espansione ma ancora insufficiente. Per gli altri giovanissimi migranti non accompagnati, le possibili destinazioni sarebbero le comunità per minori o le famiglie affidatarie.
Ora una nuova norma consente ai prefetti di disporre l’attivazione di strutture ricettive temporanee di massimo 50 posti, dedicate solo ai minori ultra14enni, nel caso in cui non siano disponibili posti nei centri Sprar o l’accoglienza non venga assicurata nel Comune in cui il minore si trova. “E’ importante verificare l’attuazione operativa di questa possibilità – commenta Albano -, perché si possa offrire un’adeguata tutela dei minori. È necessario poter assicurare loro modalità e standard appropriati ai loro bisogni, con tempi certi e limitati di permanenza in queste strutture temporanee”. “L’Autorità Garante monitorerà l’applicazione pratica e operativa di questa norma”, assicura Albano, che sottolinea la necessità di “una riforma organica della materia attraverso l’emanazione di una nuova legge”.
Per Amici dei Bambini, che con la sua campagna Bambini in Alto Mare si occupa da anni dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, è fondamentale dare la possibilità di intervenire anche alle famiglie. Più di 2mila sono quelle che si sono dette disponibili ad accogliere i minori stranieri non accompagnati. Ma a livello istituzionale questa forma di accoglienza non viene incoraggiata, a parte sporadiche iniziative isolate da parte di alcuni Comuni. Le istituzioni continuano a considerare quella dell’affido familiare una possibilità dispendiosa in termini di tempo e di preparazione. Con la conseguenza che a migliaia di minori sbarcati da soli si nega la possibilità dell’unica vera accoglienza a misura di bambino, quella famigliare, lasciandoli nei grandi centri senza concrete speranze per il futuro. Un futuro che essi scelgono di cercare con la fuga.
Fonti: Agensir, Askanews Ai. Bi. 9 settembre 2016
www.aibi.it/ita/migranti-5mila-minori-non-accompagnati-scomparsi-da-inizio-2016

Minori stranieri non accompagnati, rapporto annuale Sprar
Nel corso del 2015 il numero di minori stranieri non accompagnati accolti nei progetti del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) è aumentato in maniera significativa rispetto all’anno precedente: si è passati infatti dai 1.142 nel 2014 ai 1.640 nel 2015, su una rete attiva di 977 posti. È quanto emerge dal Rapporto annuale 2015 del Sistema Sprar, presentato di recente. La pubblicazione riporta i dati sul Sistema Sprar per l’anno 2015 e approfondisce alcuni aspetti qualitativi della rete, tra cui i servizi e le modalità di accoglienza, l’organizzazione delle équipe dei singoli progetti, l’attività formativa per gli operatori.
Un paragrafo del primo capitolo è dedicato ai minori stranieri non accompagnati nella rete Sprar. Secondo i dati forniti dal rapporto, il primato della nazionalità gambiana rimane invariato rispetto all’anno precedente con il 35,5% degli accolti. Seguono il Senegal (11,3%), il Mali (10%), la Nigeria (8,4%), l’Egitto (5,5%), il Bangladesh (4,5%), l’Afghanistan (4,1%), la Costa D’Avorio (3,4%), il Ghana (3,3%) e il Pakistan (2,7%).
Riguardo alla distinzione di genere, rimane costante la presenza pressoché assoluta di minori di sesso maschile, pari al 99,8% degli accolti. I dati relativi all’età rivelano che oltre la metà (52,7%) dei minori stranieri non accompagnati accolti nella rete Sprar risulta neomaggiorenne al momento della rilevazione. Il 45,8% è compreso nella fascia tra i 15 e i 17 anni, mentre l’1,3% ha tra i 12 e i 14 anni e lo 0,2% tra i 6 e gli 11 anni.
«La tipologia di permesso di soggiorno prevalente tra i minori», si legge nel rapporto, «è in linea con il dato complessivo della categoria degli adulti accolti: il 59% è infatti richiedente protezione internazionale, a testimonianza del veloce inserimento all’interno dei progetti della rete Sprar poco dopo l’arrivo sul territorio italiano. Il 34% è titolare di protezione umanitaria, il 4% è titolare di protezione sussidiaria e il 3% è rifugiato».
Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza 4 agosto 2016 http://www.minori.it/it/node/5707
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PADRI DIVORZIATI
Il dramma dei padri separati ridotti a bancomat.
