newsUCIPEM n. 610 –14 agosto 2016

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AFFETTIVITÀ                                                     Il primo manuale educativo anti-gender del Vaticano.

AMORIS LAETITIA                                           Poveri preti. A chi dar retta nell’interpretare “Amoris laetitia”?

Un passo avanti nella Tradizione.

E’ iniziato il terzo tempo.

DALLA NAVATA                                              20° Domenica del tempo ordinario – anno C – 14 agosto 2016.

DIACONATO                                                     Le “intenzioni del Vaticano II” e il diaconato femminile.

Francesco e l’altra metà della chiesa

DIRITTI                                                                Tutti i rischi del dibattito sulla poligamia

La poligamia non può essere un diritto civile in Italia

GOVERNO                                                         Quarto Piano Nazionale Infanzia

MATRIMONIO                                     Far credere di non essere sposati è reato.

OMOADOZIONE                                             Avvocati contro le adozioni gay: viene prima l’interesse del minore

ONLUS-NON PROFIT                                     Disposizioni nell’utilizzazione della quota del cinque per mille.

UCIPEM                                                              La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.

UNIONI CIVILI, CONVIVENZE DI FATTO Contratto di convivenza: diritti e doveri.

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AFFETTIVITÀ

Il primo manuale educativo anti-gender del Vaticano.

E’ destinato agli educatori cattolici di tutto il mondo.

Non poteva esserci cornice migliore della Giornata Mondiale della Gioventù di Cracovia per presentare il nuovo progetto del Pontifico Consiglio per la Famiglia, dedicato all’educazione affettiva e sessuale degli adolescenti e dei giovani. Intitolato “Il luogo dell’incontro” e costruito sull’immagine della tenda, questo itinerario educativo on line accompagna i ragazzi nella comprensione di sé come persone, chiamate a vivere ogni relazione con gli altri nella dignità e nel rispetto. La scoperta del progetto di Dio che chiama ciascuno ad amare costituisce il culmine delle sei unità in cui il percorso è suddiviso. E’ un vero e proprio manuale su cui costruire solide basi per i concetti di affettività e sessualità. Un primo vero e proprio libello anti-gender e che sviluppa una morale nuova nei giovani, lanciato dal Vaticano e destinato (per ora) agli educatori cattolici di tutto il mondo, che possono utilizzare a scuola o negli incontri di pastorale giovanile e familiare.

www.educazioneaffettiva.org/presentazione-del-progetto-titolo

La lezione di papa Francesco. La premessa su cui nasce questo lavoro è indicata dall’Esortazione Apostolica Amoris Laetitia al numero 280: “Il Concilio Vaticano II prospettava la necessità di «una positiva e prudente educazione sessuale», tenendo conto «del progresso della psicologia, della pedagogia e la didattica». Tale educazione solo si potrebbe intenderla nel quadro di una educazione all’amore, alla reciproca donazione. In tal modo il linguaggio della sessualità non si vede tristemente impoverito, ma illuminato. L’impulso sessuale può essere coltivato in un percorso di conoscenza di sé e nello sviluppo di una capacità di dominio di sé, che possano aiutare a far emergere capacità preziose di gioia e di incontro amoroso.“

            Affetto e sessualità. Si legge ne “i luoghi dell’incontro“: è assolutamente necessario che questo programma sia utilizzato da tutte le istituzioni educative, sempre a complemento e in aiuto al compito dei genitori. Deve essere un insegnamento che tenga conto dei diversi momenti della costruzione della personalità in relazione alla configurazione dell’“identità sessuale” o assunzione matura della propria sessualità, con momenti differenziati a seconda dei sessi. In maniera integrata e partendo dall’esperienza dei giovani, si offriranno le fondamenta umane della sessualità e dell’affetto, il loro valore morale in relazione alla costruzione della persona e al suo significato nel piano di Dio.

            La metafora della tenda. La metafora della tenda non è casuale. Come la tenda man mano si costruisce per essere impiantata nel terreno ed ospitare al suo interno delle persone; così la persona man mano cresce, matura, fino ad impiantare solide fondamenta ai suoi valori educativi, scoprendo passo dopo passo ogni sua dimensione come persona: il suo corpo, la sua sessualità, i suoi affetti, la sua libertà, la sua volontà e la sua dimensione morale. Proviamo a metterci nei panni di un educatore e a scandire le 6 tappe de “I Luoghi dell’incontro”, che si rivolgono ai ragazzi delle scuole medie e superiori.

  1. Accettare il proprio corpo. Dio origine e destino degli uomini. E’ il primo passo dell’itinerario che i nostri giovani realizzeranno. Essi impareranno a guardarsi, a definirsi come persone, a partire dall’osservazione, dallo stupore e dalla propria esperienza; conoscendo e indirizzando la propria intelligenza, la propria volontà, i propri desideri e affetti, e la propria spiritualità; accettando il proprio corpo e riconoscendolo come espressione personale, in cui sono iscritti l’origine e il destino di ogni uomo e di ogni donna. L’educatore in questa fase deve stimolare domande che facciano interrogare su se stessi ai ragazzi anche con immagini di supporto. Può inoltre stimolarli con la proiezione di spezzoni di film come L’Uomo d’Acciaio (Superman) e Spiderman nelle scene in cui i due supereroi si mostrano da adolescenti dotati di grande potere e quindi investiti di una grande responsabilità. Bisogna far vedere agli adolescenti che i cambiamenti che stanno sperimentando nella loro adolescenza sono una grande opportunità (un grande potere) per consolidare la persona matura che arriveranno ad essere in pochi anni.
  2. la differenza tra i sessi. L’incontro con l’altro, con il TU, aiuta i nostri giovani a conoscersi meglio e a rafforzare la loro identità. Essi impareranno a riconoscere che la sessualità parla di una differenza: l’uomo e la donna, che condiziona tutta la persona. Anche la dimensione affettiva è condizionata dalla sessualità. Impareranno a riconoscere i loro affetti e a convogliarli all’ordine dell’amore. L’educatore introduce la scheda sui “Corpi differenti” invitando i giovani ad essere protagonisti in questo percorso e a mettere in discussione il senso della propria identità. Il rapporto con gli altri ha un ruolo fondamentale nel processo di formazione dell’identità, perché aiuta a situarsi e a rispondere in modo più completo: Chi sono io? Attraverso l’osservazione di due fotografie: una di un neonato e l’altra di due sculture di Antonio López del corpo di un uomo e una donna, si cerca di guidare i giovani a riconoscere la differenza sessuale. L’educatore propone anche esperimenti pratici: ad esempio con quattro ragazzi volontari, due per genere, che si incontrano e chi li osserva descrive la differenze in gesti e atteggiamenti. Tra gli spezzoni di film proposti, “La costola di Adamo” del 1949, o il più recente “Stockholm” nella scena dell’incontro tra un ragazzo e una ragazza: sarà amore a prima vista.
  3. La libertà di ognuno. Il terzo passo è riflettere sulla libertà assieme al giovane. L’IO e il TU che entrano in relazione possono farlo in maniere diverse per il fatto che siamo stati dotati di libertà e, pertanto, la storia di ciascuno deve essere ancora scritta. L’IO e il TU che entrano in relazione possono farlo in maniere diverse per il fatto che siamo stati dotati di libertà e, pertanto, la storia di ciascuno deve essere ancora scritta. Questa libertà che ci è stata donata come un regalo, deve essere alimentata e formata e deve maturare affinché, quando la mettiamo in gioco, sappiamo dare della nostra vita e di quella degli altri qualcosa di bello, poiché è nell’Amore che, a immagine del nostro Creatore, troviamo la ‘vera libertà’. Ai ragazzi sono proposte schede in cui loro si esprimono sul concetto di libertà, con degli esempi concreti per definire ciò’ che considerano libero da ciò che non lo è. Fino a riflettere su chi ha originato ad ognuno di noi stessi la nostra libertà. Tra i film in “Batman Begins”, la doppia vita di Wayne, come multimilionario edonista e come Batman, permette di vedere in che modo la vera e libera scelta stia nell’agire bene.
  4. La buona scelta e il peccato. In questo passaggio è importante che i giovani riconoscano la trascendenza di una buona scelta. Li si accompagna per comprendere più a fondo la difficoltà di scegliere il meglio per loro e come il peccato ferisca il cuore. Impareranno a riconoscere queste ferite dell’amore e gli strumenti per poterle prevenire, cioè la grazia e le virtù. La buona novella è che le ferite non sono irreversibili. Dio, nel suo Figlio Gesù Cristo, è il medico capace di guarire le ferite con la medicina migliore dell’amore. L’educatore sollecita i ragazzi con schede in cui devono distinguere ciò’ che è caotico da ciò’ che è ordinato, la funzione di corretta di determinati oggetti, la ricerca sul vocabolario di parole come “concupiscenza”, “edonismo”, “pansessualismo” per conoscerne il loro senso. E’ utile in tal senso il film “Star Wars Episodio III. La vendetta di Sith” in cui si evidenziano la dicotomia tra Jedi, che cercano il bene degli altri, e i Sith che pensano interiormente solo dentro se stessi.
  5. La nostra moralità. Questa unità intende fare una riflessione approfondita sulla dimensione morale della persona. La morale viene presentata ai giovani non come un peso bensì come un aiuto lungo il cammino. Dopo aver scoperto la dimensione del peccato, essi riconosceranno come la dimensione morale sia un elemento costitutivo di loro stessi e come i loro atti abbiano conseguenze anche sugli altri, in quanto possono essere moralmente buoni o moralmente cattivi. Percorreranno la via del valore della vita e della dignità umana. L’educatore si rivolge ai ragazzi con l’ausilio di pubblicità, video su youtube, sollecitando con loro una riflessione a non farsi trascinare dal consumismo deviato di operazioni pubblicitarie a sfondo sessuale come quella del gelato Magnum depositato sul corpo di uomo nudo. Al contempo apre un confronto sugli atti considerati moralmente buoni, attraverso l’ausilio di schede che partono da esperienze pratiche come, ad esempio, l’aiutare una persona anziana a salire sul bus. La lezione di Gandalf in “Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato” è emblematica: gli atti umani dovrebbero essere indirizzati ad un bene maggiore, ma ciò non si realizza soltanto nelle grandi decisioni della nostra vita. Come ci indica Gandalf sono le azioni quotidiane, le piccole azioni di ogni giorno, ad allontanarci dal male.
  6. Amore come vocazione. L’ultimo passo del percorso è scoprire l’amore come vocazione personale, come risposta ad una chiamata. I giovani riconosceranno che l’amore è un cammino con le sue tappe, e che non devono aver fretta di arrivare alla meta. La cosa importante è arrivare, senza saltare tratti di strada, e riconoscere l’amore vero. L’amore, che è personale, si concretizza nel matrimonio e per questo il fidanzamento è un ponte nel cammino dell’amore verso la dedizione reciproca nel matrimonio. Anche il sacerdozio e la vita consacrata sono una risposta personale a questo primo amore. Il docente cercherà di mostrare ai giovani quei valori che contraddistinguono un amore vero da uno che non lo è. Si utilizzeranno anche strumenti pratici come il “termometro dell’amore”. Il video “Perché aspettare fino al matrimonio (VOSE)” mostra l’autenticità di un grande amore: un ragazzo aspetta la sua fidanzata sull’altare, e ci rivela che durante il fidanzamento non hanno avuto rapporti sessuali.

«L’obiettivo del progetto – spiega ad Aleteia Monsignor Carlos Simon Vazquez Sotto-Segretario del Pontificio Consiglio per la Famiglia è aiutare i giovani e gli adolescenti a scoprire la bellezza degli affetti e della sessualità come parte importante della loro educazione integrale. Questo sarebbe l’obiettivo diciamo principale. Poi ci sono tanti obiettivi, legati a quello principale, successivamente declinati nelle diverse unità».

D: Per esempio?

Mons. Vazquez: «Ne cito alcuni: l’antropologia adeguata come fondamento necessario per comprende gli affetti e la sessualità; conoscere e praticare la vita virtuosa; l’aiuto della vita morale e spirituale per sapere che, in ogni momento, nessuno è mai solo durante il progetto educativo che porta alla pienezza di vita, a secondo della vocazione che ciascuno ha ricevuto».

D: E’ rivolto alle scuole cattoliche?

Mons. Vazquez: «Questo progetto aveva il focus fondamentale certamente nel docente e quindi particolarmente nelle scuole. Ovviamente qui si tenta di trasmettere e servire il piano di Dio sul binomio ‘uomo-donna, sulla sessualità come trasmessa nella rivelazione cristiana letta nella dottrina della Chiesa. Ma detto questo, è un progetto anche e soprattutto indirizzato ai genitori, primi ed insostituibili educatori dei loro figli. E ancora è indirizzato a catechisti, preti, religiosi che collaborano con i genitori in questa particolare missione della pastorale giovanile e familiare. A secondo dei loro bisogni, possono utilizzare il materiale delle diverse unità adeguandolo al proprio contesto. Questo non va in contrasto con l’idea che accomuna il tutto: cioè trasmettere la verità degli affetti e della sessualità umana nella logica del dono, unica via possibile per raggiungere la felicità».

D: Per gli studenti, è più indicata come attività extracurriculare, cioè al di fuori delle attività scolastiche? Durerà quanto l’anno scolastico?

Mons. Vazquez: «Questo materiale può essere adattato sia al curriculum scolare che extra scolare. Dipenderà in ogni caso della autorità competente in materia che intende utilizzarlo. Noi semplicemente offriamo un percorso al docente con lo scopo di aiutare i giovani a scoprire la bellezza del linguaggio del corpo e tramite questo linguaggio vivere con autenticità la propria vocazione all’amore»

D: Parliamo delle unità. Avete deciso di iniziare con una “lezione” per l’educatore.

            Mons. Vazquez: «L’educatore è fondamentale. Deve essere il punto di riferimento credibile per i ragazzi. Deve altresì avere i strumenti, attrezzature, “tools” per poter prima apprendere e poi presentare le diverse unità con un linguaggio tale da farle comprendere ai giovani. È vero che il progetto presta particolare riguardo al docente, alla sua preparazione, perché non deve solamente trasmettere contenuti, ma deve avere soprattutto l’arte della pazienza e del coraggio di accompagnare a trecentosessanta gradi i singoli giovani che formano il gruppo, la classe. Il Papa ci invita con molta frequenza ad avere questo atteggiamento educativo che fa giustizia alla dignità di ogni singolo ragazzo/ragazza, per fare in modo che tutti possano conoscere e vivere questa dimensione fondamentale della vita».

            D: Un progetto articolato, dunque, che ha necessitato di una grande mole di lavoro.

