newsUCIPEM n. 597 – 15 maggio 2016

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AMORIS LAETITIA                                           I passi da Familiaris consortio ad Amoris laetitia. Petrà.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO                 Mantenimento dei figli: tribunali a confronto

CHIESA CATTOLICA                                        Il genio non ha genere. Bianchi

“Lo Stato faccia le sue scelte Ma noi difendiamo la famiglia” Ravasi

CINQUE PER MILLE                                        Oltre 50 mila richieste per il 2016: online gli elenchi provvisori

Due per mille per il non profit culturale.

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM            Cremona. Corso prenatale giugno/luglio 2016.

DALLA NAVATA                                              Domenica di Pentecoste – anno C –15 maggio 2016.

Omelia del santo padre Francesco.

DIVORZIO                                                          No reversibilità per l’ex che ha rinunciato all’assegno mensile

EMBRIONI                                                         Gli embrioni e i limiti della ricerca. Non è scienza ma convenzione.

Donazione ovuli. Morresi: tracciabilità per evitare business.

FRANCESCO VESCOVO di ROMA             Discorso All’unione Internazionale Superiore Generali (UISG).

Le conseguenze della scelta di Francesco.

Francesco non si farà intimidire.

GOVERNO                                                         Nomina Presidente Commissione Adozioni Internazionali.

PARLAMENTO Camera Assemblea         Unioni civili: approvazione della legge.

             Senato Assemblea            Interrogazioni su misure a sostegno della famiglia e della natalità.

SCIENZA&VITA                                                Il convegno del 27-28 maggio dedicato al mondo femminile.

UNIONI CIVILI                                          I conviventi si vedranno sposati a loro insaputa.

                                                                              «Bigamia» consentita e gli altri vuoti del testo sulle unioni civili.

                                                                              Correlazioni tributarie tutte da verificare.

I nuovi contratti di convivenza passano dagli avvocati.

VIOLENZA                                                          Cassazione: mariti gelosi attenzione! Pedinare la moglie è reato.

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AMORIS LAETITIA

I passi da Familiaris consortio ad Amoris laetitia.

Un passo avanti nella continuità dell’attitudine pastorale. Il multiforme discernimento del capitolo VIII.

Introduzione. La varietà delle forme di unione e la necessità del discernimento pastorale. Il capitolo VIII dell’Amoris laetitia è dedicato al tema: Accompagnare, discernere e integrare la fragilità. Esso è suddiviso nelle seguenti sezioni: due numeri introduttivi senza titolo (nn. 291-292); La gradualità della pastorale (nn. 293-295): Il discernimento delle situazioni dette “irregolari” (nn. 296-300); Le circostanze attenuanti nel discernimento pastorale (nn. 301-303); Le norme e il discernimento (nn. 304-306); La logica della misericordia pastorale (nn. 307-312).

Come già mostrano i vari titoli delle sezioni, centrale in tutto il capitolo è l’attenzione al ‘discernimento’ delle situazioni dette “irregolari”, fin dall’inizio inquadrato in un preciso orizzonte: quello del lavoro della Chiesa come “ospedale da campo” (AL, 291). Infatti, benché “la Chiesa sempre proponga la perfezione e inviti a una risposta più piena a Dio” (Al,291) non può disinteressarsi “dei suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito” (AL,291): deve accompagnarli con attenzione e premura, cercandoli anche là dove l’oscurità e lo smarrimento sembrano prevalere, distinguendo le varie forme di unione per “valorizzare” tutto quel che è valorizzabile. 

Di fatto, varie sono le forme di unione. Si va dall’unione cristianamente piena (l’“ideale”, ovvero “l’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società”: AL,292) alle forme di unione in contraddizione con l’ideale, passando per forme che realizzano l’ideale “in modo parziale e analogo”. La Chiesa ha il dovere morale di accostarsi ad esse per “valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio” (AL,292). Deve imparare a “discernere” i “semi del Verbo” anche nelle “situazioni imperfette” (cfr. AL, 76-77) e affrontarle con l’intento di trasformarle “in opportunità di cammino” (AL,294).

E’ in riferimento a questo processo di valorizzazione positiva che AL ricorda quanto FC,34 dice sulla legge di gradualità, ovvero sulle tappe della crescita morale (FC,34 citato in AL,295: “l’essere umano «conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita»”), che non va confusa con la gradualità della legge. Le persone sono in cammino, attraversano varie tappe cognitive ed esistenziali, valutano e decidono moralmente (prudenzialmente) secondo quel che ad ogni momento comprendono e sono in grado di attuare, cosa che può anche non coincidere pienamente “con le esigenze oggettive della legge” (AL,295). Questa attitudine di valorizzazione coincide con quel che è chiamato al n.293 “il discernimento pastorale delle situazioni” che non corrispondono alla realtà piena del matrimonio cristiano, un discernimento che permetta di “entrare in dialogo pastorale” con le persone coinvolte. Per ben due volte il n.293 invita al “discernimento pastorale”.

            “Discernimento del Pastore”, logica dell’integrazione, mancanza di ricette semplici. La valorizzazione delle varie situazioni non è una semplice questione di cortesia o di buon cuore. Corrisponde a quella logica della “misericordia e dell’integrazione” (AL,296) che è della Chiesa e del Signore Gesù, ben diversa dall’altra logica che percorre la storia della Chiesa, cioè la logica dell’emarginazione. Il papa insiste sulla necessità che il “discernimento del Pastore” cerchi di integrare nella comunità cristiana tutti coloro che sono integrabili in qualche modo, senza cedere a dinamiche emarginanti seppure “evitando ogni occasione di scandalo” (AL,299). La strada da percorrere è chiara, come appare da quel che si dice tra n.296 e n.297: “La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]    297. Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo”.

Per questo, il discernimento deve essere molto attento e saper distinguere bene le varie situazioni senza lasciarsi trascinare da soluzioni semplicistiche e generalizzate: “I Padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei Pastori deve sempre farsi «distinguendo adeguatamente» (Relatio Synodi 2014,26), con uno sguardo che discerna bene le situazioni (Cfr. Ibid. 45).Sappiamo che non esistono «semplici ricette» (Benedetto XVI, Discorso al VII Incontro Mondiale delle Famiglie, Milano, 2 giugno 2012, risposta 5)”(AL,298).

            Discernimento del pastore e discernimento del fedele: “il discernimento personale e pastorale”.

L’Esortazione non parla solo del discernimento del pastore, parla anche del discernimento proprio della persona del fedele. Anzi, li pone in stretta connessione e li ricorda unitariamente. AL, 298 rinvia così simultaneamente e unitariamente a queste due modalità di discernimento. Quando osserva la diversità delle situazioni dei divorziati risposati, sulla scia di FC,84, sottolinea la necessità di non lasciarsi andare ad “affermazioni troppo rigide” e di “lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale”. Queste due modalità del discernimento, “personale e pastorale”, sono ricordate anche all’inizio del n.300, ove si dice esplicitamente che solo la via del discernimento va percorsa: “Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. E’ possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari”.

Un simile rinvio unitario non deve però nascondere il fatto che discernimento pastorale e discernimento personale hanno configurazioni diverse. Anzi, il chiarimento di questa diversità è –io credo- assai importante per cogliere adeguatamente anche quello che l’Esortazione concretamente propone.

Il discernimento ‘pastorale’, come dice chiaramente l’aggettivo, è operato propriamente dai soggetti dell’azione pastorale, innanzitutto vescovi e presbiteri, nei confronti delle persone o situazioni che sono oggetto dell’azione pastorale: esso mira a cogliere le peculiarità e le differenze delle varie situazioni, prendendo in considerazione l’insieme delle circostanze –soggettive e oggettive-, mettendole in rapporto con l’insegnamento della Chiesa e del vescovo (AL,300), mostrando ai fedeli le vie di fedeltà e di crescita della vita cristiana dei fedeli nelle situazioni considerate.   

Il discernimento ‘personale’ indica invece propriamente il discernimento esercitato in prima persona dal soggetto morale -il fedele stesso- allorché è posto dinanzi alla necessità di prendere una decisione in ordine all’ agire in una particolare situazione; trattandosi di un cristiano, si suppone che chi agisce cerchi di essere fedele alla volontà del Signore quale si manifesta nella situazione stessa. Del resto, è per questo che il fedele si rivolge al pastore.

E’ mediante questo ‘personale’ discernimento che il fedele perviene alla sua propria decisione di coscienza in situazione, una decisione che può essere solo sua. Secondo la nostra tradizione morale, infatti, la coscienza è la norma soggettiva ultima dell’azione e nessuno può prenderne il posto neppure il pastore (anche nel sacramento della penitenza). AL, 305 richiama opportunamente quanto dice la Commissione Teologica Internazionale (In cerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009) sul fatto che “la legge naturale non può […] essere presentata come un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione [mia sottolineatura]”.

L’Esortazione richiama per altro formalmente questa dottrina tradizionale al n.37: “[Noi] stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle [sottolineatura mia]”. 

            Il luogo del “discernimento personale e pastorale”: il foro interno. L’Esortazione parla simultaneamente e unitariamente di “discernimento personale e pastorale” perché il luogo al quale pensa è quello nel quale il soggetto del discernimento pastorale (pastore) incontra il soggetto (o soggetti) del discernimento personale (il fedele con la sua coscienza) in ordine alla formazione del giudizio di coscienza in situazione. In questo luogo vengono trattate le situazioni che nella prassi della Chiesa sono considerate materia propria del cosiddetto foro interno. L’ambito del foro interno si distingue dal foro esterno -che ha ordinariamente per oggetto il governo pubblico della Chiesa e tratta quindi questioni di carattere pubblico – in quanto riguarda questioni che coinvolgono primariamente la coscienza morale del fedele (dei fedeli). Il foro interno ha due momenti: quello non sacramentale (colloquio pastorale), quello sacramentale (sacramento della confessione). Il capitolo VIII ha presenti ambedue i momenti del foro interno. E’ perciò utile fermarsi sulle loro peculiarità nella tradizione morale. 

            Pastore e fedele nel foro interno non sacramentale (colloquio pastorale). In questo momento del foro interno il pastore esercita una sorta di autorevole moral counseling in dialogo con il fedele. Esso può esigere anche un tempo non breve e talvolta è svolto nel contesto della direzione spirituale. In questo dialogo il pastore –se e in quanto richiesto- aiuta il fedele a valutare correttamente il proprio comportamento passato e presente e le sue possibilità future, senza tuttavia sostituirsi alla persona giacché opera in aiuto alla sua coscienza e non al posto di essa.

In questa relazione di aiuto morale (illuminazione / accompagnamento), il pastore prospetta l’orizzonte morale della vita cristiana, aiuta la persona a cogliere quanto dipende e quanto non dipende da lei, qual è l’ambito delle sue responsabilità e delle sue possibilità concrete; può sostenerla e indirizzarla verso le risorse spirituali necessarie per la ricerca sincera della volontà di Dio e per la conformità ad essa.

Il pastore –nel foro interno non sacramentale- non impone comportamenti né stabilisce quello che la persona deve fare; aiuta la persona a cogliere la propria responsabilità morale nelle concrete possibilità della sua situazione. La decisione che scaturisce è appunto la norma che la coscienza del fedele in prima persona assume per quella situazione, senza ovviamente pretese universali, e che può non coincidere con la norma oggettivamente e astrattamente data dalla dottrina (si colloca qui, ad esempio, la lunga tradizione morale cattolica dell’epicheia) [equità che consente l’inapplicabilità della legge al caso concreto qualora con la sua applicazione la norma avesse a rivelarsi moralmente ingiusta e intollerabile.]

AL, 300 si riferisce a questo tipo di relazione pastore-fedele quando, riprendendo la Relatio finalis del Sinodo 2015, ricorda che il pastore aiuta i fedeli “alla presa di coscienza della loro situazione dinanzi a Dio” e concorre alla “formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere”. Anche AL,303 allude allo stesso processo allorché scrive: “bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento serio e responsabile del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia”. Ancora, è probabilmente allo stesso aiuto pastorale che si riferisce AL,304 quando, ricordando la dottrina di S. Tommaso sulla indeterminazione normativa crescente quanto più si scende nel particolare, afferma che tale dottrina deve essere presente nel “discernimento pastorale” (del pastore) e che proprio per questo “ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti a una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma”, intesa come norma generale.

E’ importante sottolineare che questo aiuto al discernimento personale di tipo pratico da parte del pastore non deve essere interpretato come un aiuto a ben applicare la norma alla situazione ma come un aiuto perché la coscienza colga la concreta possibilità del bene ovvero il bene possibile in situazione. AL,308 riprendendo letteralmente Evangelii Gaudium, 44 sottolinea che la “misericordia del Signore […] ci stimola a fare il bene possibile”. E il ‘bene possibile’ non coincide sempre con la realizzazione più piena dell’ideale (cfr. AL,303); anzi, talvolta anche illuminata “la coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo” (AL,303).

Il ‘bene possibile’ non è un bene impuro o indegno. Come osserva il papa in AL,308 citando EG,45: “Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada»”.

Nel contesto del Capitolo VIII e in particolare alla luce del n.292 (che distingue tra realizzazione radicale dell’unione ideale -matrimonio cristiano- e realizzazioni “in modo parziale e analogo”) quel che abbiamo appena detto significa che la coscienza del fedele può considerare ‘bene possibile’ una di quelle “situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo [della Chiesa] insegnamento sul matrimonio”.