A seguito della separazione sempre più uomini, nel nostro paese, si ritrovano a fine mese con in tasca pochi spiccioli. Il dramma dei padri separati, in Italia, c’è ed è ormai innegabile. Recenti studi condotti dall’Università Cattolica di Milano hanno raccontato che il 15% degli uomini che, a seguito di una separazione, versano il mantenimento ad ex e figli a fine mese trova in tasca un reddito residuo di soli cento euro. I più fortunati, invece, aprendo il portafoglio ne trovano quattrocento. Nelle mense dei poveri sparse per il paese, inoltre, si registra la crescente presenza di uomini in giacca e cravatta che a viso basso sono costretti a sfruttare il servizio di pasto gratuito per sperare arrivare a fine mese. Nei giorni scorsi, in Brianza, si è addirittura svolta una manifestazione di protesta da parte di padri che si trovano in questa spiacevole situazione e che chiedono un intervento del Governo per sistemare questo aspetto, delicato, della separazione, nella consapevolezza che tutti, anche loro, ne escono spesso come parti lese. Sotto il cartello “Papà c’è” si sono radunati numerosi uomini, alcuni che si sentono meri bancomat, altri che nonostante l’affido condiviso passano pochissimo tempo con i propri figli, tutti insoddisfatti del modo in cui le vicende della loro separazione sono state gestite dal sistema.
Qualche mese fa, proprio a testimonianza di come il problema sia sentito nel nostro paese, in Consiglio dei ministri è approdata una proposta di legge, fatta dalla Regione Friuli Venezia Giulia, nella quale si prevede sia l’introduzione di un assegno mensile a sostegno dei padri divorziati in difficoltà economica che la creazione, per loro, di una corsia privilegiata nella stesura delle graduatorie per gli alloggi pubblici
Padri divorziati: arriva la tutela per legge. A lanciare la proposta di legge è il Friuli Venezia Giulia ma il modello è replicabile a livello nazionale. Un assegno mensile per i papà divorziati che si trovano in grave difficoltà. E una corsia privilegiata nelle graduatorie per gli alloggi. A prevederlo, come riportato dal quotidiano Il Piccolo, è una proposta di legge del Friuli Venezia Giulia, approdata in consiglio nei giorni scorsi. Una proposta regionale che costituisce senz’altro un modello replicabile a livello nazionale, dato che la categoria dei padri separati e divorziati rientra ormai, insieme a precari, licenziati e altre situazioni di disagio, nelle “nuove povertà”. Il testo, che ha come primo firmatario il consigliere regionale di autonomia responsabile, Giuseppe Sibau, nasce proprio dalla consapevolezza delle condizioni di estrema difficoltà economica (e non solo) in cui versano soprattutto i padri che si trovano ad affrontare procedimenti di separazione o di divorzio.
Secondo le statistiche, infatti, nel 90% dei casi, spiega al quotidiano di Trieste il consigliere, sono loro la parte “lesa”, tenuta a versare assegni di mantenimento ai figli mediamente pari a 400 euro mensili, oltre ad essere costretti ad abbandonare la casa (che spesso viene assegnata all’ex moglie) e a cercarsi una nuova sistemazione. Considerato che più della metà dei separati con figli minori, afferma Sibau “appartengono alla categoria di insegnanti, impiegati e operai con retribuzioni umili e che l’orientamento dei giudici è di fissare in ‘un terzo dello stipendio’ la somma che il marito deve versare per il mantenimento dei figli, è evidente che non soltanto le donne, ma anche gli uomini rischiano di trovarsi con problemi seri”. Da qui la proposta, che mira a garantire ai mariti in gravi condizioni di povertà un sostegno di natura economica “finalizzato – si legge nella premessa dell’articolato – al recupero e alla conservazione dell’autonomia e di un’esistenza”. Ad essere prese in esame, inoltre, le politiche abitative aprendo la via ad interventi mirati nei confronti di chi non dispone più di un alloggio ed è destinatario di provvedimenti (anche provvisori) emessi dall’autorità giudiziaria. Su questo punto, peraltro, l’attenzione della regione è già molto alta e prevede una “riserva” nei bandi Ater a favore dei padri separati e divorziati che, considerati alla stessa stregua degli sfrattati, hanno diritto a punteggi molto più alti in graduatoria.