            Mons. Vazquez: «E’ stato un lavoro davvero intenso e vorrei qui ringraziare tutti coloro che in questi anni hanno contribuito a fare di questo progetto un cammino di servizio a tanti giovani nella sua ipotetica vocazione matrimoniale come alla verginità consacrata. Come dicevamo a Cracovia, il progetto è in costruzione, è in cammino, non è perfetto, è semplicemente quello che finora, vista l’esperienza dell’incontro mondiale delle famiglie a Philadelphia, ci è sembrato giusto che emergesse in maniera più strutturata».

            D: Secondo lei cosa va migliorato?

            Mons. Vazquez: «Siamo consapevoli che il progetto bisogna comprenderlo nella sua interattività e soprattutto nella sua integrità. Ci possono essere tantissime cose da perfezionare come, ad esempio, la spiegazione più dettagliata del materiale cinematografico di ciascuna unità, così come alcuni elementi pittorici delle stesse. Anche questo materiale dovrebbe essere valutato nel contesto in cui l’abbiamo inserito. Non si può isolarlo, così come non si possono isolare come se fossero compartimenti stagni ciascuna delle sei unità. Un sforzo in questo senso va fatto, in primis, in noi per mostrare la sua ricchezza, tutt’altro che scontato, di questo corso di educazione affettiva sessuale on line».

            D: Il messaggio che lei personalmente vuol trasmettere attraverso questo progetto?

            Mons. Vazquez: «Mi piace dire che questo progetto “il luogo del incontro” è in cammino, perché chiama a tutti a servire la dimensione fondamentale dell’umanum. Amoris Laetitia ci sprona a fare dell’educazione in genere, e sessuale in particolare, una emergenza per tutti, poiché tramite l’adeguato rapporto con i nostri affetti e con la nostra corporeità possiamo umanamente, attraverso la grazia del Signore, vivere in pienezza e santità la nostra vita quotidiana».

Gelsomino Del Guercio                     Aleteia                        12 agosto 2016          

            http://it.aleteia.org/2016/08/12/manuale-vaticano-educativo-sessualita-gender/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it

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AMORIS LAETITIA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20160319_amoris-laetitia.html

Poveri preti. A chi dar retta nell’interpretare “Amoris laetitia”?

(…)      Ciò che la “Rivista del Clero Italiano” pubblica ha un evidente peso. E per spiegare “Amoris laetitia” a chi ha dato la parola, nel quaderno di luglio-agosto? Ad Aristide Fumagalli, anche lui membro del comitato di redazione, docente di teologia morale nel seminario e nella facoltà teologica di Milano, autore di saggi a sostegno della comunione ai divorziati risposati già prima dei due sinodi sulla famiglia.            L’articolo verte tutto sul capitolo ottavo dell’esortazione postsinodale. E va al dunque senza tentennamenti.

Scrive Fumagalli: “Francesco ha precisato, in due punti di “Amoris laetitia”, che il discernimento circa la partecipazione dei fedeli divorziati risposati alla vita della Chiesa può riguardare anche l’accesso ai sacramenti.

  1. “Il primo punto è quando il papa osserva che ‘le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi’. Precisando in nota questo criterio, papa Francesco afferma che esso riguarda anche ‘la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave’ (n. 300, nota 336).
  2. “Il secondo punto è quando il papa riflette sull’eventualità che si possa non essere pienamente consapevoli della ‘situazione oggettiva di peccato’ in cui ci si trova, e si possa, quindi, ‘vivere in grazia di Dio, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa’.

Precisando la natura di questo aiuto, Francesco afferma che ‘in certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei sacramenti’ (n. 305, nota 351).”Stante queste precisazioni, sembra chiaro che la disciplina pastorale dei fedeli divorziati risposati preveda nuove possibilità concrete in precedenza escluse, anche a riguardo dell’accesso ai sacramenti”. Ma è interessante anche ciò che Fumagalli scrive per giustificare il fatto che l’innovazione introdotta da papa Francesco “è solo accennata in ‘Amoris laetitia‘ e nemmeno nel corpo del testo, ma solamente in due note”: “In questa forma dimessa si può cogliere la difficoltà nel fronteggiare le divergenti tendenze che Francesco, subito in apertura di ‘Amoris laetitia’, rinviene ‘perfino tra i ministri della Chiesa’.

La spiegazione diplomatica, o più malignamente ‘gesuitica’ del perché Francesco non sia stato più esplicito sul punto più rovente della discussione sinodale, non sembra però la più appropriata. Si potrebbe far notare, infatti, che la forma minimale del riferimento all’accesso sacramentale di quanti vivono in nuova unione corrisponde al limitato peso specifico che, secondo Francesco, tale pur spinosa questione ha nella gravità delle sfide contemporanee alla famiglia”. Sulla base di questa interpretazione di “Amoris laetitia“, Fumagalli traccia poi i “consigli pastorali” conseguenti, sollecitando i sacerdoti a “ponderare quale aiuto offerto dalla Chiesa meglio consenta il cammino di conversione e di vita cristiana, contemplando l’eventuale accesso ai sacramenti”.

Va notato però che in un altro ampio commento all’esortazione postsinodale, pubblicato su una rivista anch’essa molto influente tra il clero e il laicato colto, “Il Regno”, a firma di Basilio Petrà che è il presidente dei teologi moralisti italiani, si prospetta come “non necessario” l’affidarsi al sacerdote e al foro interno sacramentale, cioè alla confessione, per “discernere” se un divorziato e risposato può fare la comunione. Scrive Petrà: “Il fedele illuminato potrebbe giungere alla decisione che nel suo caso non ci sia la necessità della confessione”. E spiega: “È [infatti] del tutto possibile che una persona non abbia l’adeguata consapevolezza morale e/o non abbia libertà di agire diversamente e che, pur facendo qualcosa oggettivamente considerato grave, non compia un peccato grave in senso morale e dunque non abbia il dovere di confessarsi per accedere all’eucaristia. ‘Amoris laetitia’ al n. 301 allude chiaramente a questa dottrina”. Come dire: libero ciascuno di fare da sé, “illuminato” o inconsapevole che sia.

Sandro Magister              9 agosto 2016

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/08/09/poveri-preti-a-chi-dar-retta-nellinterpretare-amoris-laetitia

                                                       Un passo avanti nella Tradizione.

Amoris laetitia è un documento complesso che riafferma allo stesso tempo l’insegnamento della Chiesa e l’accoglienza dei percorsi individuali nel discernimento ecclesiale. La ricognizione (Daniela Sala- vedi in calce ” È iniziato il terzo tempo”) su come gli episcopati stanno recependo il testo ha messo in luce da un lato alcune voci critiche ma dall’altro un consenso ampio su un testo rappresentativo dell’intero lavoro sinodale. Più in specifico viene evidenziato da Basilio Petrà come, mettendosi nei panni dei confessori, sia comprensibile una certa forma di «sconcerto». Familiaris consortio, infatti, ha offerto «per anni un quadro di riferimento dotato d’autorità», nel quale il «confessore ha potuto continuare a essere più un applicatore della norma che un pastore e un padre personalmente coinvolto nel bene del penitente e nel suo cammino cristiano». Oggi, invece, con Amoris laetitia gli si chiede una «maggiore responsabilità personale nel valutare il bene del penitente e delle persone coinvolte dal suo agire, con cuore misericordioso e con intento terapeutico. Il suo ruolo è certamente assai più impegnativo. Bisogna però dire che diventa anche più significativo, più ricco e più ministerialmente pieno».

           

Il capitolo VIII dell’esortazione apostolica Amoris laetitia (AL) è dedicato al tema: «Accompagnare, discernere e integrare la fragilità». Esso è suddiviso nelle seguenti sezioni: due numeri introduttivi senza titolo (nn. 291s); «La gradualità della pastorale» (nn. 293-295): «Il discernimento delle situazioni dette “irregolari”» (nn. 296-300); «Le circostanze attenuanti nel discernimento pastorale» (nn. 301-303); «Le norme e il discernimento» (nn. 304-306); «La logica della misericordia pastorale» (nn. 307-312).

Come già mostrano i vari titoli delle sezioni, centrale in tutto il capitolo è l’attenzione al «discernimento» delle situazioni dette «irregolari», fin dall’inizio inquadrato in un preciso orizzonte: quello del lavoro della Chiesa come «ospedale da campo» (AL, 291; Regno-doc. 5,2016,190; Regno-doc. 5,2016,190). Infatti, benché «la Chiesa sempre proponga la perfezione e inviti a una risposta più piena a Dio» non può disinteressarsi «dei suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito» (ivi): deve accompagnarli con attenzione e premura, cercandoli anche là dove l’oscurità e lo smarrimento sembrano prevalere, distinguendo le varie forme di unione per «valorizzare» tutto quel che è valorizzabile.

Il non più e il non ancora. Di fatto, varie sono le forme d’unione. Si va dall’unione cristianamente piena (l’«ideale», ovvero «l’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società»: AL 292; Regno-doc. 5,2016,190) alle forme d’unione in contraddizione con l’ideale, passando per forme che realizzano l’ideale «in modo parziale e analogo».

La Chiesa ha il dovere morale di accostarsi a esse per «valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio» (AL, 292; ivi). Deve imparare a «discernere» i «semi del Verbo» anche nelle «situazioni imperfette» (cf. AL 76s) e affrontarle con l’intento di trasformarle «in opportunità di cammino» (AL 294; Regno-doc. 5,2016,191). È in riferimento a questo processo di valorizzazione positiva che AL ricorda quanto l’esortazione Familiaris consortio n. 34 dice sulla legge di gradualità, ovvero sulle tappe della crescita morale (citato in AL 295: «l’essere umano “conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita”»; Regno-doc. 5,2016,191), che non va confusa con la gradualità della legge. Le persone sono in cammino, attraversano varie tappe cognitive ed esistenziali, valutano e decidono moralmente (prudenzialmente) secondo quel che a ogni momento comprendono e sono in grado di attuare, cosa che può anche non coincidere pienamente «con le esigenze oggettive della legge» (AL 295; ivi).Questa attitudine di valorizzazione coincide con quel che è chiamato al n. 293 «il discernimento pastorale delle situazioni» che non corrispondono alla realtà piena del matrimonio cristiano, un discernimento che permetta d’«entrare in dialogo pastorale» con le persone coinvolte. Per ben due volte il n. 293 invita al «discernimento pastorale».

Misericordia, non «buon cuore». La valorizzazione delle varie situazioni non è una semplice questione di cortesia o di buon cuore. Corrisponde a quella logica della «misericordia e dell’integrazione» (AL 296; Regno-doc. 5,2016,192) che è della Chiesa e del Signore Gesù, ben diversa dall’altra logica che percorre la storia della Chiesa, cioè la logica dell’emarginazione. Il papa insiste sulla necessità che il «discernimento del Pastore» cerchi d’integrare nella comunità cristiana tutti coloro che sono integrabili in qualche modo, senza cedere a dinamiche emarginanti seppure «evitando ogni occasione di scandalo» (AL 299; Regno-doc. 5,2016,192). La strada da percorrere è chiara, come appare da quel che si dice tra i nn. 296 e 297: «La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero (…) Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo» (Regno-doc. 5,2016,192).

Per questo, il discernimento deve essere molto attento e saper distinguere bene le varie situazioni senza lasciarsi trascinare da soluzioni semplicistiche e generalizzate: «I padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei pastori deve sempre farsi “distinguendo adeguatamente” con uno sguardo che discerna bene le situazioni. Sappiamo che non esistono “semplici ricette”» (AL 298; Regno-doc. 5,2016,192).

L’esortazione non parla solo del discernimento del pastore, parla anche del discernimento proprio della persona del fedele. Anzi, li pone in stretta connessione e li ricorda unitariamente. AL 298 rinvia così simultaneamente e unitariamente a queste due modalità di discernimento. Quando osserva la diversità delle situazioni dei divorziati risposati, sulla scia di FC 84, sottolinea la necessità di non lasciarsi andare ad «affermazioni troppo rigide» e di «lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale».

Queste due modalità del discernimento, «personale e pastorale», sono ricordate anche all’inizio del n. 300, ove si dice esplicitamente che solo la via del discernimento va percorsa: «Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari» (Regno-doc. 5,2016,193). Un simile rinvio unitario non deve però nascondere il fatto che discernimento pastorale e discernimento personale hanno configurazioni diverse. Anzi, il chiarimento di questa diversità è – io credo – assai importante per cogliere adeguatamente anche quello che l’esortazione concretamente propone.

Discernimento pastorale e personale. Il discernimento pastorale, come dice chiaramente l’aggettivo, è operato propriamente dai soggetti dell’azione pastorale, innanzitutto vescovi e presbiteri, nei confronti delle persone o di situazioni che sono oggetto dell’azione pastorale: esso mira a cogliere le peculiarità e le differenze delle varie situazioni, prendendo in considerazione l’insieme delle circostanze – soggettive e oggettive –, mettendole in rapporto con l’insegnamento della Chiesa e del vescovo (cf. AL 300), mostrando ai fedeli le vie di fedeltà e di crescita della vita cristiana dei fedeli nelle situazioni considerate.

Il discernimento personale indica invece propriamente il discernimento esercitato in prima persona dal soggetto morale – il fedele stesso – allorché è posto dinanzi alla necessità di prendere una decisione in ordine all’agire in una particolare situazione; trattandosi di un cristiano, si suppone che chi agisce cerchi di essere fedele alla volontà del Signore quale si manifesta nella situazione stessa. Del resto, è per questo che il fedele si rivolge al pastore. È mediante questo personale discernimento che il fedele perviene alla sua propria decisione di coscienza in situazione, una decisione che può essere solo sua. Secondo la nostra tradizione morale, infatti, la coscienza è la norma soggettiva ultima dell’azione e nessuno può prenderne il posto, neppure il pastore (anche nel sacramento della penitenza).

AL 305 richiama opportunamente quanto dice la Commissione teologica internazionale sul fatto che «la legge naturale non può (…) essere presentata come un insieme già costituito di regole che s’impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte d’ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione» (Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009; Regno-doc. 17,2009, 540, mia sottolineatura). L’esortazione richiama per altro formalmente questa dottrina tradizionale al n. 37: noi «stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (Regno-doc. 5,2016,136; sottolineatura mia).

L’esortazione parla simultaneamente e unitariamente di «discernimento personale e pastorale» perché il luogo al quale pensa è quello nel quale il soggetto del discernimento pastorale (pastore) incontra il soggetto (o soggetti) del discernimento personale (il fedele con la sua coscienza) in ordine alla formazione del giudizio di coscienza in situazione. In questo luogo vengono trattate le situazioni che nella prassi della Chiesa sono considerate materia propria del cosiddetto foro interno. L’ambito del foro interno si distingue dal foro esterno – che ha ordinariamente per oggetto il governo pubblico della Chiesa e tratta quindi questioni di carattere pubblico – in quanto riguarda questioni che coinvolgono primariamente la coscienza morale del fedele (dei fedeli). Il foro interno ha due momenti: quello non sacramentale (colloquio pastorale), quello sacramentale (sacramento della confessione) Il capitolo VIII ha presenti ambedue i momenti del foro interno. È perciò utile fermarsi sulle loro peculiarità nella tradizione morale.

