newsUCIPEM n. 602 – 19 giugno 2016

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                               Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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ADDEBITO                                                         Separazioni: se lei rifiuta i rapporti scatta l’addebito.

ADOTTABILITÀ                                                 Il procedimento deve svolgersi con l’assistenza legale del minore.

Limiti del diritto del minore ad essere educato nella propria famiglia

ADOZIONE                                                        OUA: Servono risposte legislative immediate per garantire i minori

AFFIDO CONGIUNTO                                    Spese straordinarie rimborsabili senza accordo.

AFFIDO FAMILIARE                                        Minori, affido senza controlli.

AMORIS LAETITIA                                           Un passo avanti nella Tradizione. Petrà.

ASSEGNO DIVORZILE                                    Addio al mantenimento dell’ex moglie.

CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF                 Newsletter n. 11/2016, 15 giugno 2016.

CHIESA CATTOLICA                                        La Chiesa rivaluti il ruolo della donna.

Continuità e discontinuità tra papa Benedetto e papa Francesco.

COGNOMI                                                         Figli: i doppi cognomi del terzo millennio.

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM            Milano 2. Genitori oggi. Prevenire l’aborto.

DALLA NAVATA                                              12° Domenica del tempo ordinario – anno C -19 giugno 2016.

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

DEMOGRAFIA                                                  Dati demografici e ritardi politici.         

ETICA                                                                   Quale l’identità dell’etica cristiana? Piana.

EUROPA                                                             Per l’Europa il matrimonio è solo tra uomo e donna.

FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI         Famiglia, grande risorsa per la società.

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA             Serve “laicato in uscita”, guardare ai lontani dalla Chiesa.

Il Papa e i matrimoni superficiali.

GRUPPO INFORMAZIONE CIVICA           La famiglia. Fallimento o risorsa?

PARLAMENTO  Camera Assemblea        Assistenza a persone con disabilità prive del sostegno familiare.

                                    2°Comm- Giustizia    Disposizioni legislative in materia di adozioni ed affido,

POLITICHE FAMILIARI                                   Politiche Famigliari e Welfare generativo.

PREVIDENZA                                                     Bonus matrimonio: cos’è e come si fa ad averlo.

UNIONI CIVILI                                                  Per la famiglia, dopo le unioni civili

WELFARE                                                           La legge “dopo di noi”: è realtà. Svolta storica.

Disabilità, il “Dopo di noi” è legge

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ADDEBITO

Separazioni: se lei rifiuta i rapporti scatta l’addebito

Tale comportamento, per la giurisprudenza, è idoneo a integrare una violazione del dovere inderogabile di assistenza morale. La casistica dimostra che, tra i motivi che contribuiscono a decretare la fine di un matrimonio, c’è anche il rifiuto di uno dei coniugi di trascorrere con l’altro momenti di intimità. La giurisprudenza, su tale questione, non ha omesso di incidere in maniera rilevante, riconoscendo diverse volte l’addebito della separazione a chi rifiuta i rapporti. Con la conseguenza che non ci si deve meravigliare se tale comportamento, oltre che abbattere gli ultimi baluardi a sostegno di una relazione, può addirittura esserne considerato la causa fondamentale, idonea a far ricadere la colpa della fine del rapporto coniugale su chi lo pone in essere.

La Cassazione, del resto, si è espressa più volte in tal senso, talvolta anche ribaltando decisioni che avevano tentato di riportare l’attenzione su aspetti diversi da questo e di porlo quindi in secondo piano. Con la pronuncia numero 19112/2012, ad esempio, i giudici di piazza Cavour hanno decretato che un rifiuto persistente di avere rapporti sia affettivi che sessuali con il coniuge rappresenta un’offesa alla dignità e alla personalità morale di quest’ultimo, provocandone frustrazione, disagio e, talvolta, anche danni all’equilibrio psicofisico. Di conseguenza tale comportamento è idoneo a integrare una violazione del dovere inderogabile di assistenza morale sancito dall’articolo 143 del codice civile.

A conferma della decisione del giudice di appello, nel caso di specie, la Cassazione si era posta su un piano opposto rispetto a quello del Tribunale che, in primo grado, aveva ritenuto che il rapporto sessuale non fosse così rilevante all’interno della relazione matrimoniale ma che si dovesse assegnare una maggiore importanza ad altri valori, predominanti. La Corte, peraltro, in quella sede ha assunto la sua posizione in maniera categorica, aggiungendo che il rifiuto di intrattenere rapporti con il partner non può essere giustificato riconducendolo a una forma di reazione o di ritorsione nei confronti dell’altro, dato che esso impedirebbe “l’esplicarsi della comunione di vita nel suo più profondo significato”.

Anche in altre precedenti pronunce la Cassazione si era soffermata su tale questione, riconoscendo nel rifiuto di intrattenere rapporti con il coniuge un motivo di addebito della separazione e ritenendo a tal fine imprescindibile la sussistenza di un nesso causale tra un simile comportamento e l’intollerabilità della convivenza. Tale nesso, più nel dettaglio, è stato negato quando il rifiuto dei rapporti sia a sua volta conseguenza di altri motivi ai quali può da soli essere ricondotta la fine della vita matrimoniale, mentre è stato riconosciuto quando il rifiuto è un mero mezzo di punizione per un comportamento tenuto dall’altro coniuge (cfr. Cass. n. 15101/2004 e Cass. n. 6276/2005).

Valeria Zeppilli                      Studio Cataldi.it                     16 giugno 2016

http://www.studiocataldi.it/articoli/22436-separazioni-se-lei-rifiuta-i-rapporti-scatta-l-addebito.asp

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ADOTTABILITÀ

Il procedimento deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, sentenza n.11782, 8 giugno 2016.

            In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli effetti del procedimento, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentante, secondo le regole generali, e quindi a mezzo del rappresentante legale, ovvero, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico. La nomina di un curatore speciale è necessaria qualora non sia stato nominato un tutore o questi non esista ancora al momento dell’apertura del procedimento, ovvero, come si diceva, nel caso in cui sussista d’interessi, anche solo potenziale, tra il minore ed il suo rappresentante legale. Tale conflitto è ravvisabile in re ipsa nel rapporto con i genitori, portatori di un interesse personale ad un esito della lite che può essere diverso da quello vantaggioso per il minore, mentre nel caso in cui a quest’ultimo sia stato nominato un tutore il conflitto dev’essere specificamente dedotto e provato in relazione a circostanze concrete, in mancanza delle quali il tutore non solo è contraddittore necessario, ma ha una legittimazione autonoma e non condizionata, che può liberamente esercitare in relazione alla valutazione degli interessi del minore

avv. Renato D’Isa      13 giugno 2016                      sentenza

 

https://renatodisa.com/2016/06/13/corte-di-cassazione-sezione-vi-civile-8-giugno-2016-n-11782

 

Limiti del diritto del minore ad essere educato nella propria famiglia di origine.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n.12259, 14 giugno 2016.

            Il diritto del minore ad essere educato nella propria famiglia di origine incontra i suoi limiti là dove questa non sia in grado di prestare, in via non transitoria, le cure necessarie, né di assicurare l’obbligo di mantenere, educare ed istruire la prole, con conseguente configurabilità dello stato di abbandono, il quale non viene meno per il solo fatto che al minore siano prestate le cure materiali essenziali da parte di genitori o di taluno dei parenti entro il quarto grado, risultando necessario, in tal caso, accertare che l’ambiente domestico sia in grado di garantire un equilibrato ed armonioso sviluppo della personalità del minore, senza che, in particolare, la valutazione di idoneità dei medesimi parenti alla di lui assistenza possa prescindere dalla considerazione della loro pregressa condotta, come evidenziato dall’art. 12 della legge 4 maggio 1983, n. 184, che espressamente richiede il mantenimento di rapporti significativi con il minore

avv. Renato D’Isa      17 giugno 2016                       sentenza

https://renatodisa.com/2016/06/17/corte-di-cassazione-sezione-i-civile-sentenza-14-giugno-2016-n-12259

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ADOZIONE

Organismo Unitario dell’avvocatura: Servono risposte legislative immediate per garantire i minori

Ieri, 23 giugno 2016, una delegazione dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura-OUA, composta da Paolo Ponzio, della Giunta Esecutiva, e dalla Coordinatrice e dalla Segretaria della Commissione Famiglia, Elisabetta Mantovani e Samantha Luponio, è stata ascoltata dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, sull’Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozione ed affido. Nel corso dell’audizione è stato consegnato un documento di osservazioni e proposte (in allegato la versione integrale – di seguito la scheda sintetica).

Nel testo l’OUA sottolinea come sia necessario “rispondere alle attuali criticità della legge 184/1983, e quindi affrontare le questioni di principio cui uniformare poi il dato normativo. Per l’OUA il “fondamento dell’adozione è eminentemente solidaristico, ove va tutelato ‘in primis’ il minore ad essere adottato, quale diritto ad una famiglia, che è sostanzialmente il diritto di essere amato e curato”.

            Nel documento lo sguardo è anche rivolto alla CEDU e alla riforma della filiazione, “che ha posto le basi per un nuovo diritto di famiglia, che è diventato sostanzialmente il diritto della filiazione: gli adottanti, come ogni genitore, debbono solo dare al minore ciò di cui ha bisogno, affetto e cura; devono infatti avere l’idoneità affettiva di cui all’art. 6 L.184/1983 e questo non esclude che la possano offrire anche i non coniugati o uniti dello stesso sesso o i single. La CEDU ci dice che a parità di condizioni nessuno può essere discriminato”. “D’altra parte – si spiega – senza dati scientifici che per quanto riguarda i genitori di fatto, omogenitoriali o monogenitoriali, comprovino che l’inserimento di un minore in tali contesti crei pregiudizio, tali possibilità non possono essere escluse neanche normativamente, per non incorrere in una legge discriminatoria. Naturalmente è imprescindibile che debba esistere, in termini di fatto, comunque, una certa durata del rapporto per un minimo di stabilità”.

“Senza ideologie preconcette – si evidenzia – non c’è danno. L’avvocatura non può non esprimersi per favorire l’allargamento applicativo dei principi egualitari sottesi alle nuove norme sapendo, da buoni negoziatori, che non vi è danno dove nel conflitto di interessi si realizza un vantaggio per entrambe le parti, senza, quindi, alcun pregiudizio reciproco. Il riconoscimento del minore ad una famiglia può essere bidirezionale, senza che ciò implichi favorire esclusivamente l’interesse dell’adulto, quando il diritto del minore non sia incompatibile con quello del genitore di creare una famiglia, scopo uniformante della legge sull’adozione”. “Con tale orientamento di principio – si continua – in ragione degli stessi gravi dubbi interpretativi e delle incongruenze della legge già segnalati ed esaminati dalla giurisprudenza di costituzionalità e di legittimità si ritiene utile proporre le seguenti modifiche normative in ragione anche della necessità di armonizzare la l.184/83 anche con i principi delle nuove riforme legislative in essere ed auspicande”.

            Comunicato stampa   OUA   14 giugno 2016

Scheda sintetica proposte relative alla Legge 184\1983

www.camera.it/_bicamerali/leg14/infanzia/leggi/legge184%20del%201983.htm

  1. Modifica abrogativa dell’art. 55: eliminazione di ogni distinzione tra adozione legittimante e non. L’impianto già in vigore in tema di filiazione a seguito della recente riforma della L. 219/2012 non si ritiene possa consentire di mantenere più alcuna distinzione tra “adozione legittimante” e “adozione in casi particolari”, essendo venuta meno, con la riforma, ogni ragione giuridica di distinzione: tutti i figli nati dal matrimonio, fuori dal matrimonio o adottati hanno lo stesso status. Sono tutti solo figli.
  2. Modifica dei requisiti per adottare ex art. 6, art. 4 comma 5-bis, art.44 lett. a) e b). Come avvocati, dovendo rendere ogni giorno vivente il diritto, dobbiamo lavorare in ambito giurisdizionale per offrire sempre una lettura della norma giuridica che tuteli i soggetti, minori o comunque vulnerabili all’interno di un quadro sistematico non discriminatorio, ed intervenire presso le istituzioni chiedendo leggi nuove che siano un passo verso l’eguaglianza, per e verso un bambino: la genitorialità si costruisce nella relazione, anche al di fuori della duplice figura uomo-donna, coniugi-conviventi, single
  3. Modifica dell’art. 28 comma 7. Risulta necessario colmare il vuoto normativo creatosi dopo la sentenza Corte Costituzionale n. 287/2013, che ha dichiarato l’incostituzionalità parziale del comma 7 dell’art. 28 L. 184/1983. Sostegno dovrebbe pertanto ottenere il disegno di legge n. 1978 al Senato in materia di accesso alle informazioni sulle origini del figlio non riconosciuto alla nascita, per apprestare una normativa procedimentale uniforme su tutto il territorio nazionale.
  4. Introduzione dell’istituto normativo dell’adozione mite. Il principio della continuità degli affetti dovrebbe fungere, anche sul piano normativo, come già in sede giurisprudenziale ha trovato sviluppo, da garanzia del rispetto dei sentimenti dei bambini affidati da tanto tempo, del loro diritto a non subire strappi, per unificare la legge e la realtà. Se non assunta nei tempi minimi stabiliti possibili, una decisione anche astrattamente corretta che intervenga dopo anni, si tramuta inevitabilmente in un danno per il bambino e i suoi genitori. Da qui la necessità di normare quanto già molti Tribunali disciplinano in ipotesi di lunghi affidamenti che necessitano, a beneficio del minore, di disporre un’adozione pur con il mantenimento dei rapporti positivi con la famiglia di origine: uno strumento per i bambini che non possono tornare in famiglia, ma per i quali il rapporto con la stessa è comunque importante e significativo. Spesso sono bambini (molti) con affidi che durano oltre i due anni, con affidi anche “sine die”. L’adozione non può avere effetti rescindenti sui rapporti con la famiglia d’origine.

Comunicato stampa OUA                 14 giugno 2016

Documento commissione OUA della famiglia e delle persone                    allegato

www.oua.it/comunicato-stampa-adozioni-lorganismo-unitario-dellavvocatura-in-audizione-ieri-in-commissione-giustizia-della-camera-servono-risposte-legislative-immediate-per-garantire-i-minori

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AFFIDO CONGIUNTO

Spese straordinarie rimborsabili senza accordo.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, sentenza n. 12013, 10 giugno 2016

            Il principio di bi – genitorialità non può comportare la rimborsabilità delle sole spese straordinarie che abbiano incontrato il consenso di entrambi i genitori, così escludendo quelle spese che si dimostrino non voluttuarie ma corrispondenti all’interesse del figlio avente diritto al mantenimento (quali, nella specie, quelle conseguenti alla scelta dell’università).  Ciò a meno che dette somme risultino incompatibili con le condizioni economiche dei genitori; circostanza che nella specie non è tuttavia oggetto di contestazione.

            Così ha stabilito la Cassazione, respingendo il ricorso di un padre avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti per il rimborso delle spese, sostenute della madre affidataria della figlia, relative agli studi universitari della stessa. In particolare l’uomo si era rifiutato di corrispondere dette somme, in quanto aveva espresso, anche per iscritto, il proprio dissenso all’iscrizione della stessa figlia ad un determinato ateneo piuttosto che ad un altro.

Spese di interesse per figlio Niente obbligo di concertazione. Secondo la Corte infatti non è configurabile un obbligo di informazione e concertazione da parte genitore affidatario con l’altro coniuge in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, trattandosi di decisioni di maggior interesse per il figlio e sussistendo pertanto, a carico del non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto, come nella specie, validi motivi di dissenso.

            Eleonora Mattioli      eDotto             13 giugno 2016

www.edotto.com/articolo/spese-straordinarie-rimborsabili-anche-senza-accordo?newsletter_id=575e9495fdb94d1690113497&utm_campaign=PostDelPomeriggio-13%2f06%2f2016&utm_medium=email&utm_source=newsletter&utm_content=spese-straordinarie-rimborsabili-anche-senza-accordo&guid=f24f313d-ea4b-45bd-a163-02aa842a8c3b

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AFFIDO FAMILIARE

Minori, affido senza controlli.

Tribunali dei minorenni con carenze di organico, servizi sociali sempre più aleatori per motivi economici, strutture di controllo rese meno tempestive dall’accavallarsi delle competenze. Una situazione che abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene. Ma è possibile che queste difficoltà oggettive abbiano finito per innescare qualche situazione spiacevole sul fronte della gestione dei minori costretti a vivere fuori dalla famiglia? Possibile che si sia creato qualche collegamento non virtuoso tra operatori di servizi sociali e responsabili di alcune comunità di accoglienza? Casi probabilmente limitati, d’accordo, ma sufficienti a far nascere qualche timore in chi opera da anni sul delicato fronte dei minori allontanati dalle famiglie.

            Nei giorni scorsi avevamo dato conto della vicenda di Lofti Manai e della moglie Saida Louti, una coppia tunisina regolare a cui il Tribunale dei minori di Brescia, per supposte inadeguatezze educative, ha sottratto sei degli otto figli. Una scelta opportuna? Possibile che non si potessero trovare altre strade per risolvere la situazione senza infliggere alla famiglia una punizione così pesante? L’avvocato Giuseppina Coppolino, che da tre anni si batte al fianco della coppia tunisina, è convinta che la vicenda non sia isolata. Una breve indagine condotta presso il Consolato tunisino di Milano ha permesso di accertare che sarebbero almeno una trentina le famiglie di quel Paese residenti in Lombardia vittime di procedimenti giudiziari conclusi con l’allontanamento dei figli. La vicenda che raccontiamo qui sotto, pur diversa nelle cause e nello sviluppo, sarebbe significativa comunque di una certa tendenza giudiziaria. E le stessa situazione sembrerebbe abbastanza frequente anche per famiglie immigrate di altre nazionalità.

            Tutti genitori inadeguati? Esigenza reali per proteggere i minori da parte dei tribunali? Marco Giordano, responsabile del Tavolo nazionale affido, non esclude che ci possano essere situazioni poco chiare, ma invita comunque a considerare il problema da altri punti di vista. Innanzi tutto i controlli sulle Comunità per i minorenni ci sono. O ci dovrebbero essere. Le procure minorili sono chiamate a realizzarli ogni sei mesi in accordo con Comuni, Asl e Regioni. «Certo – osserva Giordano – rafforzare questi controlli in modo più accurato sarebbe doveroso, ma il problema è l’organo di controllo competente. Visto che gli enti locali autorizzati sono diversi, c’è il rischio che le verifiche alla fine non siano mai abbastanza efficaci».

            Forse, tra le modifiche allo studio in vista della discussione sulla nuova legge per adozioni e affido, non sarebbe male inserire anche questo provvedimento. Si tratta del resto di una delle richieste avanzate dal consorzio ‘#5buone ragioni per proteggere i bambini’ (vedi box nel link). A parere di Giordano, che tra l’altro è genitore affidatario, ciò che rende poco credibile un collegamento sospetto tra operatori dei servizi sociali e comunità d’accoglienza, rimane però il dato economico. La spesa necessaria per affidare un bambino senza famiglia a una comunità d’accoglienza è più o meno simile rispetto alla scelta della famiglia affidataria. I dati parlano chiaro. Secondo i calcoli presentati lo scorso anno da Liviana Marelli del Cnca, i costi a carico dei Comuni per mantenere un minore in comunità variano da 125 a 151 euro al giorno. I pagamenti avvengono a fronte di presentazione di regolare fatture sulla base della rendicontazione delle presenze. Controlli puntuali – sempre che vengano eseguiti – dovrebbero insomma bastare a fugare ogni dubbio.

            Quanto costa invece allo Stato un bambino assegnato a una famiglia affidataria? La cifra concessa dai Comuni (almeno quelli che hanno in bilancio questa voce) ai nuclei familiari accoglienti si aggira sui 400 euro mensili, circa 15 euro al giorno. Un risparmio notevole quindi rispetto alla cifra versata alle Comunità? «Niente affatto – riprende il responsabile del Tavolo nazionale affido – perché la famiglia affidataria non può essere lasciata sola. I Comuni devono dotarsi di un Servizio affidi, con competenze specifiche (psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, ecc), in grado di accompagnare le famiglie e di intervenire quando si presentano (e si presentano sempre) difficoltà e problemi». Una struttura del genere ha costi non indifferenti, tali in ogni caso da bilanciare il costo pro capite dei minori che vivono in comunità. Ma senza un Servizio affidi ben strutturato e articolato sul territorio, l’affido non decolla. Anzi arretra. La prova? A Torino, dove tradizionalmente i servizi sociali sono di prim’ordine, ci sono un migliaio di famiglie affidatarie.