Valeria Zeppilli newsletter studio Cataldi 8 settembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/23275-il-dramma-dei-padri-separati-ridotti-a-bancomat.asp
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PARLAMENTO
Unioni civili e convivenze di fatto
Informazioni aggiornate a venerdì, 5 agosto 2016
Il Parlamento ha approvato la legge n. 76 del 2016, che detta due distinte discipline:
La regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso;
La regolamentazione delle convivenze di fatto, che può riguardare sia coppie omosessuali che eterosessuali.
Con il D.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144 sono state dettate disposizioni regolamentari per la costituzione ed iscrizione dell’unione civile nei registri dello stato civile.
Le unioni civili. L’unione civile tra persone dello stesso sesso – considerata “formazione sociale” ai sensi degli artt. 2 e 3 della Costituzione – è costituita da due persone maggiorenni dello stesso sesso, mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni.
Il regime patrimoniale ordinario dell’unione civile omosessuale consiste nella comunione dei beni (art. 159 c.c.), fatta salva la possibilità che le parti formino una convenzione patrimoniale. Resta ferma la possibilità di optare per la separazione dei beni.
Sono disciplinati dalla proposta di legge i diritti e doveri derivanti dall’unione civile omosessuale, sulla falsariga dell’art. 143 del codice civile sul matrimonio (ad eccezione dell’obbligo di fedeltà). Oltre all’applicazione della disciplina sugli obblighi alimentari prevista dal codice civile, la costituzione dell’unione comporta che le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri: in particolare, si fa riferimento all’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale, alla coabitazione nonché al contributo ai bisogni comuni, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo. Analogamente, è stabilito che l’indirizzo della vita familiare e la residenza comune siano concordati tra le parti. Viene, inoltre, estesa alle unioni civili tra persone dello stesso sesso la disciplina del cd. ordine di protezione da parte del giudice, in caso di grave pregiudizio per l’integrità fisica o morale di una delle parti.
In caso di decesso di una delle parti dell’unione civile prestatore di lavoro andranno corrisposte al partner sia l’indennità dovuta dal datore di lavoro (ex art. 2118 c.c.) che quella relativa al trattamento di fine rapporto (ex art. 2120 c.c.).
In relazione alla successione, si applicherà ai partner dell’unione civile parte della disciplina contenuta nel libro secondo del codice civile.
Con l’eccezione delle disposizioni del codice civile non richiamate espressamente e di quelle della legge sull’adozione, le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi», «marito» e «moglie», ovunque ricorrano nelle leggi, nei regolamenti, negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, troveranno applicazione anche alla parte della unione civile tra persone dello stesso sesso.
Quanto allo scioglimento dell’unione civile, viene ripresa gran parte della normativa relativa alle cause di divorzio, sia in relazione alle cause di scioglimento che per quel che riguarda le conseguenze patrimoniali. Saranno, poi, applicabili alle stesse unioni civili le discipline acceleratorie della separazione e dello scioglimento del matrimonio (negoziazione assistita, procedura semplificata davanti al sindaco quale ufficiale di stato civile).
Viene poi data attuazione a quanto indicato dalla Corte costituzionale con riguardo alla rettificazione del sesso di uno dei coniugi: se, infatti, dopo la rettificazione di sesso, i coniugi manifestano la volontà di non sciogliere il matrimonio o non cessarne gli effetti civili, questo si trasforma automaticamente in unione civile tra persone dello stesso sesso.
La presenza di specifiche cause impeditive individuate dalla proposta di legge è causa di nullità dell’unione. Il vincolo giuridico derivante dall’unione civile è, in particolare equiparato a quello derivante dal matrimonio per un ulteriore aspetto: tra le citate cause impeditive è indicata – oltre la sussistenza di un vincolo matrimoniale – anche la sussistenza di una precedente unione civile omosessuale.
Le convivenze di fatto. In base alla nuova legge, la convivenza di fatto può riguardare tanto coppie eterosessuali quanto coppie omosessuali. Sono considerati conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale e coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
Sono estesi ai conviventi di fatto alcune prerogative spettanti ai coniugi (in buona parte sono così codificati alcuni orientamenti giurisprudenziali). Si tratta, tra gli altri: di diritti previsti dall’ordinamento penitenziario, del diritto di visita e di accesso ai dati personali in ambito sanitario; alla facoltà di designare il partner come rappresentante per l’assunzione di decisioni in materia di salute e per le scelte sulla donazione di organi; di diritti inerenti la casa di abitazione; di facoltà riconosciute in materia interdizione, inabilitazione e amministrazione di sostegno; del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito.