Il colloquio pastorale. In questo momento del foro interno il pastore esercita una sorta di autorevole moral counseling in dialogo con il fedele. Esso può esigere anche un tempo non breve e talvolta è svolto nel contesto della direzione spirituale. In questo dialogo il pastore – e in quanto richiesto – aiuta il fedele a valutare correttamente il proprio comportamento passato e presente e le sue possibilità future, senza tuttavia sostituirsi alla persona giacché opera in aiuto alla sua coscienza e non al posto di essa. In questa relazione di aiuto morale (illuminazione/accompagnamento), il pastore prospetta l’orizzonte morale della vita cristiana, aiuta la persona a cogliere quanto dipende e quanto non dipende da lei, qual è l’ambito delle sue responsabilità e delle sue possibilità concrete; può sostenerla e indirizzarla verso le risorse spirituali necessarie per la ricerca sincera della volontà di Dio e per la conformità a essa.

Il pastore – nel foro interno non sacramentale – non impone comportamenti né stabilisce quello che la persona deve fare; aiuta la persona a cogliere la propria responsabilità morale nelle concrete possibilità della sua situazione. La decisione che scaturisce è appunto la norma che la coscienza del fedele in prima persona assume per quella situazione, senza ovviamente pretese universali, e che può non coincidere con la norma oggettivamente e astrattamente data dalla dottrina (si colloca qui, ad esempio, la lunga tradizione morale cattolica dell’epicheia). AL 300 si riferisce a questo tipo di relazione pastore-fedele quando, riprendendo la Relatio finalis del Sinodo 2015, ricorda che il pastore aiuta i fedeli «alla presa di coscienza della loro situazione dinanzi a Dio» e concorre alla «formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere» (Regno-doc. 5,2016,193).

Anche AL 303 allude allo stesso processo allorché scrive: «Bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento serio e responsabile del pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia» (Regno-doc. 5,2016, 194). Ancora, è probabilmente allo stesso aiuto pastorale che si riferisce AL 304 quando, ricordando la dottrina di s. Tommaso sull’indeterminazione normativa crescente quanto più si scende nel particolare, afferma che tale dottrina deve essere presente nel «discernimento pastorale» (del pastore) e che proprio per questo «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti a una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma», intesa come norma generale (ivi). È importante sottolineare che questo aiuto al discernimento personale di tipo pratico da parte del pastore non deve essere interpretato come un aiuto a ben applicare la norma alla situazione ma come un aiuto perché la coscienza colga la concreta possibilità del bene ovvero il bene possibile in situazione. AL 308 riprendendo letteralmente Evangelii gaudium, n. 44 sottolinea che la «misericordia del Signore (…) ci stimola a fare il bene possibile» (Regno-doc. 5,2016,196).

E il «bene possibile» non coincide sempre con la realizzazione più piena dell’ideale (cf. AL 303); anzi, talvolta anche illuminata «la coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (AL 303; Regno-doc. 5,2016,194). Il «bene possibile» non è un bene impuro o indegno. Come osserva il papa in AL 308 citando Evangelii gaudium, n. 45: «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di “sporcarsi con il fango della strada”» (Regno-doc. 5,2016,196). Nel contesto del capitolo VIII e in particolare alla luce del n. 292 (che distingue tra realizzazione radicale dell’unione ideale – matrimonio cristiano – e realizzazioni «in modo parziale e analogo»; Regno-doc. 5,2016,190) quel che abbiamo appena detto significa che la coscienza del fedele può considerare «bene possibile» una di quelle «situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo (della Chiesa; nda) insegnamento sul matrimonio» (Regno-doc. 5,2016,191).

Passare (o meno) alla confessione. Quando il fedele passa per il colloquio o colloqui pastorali è poi frequentemente portato a rivolgersi al foro interno sacramentale (la confessione). Talvolta, il passaggio è spontaneo e quasi naturale: in forza dei colloqui stessi il fedele coglie in coscienza la necessità della confessione in ordine all’assoluzione e chiede al presbitero che lo ha accompagnato di confessarlo. Tale passaggio al sacramento tuttavia non è necessario. Il fedele illuminato potrebbe giungere alla decisione che nel suo caso non ci sia la necessità della confessione. Come si sa, per la dottrina della Chiesa, la confessione è necessaria per i peccati gravi o mortali [Cf. can. 960 del Codice di diritto canonico (CIC).] e si hanno peccati gravi solo quando chi agisce sa di fare un male grave (con consapevolezza morale e non puramente giuridica) ed è libero di agire diversamente. È del tutto possibile che una persona non abbia la adeguata consapevolezza morale e/o non abbia libertà d’agire diversamente e che, pur facendo qualcosa oggettivamente considerato grave, non compia un peccato grave in senso morale e dunque non abbia il dovere di confessarsi per accedere all’eucaristia.

AL 301 allude chiaramente a questa dottrina quando dice che chi è in condizione irregolare non necessariamente «vive in stato di peccato mortale» e parla degli elementi limitanti a vario titolo i soggetti agenti: «I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”» (Regno-doc. 5,2016,193).

Lungo la stessa linea si colloca AL 295 quando, appoggiandosi a FC 34, descrive con accuratezza il peculiare esercizio prudenziale della libertà da parte di soggetti che agiscono senza poter cogliere pienamente le «esigenze oggettive della legge», ovviamente senza colpa in causa (Regno-doc. 5,2016,191).

In casi simili, di non necessità del passaggio al sacramento per accedere all’eucaristia, la confessione è semplicemente consigliata. Non è infrequente però che anche chi non vede la stretta necessità della celebrazione sacramentale chieda l’assoluzione e dunque celebri il sacramento. Come talvolta non è necessario il ricorso alla confessione, così non è necessario che ci si confessi con il sacerdote che ha accompagnato. Potrebbe essere un altro confessore.

Quando manca il colloquio pastorale. Va osservato però che nell’attuale prassi la maggioranza dei fedeli arriva direttamente al foro interno sacramentale senza passare attraverso il foro interno non sacramentale.

Ciò significa che diventa più difficile l’aiuto da parte del pastore alla coscienza del fedele, sia perché ordinariamente nel confessionale il tempo non è sufficiente e spessissimo le persone non sono conosciute, sia perché il sacramento non si può configurare come un colloquio di aiuto morale, anche se può includere tale dimensione. In simili casi, la logica pastorale di AL vorrebbe – io credo – che si invitasse il fedele a un dialogo personale in contesto non sacramentale, se possibile, o lo si rinviasse a un servizio diocesano disposto per l’accompagnamento delle persone in tali situazioni.

Nel caso tuttavia che il fedele non possa accogliere questi suggerimenti, il confessore seguirà le regole proprie della praxis confessarii concernenti il giudizio sulla disposizione del penitente. Quando interviene il foro interno sacramentale, infatti, si attiva un tipo peculiare di discernimento che è appunto quello sacramentale. Esso ha come soggetto il confessore e come oggetto la disposizione del penitente. Secondo la dottrina tradizionale, [Cf. il can. 980 del CIC.] il confessore è chiamato a valutare (giudicare) la disposizione morale del fedele – il suo pentimento nei confronti dei peccati gravi dei quali ha coscienza –: solo il pentimento apre l’assoluzione e l’ammissione all’eucaristia. Tale discernimento non ha la forma di una sentenza di tipo giudiziario; è e deve essere – come ribadisce Reconciliatio et paenitentia – un giudizio di misericordia, teso a cogliere ogni segno del pentimento che renda possibile l’effusione del perdono.

È un giudizio che si basa pienamente su quanto il penitente comunica. Sottolineo quanto appena detto: secondo la tradizione nel foro interno (tanto sacramentale quanto non sacramentale) si deve sempre credere al penitente sia quando parla contro di sé sia quando parla a suo favore, se non si danno prove evidenti in contrario. È per questo, tra l’altro, che si è ammessa in passato la prassi dell’accettazione della nullità della prima unione in foro interno, nel caso in cui il confessore avesse acquisito la certezza morale di tale nullità, anche se non dimostrabile in foro esterno. Tale possibilità è ancor oggi sostanzialmente ammessa. È inoltre un giudizio che non parte da zero ma da una presunzione a favore del penitente. È regola della praxis confessarii che il penitente si presume pentito quando viene a confessarsi giacché ordinariamente il penitente viene liberamente per avere il perdono dei propri peccati e non per altri motivi: dunque, venendo, si riconosce peccatore e sa di avere bisogno di perdono. Ciò spiega perché se non ci sono prove in contrario – ovvero prove per le quali il confessore raggiunge la certezza morale che il penitente non è pentito dei peccati gravi dei quali ha coscienza – chi viene a confessarsi deve essere assolto.

In continuità con Familiaris consortio. Chi legge Amoris laetitia si rende subito conto che essa cerca e insiste sulla continuità con Familiaris consortio; in vari punti la richiama o vi si appoggia (ad esempio quando presenta l’idea delle fasi di crescita morale, quando invita all’attenzione alla diversità delle situazioni, quando tende ad accogliere il più possibile le situazioni «irregolari» ecc). Si può dire anche qualcosa di più: AL condivide profondamente l’attitudine pastorale di FC, che, nelle sue prime frasi al n. 84, mostra il desiderio di andare incontro pastoralmente il più possibile alla situazione dei divorziati risposati: «La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che – già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale – hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza» (EV 7/1796). È per questa tensione pastorale che FC 84, mentre ha ben presente l’ideale (la separazione dei coniugi in seconda unione non valida), ammette una seconda possibilità, che non corrisponde pienamente all’ideale ma vi si approssima.

Infatti, FC riconosce che si possono dare condizioni che rendono l’ideale non praticabile perché ferirebbe importanti beni e accoglie una soluzione già proposta nella praxis confessarii e fatta propria anche da alcuni episcopati (ad esempio quello italiano nel 1979), quella cioè di assolvere e ammettere all’eucaristia il penitente disposto a vivere nella seconda unione come «fratello e sorella» (cf. AL 299, nota 329). Non casualmente AL 298 ricorda esplicitamente questa apertura di FC 84: «La Chiesa riconosce situazioni in cui “l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione”» (Regno-doc. 5,2016,192). Dunque, FC è così pastoralmente orientata che giunge ad aprirsi a una soluzione non corrispondente all’ideale (la separazione) in considerazione del bene dei figli o di altri seri motivi. [4 È noto che FC non entra nella questione delle eventuali cadute (sessuali) successive all’accettazione da parte del penitente della via fratello-sorella. Va però ricordato che negli anni successivi alla FC è diventa prassi quasi universale – almeno in Italia – che le eventuali cadute non impedissero l’assoluzione permanendo la sincera e adeguata volontà del penitente di non vivere in forma coniugale.]

            In qualche modo, tutto il n. 84 di FC delinea un processo d’integrazione: esso integra sacramentalmente le nuove unioni che accettano di non considerarsi coniugali pur continuando a convivere per seri motivi; integra, seppure non sacramentalmente, anche le coppie che non accettano la via fratello-sorella, questo giacché invita i fedeli ad aiutarle a non sentirsi separate dalla Chiesa (non lo sono) e ne sollecita direttamente la partecipazione alle diverse forme di vita ecclesiale. [FC 84 esorta pastori e fedeli ad aiutare i divorziati risposati a non considerarsi separati dalla Chiesa, “potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la parola di Dio, a frequentare il sacrificio della messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza”; EV 7/1798.]

Tuttavia, è ben noto che FC ritiene di non poter andare oltre perché ultimamente il criterio della verità oggettiva le appare determinante per l’ammissione all’eucaristia: la nuova unione oggettivamente non è un vero matrimonio. Lo dice chiaramente al n. 84: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio» (EV 7/1799). AL, invece, pur partendo dalla stessa attitudine pastorale e dalla stessa volontà d’integrazione, arriva a una conclusione diversa proprio su questo punto. Come mai?

Un passo oltre. Per cogliere il vero significato di questo passo avanti è necessario considerare attentamente un testo di AL 305: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (Regno-doc. 5,2016,195). Questo testo conclude con la nota 351 sulla quale torneremo successivamente. Dopo quel che abbiamo osservato prima, non meraviglia che tali parole dicano cose molto simili a quanto leggiamo in FC 84. Quando alludono alla condizione dei divorziati risposati dicendola «una situazione oggettiva di peccato» in qualche modo ne constatano la contraddizione oggettiva. Anche il riferimento fatto «all’aiuto della Chiesa» corrisponde alla mens di FC che sollecita i divorziati risposati al rapporto con la Chiesa, anche se non possono accedere all’eucaristia. Quando afferma poi la possibile convivenza tra grazia di Dio e stato oggettivo di peccato dice qualcosa che fa parte del generale patrimonio teologico, mostrato tra l’altro dalle citazioni di Tommaso largamente presenti nel capitolo VIII di AL, patrimonio certamente non negato da FC 84.

Quel che appare nuovo in AL sta nella nota 351 ove si dice chiaramente che tale aiuto della Chiesa può essere costituito dai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, ovvero dall’assoluzione e dall’ammissione all’eucaristia. La nota suona così: «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei sacramenti. Per questo, “ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” (esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’eucaristia “non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (ibid., 47: 1039)» (Regno-doc. 5,2016,195). AL ammette dunque che nel foro interno sacramentale il confessore possa in alcuni casi assolvere e ammettere all’eucaristia divorziati risposati – con nuova unione sicuramente invalida – che pure continuino regolarmente la loro vita coniugale.

È evidente che AL non vuole indicare una nuova norma al posto della norma indicata da FC 84: essa letteralmente dice solo che in alcuni casi la norma di FC 84 non obbliga il confessore. Ci si può chiedere su quale base lo dica e qualcuno potrebbe dire che si tratta di un’innovazione, un andare oltre la Tradizione. In realtà, si può dire piuttosto che AL arriva a questo passaggio perché si mette in ascolto della tradizione morale della Chiesa ancor più ampiamente di quanto FC 84 abbia fatto.

In ascolto della tradizione morale. I motivi che portano FC 84 all’ esclusione dell’assoluzione/ammissione all’eucaristia sono stati richiamati. Come abbiamo visto, sono motivi teologici, presenti nella tradizione, e motivi pastorali, in particolare la preoccupazione per le sorti dell’indissolubilità anche tra i cristiani. C’è tuttavia un principio fondamentale implicitamente assunto dal testo surricordato di FC 84 per escludere i divorziati risposati dall’eucaristia: su di esso si basa sostanzialmente l’esclusione espressa in termini generali. Il principio è questo: non può essere mai ammesso all’eucaristia chi vive una contraddizione oggettiva con quanto significato oggettivamente dall’eucaristia. Ebbene, il principio in tale forma assoluta non si ritrova nella tradizione; anzi si può affermare decisamente che la tradizione e la prassi morale della Chiesa non conoscono questa assolutizzazione.