Il passaggio dal foro interno non sacramentale a quello sacramentale. Varie possibilità, inclusa anche quella del non passaggio. Quando il fedele passa per il colloquio o colloqui pastorali è poi frequentemente portato a rivolgersi al foro interno sacramentale (la confessione). Talvolta, il passaggio è spontaneo e quasi naturale: in forza dei colloqui stessi il fedele coglie in coscienza la necessità della confessione in ordine all’assoluzione e chiede al presbitero che lo ha accompagnato di confessarlo.

Tale passaggio al sacramento tuttavia non è necessario. Il fedele illuminato potrebbe giungere alla decisione che nel suo caso non ci sia la necessità della confessione. Come si sa, per la dottrina della Chiesa, la confessione è necessaria per i peccati gravi o mortali [canone 960 del Codice di Diritto Canonico CIC] e si hanno peccati gravi solo quando chi agisce sa di fare un male grave (con consapevolezza morale e non puramente giuridica) ed è libero di agire diversamente. E’ del tutto possibile che una persona non abbia la adeguata consapevolezza morale e/o non abbia libertà di agire diversamente e che pur facendo qualcosa oggettivamente considerato grave non compia un peccato grave in senso morale e dunque non abbia il dovere di confessarsi per accedere all’eucaristia.  AL, 301 allude chiaramente a questa dottrina quando dice che chi è in condizione irregolare non necessariamente “vive in stato di peccato mortale” e parla degli elementi limitanti a vario titolo i soggetti agenti: “I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale» (FC,33) o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, «possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione» (Relatio finalis 2015)“. Lungo la stessa linea si colloca AL, 295 quando appoggiandosi a FC,34 descrive con accuratezza il peculiare esercizio prudenziale della libertà da parte di soggetti che agiscono senza poter cogliere pienamente le “esigenze oggettive della legge”, ovviamente senza colpa in causa.

In casi simili, di non necessità del passaggio al sacramento per accedere all’eucaristia, la confessione è semplicemente consigliata. Non è infrequente però che anche chi non vede la stretta necessità della celebrazione sacramentale chieda l’assoluzione e dunque celebri il sacramento.

Come talvolta non è necessario il ricorso alla confessione, così non è necessario che ci si confessi con il sacerdote che ha accompagnato. Potrebbe essere un altro confessore.

            Accesso al foro interno sacramentale senza passaggio da quello non sacramentale. Il discernimento sacramentale. Va osservato però che nell’attuale prassi la maggioranza dei fedeli arriva direttamente al foro interno sacramentale senza passare attraverso il foro interno non sacramentale. Ciò significa che diventa più difficile l’aiuto da parte del pastore alla coscienza del fedele, sia perché ordinariamente nel confessionale il tempo non è sufficiente e spessissimo le persone non sono conosciute, sia perché il sacramento non si può configurare come un colloquio di aiuto morale, anche se può includere tale dimensione.

In simili casi, la logica pastorale di AL vorrebbe –io credo- che si invitasse il fedele a un dialogo personale in contesto non sacramentale, se possibile, o lo si rinviasse ad un servizio diocesano disposto per l’accompagnamento delle persone in tali situazioni. Nel caso tuttavia che il fedele non possa accogliere questi suggerimenti, il confessore seguirà le regole proprie della praxis confessarii concernenti il giudizio sulla disposizione del penitente.

Quando interviene il foro interno sacramentale infatti si attiva un tipo peculiare di discernimento che è appunto quello sacramentale. Esso ha come soggetto il confessore e come oggetto la disposizione del penitente. Secondo la dottrina tradizionale [canone 980 CIC], il confessore è chiamato a valutare (giudicare) la disposizione morale del fedele –il suo pentimento nei confronti dei peccati gravi dei quali ha coscienza -: solo il pentimento apre l’assoluzione e l’ammissione all’eucaristia. Tale discernimento non ha la forma di una sentenza di tipo giudiziario; è e deve essere – come ribadisce Reconciliatio et paenitentia- un giudizio di misericordia, teso a cogliere ogni segno del pentimento che renda possibile l’effusione del perdono.

E’ un giudizio che si basa pienamente su quanto il penitente comunica. Sottolineo quanto appena detto: secondo la tradizione nel foro interno (tanto sacramentale quanto non sacramentale) si deve sempre credere al penitente sia quando parla contro di sé sia quando parla a suo favore, se non si danno prove evidenti in contrario. E’ per questo, tra l’altro, che si è ammessa in passato la prassi dell’accettazione della nullità della prima unione in foro interno, nel caso in cui il confessore avesse acquisito la certezza morale di tale nullità, anche se non dimostrabile in foro esterno. Tale possibilità è ancor oggi sostanzialmente ammessa.

E’ inoltre un giudizio che non parte da zero ma da una presunzione a favore del penitente. E’ regola della praxis confessarii che il penitente si presume pentito quando viene a confessarsi giacché ordinariamente il penitente viene liberamente per avere il perdono dei propri peccati e non per altri motivi: dunque venendo si riconosce peccatore e sa di avere bisogno di perdono. Ciò spiega perché se non ci sono prove in contrario -ovvero prove per le quali il confessore raggiunge la certezza morale che il penitente non è pentito dei peccati gravi dei quali ha coscienza- chi viene a confessarsi deve essere assolto.

            Foro interno sacramentale e divorziati (civilmente) risposati. Da Familiaris Consortio a Amoris Laetitia: la continuità dell’attitudine pastorale. Chi legge Amoris laetitia si rende subito conto che essa cerca e insiste sulla continuità con FC; in vari punti richiama FC o vi si appoggia (ad es. quando presenta l’idea delle fasi di crescita morale, quando invita all’attenzione alla diversità delle situazioni, quando tende ad accogliere il più possibile le situazioni ‘irregolari’ ecc). Si può dire anche qualcosa di più: AL condivide profondamente l’attitudine pastorale di FC, che nelle sue prime frasi al n.84 mostra il desiderio di andare incontro pastoralmente il più possibile alla situazione dei divorziati risposati: “La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che – già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale – hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza”.

E’ per questa tensione pastorale che FC, 84 mentre ha ben presente l’ideale (la separazione dei coniugi in seconda unione non valida) ammette una seconda possibilità, che non corrisponde pienamente all’ideale ma vi si approssima. Infatti, FC riconosce che si possono dare condizioni che rendono l’ideale non praticabile perché ferirebbe importanti beni ed accoglie una soluzione già proposta nella praxis confessarii e fatta propria anche da alcuni episcopati (ad es. quello italiano nel 1979), quella cioè di assolvere e ammettere all’eucaristia il penitente disposto a vivere nella seconda unione come ‘fratello e sorella’ (cfr. Al,299, nota 329).

Non casualmente AL, 299 ricorda esplicitamente questa apertura di FC: “La Chiesa riconosce situazioni in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione» (FC,84)”. Dunque, FC è così pastoralmente orientata che giunge ad aprirsi a una soluzione non corrispondente all’ideale (la separazione) in considerazione del bene dei figli o di altri seri motivi [E’ noto che FC non entra nella questione delle eventuali cadute (sessuali) successive all’accettazione da parte del penitente della via fratello-sorella. Va però ricordato che negli anni successivi alla FC è diventa prassi quasi universale –almeno in Italia- che le eventuali cadute non impedissero l’assoluzione permanendo la sincera e adeguata volontà del penitente di non vivere in forma coniugale.].

In qualche modo, tutto il capitolo 84 di FC delinea un processo di integrazione: esso integra sacramentalmente le nuove unioni che accettano di non considerarsi coniugali pur continuando a convivere per seri motivi; integra, seppure non sacramentalmente, anche le coppie che non accettano la via fratello-sorella questo giacché invita i fedeli ad aiutarle a non sentirsi separate dalla Chiesa (non lo sono) e ne sollecita direttamente la partecipazione alle diverse forme di vita ecclesiale [FC 84 esorta pastori e fedeli ad aiutare i divorziati risposati a non considerarsi separati dalla Chiesa, “potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza”.].

Tuttavia, è ben noto che FC ritiene di non poter andare oltre perché ultimamente il criterio della verità oggettiva le appare determinante per l’ammissione all’eucaristia: la nuova unione oggettivamente non è un vero matrimonio. Lo dice chiaramente al n.84: “La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio”.

Amoris Laetitia, invece, pur partendo dalla stessa attitudine pastorale e dalla stessa volontà di integrazione arriva a una conclusione diversa proprio su questo punto. Come mai?

            Il passo avanti di Amoris Laetitia. Per cogliere il vero significato di questo passo avanti è necessario considerare attentamente un testo di AL,305: “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa”.  Questo testo conclude con una nota 351 sulla quale torneremo successivamente.

Dopo quel che abbiamo osservato prima, non meraviglia che tali parole dicano cose molto simili a quanto leggiamo in FC, 84. Quando alludono alla condizione dei divorziati risposati dicendola “una situazione oggettiva di peccato” in qualche modo ne constatano la contraddizione oggettiva. Anche il riferimento fatto “all’aiuto della Chiesa” corrisponde alla mens di FC che sollecita i divorziati risposati al rapporto con la Chiesa, anche se non possono accedere all’eucaristia. Quando afferma poi la possibile convivenza tra grazia di Dio e stato oggettivo di peccato dice qualcosa che fa parte del generale patrimonio teologico, mostrato tra l’altro dalle citazioni di Tommaso largamente presenti nel capitolo VIII di AL, patrimonio certamente non negato da FC, 84.

Quel che appare nuovo in AL sta nella nota 351 ove si dice chiaramente che tale aiuto della Chiesa può essere costituito dai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, ovvero dall’assoluzione e dall’ammissione all’eucaristia. La nota suona così: “In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esortazione apostolica Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039)”.

AL ammette dunque che nel foro interno sacramentale il confessore possa in alcuni casi assolvere e ammettere all’eucaristia divorziati risposati –con nuova unione sicuramente invalida – che pure continuino regolarmente la loro vita coniugale. E’ evidente che AL non vuole indicare una nuova norma al posto della norma indicata da FC,84: essa letteralmente dice solo che in alcuni casi la norma di FC,84 non obbliga il confessore. Ci si può chiedere su quale base lo dica e qualcuno potrebbe dire che si tratta di un’innovazione, un andare oltre la Tradizione. In realtà, si può dire piuttosto che AL arriva a questo passaggio perché si mette in ascolto della tradizione morale della Chiesa ancor più ampiamente di quanto FC,84 abbia fatto.

            AL in ascolto dell’intera tradizione morale della Chiesa. I motivi che portano FC,84 all’ esclusione dell’assoluzione/ammissione all’eucaristia sono stati richiamati. Come abbiamo visto, sono motivi teologici, presenti nella tradizione, e motivi pastorali, in particolare la preoccupazione per le sorti dell’indissolubilità anche tra i cristiani. C’è tuttavia un principio fondamentale implicitamente assunto dal testo surricordato di FC,84 per escludere i divorziati risposati dall’eucaristia: su di esso si basa sostanzialmente l’esclusione espressa in termini generali. Il principio è questo: non può essere mai ammesso all’eucaristia chi vive una contraddizione oggettiva con quanto significato oggettivamente dall’eucaristia.

Ebbene, il principio in tale forma assoluta non si ritrova nella tradizione; anzi si può affermare decisamente che la tradizione e la prassi morale della Chiesa non conoscono questa assolutizzazione. Parte della tradizione morale infatti è anche tutto il patrimonio della praxis confessarii che ha offerto nei secoli prospettive più ampie e ha incluso anche eventualità diverse. Ad esempio, la praxis sa che per l’assoluzione non si può esigere dal penitente pentito più di quanto possa dare. Ci sono circostanze nelle quali non si può chiedere al penitente -per assolverlo e ammetterlo alla comunione- che lasci una situazione di grave pericolo morale se questo significa provocare danni gravi a sé, ai propri cari o a persone verso le quali si hanno serie responsabilità: la teologia morale parla allora di “occasioni prossime di peccato necessarie”. Così la tradizione conosce circostanze nelle quali non si deve cercare di cambiare le convinzioni oggettivamente sbagliate di una persona, che o non capisce o non può capire la verità di alcune posizioni morali della Chiesa, per assolverla e ammetterla alla comunione. Sono quelle circostanze nelle quali il penitente è in ‘ignoranza invincibile’ o in condizione di ‘coscienza soggettivamente difendibile” (si tenga conto di quanto sopra detto sul peccato grave). In tali circostanze, secondo la valutazione del confessore e tenendo conto del bene del penitente, è possibile assolvere e ammettere all’eucaristia anche se il confessore sa che si tratta per la Chiesa di un disordine oggettivo. Una situazione ben nota della tradizione è quella della coscienza perplessa, il caso cioè della persona che ritiene in coscienza che comunque agisca fa male ma non può esimersi dall’agire: la teologia morale cattolica afferma da sempre che il soggetto è chiamato a scegliere il male minore e che nel fare il male minore non è colpevole. Di fatto è assolto e fa la comunione. Analogo è il caso nel quale il soggetto si trova dinanzi alla necessità di scegliere tra valori che orientano a comportamenti che in situazione confliggono e sceglie i valori preminenti non in sé ma nella sua concreta condizione e nel suo contesto esistenziale.