I partner possono, inoltre, stipulare un contratto di convivenza, attraverso il quale disciplinare i loro rapporti patrimoniali.
La proposta specifica i possibili contenuti del contratto, attraverso il quale i partner possono fissare la comune residenza, indicare le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, scegliere il regime patrimoniale della comunione dei beni, cui si applicano le regole del codice civile.
Il contratto di convivenza si risolve in caso di morte; di recesso unilaterale o di accordo tra le parti; in caso di matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente e un terzo.
Alla cessazione della convivenza di fatto potrà conseguire il diritto agli alimenti in capo ad uno dei due partner. Tale diritto deve essere affermato da un giudice ove il convivente versi in stato di bisogno e non sia non è in grado di provvedere al proprio mantenimento (ex art. 438 c.c.). Spetta allo stesso giudice determinare la misura degli alimenti (quella prevista dal codice civile) nonché la durata dell’obbligo alimentare in proporzione alla durata della convivenza.
www.camera.it/leg17/522?tema=unioni_civili_e_convivenze_di_fatto
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PROSTITUZIONE
Prostituzione, punire i clienti è un primo passo
Intervista all’On. Caterina Bini (Pd), firmataria di una proposta di legge che, sull’esempio francese e di altri Paesi europei, vorrebbe introdurre sanzioni per chi compra un corpo umano a fini sessuali. Il “mestiere” più antico del mondo non sarebbe un male ineluttabile, la lezione viene dai paesi scandinavi e già altre democrazie europee la stanno assimilando
Anche in Italia, il 13 luglio 2016, è stata presentata alla Camera dei deputati una proposta di legge per sanzionare chi “compra” un corpo umano per fini sessuali. Prima firmataria è l’On. Caterina Bini (Pd) che, con altri deputati della maggioranza, vorrebbe modificare un articolo della “legge Merlin” sulla prostituzione (l’art. 3), la normativa che negli anni Cinquanta pose fine alle “case chiuse” per intenderci, n. 75 del 20 febbraio 1958, così da introdurre «sanzioni per chi si avvale delle prestazioni sessuali di soggetti che esercitano la prostituzione». Assegnata alla Commissione Giustizia ma ancora non discussa, la proposta di legge “C. 3890” (così è rubricata a Palazzo Montecitorio), è stata snobbata dai grandi media e partiti ma, soprattutto dagli ambienti cattolici e dell’associazionismo sociale, è vista con grande interesse e, diremmo, speranza.
www.camera.it/leg17/126?tab=2&leg=17&idDocumento=3890&sede=&tipo=
La proposta di legge dell’On. Bini si ispira al cosiddetto “modello nordico”, ovvero alla legislazione di quei Paesi, come Svezia, Norvegia e Islanda e, più recentemente Francia, che hanno introdotto pesanti sanzioni contro i clienti per scoraggiare il fenomeno della prostituzione. Accanto alla penalizzazione dell’acquisto di sesso a pagamento, la Svezia ha cominciato, già nel 1999, a portare parallelamente avanti anche un preciso percorso prevenzione e culturale della prostituzione, che ha prodotto un vero e proprio cambiamento di mentalità. Il concetto di base è che la compravendita del sesso è una forma di violenza, svilisce l’essere umano e la famiglia, minando nel profondo il concetto della pari dignità uomo-donna.
Oltre al nord Europa, un Paese importante come la Francia ha approvato, nel silenzio della nostra classe culturale e politica, una legge entrata in vigore lo scorso 15 aprile 2016 che non si propone di regolamentare solo la prostituzione, ma mira proprio abolirla. I principi su cui si basa la legge francese sono 4
Una società civile non può tollerare la vendita dei corpi umani;
L’idea dei «bisogni sessuali incontenibili» dei maschi appartiene a una concezione arcaica e degradante della sessualità che favorisce lo stupro;
La prostituzione non può in alcun modo essere considerata un’attività professionale, a motivo dello stato di costrizione che per lo più è all’origine dell’ingresso in essa, della violenza che la caratterizza e dei danni fisici e psicologici che provoca;
È fondamentale, da parte delle politiche pubbliche, offrire alternative credibili alla prostituzione, garantire i diritti fondamentali alle persone che si prostituiscono, contrastando decisamente la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale.
Di tutto questo ed altro parliamo con la prima firmataria della proposta di legge da poco depositata nel Parlamento italiano, On. Caterina Bini.
D. La normativa da Lei recentemente proposta prevede sanzioni per chi si avvale di prestazioni sessuali da parte di prostitute, perché spostare tutto il problema solo sull’aspetto della “domanda”?