            A Napoli, dove il Comune rimborsa le famiglie e le comunità dopo due anni – quando le rimborsa – si tratta di un istituto quasi al lumicino. Insomma una situazione complessa, aggravata dalle sempre più allarmanti carenze economiche di servizi territoriali e Tribunali. «Forse per fugare ogni sospetto sugli allontanamenti decisi dai tribunali nei confronti di minori immigrati – conclude Marco Giordano – basterebbe dotare i servizi sociali di strutture per la mediazione culturale, in grado di far comprendere le differenze tra i nostri modelli educativi e quelli di famiglie provenienti dall’Africa o dalla Cina». Ma anche in questo caso bisogna fare i conti con bilanci sempre più magri, che non permettono di aggiungere nuovi servizi a quelli già esistenti. Così anche l’operato dei tribunali per i minori, dei servizi sociali e delle comunità, non solo rischia talvolta di innescare situazioni poco chiare, ma continua a rappresentare un ulteriore ostacolo sulla strada dell’integrazione.

Luciano Moia             Avvenire         12 giugno 2016

www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Minori-affido-senza-controlli-.aspx

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AMORIS LAETITIA

Un passo avanti nella Tradizione.

Amoris laetitia è un documento complesso che riafferma allo stesso tempo l’insegnamento della Chiesa e l’accoglienza dei percorsi individuali nel discernimento ecclesiale. La ricognizione (D. Sala) su come gli episcopati stanno recependo il testo ha messo in luce da un lato alcune voci critiche ma dall’altro un consenso ampio su un testo rappresentativo dell’intero lavoro sinodale. Più in specifico viene evidenziato da B. Petrà come, mettendosi nei panni dei confessori, sia comprensibile una certa forma di «sconcerto». Familiaris consortio, infatti, ha offerto «per anni un quadro di riferimento dotato d’autorità», nel quale il «confessore ha potuto continuare a essere più un applicatore della norma che un pastore e un padre personalmente coinvolto nel bene del penitente e nel suo cammino cristiano».

Oggi, invece, con Amoris laetitia gli si chiede una «maggiore responsabilità personale nel valutare il bene del penitente e delle persone coinvolte dal suo agire, con cuore misericordioso e con intento terapeutico. Il suo ruolo è certamente assai più impegnativo. Bisogna però dire che diventa anche più significativo, più ricco e più ministerialmente pieno».

Il capitolo VIII dell’esortazione apostolica Amoris laetitia (AL) è dedicato al tema: «Accompagnare, discernere e integrare la fragilità». Esso è suddiviso nelle seguenti sezioni: due numeri introduttivi senza titolo (nn. 291s); «La gradualità della pastorale» (nn. 293-295): «Il discernimento delle situazioni dette “irregolari”» (nn. 296-300); «Le circostanze attenuanti nel discernimento pastorale» (nn. 301-303); «Le norme e il discernimento» (nn. 304-306); «La logica della misericordia pastorale» (nn. 307-312).

Come già mostrano i vari titoli delle sezioni, centrale in tutto il capitolo è l’attenzione al «discernimento» delle situazioni dette «irregolari», fin dall’inizio inquadrato in un preciso orizzonte: quello del lavoro della Chiesa come «ospedale da campo» (AL, 291; Regno-doc. 5,2016,190; Regno-doc. 5,2016,190). Infatti, benché «la Chiesa sempre proponga la perfezione e inviti a una risposta più piena a Dio» non può disinteressarsi «dei suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito» (ivi): deve accompagnarli con attenzione e premura, cercandoli anche là dove l’oscurità e lo smarrimento sembrano prevalere, distinguendo le varie forme di unione per «valorizzare» tutto quel che è valorizzabile.

Il non più e il non ancora. Di fatto, varie sono le forme d’unione. Si va dall’unione cristianamente piena (l’«ideale», ovvero «l’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società»: AL 292; Regno-doc. 5,2016,190) alle forme d’unione in contraddizione con l’ideale, passando per forme che realizzano l’ideale «in modo parziale e analogo».

La Chiesa ha il dovere morale di accostarsi a esse per «valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio» (AL, 292; ivi). Deve imparare a «discernere» i «semi del Verbo» anche nelle «situazioni imperfette» (cf. AL 76s) e affrontarle con l’intento di trasformarle «in opportunità di cammino» (AL 294; Regno-doc. 5,2016,191).

È in riferimento a questo processo di valorizzazione positiva che AL ricorda quanto l’esortazione Familiaris consortio n. 34 dice sulla legge di gradualità, ovvero sulle tappe della crescita morale (citato in AL 295: «l’essere umano “conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita”»; Regno-doc. 5,2016,191), che non va confusa con la gradualità della legge. Le persone sono in cammino, attraversano varie tappe cognitive ed esistenziali, valutano e decidono moralmente (prudenzialmente) secondo quel che a ogni momento comprendono e sono in grado di attuare, cosa che può anche non coincidere pienamente «con le esigenze oggettive della legge» (AL 295; ivi).

Questa attitudine di valorizzazione coincide con quel che è chiamato al n. 293 «il discernimento pastorale delle situazioni» che non corrispondono alla realtà piena del matrimonio cristiano, un discernimento che permetta d’«entrare in dialogo pastorale» con le persone coinvolte. Per ben due volte il n. 293 invita al «discernimento pastorale».

Misericordia, non «buon cuore». La valorizzazione delle varie situazioni non è una semplice questione di cortesia o di buon cuore. Corrisponde a quella logica della «misericordia e dell’integrazione» (AL 296; Regno-doc. 5,2016,192) che è della Chiesa e del Signore Gesù, ben diversa dall’altra logica che percorre la storia della Chiesa, cioè la logica dell’emarginazione. Il papa insiste sulla necessità che il «discernimento del Pastore» cerchi d’integrare nella comunità cristiana tutti coloro che sono integrabili in qualche modo, senza cedere a dinamiche emarginanti seppure «evitando ogni occasione di scandalo» (AL 299; Regno-doc. 5,2016,192). La strada da percorrere è chiara, come appare da quel che si dice tra i nn. 296 e 297: «La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero (…) Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo» (Regno-doc. 5,2016,192). Per questo, il discernimento deve essere molto attento e saper distinguere bene le varie situazioni senza lasciarsi trascinare da soluzioni semplicistiche e generalizzate: «I padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei pastori deve sempre farsi “distinguendo adeguatamente” con uno sguardo che discerna bene le situazioni. Sappiamo che non esistono “semplici ricette”» (AL 298; Regno-doc. 5,2016,192).

L’esortazione non parla solo del discernimento del pastore, parla anche del discernimento proprio della persona del fedele. Anzi, li pone in stretta connessione e li ricorda unitariamente. AL 298 rinvia così simultaneamente e unitariamente a queste due modalità di discernimento. Quando osserva la diversità delle situazioni dei divorziati risposati, sulla scia di FC 84, sottolinea la necessità di non lasciarsi andare ad «affermazioni troppo rigide» e di «lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale».

Queste due modalità del discernimento, «personale e pastorale», sono ricordate anche all’inizio del n. 300, ove si dice esplicitamente che solo la via del discernimento va percorsa: «Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari» (Regno-doc. 5,2016,193). Un simile rinvio unitario non deve però nascondere il fatto che discernimento pastorale e discernimento personale hanno configurazioni diverse. Anzi, il chiarimento di questa diversità è – io credo – assai importante per cogliere adeguatamente anche quello che l’esortazione concretamente propone.

Discernimento pastorale e personale. Il discernimento pastorale, come dice chiaramente l’aggettivo, è operato propriamente dai soggetti dell’azione pastorale, innanzitutto vescovi e presbiteri, nei confronti delle persone o di situazioni che sono oggetto dell’azione pastorale: esso mira a cogliere le peculiarità e le differenze delle varie situazioni, prendendo in considerazione l’insieme delle circostanze – soggettive e oggettive –, mettendole in rapporto con l’insegnamento della Chiesa e del vescovo (cf. AL 300), mostrando ai fedeli le vie di fedeltà e di crescita della vita cristiana dei fedeli nelle situazioni considerate.

Il discernimento personale indica invece propriamente il discernimento esercitato in prima persona dal soggetto morale – il fedele stesso – allorché è posto dinanzi alla necessità di prendere una decisione in ordine all’agire in una particolare situazione; trattandosi di un cristiano, si suppone che chi agisce cerchi di essere fedele alla volontà del Signore quale si manifesta nella situazione stessa. Del resto, è per questo che il fedele si rivolge al pastore. È mediante questo personale discernimento che il fedele perviene alla sua propria decisione di coscienza in situazione, una decisione che può essere solo sua. Secondo la nostra tradizione morale, infatti, la coscienza è la norma soggettiva ultima dell’azione e nessuno può prenderne il posto, neppure il pastore (anche nel sacramento della penitenza).

AL 305 richiama opportunamente quanto dice la Commissione teologica internazionale sul fatto che «la legge naturale non può (…) essere presentata come un insieme già costituito di regole che s’impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte d’ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione» (Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009; Regno-doc. 17,2009, 540, mia sottolineatura).

L’esortazione richiama per altro formalmente questa dottrina tradizionale al n. 37: noi «stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (Regno-doc. 5,2016,136; sottolineatura mia).

L’esortazione parla simultaneamente e unitariamente di «discernimento personale e pastorale» perché il luogo al quale pensa è quello nel quale il soggetto del discernimento pastorale (pastore) incontra il soggetto (o soggetti) del discernimento personale (il fedele con la sua coscienza) in ordine alla formazione del giudizio di coscienza in situazione. In questo luogo vengono trattate le situazioni che nella prassi della Chiesa sono considerate materia propria del cosiddetto foro interno. L’ambito del foro interno si distingue dal foro esterno – che ha ordinariamente per oggetto il governo pubblico della Chiesa e tratta quindi questioni di carattere pubblico – in quanto riguarda questioni che coinvolgono primariamente la coscienza morale del fedele (dei fedeli). Il foro interno ha due momenti: quello non sacramentale (colloquio pastorale), quello sacramentale (sacramento della confessione). Il capitolo VIII ha presenti ambedue i momenti del foro interno. È perciò utile fermarsi sulle loro peculiarità nella tradizione morale.

Il colloquio pastorale. In questo momento del foro interno il pastore esercita una sorta di autorevole moral counseling in dialogo con il fedele. Esso può esigere anche un tempo non breve e talvolta è svolto nel contesto della direzione spirituale. In questo dialogo il pastore – e in quanto richiesto – aiuta il fedele a valutare correttamente il proprio comportamento passato e presente e le sue possibilità future, senza tuttavia sostituirsi alla persona giacché opera in aiuto alla sua coscienza e non al posto di essa. In questa relazione di aiuto morale (illuminazione/accompagnamento), il pastore prospetta l’orizzonte morale della vita cristiana, aiuta la persona a cogliere quanto dipende e quanto non dipende da lei, qual è l’ambito delle sue responsabilità e delle sue possibilità concrete; può sostenerla e indirizzarla verso le risorse spirituali necessarie per la ricerca sincera della volontà di Dio e per la conformità a essa.

Il pastore – nel foro interno non sacramentale – non impone comportamenti né stabilisce quello che la persona deve fare; aiuta la persona a cogliere la propria responsabilità morale nelle concrete possibilità della sua situazione. La decisione che scaturisce è appunto la norma che la coscienza del fedele in prima persona assume per quella situazione, senza ovviamente pretese universali, e che può non coincidere con la norma oggettivamente e astrattamente data dalla dottrina (si colloca qui, ad esempio, la lunga tradizione morale cattolica dell’epicheia). AL 300 si riferisce a questo tipo di relazione pastore-fedele quando, riprendendo la Relatio finalis del Sinodo 2015, ricorda che il pastore aiuta i fedeli «alla presa di coscienza della loro situazione dinanzi a Dio» e concorre alla «formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere» (Regno-doc. 5,2016,193).

Anche AL 303 allude allo stesso processo allorché scrive: «Bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento serio e responsabile del pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia» (Regno-doc. 5,2016, 194). Ancora, è probabilmente allo stesso aiuto pastorale che si riferisce AL 304 quando, ricordando la dottrina di s. Tommaso sull’indeterminazione normativa crescente quanto più si scende nel particolare, afferma che tale dottrina deve essere presente nel «discernimento pastorale» (del pastore) e che proprio per questo «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti a una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma», intesa come norma generale (ivi). È importante sottolineare che questo aiuto al discernimento personale di tipo pratico da parte del pastore non deve essere interpretato come un aiuto a ben applicare la norma alla situazione ma come un aiuto perché la coscienza colga la concreta possibilità del bene ovvero il bene possibile in situazione. AL 308 riprendendo letteralmente Evangelii gaudium, n. 44 sottolinea che la «misericordia del Signore (…) ci stimola a fare il bene possibile» (Regno-doc. 5,2016,196).

E il «bene possibile» non coincide sempre con la realizzazione più piena dell’ideale (cf. AL 303); anzi, talvolta anche illuminata «la coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (AL 303; Regno-doc. 5,2016,194).

Il «bene possibile» non è un bene impuro o indegno. Come osserva il papa in AL 308 citando Evangelii gaudium, n. 45: «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di “sporcarsi con il fango della strada”» (Regno-doc. 5,2016,196).

Nel contesto del capitolo VIII e in particolare alla luce del n. 292 (che distingue tra realizzazione radicale dell’unione ideale – matrimonio cristiano – e realizzazioni «in modo parziale e analogo»; Regno-doc. 5,2016,190) quel che abbiamo appena detto significa che la coscienza del fedele può considerare «bene possibile» una di quelle «situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo (della Chiesa; nda) insegnamento sul matrimonio» (Regno-doc. 5,2016,191).

Passare (o meno) alla confessione. Quando il fedele passa per il colloquio o colloqui pastorali è poi frequentemente portato a rivolgersi al foro interno sacramentale (la confessione). Talvolta, il passaggio è spontaneo e quasi naturale: in forza dei colloqui stessi il fedele coglie in coscienza la necessità della confessione in ordine all’assoluzione e chiede al presbitero che lo ha accompagnato di confessarlo. Tale passaggio al sacramento tuttavia non è necessario. Il fedele illuminato potrebbe giungere alla decisione che nel suo caso non ci sia la necessità della confessione. Come si sa, per la dottrina della Chiesa, la confessione è necessaria per i peccati gravi o mortali (cf. Can. 960 del Codice di diritto canonico (CIC)9 e si hanno peccati gravi solo quando chi agisce sa di fare un male grave (con consapevolezza morale e non puramente giuridica) ed è libero di agire diversamente.

È del tutto possibile che una persona non abbia la adeguata consapevolezza morale e/o non abbia libertà d’agire diversamente e che, pur facendo qualcosa oggettivamente considerato grave, non compia un peccato grave in senso morale e dunque non abbia il dovere di confessarsi per accedere all’eucaristia. AL 301 allude chiaramente a questa dottrina quando dice che chi è in condizione irregolare non necessariamente «vive in stato di peccato mortale» e parla degli elementi limitanti a vario titolo i soggetti agenti: «I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”» (Regno-doc. 5,2016,193).

Lungo la stessa linea si colloca AL 295 quando, appoggiandosi a FC 34, descrive con accuratezza il peculiare esercizio prudenziale della libertà da parte di soggetti che agiscono senza poter cogliere pienamente le «esigenze oggettive della legge», ovviamente senza colpa in causa (Regno-doc. 5,2016,191).

In casi simili, di non necessità del passaggio al sacramento per accedere all’eucaristia, la confessione è semplicemente consigliata. Non è infrequente però che anche chi non vede la stretta necessità della celebrazione sacramentale chieda l’assoluzione e dunque celebri il sacramento. Come talvolta non è necessario il ricorso alla confessione, così non è necessario che ci si confessi con il sacerdote che ha accompagnato; potrebbe essere un altro confessore.

Quando manca il colloquio pastorale. Va osservato però che nell’attuale prassi la maggioranza dei fedeli arriva direttamente al foro interno sacramentale senza passare attraverso il foro interno non sacramentale. Ciò significa che diventa più difficile l’aiuto da parte del pastore alla coscienza del fedele, sia perché ordinariamente nel confessionale il tempo non è sufficiente e spessissimo le persone non sono conosciute, sia perché il sacramento non si può configurare come un colloquio di aiuto morale, anche se può includere tale dimensione. In simili casi, la logica pastorale di AL vorrebbe – io credo – che si invitasse il fedele a un dialogo personale in contesto non sacramentale, se possibile, o lo si rinviasse a un servizio diocesano disposto per l’accompagnamento delle persone in tali situazioni.

Nel caso tuttavia che il fedele non possa accogliere questi suggerimenti, il confessore seguirà le regole proprie della praxis confessarii concernenti il giudizio sulla disposizione del penitente. Quando interviene il foro interno sacramentale, infatti, si attiva un tipo peculiare di discernimento che è appunto quello sacramentale. Esso ha come soggetto il confessore e come oggetto la disposizione del penitente. Secondo la dottrina tradizionale, (cf. il can. 980 del CIC) il confessore è chiamato a valutare (giudicare) la disposizione morale del fedele – il suo pentimento nei confronti dei peccati gravi dei quali ha coscienza –: solo il pentimento apre l’assoluzione e l’ammissione all’eucaristia. Tale discernimento non ha la forma di una sentenza di tipo giudiziario; è e deve essere – come ribadisce Reconciliatio et paenitentia – un giudizio di misericordia, teso a cogliere ogni segno del pentimento che renda possibile l’effusione del perdono.

È un giudizio che si basa pienamente su quanto il penitente comunica. Sottolineo quanto appena detto: secondo la tradizione nel foro interno (tanto sacramentale quanto non sacramentale) si deve sempre credere al penitente sia quando parla contro di sé sia quando parla a suo favore, se non si danno prove evidenti in contrario. È per questo, tra l’altro, che si è ammessa in passato la prassi dell’accettazione della nullità della prima unione in foro interno, nel caso in cui il confessore avesse acquisito la certezza morale di tale nullità, anche se non dimostrabile in foro esterno. Tale possibilità è ancor oggi sostanzialmente ammessa.

È inoltre un giudizio che non parte da zero ma da una presunzione a favore del penitente. È regola della praxis confessarii che il penitente si presume pentito quando viene a confessarsi giacché ordinariamente il penitente viene liberamente per avere il perdono dei propri peccati e non per altri motivi: dunque, venendo, si riconosce peccatore e sa di avere bisogno di perdono. Ciò spiega perché se non ci sono prove in contrario – ovvero prove per le quali il confessore raggiunge la certezza morale che il penitente non è pentito dei peccati gravi dei quali ha coscienza – chi viene a confessarsi deve essere assolto.

In continuità con Familiaris consortio. Chi legge Amoris laetitia si rende subito conto che essa cerca e insiste sulla continuità con Familiaris consortio; in vari punti la richiama o vi si appoggia (ad esempio quando presenta l’idea delle fasi di crescita morale, quando invita all’attenzione alla diversità delle situazioni, quando tende ad accogliere il più possibile le situazioni «irregolari» ecc). Si può dire anche qualcosa di più: AL condivide profondamente l’attitudine pastorale di FC, che, nelle sue prime frasi al n. 84, mostra il desiderio di andare incontro pastoralmente il più possibile alla situazione dei divorziati risposati: «La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che – già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale – hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza» (EV 7/1796). È per questa tensione pastorale che FC 84, mentre ha ben presente l’ideale (la separazione dei coniugi in seconda unione non valida), ammette una seconda possibilità, che non corrisponde pienamente all’ideale ma vi si approssima.

Infatti, FC riconosce che si possono dare condizioni che rendono l’ideale non praticabile perché ferirebbe importanti beni e accoglie una soluzione già proposta nella praxis confessarii e fatta propria anche da alcuni episcopati (ad esempio quello italiano nel 1979), quella cioè di assolvere e ammettere all’eucaristia il penitente disposto a vivere nella seconda unione come «fratello e sorella» (cf. AL 299, nota 329). Non casualmente AL 298 ricorda esplicitamente questa apertura di FC 84: «La Chiesa riconosce situazioni in cui “l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione”» (Regno-doc. 5,2016,192).