Parte della tradizione morale infatti è anche tutto il patrimonio della praxis confessarii che ha offerto nei secoli prospettive più ampie e ha incluso anche eventualità diverse. Ad esempio, la praxis sa che per l’assoluzione non si può esigere dal penitente pentito più di quanto possa dare. Ci sono circostanze nelle quali non si può chiedere al penitente – per assolverlo e ammetterlo alla comunione – che lasci una situazione di grave pericolo morale se questo significa provocare danni gravi a sé, ai propri cari o a persone verso le quali si hanno serie responsabilità: la teologia morale parla allora di «occasioni prossime di peccato necessarie». Così la tradizione conosce circostanze nelle quali non si deve cercare di cambiare le convinzioni oggettivamente sbagliate di una persona, che o non capisce o non può capire la verità di alcune posizioni morali della Chiesa, per assolverla e ammetterla alla comunione.

Sono quelle circostanze nelle quali il penitente è in «ignoranza invincibile» o in condizione di «coscienza soggettivamente difendibile» (si tenga conto di quanto sopra detto sul peccato grave). In tali circostanze, secondo la valutazione del confessore e tenendo conto del bene del penitente, è possibile assolvere e ammettere all’eucaristia anche se il confessore sa che si tratta per la Chiesa di un disordine oggettivo. Una situazione ben nota della tradizione è quella della coscienza perplessa, il caso cioè della persona che ritiene in coscienza che comunque agisca fa male ma non può esimersi dall’agire: la teologia morale cattolica afferma da sempre che il soggetto è chiamato a scegliere il male minore e che nel fare il male minore non è colpevole. Di fatto è assolto e fa la comunione. Analogo è il caso nel quale il soggetto si trova dinanzi alla necessità di scegliere tra valori che orientano a comportamenti che in situazione confliggono e sceglie i valori preminenti non in sé ma nella sua concreta condizione e nel suo contesto esistenziale.

Queste posizioni della praxis, ben presenti nella storia morale cattolica, non negano il principio usato da FC ma non lo assolutizzano, costantemente lo interpretano e lo economizzano – come direbbero gli orientali – in rapporto alle concrete persone e al loro cammino cristiano.

Esse attestano che la tradizione considerata in tutta la sua ampiezza ha ammesso e ammette la partecipazione all’eucaristia anche in alcuni casi d’incoerenza tra situazione oggettiva delle persone e oggettivo significato dell’eucaristia, ha cioè ritenuto e ritiene che la contraddizione oggettiva di vita non prevalga sempre sulla considerazione del bene del penitente.

Sacramento come aiuto. In contesti simili il sacramento è visto non come premio dei perfetti (soggettivamente e/o oggettivamente) ma come aiuto nel cammino a persone la cui colpevolezza soggettiva è fortemente diminuita o assente, non come consacrazione della piena verità dell’esistenza ma come forza/luce donata per crescere nella conoscenza e attuazione dell’esistenza cristiana. In altre parole, AL richiama quella parte della tradizione – la stessa tradizione per altro di FC – che non assolutizza il criterio ma lo relativizza e lo subordina al bene della persona (delle persone): si danno circostanze infatti nelle quali ogni norma va ricondotta al suo fine proprio, che è la salus animarum, il bene delle persone.

Nella prospettiva di AL ciò che si richiede perché si attivi l’aiuto sacramentale è che sia per il bene della persona (delle persone) nel suo (loro) cammino cristiano. Cosa che AL senza dubbio fa. Essa mette in guardia da alcune situazioni che non possono essere considerate in questa luce: «Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr. Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione» (AL 297; Regno-doc. 5,2016,192). Inoltre dal momento che la stessa logica dell’integrazione deve evitare ogni occasione certa di scandalo (cf. AL 299), anche questo aspetto va tenuto presente nel discernimento sacramentale.

Vanno poi, secondo AL, presi in considerazione anche alcuni criteri positivi di discernimento. AL 293 indica l’esistenza di alcuni dati oggettivamente verificabili: stabilità e pubblicità del vincolo, affetto reciproco, responsabilità verso i figli ecc. Altri elementi sono tratti dal modo in cui il fedele si muove nel dialogo pastorale e nel rapporto sacramentale: «“Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. Familiaris consortio, n. 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere a una risposta più perfetta a essa”. Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale» (AL 300; Regno-doc. 5,2016,192). Questo quadro di criteri può essere allargato, sulla stessa linea di discernimento: ricordo un dato tradizionale, cioè la considerazione dell’assolvimento dei doveri nei confronti delle persone coinvolte nella prima unione e i tentativi di riconciliazione esperiti.

Applicatori di norme o pastori? Dal punto di vista della determinazione dei criteri appare particolarmente importante quanto leggiamo in AL 298. Ivi, infatti, l’esortazione, nell’intento di mostrare la varietà delle situazioni, offre vari casi possibili utilizzando anche quanto detto da FC 84 sui casi nei quali la separazione non sarebbe giusta. In particolare ricorda un caso di «una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe». AL sa bene quel che dice FC in un simile caso, ma non può esimersi dall’osservare nella nota 329 che la mancanza di intimità potrebbe portare a mettere in pericolo la fedeltà della seconda unione e il bene dei figli. Questa nota allude abbastanza chiaramente alla possibilità che in casi simili il bene dei figli e il bene connesso della stabilità coniugale della seconda unione – ormai irreversibile – siano tra i criteri che conducono il «discernimento personale e pastorale» all’ammissione all’eucaristia.

AL 298 offre altri casi possibili, tra i quali va notato in particolare quello del coniuge ingiustamente abbandonato e unito in nuova unione stabile. Non c’è dubbio che ogni confessore cattolico in questo momento si trovi in mezzo al guado tra FC e AL. Non si può negare lo sconcerto e la confusione di molti. La FC, anche se la sua soluzione si è rivelata sempre più limitata e insufficiente, ha offerto tuttavia per anni un quadro di riferimento dotato d’autorità. Il confessore ha potuto continuare a essere più un applicatore della norma che un pastore e un padre personalmente coinvolto nel bene del penitente e nel suo cammino cristiano. Oggi l’attitudine indicata da AL esige che il confessore assuma maggiore responsabilità personale nel valutare il bene del penitente e delle persone coinvolte dal suo agire, con cuore misericordioso e con intento terapeutico. Il suo ruolo è certamente assai più impegnativo. Bisogna però dire che diventa anche più significativo, più ricco e più ministerialmente pieno.

No al rigorismo, no al lassismo. Lo fanno percepire profondamente alcune parole di papa Francesco dette a tutti i confessori e che tutti i confessori dovrebbero ben meditare: «E bisogna guardarsi dai due estremi opposti: il rigorismo e il lassismo. Nessuno dei due fa bene, perché in realtà non si fanno carico della persona del penitente. Invece la misericordia ascolta veramente con il cuore di Dio e vuole accompagnare l’anima nel cammino della riconciliazione. La confessione non è un tribunale di condanna, ma esperienza di perdono e di misericordia!». [Francesco. Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria apostolica, 28.3.2014.]. «Tante volte si confonde la misericordia con l’essere confessore “di manica larga”. Ma pensate questo: né un confessore di manica larga, né un confessore rigido è misericordioso. Nessuno dei due. Il primo, perché dice: “Vai avanti, questo non è peccato, vai, vai!”. L’altro, perché dice: “No, la legge dice…”. Ma nessuno dei due tratta il penitente come fratello, lo prende per mano e lo accompagna nel suo percorso di conversione! L’uno dice: “Vai tranquillo, Dio perdona tutto. Vai, vai!”. L’altro dice: “No, la legge dice no”. Invece, il misericordioso lo ascolta, lo perdona, ma se ne fa carico e lo accompagna, perché la conversione sì, incomincia – forse – oggi, ma deve continuare con la perseveranza… Lo prende su di sé, come il Buon Pastore che va a cercare la pecora smarrita e la prende su di sé. Ma non bisogna confondere: questo è molto importante. Misericordia significa prendersi carico del fratello o della sorella e aiutarli a camminare. Non dire: “Ah, no, vai, vai!”, o la rigidità. Questo è molto importante. E chi può fare questo? Il confessore che prega, il confessore che piange, il confessore che sa che è più peccatore del penitente, e se non ha fatto quella cosa brutta che dice il penitente, è per semplice grazia di Dio. Misericordioso è essere vicino e accompagnare il processo della conversione». [Francesco. Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria apostolica, 28.3.2014.]

                Il Regno n.8    studio del mese aprile 2016

                www.dehoniane.it/control/ilregno/articoloRegno?idArticolo=992774

 

È iniziato il terzo tempo.

Dopo la fase pre-sinodale della consultazione delle Chiese e la fase sinodale del confronto e dell’ascolto tra i vescovi nei Sinodi del 2014 e nel 2015, con la pubblicazione dell’esortazione postsinodale Amoris laetitia l’8 aprile 2016 scorso è iniziato ora il delicato e fondamentale processo della recezione, attraverso il quale l’insegnamento magisteriale viene interiorizzato dal popolo di Dio come criterio di giudizio ecclesiale.

            Come sta andando? Se è presto per capire come è stato recepito il documento al livello della base, nelle prime settimane dopo la pubblicazione sono già diversi i vescovi che si sono espressi in merito al testo pontificio. Ci sono quelli che hanno partecipato al processo sinodale come padri sinodali e ora iniziano la “terza fase” come pastori delle loro diocesi, e ci sono quelli “contro”. Questi ultimi si sono fatti molto notare nel dibattito mediatico, che enfatizza le contrapposizioni e anzi le costruisce in funzione delle proprie dinamiche; sono pochi, ma cominciamo da loro per cogliere il punto dell’opposizione.

La prima voce si può citare per dovere di cronaca, anche se viene da “fuori” dalla Chiesa cattolica, perché non è senza influenze e tratti in comune con l’ultra-conservatorismo cattolico: è il leader della Fraternità sacerdotale di San Pio X, il vescovo lefebvriano Bernard Fellay, che in un’omelia a Puy-en-Velay il 10 aprile ha accusato l’Amoris laetitia di soggettivismo e relativismo morale: “La regola oggettiva è sostituita, alla maniera protestante, dalla coscienza personale (…) Invece di elevare ciò che è al livello di ciò che deve essere, si abbassa ciò che deve essere a ciò che è, alla morale permissiva dei modernisti e dei progressisti”. Insomma, altro che letizia, “c’è di che piangere”.

Rifiuta di riconoscere all’esortazione apostolica lo statuto di un atto di magistero l’ultra-conservatore card. Raymond Burke, di aperte simpatie lefebvriane, già vescovo di Saint Louis (USA), già prefetto del Supremo tribunale della Segnatura apostolica, paladino della posizione del “no a tutto ” nel Sinodo del 2014 (cf. Regno-att. 18,2014,611) e dal 2014 patrono del Sovrano ordine militare di Malta. Egli sostiene che nell’Amoris laetitia il papa esprima il suo pensiero personale, e così risolve il quesito se il documento costituisca o meno una rottura della tradizione ecclesiale, che è il punto del problema: siccome non è un atto di magistero, il magistero precedente rimane invariato.

La terza posizione da recensire nelle file dell’opposizione è quella del filosofo tedesco Robert Spaemann, docente emerito di Filosofia all’Università di Monaco, già consigliere di Giovanni Paolo II e amico di Benedetto XVI, che in un’intervista all’edizione tedesca della Catholic News Agency del 28 aprile ha affermato che il papa ha “elevato il caos a principio con un tratto di penna”, aprendo la strada a incertezza e confusione dalle conferenze episcopali fino alle più sperdute parrocchie, e a uno scisma nel cuore stesso della Chiesa.

Un’esortazione di consenso. Il card. Gerhard Müller, invece, che è il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e durante i due Sinodi aveva interpretato i timori di quanti si opponevano a cambiamenti dottrinali, ha accolto il documento postsinodale di Francesco come una riaffermazione dell’insegnamento della Chiesa, insieme a un’indicazione pastorale per accogliere e integrare i percorsi individuali nel discernimento ecclesiale. E questa posizione è condivisa dai numerosi vescovi che si sono pronunciati nelle settimane successive alla pubblicazione. In particolare, quanti hanno partecipato come padri sinodali al processo di confronto collegiale non condividono la negazione dell’autorità magisteriale all’Amoris laetitia, che raccoglie il risultato di uno scambio di punti di vista pastorali ed esperienze di Chiese locali diverse, che è stato insieme faticoso e fruttuoso.

Il card. Donald William Wuerl, per esempio, che è arcivescovo di Boston, in un intervento sul suo blog ha affermato il valore innegabilmente magisteriale di un documento che s’inserisce nella continuità degli insegnamenti ecclesiali e che è stato concepito come esito di un profondo discernimento al termine di un’ampia consultazione delle Chiese locali e di due Sinodi dei vescovi. E in un altro intervento, l’11 aprile, ha definito la postsinodale un'”esortazione di consenso”, usando un termine teologicamente denso che rimanda a Lumen gentium, n. 12. E questo stesso aspetto è stato sottolineato anche dal card. Ricardo Blásquez Pérez, arcivescovo di Valladolid e presidente della Conferenza episcopale spagnola: “In questa bellissima esortazione è ultimato un lungo itinerario percorso “sinodalmente”. Non c’è un cambiamento di dottrina, ma ci sono un respiro nuovo, un linguaggio attuale e un atteggiamento innovativo dinanzi a situazioni, che non sono più, o ancora non lo sono pienamente, matrimonio cristiano”. E ancora dai cardinali Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e presidente della Conferenza episcopale tedesca, e Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia e vicepresidente della Conferenza episcopale italiana; e dagli arcivescovi Bruno Forte di Vasto e Paul André

Durocher di Gatineau in Canada. Quest’ultimo esprime bene anche un altro elemento che sta a cuore ai pastori: l’atteggiamento – appunto – pastorale che deve permeare la cura delle anime loro affidata: “La prima sfida sarà di assicurare la lettura e l’assimilazione dell’esortazione da parte dei nostri sacerdoti e da quanti sono impegnati nelle attività pastorali. Fortunatamente, molti di loro vi troveranno la conferma dell’atteggiamento d’accoglienza, d’accompagnamento e d’inclusione che praticano già nel loro ministero parrocchiale. Il fatto nuovo per noi sarà di avere a portata di mano un testo magisteriale che pone i fondamenti biblici, teologici e psicologici di un simile atteggiamento”.