R. Perché la prima legge dell’economia è che se diminuisce la domanda, ne consegue una diminuzione dell’offerta. La nostra proposta di legge mira proprio a questo, partendo dal presupposto che le donne che sono sulle strade, spesso minorenni, sono vittime. Donne sfruttate, oggetto di tratta, con organizzazioni criminali alle spalle che ne sfruttano il corpo per fini economici. Si punisce il cliente perché questo mercato si riduca e di conseguenza gli sfruttatori e i criminali non trovino più un terreno fertile.
D. Cosa ne pensa di chi propone di riaprire le “case chiuse” o di creare zone a luci rosse nelle più grandi città?
R. Sono assolutamente contraria. Dove questo è stato fatto, penso in particolare all’Olanda e alla Germania, gli effetti sperati non sono arrivati. Obiettivo di quelle legislazioni era regolarizzare il mercato, eliminare lo sfruttamento. In realtà, come dichiarano lo stesso sindaco di Amsterdam ed il governo tedesco, questi modelli non hanno funzionato. Le case chiuse sono gestite da organizzazioni criminali, lo sfruttamento arriva ai massimi livelli in questi paesi, le ragazze che stanno nelle “vetrine” o nelle case sono delle vittime e spesso comunque l’evasione mantiene livelli elevati perché le ragazze non hanno piacere a dichiarare che fanno questo mestiere.
D. Alcuni parlamentari, anche nelle scorse legislature, hanno sostenuto che la prostituzione sia un lavoro come gli altri (usando, come spesso accade, apparentemente innocue parole inglesi: “sex workers”). Così, dicono, le prostitute potranno essere soggetto al pagamento delle tasse, ma ci converrebbe davvero arrivare a un tale sconvolgente trapasso di cultura e civiltà?
R. Molti partono dal presupposto che si debba salvaguardare la libertà delle donne che scelgono di fare questo “mestiere”. Intanto bisognerebbe capire quante sono davvero libere. I dati ci dicono che nella stragrande maggioranza dei casi le ragazze sono sfruttate, straniere, arrivano in Italia con la promessa di un lavoro e vengono picchiate e messe sulla strada. La libertà di queste ragazze conta meno di quelle, poche, che lo fanno liberamente? E poi, anche chi sceglie di farlo spesso lo fa perché in condizioni di povertà o perché ha subito violenze nell’infanzia. Dovremmo approfondire il concetto di libertà che non è fare ciò che si vuole, ma scegliere nel rispetto di sé stessi e degli altri.
D. Da donna ed esponente politico che rappresenta la maggioranza di governo, cosa dire e proporre a proposito del macroscopico fenomeno dello sfruttamento di migliaia di ragazze sulle nostre strade, vendute e acquistate e alla fine gettate come se fossero prodotti “usa e getta”?
R. La legislazione italiana punisce correttamente lo sfruttamento, l’adescamento, la tratta, la prostituzione minorile. Questi sarebbero i fenomeni da colpire. Nei fatti la nostra legislazione non ha funzionato. Credo non sia più possibile chiudere gli occhi e porsi solo il problema del pubblico decoro. È come mettere la polvere sotto il tappeto. Il problema è molto più serio. Io e molti altri colleghi non siamo più disponibili a fare finta di niente. Grazie alla Comunità “Papa Giovanni XXIII” che ci ha messo di fronte alle storie di queste ragazze ed agli scout dell’Agesci della provincia di Pistoia abbiamo fatto un percorso per conoscere davvero il fenomeno e ora non intendiamo fermarci. Sono felice che quest’estate il Santo Padre abbia scelto di fare visita a queste giovani donne. Spero che questo possa risvegliare le coscienze di molti.
D. Per l’attuale dinamica della prostituzione, in Italia e nel mondo, è corretto parlare di “riduzione in schiavitù” di migliaia di persone, specie immigrate?
R. Assolutamente sì. Una giovane donna di cui non dico il nome, ci ha raccontato la sua storia. È arrivata in Italia con la promessa di un lavoro da badante, è stata picchiata, violentata, le sono state tagliate le orecchie, ha delle lesioni profonde sulla pancia dove le saltavano con i tacchi a spillo. Sanguinante e fasciata è stata mandata in strada, i clienti hanno consumato quella sera come sempre rapporti sessuali con lei. Come lei molte altre, sempre la stessa storia. Nel mondo il secondo mercato per profitti della criminalità organizzata, dopo il commercio di droga è lo sfruttamento sessuale. Non possiamo più attendere a trovare una soluzione al problema.