Dunque, FC è così pastoralmente orientata che giunge ad aprirsi a una soluzione non corrispondente all’ideale (la separazione) in considerazione del bene dei figli o di altri seri motivi. (È noto che FC non entra nella questione delle eventuali cadute (sessuali) successive all’accettazione da parte del penitente della via fratello-sorella. Va però ricordato che negli anni successivi alla FC è diventa prassi quasi universale – almeno in Italia – che le eventuali cadute non impedissero l’assoluzione permanendo la sincera e adeguata volontà del penitente di non vivere in forma coniugale).

In qualche modo, tutto il n. 84 di FC delinea un processo d’integrazione: esso integra sacramentalmente le nuove unioni che accettano di non considerarsi coniugali pur continuando a convivere per seri motivi; integra, seppure non sacramentalmente, anche le coppie che non accettano la via fratello-sorella, questo giacché invita i fedeli ad aiutarle a non sentirsi separate dalla Chiesa (non lo sono) e ne sollecita direttamente la partecipazione alle diverse forme di vita ecclesiale. (FC 84 esorta pastori e fedeli ad aiutare i divorziati risposati a non considerarsi separati dalla Chiesa, «potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la parola di Dio, a frequentare il sacrificio della messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza»; EV 7/1798).

Tuttavia, è ben noto che FC ritiene di non poter andare oltre perché ultimamente il criterio della verità oggettiva le appare determinante per l’ammissione all’eucaristia: la nuova unione oggettivamente non è un vero matrimonio. Lo dice chiaramente al n. 84: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio» (EV 7/1799).

AL, invece, pur partendo dalla stessa attitudine pastorale e dalla stessa volontà d’integrazione, arriva a una conclusione diversa proprio su questo punto. Come mai?

Un passo oltre- Per cogliere il vero significato di questo passo avanti è necessario considerare attentamente un testo di AL 305: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (Regno-doc. 5,2016,195). Questo testo conclude con la nota 351 sulla quale torneremo successivamente. Dopo quel che abbiamo osservato prima, non meraviglia che tali parole dicano cose molto simili a quanto leggiamo in FC 84. Quando alludono alla condizione dei divorziati risposati dicendola «una situazione oggettiva di peccato» in qualche modo ne constatano la contraddizione oggettiva.

Anche il riferimento fatto «all’aiuto della Chiesa» corrisponde alla mens di FC che sollecita i divorziati risposati al rapporto con la Chiesa, anche se non possono accedere all’eucaristia. Quando afferma poi la possibile convivenza tra grazia di Dio e stato oggettivo di peccato dice qualcosa che fa parte del generale patrimonio teologico, mostrato tra l’altro dalle citazioni di Tommaso largamente presenti nel capitolo VIII di AL, patrimonio certamente non negato da FC 84.

Quel che appare nuovo in AL sta nella nota 351 ove si dice chiaramente che tale aiuto della Chiesa può essere costituito dai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, ovvero dall’assoluzione e dall’ammissione all’eucaristia. La nota suona così: «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei sacramenti. Per questo, “ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” (esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’eucaristia “non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (ibid., 47: 1039)» (Regno-doc. 5,2016,195).

AL ammette dunque che nel foro interno sacramentale il confessore possa in alcuni casi assolvere e ammettere all’eucaristia divorziati risposati – con nuova unione sicuramente invalida – che pure continuino regolarmente la loro vita coniugale. È evidente che AL non vuole indicare una nuova norma al posto della norma indicata da FC 84: essa letteralmente dice solo che in alcuni casi la norma di FC 84 non obbliga il confessore.

Ci si può chiedere su quale base lo dica e qualcuno potrebbe dire che si tratta di un’innovazione, un andare oltre la Tradizione. In realtà, si può dire piuttosto che AL arriva a questo passaggio perché si mette in ascolto della tradizione morale della Chiesa ancor più ampiamente di quanto FC 84 abbia fatto.

In ascolto della tradizione morale. I motivi che portano FC 84 all’esclusione dell’assoluzione/ammissione all’eucaristia sono stati richiamati. Come abbiamo visto, sono motivi teologici, presenti nella tradizione, e motivi pastorali, in particolare la preoccupazione per le sorti dell’indissolubilità anche tra i cristiani. C’è tuttavia un principio fondamentale implicitamente assunto dal testo surricordato di FC 84 per escludere i divorziati risposati dall’eucaristia: su di esso si basa sostanzialmente l’esclusione espressa in termini generali. Il principio è questo: non può essere mai ammesso all’eucaristia chi vive una contraddizione oggettiva con quanto significato oggettivamente dall’eucaristia.

Ebbene, il principio in tale forma assoluta non si ritrova nella tradizione; anzi si può affermare decisamente che la tradizione e la prassi morale della Chiesa non conoscono questa assolutizzazione. Parte della tradizione morale infatti è anche tutto il patrimonio della praxis confessarii che ha offerto nei secoli prospettive più ampie e ha incluso anche eventualità diverse. Ad esempio, la praxis sa che per l’assoluzione non si può esigere dal penitente pentito più di quanto possa dare. Ci sono circostanze nelle quali non si può chiedere al penitente – per assolverlo e ammetterlo alla comunione – che lasci una situazione di grave pericolo morale se questo significa provocare danni gravi a sé, ai propri cari o a persone verso le quali si hanno serie responsabilità: la teologia morale parla allora di «occasioni prossime di peccato necessarie». Così la tradizione conosce circostanze nelle quali non si deve cercare di cambiare le convinzioni oggettivamente sbagliate di una persona, che o non capisce o non può capire la verità di alcune posizioni morali della Chiesa, per assolverla e ammetterla alla comunione.

Sono quelle circostanze nelle quali il penitente è in «ignoranza invincibile» o in condizione di «coscienza soggettivamente difendibile» (si tenga conto di quanto sopra detto sul peccato grave). In tali circostanze, secondo la valutazione del confessore e tenendo conto del bene del penitente, è possibile assolvere e ammettere all’eucaristia anche se il confessore sa che si tratta per la Chiesa di un disordine oggettivo.

Una situazione ben nota della tradizione è quella della coscienza perplessa, il caso cioè della persona che ritiene in coscienza che comunque agisca fa male ma non può esimersi dall’agire: la teologia morale cattolica afferma da sempre che il soggetto è chiamato a scegliere il male minore e che nel fare il male minore non è colpevole. Di fatto è assolto e fa la comunione. Analogo è il caso nel quale il soggetto si trova dinanzi alla necessità di scegliere tra valori che orientano a comportamenti che in situazione confliggono e sceglie i valori preminenti non in sé ma nella sua concreta condizione e nel suo contesto esistenziale.

Queste posizioni della praxis, ben presenti nella storia morale cattolica, non negano il principio usato da FC ma non lo assolutizzano, costantemente lo interpretano e lo economizzano – come direbbero gli orientali – in rapporto alle concrete persone e al loro cammino cristiano. Esse attestano che la tradizione considerata in tutta la sua ampiezza ha ammesso e ammette la partecipazione all’eucaristia anche in alcuni casi d’incoerenza tra situazione oggettiva delle persone e oggettivo significato dell’eucaristia, ha cioè ritenuto e ritiene che la contraddizione oggettiva di vita non prevalga sempre sulla considerazione del bene del penitente.

Sacramento come aiuto- In contesti simili il sacramento è visto non come premio dei perfetti (soggettivamente e/o oggettivamente) ma come aiuto nel cammino a persone la cui colpevolezza soggettiva è fortemente diminuita o assente, non come consacrazione della piena verità dell’esistenza ma come forza/luce donata per crescere nella conoscenza e attuazione dell’esistenza cristiana.

In altre parole, AL richiama quella parte della tradizione – la stessa tradizione per altro di FC – che non assolutizza il criterio ma lo relativizza e lo subordina al bene della persona (delle persone): si danno circostanze infatti nelle quali ogni norma va ricondotta al suo fine proprio, che è la salus animarum, il bene delle persone. Nella prospettiva di AL ciò che si richiede perché si attivi l’aiuto sacramentale è che sia per il bene della persona (delle persone) nel suo (loro) cammino cristiano. Cosa che AL senza dubbio fa.

Essa mette in guardia da alcune situazioni che non possono essere considerate in questa luce: «Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr. Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione» (AL 297; Regno-doc. 5,2016,192).

Inoltre dal momento che la stessa logica dell’integrazione deve evitare ogni occasione certa di scandalo (cf. AL 299), anche questo aspetto va tenuto presente nel discernimento sacramentale.

Vanno poi, secondo AL, presi in considerazione anche alcuni criteri positivi di discernimento. AL 293 indica l’esistenza di alcuni dati oggettivamente verificabili: stabilità e pubblicità del vincolo, affetto reciproco, responsabilità verso i figli ecc.

Altri elementi sono tratti dal modo in cui il fedele si muove nel dialogo pastorale e nel rapporto sacramentale: «“Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. Familiaris consortio, n. 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere a una risposta più perfetta a essa”. Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale» (AL 300; Regno-doc. 5,2016,192).

Questo quadro di criteri può essere allargato, sulla stessa linea di discernimento: ricordo un dato tradizionale, cioè la considerazione dell’assolvimento dei doveri nei confronti delle persone coinvolte nella prima unione e i tentativi di riconciliazione esperiti.

Applicatori di norme o pastori? Dal punto di vista della determinazione dei criteri appare particolarmente importante quanto leggiamo in AL 298. Ivi, infatti, l’esortazione, nell’intento di mostrare la varietà delle situazioni, offre vari casi possibili utilizzando anche quanto detto da FC 84 sui casi nei quali la separazione non sarebbe giusta. In particolare ricorda un caso di «una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe». AL sa bene quel che dice FC in un simile caso, ma non può esimersi dall’osservare nella nota 329 che la mancanza di intimità potrebbe portare a mettere in pericolo la fedeltà della seconda unione e il bene dei figli. Questa nota allude abbastanza chiaramente alla possibilità che in casi simili il bene dei figli e il bene connesso della stabilità coniugale della seconda unione – ormai irreversibile – siano tra i criteri che conducono il «discernimento personale e pastorale» all’ammissione all’eucaristia.

AL 298 offre altri casi possibili, tra i quali va notato in particolare quello del coniuge ingiustamente abbandonato e unito in nuova unione stabile. Non c’è dubbio che ogni confessore cattolico in questo momento si trovi in mezzo al guado tra FC e AL. Non si può negare lo sconcerto e la confusione di molti.

La FC, anche se la sua soluzione si è rivelata sempre più limitata e insufficiente, ha offerto tuttavia per anni un quadro di riferimento dotato d’autorità. Il confessore ha potuto continuare a essere più un applicatore della norma che un pastore e un padre personalmente coinvolto nel bene del penitente e nel suo cammino cristiano. Oggi l’attitudine indicata da AL esige che il confessore assuma maggiore responsabilità personale nel valutare il bene del penitente e delle persone coinvolte dal suo agire, con cuore misericordioso e con intento terapeutico. Il suo ruolo è certamente assai più impegnativo. Bisogna però dire che diventa anche più significativo, più ricco e più ministerialmente pieno.

No al rigorismo, no al lassismo. Lo fanno percepire profondamente alcune parole di papa Francesco dette a tutti i confessori e che tutti i confessori dovrebbero ben meditare: «E bisogna guardarsi dai due estremi opposti: il rigorismo e il lassismo. Nessuno dei due fa bene, perché in realtà non si fanno carico della persona del penitente. Invece la misericordia ascolta veramente con il cuore di Dio e vuole accompagnare l’anima nel cammino della riconciliazione. La confessione non è un tribunale di condanna, ma esperienza di perdono e di misericordia!». (Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria apostolica, 28.3.2014).

«Tante volte si confonde la misericordia con l’essere confessore “di manica larga”. Ma pensate questo: né un confessore di manica larga, né un confessore rigido è misericordioso. Nessuno dei due. Il primo, perché dice: “Vai avanti, questo non è peccato, vai, vai!”. L’altro, perché dice: “No, la legge dice…”. Ma nessuno dei due tratta il penitente come fratello, lo prende per mano e lo accompagna nel suo percorso di conversione! L’uno dice: “Vai tranquillo, Dio perdona tutto. Vai, vai!”. L’altro dice: “No, la legge dice no”. Invece, il misericordioso lo ascolta, lo perdona, ma se ne fa carico e lo accompagna, perché la conversione sì, incomincia – forse – oggi, ma deve continuare con la perseveranza… Lo prende su di sé, come il Buon Pastore che va a cercare la pecora smarrita e la prende su di sé. Ma non bisogna confondere: questo è molto importante. Misericordia significa prendersi carico del fratello o della sorella e aiutarli a camminare. Non dire: “Ah, no, vai, vai!”, o la rigidità. Questo è molto importante. E chi può fare questo? Il confessore che prega, il confessore che piange, il confessore che sa che è più peccatore del penitente, e se non ha fatto quella cosa brutta che dice il penitente, è per semplice grazia di Dio. Misericordioso è essere vicino e accompagnare il processo della conversione». (Francesco, Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria apostolica, 12.3.2015).

Basilio Petrà              Il Regno attualità n.8,                      17 giugno 2016

www.dehoniane.it/control/ilregno/articoloRegno?idArticolo=992774

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ASSEGNO DIVORZILE

                        Addio al mantenimento dell’ex moglie.

Come le più recenti pronunce della giurisprudenza hanno ridimensionato, e in certi casi azzerato, l’istituto assistenziale. In sede di separazione, all’obbligo di assistenza morale e materiale imposto reciprocamente ai coniugi durante il matrimonio, si sostituisce il dovere di contribuire economicamente al mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri. La somma di denaro, da corrispondersi su specifica domanda del coniuge al quale non sia addebitata la separazione, viene commisurata in considerazione dei mezzi dell’onerato e dei bisogni del richiedente. L’istituto del mantenimento, pertanto, trova la sua ratio nella tutela del coniuge economicamente più debole, mirando a garantirgli lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

Che per molto tempo la giurisprudenza abbia inteso operare un’identificazione pressoché totale tra la nozione di coniuge economicamente debole e quella di moglie emerge sintomaticamente dai numerosi provvedimenti di legittimità e di merito con i quali è stato onerato del mantenimento anche l’ex-marito rimasto senza lavoro (cfr. Cass. civ. 12125/1993) e lo stesso mantenimento è stato disposto in favore della ex-moglie in grado di svolgere attività lavorativa, seppur precaria (cfr. Trib. Padova 21.03.2003).

Del pari, in caso di addebito della separazione al marito, la sola capacità lavorativa della moglie, in assenza di prova di rifiuto di occasioni di reddito da lavoro da parte di quest’ultima, è stata da sola ritenuta elemento non idoneo a negare l’assegno in suo favore (cfr. Cass. civ. 12121/2004) e, se prima della separazione i coniugi avevano concordato che uno di essi non lavorasse, l’efficacia ultrattiva riconosciuta a tale accordo è stata posta alla base del diritto alla moglie di ricevere il mantenimento anche successivamente (cfr. Trib. Novara 07.09.2009).

Tale orientamento, tuttavia, è stato recentemente posto in discussione da alcune decisioni che hanno intaccato il dogma del mantenimento e con esso l’automatica equiparazione tra moglie e soggetto economicamente più bisognoso.

            Il “revirement” della giurisprudenza. La strada imboccata dalla recente giurisprudenza, soprattutto di legittimità, è quella di un maggiore rigore nel riconoscimento del diritto all’assegno di mantenimento. In particolare, per la recente Cassazione, occorre una valutazione dell’attitudine di ciascun coniuge a procurarsi degli introiti, e il mantenimento in favore della ex-moglie non può essere disposto in assenza di impossibilità oggettiva in capo alla stessa di procurarsi mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio mentre svolgeva mansioni di casalinga (cfr. Cass. civ. 11870/2015; nello stesso senso Cass. n. 24324/2015).

            Se poi, in caso di relazione extraconiugale della moglie benestante, questa non provi la mancanza del nesso eziologico tra l’infedeltà e la sopravvenuta intollerabilità della convivenza, sarà essa stessa a vedersi addebitare la separazione con obbligo dover corrispondere il mantenimento all’ex-marito (cfr. Cass civ. 10823/2016).

            Del medesimo avviso anche la giurisprudenza di merito, che ha negato il diritto al mantenimento per la donna il cui ex-marito si trovi a dover pagare le rate del mutuo della casa coniugale assegnatale e a sostenere al contempo le spese di un nuovo alloggio per sé (cfr. Trib. Roma 31.05.2016) e ha escluso, in sede di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il diritto all’assegno divorzile per l’ex-moglie lavoratrice, già beneficiaria del mantenimento al tempo della separazione, che nel frattempo abbia intrapreso una convivenza stabile con altra persona, quando l’ex marito sia stato licenziato dal posto di lavoro (cfr. Trib. Napoli 23.03.2016).

                        Avv. Laura Bazzan – Newsletter Giuridica Studio Cataldi 13 giugno 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22310-addio-al-mantenimento-dell-ex-moglie.asp

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA CISF

Newsletter n. 11/2016, 15 giugno 2016

Il vero azzardo: non fare nulla contro il gioco d’azzardo! Se ci sono cifre che possono – e devono! – far paura, sono quelle relative al gioco d’azzardo in Italia. Un dossier curato da Marco Dotti per Vita chiarisce oltre ogni dubbio come l’industria (si fa per dire) del gioco d’azzardo “legale” ha raggiunto in Italia dimensioni tali da costituire un’autentica emergenza, dal punto di vista sociale, economico (per i sempre più numerosi giocatori patologici) e relazionale. È invece positivo segnalare che comunque – proprio per la gravità raggiunta dal fenomeno – qualcosa si stia muovendo anche dove non ce lo si sarebbe aspettato. La Banca BPER ha recentemente pubblicato un vademecum intitolato Giocatori d’azzardo patologici e servizi bancari. Vedi anche i commenti su Famigliacristiana.it, sui dati recentemente riportati in Parlamento.

Pietro Boffi – CISF

Ultimi arrivi dalle case editrici. Da questo numero inseriamo nella Newsletter un nuovo servizio di segnalazione di alcuni volumi (pochi, selezionati), più recenti e interessanti, che ci arrivano dalle Case editrici per il nostro Centro Documentazione. In ogni Newsletter daremo una breve “segnalazione argomentata” del volume che ci pare più stimolante- Tutti i volumi sono acquistabili sul sito www.sanpaolostore.it.

  • Bille Chiara, Tagliaferro Giovanni, Volante Marco, I nuovi adolescenti e la fuga nel virtuale. Genitori, educatori e insegnanti di fronte alle nuove tecnologie, EDB, Bologna, 2015, pp. 213, € 20,00. I nuovi media, in particolare Internet e il cellulare, svolgono un ruolo importante nella vita dei giovani, aprendo a un mondo di relazioni che offre opportunità senza precedenti. Un territorio affascinante, sconfinato e facilmente accessibile dove, tuttavia, possono trovare spazio anche contenuti e comportamenti potenzialmente dannosi. Se da un lato la rete dà spazio allo scambio, dall’altro rischia di divenire luogo della solitudine, che relega in secondo piano la dimensione fisica, il dialogo, la trasmissione delle emozioni tipica dei veri rapporti interpersonali. Nascono al contempo nuovi fenomeni come il cyber bullismo, le molestie, la diffusione di blog e forum di persone accomunate dalle stesse ossessioni o dipendenze. Siamo inoltre di fronte a nuovi modi di apprendere: più per immagini che per concetti, più per logiche binarie che razionali. Questo volume intende approfondire tutti questi risvolti del “virtuale”, favorendo la presa di coscienza degli adulti interessati.
  • Scarp de’ tenis. Non solo una rivista, Ma la speranza di ricominciare una nuova vita. Da 20 anni Scarp De’ Tenis (dalla struggente canzone milanese di Iannacci) viene venduto mensilmente a Milano e Lombardia da persone senza fissa dimora. Nell’ultimo numero si vede la bella storia (e il bel sorriso!) di Alberto che proprio grazie all’impegno di distribuire il giornale ha ritrovato casa, progetto di vita e soprattutto speranza.