Perché, come ha sottolineato l’arcivescovo di Westminster card. Vincent Nichols nella lettera che ha fatto leggere in tutte le parrocchie il 1° maggio, tra i dogmi di fede che la Chiesa deve custodire c’è anche quello della misericordia di Dio: Francesco “ripresenta da capo il chiaro insegnamento della Chiesa sul matrimonio e ci ricorda costantemente la verità della misericordia infinita di Dio per ciascuno di noi”.

Rinnovamento di tutta la pastorale. Ci sono altre due sottolineature negli interventi dei vescovi a livello globale: una sull’aspetto dell’inculturazione, a partire da Amoris laetitia n. 3 che invita le Chiese locali a cercare le soluzioni pastorali più inculturate ai problemi della famiglia; e l’altra sulla responsabilità della recezione e dell’applicazione, che la postsinodale pone in capo a tutti i fedeli. Rispetto all’inculturazione, sulla quale si sofferma in particolare il card. Marx, dal momento che la Chiesa tedesca è stata particolarmente propositiva in questo senso,7 come ha rimarcato significativamente il card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano, parlando ai decani ai primi di maggio, dalla postsinodale consegue la responsabilità delle conferenze episcopali nazionali, dei vescovi diocesani e degli operatori pastorali d’individuare punti di riferimento e di esercitare il discernimento con sapienza, ed è auspicabile che vengano indicazioni dalla Chiesa italiana e si affrontino a livello diocesano aspetti più specifici. E il compito/responsabilità di rinnovamento profondo che tutto questo “processo sinodale ben riuscito” (Durocher) pone davanti a ogni battezzato è “davvero impegnativo per la cura pastorale, poiché senza un processo di dialogo personale, e talora anche più intenso, tutto ciò non sarà possibile. La triade “accompagnare, discernere e integrare” descritta da papa Francesco diventerà il cantus firmus della pastorale, se essa vuole davvero raggiungere l’uomo e dischiudere quel cammino che Dio stesso percorre con queste persone” (Marx). Di qui l’invito del card. Nichols a tutti i fedeli: “Per favore a casa leggetela, insieme con quelli che amate. E anche voi ne coglierete la bellezza, con lacrime di gioia”.

Daniela Sala   Il Regno n.8    studio del mese aprile 2016

pag. 248 del pdf di                     www.dehoniane.it/control/ilregno/articoloRegno?idArticolo=992774

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DALLA NAVATA

XX Domenica del tempo ordinario – anno C -14 agosto 2016.

Geremia         38, 08 Ebed-Mèlec (un servo del re) uscì dalla reggia e disse al re.

Salmo                         40, 02 Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ho dato ascolto al mio grido.

Ebrei               12, 02 tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento.

Luca               12, 49 In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!

 

Fuoco, immersione, divisione.           Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

Il brano evangelico di questa domenica, che contiene alcune parole “dure” di Gesù, è stato ed è tra i testi più incompresi, sovente manipolato dai predicatori, strumentalizzato e citato a favore della propria ideologia cristiana. Lo leggiamo cercando di non glossarlo, di non commentarlo troppo, per riconoscergli quell’autorità che è propria soltanto della parola del Signore e quindi spiegarlo con altre parole di Gesù, convinti del principio secondo cui “Scriptura sui ipsius interpres”, “la Scrittura è l’interprete di se stessa”.

Gesù sta salendo a Gerusalemme con i suoi discepoli e le sue discepole, tenendo ben presente che la meta di quel viaggio è la città santa che uccide i profeti e li rigetta (cf. Lc 13,33-34), dunque il luogo del suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Lc 9,31; Gv 13,1) attraverso la morte in croce. Tra i suoi insegnamenti e le sue parole Luca testimonia alcune convinzioni di Gesù espresse a voce alta: confessione e profezia! Innanzitutto Gesù dichiara: “Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già divampato!”. Questa la ragione della sua “venuta” da Dio sulla terra: è venuto a gettare fuoco! È evidente che qui il linguaggio di Gesù è parabolico, che non parla del fuoco divorante che brucia e terrorizza ma di un altro fuoco, di una forza divina che egli è venuto a portare tra gli umani e che desidera si manifesti e agisca. L’esperienza della presenza e dell’azione di Dio è sentita da Gesù come fuoco che brucia, illumina e riscalda, ed egli deve essere ricorso più volte a questo linguaggio simbolico.

Nel vangelo apocrifo di Tommaso questa parola è riportata quasi uguale: “Ho gettato il fuoco sul mondo, ed ecco lo custodisco fino a che divampi” (10). Un altro ágraphon, una parola non scritta nei vangeli canonici ma ricordata da Origene, da Didimo il cieco e dallo stesso vangelo di Tommaso (82), è accostabile a questo detto: “Chi è vicino a me, è vicino al fuoco; chi è lontano da me, è lontano dal Regno”. Da queste diverse testimonianze comprendiamo che Gesù era un uomo divorato da un fuoco, un uomo passionale, che la sua missione era quella di spargere come fuoco la presenza efficace di Dio nel mondo, che lui stesso era fuoco ardente, amore bruciante come “la fiamma di Jah” (Ct 8,6), del Signore. Nel vangelo secondo Luca il fuoco è soprattutto segno, simbolo dello Spirito santo, già annunciato da Giovanni il Battista come forza, presenza divina nella quale il Veniente immergerà chi si converte, cioè “battesimo in Spirito santo e fuoco” (cf. Lc 3,16); è quel fuoco che negli Atti degli apostoli scende come presenza bruciante del Risorto sulla chiesa nascente, radunata in sua attesa (cf. At 2,1-11).

Gesù è un uomo di desiderio grande e profondo, un uomo di passione e qui all’improvviso confessa questa passione che lo abita. Quel fuoco dello Spirito che egli ha portato dal Padre sulla terra, fuoco di amore, dovrebbe incendiare il mondo, ardere nel cuore di ogni essere umano: questo lui desiderava fortemente! Lo desiderava nei suoi giorni terreni e lo desidera ancora oggi, perché quel fuoco da lui portato spesso è coperto dalle ceneri che la chiesa stessa gli mette sopra, impedendogli di ardere. È così, lo sappiamo: basta leggere tutta la storia della fede cristiana per rendersi conto che il fuoco del Vangelo divampa qua e là, di tanto in tanto, in persone e comunità che lo fanno riapparire smuovendo la brace, ma poi presto, troppo presto, è nuovamente coperto dalla cenere. Riscalda sempre un po’, viene tenuto vivo e conservato, ma certo non arde. Gesù invece desiderava che ardesse nei cuori dei credenti come ardeva nel cuore dei due discepoli sul cammino di Emmaus (cf. Lc 24,32), quando prendevano fuoco le Scritture spiegate dal Risorto; come ardeva nella chiesa nata dalla Pentecoste

Segue poi un altro pensiero di Gesù strettamente collegato al primo: “Io devo ricevere un’immersione, e come sono angustiato finché non sia compiuta!”. Ecco un altro desiderio di Gesù, desiderio sofferente! È un annuncio della sua passione e morte, quando sarà immerso nella prova, nella sofferenza e nella morte di croce. Questo evento lo attende, ed egli deve entrare nell’acqua della sofferenza ed esservi immerso come in un battesimo. Non perché le sofferenze abbiano valore in sé, ma perché, se lui continua a essere fedele, obbediente all’amore, alla volontà del Padre che conosce solo l’amore, allora dovrà pagarne il prezzo: rifiuto, rigetto da parte dei potenti religiosi e politici, da parte del popolo stesso, perché Gesù è un “giusto” – come il centurione proclama sotto la croce dopo la sua morte (cf. Lc 23,47) – e se il giusto rimane tale non solo è di imbarazzo, ma va tolto di mezzo (cf. Sap 2,10-20).

Siamo sempre nello spazio del linguaggio simbolico: il battesimo per Gesù esù non è un rito, ma è un reale bagno di sangue e di morte. Egli è certamente angosciato di fronte a tale prospettiva, ma è ansia che si compia presto, che sia cosa fatta per sempre. Non che desideri la morte e la sofferenza, nessuna volontà “dolorista” da parte sua, ma volontà che si acceleri il cammino verso il compimento pieno della volontà di Dio, che è anche la sua volontà.

Vi è infine un terzo pensiero di Gesù, che consegue ai primi due, un pensiero che riguarda i discepoli, dunque anche noi oggi. Quale pensiamo sia l’esito della venuta di Gesù, dell’apparire del “segno del Figlio dell’uomo” (Mt  24,30), cioè della croce di Cristo, del Vangelo che si mostra come epifania nella vita delle persone? Pensiamo che tutto andrà meglio? Ecco l’inganno presente nei nostri cuori, pur colmi di desiderio e di passione.

Confesso che, grazie all’insegnamento ricevuto, sono sempre stato lucido al riguardo: anche durante il Vaticano II e subito dopo, seppur giovanissimo, osai oppormi agli entusiasmi dei miei amici, peraltro più autorevoli di me, i quali guardavano al concilio come a una nuova fase, una fase più “bella” nella vita della chiesa. Io invece ricordavo loro che nel mondo, più emerge il Vangelo, più divampa il fuoco dello Spirito, peggio si sta! Perché la buona notizia scatena “le potenze dell’aria” (Ef 2,2; cf. 6,12) e quelle della terra che, di fronte all’emergere del Vangelo, fanno una guerra più sfrenata. È così, è così! Più la chiesa si riforma, più nella chiesa non si sta quieti, ma emergono la divisione e la contrapposizione.

Ecco perché Gesù dice: “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra, ma la divisione!”. Attenzione, non che Gesù desiderasse la divisione tra gli umani e nella sua comunità, non che amasse vedere le contrapposizioni alla pace, ma sapeva bene che questa è la necessitas, “il necessario” nell’ordine di questo mondo. Appare un giusto, ed ecco che tutti si scatenano contro di lui; appare una possibilità di pace, e quelli che sono armati reagiscono; appare Gesù, e subito, fin dalla sua nascita, si scatena il potere omicida. Mentre gli angeli a Betlemme annunciano “pace in terra agli uomini che Dio ama” (Lc 2,14), il potente tiranno di turno, allora Erode, fa una strage di bambini innocenti e ignari (cf. Mt 2,16-18). Sono i falsi profeti a dire e a cantare sempre che “tutto va bene!” (cf. Ger 6,13-14; Ez 13,8; Mi 3,5), mentre invece bisogna essere avveduti. Ripeto, più il Vangelo è vissuto da uomini e donne, più appaiono la divisione e la contraddizione, anche all’interno della stessa famiglia, della stessa comunità. Fino al manifestarsi dell’indicibile: padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre.

Gesù è e resta “Principe di pace” (Is  9,5), e la sua vittoria è assicurata, ma al Regno si accede attraverso molte tribolazioni (cf. At 14,22), prove, divisioni. Così è accaduto per lui, Gesù; così deve accadere per noi suoi discepoli, se gli siamo fedeli e non abbiamo paura del fuoco ardente del Vangelo e dello Spirito di Gesù.

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10718-fuoco-immersione-divisione

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DIACONATO

Le “intenzioni del Vaticano II” e il diaconato femminile: K.-H. Menke e la paralisi della tradizione

Già quando ho presentato le mie riserve sulla intervista rilasciata dal prof. Menke a “Die Welt”, nei giorni scorsi, segnalavo che nel 2013 egli aveva scritto un lungo e documentato articolo sul tema del “diaconato femminile” con il titolo: Die triadische Struktur des Ordo und die Frage nach einem Diakonat der Frau, in: “Theologie und Philosophie” 88 (2013) 340-371. (La struttura triadica dell’Ordine e la questione del diaconato femminile) e mi riservavo di commentarlo a suo tempo.

www.cittadellaeditrice.com/munera/diaconato-femminile-prof-menke-locutus-quaestio-posita-non-soluta

            Vorrei ora qui discutere la sua tesi di fondo, che è una tesi “speculativa”, ossia sistematica, anche se alimentata da una grande dovizia di dati storici. Il testo è in effetti corredato da una mole imponente di “note” (ben 123), molte delle quali sono ricche di rimandi bibliografici e di discussioni con altri autori intervenuti sullo stesso tema. Non pretendo affatto di riassumere le 30 fitte pagine del suo accurato studio, ma cerco solo di farne emergere le linee di fondo e alcuni limiti, che pregiudicano a mio avviso una adeguata comprensione della questione attuale intorno al “diaconato femminile”. Procedo in questo modo: anzitutto presento la struttura dello studio nelle sue grandi campate (1.), poi esamino alcuni “punti critici” (2.) per concludere con alcune questioni aperte che restano da esaminare (3.).

            1. Dalla fedeltà al Vaticano II alla impossibilità del “diaconato femminile”. Dopo una non irrilevante premessa sullo scopo dello studio – restituire al Vaticano II le sue vere intenzioni, senza restare vittime degli “interessi” delle diverse scuole – l’autore struttura la sua ricerca in tre passi: il primo è dedicato alla ricostruzione dello “sviluppo storico” del rapporto tra episcopato, presbiterato e diaconato; il secondo è dedicato alla “unità triadica del sacramento dell’Ordine”, mentre il terzo tratta del rapporto tra questa unità dell’Ordo e la questione del diaconato femminile. Il centro della argomentazione di Menke funziona in questo modo: da due millenni di storia desumiamo un criterio di “unità triadica” dell’ordo, che si articola in episcopato, presbiterato e diaconato. Elaborato nel corso dei secoli, e giunto a piena chiarezza solo con il Vaticano II, questo “criterio ermeneutico” di fedeltà alla tradizione impone di riconoscere che tale “ordo” – con questa sua complessità – è sempre stato attribuito, in tutti i suoi gradi, soltanto a soggetti di sesso maschile. Il principio di “unità triadica” supera tutte le opposizioni sia tra i diversi gradi, sia tra livello sacramentale e livello giurisdizionale di esercizio della autorità. Ogni forma di distinzione residua viene bollata come “gnostica” o come “dualistica” e a queste posizioni erronee vengono ricondotte tutte le interpretazioni del Concilio Vaticano II che antepongono un “interesse pastorale” alla vera intenzione dei Padri Conciliari. Su questa base Menke procede alla confutazione di una serie di studi possibilisti sul diaconato femminile, mostrandone la contraddittorietà con le vere intenzioni del Vaticano II.

            Potremmo riassumere così la tesi di Menke: la elaborazione della “unità triadica” del ministero ordinato e la attestazione storica della assenza di donne integrate all’interno di tale “unità triadica” impedisce alla Chiesa di “ordinare donne”, ma non impedisce alla Chiesa di attribuire loro autorità, purché non al livello sacramentale dell’Ordo.