Queste posizioni della praxis, ben presenti nella storia morale cattolica, non negano il principio usato da FC ma non lo assolutizzano, costantemente lo interpretano e lo ‘economizzano’ – come direbbero gli orientali- in rapporto alle concrete persone e al loro cammino cristiano. Esse attestano che la tradizione considerata in tutta la sua ampiezza ha ammesso e ammette la partecipazione all’eucaristia anche in alcuni casi di incoerenza tra situazione oggettiva delle persone e oggettivo significato dell’eucaristia, ha cioè ritenuto e ritiene che la contraddizione oggettiva di vita non prevalga sempre sulla considerazione del bene del penitente. In contesti simili il sacramento è visto non come premio dei perfetti (soggettivamente e/o oggettivamente) ma come aiuto nel cammino a persone la cui colpevolezza soggettiva è fortemente diminuita o assente, non come consacrazione della piena verità dell’esistenza ma come forza/luce donata per crescere nella conoscenza e attuazione dell’esistenza cristiana. In altre parole, AL richiama quella parte della tradizione –la stessa tradizione per altro di FC- che non assolutizza il criterio ma lo relativizza e lo subordina al bene della persona (delle persone): si danno circostanze infatti nelle quali ogni norma va ricondotta al suo fine proprio che è la salus animarum, il bene delle persone.

            La conditio sine qua non per l’aiuto sacramentale. Nella prospettiva di AL ciò che si richiede perché si attivi l’aiuto sacramentale è che sia per il bene della persona (delle persone) nel suo (loro) cammino cristiano. Cosa che Amoris Laetitia senza dubbio fa. Essa mette in guardia da alcune situazioni che non possono essere considerate in questa luce: “Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione” (AL,297). Inoltre dal momento che la stessa logica dell’integrazione deve evitare ogni occasione certa di scandalo (cfr. AL,299), anche questo aspetto va tenuto presente nel discernimento sacramentale.

            Vanno poi secondo AL presi in considerazione anche alcuni criteri positivi di discernimento. AL,293 indica l’esistenza di alcuni dati oggettivamente verificabili: stabilità e pubblicità del vincolo, affetto reciproco, responsabilità verso i figli ecc. Altri elementi sono tratti dal modo in cui il fedele si muove nel dialogo pastorale e nel rapporto sacramentale: “Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cfr Familiaris consortio, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa» (Relatio finalis 2015, 86). Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un Pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale” (AL,300). Questo quadro di criteri può essere allargato, sulla stessa linea di discernimento: ricordo un dato tradizionale, cioè la considerazione dell’assolvimento dei doveri nei confronti delle persone coinvolte nella prima unione e i tentativi di riconciliazione esperiti.

Dal punto di vista della determinazione dei criteri appare particolarmente importante quanto leggiamo in AL, 298. Ivi, infatti, l’Esortazione, nell’intento di mostrare la varietà delle situazioni, offre vari casi possibili utilizzando anche quanto detto da FC,84 sui casi nei quali la separazione non sarebbe giusta. In particolare ricorda un caso di “una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe”. AL sa bene quel che dice FC in un simile caso, ma non può esimersi dall’osservare nella nota 329 che la mancanza di intimità potrebbe portare a mettere in pericolo la fedeltà della seconda unione e il bene dei figli. Questa nota allude abbastanza chiaramente alla possibilità che in casi simili il bene dei figli e il bene connesso della stabilità coniugale della seconda unione –ormai irreversibile- siano tra i criteri che conducono il ‘discernimento personale e pastorale’ all’ammissione all’eucaristia. AL, 298 offre altri casi possibili, tra i quali va notato in particolare quello del coniuge ingiustamente abbandonato e unito in nuova unione stabile.

            Il confessore cattolico in mezzo al guado tra FC e AL. La bellezza e la centralità del suo ruolo. Non c’è dubbio che ogni confessore cattolico in questo momento si trova in mezzo al guado tra FC e AL. Non si può negare lo sconcerto e la confusione di molti. La FC, anche se la sua soluzione si è rivelata sempre più limitata e insufficiente, ha offerto tuttavia per anni un quadro di riferimento dotato di autorità. Il confessore ha potuto continuare ad essere più un applicatore della norma che un pastore e un padre personalmente coinvolto nel bene del penitente e nel suo cammino cristiano.

Oggi l’attitudine indicata da AL esige che il confessore assuma maggiore responsabilità personale nel valutare il bene del penitente e delle persone coinvolte dal suo agire, con cuore misericordioso e con intento terapeutico. Il suo ruolo è certamente assai più impegnativo. Bisogna però dire che diventa anche più significativo, più ricco e più ministerialmente pieno. Lo fanno percepire profondamente alcune parole di papa Francesco dette a tutti i confessori e che tutti i confessori dovrebbero ben meditare: “E bisogna guardarsi dai due estremi opposti: il rigorismo e il lassismo. Nessuno dei due fa bene, perché in realtà non si fanno carico della persona del penitente. Invece la misericordia ascolta veramente con il cuore di Dio e vuole accompagnare l’anima nel cammino della riconciliazione. La Confessione non è un tribunale di condanna, ma esperienza di perdono e di misericordia!” [Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria Apostolica, 28 marzo 2014].

 “Tante volte si confonde la misericordia con l’essere confessore “di manica larga”. Ma pensate questo: né un confessore di manica larga, né un confessore rigido è misericordioso. Nessuno dei due. Il primo, perché dice: “Vai avanti, questo non è peccato, vai, vai!”. L’altro, perché dice: “No, la legge dice…”. Ma nessuno dei due tratta il penitente come fratello, lo prende per mano e lo accompagna nel suo percorso di conversione! L’uno dice: “Vai tranquillo, Dio perdona tutto. Vai, vai!”. L’altro dice: “No, la legge dice no”. Invece, il misericordioso lo ascolta, lo perdona, ma se ne fa carico e lo accompagna, perché la conversione sì, incomincia – forse – oggi, ma deve continuare con la perseveranza… Lo prende su di sé, come il Buon Pastore che va a cercare la pecora smarrita e la prende su di sé. Ma non bisogna confondere: questo è molto importante. Misericordia significa prendersi carico del fratello o della sorella e aiutarli a camminare. Non dire “ah, no, vai, vai!”, o la rigidità. Questo è molto importante. E chi può fare questo? Il confessore che prega, il confessore che piange, il confessore che sa che è più peccatore del penitente, e se non ha fatto quella cosa brutta che dice il penitente, è per semplice grazia di Dio. Misericordioso è essere vicino e accompagnare il processo della conversione” [Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria Apostolica, 12 marzo 2015].

            Basilio Petrà   presidente Associazione teologica italiana per lo studio della morale 12 maggio 2016

www.lindicedelsinodo.it/2016/05/i-passi-da-familiaris-consortio-ad.html#more

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Mantenimento dei figli: tribunali a confronto

            I tribunali ordinari di Roma e Milano assorbono percentuali elevatissime del contenzioso in materia di separazione e divorzio: le loro decisioni sono pertanto altamente rappresentative delle tendenze della giurisprudenza e svolgono una funzione pilota. E’ dunque di particolare interesse mettere a confronto quanto recentemente deciso dall’uno e dall’altro sulla forma della contribuzione al mantenimento dei figli.

Tribunale Milano, sez. IX civ., ordinanza 11 marzo 2016, est. G. Buffone;

Tribunale Roma, sez. I civ., sentenza 8 aprile 2016, est. D. Galterio)

Seguendo l’ordine temporale, il Tribunale di Milano boccia un accordo che prevede che un giovane padre, di scarse capacità economiche, partecipi al mantenimento della figlia solo se deciderà di frequentarla. Una simile proposta appare decisamente bizzarra e incomprensibile – come se una penalizzazione accompagnasse l’assolvimento di un obbligo – se non viene integrata da una specificazione sulla possibilità di mantenere un figlio in forma sia diretta che indiretta. In altre parole, quello che la coppia concorda è che si esoneri il padre dal versamento di un assegno alla madre (forma indiretta), fermo restando che quando terrà la figlia con sé dovrà provvedere alle spese legate alla convivenza (forma diretta). Quindi, resta evidentemente anomala la decisione di concedere al padre facoltà di scelta tra fare il padre oppure no, opzione giustamente bocciata dal giudice meneghino. Tuttavia, sul punto della forma del contributo il giudice estensore riconosce validità anche alla forma diretta, purché la convivenza sia sufficientemente consistente da rendere gli oneri ad essa associati adeguati al dovere spettante sulla base del reddito: “ben potrebbe l’accordo ottenere diversa valutazione ove: … 3) venisse posto a carico del padre (tenuto conto della sua giovane età) un assegno di mantenimento orientativamente simile a quello stabilito dalla separazione consensuale e dai provvedimenti divorzili provvisori (250 mensili); ben ferma la possibilità di un mantenimento diretto, ma con comprovati tempi di frequentazione adeguati”.

            Decisamente diverso l’approccio del tribunale di Roma. Pur dimostrando scrupolosa attenzione alla vicenda e desiderio di usare prudenza ed equità, è l’uso in sé dello strumento giuridico che lascia perplessi. In sintesi, è in gioco il mantenimento di due figli maggiorenni ma non autosufficienti, che trascorrono lo stesso tempo presso la madre e presso il padre. Quest’ultimo chiede la cancellazione dell’assegno di mantenimento con divisione a metà delle spese straordinarie; la madre un assegno di 1000 euro, comprensivo anche del contributo alle spese straordinarie. L’estensore della sentenza richiama anzitutto le disposizioni di legge, solo che inizia dalla seconda parte del comma IV dell’art. 337-ter, saltando la prima. Ovvero, dà per scontato che in presenza di redditi diversi un genitore debba passare all’altro un assegno, determinato in base ai noti cinque parametri. Quindi, svolge diligentemente il compito di elencare le risorse di ciascuno dei genitori e, constatata una migliore situazione economica del padre, fissa in 500 euro il suo obbligo limitatamente alle sole spese ordinarie. Per quelle “straordinarie”, ovvero tutte quelle non quotidiane, fa ricorso al tradizionale 50%, invocando tuttavia una interessante giustificazione: “E’ invece regolando specificamente le spese straordinarie che si ritiene di poter attenuare il conflitto genitoriale, tanto più che la permanenza a settimane alternate dei figli presso ciascuna di esse … , esige a fortiori una chiarezza nella ripartizione degli impegni a carico di ciascun genitore che finirebbe altrimenti con il riversarsi negativamente sulle prospettive future degli stessi ragazzi”. Dove per “regolazione specifica” intende il minuzioso elenco di tutto ciò che va concordato rispetto a ciò che può farsi direttamente – avendo carattere di urgenza – salvo chiederne il rimborso pro quota all’altro. Una decisione, sia consentito affermarlo, che appare difettosa sia nella teoria che nella pratica. Riprendendo l’art. 337 ter comma IV nella sua prima parte, ignorata nella sentenza, si legge che l’assegno viene stabilito solo ove ciò sia indispensabile per rispettare la proporzione tra gli oneri e le risorse di ciascuno. Si veda, non a caso, la Suprema Corte: “l’assegno per il figlio” può essere disposto “in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore” (Cass. 23411/2009, est. Dogliotti). Ma, come fare quando i redditi sono diversi? Semplice, si attribuiscono carichi più pesanti al genitore più abbiente. Un sistema che si presenta anche decisamente più funzionale, e soprattutto quando la conflittualità è elevata, come nella fattispecie. Mettiamo a confronto il regime stabilito con quello suggerito. Il primo, per difetto intrinseco, metodologico, definisce la ripartizione dei costi, ma non interviene sul momento della decisione, delle scelte. Quindi su ogni aspetto della vita dei figli (dall’acquisto delle scarpe alla riparazione del motorino) i genitori saranno permanentemente alle prese uno con l’altro, e chi vuole provvedere a un qualsiasi bisogno dovrà andare alla ricerca della relativa autorizzazione. In più, alla fine di ogni mese, si dovranno esibire gli scontrini delle spese sostenute (guai a perderne uno) per effettuare i conguagli. E questa sarebbe una “separazione”? E questo sarebbe un buon sistema per contenere la litigiosità? L’alternativa prevede l’attribuzione per intero a ciascun genitori di capitoli di spesa, assegnati in proporzione del reddito, essendo la consultazione limitata, una tantum, al momento delle scelte di indirizzo (da quale pediatra lo portiamo? Gli compriamo o no il motorino? Gli farà bene o no praticare il tennis? Ecc.). Sapendo poi, una volta per tutte, chi gestisce e paga.

            Concludendo, chi scrive è consapevole che la prassi largamente prevalente è, purtroppo, quella del tribunale di Roma. Tant’è che anche le richieste di entrambe parti non si discostavano dallo stesso modello (l’avvocatura procede inevitabilmente nella scia della giurisprudenza, condivisa o meno). Milano, tuttavia, va nella direzione giusta. Anche se nella fattispecie non è indicata la possibilità di compensare redditi maggiori con voci di spesa più onerose, non dubitiamo che questo sia il pensiero di quella illuminata corte. Un esempio da seguire.

Prof. Marino Maglietta         Newsletter Giuridica StudioCataldi.it          09 maggio 2016 –

www.studiocataldi.it/articoli/21985-mantenimento-dei-figli-tribunali-a-confronto.asp

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CHIESA CATTOLICA

Il genio non ha genere.

Una delle fatiche più grandi che attraversano il tessuto ecclesiale riguarda l’impegno e riconoscere la presenza delle donne nella chiesa. Giovanni XXIII indicò tra i “segni dei tempi” la promozione della donna nella società del XX secolo, e il Concilio indirizzò alle donne uno dei messaggi conclusivi, usando accenti che suonavano inediti alle orecchie dei cattolici: si affermava che la chiesa era “fiera d’aver esaltato e liberato la donna e di aver fatto risplendere … la sua uguaglianza fondamentale con l’uomo”. Ma il testo proseguiva assegnando alle donne come dote “la cura del focolare, la custodia della vita, il senso delle culle, la presenza al mistero della vita che comincia”. Tuttavia il messaggio si concludeva con un mandato solenne: “Donne di tutto il mondo spetta a voi salvare la pace nel mondo” (Messaggio della Chiesa alle donne, 8 dicembre 1965).