Che cosa sarebbe l’Italia di oggi senza gli immigrati? Una bella domanda, di grande attualità di questi tempi, in cui in tutta Europa sembra prevalere l’idea che dobbiamo costruire muri e barriere per salvaguardare il nostro benessere assediato. È anche la domanda che si è posto il Censis, a cui ha risposto senza ideologismi ma con la consueta ricchezza di dati in un breve ma documentato e denso documento “L’integrazione nella società molecolare”, contrassegnato dallo slogan: “ritrovare la via dello sviluppo secondo il modello italiano”. In sintesi estrema: in Italia avremmo 2.600.000 minori e under 35 in meno; 68.266 insegnanti, vale a dire il 9,5% del totale, da mandare a casa; verrebbero a mancare 693.000 badanti nei servizi di assistenza e di cura alla persona o nella collaborazione domestica, il 77,1% del totale degli occupati in questo settore. La parola chiave allora secondo il Censis non è rifiuto ma integrazione, quell’integrazione “silenziosa ma efficace, che rappresenta una potenza italiana misconosciuta che invece può e deve essere un motivo di orgoglio e che va narrata e affidata alla opinione pubblica per contrastare le derive (interne ed internazionali) di rifiuto e di chiusura”.

Anche il Cisf rifletterà sul tema, nell’imminente Conferenza Internazionale “Famiglie forti, comunità forti”, che si terrà a Trento dal 17 al 19 giugno, organizzando un workshop su una forma particolare di accoglienza familiare, dal titolo “Da famiglia a famiglia. L’accoglienza familiare di rifugiati e delle loro famiglie”, in continuità con le riflessioni, i dati e le indicazioni già contenute nel Rapporto Cisf 2014 sulla famiglia. Il tema si propone in tutta la sua attualità anche in considerazione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il 20 giugno, che verrà ricordata in vario modo. Ad esempio, a Rovigo… (leggi di più).

Non c’è più religione? Secondo i dati Istat elaborati da Marzio Barbagli e pubblicati sul sito de La Voce, in vent’anni, dal 1995 al 2005 la quota di popolazione italiana che si reca regolarmente a messa (considerato l’indicatore più significativo per misurarne la religiosità), è calato di 10 punti, passando dal 39% al 29%. Secondo lo studioso, le cui considerazioni sono certamente importanti per tutti gli operatori pastorali, oltre che per chi si occupa di famiglia e pastorale familiare, l’impressione che sembrava prevalere finora di trovarci di fronte a un declino progressivo, lento, dolce, senza salti bruschi non è del tutto adeguata, in quanto tale declino è stato forte per la classe fra i 12 e i 19 anni, fortissimo in quella successiva, dai 20 ai 29. Per gli italiani del prossimo futuro la religione cattolica sarà sempre meno rilevante per i loro valori e le loro scelte di vita?

In Parlamento si discute – male! Del diritto alla segretezza al parto. Volentieri diamo diffusione ad un recente appello dell’Anfaa che ben descrive la situazione, contro una proposta di legge che rischia di impedire la protezione della vita di tanti bambini e di danneggiare tante donne in situazione difficile.

Dall’estero.

            Uno strano silenzio. La legge sulla prostituzione in Francia. Nel quasi completo disinteresse dell’italica cultura, sempre così attenta a ciò che succede oltralpe relativamente alla sfera matrimoniale e sessuale, il 15 aprile scorso il parlamento francese ha adottato una legge (vedi il testo definitivo) che:

– vieta l’acquisto di atti sessuali;

– non considera la prostituzione un’attività professionale, a motivo dello stato di costrizione che per lo più è all’origine dell’ingresso in essa, della violenza che la caratterizza e dei danni fisici e psicologici che provoca;

– punisce il cliente con una multa di 1.550 euro, che possono diventare 3.750 in caso di recidiva; inoltre, deve sostenere a sue spese un corso di rieducazione sessuale;

– viene offerta ogni tutela possibile alle persone dedite alla prostituzione, con la creazione di percorsi di uscita dalla stessa e di inserimento sociale e professionale.

Provvedimenti simili sono stati adottati anche da Svezia, Islanda, Norvegia, Irlanda del Nord, Canada e, in parte, Regno Unito. Facciamo quindi nostra la domanda che Dacia Maraini ha posto in un suo articolo sul Corriere della Sera: “Come vi spiegate che in Italia non se ne sia nemmeno accennato?”.

Active Ageing Index. Uno strumento innovativo per promuovere il protagonismo degli anziani nella società. Le Nazioni Unite hanno recentemente elaborato e diffuso L’ActiveX Ageing Index, un indicatore composito che rileva sinteticamente quanto, in ogni nazione, agli anziani è consentito di conservare un ruolo sociale attivo. Questo Indice è sperimentato anche diverse nazioni dell’Unione Europea Il tema è certamente rilevante nel nostro Paese; anzi, proprio in Italia il ruolo attivo degli anziani è tassello insostituibile di un welfare plurale e generativo, aiutando ad affrontare tanti bisogni e necessità delle famiglie che non trovano risposte nei servizi formali. Al tema il Centro di Ateneo di Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica ha dedicato il suo ultimo volume, L’allungamento della vita. Una risorsa per la famiglia, un’opportunità per la società, presentato il 7 giugno a Milano alla presenza di esperti e di esponenti di associazioni di anziani attivi.

Save the date

Nord: La conciliazione lavoro-famiglia. Sistema di gestione, buone pratiche e riconoscimenti, promosso da AICQ, Milano, 8 luglio 2016.

Centro: “Comportamenti immorali vs morali”, Tavola rotonda interdisciplinare, organizzata da Vasi di Creta, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma, 17 giugno 2016.

La fatica delle mani. Festival del lavoro 2016, promosso dall’Ordine dei Consulenti del Lavoro, Roma, 30 giugno – 2 luglio 2016.

Sud: Le imprese familiari del futuro tra integrazione sociale, innovazione digitale e coesione della famiglia, organizzato da AIDAF, Associazione Italiana delle Aziende Familiari, Taormina, 29 settembre – 1 ottobre 2016.

Estero: Insieme per l’Europa. Incontro, riconciliazione, futuro, incontro di movimenti e associazioni, Monaco (Germania), 30 giugno 2 luglio 2016.

www.cpm-italia.it/index.php/component/acymailing/archive/view/listid-2-collaborazione/mailid-106-centro-internazionale-studi-famiglia?tmpl=component

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CHIESA CATTOLICA

La Chiesa rivaluti il ruolo della donna.

L’espressione “femminicidio” è purtroppo diventata frequente nei nostri mezzi di comunicazione. La terribile realtà che essa esprime provoca giuste reazioni di sdegno e impegna la ricerca di soluzioni preventive alla violenza cieca che spinge tanti uomini a compiere delitti efferati e vigliacchi sulle donne. Ciò che occorre soprattutto, però, è favorire la crescita di una mentalità capace di valorizzare l’importanza e il ruolo delle figure femminili nella vita e nella società e di motivare il rispetto assoluto dovuto a ogni persona.

L’emancipazione della donna è stata certamente uno degli aspetti di maggior rilievo del processo emancipatorio caratteristico dell’età moderna: essa ha investito tanto la sfera sociale, dove ha sollecitato il passaggio dal privato al pubblico della partecipazione e della creatività femminile, quanto la sfera personale, dove ha rivendicato una gestione della parola e dei comportamenti e un rapporto con la propria identità anche corporea da parte della donna, che fossero retti da un principio di autonomia e non condizionati da alcuna dipendenza. Nelle sue realizzazioni storiche questo processo ha non solo prodotto l’ampliamento effettivo degli spazi di presenza e di partecipazione attiva delle donne nelle diverse espressioni della vita culturale, sociale e politica, ma ha anche avviato una nuova presa di coscienza riguardo alle situazioni di oppressione esistenti in questo campo in ogni parte del mondo e alle urgenze di liberazione che vi sono connesse. La nuova emergenza del “femminile” a livello di consapevolezza critica e di progettualità di cambiamento si è a sua volta tradotta in prassi liberatrici, che si collegano al più generale processo storico di liberazione degli oppressi.

Anche in ambito ecclesiale la rinnovata coscienza del femminile si è fatta strada, alimentando la nascita e lo sviluppo di varie forme di “teologia al femminile”, proposte come “teologia dell’integralità” umana. Si è evidenziata la reciprocità uomo- donna come condizione dell’armonico sviluppo della persona; si è denunciato ogni atteggiamento che releghi la donna in un ruolo regressivo e mortificante; in campo teologico si è riscoperta Maria, la madre di Gesù, come «tutt’altro che passivamente remissiva o di una religiosità alienante, ma donna che non dubitò di proclamare che Dio è vindice degli umili e degli oppressi e rovescia dai loro troni i potenti del mondo» (Paolo VI). In questa luce, è emersa la storia spesso oscurata del protagonismo femminile all’interno della comunità cristiana e si è andato delineando in tutta la sua rilevanza il ruolo che la donna esercita, tanto a livello di vita consacrata, quanto nelle più diverse espressioni della vita familiare e sociale. Si è avvertito il bisogno di dare maggior rilievo al «carisma mariano» nella Chiesa, tale da integrare e alimentare lo stesso «carisma petrino» dei pastori (H. Urs von Balthasar).

Questa nuova coscienza ha trovato un’espressione convinta nella Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II, coraggioso manifesto della dignità e dell’emancipazione femminile, di cui diede una lettura entusiasta tra altri Maria Antonietta Macciocchi, l’autrice di Pour Marx. Ciò che urge che questa coscienza rinnovata si traduca in effettivi spazi di partecipazione della donna alle responsabilità e alle decisioni nella vita del popolo di Dio, non in alternativa ad altri ruoli, ma in una reciprocità autentica e feconda. Su questo orizzonte la strada è aperta ed esige l’audacia di nuovi passi, la cui invenzione spetta certamente anzitutto alle donne, non senza però l’apporto creativo e solidale di tutte le componenti della realtà ecclesiale, in particolare dei pastori, chiamati a operare il discernimento dei diversi doni e servizi nella comunione del popolo di Dio.

Da parte sua, Papa Francesco ha più volte sottolineato l’urgenza della promozione della presenza femminile nella Chiesa: «Le donne – ha affermato parlando ai Vescovi del Brasile il 27 luglio 2013, nei primi mesi del suo pontificato – hanno un ruolo fondamentale nel trasmettere la fede e costituiscono una forza quotidiana in una società che la porti avanti e la rinnovi. Non riduciamo l’impegno delle donne nella Chiesa, bensì promuoviamo il loro ruolo attivo nella comunità ecclesiale. Se la Chiesa perde le donne, nella sua dimensione totale e reale rischia la sterilità». E sul volo di ritorno da Rio de Janeiro a conclusione della Giornata Mondiale della Gioventù 2013 ai giornalisti che lo accompagnavano ha detto: «Una Chiesa senza le donne è come il Collegio Apostolico senza Maria. Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità… ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, della Madonna, quella che aiuta la Chiesa a crescere! La Madonna è più importante degli Apostoli! È più importante! La Chiesa è femminile: è Chiesa, è sposa, è madre… Credo che noi non abbiamo fatto ancora una profonda teologia della donna, nella Chiesa». Recentemente, poi, il Papa ha aperto all’idea di creare una commissione che studi la possibilità del diaconato alle donne, inteso non come replica del diaconato maschile, ma come un ministero originale misurato sui carismi propri della presenza femminile e tale da incidere con la parola, la testimonianza e il servizio sul rinnovamento profondo della vita ecclesiale. La via è dischiusa a sviluppi che potranno essere rilevanti per tutti, non solo per le donne e neanche solo per la comunità cristiana, che proprio in questo campo potrebbe avere un ruolo importante di promozione e di stimolo all’intera società: ad esempio, un ministero della “paráklesis”, ovvero della “consolazione”, riservato alle donne ed esercitato attraverso la prossimità caritatevole, l’ascolto e il discernimento spirituale, la predicazione e l’insegnamento, oltre che la guida di alcune forme e momenti della preghiera comunitaria e, in generale, dell’azione caritativa della comunità, potrebbe costituire una prima forma di riconoscimento del fondamentale protagonismo femminile nella vita della comunità cristiana al servizio della crescita di tutti nella carità e nella fede. La docilità all’opera dello Spirito è in questo campo più che mai necessaria e il rinnovamento coraggioso nella fedeltà non potrà non richiedere l’impegno di tutti in una Chiesa e una società di donne e uomini liberi e responsabili.

Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto     il sole 24 ore   19 giugno 2016

www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-06-19/la-chiesa-rivaluti-ruolo-donna-132355.shtml?uuid=ADtQ51e

 

Continuità e discontinuità tra papa Benedetto e papa Francesco.

Con un intervento su “Avvenire” di ieri, Fulvio de Giorgi è intervenuto nel dibattito tra A. M. Valli e me.                                          Vedi             newsUCIPEM n. 600, pag. 11

Mi sembra utile riportare per intero il testo delle sue considerazioni, cui faccio seguire una replica, che valorizza i punti comuni, senza nascondere i punti di dissenso, che riguardano proprio la completezza di quella “storia” che dovremo raccontare ai nostri nipoti.

Storica è la continuità tra Benedetto e Francesco. Il legame tra i Papi. E un’evidenza: le persone non sono ‘casi’ Un Papa ‘senza norme’ che rischia grosso? Su questo tema si sta sviluppando da qualche tempo – sui rispettivi blog – un dialogo a distanza tra il teologo Andrea Grillo e il giornalista Aldo Maria Valli. Può essere forse non inutile portare qualche elemento di ulteriore riflessione, non da teologo né da giornalista, ma da storico (e da storico dell’educazione) quale sono. Il dissenso dal teologo e dal giornalista sta appunto nella lettura storica: quella che entrambi – pur poi con valutazioni opposte – propongono è una netta frattura tra papa Ratzinger e papa Bergoglio.

A me pare invece che i due pontificati, certo molto diversi (come è diverso, per esempio, e pensando ai loro nomi, san Benedetto da san Francesco), siano in una continuità storica, come risposta alla sfida che il XXI secolo porta al cristianesimo: sfida che ha un volto teorico (il nichilismo postmoderno) e un volto sociale (l’individualismo neoliberista).

Entrambi i Papi hanno illuminato con la fede l’umanità contemporanea (come plasticamente mostra la Lumen fidei scritta «a quattro mani», ancorché firmata dal solo Francesco): Benedetto XVI ha dato l’indicazione della risposta al nichilismo (Deus caritas est: Dio è amore); Francesco ha sviluppato l’insegnamento sul piano sociale (Fedeltà al Vangelo per non correre invano: Evangelii Gaudium, cap. IV). Il primo ha fatto brillare lo splendore del kerygma, anche con la sua umiltà personale (fino alla rinuncia al pontificato); il secondo ha reso evidenti le conseguenze comunitarie e sociali del kerygma, anche con il suo personale calore umano.

Per entrambi sono importanti teologi come Guardini (con la sua riflessione sulla coscienza) e Rosmini. In entrambi c’è una grande vicinanza alla sensibilità mistica (per Francesco nel senso della grande mistica gesuitica, soprattutto del Seicento francese) e perciò alla forza della vita interiore: più ‘cherubica’ per Benedetto e più ‘serafica’ per Francesco, si potrebbe dire, riferendosi alla storia della spiritualità. Se questa impostazione storica è vera, come credo, allora si capisce meglio come ad aprire un processo riformatore, di ripresa del Vaticano II, sia stato papa Ratzinger, con l’ultimo Sinodo da lui presieduto (quello che ha poi portato alla Evangelii Gaudium), in cui si è parlato di uno tsunami che si è abbattuto sulla Chiesa e si è constatata, con franchezza, la grande difficoltà attuale della trasmissione della fede alle nuove generazioni.

C’era (e c’è) un problema: un caso serio. Ratzinger si è speso al massimo e poi ha passato la mano a Bergoglio, che ha preso il nome – programmatico (e amatissimo da noi italiani) – di Francesco. Se francescanesimo e gesuitismo si danno la mano è segno che un grande e vastissimo radicamento nella storia della Chiesa (e soprattutto della sua spiritualità e del suo dinamismo missionario evangelico) è stato chiamato in causa: questo sta facendo papa Francesco, il primo papa gesuita. Non credo che sia una giusta interpretazione storica del pontificato bergogliano che porta a parlare di «rischio dell’indeterminatezza e del sentimentalismo», e a sostenere che nella sua visione «non può esserci una norma universale, vincolante per tutti, e che la Chiesa deve procedere, nella sua valutazione, caso per caso». Paradossale è poi affermare, come è stato fatto, che papa Francesco «non sembra interessato alla questione della verità».

Ovviamente per Francesco la verità è Cristo: e di Cristo, da innamorato di Cristo, il Papa parla continuamente. Cristo è la verità, ma è anche via e vita. La norma universale, vincolante per tutti coloro che si dicono cristiani, è il Vangelo e non può essere altro. Cristo è la via. Vi è una via eucaristica: farsi carne e sangue della storia, contemplando la carne e il sangue di Cristo, desiderando di nutrirsi di lui, per Cristo, con Cristo e in Cristo. Ecco la legge eucaristica (lex orandi, lex credendi). Ma Cristo verità e via è anche vita reale. E nella vita reale noi, se siamo cristiani, vediamo il volto di Cristo nei suoi piccoli, nei poveri, nei sofferenti, nella loro personale singolarità, uno per uno (non «caso per caso»: persone non ‘casi’). Ma chi vede Cristo vede il Padre. Dunque la centralità del povero (del povero reale, in carne ed ossa, secondo le povertà di oggi), nella vita concreta del cristiano, porta al cristocentrismo e infine al teocentrismo più radicale.

Se Cristo e il suo Vangelo sono la verità e la norma, sono anche la via – ecco la misericordia – per trasformare evangelicamente la vita del cristiano. Questo è tanto semplice da capire quanto difficile da attuare: con una battuta potremmo dire che è molto difficile convertire noi cattolici al cristianesimo. Ed è difficile il compito educativo. Non perché, lo abbiamo detto, manchi la norma: ma perché mancano i maestri che siano anche testimoni, come diceva Paolo VI e come ripete Francesco. L’evangelizzazione come annuncio di liberazione e come educazione delle coscienze richiede autorità educatrici: ma queste sono credibili se vivono ciò che annunciano e se si coinvolgono con i loro ‘educandi’ nel medesimo cammino di liberazione (che siano genitori o che siano preti, che siano teologi e giornalisti e storici, che vogliono educare, o che sia il Papa).

Fulvio de Giorgi        Avvenire – 14 giugno 2016

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Una discussione aperta, tra storia e teologia. Con un intervento molto opportuno, Fulvio De Giorgi ha proposto il competente contributo dello storico nel dibattito che si era aperto sul tema non già della continuità tra papa Benedetto e papa Francesco, ma sulla presunta “rottura” di Francesco con la tradizione. Tuttavia, pur forzando in qualche modo la storia del dibattito con legittimità e pertinenza, De Giorgi propone di rileggere in termini di continuità la successione tra Benedetto e Francesco. Vediamo come.

a) Criterio apologetico e criterio storico. Non vi è dubbio che lo storico dimostra di riconoscere come il dibattito, nel suo nucleo, effettivamente vertesse non su tale continuità, ma sulla piena legittimità tradizionale di Francesco. Gran parte delle sue parole, infatti, sembrano censurare soltanto le accuse che Valli ha indirizzato ingiustamente a Francesco.

Tuttavia, pur concordando con lui apertamente e senza riserve su questo intento di recupero di Francesco alla pienezza della tradizione cattolica, la sua lettura non mi appare del tutto convincente, per i seguenti motivi. Infatti il suo raffronto tra i due papi viene impostato, fin dall’inizio, non su categorie storiche, ma su categorie apologetiche. Dire che Benedetto ha risposto al nichilismo e che Francesco si oppone all’individualismo comporta una riduzione apologetica dei due papi, che proprio sul piano storico non mi sembra di poter accettare. In quanto teologo, infatti, non riesco a riconoscermi in una storia ridotta a principi che si desumono non dal XXI secolo, ma dal XIX! Ciò che è accaduto, con Benedetto e con Francesco, è invece una interpretazione di ciò che il Concilio Vaticano II ha voluto sancire circa il rapporto tra Chiesa e mondo, che il primo ha cercato di smorzare e quasi di rimuovere, mentre il secondo se ne riconosce figlio e naturale continuatore.

Questa differenza, che nel testo di De Giorgi è sostanzialmente ignorata, mi pare un criterio decisivo per intendere in che modo, sia pure nella continuità della medesima tradizione, dobbiamo riconoscere una effettiva discontinuità storica tra i due papi.

b) La continuità e la riforma. Ora, vorrei che fosse chiaro: una preoccupazione puramente statica (come quella di Benedetto) e una esigenza dinamica (come quella di Francesco) possono certo costituire una unità. È sempre necessario assicurare una continuità all’unico soggetto ecclesiale. Ma come si assicura tale continuità? La Chiesa è un museo in cui ripetere sempre il medesimo cerimoniale o un giardino dove fioriscono piante e crescono frutti e accadono cose nuove?