            2. Pregiudizi efficaci, assunti non dimostrati, dati dimenticati.  La trama del testo è fitta e complessa. Provo a farne emergere alcuni fili problematici:

  • Nel testo si assiste ad un continuo passaggio tra piano storico e piano sistematico. Il Concilio Vaticano II si sostiene – deve essere compreso sul piano storico. Ma la storia viene compresa sulla base di una interpretazione pesantemente sistematica del Concilio Vaticano II. Ora, questo non è affatto scandaloso. Ogni buon teologo procede sempre così. Non c’è mai né pura storia, né puro dogma. Quello che sorprende è piuttosto la “colpevolizzazione” di tutti coloro che non assumono la prospettiva – sistematicamente assai fragile – che Menke pretende di desumere direttamente dai dati storici!
  • Il principio sistematico di “unità triadica” dell’Ordine viene utilizzato, da Menke, come criterio ermeneutico per impedire ogni differenziazione storica! Questo è davvero sorprendente. Non solo perché unisce – surrettiziamente – condizioni di fatto e assunti sistematici in forma molto creativa, ma anche molto arbitraria; bensì anche perché dimentica che lo stesso magistero post-conciliare, in espressioni tutt’altro che secondarie, ha profondamente alterato questa “unità triadica”. Dunque da un lato vi è una enfasi estrema su “dati storici”, che imporrebbero una lettura sistematica univoca, il che non è. Ma la lettura sistematica è tanto forte, che dimentica, non casualmente, una evoluzione recente del magistero, che non è affatto coerente con la unità triadica sottolineata con tanta forza da Menke. Se ne trae l’impressione che si parli di “unità triadica”, per tener fuori le donne anche dal diaconato. Salvo poi utilizzare la differenza interna a tale unità in modo tanto forzato, da negare che il diacono agisca “in persona Christi”: da notare è che questo “fatto” non è mai citato da Menke, ma posto dal magistero successivo al Concilio.
  • Provo a sintetizzare questa piccola e grande contraddizione interna al testo. Menke dice: se l’Ordo è unico – sia pure differenziato al suo interno – la logica che vale per un grado deve valere anche per gli altri. Ma sembra dimenticare che il “diaconato uxorato” è diventato di nuovo possibile, in occidente, da qualche decennio, mentre presbiterato e episcopato restano celibatari. La unità ha al suo interno una articolazione. Non si vede come si possa escludere, su questa base, che il soggetto della ordinazione diaconale possa essere non solo un maschio sposato, ma anche una femmina sposata o magari anche una femmina celibe (con qualche rischio in più).
  • Sono rimasto piuttosto sorpreso dalle righe iniziali del testo. In esse si propone una “revisione” della interpretazione del Vaticano II rispetto a “due scuole”: quella di Bologna e quella di Roma. Non so se questo dipenda dalla distanza dall’Italia dell’autore, ma è curioso imparare da un teologo di Bonn che in Italia vi sarebbe anche una “scuola romana” di interpretazione del Concilio. A Bologna c’è sicuramente una scuola, con generazioni di maestri, allievi, discussioni, pubblicazioni, riviste, collane. A Roma ci sono alcuni autori, che hanno scritto sul Concilio Vaticano II, in modo anche meritevole, ma senza scuola, senza riviste, senza collane, senza confronti. Oltretutto Menke in nota cita gli “autori minori” – Gherardini e De Mattei, autori non di studi, ma di paphlets – e dimentica il maggiore – Marchetto, che ha scritto invece importanti raccolte di recensioni –: trovare tutta questa approssimazione sulla soglia di un articolo che vuole essere accuratissimo sul piano del dato storico, suscita una certa impressione.
  1. Le questioni vere e perciò dimenticate.  Nel cuore del suo testo paphlets Menke dice tre cose estremamente significative, che riporto per esteso:

a)      “In ciò che segue faremo il tentativo di desumere la intenzione dei testi (conciliari, sulla gerarchia) dalla loro preistoria” (340).

b)      “Già dalla fine del secondo secolo l’agire ex persona Christi davanti alla Chiesa è una “triade”. Nessun padre della chiesa attesta che una donna abbia assunto questo munus sacramentale” (368)

c)      “Dal III secolo vi sono “diaconesse”, ma è altrettanto incontestabile che esse non sono considerate come soggetti di un munus sacramentale” (368)

Se la teoria del “munus triadico” è chiara solo nel XX secolo, come si può far uso di essa come criterio di discernimento assoluto per testi del III e IV secolo? E’ qui evidente la tensione tra una rilettura del Vaticano II sulla base dei “fatti” che lo precedono e insieme una interpretazione dei fatti con le categorie conciliari, ma proposte in una loro interpretazione tutt’altro che pacifica. Ad ogni modo, ciò che manca, in modo del tutto decisivo, è qualsiasi riferimento al “divenire culturale” delle categorie della “auctoritas” e del “genere”. Che cosa fosse “donna” nel IV secolo e che cosa sia nel XX e XXI secolo non è un dato irrilevante per affrontare pienamente la questione. Né è irrilevante quale rapporto vi sia stato e vi sia tra l’esercizio della autorità e questa condizione naturale/culturale dell’essere donna. Per evitare di cadere nella “ideologia del gender” non si può però dimenticare totalmente la relazione culturale tra genere, potere e vita ecclesiale. Proprio la pretesa di “isolarsi dalla storia comune” per una ricostruzione asettica del “tema gerarchico” -così come appare condotta da Menke – indica chiaramente una “scelta di scuola”, non priva di conseguenze pesanti sulla analisi e sulla sintesi elaborata e proposta. E forse indica anche una difficoltà nel cogliere la “questione femminile nella Chiesa” nel suo significato più profondo e più radicale, ossia non come problema né di iurisdictio né di ordo, ma di riconoscimento di una esperienza dell’uomo/donna e di Dio, più ricca e più profonda proprio perché differenziata e non unificabile proprio a livello di “genere”.

            Concludo con alcune domande. Le lascio aperte, intenzionalmente, perché restano anche per me questioni, alle quali non so dare una risposta netta:

            La lettura del Vaticano II e della sua teoria dell’”ordo” proposta da Menke è un atto di fedeltà al testo conciliare o un “uso interessato” del testo? Forse dovremmo ammettere con molta maggiore serenità che una opposizione tra “vero testo” e “uso interessato” è una falsa opposizione. Proprio per il fatto che il Vaticano II non è solo “oggetto” ma “soggetto” della tradizione: tale tradizione, rispetto al Concilio, non si può ricostruire semplicemente “dal suo passato”, ma anche “dal suo futuro”. Altrimenti il Concilio viene ridotto, sostanzialmente, ad un passaggio irrilevante.

            Ciò di cui Menke accusa apertamente i suoi contraddittori – ossia di sottoporre il testo agli interessi del contesto pastorale di recezione – non dovrebbe essere rivolto, anzitutto, al suo tentativo di soluzione della questione del diaconato femminile, mediante un “uso sistematico” del Vaticano II interpretato come “chiusura” piuttosto che come “apertura”? Questo “uso” del Vaticano II, non è certo della scuola di Bologna, ma è proprio così diverso dalla cosiddetta “scuola di Roma”? Il suo “interesse” esplicito a “negare la questione del diaconato femminile” può essere letto in continuità con il Concilio, o deve essere interpretato come una pericolosa forma di “immunizzazione dal Vaticano II”? In altri termini, la “conclusione” sul diaconato femminile per Menke sta davvero “alla fine” del testo, come una logica e coerente conclusione, o non è piuttosto l’interesse primario che lo ha condotto a costruire tutta la sua fine “macchina storico-dogmatica” in funzione puramente difensiva? Solo perché la Chiesa possa permettersi di riconoscere, anche qui, di non avere alcuna autorità proprio sulla attribuzione della autorità?

            La lettura del saggio non permette di rispondere definitivamente a queste domande. Ma per questo non permette neppure di pensare la apertura alla “autorità femminile nella Chiesa” come destinata “necessariamente” a luoghi diversi dal “ministero ordinato”. Questa “necessità” non è per nulla evidente, se non per una logica azzardatamente autoreferenziale. La questione è perciò più complessa di una tesi sistematica imposta non “dal”, ma “al” Vaticano II. Dunque la discussione è solo al suo inizio. Ma dobbiamo riconoscere apertamente che, anche grazie a questo audace approfondimento proposto dal prof. Menke, la tradizione non sarà condannata alla paralisi, ma potrà riconoscersi autorizzata ad andare avanti, con fiducia e senza irrigidimenti, “sulle orme del Vaticano II”.

Andrea Grillo blog: Come se non     10 agosto 2016

www.cittadellaeditrice.com/munera/le-intenzioni-del-vaticano-ii-e-il-diaconato-femminile-k-h-menke-e-la-paralisi-della-tradizione

 

Francesco e l’altra metà della chiesa.

In giugno il pontefice ha elevato di “grado” liturgico la ricorrenza della festa di santa Maria Maddalena, che ricorre il 22 luglio; e una settimana fa ha nominato una commissione di studio sul diaconato femminile. La “promozione” della Maddalena non è un fatto devozionale qualsiasi, ma un modo per approfondire la riflessione teologica sulla donna amata da Gesù ed alla quale – afferma il Vangelo – Egli, risorto, affidò l’incarico di annunciare ai “fratelli” la notizia di essere il Vivente. Per comprendere la portata della scelta di Cristo occorre ricordare che, a quei tempi, nel mondo ebraico, la testimonianza di una donna non aveva nessun valore. Eppure, andando contro la mentalità corrente, Gesù affida ad una donna la “missione” sorprendente di annunciare alla primissima comunità cristiana la Sua risurrezione. Perciò, commentando questo evento capitale, Tommaso d’Aquino definirà Maria Maddalena “apostola degli apostoli”. Ma, storicamente, la “apostola” (spesso, ma indebitamente mescolando varie figure evangeliche, confusa poi con una “peccatrice”) non ha avuto molto peso “teologico”. E la Chiesa si è strutturata sulla testimonianza maschile, e su un’organizzazione patriarcale che ha escluso le donne da ogni “potere” sacro.

Tuttavia, nei primi secoli vi furono le “diaconesse”: quale era, però, il loro ruolo effettivo? Alla domanda i teologi hanno dato risposte articolate, e controverse: secondo alcuni esse avevano reali “poteri”, come i “diaconi”, secondo altri no. Per tentare di dirimere la questione, Francesco ha nominato, appunto, una commissione, guidata da mons. Luis F. Ferrer, segretario della Congregazione per la dottrina della fede, e composta da dodici competenti, tra cui sei donne. Sullo sfondo della questione sta la domanda cruciale: se la Maddalena ebbe da Gesù l’incarico di annunciare anche agli apostoli il cuore del Suo messaggio – Cristo è il Risorto – perché mai lei, e con lei ogni donna, non potrebbe presiedere la Cena eucaristica?

Giovanni Paolo II, nel 1994, proclamò, come sentenza da ritenersi “definitiva”, la negazione assoluta dell’ordinazione sacerdotale della donna. E Bergoglio, a sua volta, ha detto di voler mantenere “sbarrata” ogni ipotesi di donna-prete. Ma se si superasse il concetto di sacerdozio, mai previsto da Gesù, e si imboccasse la strada dei “ministeri”, cioè dei “servizi” utili alla comunità cristiana, forse il ruolo di Maria Maddalena sarebbe riscoperto e, dunque, anche le donne potrebbero oggi ricoprire ogni ruolo ecclesiale, come del resto già avviene in quasi tutte le Chiese legate alla Riforma. Non è però pensabile che la piccola e neonata commissione vaticana sfiori quest’ardua problematica. Solo un nuovo Concilio generale della Chiesa romana (aperto a uomini e donne) potrebbe smantellare il maschilismo ecclesiastico e accogliere nei ministeri anche “l’altra metà della Chiesa”

            Luigi Sandri               “Trentino”     8 agosto 2016

www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut1110

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DIRITTI

Tutti i rischi del dibattito sulla poligamia

«Se è solo una questione di diritti civili, ebbene la poligamia è un diritto civile». È polemica sulla frase scritta sul suo profilo Facebook da Hamza Roberto Piccardo, fondatore dell’Ucoii (Unione comunità islamiche d’Italia). Al di là dell’intento provocatorio di Piccardo, esplicitamente contro il riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso, la questione se si debba o meno riconoscere la poligamia come una forma famigliare legittima ritorna periodicamente alla ribalta, non solo in Italia.

Istituzione antica e diffusa in passato in molte culture e religioni (se ne trova traccia anche nella Bibbia), soprattutto nella forma della poliginia, ovvero di un matrimonio tra un uomo e due o più donne, molto meno della poliandria, ovvero del matrimonio di una donna con molti uomini, nelle società occidentali la poligamia come istituzione sociale e legale non è riconosciuta e sembra ancora meno accettabile dell’omosessualità come fondamento della coppia. Si pensi alle persecuzioni cui vennero sottoposti i mormoni negli Stati Uniti prima che cessassero di praticarla ufficialmente.

Nelle società occidentali, infatti, benché l’adulterio non sia più considerato un reato punibile penalmente e vi siano casi, più o meno clandestini, di uomini con famiglie “multiple” (si pensi a Mitterrand), sia poliginia sia poliandria sono accettate a livello legale solo nella forma seriale, ove a un rapporto di coppia legittimo interrotto dalla morte o dal divorzio ne può seguire un altro, pure legittimo.

Modello culturalmente, anche se non numericamente, prevalente in molti paesi dell’Africa e dell’Asia esclusivamente nella forma della poliginia, la sua legittimità legale è divenuta oggetto di discussioni e talvolta restrizioni anche in questi stessi paesi. In Cina è vietata dal 1953. In India è consentita solo ai cittadini musulmani. Turchia e Tunisia sono gli unici paesi islamici ad averla vietata formalmente, la prima dagli anni trenta, la seconda dal 1957. In altri paesi, come la Libia e più recentemente l’Egitto e il Marocco, sono state imposte restrizioni, subordinandone, ad esempio, la possibilità al consenso della prima moglie o consentendo a questa di divorziare se ritiene che il nuovo matrimonio del marito leda i suoi diritti.

Le motivazioni che hanno portato al divieto o alla restrizione di questo istituto riguardano principalmente la parità uomo-donna nel matrimonio. E’ vero che tradizionalmente anche il matrimonio monogamico è stato, e in molti casi ancora è, fondato sulla asimmetria dei sessi. Tuttavia nella sua evoluzione recente in Occidente è stato sempre più orientato alla autonomia di scelta dei singoli, alla pari dignità e parità legale tra i coniugi. Non è forse un caso che il modello valoriale della parità tra coniugi sia maturato a partire dalla forma del matrimonio monogamico e non dalla poliginia, che invece favorisce rapporti uomo-donna fortemente asimmetrici. La monogamia certamente non garantisce la parità e nemmeno il rispetto (come testimoniano drammaticamente i troppi casi di uxoricidio), ma la favorisce quando se ne danno le condizioni culturali e legali.