            Così i cantieri erano aperti. Ma la peculiarità dell’essere femminile risultava ristretta alla sponsalità e alla maternità e, se riconosceva che “l’ora è venuta in cui la donna acquista nella società un’influenza, uno sviluppo, un potere finora mai raggiunti” (idem), tuttavia si restava balbettanti sul ruolo della donna nella chiesa. Venne poi Giovanni Paolo II che affermò l’urgente necessità di passare “dal riconoscimento teorico della presenza attiva e responsabile della donna nella Chiesa alla realizzazione pratica” (Christifideles laici 51) e chiese perdono per gli abusi perpetrati ai danni delle donne (cf. Mulieris dignitatem e Liturgia del perdono del 10 marzo 2000). A più riprese lo stesso papa invitò a “riflettere sul ruolo della donna”, per darle più spazio nella società e nella chiesa e questa insistenza non fu vana perché molte donne si impegnarono nelle ricerche teologiche e antropologiche, giungendo a esprimere risultati di assoluto rilievo. Peraltro Giovanni Paolo II, ispirato dal teologo von Balthasar da lui ammirato, si addentrò sulla strada della “invenzione” della dimensione petrina e mariana della chiesa, esaltando questa come antecedente a quella, sicché si poteva dire, con l’intenzione di esaltare la donna, che Maria è più importante degli apostoli. Anche papa Francesco ha fatto più volte ricorso a questa affermazione, per sottolineare come il ruolo di Maria, la madre di Gesù, sia stato all’origine dell’incarnazione da cui procede la sequela di Gesù da parte dei discepoli divenuti poi apostoli. Dobbiamo però riconoscere che molte donne cristiane non amano molto questi paragoni tra realtà diverse e tutte necessarie e sentono sovente alcune affermazioni come proiezioni romantiche sulla donna.

            Sarebbe tempo di ascoltare le donne più che di parlare di loro, esercizio che per noi uomini risulta difficile. Nel linguaggio stesso sembra di essere ancora all’età della pietra: anch’io vengo giudicato misogino e probabilmente con ragione in riferimento ai termini che uso… Tuttavia sarà solo nominandoci e ascoltandoci reciprocamente, uomini e donne, dialogando e confrontandoci che potremo giungere almeno a un’etica del linguaggio adeguata.

            Ecco allora alcune domande: che senso ha chiedere di scoprire il genio femminile? E di fronte ad esso non ce ne sarebbe uno maschile? Sia gli uomini che le donne possono essere geniali ed esprimere una differenza a volte complementare che arricchisce entrambi. Salvo il ministero ordinato nella chiesa cattolica riservato agli uomini, per tutto il resto uomini e donne devono veder riconosciuta la stessa soggettività e la stessa capacità di presenza attiva nella chiesa. A volte, credendo di esaltare le donne, si finisce per chiuderle in schemi prefabbricati che le umiliano e le imprigionano di nuovo. Una capacità tipicamente femminile non deve finire per dare l’identità a una donna. Recentemente, un articolo che voleva essere esaltazione del “genio femminile” arrivò a dire che “il sabato santo è il giorno più femminile dell’anno perché è il giorno dell’attesa… Il sabato santo è il giorno delle donne”. Ma come si fa a sostenere simili affermazioni, dicendo che l’attesa e il silenzio sono propri delle donne mentre gli uomini non sono capaci di vivere il sabato santo perché cercano sempre soluzioni ai problemi? E il primo giorno dopo il sabato non è forse anch’esso femminile, visto che sono le donne a recepire e proclamare per prime la fede nella risurrezione di Gesù? E il giorno antecedente la passione, non è forse anch’esso segnato da un gesto femminile, l’unzione profetica di Gesù a Betania? E il venerdì santo, quando i discepoli fuggono tutti e restano nascosti mentre solo le donne accompagnano Gesù fino alla sepoltura? Perché mai allora il sabato santo sarebbe “donna”, quando le donne quel giorno fecero shabbat come gli uomini, senza fare nulla per osservanza della legge? Le donne non hanno nessuna “specialità” riservata nel vangelo: come gli uomini, insieme a loro sono chiamate alla stessa sequela, alla stessa beatitudine dell’ascolto, con la stessa disponibilità rinnegare se stessi, abbracciare la croce e portarla.                    Pubblicato su Jesus

www.monasterodibose.it/priore/articoli/articoli-su-riviste/10446-il-genio-non-ha-genere

 

“Lo Stato faccia le sue scelte Ma noi difendiamo la famiglia”

Parla il cardinale Gianfranco Ravasi. «Si sta smarrendo il valore della famiglia tradizionale». Il commento Oltretevere sulla legge che di fatto regolamenta le Unioni Civili spetta al cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura del Vaticano. Modi pacati e tono conciliante. Quando si tocca il tema del riconoscimento di molti dei diritti da sempre ad appannaggio di coppie eterosessuali, il cardinal Ravasi misura le parole. Ci pensa. Seleziona con minuzia i termini da utilizzare, per niente forti.

            Cardinal Ravasi il Vaticano ha da sempre seguito con particolare interesse le dinamiche dello Stato italiano. Oggi le Unioni Civili sono legge, qual è il suo commento a proposito?

«Noi vorremmo sempre di più che ci si impegnasse per quanto riguarda la famiglia tradizionale in tutte le sue ricchezze e capacità».

            La possibilità di creare nuovi nuclei famigliari, che non sono più solo composti da un uomo e una donna, ma da persone dello stesso sesso, la vede come una minaccia?

«Non uso mai queste espressioni di minaccia o meno. Riconosco la molteplicità delle visioni che ci sono all’interno della società italiana contemporanea. Ci sono molte visioni diverse, non c’è soltanto una visione come la nostra che è stata oramai formalizzata esplicitamente dal Sinodo dei vescovi. Non posso non constatare che nella società sono presenti convenzioni differenti. Non si possono ignorare le diversità».

Non se la sente di «scomunicare» questa legge?

«Riconosciamo che lo Stato italiano fa delle sue scelte che sono proprie. Noi oggi abbiamo un compito, dobbiamo ribadire con grande forza il rilievo che deve avere la famiglia nella sua tradizione, formulazione, presentazione che è ancora quella dominante».

La legge introduce per le persone omosessuali unite civilmente l’obbligo reciproco di assistenza morale e materiale e quello di contribuire ai bisogni comuni, garantisce di fatto la reversibilità della pensione ed equipara il partner dello stesso sesso al coniuge per il diritto di eredità.

«Sono scelte tipiche di uno Stato che fa queste opzioni sulla base di una visione particolare, propria di una comunità civile che ha tante espressioni diverse, diverse da quelle che noi possiamo rappresentare. Io credo che da oggi ci sarà da impegnarsi per quanto riguarda le politiche famigliari. E intendo la famiglia tradizionale».

Sembra di intuire che ci sia dello scontento a riguardo. Se potesse dare un voto all’operato del Governo e Parlamento italiano sul welfare e sulle politiche famigliari, quale sarebbe?

«Non spetta a me dare dei voti. Qualcosina è stato fatto, sicuramente andrebbe fatto molto di più e devo dire che anche su questo, e qui lancio un appello anche alla Chiesa, affinché s’impegni di più ad aiutare l’enorme numero di famiglie in difficoltà, con un occhio di interesse per i giovani che sono, all’interno del nucleo famigliare, il futuro e sono davanti senza grandi orizzonti di lavoro e culturali, perché la società attuale non è più cattiva, ma stanca, banale, superficiale, che non cerca di venire incontro anche ad alcune domande fondamentali, come anche lo sport».

Francesca Pizzolante                       Il tempo                     13 maggio 2016

www.iltempo.it/politica/2016/05/13/lo-stato-faccia-le-sue-scelte-ma-noi-difendiamo-la-famiglia-1.1538939

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CINQUE PER MILLE

Oltre 50 mila richieste per il 5 per mille 2016: online gli elenchi provvisori

Sono oltre 50 mila i potenziali beneficiari del 5 per mille 2016, con 300 iscritti in più rispetto allo scorso anno. Gli enti di volontariato, di ricerca e associazioni sportive dilettantistiche avranno tempo fino al 20 maggio 2016 per segnalare eventuali errori e richiedere le opportune correzioni.

L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato gli elenchi dei soggetti che hanno presentato domanda di iscrizione per accedere al beneficio del 5 per mille per l’esercizio finanziario 2016 (anno d’imposta 2015).

Gli elenchi riguardano:

– gli enti del Volontariato 41.087 richieste;

– gli enti della ricerca scientifica e dell’università con 408 richieste;

– gli enti della ricerca sanitaria con 108 richieste;

– le associazioni sportive dilettantistiche (ASD) con 8.636 richieste.

Fino al 20 maggio 2016 gli enti di volontariato e le associazioni sportive dilettantistiche avranno la possibilità richiedere all’Agenzia delle Entrate la correzione di eventuali errori. Il termine successivo è quello 30 giugno 2016, entro cui gli enti di volontariato e le ASD devono trasmettere, rispettivamente alla Direzione dell’Agenzia delle Entrate e all’ufficio del Coni competenti per territorio, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà sottoscritta dal legale rappresentante, che attesti il possesso dei requisiti per l’iscrizione negli elenchi.

 Infine, il 30 settembre è l’ultimo giorno utile a disposizione dei ritardatari per inviare la domanda di iscrizione e provvedere a integrazioni documentali, versando contestualmente una sanzione pari a 250 euro utilizzando il modello F24 con il codice tributo 8115.

Anche quest’anno, potranno richiedere di essere ammessi gli enti “ritardatari” che presenteranno le domande di iscrizione e le successive integrazioni documentali entro il 30 settembre 2016. Per la regolarizzazione i richiedenti dovranno versare una sanzione di 258 euro utilizzando il modello F24 (codice tributo 8115).

A cura della Redazione                     IPSOA                        14 maggio 2016

www.ipsoa.it/documents/fisco/dichiarazioni-fiscali/quotidiano/2016/05/14/5-per-mille-2016-online-gli-elenchi-provvisori?utm_source=nl_ipsoa&utm_medium=referral&utm_content=ipsoa%20quotidiano&utm_campaign=newsletter&TK=NL&iduser=144450

Due per mille per il non profit culturale.

All’elenco da quest’anno, dopo gli ormai tradizionali 8 e 5 per mille e all’altro 2 per mille, quello ai partiti, si aggiunge il 2 per mille da devolvere alle realtà non profit impegnate a diverso titolo nella valorizzazione e nella promozione della cultura. Un vademecum in 10 domande

/www.vita.it/it/article/2016/05/11/tempo-di-dichiarazione-dei-redditi-ma-cose-il-2-per-mille-per-il-non-p/139352/

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Cremona. Corso prenatale giugno/luglio 2016.

http://www.ucipemcremona.it

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DALLA NAVATA

Pentecoste – anno C -15 maggio 2016.

Atti                 ..02, 04 «e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.»

Salmo              104, 30 «Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.»

Romani             21, 14 «Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.»

Giovanni           14, 26 «Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.»

 

Omelia del santo padre Francesco.

Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18).

La missione di Gesù, culminata nel dono dello Spirito Santo, aveva questo scopo essenziale: riallacciare la nostra relazione con il Padre, rovinata dal peccato; toglierci dalla condizione di orfani e restituirci a quella di figli. L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, dice: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,14-15). Ecco la relazione riallacciata: la paternità di Dio si riattiva in noi grazie all’opera redentrice di Cristo e al dono dello Spirito Santo.

Lo Spirito è dato dal Padre e ci conduce al Padre. Tutta l’opera della salvezza è un’opera di ri-generazione, nella quale la paternità di Dio, mediante il dono del Figlio e dello Spirito, ci libera dall’orfanezza in cui siamo caduti. Anche nel nostro tempo si riscontrano diversi segni di questa nostra condizione di orfani: quella solitudine interiore che sentiamo anche in mezzo alla folla e che a volte può diventare tristezza esistenziale; quella presunta autonomia da Dio, che si accompagna ad una certa nostalgia della sua vicinanza; quel diffuso analfabetismo spirituale per cui ci ritroviamo incapaci di pregare; quella difficoltà a sentire vera e reale la vita eterna, come pienezza di comunione che germoglia qui e sboccia oltre la morte; quella fatica a riconoscere l’altro come fratello, in quanto figlio dello stesso Padre; e altri segni simili.

A tutto questo si oppone la condizione di figli, che è la nostra vocazione originaria, è ciò per cui siamo fatti, il nostro più profondo “DNA”, che però è stato rovinato e per essere ripristinato ha richiesto il sacrificio del Figlio Unigenito. Dall’immenso dono d’amore che è la morte di Gesù sulla croce, è scaturita per tutta l’umanità, come un’immensa cascata di grazia, l’effusione dello Spirito Santo. Chi si immerge con fede in questo mistero di rigenerazione rinasce alla pienezza della vita filiale.

«Non vi lascerò orfani». Oggi, festa di Pentecoste, queste parole di Gesù ci fanno pensare anche alla presenza materna di Maria nel Cenacolo. La Madre di Gesù è in mezzo alla comunità dei discepoli radunata in preghiera: è memoria vivente del Figlio e invocazione vivente dello Spirito Santo. E’ la Madre della Chiesa. Alla sua intercessione affidiamo in modo particolare tutti i cristiani, le famiglie e le comunità che in questo momento hanno più bisogno della forza dello Spirito Paraclito, Difensore e Consolatore, Spirito di verità, di libertà e di pace.