Qui a me pare che anche De Giorgi, se ho compreso il suo testo, ci voglia suggerire che la continuità comporta necessariamente alcune importanti diversità. In altri termini, dovremmo riconoscere che la riforma è una condizione della continuità della tradizione. Su questo punto, tuttavia, i due papi hanno mostrato – proprio nei confronti della “riforma” – un approccio grandemente diverso, pur all’interno della medesima tradizione.

c) Il caso del “diaconato”. Vorrei fermarmi soltanto su un punto. Le dinamiche di ripensamento del ministero diaconale, su cui Francesco ha recentemente richiamato la attenzione, non si confrontano semplicemente con la “tradizione della chiesa”, ma debbono vedersela con il tentativo di resistenza ad oltranza al cambiamento che prima come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e poi come papa Benedetto XVI, J. Ratzinger ha perseguito con assoluta determinazione.

Analizziamo rapidamente gli sviluppi degli ulti 20 anni:

– Nel 1998 papa Giovanni Paolo II fece propria una decisione assunta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede – il cui Prefetto era J. Ratzinger – mediante la quale corresse il n. 1591 del CCC, rileggendolo restrittivamente, e soprattutto creando una “categoria ex novo” che permetteva una drastica separazione, all’interno dell’ordine sacro, tra presbiterato e episcopato, da una parte, e diaconato, dall’altra. Il prezzo pagato per questa “operazione difensiva” era la incrinatura dell’unità del ministero ordinato, per difendere episcopato e presbiterato da ogni eventuale novità diaconale.

– Nel 2009, recependo una indicazione di Giovanni Paolo II, papa Benedetto, continuando la medesima traiettoria che aveva suggerito come Prefetto 11 anni prima, modificò anche il CjC, ai canoni 1008-1009, integrando il testo in analogia con il catechismo e riducendo drasticamente la comprensione del “diaconato” nella Chiesa latina, escludendone la rappresentanza nelle azioni in nome di Cristo capo, e offrendo una lettura riduttiva delle competenza in rapporto alla liturgia, alla parola e alla carità.

La figura del diacono, che emerge da questa rilettura, è profondamente ridimensionata e separata diremmo per principio dall’esercizio effettivo della autorità ecclesiale. Ma questa operazione, di fatto, ha mirato ad una regresso alla condizione di “gestione della autorità” tipica della Chiesa pre-conciliare. Nella quale l’esercizio della autorità ecclesiale non veniva alterato da “nuove competenze” in capo a soggetti che, pur appartenendo al “clero”, possono oggi essere stabilmente uxorati e, magari, domani, essere esse stesse “uxores”!

d) Risposta al nichilismo e autoreferenzialità ecclesiale. Questi sono fatti da cui il teologo, – ma immagino anche lo storico – non può mai prescindere. Altri fatti si sono ripetuti, negli ultimi 30 anni, su molti altri temi: sul matrimonio, sulla eucaristia, sulla unzione dei malati, sui criteri di traduzione dei testi liturgici, sull’uso della liturgia preconciliare, per non parlare della gestione del “consenso” e del “dissenso”. Appare un intero quadro di “resistenza nell’immobilismo” – che nega alla chiesa la autorità per poter cambiare – e che con molta difficoltà potrei considerare con De Giorgi come un “segno di umiltà”, pur distinguendo sempre la persona dal ministero, e valutando soltanto il secondo e non la prima.

E sarà obiettivamente molto difficile interpretare tutto ciò anche come “risposta al nichilismo”, poiché l’autoreferenzialità ecclesiale è il prezzo che Benedetto ha pagato al mito ottocentesco della lotta al nichilismo moderno. Un prezzo troppo alto. Di cui egli stesso si è reso conto, trasformando la resistenza ad oltranza in una resa al ministero, senza possibilità di appello.

La riduzione di Benedetto a combattente contro il nichilismo e di Francesco a soldato contro l’individualismo non tiene conto che, mentre la prima battaglia determina una grave chiusura autoreferenziale per la Chiesa, la seconda esige in modo urgente una chiesa in uscita, da intendersi come “carovana”, come “ospedale da campo”, chiamata a rischiare di essere incidentata piuttosto che asfissiare per l’aria viziata e che indica in una “fraternità mistica” il suo orizzonte comunitario e sociale, spirituale e pastorale.

e) Prendere l’iniziativa di perdere l’iniziativa. Appare, dunque, una differenza strutturale, che non può essere trascurata. Tra un papa che non riesce ad accettare di celebrare stabilmente “oltre Pio V” e un papa che osa avanzare “oltre il massimalismo morale” imposto dai suoi predecessori, io credo che si possa parlare di sostanziale continuità solo al prezzo di un esercizio retorico troppo spinto. Io riconosco una continuità solo grazie ad una benedetta e innegabile discontinuità. Che si chiama, appunto, forza e complessità della tradizione. Nella quale il secondo ha preso la iniziativa dove il primo restava sempre diffidente e in attesa. Salvo il punto di svolta in cui, prendendo la iniziativa di perdere definitivamente la iniziativa, il primo ha sbloccato le energie che nel suo successore possono ora realizzare “cose nuove e cose antiche”. Ma Benedetto non ha potuto impedire a Francesco di dover scontare tutta la resistenza indispettita di coloro che, affidandosi soltanto al Ratzinger “di mezzo”, hanno dimenticato con troppa facilità non solo il primo, fino agli anni ’60, ma anche l’ultimissimo, del febbraio 2013. Solo a queste condizioni potrei concordare con il riconoscimento di una profonda continuità, che sta giustamente a cuore allo storico F. De Giorgi. Ma che non può essere determinata con analisi troppo veloci delle somiglianze, e così trascurando con troppa fretta tutte le dissomiglianze.

Andrea Grillo              blog: Come se non                  15 giugno 2016

www.cittadellaeditrice.com/munera/continuita-e-discontinuita-tra-papa-benedetto-e-papa-francesco-una-risposta-a-f-de-giorgi

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COGNOMI

Figli: i doppi cognomi del terzo millennio.

La nuova disciplina dei cognomi dei figli e le conseguenze sui bambini del terzo millennio. E’ un colpo duro per tutti quei padri che hanno sempre aspirato ad avere il figlio maschio per assicurare, di generazione in generazione, il reiterarsi del proprio cognome e, con esso, delle discendenze familiari.

            Già la Cassazione aveva sorpreso tutti, anni fa, affermando che l’assunzione del cognome paterno non è disciplinata da alcuna legge specifica “Non esiste nel nostro ordinamento una specifica disposizione diretta ad attribuire ai figli legittimi il cognome paterno. Si tratta, in origine, di un’usanza divenuta tradizione e di una tradizione divenuta diritto vivente” (sentenza 18.7.2004). Non meno drastica la Corte Costituzionale che, due anni dopo, aveva stabilito che il sistema di attribuzione del cognome dei figli è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistica, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’eguaglianza tra uomo e donna (sentenza n.61 del 16.2.2006).

            Lo stesso art. 262 del codice civile regolamentava, nella sua prima versione, solo la posizione del figlio “naturale” (quello nato fuori dal matrimonio) stabilendo che il figlio “naturale” assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente, da entrambi i genitori, il figlio “naturale” assume il cognome del padre. La nuova versione ha eliminato l’aggettivo “naturale” perché sia la legge n. 219/2012 che il D. Lgs. n. 154/2013 hanno unificato lo stato giuridico di tutti i figli legittimi, naturali e adottivi, tanto che non si usano più le espressioni “figlio legittimo” e “figlio naturale” ma, solo per certi fini, le espressioni figlio nato nel matrimonio e figlio nato fuori del matrimonio.

            Ma la scure sul patriarcato non è una invenzione della nostra massima giurisprudenza. I trattati internazionali da anni impegnano gli Stati ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome familiare. La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva sentenziato che i genitori hanno il diritto di dare ai propri figli anche il solo cognome della madre, (sentenza del 7 febbraio 2014), condannando l’Italia per aver negato a una coppia di Milano tale diritto.

            Ma come si regolano i nostri vicini? In Spagna vige la regola del doppio cognome, composto dal cognome paterno e da quello materno e i genitori possono accordarsi sull’ordine dei cognomi da trasmettere ai figli. In Francia i genitori possono scegliere il cognome da dare ai figli tra quello paterno o quello materno o quello di entrambi nell’ordine da loro stabilito. In Germania, i genitori possono dare ai figli il cognome di famiglia, se lo hanno concordato. In caso contrario possono attribuire ai figli il cognome del padre o quello della madre, in base alla loro scelta. In Inghilterra i genitori possono decidere con assoluta libertà il cognome da attribuire al figlio, scegliendolo o tra quelli dei genitori o tra nomi diversi.

            In Italia per anni si sono susseguiti in Parlamento vari disegni di legge (oltre dieci) per una nuova normativa sul cognome da attribuire ai figli. Nel 2014 è stato approvato il nuovo testo (disponibile qui in pdf) che è poi passato al Senato che ne ha discusso in Commissione Giustizia il 23 maggio scorso.

            E’ prevista libertà di scelta nell’attribuire il cognome. Il bambino potrà avere il cognome del padre o quello della madre o di entrambi i genitori. Se il papà e la mamma non sono d’accordo il bambino avrà il cognome di tutti e due i genitori, in ordine alfabetico.

            Ma cosa succede per i figli nati dopo il primogenito? Per evitare figli con cognomi diversi, ai figli successivi al primo saranno attribuiti gli stessi cognomi del primogenito. Ma i figli dei figli? Se il figlio ha già il doppio cognome, dovrà decidere quale trasmettere a suo figlio. In caso contrario ci sarebbe il caos tra il doppio cognome suo e il doppio cognome della donna che sposerà.

            Più delicata la situazione del figlio nato fuori dal matrimonio. Se il figlio è riconosciuto da entrambi i genitori, si segue la normativa appena sopraindicata. Se a riconoscerlo, invece, è solo un genitore, assumerà il cognome di quello che lo ha riconosciuto. Se l’altro genitore vorrà riconoscerlo tardivamente, il suo cognome potrà essere aggiunto solo se lo voglia il primo genitore e lo stesso figlio (che ha diritto di esprimere il suo parere se ha compiuto 14 anni). Se sono nati più figli fuori dal matrimonio, dagli stessi genitori, porteranno lo stesso cognome attribuito al primo figlio.

            E i figli adottati? Se hanno più di 18 anni (maggiorenni) manterranno il proprio cognome ma per primo sarà riportato quello della persona che li ha adottati. Se l’adottante ha già due cognomi, dovrà scegliere quale trasmettere all’adottato. Se ad adottare è una coppia di coniugi, questi genitori adottivi dovranno decidere quale cognome trasmettere all’adottato.

            Gli uffici anagrafici impazziranno in questa babele di cognomi dati, rettificati, anteposti o posposti. Per i bambini del 3° millennio, invece, il doppio cognome non sarà più identificativo di retaggi nobiliari o di pregresso inserimento in una famiglia adottiva ma molto più semplicemente il segno del tramonto della potestà maritale e la riaffermazione del principio di eguaglianza tra il papà e la mamma.

Avv. Aldo Maturo     Newsletter Giuridica Studio Cataldi             13 giugno 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22343-figli-i-doppi-cognomi-del-terzo-millennio.asp#commenti

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Milano 2. Genitori oggi. Prevenire l’aborto.

Paola Bonzi: «In questi anni abbiamo fatto tanta fatica, però sono nati fino ad oggi 19.000 bambini!». Paola Bonzi ci ha raccontato la sua storia e quella del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli di cui è fondatrice e presidente È una donna speciale. Ha fondato nel 1984 il Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli all’interno dell’omonima Clinica di Milano. Il CAV (Centro di aiuto alla vita) è un’associazione di volontariato che si impegna nel sostegno alla maternità, aiutando economicamente e psicologicamente le donne che si trovano in difficoltà per una gravidanza, affinché scelgano di non abortire e vivano la dolce attesa con gioia e serenità.

Paola Bonzi, moglie, madre e consulente familiare, scelse di fondare questa struttura all’interno dell’ospedale Mangiagalli per stare fisicamente nel luogo dove le difficoltà legate alla gravidanza sono più grandi, e dal 2000 il CAV si è arricchito del consultorio familiare Genitori oggi, situato di fronte l’ospedale.

È la stessa Paola Bonzi che ci ha raccontato la sua storia e quella del Centro di aiuto alla Vita di cui è presidente e fondatrice.

            Cosa la spinse nel 1984 a fondare il Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli?

            «Bisogna ritornare indietro di quattro cinque anni perché il tutto è cominciato con il referendum dell’1980-81 sulla legge 194/1978. Allora c’eravamo mobilitati per raccogliere le firme e andare a fare conferenze in giro, cose di questo tipo. E avevamo contemporaneamente fondato un Centro di Aiuto alla Vita a Milano, che attualmente è il Centro di Aiuto alla Vita Ambrosiano. Lavorando lì mi accorgevo che non arrivavano persone indecise se tenere o no il bambino: venivano mamme povere a chiedere di essere aiutate con vestitini, latte, pannolini. Io volevo incidere invece là dove le donne volevano abortire, e così nell’84 – stimolata anche da quanto accadeva in Polonia con Solidarnosc, dove volontarie avevano iniziato a stare fuori dall’ospedale per dire a quelle che vi entravano per interrompere la gravidanza che erano lì per aiutarle e sostenere loro e i loro bambini – ho pensato che anch’io volevo fare la stessa cosa, e la volevo fare dentro l’ospedale milanese, emblema contemporaneamente della maternità e dell’abortismo. Alla Mangiagalli infatti si assiste a un modo di funzionare un po’ schizofrenico, se si pensa che qui è stato aperto anche il primo ambulatorio per la 194. Così scrissi una semplice nota al Consiglio di amministrazione di allora, per chiedere di “entrare” all’interno della clinica e, incredibilmente, ci dissero di sì. Avvenne una cosa straordinaria, perché allora il discorso sull’aborto era tutta una questione di partiti, ed erano i rappresentanti dei partiti a sedere nel consiglio di amministrazione. Pertanto sulla carta il voto doveva dare un risultato negativo, e invece venne fuori un sì, votarono un’altra volta e risultò un altro sì: quindi “entrammo e aprimmo la porta” in dodici».

            Come è andata l’esperienza di sostengo alle mamme e alla vita in questi 32 anni di volontariato?

            «Sono stati anni sorprendenti perché non pensavamo di riuscire in un’impresa così grande, ero sola e senza quattrini – punto dolente – e quindi in questi anni abbiamo fatto tanta fatica: però sono nati fino ad oggi 19.000 bambini! Noi siamo aperti e presenti in ospedale tutti i giorni dalla mattina alle sera, e accogliamo tutti coloro che hanno bisogno di aiuto e desiderano essere ascoltati».

Le donne come vengono a conoscenza del Cav?

            «È assolutamente tutto un passaparola, donne che sono state sostenute che a loro volta dicono alle altre “vai là che ti aiutano”, poi c’è anche qualche medico, qualche ostetrica che le manda di sopra da noi. L’ultimo caso è stato addirittura quello di un anestesista che, mentre visitava una signora perché potesse abortire, l’ha indirizzata al Centro. Oggi siamo 42 operatori e abbiamo aperto di fronte l’ospedale un consultorio familiare. Le donne del primo trimestre che possono ancora appellarsi alla legge 194 vengono da noi che siamo proprio dentro la clinica Mangiagalli; invece quelle che portano avanti la gravidanza e fino al compimento dell’anno di vita del bambino si rivolgono al consultorio dove sono seguite mensilmente con dei colloqui, dove possono fare tutte le visite necessarie, il corso di preparazione al parto, fare l’incontro con l’ostetrica, il massaggio del neonato, partecipare al gruppo bebè, sempre monitorate con degli incontri di tipo psicopedagogico. Inoltre noi effettuiamo una enorme distribuzione di beni essenziali per sostenere le mamme: questo ci porta sull’orlo del collasso perché erogare i pannolini fino al compimento dell’anno del bambino rappresenta un costo notevole se pensiamo che abbiamo in carico oggi 2.300 donne. Tutto questo comporta un bilancio di spesa di circa un milione e seicentomila euro: le lascio immaginare cosa vuol dire raccogliere tanti fondi…».

            In che modo vivete l’esperienza di questo lavoro?

            «Noi siamo tutti professionisti: consulenti familiari, psicologi, pedagogisti, educatori, assistenti sociali. Quindi c’è un momento molto professionale che è quello del colloquio che ha un suo preciso protocollo, e poi invece c’è un momento più “sciolto” per cui si chiacchiera con le persone e a me sembra di avere tante figlie, perché poi sono tutte molto affettuose. È un lavoro molto particolare che prende anche la vita degli operatori, perché poi ciascuno rivive le sue esperienze, la sua maternità, è coinvolto nella storia delle persone che incontriamo ed è difficile non piangere con chi piange. Però ci vuole la giusta misura tra i due aspetti».

            Le donne che incontra conoscono i problemi che provoca un aborto?

            «Quando incontro alcune donne molto decise ad abortire le approccio dicendo: “non creda che tutti i problemi si risolvano andando ad abortire, perché l’aborto crea altri problemi”, e allora racconto un po’ di cose che possono andare a verificare su internet per accertarsi che non dico balle. L’aborto lascia segni notevolissimi nell’85% delle donne. Qual è il problema? è che non viene condotto un colloquio di chiarificazione come si deve. Se le cose non vengono dette, ovviamente non vengono conosciute, e non vengono dette per una questione ideologica. La 194 ha sempre scatenato battaglie politicizzate ed ideologizzate: questo è un disastro perché quando si parla di questo argomento si alzano muri che impediscono di cogliere la verità del problema. Io vedo che se si lavora bene, se si parla e si sta con loro in un certo modo, su dieci che arrivano al Centro nove poi non vanno ad abortire. Ciò vuol dire che il nostro è il modo corretto di affrontare un momento tanto difficile per la donna».

La fede è stata importante per aiutarla a portare avanti questa straordinaria esperienza?

        «Noi come associazione non siamo appartenenti a nessun gruppo ecclesiale o politico, però nel privato ciascuno vive la sua vita personale, e quindi io ho sempre considerato il mio impegno una risposta al battesimo. Nel senso che mi era stato dato qualcosa con il battesimo, e qualcosa dovevo restituire: quindi ho sempre fatto ciò per cui mi sono battuta con questo spirito».

            Ci può raccontare una storia emblematica dell’attività del Cav?

            «Una signora di circa 40 anni si è trovata sola al mondo e disperata. È stata da giovane una ballerina, per anni lontana dai genitori e dagli affetti per studiare e lavorare. Quando è rimasta incinta il compagno l’ha abbandonata e tutti, compresi gli amici, l’hanno spinta ad abortire. Lei per due volte si è prenotata per interrompere la gravidanza e poi non l’ha fatto: l’ultima volta che l’ho vista, quando mancava ancora una settimana al termine ultimo per interrompere la gravidanza, mi ha detto che ha deciso di tenere il bambino, e sta facendo progetti anche se è consapevole che le cose non saranno facili. Io le ho detto che anche se non lo facciamo di solito, se servirà le metteremo a disposizione anche una baby sitter. Quello che serve in questi casi non è seguire uno schema di intervento rigido, ciò che serve è un po’ elasticità nel progetto di aiuto. Così è andata via sollevata, contenta e rincuorata e ora aspetto che torni».

Silvia Lucchetti                      Aleteia                        14 giugno 2016         

http://it.aleteia.org/2016/06/14/paola-bonzi-cav-mangiagalli-nascere-19000-bambini/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it-Jun%2014,%202016%2011:49%20am

http://www.genitorioggi.it/

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DALLA NAVATA

XII Domenica del tempo ordinario – anno C -19 giugno 2016.

Zaccaria         13, 01 In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità.

Salmo              63, 04 Poiché il tuo amore vale più della vita, le mie labbra canteranno la tua lode.

Galati             03, 28 Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.

Luca                           09, 23 Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua».