D. Abbiamo accennato ai Paesi europei che si sono avviati già da anni sulla strada della punibilità della prostituzione. Secondo recenti dati forniti dalla polizia svedese, il provvedimento che punisce i clienti in questo Paese avrebbe contribuito anche a ridurre il numero di persone che si prostituiscono e avrebbe esercitato un notevole effetto deterrente sulla tratta a fini di sfruttamento sessuale. Un tale risultato si avrebbe anche in Italia se introducessimo una normativa sanzionatoria del fenomeno?
R. La speranza è esattamente questa. Anche il parlamento europeo recentemente ha approvato una risoluzione per indirizzare gli stati membri ad adottare questo modello, partendo proprio dai dati, dalla difesa della dignità della donna, dalla lotta allo sfruttamento. Ad oggi la punibilità del cliente pare l’unico modello in grado di garantire questi obiettivi. Se poi ce ne sono altri, ben venga chi ha idee, certo non possono essere quelle ascoltate fino ad oggi che hanno fallito da ogni punto di vista.
D. Cosa ne pensa degli obiettivi e delle modalità della recente legge francese?
R. Penso che sia una buona legge e giudico importante che la Francia abbia agito con coraggio in questa direzione. Speriamo che questo aiuti anche il dibattito italiano. Da parte mia sono contenta che colleghi di diversi schieramenti politici abbiano sottoscritto la proposta, così come considero importante che si sia aperto un dibattito. Molte critiche sono arrivate, ma anche molti apprezzamenti ed alcuni contatti importanti, tra cui una rete di Ong a livello internazionale che da sempre si battono su questi temi. Ho ricevuto molte mail da altri Paesi che mi invitano ad andare avanti. Sono determinata in questa direzione e spero che la società civile dia un sostegno in tal senso.
Giuseppe Brienza La Croce quotidiano 31 agosto 2016
www.lacrocequotidiano.it/articolo/2016/08/31/politica/intervista-a-caterina-bini-pd
Vedi pure www.avvenire.it/Commenti/Pagine/Nella-lotta-alla-prostituzione-punire-i-clienti-il-primo-passo-.aspx
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UNIONI CIVILI
Breve nota sulla regolamentazione delle unioni civili
La legge 20 maggio 2016, n. 76, ha istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso ed introdotto una regolamentazione per le convivenze di fatto.
Con riguardo alla prima, si segnala che la sua validità è subordinata alla dichiarazione dinanzi all’ufficiale di stato civile, alla presenza di due testimoni, ed alla registrazione nel relativo archivio con l’indicazione del regime patrimoniale e dell’eventuale scelta del cognome comune. Essa è impedita (a pena di nullità) in presenza di un precedente vincolo matrimoniale o unione civile di uno dei due contraenti, un rapporto di parentela, affinità o adozione tra le parti secondo le definizioni del c.c. (con l’aggiunta della parentela zio-a/nipote) oppure di una condanna di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia stato coniuge o unito civilmente con l’altra parte.
L’unione civile può essere impugnata da ciascuna delle parti, dagli ascendenti, dal pubblico ministero e da chiunque abbia un interesse legittimo e attuale ed annullata in presenza di condotte violente di un partner, salva la possibilità della vittima di chiedere al giudice civile l’allontanamento del violento dalla casa comune (c.d. ordine di protezione ex art. 342-ter c.c.). Come per il matrimonio, anche all’unione è riservata una speciale procedura per il suo scioglimento, che può essere disposto per volontà, anche disgiunta, delle parti, decorsi tre mesi dalla manifestazione di tale volere all’ufficiale di stato civile.
Il provvedimento contiene una delega al Governo, da esercitare entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, per adeguare l’ordinamento giuridico (leggi, regolamenti e decreti), ed in particolare l’ordinamento dello stato civile, alle disposizioni della legge. Per gli stranieri che desiderino contrarre un’unione civile è richiesto l’ulteriore requisito del documento attestante la regolarità del soggiorno sul territorio nazionale (come per il matrimonio, ex art. 116 c.c.).