Lo Spirito, come afferma ancora san Paolo, fa sì che noi apparteniamo a Cristo: «Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene» (Rm 8,9). E consolidando la nostra relazione di appartenenza al Signore Gesù, lo Spirito ci fa entrare in una nuova dinamica di fraternità. Mediante il Fratello universale, che è Gesù, possiamo relazionarci agli altri in modo nuovo, non più come orfani, ma come figli dello stesso Padre buono e misericordioso. E questo cambia tutto! Possiamo guardarci come fratelli, e le nostre differenze non fanno che moltiplicare la gioia e la meraviglia di appartenere a quest’unica paternità e fraternità.

 http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2016/documents/papa-francesco_20160515_omelia-pentecoste.html

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DIVORZIO

Addio alla reversibilità per la ex che aveva rinunciato all’assegno mensile.

Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 9054, 6 maggio 2016.

La Cassazione afferma che l’accettazione del diritto di abitazione al posto del contributo esclude ogni altra pretesa dell’ex coniuge. Se l’ex moglie ottiene l’assegno divorzile in unica soluzione non ha diritto alla pensione di reversibilità del coniuge. Deve ritenersi, infatti, che la regolazione “una tantum” permessa dall’art. 5, comma 8, della legge n. 898/1970 faccia estinguere qualsiasi altra pretesa di contenuto patrimoniale in capo al beneficiario nei confronti dell’altro coniuge. Ad affermarlo è la Cassazione, rigettando la domanda di una donna nei confronti dell’Inps per la pensione di reversibilità dell’ex marito.

            Nella vicenda, la donna aveva rinunciato, in sede di divorzio, all’assegno di mantenimento (previsto invece in sede di separazione) ottenendo in cambio il diritto di abitare nella casa di proprietà del de cuius e il comodato sui mobili. Per la Corte d’Appello, i vantaggi ottenuti dalla donna avrebbero avuto una funzione alternativa rispetto all’assegno divorzile e quindi era da ritenersi sussistente il presupposto per il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità.

            Ma gli Ermellini non la pensano così, giacché considerato che le pretese economiche dell’ex moglie erano state soddisfatte in un’unica soluzione, riconoscere anche la pensione di reversibilità del de cuius avrebbe significato realizzare una condizione migliore di quella vissuta quando l’ex marito era in vita, visto che all’epoca non godeva dell’assegno periodico, l’unico che è titolo per dare diritto alla pensione.

            Tuttavia, prendendo atto del contrasto esistente in materia tra i giudici di legittimità, le spese sono state integralmente compensate.

Marina Crisafi Newsletter    Giuridica       StudioCataldi.it          09 maggio 2016

                        www.studiocataldi.it/articoli/21991-divorzio-addio-alla-reversibilita-per-la-ex-che-aveva-rinunciato-all-assegno-mensile.asp

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EMBRIONI

Gli embrioni umani e i limiti della ricerca. Non è scienza ma convenzione.

Gli embrioni prodotti con le tecnologie riproduttive vengono generalmente trasferiti nel corpo materno al massimo dopo sette giorni. Raramente si è giunti fino a nove giorni. Alcuni ricercatori statunitensi e inglesi hanno provato che l’embrione umano può continuare a vivere autonomamente in provetta, fuori dall’utero materno, fino al tredicesimo giorno dalla fecondazione. L’esperimento si è fermato per rispettare la “regola del quattordicesimo giorno”, riconosciuta come limite legislativo alla sperimentazione su embrioni umani nei Paesi in cui operano i ricercatori.

Emerge l’interrogativo: è lecito posticipare questo limite per il progresso della ricerca? Ritorna la nota questione dello statuto dell’embrione umano, discussa da decenni in bioetica. Ritorna la domanda della scienza e della tecnologia di andare “oltre”, perché ogni limite è percepito come un ostacolo alla ricerca scientifica.

Non è facile fornire una risposta che possa sintetizzare anni di discussione. Ma forse può essere d’aiuto porsi un’altra domanda: perché è stato fissato il limite del quattordicesimo giorno?

Alcuni si riferiscono, con un argomento sofisticato, alla totipotenzialità delle cellule per negare l’individualità dell’embrione (le cellule totipotenti, potendo diventare due individui, sono divisibili, e dunque negano la individualità o in-divisibilità dell’embrione); altri si richiamano alla formazione della stria primitiva, pre-condizione della formazione cerebrale e della futura razionalità; altri rimandano alla differenziazione tra cellule embrionali e cellule che formeranno tessuti extraembrionali. Quando ci sono tante spiegazioni, emerge un sospetto: che la spiegazione non abbia un valore a priori, ma possa essere funzionale a posteriori alle esigenze della scienza.

Del resto, è facile trovare nella discussione bioetica anche altre ragioni per motivare altre soglie biologiche ritenute razionalmente rilevanti: la diciottesima settimana, la formazione del sistema nervoso centrale; la ventiduesima settimana, la formazione della corteccia cerebrale; la nascita, l’autonomia dal corpo materno; dopo la nascita, l’acquisizione dell’autonomia del bambino.

Di ragioni per fissare soglie rilevanti se ne possono trovare tante. Ma tutte cercano, appunto, ragioni di soglie più o meno importanti che sono tappe di una sviluppo che è continuo. È banale osservare che il quattordicesimo giorno identifica un momento temporale che presuppone fasi cronologicamente antecedenti: tempi e fasi che, se non ci fossero, non renderebbero possibile il raggiungimento di quel limite.

E allora è evidente, senza tante argomentazioni, che ogni soglia è una tappa indispensabile per lo sviluppo ulteriore; nessuna più o meno delle altre. La tappa determinante è identificabile non durante lo sviluppo, ma all’origine dello sviluppo, con la fecondazione. Il Rapporto Warnock nel 1989 riconosceva che la scelta del quattordicesimo giorno (fatta propria dalla legge inglese l’anno successivo) fosse convenzionale nell’ambito dello sviluppo ininterrotto dell’embrione.

Ma, forse, il limite del quattordicesimo giorno è stato accolto da alcuni paesi, come compromesso nel dibattito pluralistico, perché alla scienza non serviva andare oltre. I recenti esperimenti stanno rimettendo in moto discussioni, peraltro mai sopite, per una rinegoziazione dei limiti, oltre il quattordicesimo giorno.

Dobbiamo allora tornare a riflettere sulla domanda di fondo: possiamo usare per un fine condiviso (l’avanzamento delle conoscenze), embrioni umani, quale che sia la soglia, come mezzi? Nel formulare la risposta dobbiamo ricordare, bioeticamente, che quelle vite sono cavie del progresso: possono essere donate da chi le ha tecnologicamente prodotte alla ricerca, ma senza potere esprimere il loro consenso. E dobbiamo ricordare dal punto di vista giuridico che si è consolidato normativamente a livello internazionale il principio del primato dell’interesse dell’uomo sull’interesse della sola ricerca scientifica. Questi esperimenti ci mettono di fronte a una situazione che, per certi aspetti, sembra paradossale: non si impiantano alcuni embrioni, destinandoli alla morte, per studiare meglio i meccanismi dell’impianto di futuri embrioni.

Laura Palazzani, dal 1999 è Professore ordinario di filosofia del diritto. Attualmente insegna presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUMSA biogiuridica e filosofia del diritto. È membro del Comitato Nazionale per la Bioetica dal 2002, Vicepresidente dal 2008. E’ membro del Comitato internazionale di Bioetica dell’Unesco (dal 2016).

            L’osservatore romano                                  9 maggio 2016

www.osservatoreromano.va/it/news/non-e-scienza-ma-convenzione

 

Donazione ovuli. Morresi: tracciabilità per evitare business.

Tracciabilità e ospedali pubblici contro il business legato alla donazione degli ovuli. L’arresto del dott. Antinori, l’ingegnere della fecondazione assistita in Italia, che avrebbe espiantato ovuli ad una donna senza il suo consenso, ripropone la delicata questione del mercato degli ovuli, un business che esiste nonostante la legge in Italia preveda la donazione gratuita dei gameti come per quella di cellule e tessuti.

L’opinione di Assuntina Morresi, docente all’Università di Perugia e componente del Comitato Nazionale per la bioetica: Il mercato degli ovociti è stato denunciato da sempre ed è stato, a mio avviso, sottovalutato. Non ci sono quantità enormi dal punto di vista numerico di donne disposte a donare i propri ovociti. Forse, è più semplice trovare donne che già si sottopongono a fecondazione assistita, che nel caso in cui ci siano ovociti che “avanzano” – quindi non utilizzati – sono disposte a donarli quando pensano di non avere più figli. Va riconosciuto innanzitutto con lealtà che donare gli ovociti non è come donare il sangue, perché si trasmette il proprio patrimonio genetico. A maggior ragione, va trattata con attenzione rispetto alle altre donazioni. Intorno a questo business, c’è un mercato e questo lo vediamo dal fatto che la fecondazione eterologa è molto praticata nei Paesi in cui le cosiddette indennità, cioè le forme di pagamento mascherate, sono più ingenti. Non è una caso che vadano tutti in Spagna e non in Francia. In Spagna, c’è la cosiddetta “indennità”, sufficientemente elevata tale da renderla appetibile per chi è in difficoltà economiche. In Francia, dove c’è una legislazione esattamente come in Italia, questo affollamento di richieste non c’è. Mettendo da parte tutte le problematiche etiche della fecondazione eterologa, già vediamo che laddove ci sono indicazioni solo strettamente mediche e vengono rispettate, non c’è mercato, non c’è business, l’eterologa è veramente gratuita e chiaramente ci sono liste d’attesa così come ce ne sono per il trapianto di rene. Certo è che le liste d’attesa per il trapianto di rene sarebbero meno lunghe se si potessero pagare i donatori.

È un problema quindi di regolamentazione?

R. – Dovremmo stare attenti alla tracciabilità: dobbiamo sapere da dove vengono i gameti. C’è una specie di tratta di donne. Per evitare il mercato è importante che tutto venga possibilmente fatto all’interno di strutture pubbliche, perché nel pubblico è più semplice, è più facile effettuare quei controlli che garantiscano che non ci sia un mercato. La legislazione italiana è molto garantista, è molto buona, perché prevede la donazione totale gratuita. Immaginiamo come sarebbe se si pagasse, per esempio, il midollo con cui si fanno i trapianti per le leucemie: forse ce ne sarebbero di più. Alla stessa maniera, va rafforzato ancora di più ciò che già è presente nella legislazione, cioè la totale gratuità. Noi dobbiamo entrare nel merito della governance di questi processi.

La fecondazione eterologa non decolla negli ospedali.

R. – Il motivo per cui il Ministero non ha ancora fatto campagne – sembra non avviata – è perché nel momento in cui c’è stata la sentenza si è detto in maniera impropria che si poteva partire. Noi non avevamo mai recepito la parte delle normative europee che prevedevano la donazione di gameti da persona diversa dal partner, cioè la donazione per fecondazione eterologa. Quando è uscita la sentenza, il Ministero ha aggiornato le linee guida, ma tutta la selezione del donatore – quindi gli esami cui si deve sottoporre un donatore, un donatore italiano – sono contenuti in queste direttive che sono in corso di recepimento. Quando questo iter sarà concluso, il giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta, il Ministero potrà partire subito con le campagne di donazione e ci sarà la fecondazione assistita nei Lea (i “Livelli essenziali di assistenza”). Tutto questo recepimento, però, non cambia il fatto che la donazione dei gameti è gratuita, perché in Italia tutte le donazioni di organi, cellule e tessuti sono gratuite.

Come prevenire questi casi?

R. – Tutte le volte che c’è la fecondazione eterologa, io devo avere un percorso dei gameti chiaro, tracciabile, da un centro autorizzato a un altro centro autorizzato. Poi, bisogna vegliare che non ci siano truffe e culturalmente bisogna lavorare perché ci sia sempre la donazione gratuita di parti del corpo umano e non si sceglie, non siamo al mercato dove si sceglie la pera più bella.

Valentina Onori Notiziario Radio vaticana -15 maggio 2016        http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Discorso All’unione Internazionale Superiore Generali (UISG)                estratto

Prima domanda. Per un migliore inserimento delle donne nella vita della Chiesa.

Papa Francesco, Lei ha detto che “il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita della Chiesa e della società”, e tuttavia le donne sono escluse dai processi decisionali nella Chiesa, soprattutto ai più alti livelli, e dalla predicazione nell’Eucaristia. Un importante impedimento all’abbraccio pieno della Chiesa del “genio femminile” è il legame che sia i processi decisionali che la predicazione hanno con l’ordinazione sacerdotale. Lei vede un modo per separare dall’ordinazione sia i ruoli di leadership che la predicazione all’Eucaristia, in modo che la nostra Chiesa possa essere più aperta a ricevere il genio delle donne, in un futuro molto prossimo?

Papa Francesco. Sono varie cose qui che dobbiamo distinguere. La domanda è legata alla funzionalità, è legata molto alla funzionalità, mentre il ruolo della donna va oltre. Ma io adesso rispondo alla domanda, poi parliamo… Ho visto che ci sono altre domande che vanno oltre.