 

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. La predicazione pubblica di Gesù di Nazaret è ormai iniziata da qualche tempo, ed egli è conosciuto, di lui si parla, su di lui ci si interroga. Gesù appare infatti una figura di maestro che intriga, essendo la sua storia e il suo stile non consueti. Non è un rabbino come gli altri, con un curriculum di studio presso qualche rabbi di Gerusalemme o di una delle città situate sul lago di Gennesaret. È apparso accanto a Giovanni il Battezzatore (cf. Lc 3,21-22), anche lui figura anomala, che ricordava i profeti scomparsi da secoli in Israele, in particolare il profeta Elia, del quale aveva assunto il modo di vestire e l’abitare nella solitudine del deserto (cf. Mc 1,2-6 e par.). Anche il tetrarca Erode, che aveva imprigionato il Battista (cf. Lc 3,19-20) e lo aveva fatto decapitare, si pone delle domande su Gesù, che ne sta proseguendo il ministero profetico. Egli – scrive l’evangelista – “non sapeva che cosa pensare di lui, perché alcuni dicevano: ‘Giovanni è risorto dai morti’, altri: ‘È apparso Elia’, e altri ancora: ‘È risorto uno degli antichi profeti’. Ma Erode diceva: ‘Giovanni, l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?’. E cercava di vederlo” (Lc 9,7-9).

Intanto Gesù aveva inviato i discepoli a due a due nelle varie città dei dintorni ad annunciare il Regno di Dio (cf. Lc 9,1-6) ed essi erano tornati da lui dopo una missione feconda (cf. Lc 9,10). Ed ecco, durante una sosta in disparte di Gesù e della sua comunità, una sosta di silenzio, riposo e preghiera, Gesù stesso pone ai discepoli una domanda: “Le folle, chi dicono che io sia?”. Egli domanda, chiede, perché vuole conoscere cosa si pensa di lui, della sua missione, ma soprattutto vuole sapere se i discepoli che ha chiamato e radunato attorno a sé riescono a comprendere chi lui è, qual è veramente la sua missione, che rapporto ha con Dio, quindi con loro. I discepoli rispondono che la gente, ascoltandolo, vedendolo vivere e agire, pensa che egli sia un profeta, sorto in Israele come nei tempi antichi. C’è chi lo crede Giovanni il Battista redivivo, perché proprio dopo la sua morte Gesù ha impresso al proprio ministero un ritmo e un’estensione che si notavano; altri pensano a Elia. Insomma, per la gente Gesù era un rabbi (un maestro) e un profeta, un portatore della parola di Dio.

A questo punto Gesù pone la domanda più importante, decisiva: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Attenzione, egli non vuole una risposta“da catechismo”, una formula, ma vorrebbe poter leggere la loro fede-fiducia in lui, vorrebbe conoscere la loro adesione, il loro coinvolgimento nella sua vita. Ed ecco che Pietro, il primo tra i Dodici, colui che aveva ricevutoda Gesù il nome di Kefa, Roccia (cf. Lc 6,14; Gv 1,42), esclama: “Tu sei il Cristo, il Messia di Dio”. Non solo rabbi, non solo profeta, ma il Messia di Dio, l’atteso Unto del Signore, promesso dal Signore per la salvezza del suo popolo negli ultimi tempi. Secondo gli altri vangeli sinottici, la risposta di Pietro è espressa in modo leggermente diverso. In Marco, la fonte di Luca, le parole sono più brevi, senza alcuna specificazione: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). In Matteo la confessione è esplicitata con la definizione del Messia quale “Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16; cf. Sal 2,7). Certamente non conosciamo gli ipsissima verba Petri, le parole stesse di Pietro, ma ciò che è decisivo viene testimoniato da tutti e tre i testi. Pietro confessa – ed è difficile dire se lo fa a nome personale o come portavoce della comunità – che Gesù è il Messia atteso, per la cui venuta ogni ebreo pregava all’interno delle cosiddette Diciotto benedizioni. D’altronde il battesimo di Gesù era stato evento di “unzione”, perché lo Spirito santo era sceso su di lui (cf. Lc 3,22), e Gesù stesso nella sinagoga di Nazaret si era presentato come colui che era stato annunciato dal profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché egli mi ha unto, mi ha inviato ad annunciare ai poveri la buona notizia” (Lc 4,18; Is 61,1).

L’evangelista non registra alcuna reazione alle parole di Pietro, se non l’ammonimento di Gesù a non riferire a nessuno la sua identità. Perché? Innanzitutto perché Gesù teme che questa identità sia compresa in modo sviante, alla stregua di un Messia politico secondo l’ideologia messianica dominante; inoltre, teme che i capi, interpretando la sua identità come una pretesa di potere politico, possano mettere fine alla sua azione in modo prematuro. Per questo aggiunge subito: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno”. Gesù ama definirsi “Figlio dell’uomo”, titolo che spiega meglio, senza ambiguità, la sua missione di inviato da Dio, quale terrestre, “figlio di Adamo” (Lc 3,38). Come tale, egli sa di dove andare incontro alla sorte che attende tutti gli umani: “l’uomo giusto” (Lc 23,47), che vive secondo la volontà di Dio, in un mondo di ingiusti e peccatori può solo essere osteggiato e ripudiato, fino a essere messo a morte. È una necessità umana, inerente alla storia di questo mondo, come avevano ben capito i sapienti di Israele contemporanei di Gesù (cf. Sap 1,16-2,20). Il giusto, il servo del Signore, se resta fedele a Dio e continua a fare la sua volontà, si troverà forzatamente nella condizione di “soffrire molte cose” (pollá), di essere perseguitato come tutti i profeti, di essere addirittura ucciso da assassini (questo il loro nome, anche se sono autorità religiose), ma di ricevere però il terzo giorno la risposta di Dio che lo rialza, lo rimette in piedi quale vincitore del male e della morte.

Questa è la fede di Gesù, non una certezza, ma la fede che si è nutrita dell’ascolto della Parola contenuta nelle sante Scritture, del discernimento dei segni dei tempi, dell’ascolto attento e amoroso della voce di Dio dentro di sé nelle sue ore di preghiera. Necessità umana – si badi bene –, non necessità, destino imposto da Dio a Gesù fino a togliergli la libertà della risposta. Necessitas humana che solo secondariamente è anche necessitas divina, a cui Dio si sottomette, perché non può rinunciare a ciò che egli è: un Dio di amore, che non si difende, non fa vendetta, non è mai un Dio armato. La necessitas humana degli eventi diviene, per l’umiltà amorosa di Dio, necessitas divina. Il “si deve, bisogna” (deî) va letto in quest’ottica, senza dare a Dio un volto perverso, il volto di un padre più cattivo dei nostri padri terreni (è esattamente il contrario, come Gesù ci ha rivelato in Lc 11,11-13!), oppure, come alcune volte i cristiani hanno fatto, creando un Dio che mette paura e fa fuggire gli umani.

Ed ecco l’invito conseguente di Gesù: “Io sono questo tipo di Messia, dunque se qualcuno vuole venire dietro a me, seguirmi, essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”. Si tratta di caricarsi dello strumento della propria esecuzione, per rinnegare, far morire, uccidere l’uomo vecchio che è in noi, con le sue “membra di peccato”, dirà Paolo (cf. Rm 6,13). Sì, questo vocabolario è duro, ma non indica una sterile mortificazione, bensì una sottomissione degli istinti mondani, delle pulsioni cariche di egoismo che ci abitano. Caricarsi della croce significa immettere nella propria vita la logica della cura dell’altro, del servizio dell’altro fino a sottomettersi a lui; significa spendere la vita per gli altri, fare della propria esistenza una pro-esistenza, una vita per gli altri; significa dimenticare se stessi e smettere di affermare se stessi senza gli altri e contro gli altri.

La vita, o la si dona oppure la si tiene gelosamente per sé: se la si dona, si trova beatitudine; se la si tiene per sé, si trova la morte. Ecco il senso dell’aggiunta finale di Gesù: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”.

Chi è intelligente e comprende bene le parole di Gesù, quando pensa al “prendere la croce” non lo intende in senso masochistico o doloristico. Al contrario, abbracciando la croce nella libertà e per amore dietro a Gesù, va incontro alla beatitudine, alla vita bella, alla bontà della convivenza fraterna. Perché alla fine della strada c’è la vita, la resurrezione.

http://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2016/06/enzo-bianchi-commento-vangelo-19-giugno.html

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DEMOGRAFIA

                                                     Dati demografici e ritardi politici.     

Ciò che era provvisorio è ora definitivo e si offre alle valutazioni senza alcuna ombra di dubbio. Il resoconto Istat sul bilancio demografico del 2015 conferma integralmente le anticipazioni che accreditavano, già qualche mese fa, l’immagine di un’Italia con sempre meno vitalità e forza attrattiva. I 486 mila nati registrati nel corso dell’anno non sono solo un “curioso primato al ribasso” – mai raggiunto in oltre 150 anni di storia nazionale – sono soprattutto la certificazione di un forte stato di crisi che attraversa il Paese e che trova una prima evidente manifestazione nelle difficoltà, e nelle paure, che le famiglie spesso incontrano quando devono decidere “se” e “quanti” (altri) figli mettere al mondo. E a tale proposito non sono certo sufficienti le dichiarazioni di principio e le buone intenzioni che periodicamente ricorrono da parte di chi dovrebbe attivarsi per sostenere le scelte procreative di un universo familiare da troppo tempo abbandonato a sé stesso.

            Ma l’inadeguato investimento in capitale umano non è che uno degli elementi problematici che emergono dalle risultanze anagrafiche del 2015. Le novità che hanno accompagnato quello che passerà alla storia come l’anno dei record demografici (negativi), riguardano anche il brusco aumento del numero di decessi ancora non del tutto chiarito – quasi 50mila in più rispetto al 2014 – e il conseguente ulteriore appesantimento del saldo naturale (-162mila unità), che consolida una situazione di deficit in atto ormai da un decennio.

            Se poi alla perdita di vitalità sul fronte del movimento naturale si accompagna l’accertata minor capacità di attrarre popolazione dall’estero, e nel contempo l’accresciuta tendenza a lasciar uscire i propri cittadini, ecco che appare inevitabile mettere in conto un ulteriore primato per l’anno appena concluso: il calo della popolazione. Un fenomeno, quest’ultimo, che non si registrava in Italia dal lontano 1918, allorché agli effetti della guerra si sommarono quelli della letale epidemia di “spagnola”. A conti fatti il 2015 si è chiuso con 130 mila residenti in meno, ma vale la pena di sottolineare come sia soprattutto la componente italiana ad uscirne fortemente penalizzata. Infatti, mentre gli stranieri si caratterizzano ancora per una modesta crescita, pur segnalando un ulteriore calo del loro contributo alla natalità del Paese, gli italiani che mancano all’appello a fine 2015 sono ben 142 mila. E ciò avviene – nonostante il contributo di 178mila stranieri che hanno acquisito la nostra cittadinanza – sia per l’effetto negativo del saldo naturale (per circa 230 mila unità), sia per l’eccesso di uscite (rispetto ai rientri) di nostri connazionali a seguito di movimento migratorio (-72 mila unità).

            In conclusione, forse come mai nel passato il linguaggio dei numeri contenuti nel bilancio demografico del 2015 dovrebbe farci capire che non è più il tempo delle analisi e dei buoni propositi: è giunta l’ora di passare all’azione. «La demografia si vendica di chi la dimentica», diceva un illustre studioso del secolo scorso e l’impressione è che in Italia si siano per troppo tempo ignorati i numerosi segnali con cui le statistiche traducevano il disagio della popolazione e delle famiglie. Siamo un Paese che a partire dal lontano 1977 non è mai stato capace di garantire in modo autonomo il proprio ricambio generazionale. Svanita anche l’illusione che le migrazioni possano risolvere magicamente – e senza contraccolpi – gli squilibri di una demografia che ha perso vitalità occorre, una volta per tutte, recuperare una visione realistica del futuro e delle conseguenze che questi dati ci fanno chiaramente intravvedere.

Gian Carlo Blangiardo         Avvenire         11 giugno 2016

www.avvenire.it/Commenti/Pagine/anza.aspx

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ETICA

                        Quale l’identità dell’etica cristiana?

Le domande fondamentali che emergono oggi quando si parla di “etica cristiana” riguardano tanto la questione della sua “identità” quanto quella della sua attualità (o inattualità). La risposta a tali domande non è facile ed esigerebbe uno spazio molto maggiore di quello di un articolo di rivista. Ciò che tuttavia è possibile qui offrire è qualche spunto di riflessione di carattere prevalentemente metodologico, che consenta di segnalare il percorso da seguire, se si vuole individuare, anche sul terreno dei contenuti, la “novità” della morale evangelica.

Le radici umane e razionali. La soluzione della prima questione – quella dell’identità – implica anzitutto il riconoscimento che l’etica non ha origine con la nascita dell’ebraismo e del cristianesimo (e neppure delle altre religioni storiche), ma è un fatto anteriore ed autonomo che affonda le sue radici nella natura profonda dell’uomo. Si tratta, in altre parole, di un fenomeno umano, che ha la propria sede nella coscienza all’interno della quale si dà la percezione del bene e del male. Sulla base di questa esperienza originaria, è venuto sviluppandosi, nelle varie società e culture, un processo di razionalizzazione, che ha portato alla elaborazione di diversi sistemi e paradigmi etici volti a dirigere e valutare la condotta umana.

Se si confrontano tra loro questi sistemi e questi paradigmi si riscontra una consistente convergenza attorno a valori comuni nelle diverse società e culture – significativa è al riguardo la somiglianza tra il codice di Hammurabi e il Decalogo mosaico (ma non è la sola) -; convergenza che conferma la loro derivazione da una fonte comune, la ragione appunto, la quale è in grado di fare discernimento di ciò che è conforme (o meno) alla vera realizzazione umana.

Il progressivo affinamento di tale riflessione, grazie agli sviluppi del pensiero filosofico, soprattutto in ambito greco-romano – ci limitiamo qui al solo mondo occidentale (anche se meriterebbero attenzione altri mondi) – si è tradotto nella elaborazione della categoria di “legge naturale” per designare ciò che discende immediatamente dalla “natura umana” e a cui la condotta dell’uomo deve conformarsi. Tale categoria, alla quale la tradizione patristica e medioevale riconducono la seconda tavola del Decalogo – quella relativa ai doveri morali (la prima riguarda i doveri religiosi) – è stata elaborata per la prima volta in termini sistematici da Aristotele, il quale ha visto in essa il criterio fondamentale per l’individuazione dei principi destinati a regolare la vita personale e collettiva.

La specificità dell’etica cristiana. Se quanto è detto è vero, si può allora ancora parlare di “etica cristiana”? E, se si può, in che cosa consiste la sua diversità o la sua specificità? Per rispondere correttamente a questi interrogativi è anzitutto importante sottolineare che il messaggio della rivelazione ebraico-cristiana non è in primo luogo un messaggio morale ma un messaggio di fede, il cui contenuto essenziale è la manifestazione che Dio fa di se stesso all’uomo e l’annuncio del disegno di salvezza che egli offre all’umanità e al mondo.

L’etica viene dunque “dopo”, e non costituisce la vera “novità”. E tuttavia essa va considerata come una conseguenza necessaria di tale manifestazione e di tale annuncio. Il dono che Dio fa di se stesso all’uomo esige di essere da lui accolto mediante un atto di adesione incondizionata nella vita quotidiana, La fede, in quanto coinvolge la totalità della persona e della sua esistenza, esige (e non può che esigere) un cambiamento radicale dello stile di vita, l’adozione di un nuovo ethos personale. Per questo esperienza di fede ed esperienza morale risultano, nella rivelazione biblica, tra loro strettamente interconnesse, senza che questo comporti confusione tra le due e senza che si possa rinunciare al primato della prima sulla seconda.

Ma quale etica? Non solo il Decalogo ma anche le prescrizioni normative più dettagliate della rivelazione, che definiscono i contenuti della condotta umana, lungi dall’essere frutto di un processo che si è sviluppato dall’alto, sono piuttosto il risultato dell’esperienza morale legata al contesto culturale del tempo; sono l’esito cioè di un’attività razionale volta a identificare ciò che garantisce il corretto sviluppo della vita personale e delle relazioni interpersonali e sociali. Questo spiega perché l’etica biblica si evolve, subendo inevitabilmente il condizionamento delle trasformazioni in corso nelle varie epoche storiche, e perché si dà spesso un considerevole divario tra la maturazione della fede e l’adeguamento ad essa del costume morale.

La specificità dell’etica ebraico-cristiana non va dunque ricercata in primo luogo sul terreno dei contenuti ma su quello dei significati che essa assume in forza del proprio inserimento nel contesto dell’esperienza di fede. La novità del Decalogo non consiste infatti in ciò che prescrive, ma nel suo inserimento nel quadro dell’alleanza; nel fatto che i precetti in esso contenuti sono le clausole da rispettare, se si intende conservare e approfondire la comunione con Dio. Analogamente, le istanze contenute nel discorso della montagna (Mt 5), nel quale è condensata l’etica neotestamentaria, sono norme escatologico-profetiche che il discepolo deve fare proprie se vuole porsi alla sequela di Gesù e accogliere il regno che viene.

“Ma io vi dico”. La preminenza data all’intenzionalità di fede da cui muove l’agire morale del cristiano e alla finalità spirituale che tale agire persegue, non comporta tuttavia negazione di una certa originalità dei contenuti del messaggio morale del Nuovo Testamento. Gesù non è venuto – come egli stesso afferma – ad abrogare la Legge, la quale permane come fondamento basilare della condotta umana, ma a “dare ad essa compimento”, a portarla alla sua pienezza (Mt 5, 17).

Questa rivisitazione non è, d’altra parte, una semplice restaurazione dell’antico; contiene aspetti profondamente innovativi, consistenti sia nella radicalizzazione delle istanze della Legge – a questo si allude quando si parla di dare ad essa compimento – sia nell’assunzione di una nuova forma di giustizia, che superi quella degli scribi e dei farisei (Mt 5, 20). Sono soprattutto i “ma io vi dico” contrapposti agli “è stato detto dagli antichi” a mettere chiaramente in luce il senso di questo duplice rinnovamento, il quale implica che non ci si accontenti di rispettare la vita ma ci si impegni a promuoverne la qualità umana; che non ci si limiti ad evitare l’adulterio ma si estirpi dal cuore ogni desiderio adultero; che non ci si adegui alla legge del taglione ma si risponda al male con il bene; e infine che non si mantenga la linea di netta demarcazione tra prossimo e nemico, ma si ispiri la propria condotta all’amore del nemico imitando la perfezione del Padre: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt. 5, 45).

Siamo dinnanzi – come è facile intuire – a una proposta esigente che trova una ulteriore espressione nelle “beatitudini” (Mt 5, 1-9), le quali delineano il tessuto valoriale proprio della logica del regno. Con esse si afferma un capovolgimento radicale del modo di pensare e di vivere proprio del costume mondano. Il rifiuto dei parametri della ricchezza e del successo, del potere e della forza e l’adozione di criteri radicalmente alternativi, quali la povertà, la mitezza, la purità di cuore, la sete di giustizia, l’impegno per l’esercizio della misericordia e per la promozione della pace sono il programma morale dell’economia nuova.

Alla prospettiva che attraversa tutta l’etica umana (non esclusa quella veterotestamentaria) che ha nella giustizia il proprio perno – essa è per Aristotele la virtù-principe, che regola i rapporti interumani (iustitia est ad alterum) – e nella “regola d’oro” – “Non fare all’altro ciò che non piace sia fatto a te” – la propria declinazione, si sostituisce una prospettiva nuova che supera la semplice perequazione dei diritti per introdurre l’attenzione ai valori della gratuità e del dono – “Fai all’altro quello che piace sia fatto a te” – e far maturare la convinzione che solo perdendo la propria vita è possibile trovarla (Mt 10, 39). Non si tratta di per sé di un’etica esclusiva del cristianesimo – diverse sono infatti le culture religiose (e non) che presentano questa visione – ma si deve riconoscere che, almeno in Occidente, è stato soprattutto merito del cristianesimo averne promosso la crescita.

Attualità (o inattualità) del messaggio evangelico. È attuale (o inattuale) questo messaggio? La risposta alla seconda questione posta sul tappeto non può essere univoca. Se si osserva infatti la cultura dominante, dove individualismo ed economicismo, consumismo, edonismo e meritocrazia si propongono come i criteri di valutazione del comportamento nei diversi campi della ita, si può senz’altro dire che si è di fronte a una proposta del tutto inattuale e perdente. I valori, che sono alla base della morale evangelica costituiscono – come già si è ricordato – un rovesciamento radicale li queste logiche: ciò a cui rinviano è infatti il riconoscimento di una fraternità universale, che implica l’abbandono di ogni atteggiamento egoistico e l’assunzione della responsabilità verso ogni creatura che – come ha ripetutamente scritto Emmanuel Lévinas – ci interpella, in maniera incondizionata, a partire dalla propria indigenza.