Come accennato in premessa il provvedimento regolamenta anche la convivenza di fatto, definendola un rapporto tra maggiorenni uniti stabilmente da legame di coppia (desumibile dalla dichiarazione anagrafica) e di reciproca assistenza, senza vincoli di parentela, affinità o adozione. Ai conviventi sono concessi gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dal diritto penitenziario [Quali, ad esempio, i diritti di visita e colloquio ai detenuti e di legittimazione alla richiesta di misure alternative alla detenzione ex artt. 18 e 57 dell’Ordinamento penitenziario], ed è previsto in caso di ricovero o malattia il diritto reciproco di visita e accesso alle informazioni personali riservate.
La legge prevede, ai commi 50 e seguenti dell’articolo unico che la compone, che i conviventi possano disciplinare i rapporti patrimoniali mediante “contratto di convivenza” sul quale è opportuno brevemente soffermarsi. Tale contratto dev’essere obbligatoriamente redatto in forma scritta e con sottoscrizione autenticata, e dev’essere trasmesso al comune di residenza della coppia a cura del professionista che ha autenticato le firme, ai fini dell’iscrizione anagrafica. Il contratto può contenere:
L’indicazione della residenza;
Le modalità di contribuzione della coppia alle necessità della vita in comune;
Il regime patrimoniale scelto.
Esso è affetto da nullità insanabile se concluso:
In presenza di rapporti di parentela, affinità o adozione;
Da persona di minore età o interdetta;
Da condannato per omicidio consumato o tentato nei confronti del coniuge dell’altra parte.
Il contratto di convivenza si risolve per (comma 59):
Accordo tra le parti;
Recesso unilaterale;
Matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona;
Morte di un contraente.
In caso di cessazione della convivenza di fatto il giudice stabilisce il diritto del convivente a ricevere dall’altro “gli alimenti”, qualora non possa provvedere al proprio mantenimento; questi ultimi sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza (desunta dalla data di iscrizione anagrafica della coppia).
Si ritiene utile concludere questo breve lavoro soffermandoci sulla “clausola di salvaguardia” contenuta nel comma 20 dell’articolo unico, che estende alle parti dell’unione civile, “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi”, leggi, regolamenti, atti amministrativi e contratti collettivi che si riferiscono ai coniugi, ad eccezione delle disposizioni in materia di adozioni (previste dalla legge 4 maggio 1983, n. 184). A tale riguardo si segnala che, sebbene prevista nel testo originario del disegno di legge, nel corso dei lavori parlamentari è stata soppressa la previsione che consentiva la stepchild adoption da parte dei contraenti l’unione civile, vale a dire la possibilità di adozione da parte di uno di essi del figlio biologico dell’altro. Precisa il comma 20 che “[…] resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”, lasciando quindi aperta la possibilità per i giudici di effettuare, in tema di adozioni, valutazioni caso per caso nel supremo interesse del minore.
È del 26 maggio 2016 scorso la prima decisione nel senso da parte di un tribunale di merito dopo l’entrata in vigore della c.d. legge Cirinnà: la Corte d’Appello di Torino ha concesso l’adozione incrociata delle rispettive figlie per una coppia di donne sposate in Danimarca nel 2014. Nella decisione i giudici hanno tenuto conto del livello di accudimento dei minori e del clima “sereno e positivo” dell’unione civile ed hanno applicato la legge n. 184/1983, laddove prevede, al Titolo IV, le “adozioni in casi particolari”.
A conclusione di questa analisi si vuole soffermarci sulla portata giuridica del già citato comma 20, laddove l’equiparazione dell’unione civile al coniugio nelle leggi, regolamenti, atti amministrativi e contratti collettivi è effettuata “al solo fine d assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi”.
Come rilevato dal Comitato parlamentare per la legislazione [“Al comma 20 […] parrebbe opportuno precisare se con il suddetto rinvio si intendano richiamare anche le norme in malam partem derivanti dalla qualità di coniuge (a mero titolo esemplificativo, si consideri l’articolo 577 del codice penale, che, nel caso di omicidio, prevede un aumento di pena se il reato è stato commesso contro il coniuge […]) e, in caso affermativo, individuare le suddette norme in maniera puntuale […]”. Così il Comitato per la legislazione della Camera dei Deputati nella seduta del 12 aprile 2016], sarà opportuno precisare, con intervento normativo successivo, se la citata estensione all’unione civile delle disposizioni di legge che si riferiscono al matrimonio valga anche per le norme penali in malam partem derivanti dalla qualità di coniuge. Così congegnata, infatti, la disposizione è in grado di ripercuotere i propri effetti sulle leggi penali, sostanziali e processuali, nella sola misura in cui si possa dire che l’estensione della relativa disciplina vada nella direzione della tutela dei diritti o dell’adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile.