E’ vero che le donne sono escluse dai processi decisionali nella Chiesa: escluse no, ma è molto debole l’inserimento delle donne lì, nei processi decisionali. Dobbiamo andare avanti. Per esempio – davvero io non vedo difficoltà – credo che nel Pontificio Consiglio Giustizia e Pace che porta avanti la segreteria sia una donna, una religiosa. E’ stata proposta un’altra e io l’ho nominata, ma lei ha preferito di no, perché doveva andare da un’altra parte a fare altri lavori della sua Congregazione. Si deve andare oltre, perché per tanti aspetti dei processi decisionali non è necessaria l’ordinazione. Non è necessaria. Nella riforma della Cost. ap. Pastor Bonus, a proposito dei Dicasteri, quando non c’è la giurisdizione che viene dall’ordinazione – cioè la giurisdizionale pastorale – non si vede scritto che può essere una donna, non so se capo dicastero, ma… Per esempio per i migranti: al dicastero per i migranti una donna potrebbe andare. E quando c’è necessità – adesso che i migranti entrano in un dicastero – della giurisdizione, sarà il Prefetto a dare questo permesso. Ma nell’ordinario può andare, nell’esecuzione del processo decisionale. Per me è molto importante l’elaborazione delle decisioni: non soltanto l’esecuzione, ma anche l’elaborazione, e cioè che le donne, sia consacrate sia laiche, entrino nella riflessione del processo e nella discussione. Perché la donna guarda la vita con occhi propri e noi uomini non possiamo guardarla così. E’ il modo di vedere un problema, di vedere qualsiasi cosa, in una donna è diverso rispetto a quello che è per l’uomo. Devono essere complementari, e nelle consultazioni è importante che ci siano le donne.

Io ho avuto l’esperienza a Buenos Aires di un problema: vedendolo con il Consiglio presbiterale – quindi tutti uomini – era ben trattato; poi, il vederlo con un gruppo di donne religiose e laiche ha arricchito tanto, tanto, e favorito la decisione con una visione complementare. E’ necessario, è necessario questo! E penso che dobbiamo andare avanti, su questo poi il processo decisionale vedrà.

C’è poi il problema della predicazione nella Celebrazione Eucaristica. Non c’è alcun problema che una donna – una religiosa o una laica – faccia la predica in un Liturgia della Parola. Non c’è problema. Ma nella Celebrazione Eucaristica c’è un problema liturgico-dogmatico, perché la celebrazione è una – la Liturgia della Parola e la Liturgia Eucaristica, è un’unità – e Colui che la presiede è Gesù Cristo. Il sacerdote o il vescovo che presiede lo fa nella persona di Gesù Cristo. E’ una realtà teologico-liturgica. In quella situazione, non essendoci l’ordinazione delle donne, non possono presiedere. Ma si può studiare di più e spiegare di più questo che molto velocemente e un po’ semplicemente ho detto adesso.

Invece nella leadership non c’è problema: in quello dobbiamo andare avanti, con prudenza, ma cercando le soluzioni… Ci sono due tentazioni qui, dalle quali dobbiamo guardarci.

La prima è il femminismo: il ruolo della donna nella Chiesa non è femminismo, è diritto! E’ un diritto di battezzata con i carismi e i doni che lo Spirito ha dato. Non bisogna cadere nel femminismo, perché questo ridurrebbe l’importanza di una donna. Io non vedo, in questo momento, un grande pericolo riguardo a questo tra le religiose. Non lo vedo. Forse una volta, ma non in genere non c’è.

L’altro pericolo, che è una tentazione molto forte e ne ho parlato parecchie volte, è il clericalismo. E questo è molto forte. Pensiamo che oggi più del 60% delle parrocchie – delle diocesi non so, ma solo un po’ meno – non hanno il consiglio per gli affari economici e il consiglio pastorale. Questo cosa vuol dire? Che quella parrocchia e quella diocesi è guidata con uno spirito clericale, soltanto dal prete, che non attua quella sinodalità parrocchiale, quella sinodalità diocesana, che non è una novità di questo Papa. No! E’ nel Diritto Canonico, è un obbligo che ha il parroco di avere il consiglio dei laici, per e con laici, laiche e religiose per la pastorale e per gli affari economici. E questo non lo fanno. E questo è il pericolo del clericalismo oggi nella Chiesa. Dobbiamo andare avanti e togliere questo pericolo, perché il sacerdote è un servitore della comunità, il vescovo è un servitore della comunità, ma non è il capo di una ditta. No! Questo è importante. In America Latina, per esempio, il clericalismo è molto forte, molto marcato. I laici non sanno che cosa fare, se non domandano al prete. E’ molto forte. E per questo la consapevolezza del ruolo dei laici in America Latina è molto in ritardo. Si è salvato un po’ di questo solo nella pietà popolare: perché il protagonista è il popolo e il popolo ha fatto le cose come venivano; e ai preti quell’aspetto non interessava tanto, e qualcuno non vedeva di buon occhio questo fenomeno della pietà popolare. Ma il clericalismo è un atteggiamento negativo. Ed è complice, perché si fa in due, come il Tango che si balla in due. Cioè: il sacerdote che vuole clericalizzare il laico, la laica, il religioso e la religiosa, il laico che chiede per favore di essere clericalizzato, perché è più comodo. E’ curioso questo. Io, a Buenos Aires, ho avuto questa esperienza tre o quattro volte: un parroco bravo, che viene e mi dice “Sa, io ho un laico bravissimo in parrocchia: fa questo, fa questo, sa organizzare, si dà da fare, è davvero un uomo di valore. Lo facciamo diacono?”. Cioè: lo “clericalizziamo?”. “No! Lascia che rimanga laico. Non farlo diacono”. Questo è importante. A voi succede questo, che il clericalismo tante volte vi frena nello sviluppo lecito della cosa.

Io chiederò – e forse alla Presidente lo farò arrivare – alla Congregazione per il Culto che spieghi bene, in modo approfondito, quello che ho detto un po’ leggermente sulla predicazione nella Celebrazione Eucaristica. Perché non ho la teologia e la chiarezza sufficiente per spiegarlo adesso. Ma bisogna distinguere bene: una cosa è la predicazione in una Liturgia della Parola, e questo si può fare; altra cosa è la Celebrazione eucaristica, qui c’è un altro mistero. E’ il Mistero di Cristo presente e il sacerdote o il vescovo che celebrano in persona Christi.

Per la leadership è chiaro… Sì credo che questa possa essere la mia risposta in generale alla prima domanda. Vediamo la seconda. 

Seconda domanda. Il ruolo delle donne consacrate nella Chiesa. Le donne consacrate lavorano già tanto con i poveri e con gli emarginati, insegnano la catechesi, accompagnano i malati e i moribondi, distribuiscono la comunione, in molti Paesi guidano le preghiere comuni in assenza di sacerdoti e in quelle circostanze pronunciano l’omelia. Nella Chiesa c’è l’ufficio del diaconato permanente, ma è aperto solo agli uomini, sposati e non. Cosa impedisce alla Chiesa di includere le donne tra i diaconi permanenti, proprio come è successo nella Chiesa primitiva? Perché non costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione? Ci può fare qualche esempio di dove Lei vede la possibilità di un migliore inserimento delle donne e delle donne consacrate nella vita della Chiesa?

Papa Francesco. Questa domanda va nel senso del “fare”: le donne consacrate lavorano già tanto con i poveri, fanno tante cose… nel “fare”. E tocca il problema del diaconato permanente. Qualcuno potrà dire che le “diaconesse permanenti” nella vita della Chiesa sono le suocere [ride, ridono]. In effetti questo c’è nell’antichità: c’era un inizio… Io ricordo che era un tema che mi interessava abbastanza quando venivo a Roma per le riunioni, e alloggiavo alla Domus Paolo VI; lì c’era un teologo siriano, bravo, che ha fatto l’edizione critica e la traduzione degli Inni di Efrem il Siro. E un giorno gli ho domandato su questo, e lui mi ha spiegato che nei primi tempi della Chiesa c’erano alcune “diaconesse”. Ma che cosa sono queste diaconesse? Avevano l’ordinazione o no? Ne parla il Concilio di Calcedonia (451), ma è un po’ oscuro. Qual era il ruolo delle diaconesse in quei tempi? Sembra – mi diceva quell’uomo, che è morto, era un bravo professore, saggio, erudito – sembra che il ruolo delle diaconesse fosse per aiutare nel battesimo delle donne, l’immersione, le battezzavano loro, per il decoro, anche per fare le unzioni sul corpo delle donne, nel battesimo. E anche una cosa curiosa: quando c’era un giudizio matrimoniale perché il marito picchiava la moglie e questa andava dal vescovo a lamentarsi, le diaconesse erano le incaricate di vedere i lividi lasciati sul corpo della donna dalle percosse del marito e informare il vescovo. Questo, ricordo. Ci sono alcune pubblicazioni sul diaconato nella Chiesa, ma non è chiaro come fosse stato. Credo che chiederò alla Congregazione per la Dottrina della Fede che mi riferiscano circa gli studi su questo tema, perché io vi ho risposto soltanto in base a quello che avevo sentito da questo sacerdote che era un ricercatore erudito e valido, sul diaconato permanente. E inoltre vorrei costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione: credo che farà bene alla Chiesa chiarire questo punto; sono d’accordo, e parlerò per fare una cosa di questo genere.

Poi dite: “Siamo d’accordo con lei, Santo Padre, che ha più volte riportato la necessità di un ruolo più incisivo delle donne nelle posizioni decisionali nella Chiesa”. Questo è chiaro. “Ci può fare qualche esempio di dove Lei vede la possibilità di un migliore inserimento delle donne e delle donne consacrate nella vita della Chiesa?”. Dirò una cosa che viene dopo, perché ho visto che c’è una domanda generale. Nelle consultazioni della Congregazione per i religiosi, nelle assemblee, le consacrate devono andare: questo è sicuro. Nelle consultazioni sui tanti problemi che vengono presentati, le consacrate devono andare. Un’altra cosa: un migliore inserimento. Al momento non mi vengono in mente cose concrete, ma sempre quello che ho detto prima: cercare il giudizio della donna consacrata, perché la donna vede le cose con una originalità diversa da quella degli uomini, e questo arricchisce: sia nella consultazione, sia nella decisione, sia nella concretezza.

Questi lavori che voi fate con i poveri, gli emarginati, insegnare la catechesi, accompagnare i malati e i moribondi, sono lavori molto “materni”, dove la maternità della Chiesa si può esprimere di più. Ma ci sono uomini che fanno lo stesso, e bene: consacrati, ordini ospedalieri… E questo è importante.

Dunque, sul diaconato, sì, accetto e mi sembra utile una commissione che chiarisca bene questo, soprattutto riguardo ai primi tempi della Chiesa.

Riguardo a un migliore inserimento, ripeto quello che ho detto prima. Se c’è qualcosa da concretizzare, domandatelo adesso: su questo che ho detto, c’è qualche domanda in più, che mi aiuti a pensare? Avanti…(…)

Città del Vaticano – Aula Paolo Vi  12 maggio 2016

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/may/documents/papa-francesco_20160512_uisg.html

 

Le conseguenze della scelta di Francesco.

Una risposta franca nel corso di un’udienza papale non ha certo l’autorevolezza di un pronunciamento magisteriale, ma le parole che papa Francesco ha rivolto ieri a ottocento superiore religiose testimoniano che di fronte alle sfide pastorali che l’annuncio del Vangelo pone oggi alla chiesa è importante che anche sul tema del diaconato femminile non solo rimanga aperto uno spazio, ma ci si orienti ad affrontare la questione nel merito. Da sempre il ruolo e le funzioni del diaconato all’interno della chiesa e la conseguente discussione sulla possibilità o meno dell’accesso ad esso da parte di tutti i battezzati – e quindi anche delle donne – sono segnate dalla non univoca e definita posizione della chiesa primitiva. Vi erano diaconesse nella chiesa antica in oriente fino al IV secolo – e lo testimoniano i padri fino a Giovanni Crisostomo – che insieme ai diaconi collaboravano con il vescovo e i presbiteri: avevano la responsabilità caritativa di provvedere alle necessità materiali dei poveri, ma avevano anche una funzione liturgica di assistenza nell’amministrazione del battesimo e nella catechesi. Tuttavia non c’è accordo tra gli storici se la “ordinazione” fosse sacramentale o solo funzionale. La progressiva separazione tra momento assembleare cultuale e dimensione conviviale caritativa assunta dalle celebrazioni liturgiche ha favorito anche una maggior differenziazione di ruoli e funzioni così che la “diaconia” è passata a indicare quasi esclusivamente il servizio reso ai poveri e ai malati nella vita quotidiana.

            È per lo meno dagli anni del concilio che la riflessione di storici, teologi e liturgisti affronta questo argomento scavando nella tradizione della chiesa primitiva e la commissione di studio auspicata ieri dal papa potrà certo avvalersi di opere articolate provenienti da studiosi delle diverse confessioni cristiane, stimolate dall’introduzione del diaconato permanente per gli uomini sposati nella chiesa cattolica e dall’apertura del presbiterato, e poi dell’episcopato, alle donne nella chiese nate dalla riforma protestante. Se l’argomento ritorna però di attualità non è sotto la spinta di mode culturali o di adeguamento a una mentalità mondana, bensì in virtù di una sollecitudine pastorale: il vangelo per essere annunciato in tutta la sua freschezza e radicalità deve avvalersi di linguaggio e stili comprensibili agli uomini e alle donne di oggi e queste ultime devono trovare nella vita della chiesa luoghi di presenza non afona ma con l’esercizio di responsabilità che possono competere a tutti i battezzati.