Ma proprio questi valori inattuali sembrano ricuperare tutta la loro attualità, se si considera la situazione di grave disagio che umanità oggi attraversa – si pensi soltanto alla crescita delle diseguaglianze sia tra le nazioni che tra le classi sociali e al moltiplicarsi dei focolai di violenza e di guerra – e, più radicalmente, il malessere ontologico che si respira a causa della crisi valoriale e di senso che caratterizza l’odierna condizione umana. La domanda i solidarietà e di condivisione, di gratuità e di assunzione di responsabilità emerge con insistenza nei vari settori della vita collettiva, a partire dalla stessa economia, ove si avverte il limite dell’attuale sistema incentrato sul solo scambio di equivalenti e si fa strada la convinzione che occorre fare appello alla categoria del dono non solo per restituire alla vita economia il suo significato umano, ma anche per garantirne il corretto funzionamento materiale.

Etica normativa e etica di fede. Si dirà – e non a torto – che l’etica che la Chiesa spesso propone non è tanto quella qui delineata, ispirata alla radicalità evangelica; è, invece, in larga misura, un’etica normativa, fatta di precetti negativi, che delineano, in termini obbliganti, le condizioni da rispettare nei vari ambiti della vita personale e sociale, e che in alcuni di questi ambiti – in particolare in quelli della sessualità e della vita – presentano indirizzi regressivi, non rispettosi della libertà di coscienza e dell’emancipazione dei diritti che è venuta facendosi strada in epoca moderna. A questa obiezione si può senz’altro rispondere che l’esigenza di indicazioni precise soprattutto attorno a questioni complesse e delicate come quelle sollevate dall’evolversi del progresso scientifico-tecnologico è del tutto giustificata e che, in ogni caso, non tutto ciò che è espressione dello “spirito del tempo” è sempre (e necessariamente) moralmente positivo e umanizzante.

Rimane, tuttavia, vero che non è (e non deve essere) questo il terreno privilegiato sul quale la proposta cristiana deve attestarsi. Lo ripete con frequenza, papa Francesco, il quale insiste nel rimarcare -lo ha fatto di recente anche nella esortazione apostolica Amoris laetitia – la necessità che non ci si limiti a proporre la norma o a giudicare la situazione personale esclusivamente sulla base di essa, ma si risalga ai valori fondanti, sia favorendone l’assimilazione mediante un processo adeguato di formazione della coscienza, sia tenendo in considerazione, nella valutazione della condotta, le circostanze in cui l’agire avviene e le eventuali attenuanti.

Valgono d’altronde, al riguardo, due importanti indicazioni, a suo tempo, fornite da Tommaso d’Aquino e richiamate dal pontefice. La prima è la considerazione che al cristiano, il quale è guidato nel proprio agire dalla legge nuova, la grazia dello Spirito Santo, vanno dati pochissimi precetti; la seconda è la constatazione che, quando si discende dai princìpi generali alle scelte particolari e alla loro applicazione alle diverse situazioni – è questo l’ambito proprio dell’etica normativa – cresce l’indeterminatezza e si accentua la relatività.

Questi orientamenti non implicano certo l’attenuazione della radicalità dell’etica evangelica, che va totalmente conservata, se non si vuole vanificare il cuore del messaggio cristiano. Ma – come ci ricorda ancora opportunamente papa Francesco – alla presentazione di tale radicalità deve accompagnarsi l’annuncio della misericordia, la quale rinnova dal di dentro l’uomo, spingendolo a fare della propria esistenza un cammino di permanente conversione.

Giannino Piana          Rocca  15 giugno 2016

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EUROPA

Per l’Europa il matrimonio è solo tra uomo e donna.

A stabilirlo è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il diritto al matrimonio non è esteso alle coppie omosessuali: lo ha definito una sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, emessa il 9 giugno 2016. La sentenza ha fatto riferimento alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, che non prevede – secondo l’unanimità dei giudici della Corte Europea – il matrimonio omosessuale.

È una sentenza di portata storica, considerando invece che il diritto al matrimonio omosessuale viene portato avanti a suon di risoluzioni o rapporti sui diritti umani dal carattere non vincolante, che – approvati nei consessi europei – vengono poi utilizzati come strumento di pressione sugli Stati che ancora non hanno inserito il matrimonio tra persone dello stesso sesso nella loro legislazione.

Il caso arrivato fino alla Corte europea si chiama “Chapin et Charpentier vs. France”, e poneva in discussione la decisione dei tribunali francesi di annullare il matrimonio che i due uomini avevano contratto nel 2004, in violazione del diritto francese. La Corte europea dei diritti dell’uomo all’unanimità ha ricordato che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non include il diritto al matrimonio per le coppie omosessuali, né esso può essere riconosciuto in base al diritto alla vita privata e familiare (art. 8), né a quello del diritto di sposarsi e di fondare una famiglia (art. 12).

Si legge nella sentenza che la questione del matrimonio omosessuale è “soggetta alle leggi nazionali degli Stati contraenti”; che l’articolo 12 ha confermato il concetto tradizionale del matrimonio, che è l’unione tra un uomo e una donna e “non impone l’obbligo per i governi degli Stati contraenti di concedere alle coppie dello stesso sesso l’accesso al matrimonio”; e che lo stesso articolo 12 “non può essere interpretato nel senso di imporre un tale obbligo ai governi degli Stati contraenti di concedere coppie dello stesso sesso di accedere al matrimonio”.

Si fa riferimento anche ad altra sentenza della Corte Europea, riconoscendo in linea teorica il limite all’interpretazione del diritto di sposarsi. E viene anche ristabilito il principio di sussidiarietà. Vale a dire che gli Stati non possono essere obbligati a introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso nella legislazione. Si legge nella sentenza che “gli Stati sono liberi di riferire l’accesso al matrimonio alle coppie di sesso differente (uomo-donna),” che questi godono di “un certo margine di apprezzamento per quanto riguarda le diverse configurazioni e status di riconoscimento da attribuire alle relazioni dello ‘stesso sesso’ e le sue differenze rispetto i diritti e gli obblighi conferiti agli sposi nel matrimonio”.

News Forum   14 giugno 2016                                          www.forumfamiglie.org/news.php

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Famiglia, grande risorsa per la società.

In corso a Trento la conferenza di Iccfr, Aiccef, Forum, Cisf e Agenzia per la famiglia. «Vogliamo uscire dall’idea della famiglia come grande malata, e parlarne in termini di grande risorsa» ha detto Rita Roberto, presidente dell’Associazione Italiana Consulenti di Coppia e Relazioni Familiari aprendo, ieri a Trento, la prima giornata della conferenza su “Famiglie forti, comunità forti” organizzata da ICCFR in collaborazione con Aiccef, Forum, Centro studi famiglia e Agenzia per la Famiglia.

            In una sala gremita di professionisti e responsabili di associazioni provenienti da diverse parti del Paese, si è confermata la certezza del valore sociale e generativo della famiglia. La famiglia non è un articolo in esaurimento, ma bensì un motore importante di tutta la società. «Abbiamo scelto Trento come sede, perché in Trentino si è realizzato un modello dove lo sviluppo della comunità cresce di pari passo con lo sviluppo delle politiche familiari» ha spiegato Francesco Belletti, presidente del Cisf.

            Maria Grazia Colombo, vicepresidente del Forum, ha portato il saluto del presidente del Forum De Palo ed ha aggiunto: «La sfida sulla famiglia in termini di risorsa e di generatività è grande, occorre lavorare in rete». «È un confronto importante che segna una discontinuità con il passato. Occorre uscire dalla logica di famiglia intesa come aggregato di persone e considerare la famiglia – come ha ben ribadito il prof. Donati- come luogo relazionale privilegiato dal quale ha origine il benessere e lo sviluppo dell’individuo» ha detto Emma Ciccarelli, altro vice presidente del Forum.

            Maria Grazia Colombo ha poi concluso: «Il Forum si fa voce delle istanze che stanno emergendo e della sofferenza che hanno le famiglie quando non si sentono ascoltate. Porteremo le attese che emergono presso le istituzioni perché diano risposte concrete

Comunicato stampa   18 Giugno 2016         www.forumfamiglie.org/comunicati.php

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Serve “laicato in uscita”, guardare ai lontani dalla Chiesa.

Spingere i laici sempre più nella missione evangelizzatrice, nel segno del Concilio Vaticano II. E’ uno dei punti forti di Francesco nel discorso ai partecipanti all’ultima Plenaria del Pontificio Consiglio dei Laici. Parlando della riforma che porterà all’accorpamento del dicastero con quello per la Famiglia e l’Accademia per la vita, il Pontefice ha evidenziato che questa avviene proprio per una rinnovata fiducia nella missione dei laici nella Chiesa. Si conclude una tappa importante e si apre un nuovo orizzonte per la missione del laicato nella Chiesa. Nell’ultima plenaria del dicastero per i Laici, Francesco ha innanzitutto ringraziato quanti si sono impegnati in questo organismo della Curia, voluto dal Concilio Vaticano e in particolare dal Beato Paolo VI. Un ringraziamento sentito, ha detto scherzando, e non una “valedictio” di commiato per il dicastero.

No ai laici che agiscono per “delega” della gerarchia. Il Papa ha così rammentato i tanti frutti nati in questi ultimi 50 anni nel contesto del laicato: dalle Gmg, “gesto provvidenziale di San Giovanni Paolo II”, alla comparsa delle nuove associazioni laicali, al ruolo crescente della donna nella Chiesa: “Possiamo dire, perciò, che il mandato che avete ricevuto dal Concilio è stato proprio quello di ‘spingere’ i fedeli laici a coinvolgersi sempre più e meglio nella missione evangelizzatrice della Chiesa, non per ‘delega’ della gerarchia, ma in quanto il loro apostolato ‘è partecipazione alla missione salvifica della Chiesa, alla quale sono tutti deputati dal Signore per mezzo del battesimo e della confermazione’. È il Battesimo che fa di ogni fedele laico un discepolo missionario del Signore, sale della terra, luce del mondo, lievito che trasforma la realtà dal di dentro”.

Riforma della Curia guarda anche alle nuove sfide per i laici. “Alla Chiesa – ha ripreso a braccio – si entra per il Battesimo, non per l’ordinazione sacerdotale o episcopale: si entra per il Battesimo. E tutti siamo entrati attraverso la stessa porta”. Alla luce del cammino percorso, ha quindi affermato, “è tempo di guardare nuovamente con speranza al futuro”. L. a realtà, ha constatato, ci porta nuove sfide. “È da qui – ha sottolineato – che nasce il progetto di riforma della Curia, in particolare dell’accorpamento del vostro dicastero con il Pontificio Consiglio per la Famiglia in connessione con l’Accademia per la Vita”: “Vi invito perciò ad accogliere questa riforma, che vi vedrà coinvolti, come segno di valorizzazione e di stima per il lavoro che svolgete e come segno di rinnovata fiducia nella vocazione e missione dei laici nella Chiesa di oggi. Il nuovo dicastero che nascerà avrà come ‘timone’ per proseguire nella sua navigazione, da un lato la Christifideles laici e dall’altro la Evangelii gaudium e la Amoris laetitia, avendo come campi privilegiati di lavoro la famiglia e la difesa della vita”.

Serve “laicato in uscita” per raggiungere i lontani e i bisognosi. Nel contesto del Giubileo della Misericordia, ha proseguito, la Chiesa è chiamata a essere “in permanente uscita”, “comunità evangelizzatrice” che “sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi”: “Vorrei proporvi, come orizzonte di riferimento per il vostro immediato futuro, un binomio che si potrebbe formulare così: Chiesa in uscita – laicato in uscita. Anche voi, dunque, alzate lo sguardo e guardate ‘fuori’, guardate ai molti ‘lontani’ del nostro mondo, alle tante famiglie in difficoltà e bisognose di misericordia, ai tanti campi di apostolato ancora inesplorati, ai numerosi laici dal cuore buono e generoso che volentieri metterebbero a servizio del Vangelo le loro energie, il loro tempo, le loro capacità se fossero coinvolti, valorizzati e accompagnati con affetto e dedizione da parte dei pastori e delle istituzioni ecclesiastiche”.

Abbiamo bisogno di laici che si sporchino le mani con visione del futuro. “Abbiamo bisogno di laici ben formati – ha detto ancora il Papa – animati da una fede schietta e limpida, la cui vita è stata toccata dall’incontro personale e misericordioso con l’amore di Cristo Gesù”: “Abbiamo bisogno di laici che rischino, che si sporchino le mani, che non abbiano paura di sbagliare, che vadano avanti. Abbiamo bisogno di laici con visione del futuro, non chiusi nelle piccolezze della vita. E lo ho detto ai giovani: abbiamo bisogno di laici col sapore di esperienza della vita, che si animano a sognare”. “Oggi – ha concluso a braccio – è il momento in cui i giovani hanno bisogno dei sogni degli anziani”, che abbiano “quella capacità di sognare”, e che ci diano “la forza delle nuove visioni apostoliche”

Alessandro Gisotti Notiziario Radio vaticana -17 giugno 2016

            http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

Testo ufficiale       http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/june/documents/papa-francesco_20160617_plenaria-pc-laici.html

 

Il Papa e i matrimoni superficiali.

«Allora meglio prima convivere». No ai matrimoni facili, mondani, riparatori: cioè quando lei è incinta e si fa tutto in fretta. Chi si sposa dev’essere consapevole di un impegno che è «per tutta la vita». Meglio un buon matrimonio dopo una convivenza che un matrimonio improvvisato. Tanti matrimoni sono nulli per mancanza di consapevolezza. L’ha detto il Papa giovedì aprendo il convegno annuale della Diocesi di Roma.

Ce ne sarebbe già abbastanza per far saltare sulla sedia i cultori delle regole, sempre numerosi nella Chiesa. Ma c’è di più: svolgendo la sua argomentazione Francesco, che rispondeva a braccio alla domanda di un convegnista, ha detto che a motivo dell’impreparazione degli sposi «una grande maggioranza dei nostri matrimoni sacramentali sono nulli»; ma il giorno dopo — aveva parlato in serata, dopo le 20 — il testo pubblicato dalla Sala Stampa era meno tranciante: «Una parte dei nostri matrimoni sacramentali sono nulli».

Parte la polemica: «una parte» o la «grande maggioranza»? Il Vaticano censura il Papa? Anche in risposta ai media americani che avevano enfatizzato quella stima (forse) per eccesso, venerdì il portavoce Lombardi ha chiarito che è stato lo stesso Francesco a correggere le proprie parole: «Quando il Papa parla a braccio, il testo trascritto è sempre oggetto di una revisione» e «quando si toccano argomenti di un certo rilievo il testo rivisto gli viene sottoposto: è ciò che è avvenuto in questo caso».

Già in altra occasione Francesco aveva detto — citando il cardinale suo predecessore a Buenos Aires, Quarracino — che «una metà» dei matrimoni non erano validi. Dunque la stima è ballerina, trattandosi di fatti di coscienza che non sopportano statistiche: una parte, una metà, la grande maggioranza. Il Papa improvvisatore si è reso conto d’aver esagerato.

Ma forse più interessanti di quella stima inverificabile sono gli apprezzamenti che Francesco ha fatto nella stessa occasione in riferimento alle convivenze che, a suo parere, possono a volte essere migliori dei matrimoni affrettati. Spesso ci si sposa — ha detto — per «fatto sociale», pensando alle bomboniere, al pranzo, al «vestito della sposa». Per non dire dei matrimoni con la sposa incinta: «A Buenos Aires io ho proibito di fare matrimoni religiosi nei casi che noi chiamiamo matrimonios de apuro , cioè “di fretta”, quando è in arrivo il bambino. Ho proibito di farli perché non sono liberi. Forse si amano. E ho visto dei casi belli, in cui poi, dopo due-tre anni, si sono sposati, e li ho visti entrare in chiesa papà, mamma e bambino per mano. Ma sapevano bene quello che facevano». Dunque una convivenza in attesa di una decisione davvero libera è preferibile a un rapido matrimonio d’immagine.

Del resto — ha aggiunto — le convivenze sono un fatto ormai ordinario: «Un’altra mia esperienza a Buenos Aires: i parroci nei corsi di preparazione al matrimonio la prima domanda che facevano era: “Quanti siete conviventi?”. La maggioranza alzava la mano. Preferiscono convivere, e questa è una sfida, chiede lavoro». Soprattutto, secondo il Papa, è una sfida che chiede il superamento del pregiudizio sociale e dello scrupolo ecclesiastico: «Non dire subito: “Perché non ti sposi in chiesa?”. No. Accompagnarli: aspettare e far maturare. E fare maturare la fedeltà». Dunque: no al matrimonio riparatore e non fare fretta ai conviventi.

Ha raccontato anche di casi argentini di lunghe convivenze, di tutta una vita, con un matrimonio in vecchiaia e ne ha parlato con disapprovazione per la «superstizione» che detta quel comportamento ma con una mezza approvazione per il matrimonio provato a cui esso conduce: «Ho visto tanta fedeltà in queste convivenze e sono sicuro che questo è un matrimonio vero, hanno la grazia del matrimonio, proprio per la fedeltà che hanno».

Luigi Accattoli                       Corriere della Sera    19 giugno 2016

www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20160619/282144995635162

Testo ufficiale                     http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/june/documents/papa-francesco_20160616_convegno-diocesi-roma.html

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GRUPPO INFORMAZIONE CIVICA FORUM

La famiglia. Fallimento o risorsa?

Circolo Prefettura Torino Intercral Dpa

La famiglia, fondamento della società, è un tema caldo, perché il superamento, in ambito culturale, del modello tradizionale univoco di famiglia ci obbliga a confrontarci con nuovi modelli e diverse visioni di società. Qualunque sia la tua scelta personale, ideale, ideologica, esistenziale, è utile conoscere gli “istituti giuridici” previsti dalla legge: mediazione, unioni civili, affidamento dei figli.

Mercoledì 22 Giugno ore 16,20-19,00                       Ingresso gratuito.

Sala conferenze Biblioteca civica Italo Calvino. Lungo Dora Agrigento 94 – Torino

v  Saluto ed introduzione del dott. Roberto Dosio (Presidente G.I.C. FORUM)

v  La famiglia come risorsa e fondamento della società. I modelli di famiglia

Avv. Walter Giacardi (Avvocato del Foro di Torino)

v  Unioni civili e convivenze di fatto: cosa prevede la legge Cirinnà

Avv. Maria Sabrina Fichera (Avvocato del Foro d Torino e Mediatore)

v  Mediazione familiare e negoziazione assistita

Avv. Giovanna Fassio (Avvocato del Foro di Torino)

v  Affidamento dei figli e assegno di mantenimento. Profili e casi di rilevanza penale

Avv. Elena Bisio (Avvocato del Foro di Torino)

v  Gli aspetti fiscali in separazione e divorzio: accordi patrimoniali, trasferimenti immobiliari e benefici prima casa

v  Dibattito e conclusioni

www.forumfamiglie.org/news.php?&news=995

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PARLAMENTO

Camera          Assemblea      Assistenza a persone con disabilità prive del sostegno familiare

14 giugno 2016. La Camera ha approvato in via definitiva il testo unificato delle proposte di legge: Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare (Approvate, in un testo unificato, dalla Camera e modificate dal Senato) (C. 698, C. 1352, C. 2205, C. 2456, C. 2578, C. 2682-B).

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0637&tipo=stenografico#sed0637.stenografico.tit00060.sub00020

 

13 giugno 2016. 2°Commissione Giustizia Nell’ambito dell’indagine conoscitiva sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozioni ed affido, ha svolto le audizioni di Pasquale Andria, Presidente del Tribunale per i minorenni di Salerno, di rappresentanti del Consiglio nazionale forense (CNF), di rappresentanti dell’Organismo unitario dell’avvocatura (OUA), di rappresentanti dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori (AIAF), di Maria Giovanna Ruo, Presidente della Camera nazionale avvocati per la famiglia ed i minorenni (CamMiNo), di Anna Galizia Danovi, Presidente del Centro per la riforma del diritto di famiglia, di Margherita Prandi Borgoni, Componente del Centro studi Livatino, di Giancarlo Cerrelli, Presidente dei Comitati Sì alla famiglia e di rappresentanti del Coordinamento Enti Autorizzati (CEA)

www.camera.it/leg17/824?tipo=I&anno=2016&mese=06&giorno=13&view=filtered&commissione=02#

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POLITICHE FAMILIARI

Politiche Famigliari e Welfare generativo.