In questa prospettiva si può ragionevolmente sostenere che, in società democratiche e fondate sul principio dell’uguaglianza tra uomini e donne, la poliginia non è un diritto, perché sancirebbe rapporti tra uomini e donne asimmetrici. Non lo sarebbe neppure se venisse integrata dalla poliandria. Nessuno può impedire a un uomo di convivere con molte donne, se queste sono tutte consenzienti, così come non si può impedire legalmente a un uomo o a una donna di avere, oltre a un coniuge, un/una amante. Ma nel nostro ordinamento civile non può trovare posto l’istituto della poliginia, anche se sancito religiosamente. Sarebbe dovere dei rappresentanti religiosi delle comunità che praticano la poliginia non avallare pratiche che non hanno riconoscimento civile/legale, perché espongono le donne che vi si prestano a rischi di abbandono e mancanza di protezione legale, oltre che di sopraffazione.

Rimane la questione di come riconoscere gli effetti, le obbligazioni, che scaturiscono da rapporti poliginici contratti legalmente altrove. E’ una questione che hanno dovuto affrontare tutti gli stati meta di migrazioni da paesi in cui la poliginia è legale. Mentre l’equiparazione tra figli naturali e legittimi sgombra il campo da ogni possibile discriminazione di figli della seconda o terza moglie, e la giurisprudenza consente a un figlio di ricongiungersi alla propria madre, anche se nel paese d’origine è la seconda moglie del padre, un uomo non può chiedere il ricongiungimento di più di una moglie. Gli obblighi verso di questa nel paese di destinazione rimangono puri fatti privati, come verso un’amante.

Chiara Saraceno        la Repubblica 9 agosto 2016

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/08/09/tutti-i-rischi-del-dibattito-sulla-poligamia25.html?ref=search

 

La poligamia non può essere un diritto civile in Italia

Hamza Piccardo, voce assai ascoltata dell’Islam italiano, composto da molti stranieri e da un numero significativo di nostri connazionali diventati musulmani, ha affermato: «Se è solo una questione di diritti civili, ebbene la poligamia è un diritto civile». E ancora: «non si capisce perché una relazione tra adulti edotti e consenzienti possa essere vietata, di più, stigmatizzata, di più, aborrita».

Piccardo sbaglia di grosso, sin dalla premessa: la poligamia non è affatto «una questione di diritti civili». La poligamia, per contenuto morale e per struttura del vincolo, si fonda — e non può che fondarsi — su una condizione di disparità, che viene riprodotta e perpetuata. Comunque la si voglia argomentare e manipolare fino a immaginare il suo rovesciamento speculare (più uomini sposati con una sola donna), si tratta in ogni caso di un rapporto fondato su uno stato di diseguaglianza.

Piccardo, che non è uno sprovveduto, ritiene che quella condizione diseguale possa essere sanata dal fatto che essa sia consapevolmente accettata e condivisa da adulti consenzienti. Ma è proprio qui che il ragionamento mostra tutta la sua debolezza. La parità tra i sessi e la tutela della dignità contro ogni discriminazione costituiscono un diritto fondamentale della persona, che è (proprio per questo) non disponibile. Ovvero, un diritto non alienabile (e non limitabile, modificabile o cedibile) persino da parte del suo stesso titolare. Un diritto, cioè, sottratto ad ogni potere dispositivo: fosse anche quello del suo stesso beneficiario. Ed è il medesimo principio che non consente il lavoro schiavistico o il commercio degli organi o ogni altra forma di degradazione della dignità personale, anche qualora vi fosse il consenso dei diretti interessati (consenso che, non a caso, per tali reati non esclude la punibilità).

Questa discussione è di cruciale importanza perché consente di tracciare un discrimine limpido tra quanto — delle tradizioni, delle confessioni e delle culture di diversa origine — è accettabile all’interno del nostro ordinamento giuridico e della nostra vita sociale e quanto, al contrario, deve essere rifiutato. Personalmente, sono favorevole alla più ampia capacità di accoglienza e inclusione di stili di vita e forme di relazione, di riti religiosi e costumi culturali i più diversi, ma con il limite insuperabile rappresentato dalla intangibilità dei diritti fondamentali. Di conseguenza, il relativismo culturale, che è manifestazione propria di una concezione liberale della società, non può accettare l’esclusione delle ragazze dall’istruzione scolastica o la loro subordinazione ai maschi, i matrimoni precoci e le mutilazioni genitali femminili (peraltro non esclusivamente né principalmente derivate da una lettura del Corano). In quest’ultimo caso, è chiaro che la tradizione religiosa o etnica non può in alcun modo compromettere l’affermazione del diritto umano alla piena integrità fisica. Poi, evidentemente, si tratta di combinare tali irrinunciabili valori, protetti giuridicamente, con intelligenti politiche pubbliche. È un’impresa ardua, assai ardua, ma va tentata. E non si tratta nemmeno di una novità.

Nel lontano 1987 Lehsen Bouzid, operaio marocchino di un’azienda di Anzola Emilia, fa giungere in Italia — in virtù del ricongiungimento familiare previsto dalla legge — le sue due mogli, dalle quali aveva avuto numerosi figli. Il ministero dell’Interno respinge la domanda di «permesso di soggiorno per motivi di famiglia»: ma il ricorso al Tar consente infine alle due donne di risiedere in Italia in ragione della «gravità e irreparabilità sotto l’aspetto sociale, economico e familiare» del caso considerato, accogliendo la tesi dell’avvocato. Ovvero che non si trattasse di ottenere dallo Stato italiano «un riconoscimento formale e giuridico della condizione familiare delle ricorrenti, bensì semplicemente una non discriminazione». E ciò in virtù degli articoli della Costituzione italiana che tutelano «le confessioni religiose diverse dalla cattolica» e le forme di relazione e le strutture giuridiche che ne conseguono. Si può dire che, in sostanza, la decisione del Tar ha affermato la prevalenza del valore dell’unità del nucleo familiare rispetto alla norma penale italiana che vieta la bigamia. Insomma, il Tar non riconosce, certo, un disvalore, come quello insito nella poligamia, ma si limita a porre rimedio a uno stato di necessità, secondo il principio del «male minore» (la tutela di tutti i figli di quella relazione poligamica). Ma, sia chiaro, si tratta di una soluzione, pure opportuna in quel caso, che lungi dal risolvere definitivamente il problema, ne rivela la drammatica complessità. A conferma del fatto che la convivenza tra etnie confessioni e culture, non solo inevitabile ma potenzialmente assai remunerativa sotto tutti i profili, può essere assai faticosa.

Luigi Manconi                       Corriere della Sera    9 agosto 2016

www.corriere.it/opinioni/16_agosto_09/poligamia-non-puo-essere-bec28458-5d98-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml

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GOVERNO

Quarto Piano Nazionale Infanzia

Il Consiglio dei Ministri approva il IV Piano Nazionale Infanzia: “Rilanciare l’adozione internazionale con l’attuazione di un sistema integrato pubblico – privato di accompagnamento delle coppie”. Rilanciare l’adozione internazionale con l’attuazione di un sistema integrato pubblico-privato di accompagnamento delle coppie; rafforzare percorsi di accompagnamento e di sostegno appropriati e integrati nell’ambito dell’iter adottivo; superare la frammentazione dell’iter adottivo e la differenziazione dei percorsi di adozione nazionale ed internazionale. E ancora promuovere il confronto con le associazioni familiari, gli enti autorizzati e gli ordini professionali interessati. Ciò anche alla luce della necessità di riordino e armonizzazione della legge 184/1983 sulle adozioni con la legge 219/2012 in materia di riconoscimento dei figli naturali e la legge 101/2015 di ratifica della Convenzione dell’Aja del 1996 in materia di responsabilità genitoriale.

            Questi a grandi linee, tra gli altri, gli obiettivi del Piano nazionale di azione e interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva 2016/2017 approvato il 10 agosto 2016 dal Consiglio dei Ministri. Il provvedimento – proposto dai Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti, e per gli Affari Regionali e le Autonomie, Enrico Costa – definisce un panorama d’interventi a favore dei soggetti in età evolutiva ed è strumento di applicazione e implementazione della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo.

Infanzia e adolescenza, IV Piano di interventi a favore dei soggetti in età evolutiva

Su proposta dei Ministri del lavoro e delle politiche sociali Giuliano Poletti e per gli affari regionali e le autonomie Enrico Costa il Consiglio ha approvato il IV Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva 2016-2017, ai sensi dell’articolo 1, comma 5, del DPR 14 maggio 2007, n. 103. Il Piano è stato predisposto dall’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza e identifica interventi a favore dei soggetti in età evolutiva quale strumento di applicazione della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York (20 novembre 1989) e recepisce le indicazioni di modifica contenute nei pareri resi dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, dalla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza e dalla Conferenza unificata.

www.governo.it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n125/5566

            Il Piano dedica ampio spazio allo sviluppo del sistema di accompagnamento integrato (misto pubblico – privato) attraverso l’adozione dei POC (protocolli operativi regionali) predisposti con la partecipazione di rappresentanti dell’Autorità giudiziaria minorile, servizi socio sanitari, Enti autorizzati, scuola e associazioni Familiari) ponendo attenzione al sostegno a partire dalla fase dell’affidamento preadottivo, durante l’affidamento “a rischio giuridico di adozione” o “collocamento provvisorio”, fino alla fase post adottiva, con particolare attenzione alla fase adolescenziale.

            Inoltre si parla di promozione di luoghi di confronto a livello nazionale regionale e locale (a cadenza regolare per favorire il dialogo tra amministratori e soggetti addetti ai lavori) della necessità di un rafforzamento dell’accessibilità della formazione, e del sostegno da parte dei servizi socio assistenziali e sanitari previsti dalla normativa vigente per le coppie/famiglie adottive prima durante e dopo l’adozione, con particolare attenzione all’adozione di minorenni con disabilità o ultradodicenni, e all’accompagnamento durante la fase adolescenziale, prevedendone l’inclusione come uno dei livelli essenziali delle prestazioni sociali (o sociosanitarie integrate).

            Il piano non si dimentica del sostegno all’applicazione delle linee guida MIUR per “Favorire il diritto allo studio degli alunni adottati” e la valorizzazione dei Protocolli di intesa adottati a livello locale tra servizi pubblici, scuola e terzo settore per l’iscrizione, l’inserimento e l’inclusione dei bambini adottati.

            Infine, ma non meno importante, viene sottolineata l’importanza di un aggiornamento da parte degli Enti autorizzati delle tabelle costi dell’adozione internazionale, garantendo maggiore trasparenza sulla modalità di pagamento dei servizi per le adozioni internazionali in Italia e all’estero e il sostegno all’adozione, al post-adozione e all’affido familiare.

            Ma nel Piano non si parla solo di adozione: spazio anche sulle iniziative da mettere in campo per favorire l’ affidamento familiare dei minorenni non accompagnati, ovvero attraverso la piena attuazione delle linee guida nazionali in materia; definire, con accordi interistituzionali, procedure univoche sul territorio nazionale (che prevedano anche la partecipazione di rappresentanti di ONG accreditate) per la loro accoglienza a livello locale.

 

            Ai. Bi.             12 agosto 2016

www.governo.it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n125/5566

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MATRIMONIO

Far credere di non essere sposati è reato.

Corte di Cassazione, quinta Sezione penale, sentenza n. 34800, 10 agosto 2016

Fingere di essere divorziato o di non essere sposato, nascondendo la propria moglie o marito e figli, integra il reato di sostituzione di persona. Dire di non essere sposati, far finta di non aver moglie (o marito) e figli o di essere divorziati quando invece non è vero costituisce un reato: quello di sostituzione di persona [Art. 494 cod. pen.]. È quanto chiarisce la Cassazione con una recente sentenza. Secondo la Corte, integra un comportamento punibile ai sensi del codice penale quello di far credere a una donna (o a un uomo) di non avere legami matrimoniali o di essere divorziati quando invece ci sono mogli/mariti e figli.

            Puniti i finti celibi, nubili o scapoli: le scuse inscenate per mantenere una relazione amorosa parallela o solo per procurarsi facili rapporti sessuali – che altrimenti sarebbero negati – hanno le ore contate. È vero: perché scatti il reato di sostituzione di persona è necessario che il reato, oltre alla condotta volta a far credere di essere liberi da vincoli, persegua un’utilità economica. Tuttavia, le più recenti sentenze sono propense a considerare il concetto di “utilità” non solo legato ai soldi e al guadagno, ma a qualsiasi altro tipo di vantaggio, come anche il mantenimento di un rapporto sentimentale o carnale. Insomma, anche il semplice fingere di essere single pur di continuare a stare con un’altra donna o uomo può costituire un’utilità.

            La vicenda è da film. Un uomo, pur di preservare il rapporto con la propria amante, le diceva di aver ottenuto l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota: a tal fine falsificava un certificato, riproducendolo al computer in tutto e per tutto come l’originale. Un falso in atto pubblico? No, perché la contraffazione poteva essere facilmente riconoscibile ad occhio nudo (è ciò che i giuristi chiamano “falso grossolano”) e che solo l’occhio innamorato di lei non era riuscito a scoprire. Grazie a questa messa in scena, l’uomo – che in realtà era “sposato con famiglia” – manteneva la relazione con l’ignara amante fino a frequentare con lei un corso prematrimoniale a dimostrazione delle sue serie intenzioni. Arrivava addirittura a prometterle ripetutamente un incontro con i suoi genitori: i futuri suoceri avrebbero funto da “garanti” delle sue buone ragioni matrimoniali. Incontro che – neanche a dirlo – veniva sempre rinviato per oscure ragioni. Finché la donna, insospettita, si è messa a pedinare l’uomo, scoprendo che lo stesso continuava a vivere con la sua “precedente” moglie.

            Tentata poligamia? Se fingere di non essere sposati costituisce reato di sostituzione di persona, non c’è invece quello di tentata poligamia se manca l’effettiva intenzione, del finto single, di salire una seconda volta sull’altare. Solo se le attività del colpevole sono volte realmente a contrarre un ulteriore matrimonio, in costanza del precedente, si può parlare di tentata poligamia. Altrimenti, se il finto single non ha nessuna intenzione di pronunciare un secondo sì, volendo solo prolungare la sua liason amorosa, tale ulteriore reato non sussiste.

            Redazione Lpt                       11 agosto 2016                                  sentenza

http://www.laleggepertutti.it/128920_far-credere-di-non-essere-sposati-e-reato

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OMOADOZIONE

Avvocati contro le adozioni gay: viene prima l’interesse del minore

Adozioni gay: in pochi sono al corrente del fatto che il 13 giugno 2016 scorso l’Organismo Unitario dell’Avvocatura (OUA), vale a dire l’organismo di rappresentanza politica dell’avvocatura italiana, è stato ascoltato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, sull’ “Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozione ed affido”. Nel corso dell’audizione è stato consegnato un documento di osservazioni e proposte, nel quale auspica e propone l’apertura delle adozioni anche a single, conviventi di fatto e coppie omosessuali.