            Oggi le diaconesse non esistono più né nelle chiese ortodosse – che discutono se riproporre questo ministero – né nella chiesa cattolica, ma solo in alcune chiese della riforma. E se ci sono donne impegnate in un servizio ecclesiale – come le collaboratrici apostoliche diocesane – queste lo sono come da sempre le religiose e le appartenenti agli istituti secolari. Ogni volta che si torna giustamente a parlare del ruolo delle donne nella chiesa ci si dovrebbe anche interrogare su quale potrebbe essere il percorso di riflessione più fecondo di conseguenze pratiche: considerare analogie e differenze tra presbiteri e suore, che vivono il celibato cristiano, oppure quelle tra sacerdozio universale – conferito a tutti i battezzati, uomini e donne – e ministero ordinato. Il problema da studiare per un discernimento sul diaconato femminile è allora quello della sua compatibilità o meno con l’attuale comprensione dell’ordine sacerdotale riservato agli uomini secondo tutta la tradizione cattolica.

Se consideriamo l’insieme delle risposte offerte ieri da papa Francesco alle religiose su argomenti che hanno spaziato dalla clericalizzazione alla distinzione tra servizio e servilismo, dalla presenza delle donne nei luoghi decisionali all’importanza dello sguardo femminile sulle questioni ecclesiali, possiamo essere certi che la sollecitudine pastorale di papa Francesco saprà dare un seguito concreto a questa apertura che, come sovente avviene nella storia, è un riabbeverarsi alle fonti del cristianesimo, alla chiesa indivisa.

Enzo Bianchi  La Stampa      13 maggio 2016

http://www.lastampa.it/2016/05/13/vaticaninsider/ita/commenti/donne-diacono-le-conseguenze-della-scelta-di-francesco-vxMDrzySFD1hdqUUgcNeML/pagina.html

 

Francesco non si farà intimidire.

Instancabile papa Francesco. Dopo essersi speso nel corso dei suoi primi tre anni di pontificato a favore di tematiche scomode come l’accoglienza “incondizionata” a profughi e migranti, e l’apertura a famiglie “ferite” (divorziati risposati, unioni civili e, persino, unioni gay), ora è la volta delle donne che, secondo quanto ha detto giovedì scorso alle suore dell’Uisg – l’organismo che raggruppa tutte le congregazioni religiose femminili – “nella Chiesa devono contare di più negli organismi decisionali”. E, per essere ancora più chiaro, ha toccato uno dei tasti più controversi e dibattuti nella chiesa cattolica, l’accesso delle donne al diaconato, il primo livello di consacrazione propedeutico al sacerdozio. Un ruolo di servizio nato nelle prime comunità cristiane, ma che nei secoli successivi è stato accantonato a causa di scelte eccessivamente maschiliste che hanno di fatto posto la presenza delle donne ai margini della stessa Chiesa.

Papa Francesco, evidentemente, non intende voltarsi dall’altra parte di fronte a un problema avvertito nella cattolicità da milioni e milioni di donne, pur essendo perfettamente consapevole che i primi duri no gli arriveranno proprio all’interno della Chiesa da parte delle correnti ecclesiali più tradizionaliste e conservatrici, presenti sia in Curia che nel Collegio Cardinalizio. I primi concreti segnali in tal senso sono già emersi subito dopo l’audace discorso in cui Bergoglio ha annunciato l’intenzione di voler istituire una commissione di studio ad hoc per verificare una eventuale fattibilità della reintroduzione del diaconato femminile nella Chiesa cattolica. Un annuncio apparentemente semplice, forse anche scontato, in linea con quanto ha già fatto su altre tematiche scomode come il varo di commissioni di studio per le finanze vaticane, per le comunicazioni sociali e per la lotta alla pedofilia. Ma luogo -l’austerità dell’aula Paolo VI in Vaticano -, l’uditorio – le 800 delegate religiose impegnate a Roma al loro congresso internazionale – e la principale destinataria, la presidente dell’Uisg, suor Carmen Sammut, hanno fatto da detonatore alle parole del Papa, che in pochi attimi hanno fatto il giro del mondo e messo in fibrillazione favorevoli e contrari al diaconato femminile. Dentro e fuori il Vaticano non pochi ecclesiastici, tradizionali punte di icerberg delle componenti più conservatrici della Chiesa – hanno immediatamente espresso il loro disappunto, prefigurando scenari in un prossimo futuro nei quali papa Francesco avrebbe aperto d’autorità anche al sacerdozio femminile.

Scenari in gran parte esclusi dalle dirette interessate che, con la presidente Usig, suor Sammut – a scanso di equivoci – ha già prudentemente dichiarato a Repubblica che loro – le suore cattoliche – contrariamente a religiose di altre confessioni cristiane come le Chiese Luterane e Anglicane -, non puntano al sacerdozio e, tantomeno, al vescovado, ma “vogliamo semplicemente contare di più nella nostra Chiesa e il diaconato è certamente un primo passo importante”. Le parole della leader Uisg sono state precedute da non casuali “precisazioni” del portavoce papale, il gesuita padre Federico Lombardi, che – all’indomani dell’intervento di Bergoglio sul diaconato femminile – ha puntualizzato che il papa “non si è espresso a favore del sacerdozio femminile e, nemmeno, sul ripristino del diaconato per le donne”. Il papa – ha ricordato il portavoce pontificio – ha solo auspicato la istituzione di una commissione di studio sulla delicata materia, ma niente di più. Tutto il resto – la ferma conclusione di padre Lombardi – sono solo supposizioni arbitrarie. Sulla stessa lunghezza d’onda anche cardinali vicini allo stesso Bergoglio, come il tedesco Walter Kasper, e vescovi sensibili alla vicinanza a poveri ed immigrati voluta dal papa argentino come il vescovo di Campobasso, Giancarlo Maria Bregantini, ex prete operaio e presidente della Commissione lavoro e problemi sociali della Cei. Ecclesiastici notoriamente in perfetta sintonia con papa Francesco, ma ben consapevoli che sul diaconato femminile sarà dura, perché gli oppositori all’iniziativa dentro e fuori la Chiesa stanno già affilando le armi per far morire prima ancora di nascere la pianta da cui potrebbe rispuntare l’accesso delle donne al diaconato, con possibilità di battezzare, celebrare matrimoni e tenere omelie. Ma papa Francesco si farà intimidire?

Orazio La Rocca       Trentino                     15 maggio 2016

http://ricerca.gelocal.it/trentinocorrierealpi/archivio/trentinocorrierealpi/2016/05/15/trento-francesco-non-si-fara-intimidire-06.html

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GOVERNO

Nomina Presidente Commissione Adozioni Internazionali

Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 116, 10 maggio 2016    estratto

Conferimento di deleghe. Il Presidente Matteo Renzi ha informato il Consiglio dei ministri della sua intenzione di attribuire al Ministro Maria Elena Boschi, ad integrazione della sua attuale delega, quelle di indirizzo e coordinamento in materia di adozioni internazionali e di Presidente della Commissione per le adozioni internazionali, nonché in materia di pari opportunità. Il Consiglio dei ministri ha condiviso l’iniziativa.

www.governo.it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-116/4712

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PARLAMENTO

Senato Assemblea      Interrogazioni su misure a sostegno della famiglia e della natalità.

12 maggio 2016, seduta n. 626, pomeridiana. Svolgimento di interrogazioni a risposta immediata, del Ministro Costa su stato del contenzioso sulla legislazione regionale e su misure a sostegno della famiglia e della natalità.

estratti                 passim

Donatella Mattesini (PD). Signor Ministro, sostegno alle famiglie e natalità sono temi strettamente collegati. L’Italia è oggi in Europa il Paese a più bassa natalità e ciò – io credo – anche a fronte dei tagli che negli ultimi vent’anni tutti i Governi di centrodestra hanno compiuto su politiche sociali, scuola e servizi per l’infanzia, indebolendo così – fino a farle scomparire – le politiche per la famiglia. Il Governo Renzi, invece, ha invertito tale atteggiamento ed ha compiuto scelte significative, a partire dalle politiche di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare, la cui assenza troppo spesso ha costretto le donne e le coppie a scegliere tra maternità e lavoro. Cito, ad esempio, la valorizzazione della maternità, anche con riferimento all’accesso e al mantenimento del lavoro, e la cancellazione delle dimissioni in bianco. Altrettanto importante è l’estensione della maternità retribuita anche alle lavoratrici autonome, nonché l’estensione dei congedi parentali con il relativo aumento dei figli nell’età dai tre agli otto anni, passando al voucher per le baby sitter fino a 600 euro al mese e al mantenimento del bonus bebè. Altrettanto importanti sono il cospicuo finanziamento per l’apertura di nuovi nidi e il riconoscimento del nido come diritto e non più come servizio a domanda individuale. Altrettanto importanti sono i sostegni economici a partire dal sostegno alle giovani coppie per quanto riguarda l’acquisto della prima casa e il relativo arredo. Altrettanto importante è il ripristino del fondo per le politiche sociali, passate da zero euro agli attuali 1,5 miliardi con la legge di stabilità del 2016. Essenziale è il fondo contro le povertà, dedicato alle famiglie con figli a carico. Finisco – ma potrei ancora fare molti esempi – con l’inserimento nei livelli essenziali di assistenza della fecondazione assistita, perché sono ancora oggi troppe le coppie che desiderano figli, ma che non possono perché sterili. Nonostante le importanti scelte governative, permangono ancora grandi differenze tra Regione e Regione, le cui scelte, unitamente a quelle degli enti locali, determinano grandi disuguaglianze anche nelle politiche a sostegno della famiglia e della natalità. Sono pertanto a chiedere quali iniziative ella intenda adottare anche per favorire l’ulteriore integrazione delle importanti scelte ministeriali, e se non ritenga altresì utile promuovere, attraverso la Conferenza Stato-Regioni, un piano nazionale che sostenga, valorizzi e riconduca ad unitarietà le politiche nazionali, regionali e comunali in atto, al fine di superare le gravi diseguaglianze tra territori. (…)

Lucio Malan (FI-PdL XVII). Signor Presidente, signor Ministro, l’Italia è il Paese europeo a più bassa natalità; l’indice di natalità è tale da coprire appena la metà del numero dei morti che ci sono nel nostro Paese. In altre parole, o la nostra popolazione è destinata a decrescere fortemente oppure, come alcuni teorizzano, e come in ogni caso sta succedendo, si tratta di sostituire gli italiani con persone che vengono da fuori nei modi che ben sappiamo. Questo non è dovuto alla pigrizia degli italiani o alla sfortuna, ma al fatto che l’Italia ha uno dei regimi di tassazione nei confronti della famiglia peggiori al mondo o forse, secondo alcuni studi, il peggiore. Una famiglia che abbia un bambino riceve una detrazione, sempre che sia a reddito basso (altrimenti non riceve neppure quella) che neppure ripaga della maggiore IVA che si trova a pagare per le necessità di questo bambino. Vorrei dunque chiedere al Ministro che cosa concretamente intende fare il Governo, visto che nei primi due anni, ormai quasi due anni e mezzo di attività, per la famiglia ha ottenuto i risultati che ho descritto, oltre a spingere per tutte quelle leggi che tendono a disgregare la famiglia e a rendere più facile il divorzio che non il cambiamento di gestore telefonico. (…)

Nunzia Catalfo (M5S). Signor Presidente, signor Ministro, a seguito delle sentenze del Consiglio di Stato del 29 febbraio 2016, anziché porre in essere un immediato decreto d’urgenza per eliminare dal computo dell’ISEE le prestazioni legate alla disabilità, il Governo ha prodotto un emendamento che si rivela, ad avviso del Movimento 5 Stelle, un intervento tampone e inadeguato, che non rispetta appieno i dettami della sentenza, non diretto ad una riforma organica dell’indicatore e lesivo per talune categorie di disabili. Sono tre i nodi principali legati alla nuova configurazione dell’ISEE. In termini di calcolo della componente ISR dell’ISEE, viene eliminato con questo emendamento il precedente sistema di franchigia e viene inserito un sistema di calcolo fisso basato su un incremento di 0,5 alla scala di equivalenza ISEE. Questo fa sì che si favoriranno i nuclei familiari con redditi più alti a discapito di nuclei familiari a basso reddito, a cui invece si dovevano garantire maggiori tutele. Quindi l’emendamento non ripristina la normativa precedente e si rivela un boomerang non solo per le famiglie che hanno redditi minori, ma anche per i soggetti disabili gravi o non autosufficienti. Altro nodo fondamentale è quello legato al rimborso per le famiglie a cui sono state precluse agevolazioni legate all’utilizzo dell’ISEE, dichiarato illegittimo dalle sentenze. L’ultimo nodo sono le possibili conseguenze dell’erogazione delle prestazioni con questo nuovo indicatore e con la previsione di coperture non adeguate a coprire i costi aggiuntivi per gli enti. Le stesse amministrazioni per far fronte alle nuove spese moduleranno le soglie con un possibile aumento dei requisiti d’accesso, tant’è che all’interno del comma 3 avete inserito una dicitura del tipo: nel rispetto dei requisiti dei bilanci degli enti. Questo produrrà una disparità di trattamento tra i cittadini dei vari Comuni e delle varie Regioni. Si parla, inoltre, di sostegno alla famiglia. Noi abbiamo presentato diverse proposte, compresi il reddito di cittadinanza e il disegno di legge povertà, che sicuramente non riusciranno a sopperire alle esigenze. Chiedo cosa hanno intenzione di fare il Governo e il Ministro su queste tematiche. (…)