In occasione del 25° Anniversario della sua nascita, insieme ad altre iniziative, l’AFI (www.afifamiglia.it) organizza per sabato 25 giugno 2016 a Verona il Convegno “Famiglia è … il solo futuro che affronta temi relativi alle Politiche Familiari a livello locale, nazionale ed europeo.

Auditorium Bisoffi della Cattolica Assicurazioni – Via Calatafimi 10/a, Verona

Il Convegno inizierà alle ore 9.15 e terminerà alle ore 12.55

Sarà una grande occasione per proporre iniziative concrete, realizzabili e sostenibili che comincino finalmente a riconoscere l’indispensabile ruolo della Famiglia per una società che mette al centro la Persona. Se vogliamo dare un futuro alle giovani generazioni, dobbiamo fare squadra e costruire reti di buone relazioni tra istituzioni, imprese, e famiglie, e dobbiamo dare forza alle “buone iniziative” che mirano al Bene Comune.

  • Fattore Famiglia come strumento di equità per la fiscalità nazionale;
  • Comuni, Mercato e Società Civile in Rete;
  • 3 anni di applicazione del Fattore Famiglia Comunale a Castelnuovo del Garda;
  • Famiglia Portavalori in rete: un esempio di sussidiarietà circolare;
  • Famiglia, Società Civile e Unione Europea.

sabato 25 giugno 2016

Chairman Roberto Bolzonaro – Consigliere Nazionale AFI – Consigliere Forum delle Associazioni familiari

Saluti delle Autorità

Daniele Udali, Presidente Nazionale AFI – 1991-2016: l’Afi che Fa…miglia!

  1. Politiche Famigliari e welfare generativo

On. Enrico Costa, Ministro alla famiglia, (da confermare)

Prof. Stefano Zamagni, Università di Bologna, Presidente Osservatorio Nazionale Famiglia – La famiglia come soggetto sociale generativo: implicazioni per le politiche familiari

Gianluigi De Palo, Presidente Forum delle Associazioni familiari – La famiglia: la sfida concreta del futuro

  1. Comuni, Mercato e Società Civile in Rete. Fattore Famiglia

Prof. Federico Perali, Università di Verona – Dipartimento di Scienze Economiche – Il Fattore Famiglia, strumento di equità per la fiscalità nazionale

Maurizio Bernardi, già sindaco del Comune di Castelnuovo del Garda – 3 anni di applicazione del Fattore Famiglia Comunale. Verso il Dossier dei Comuni del Fattore Famiglia Alleanza Comuni e famiglie, sussidiarietà ed economia civile. La Famiglia porta-Valori in rete

Prof. Ivan Vitali, Direttore generale Associazione Familiare conVoi onlus, Responsabile progettazione sociale ACLI Lombardia Milano – Il circuito di Nexteconomia.org

Luigia Caria, Rete Comuni amici della famiglia – L’alleanza Comuni, Mercato e Famiglie per il bene comune: un esempio di sussidiarietà circolare

Paolo Paronzini, Direttore marketing Supermercati UNES – Il ruolo di un’impresa per un economia civile

Cesare Palombi, Presidente AFI Milano-Brianza – I GAF strumento di prossimità e speranza per famiglie che hanno perso il lavoro

  1. Famiglia, Società Civile e Unione Europea

Tavola Rotonda – Moderatore Roberto Zoppi – Giornalista

Intervengono Luca Jahier (Presidente Group III – EESC), Damiano Zoffoli (Europarlamentare), Antoine Renard (Presidente FAFCE)

www.afifamiglia.it/public/Programma%20convegno%2060606.pdf

www.afifamiglia.it/public/Bozza%20programma%20del%2025mo%20v8.pdf

www.afifamiglia.it/index.php?p=vedi_news&id=1385

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PREVIDENZA

Bonus matrimonio: cos’è e come si fa ad averlo.

L’Inps mette a disposizione di certe categorie di lavoratori che intendano sposarsi un incentivo variabile a seconda dei casi. Mentre a causa di voci false circolate sul web molti sposini hanno visto infranto il loro sogno di ricevere il fantomatico incentivo di 25mila euro da parte dell’Unione Europea, una buona (e vera!) notizia per i futuri sposi c’è: tra i contributi offerti dall’Inps è compreso anche un bonus matrimonio.

Chi può richiedere il bonus? Hanno diritto al bonus gli sposi che abbiano un contratto di lavoro da almeno una settimana e intendano contrarre matrimonio civile o concordatario (mentre restano esclusi coloro che contraggono matrimonio solo religioso). Più in particolare esso spetta agli operai, agli apprendisti, ai lavoratori a domicilio e ai marittimi di bassa forza che dipendono da aziende industriali, artigiane o cooperative. Ne hanno diritto anche i lavoratori non in servizio per le più svariate cause, ad esempio per malattia. Infine il bonus spetta ai disoccupati che, però, per almeno 15 dei 90 giorni precedenti le nozze abbiano prestato servizio presso una delle predette aziende.

È possibile cumularlo con altre indennità? È escluso il cumulo del bonus con l’indennità di maternità, l’indennità di malattia e con la cassa integrazione ordinaria o straordinaria. Esso può invece essere cumulato con l’indennità Inail, pur se solo in misura pari alla differenza tra indennità e retribuzione.

In cosa consiste il bonus matrimonio? Il bonus matrimonio concesso dall’Inps, concretamente, è di misura variabile a seconda della categoria di appartenenza del richiedente. In particolare gli operai e gli apprendisti hanno diritto a 7 giorni di retribuzione, mentre i lavoratori a domicilio a 7 giornate di guadagno medio giornaliero. I marittimi hanno diritto a 8 giornate di salario medio giornaliero e i part-time verticali a un importo calcolato tenendo conto dei giorni di lavoro previsti in contratto. In ogni caso tutte tali somme sono ridotte del 5,54% e il pagamento è fatto dal datore di lavoro o direttamente dall’Inps per i disoccupati.

Come ottenere il beneficio? Per ottenere il bonus matrimonio è necessario fare espressa domanda al datore di lavoro (o direttamente all’Inps se si è disoccupati). I lavoratori possono provvedervi entro 60 giorni da quello di celebrazione delle nozze mentre i disoccupati entro un anno. Ai primi basta allegare il certificato di matrimonio, lo stato di famiglia o una dichiarazione sostitutiva di certificazione dalla quale risultino lo stato di coniugato e gli estremi del matrimonio. Ai disoccupati sono invece richieste una dichiarazione sostitutiva di certificazione che attesti che alla data del matrimonio si era disoccupati, una dichiarazione sostitutiva con la quale si attesti di essere stati parte di un rapporto di lavoro per almeno 15 dei 90 giorni antecedenti le nozze e la copia dell’ultima busta paga.

avv. Valeria Zeppilli  Newsletter Giuridica Studio Cataldi 13 giugno 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22403-bonus-matrimonio-cos-e-e-come-si-fa-ad-averlo.asp

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UNIONI CIVILI

Per la famiglia, dopo le unioni civili

La famiglia dopo le unioni civili: l’ora di farci in quattro. Ora che la legge sulle unioni civili è entrata in vigore, è giunto il momento di porci seriamente la domanda sul “dopo”. In realtà questo “dopo” è già iniziato, anche se i dibattiti politici si sono subito concentrati tutti sulle elezioni amministrative e sul referendum, previsto per l’autunno, in merito alla riforma costituzionale. Comunque, non è difficile registrare che si sono di fatto già costituiti due schieramenti. Il primo è quello di chi vede nella legge Cirinnà-Lumia solo il primo passo verso un più largo e più compiuto riconoscimento di “diritti umani” (in specie di diritti degli omosessuali) e si adopera per dilatare in tempi brevi il dettato della legge (in particolare, con un riconoscimento formale della stepchild adoption).

            Il secondo è quello di chi, ritenendo eversivo socialmente e giuridicamente incostituzionale il confuso riconoscimento da parte della nuova normativa di coniugalità para-matrimoniali, si sta invece adoperando per sottoporre quella stessa legge (o almeno una sua parte) a un referendum abrogativo e per favorire l’obiezione di coscienza da parte dei sindaci nei suoi confronti. È difficile prevedere quale dei due schieramenti potrà prevalere: l’esperienza storica, però (ricordiamo le vicende della legge 194/1978, che legalizzò l’aborto), ci fa ipotizzare che quando, dopo l’approvazione di una legge presentata (a torto o a ragione) come “di mediazione”, continuano a scontrarsi due posizioni, a loro modo “estreme”, l’esito più probabile è che la legge vigente ne risulti rafforzata e che nessuna delle parti confliggenti riesca a prevalere.

Anche quanto il presidente del Consiglio Renzi ha dichiarato domenica 29 maggio a questo giornale («riaprire la discussione mi sembrerebbe paradossale e soprattutto inutile») rafforza tale ipotesi. Il che significa che il “dopo Cirinnà” potrebbe rivelarsi – in modo assai poco incoraggiante – una palude che non si riuscirà né a prosciugare, né a bonificare. Possono i cattolici accontentarsi di una simile prospettiva, che porta di fatto a rimuovere la questione? Ovviamente no: la destrutturazione dei vincoli familiari è probabilmente il massimo problema antropologico del nostro tempo e fronteggiarlo è assolutamente urgente.

            Questo però non significa che sia doveroso per i cattolici attivarsi verso la legge ora vigente con iniziative nobili, sì, nei loro princìpi, ma sviluppate secondo una logica di puro contrasto e, con ogni probabilità, sterili nei loro frutti. Bisogna soprattutto abbandonare l’illusione che possano essere efficaci strategie circoscritte, di breve periodo; bisogna a tutti i costi impegnarsi per costruire prospettive “politiche” (nel senso più alto della parola) che non siano “provinciali” (cioè frutto dell’illusione di risolvere in ambiti ristretti un problema globale) e, dunque, che siano molto più ariose di quelle adottate fino a oggi. Individuarle, ovviamente, non è facile: qui ci si limita a proporne almeno tre, non particolarmente originali, ma a lungo marginalizzate.

            La prima strategia è socio-politica. Consiste nel fronteggiare la crisi della coniugalità che sta pervadendo l’Occidente secolarizzato con adeguate politiche sociali, che tengano presente che non c’è futuro per il Welfare se non attraverso l’indispensabile supporto economico e valoriale che solo famiglie stabili possono garantire. Le proposte avanzate negli ultimi giorni dai parlamentari del gruppo Demos, da alcuni senatori e deputati del Pd e, tempo fa, da Ap tengono conto di questa esigenza, ma bisogna finalmente cominciare a scriverle nella realtà e non solo sulla carta.

La seconda strategia è biogiuridica e consiste nel ridare un doveroso primato alla genitorialità biologica, l’unica capace di sconfiggere il “relativismo procreativo”, che indebolisce i vincoli familiari e costituisce un potente fattore di crisi demografica. E questo significa, nel campo dell’adozione, tutelare il diritto di ogni bambino a una mamma e un papà.

            La terza, infine, chiama a operare sul piano dell’etica pubblica. Bisogna attivare nuove forme di ‘pedagogia sociale’ (un po’ come quelle che si attivano a favore della parità dei sessi e contro l’omofobia), che rendano chiaro a tutti ciò che gli studiosi più avvertiti sanno da tempo e cioè che la famiglia è una struttura antropologica primaria, che costituisce il paradigma di tutti quei ‘beni relazionali’ sui quali riescono a loro modo a fondarsi anche i ‘beni individuali’. La crisi della famiglia è nello stesso tempo effetto e causa di qualsiasi crisi sociale: è giunto il momento che tutti lo riconoscano.

Accanto a queste tre strategie, chiaramente non confessionali, ne esiste però anche una quarta, che è invece specificamente cristiana. È per noi la più importante e nello stesso tempo la più fraintesa: quella della preghiera. Mai come oggi la famiglia ha bisogno di diventare oggetto delle nostre preghiere. Pregare per la famiglia non significa però limitarsi pigramente a chiedere a Dio di intervenire perché sia Lui a risolvere le piaghe del nostro tempo. Significa piuttosto implorarlo perché ci aiuti a predisporci, tutti, ad agire consapevolmente nel mondo contemporaneo. Il cristiano infatti non può limitarsi a vedere in se stesso uno spettatore dei cambiamenti che caratterizzano il tempo in cui gli è capitato di vivere; egli deve sapere che ha il dovere di governare tali cambiamenti e che per realizzare questo compito ha bisogno di un supplemento di sapienza, che non deriva né dalla scienza, né dalle ideologie, ma dal cuore. Cosa di più importante si può chiedere a Dio, se non di illuminare i suoi fedeli e tutti gli uomini di buona volontà in questo compito?

Francesco D’Agostino                       Avvenire         15 giugno 2016

www.avvenire.it/Commenti/Pagine/LORA-DI-FARCI-IN-QUATTRO-.aspx

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WELFARE

La legge “dopo di noi”: è realtà. Svolta storica.

Finalmente il 14 giugno 2016 c’è stata la fumata bianca. Il Ddl “Dopo di noi” è realtà. La Camera ha approvato a maggioranza il testo con 312 si, 64 no e 26 astenuti. È stato istituito per la prima volta un fondo specifico con 90 milioni per quest’anno, 38,3 milioni per il 2017 e 56,1 milioni per il 2018.

            Previste agevolazioni e sgravi fiscali per i patrimoni che i genitori decidono di lasciare in eredità per la cura dei loro figli, affidandolo a parenti o a Enti Onlus. La legge prevede inoltre un progetto individuale di cura e assistenza del disabile da mettere a punto ancor prima che vengano a mancare i parenti. Anche l’Italia tutelerà in modo degno coloro i quali vivono la disabilità motoria e psichica. Di sicuro un grande traguardo è stato raggiunto dopo anni di battaglia tra l’indifferenza generale. Nel nostro Paese vi sono circa 4 milioni di disabili (6,7 % della popolazione).

            Le barriere che devono essere abbattute sono culturali, più che architettoniche. Si calcola che nel 2020 i disabili in Italia arriveranno a 4 milioni e 800 mila (7,9% della popolazione). Nel 2040 (secondo il Censis) essi raggiungeranno i 6,7 milioni (10,7 della popolazione). Stiamo parlando di numeri da brividi.

            Eppure secondo il Censis un italiano su quattro afferma che non gli è mai capitato di avere a che fare con persone disabili. Questo è un altro dato inquietante. Forse perché la disabilità viene fatta combaciare, da ben due italiani su tre, essenzialmente con una limitazione dei movimenti, quindi una disabilità prettamente motoria. Mentre sono le disabilità intellettive ad essere le più diffuse in età evolutiva (e spesso nascoste).

            Le disabilità invisibili. Oggi in Italia le persone con sindrome di Down sono circa 48.000, di cui il 14% ha fino a 14 anni. La fascia di età più ampia è quella dai 15 ai 44 anni, pari al 66% e il 13% ha più di 44 anni. Le aspettative di vita alla nascita sono di 61,6 anni per i maschi e di 57,8 anni per le femmine (dato inverso rispetto al resto della popolazione).

            Le persone affette da disturbi dello spettro autistico si stimano pari all’1% della popolazione, circa 500.000.

Nel nostro Paese, nonostante la presenza delle Associazioni per il sostegno e l’aiuto ai disabili (e alle loro famiglie) e i tanti volontari, non esiste un welfare degno di questo nome. Gran parte dell’impegno e delle energie per tutelare ogni tipo di disabilità è sulle spalle delle famiglie. Necessita una svolta, a partire dalla scuola (il numero degli alunni disabili nella scuola statale supera le 200.000 unità). Poi urge la possibilità di sfruttare le capacità dei disabili (spesso enormi) per il loro inserimento nel lavoro.

            E così strutture sanitarie di livello, piani urbanistici e abbattimento di qualsiasi barriera architettonica. Oggi la legge c’è. Il dilemma è cercare di capire come tutelare i tanti individui disabili una volta che resteranno privi di genitori o di altri parenti. Come organizzare la loro vita? Come tutelare il patrimonio? Chi lo gestirà. Chi si prenderà cura delle loro esigenze quotidiane, umane e di salute?

            Per i disabili psichici tale dilemma è ancora maggiore. Occorre adesso formare i magistrati e gli avvocati e cercare di capire quali potranno essere gli istituti processuali più idonei tra l’inabilitazione, l’interdizione, l’amministrazione di sostegno e il trust familiare.

Redazione AMI          15 giugno 2016

                                   http://www.ami-avvocati.it/la-legge-dopo-di-noi-e-realta-svolta-storica/?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+ami-avvocati+%28AMI-avvocati.it+RSS%29

Vedi anche

www.vita.it/it/article/2016/06/14/che-vita-sara-con-la-nuova-legge-sul-dopo-di-noi/139781

 

Disabilità, il “Dopo di noi” è legge

Il “Dopo di noi” diventa legge, grazie all’approvazione in via definitiva alla Camera oggi pomeriggio. Il provvedimento introduce misure di assistenza, cura e protezione in favore delle persone con “disabilità grave” prive del sostegno familiare dei genitori. Il testo era già stato approvato in prima lettura dalla Camera nel febbraio scorso ed è stato poi modificato al Senato a maggio. “La legge sul Dopo di noi è un fatto di civiltà per migliaia di famiglie. Sono orgoglioso dei parlamentari che l’hanno voluta e votata. Grazie”. Ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.

Quante sono le persone interessate? Secondo i dati forniti dall’Istat la possibile platea di beneficiari è collocabile tra i 100.000 e i 150.000 soggetti. Più specificamente, destinatari delle misure di assistenza cura e protezione saranno le persone con disabilità grave non determinata dal naturale invecchiamento o da patologie connesse alla senilità, prive di sostegno familiare, in quanto mancanti di entrambi i genitori o perché gli stessi non sono in grado di fornire l’adeguato sostegno genitoriale. In tal senso, le misure prevedono la progressiva presa in carico della persona disabile durante l’esistenza in vita dei genitori o di chi ne tutela gli interessi e rafforzano quanto già previsto in tema di progetti individuali per gli assistiti.

Fondo per l’assistenza. La legge istituisce il Fondo per l’assistenza ripartito fra le regioni con una dotazione di 90 milioni di euro per il 2016, di 38,3 milioni per il 2017 e di 56,1 milioni annui a decorrere dal 2018. Lo stesso decreto stabilisce i requisiti per l’accesso alle misure. Le regioni definiranno poi i criteri per l’erogazione dei finanziamenti e la verifica dell’attuazione dell’attività svolte, oltre alle possibili ipotesi di revoca dei finanziamenti medesimi. Contestualmente saranno individuati gli obiettivi di servizio, ovvero gli interventi da effettuare con le risorse destinate: programmi innovativi di residenzialità diretti alla creazione di strutture alloggiative di tipo familiare o di analoghe soluzioni residenziali, interventi di permanenza temporanea in una soluzione abitativa extra-familiare per far fronte ad eventuali emergenze, nonché programmi di accrescimento della consapevolezza, di abilitazione e di sviluppo delle competenze per la gestione della vita quotidiana e per il raggiungimento del maggior livello di autonomia possibile.

            Prestazioni assistenziali. La legge disciplina la definizione delle prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale ed affidate perciò al coordinamento dei LEA (Livelli essenziali di assistenza, ossia le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a offrire). Un ruolo rilevante è svolto dal welfare locale, al quale è affidata l’erogazione dei servizi e degli interventi a favore delle persone con disabilità.

            Detraibilità per le spese per le polizze assicurative. L’articolo 5 eleva il limite di detrazione dall’imposta IRPEF da 530 a 750 euro per le polizze assicurative aventi per oggetto il rischio di morte, qualora queste ultime siano destinate alla tutela delle persone con disabilità grave.

            Istituzioni di trust e fondi speciali vincolati. La legge disciplina le esenzioni ed agevolazioni tributarie per i seguenti negozi giuridici, destinati in favore di disabili gravi: costituzione di trust; costituzione di vincoli di destinazione di beni immobili o di beni mobili iscritti in pubblici registri, mediante atto in forma pubblica. L’affidatario può essere anche un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale (ONLUS), che operi prevalentemente nel settore della beneficenza. Tali atti non devono essere assoggettati ad imposta di successione e donazione. Le esenzioni ed agevolazioni sono ammesse a condizione che il negozio giuridico persegua come finalità esclusiva (espressamente indicata nell’atto) l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza di uno o più disabili gravi beneficiari.

            Avvenire         14 giugno 2016

www.avvenire.it/Politica/Pagine/Dopo-di-noi-approvato.aspx

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