            Da qui la proposta di una modifica della legge 184/1983 che disciplina l’adozione. Il documento afferma che la società è in continua evoluzione anche sul piano familiare e quindi gli avvocati non possono che prenderne atto. Dalla corretta registrazione di un dato sociologico si passa indebitamente all’avallare giuridicamente tale dato, anche se, dal punto di vista antropologico ed etico, più che una evoluzione si tratta di una involuzione (La Nuova Bussola Quotidiano, 7 agosto).

            Il paradosso dell’OUA. Sul documento, però, l’OUA si è diviso. L’avvocato Lorena Lombardelli non condividendo tale posizione, ha avviato una petizione per esprimere la contrarietà al documento portato in audizione alla Camera. Ed è stato stilato un nuovo documento, presentato ai vertici dell’OUA, che ad oggi conta circa 200 sottoscrizioni, tra cui si segnalano illustri personalità del mondo giuridico (come il Prof. Mauro Ronco, Presidente del Centro Studi Rosario Livatino, già componente del Consiglio Superiore della Magistratura, ordinario di diritto penale presso l’Università’ di Padova; l’Avv. Gianfranco Amato, Presidente dei Giuristi per la Vita) e aperto alla possibilità di ulteriori adesioni.

            Il preminente interesse del minore. Secondo i 200 sottoscrittori del nuovo documento, il primo paradosso del documento OUA è che «alla formale dichiarazione d’intenti di garantire l’effettività della tutela dei minori, fa immediato seguito la messa da parte proprio del “preminente interesse del minore”». «Muovendo dalla considerazione – si legge – che “la relazione di coppia è affare privato” e “ci sono diversi modi di essere famiglia”, secondo l’OUA “gli unici principi orientativi della materia possono e debbono essere il principio di uguaglianza e divieto di discriminazione, e la tutela del diritto alla vita familiare, conformemente al diritto europeo che siamo tenuti a rispettare”. Ciò naturalmente “nella consapevolezza che i diritti non dovrebbero offendere nessuno” e che ciò che conta ormai è “la scelta di voler essere genitori” e l’esistenza di un “progetto genitoriale”. Quest’ultimo ridotto, dunque, ad una sorta di scatola vuota in grado di legittimare qualsiasi aspirante all’adozione. Ne emerge una inammissibile prospettiva adultocentrica in luogo del “preminente interesse del minore”».

            Si viola un principio del diritto. Questa posizione «non è condivisibile dal momento che la materia del diritto minorile e, nello specifico, la disciplina dell’adozione non possono mai prescindere dalla tutela dell’interesse del minore, soggetto debole e indifeso, dunque sempre e comunque da garantire». In ogni caso, prima di procedere all’ampliamento delle categorie dei legittimati all’adozione, sottolinea chi si oppone al documento sottoscritto a nome dell’OUA, che «si impone, nell’ottica irrinunciabile della tutela del minore, la valutazione imprescindibile e rigorosa delle possibili conseguenze ed effetti di un siffatto ampliamento sulla crescita e lo sviluppo sereno e armonioso del minore stesso».

            Da sempre, prosegue la nota promossa da Lombardelli, «gli studi e l’esperienza hanno confermato come la crescita del bambino presupponga e richieda stabilità affettiva e relazionale. Se è vero che il matrimonio non offre ad oggi una sicura garanzia, nondimeno la sua presenza è quantomeno sintomatica di una assunzione reciproca di responsabilità in capo ai coniugi e di un progetto duraturo di vita comune». Numerosi studi scientifici «hanno rilevato inoltre l’importanza delle due figure genitoriali complementari e le conseguenze di tale mancanza nello sviluppo educativo e nella costruzione della personalità da parte del minore che – ricordiamolo – in quanto in stato di abbandono, è in una situazione di estrema fragilità, è un soggetto già ferito e provato dalla vita negli affetti e nelle certezze che costituiscono le colonne di una personalità».

            Principio di precauzione. In ogni caso, ragionano i sottoscrittori della petizione anti-adozioni gay, «assumendo per vera l’ipotesi sostenuta dall’OUA (“D’altra parte senza dati scientifici che per quanto riguarda i genitori di fatto, omogenitoriali o monogenitoriali, comprovino che l’inserimento di un minore in tali contesti crei pregiudizio (…)”), l’estrema delicatezza della questione, impone necessariamente che anche in mancanza di evidenze scientifiche si adotti il principio che regge e guida numerosi settori dell’ordinamento, il “principio di precauzione”: se non si può rischiare con l’ambiente, a maggior ragione con dei bambini fragili, deboli, per di più già feriti».

Gelsomino Del Guercio         Aleteia                        11 agosto 2016

http://it.aleteia.org/2016/08/11/avvocatura-statu-adozioni-gay-petizione-interesse-minore/?utm_campaign=NL_itutm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it

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ONLUS-NON PROFIT

Disposizioni in materia di trasparenza e di efficacia nell’utilizzazione della quota del cinque per mille

Decreto Presidente Consiglio dei Ministri 7 luglio 2016, G.U. n. 185, 9 agosto 2016.

Sulla Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato il DPCM 7 luglio 2016, “Disposizioni in materia di trasparenza e di efficacia nell’utilizzazione della quota del cinque per mille, in attuazione all’articolo 1, comma 154, della legge 23 dicembre 2014, n. 190”.

            Il provvedimento ha la finalità di garantire più trasparenza ed efficacia nell’utilizzazione del beneficio del cinque per mille. In tema di semplificazione degli adempimenti per l’ammissione al riparto della quota del cinque per mille, l’iscrizione e la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà relativa alla persistenza dei requisiti, regolarmente adempiute, esplicano effetti anche per gli esercizi finanziari successivi a quello di iscrizione. Gli enti che non sono tenuti a riprodurre la domanda di iscrizione e la dichiarazione sostitutiva, sono inseriti in un apposito elenco, integrato, aggiornato e pubblicato sul sito web dell’Agenzia delle entrate entro il 31 marzo di ciascun anno. Eventuali errori rilevati nell’elenco o variazioni intervenute possono essere fatti valere, entro il 20 maggio.

            In caso di sopravvenuta perdita dei requisiti, il rappresentante legale dell’ente sottoscrive e trasmette all’amministrazione competente, con le medesime modalità della dichiarazione sostitutiva, la revoca dell’iscrizione.

            Queste disposizioni si applicano a decorrere dall’esercizio finanziario 2017, con riferimento ai soggetti regolarmente iscritti nel 2016.

            Con riferimento alla rendicontazione, i soggetti beneficiari, entro un anno dalla ricezione degli importi, redigono un apposito rendiconto, accompagnato da una relazione illustrativa, dal quale risulti con chiarezza la destinazione delle somme attribuite. Il rendiconto include anche l’indicazione delle spese sostenute per il funzionamento del soggetto beneficiario, ivi incluse le spese per risorse umane e per l’acquisto di beni e servizi, dettagliate per singole voci di spesa, con l’evidenziazione della loro riconduzione alle finalità ed agli scopi istituzionali del soggetto beneficiario.

Inoltre devono essere indicati gli eventuali accantonamenti delle somme percepite per la realizzazione di progetti pluriennali, fermo restando l’obbligo di rendicontazione successivamente al loro utilizzo.

            Rendiconti e relazioni illustrative, poi, dovranno essere pubblicati, entro un mese dalla ricezione, sui siti web delle amministrazioni erogatrici del contributo del 5 per mille.

            Gli enti che hanno percepito contributi di importo inferiore a 20.000 euro non sono tenuti, salva espressa richiesta dell’amministrazione, all’invio del rendiconto e della relazione, che dovranno comunque essere redatti entro un anno dalla ricezione degli importi e conservati per 10 anni.

            Nel caso in cui venga accertato che il contributo erogato sia stato impiegato per finalità diverse da quelle perseguite istituzionalmente dal soggetto beneficiario, si procede al recupero del contributo, che comporta l’obbligo a carico del beneficiario di riversare all’erario, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica del provvedimento contestativo, l’ammontare percepito, in tutto o in parte. Se l’obbligato non ottempera al versamento entro il termine fissato, si procede al recupero coattivo dei contributi e degli accessori al contributo stesso, con l’applicazione delle sanzioni penali ed amministrative.

Non profit on line       10 agosto 2016.

www.nonprofitonline.it/default.asp?id=466&id_n=6911

www.fiscooggi.it/normativa-e-prassi/articolo/novita-5-all-insegnadi-semplificazione-e-trasparenza

http://def.finanze.it/DocTribFrontend/getAttoNormativoDetail.do?ACTION=getSommario&id={F5877BDE-6DC3-4520-9CE3-9446B4E6EF09}

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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI

La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.

XXIV CONGRESSO NAZIONALE U.C.I.P.E.M.

Oristano, 2-4 Settembre 2016 Hotel Mistral, via XX settembre 84

Programma, scheda di iscrizione, note organizzative, informazioni, pieghevole, prenotazioni, ospitalità in

www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=399:congresso-ucipem-di-oristano-bozza-del-programma&catid=61&Itemid=203

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UNIONI CIVILI E CONVIVENZE DI FATTO

Contratto di convivenza: diritti e doveri.

I conviventi possono registrare all’anagrafe un accordo riguardante patrimonio e questioni economiche. Se vogliono la comunione dei beni, devono segnalarlo (Legge n. 76\2016).

            Due cuori e una capanna. E anche un contratto. Per mettere nero su bianco le questioni economiche che riguardano il rapporto di coppia, quando l’unione non è stata benedetta da un sacerdote né ufficializzata da un assessore comunale. Un contratto che consente ai conviventi di fatto (eterosessuali oppure omosessuali) che risultino all’anagrafe come conviventi stabili di “disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune” [Art. 1, comma 50]. Il contratto di convivenza non è obbligatorio, ma può essere conveniente quando, anche se non c’è il matrimonio, c’è il patrimonio.

            Infatti, l’accordo riguarda soltanto le questioni economiche della coppia e non tutti gli altri diritti o doveri contemplati nel codice civile quando si parla di matrimonio (obbligo di fedeltà, vita sessuale, organizzazione familiare, ecc.). I contenuti, dunque, [Art. 1, co. 53] hanno a che fare con:

  • il luogo di residenza dei conviventi;
  • il modo in cui decidono di contribuire alle necessità della vita in comune per quanto riguarda il patrimonio ed il reddito di ciascuno e alle singole capacità di lavoro;
  • l’adozione del regime di comunione o separazione dei beni.

Contratto di convivenza: come si fa. La legge [Art. 1, co. 51] impone che il contratto di convivenza, così come gli accordi che successivamente lo modifichino o lo risolvano, debba essere redatto con atto pubblico o scrittura privata e autenticato da un notaio o da un avvocato, i quali devono certificare la conformità del contratto alle norme. Messe le firme, e affinché tutti ne vengano a conoscenza, il notaio o l’avvocato devono inviare una copia entro 10 giorni al Comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione al registro dell’anagrafe.

                        I requisiti per il contratto di convivenza. Due persone che intendono sottoscrivere un contratto di convivenza devono essere registrati come tali all’anagrafe, maggiorenni e non interdetti. Non possono avere un rapporto di parentela né essere affini, di qualsiasi linea o grado e nemmeno essere legati da un vincolo di adozione. Ovviamente nessuno dei due deve essere sposato con un’altra persona, come nemmeno possono avere un altro contratto di convivenza con un terzo (o con una terza). Importante: non potrà firmare questo contratto chi è stato condannato per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra persona [Art. 1, co. 57]. Insomma, non vale fare (o tentare di fare) piazza pulita per andare a convivere.

            Non vale nemmeno mettere una data di scadenza: chi decide di registrare una convivenza, deve, almeno in partenza, avere l’intenzione di provare a resistere nel tempo. Non sono ammesse nemmeno delle condizioni particolari, del tipo: “Se l’altro ha una promozione al lavoro, contribuirà il doppio alle spese”.

            Quello che, invece, si può fare è modificare il contratto in corso d’opera, o meglio in corso di convivenza. Se le circostanze cambiano, nulla vieta di inserire ulteriori clausole che trovino di comune accordo i due conviventi. Ciò vale anche quando l’amore finisce: la data di scadenza si mette al momento, cioè: si risolve il contratto (sempre davanti ad un notaio o di un avvocato che invieranno comunicazione al Comune di residenza) e ognuno a casa sua.

            Il recesso del contratto di convivenza può essere sottoscritto, nelle forma già indicate, anche in modo unilaterale. In questo caso, ovviamente, oltre ad informare il Comune occorre farlo sapere all’altro convivente. Entro 90 giorni, chi si è fatto avanti dovrà abbandonare l’abitazione.

            Convivenza: comunione o separazione dei beni. C’è, innanzitutto, da ricordare che la convivenza di fatto e l’unione civile sono due cose diverse anche a livello legale. L’unione civile tra persone dello stesso sesso viene disciplinata, sotto il profilo patrimoniale, esattamente come un matrimonio. Ciò vuol dire che, finché non viene detto il contrario, al momento dell’unione vige il regime di comunione dei beni.

            Non è così, invece, per i conviventi di fatto, che siano iscritti all’anagrafe come tali o che non lo siano, anzi: è l’esatto contrario. La convivenza parte da un presupposto di separazione dei beni. Durante il rapporto di convivenza (almeno da un punto di vista legale, poi ogni coppia si regola nel quotidiano come vuole) l’acquisto effettuato da uno dei due conviventi giova soltanto a lui. Affinché l’altro convivente ne tragga beneficio, serve che la coppia sia registrata all’anagrafe con un contratto di convivenza e che in quel contratto ci sia la clausola che determina la comunione dei beni. In questo modo, come succede nei matrimoni o nelle unioni civili, ciò che si acquista durante la convivenza appartiene a tutti e due. L’altra possibilità è che il convivente che ha fatto l’acquisto sia particolarmente generoso. Ma qui la legge non c’entra.

            Come detto prima, il contratto di convivenza è riservato a chi registra questo tipo di rapporto all’anagrafe. Ma i conviventi che non risultano al registro possono, comunque, sottoscrivere una sorta di accordo atipico, rispetto a quello previsto dalla legge Cirinnà. Hanno, infatti, la possibilità di mettere nero su bianco delle regole che, pur non avendo il valore legale generato negli altri tipi di convivenza, garantiscono alcuni vincoli tra i conviventi, tra cui, appunto, quello di beneficiare reciprocamente degli acquisti effettuati dall’uno o dall’altro.

Carlos Arija Garcia  Lpt                  12 agosto 2016

www.laleggepertutti.it/128699_contratto-di-convivenza-diritti-e-doveri

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