Si dovrà attendere l’esercizio della delega legislativa da parte del Governo (prevista dall’art. 28 del disegno di legge[] “Il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: […] c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti”]) per verificare se in quella sede vi sarà la puntuale indicazione delle disposizioni penalistiche che si intende estendere alle unioni civili.
News filo diritto 6 settembre 2016
www.filodiritto.com/articoli/2016/09/breve-nota-sulla-regolamentazione-delle-unioni-civili.html?utm_source=Filodiritto&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter+604
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WELFARE
Bonus bebè 2017: novità in arrivo.
Raddoppio e proroga del bonus per i nuovi nati: potranno essere erogati sino a 400 euro al mese per ogni figlio sino a 5 anni di età.
Bonus sino a 400 euro mensili per i figli sino ai 5 anni di età: è questa la nuova proposta del Governo, che sarà probabilmente attuata con la Legge di Stabilità 2017, per combattere il calo della natalità. La nuova normativa, infatti, dovrebbe rinforzare l’attuale Bonus bebè, che prevede sino a 160 euro per ogni figlio minore di 3 anni; inoltre, sarà prevista la possibilità di anticipare il bonus per le donne in gravidanza e saranno prorogate e migliorate le misure dei voucher baby sitter e asilo nido.
Bonus bebè: come funziona. L’attuale bonus bebè consiste in una somma erogata mensilmente ai genitori con figli minori di 3 anni. L’ammontare del bonus è pari a:
80 euro mensili, per ogni figlio minore di 3 anni, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 25.000 euro;
160 euro, per ogni figlio minore di 3 anni, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 7.000 euro.
Nel dettaglio, il bonus bebè spetta per ogni figlio nato, adottato (se minorenne) o in affido preadottivo tra il 1º gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017, ai genitori che possiedono i seguenti requisiti:
Cittadinanza italiana, di uno Stato UE o di uno Stato extraeuropeo con permesso di soggiorno di lungo periodo;
Residenza in Italia;
Convivenza con il figlio;
Nucleo familiare in possesso di un reddito ai fini ISEE non superiore a 25.000 euro annui, per tutta la durata dell’assegno.
L’incentivo viene corrisposto, sotto forma di assegno, a partire dal giorno di nascita o di ingresso del figlio nella famiglia (in caso di adozione o di affido preadottivo) e fino al compimento del terzo anno di età o al terzo anno dall’ingresso nel nucleo (o, se precedente, al compimento della maggiore età).
Bonus bebè 2017: che cosa cambia. Dal 2017, il Bonus bebè consisterà, come ora, in un incentivo mensile, ma sarà più che raddoppiato come importo. In particolare:
Per le famiglie con Isee sino a 25.000 euro, il bonus ammonterà a 160 euro per il primo figlio ed a 240 euro per il secondo figlio; per le famiglie con Isee sino a 7.000 euro, il bonus ammonterà a 320 euro per il primo figlio ed a 400 euro per il secondo figlio.
Inoltre, la durata del beneficio non sarà più pari a 3 anni, ma a 5: in pratica, il bonus potrà essere erogato sino al compimento del 5° anno di età del bambino.
Bonus bebè: domanda. Per ottenere il bonus bebè il genitore, come prima cosa, deve risultare in possesso di DSU (dichiarazione sostitutiva unica, ossia la dichiarazione dalla quale si ricava l’indicatore Isee) in corso di validità. Deve poi presentare un’apposita domanda all’Inps, tramite le seguenti modalità:
Sito internet dell’Istituto (www.inps.it), sezione servizi per il cittadino, se in possesso di Pin dispositivo o identità digitale unica Spid;
Contaci center integrato INPS (803.164 da rete fissa o 06.164164 da rete mobile); è sempre necessario il possesso del codice Pin.
La domanda, accompagnata dall’autocertificazione dei requisiti che danno titolo all’assegno, deve essere presentata entro 90 giorni dalla nascita o dall’ingresso del figlio adottato nel nucleo familiare: l’istanza deve essere presentata una sola volta per ciascun figlio.
Se la domanda viene presentata in ritardo, si ha comunque diritto a ricevere l’importo sino al limite di età del bambino, ma si perde il diritto agli arretrati.
Noemi Secci LPT 6 settembre 2016
www.laleggepertutti.it/131680_bonus-bebe-2017-novita-in-arrivo
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