Fabiola Anitori (AP (NCD-UDC)). Signor Presidente, rivolgo una domanda secca al Ministro a cui chiedo come il Governo intende operare per rifinanziare il fondo per i servizi socio-educativi. (…)

Alessandra Bencini (Misto-Idv). Signor Presidente, signor Ministro, vi è stata negli ultimi anni una proliferazione incontrollata di slot machine e giocatori d’azzardo, con una diseconomia e un disagio sociale oltre il livello di tollerabilità. I costi sociali non ricadono esclusivamente sulla salute dei giocatori medesimi, ma sull’intero nucleo familiare di questi. Sono noti gli effetti che questa dipendenza produce: la ludopatia è una vera e propria malattia e non un fenomeno sociale, che può condurre a rovesci finanziari, alla compromissione dei rapporti sociali, alla distruzione del proprio habitat familiare, al divorzio, alla perdita del lavoro, allo sviluppo di dipendenza da droghe o da alcol, fino al suicidio. (…) Chiedo al Ministro come intende, nei limiti delle proprie attribuzioni, affrontare il problema del gioco d’azzardo, socialmente diffuso e praticato tramite macchinette, in termini di tutela della famiglia e quali sono le buone pratiche al fine di preservare la salute e l’economia delle famiglie, soprattutto alla luce della circolare dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli di cui sopra. (…)

Franco Panizza (Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE). Signor Presidente, signor Ministro, il Governo ha già sostenuto, tramite la pubblicazione di due specifici bandi, la sperimentazione su scala nazionale dello standard family audit. Si tratta di uno strumento di management aziendale che consente all’azienda di porre il tema della conciliazione famiglia e lavoro al centro delle politiche aziendali. A livello nazionale sono ad oggi quasi 200 le organizzazioni che hanno conseguito questa certificazione familiare aziendale che evidenzia la strategia aziendale di conciliazione famiglia e lavoro. Di queste aziende circa il 50% interessa il territorio della Provincia autonoma di Trento, mentre il restante 50% è distribuito su tutte le altre Regioni italiane. Preso atto dei benefici positivi che questo processo genera per l’azienda in termini di flessibilità aziendale, motivazione dei dipendenti, riduzione degli straordinari e riduzione dei permessi per malattia figli e preso ancora atto che questo tipo di politiche consente di sostenere l’occupazione femminile e, quindi, la natalità, nonché di sviluppare un moderno sistema di welfare aziendale, si richiede al Ministro, visti gli indubbi benefici che esso genera e la sensibilità dimostrata in questo campo dal Governo e dal Ministro stesso, se intende procedere nel processo di diffusione nazionale dello standard family audit, già avviato favorevolmente in questi ultimi tre anni e come intende coinvolgere le Regioni e con quali finanziamenti. Io credo sia davvero una politica importante. (…)

Lucio Barani (AL-A (MpA)). Signor Ministro, le dò alcuni numeri dell’ISTAT. Più di un italiano su quattro è a rischio povertà, è povero, nel senso che accusa la mancanza di risorse economiche adeguate che portano ad un accesso limitato ad ambiti sociali, come l’educazione, l’assistenza sanitaria, il lavoro, l’alloggio, la tecnologia, la vita politica e addirittura la vita sessuale. Sono proprio le famiglie numerose ad essere più vulnerabili e povere. Rispetto al 2013, il livello di povertà per le famiglie monogenitoriali è passata dal 41,7 per cento al 38,3 per cento; per gli anziani soli, dal 38 per cento al 32,2 per cento; per le coppie con un figlio solo il livello di povertà cala dal 24,3 per cento al 21,7 per cento; invece, per le famiglie con tre o più figli, il dato va crescendo in maniera esponenziale, dal 39,8 per cento al 43,7 per cento. I numeri sono drammatici, tanto che le persone sono costrette a rivolgersi agli enti caritativi per un pasto gratuito o un pacco alimentare, compresi i lavoratori separati con figli affidati alle madri, che sono i nuovi poveri. La crisi globale sta dunque portando le famiglie a fare meno figli. La domanda è cosa intenda fare il Governo per cercare di dare un sostegno a queste famiglie più numerose, soprattutto per incentivare le famiglie a fare figli e a non limitarli in base al reddito. (…)

Carlo Giovanardi (GAL)). Signor Ministro, del Piano nazionale per la famiglia, a suo tempo adottato dal Governo Berlusconi, si è persa ogni traccia. Nulla è stato portato avanti di quelle tematiche così dettagliatamente indicate. È stato smantellato totalmente il Dipartimento della famiglia e i funzionari sono stati dispersi in diversi uffici. La commissione per le adozioni internazionali ha visto un drammatico dimezzamento del numero dei bambini adottati e nessun colloquio con le famiglie accoglienti. Per fortuna sembra che, dopo due anni di una gestione totalmente illegittima, si sia provveduto a nominare un nuovo responsabile. Ma ahimè, la legge prevedeva che fosse il Ministro per la famiglia e invece, anche se non si capisce perché, al vertice della commissione è stato posto un altro Ministro, con delega alle pari opportunità: è Maria Elena Boschi che, notoriamente, è a favore delle adozioni per le coppie gay, quindi totalmente al di fuori dal contesto delle adozioni internazionali. Il Dipartimento antidroga è stato totalmente smantellato. Tutti i programmi di prevenzione, educazione e formazione nella scuola e per i genitori e di soccorso e aiuto sono scomparsi dal radar. E da ieri ci è imposta dal Governo, con il voto di fiducia, senza che né alla Camera né al Senato potesse essere votato un emendamento, la legge sulle unioni civili. A questo punto c’è veramente da chiedersi quale sia il soggetto che secondo il Governo oggi è destinatario delle misure a sostegno della famiglia. Qual è il soggetto oggetto di queste politiche? Le famiglie, le coppie gay? Perché la reversibilità va anche alle coppie gay, sottraendo risorse alle coppie con figli. E c’è da chiedersi quale impegno il Governo si assume per dare ad ogni bambino il diritto di nascere da un padre e da una madre, il diritto di conoscere l’identità delle persone da cui nasce e di crescere anche con un padre e una madre. (…)

            Gian Marco Centinaio (LN-Aut). Signor Presidente, il combinato disposto degli articoli 29 (che, lo ricordo, prevede che la famiglia sia una società naturale fondata sul matrimonio), 30 e 31 della Costituzione enunciano in modo inequivocabile il regime preferenziale della famiglia quale nucleo fondamentale della società. Stando all’ultimo rapporto ISTAT, che ha diffuso gli indici demografici, le nascite in Italia continuano a calare: nel 2015 sono state 488.000. La media del numero dei figli per donna è di 1,35 al 2015 e si conferma questo trend in calo. La capacità dei genitori di investire sul futuro dei figli dipende da molti fattori, tra questi il loro stato occupazionale, di salute, il livello di istruzione raggiunto ed il sostegno nei compiti di cura che la comunità offre loro. La possibilità di disporre di competenze e risorse, non solo economiche, è essenziale, soprattutto nei primi anni di vita del bambino, quando l’offerta educativa e di relazione è decisiva per farne emergere le potenzialità. La denatalità in Europa è ormai un’emergenza. Entro il 2025 i primi Paesi europei – Italia, Spagna, Germania e Grecia – potrebbero sperimentare l’implosione demografica, ovvero la diminuzione effettiva della popolazione. Ciò non si risolverà con la legge che avete approvato ieri. È necessario affrontare in maniera sistematica la prima e più importante esigenza, rappresentata dall’avere una famiglia, cioè esistere. L’obiettivo principale deve essere quello di incentivare la natalità attraverso una serie di strumenti che intervengano nella fascia di età più delicata del bambino, ossia fino al compimento del terzo anno di età. Questa fascia di età è delicata in termini educativi e di richiesta di attenzioni e cure, nonché in ragione della maggiore difficoltà di conciliare le esigenze familiari con quelle lavorative. È necessario conferire piena attuazione all’articolo 31 della Costituzione, che sancisce che «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi (…)». A questo punto, vorremmo sapere quali politiche il Governo intende adottare per sostenere economicamente la famiglia e contrastare la piaga della denatalità. Non mi risponda ricordando la legge che avete approvato ieri. (…)

Lucio Tarquinio (CoR). Signor Ministro, il problema per i giovani che decidono oggi di sposarsi è se possono permettersi di avere un figlio. Bisogna dare risposta a questa esigenza e al problema della bassa natalità. Occorre creare le condizioni affinché le coppie possano decidere in piena serenità di avere un figlio, considerando che, sulla base di calcoli fatti fino al 2011, mantenere un figlio fino ai diciotto anni costa 170.000 euro. Comprendete che le famiglie a basso reddito non possono permetterselo. Il paradosso del nostro Paese è che sembra che i servizi per l’assistenza all’infanzia siano addirittura peggiorati rispetto a venticinque anni fa. Paradossi incredibili come questo vanno affrontati con responsabilità diffuse sull’intero territorio nazionale, dagli enti locali, alle Regioni, allo stesso Governo nazionale. La domanda che intendo porle, signor Ministro, è pertanto la seguente. Visto che ieri ha annunciato nella trasmissione «Porta a Porta» che nella prossima legge di stabilità si darà finalmente risposta alle esigenze delle famiglie e considerando che l’Italia è il Paese che destina a questo settore la quota minore del PIL rispetto alla media europea (che è pari al 2,1% per non parlare della Danimarca che arriva al 3,7%), cosa si intende fare? Deciderete finalmente di finirla con le favolette demagogiche dei bonus bebè, che non risolvono niente? Non bisogna dare soldi, ma introdurre esenzioni dall’IVA e ridurre tutte le spese per istruzione e sport, nonché le spese sanitarie non coperte dal servizio sanitario. Ripeto, non dobbiamo dare i soldi, ma mettere le famiglie nella condizione di pagare di meno i servizi. Penso alla riduzione dell’IVA e alle deduzione ai fini IRPEF: non stiamo dando soldi, ma il reddito delle famiglie aumenterà in base a deduzioni di questo tipo. Questo coraggio e questa forza devono esserci, altrimenti cosa diciamo, cosa pensiamo, dove andiamo? La popolazione italiana continuerà a diminuire e aumenterà quella non italiana: questo è il dato reale. Al di là della non volontà – spesso – di alcune coppie di avere figli, noi facciamo di tutto per scoraggiarle. Ripeto, questo è il dato reale. Ovviamente le deduzioni non vanno riconosciute a chi guadagna 70.000, 100.000 o 200.000 euro l’anno. Questo è il dato reale. Mi auguro che nella prossima legge di stabilità, che seguiremo insieme (io la seguirò per quanto che mi compete, come opposizione), riuscirà a dare queste risposte. Mi auguro – anzi, sono certo – che lei, signor Ministro, si impegnerà affinché, una volta per tutte, ci sia una risposta chiara.

Presidente. Ha facoltà di rispondere congiuntamente il ministro Costa.

            Enrico Costa, ministro per gli affari regionali e le autonomie. Signor Presidente, onorevoli senatori, vi ringrazio per questa occasione e per i ragionamenti e le considerazioni che sono state svolte. Lo faccio in modo non formale, perché già alla Camera dei deputati era stato fatto un dibattito, con la presentazione di mozioni sulla famiglia, nel corso del quale sono emerse molte misure significative che, nel corso degli anni, sono state adottate proprio per raggiungere gli obiettivi e le finalità che oggi sono state evidenziati e declinati. Chiediamoci allora il perché, nonostante tutte queste misure, l’obiettivo non sia stato raggiunto. Chiediamoci il perché nel nostro ordinamento queste misure siano piuttosto frammentarie, frastagliate, disordinate e disorganiche. Faccio una riflessione da parlamentare, facendo anche un’autocritica perché in ogni legge di stabilità si è cercato di dare un contributo in termini costruttivi, che però non è mai stato organico e coerente con tutto il resto del percorso, anche precedente. Le misure devono quindi essere concrete. Il senatore Tarquinio ha detto che non bisogna dare risorse, ma evitare che le famiglie spendano. Si tratta di una questione di merito, ma anche di metodo fondamentale: cercare di riordinare le idee su questi aspetti e su queste misure.

Il DEF reca una indicazione di metodo che mi sono permesso di avanzare; sono contento che ci sia e sono convinto che verrà trasformata in provvedimento normativo; mi riferisco cioè all’individuazione di un ordine per tutte le misure concernenti la famiglia. Io lo chiamerei testo unico della famiglia, il che significa non soltanto una classificazione di tutte le misure in un unico documento, ma anche una loro semplificazione, un favor per l’accesso (visto che è anche difficile riuscire a orientarsi in tante di queste disposizioni). Significa, insomma, anche riconoscere dignità alla famiglia: lo Stato riconosce le misure nei confronti della famiglia con un testo specifico. Il punto di riferimento, la classificazione normativa non è indifferente nell’attenzione che lo Stato ha nei confronti di una tematica, quindi questo è un aspetto di metodo che ritengo molto significativo. Io provengo dal settore della giustizia, di cui mi occupavo in precedenza, e quando si fa un testo unico anche in quel settore, significa che si vuole dare forte dignità, che c’è un’attualità, un’attenzione organica. Oltre all’organicità, però, è necessario dare concretezza, quindi passiamo alle misure. Tutti gli interroganti hanno centrato il tema della denatalità, che è il vero problema che affligge il nostro Paese. Lo indicano le statistiche, ma il dibattito parlamentare, quello tra i cittadini, i problemi dei cittadini ce lo fanno percepire al di là di ogni numero statistico. Il fatto che, come ha evidenziato il senatore Malan, il tasso di fecondità si avvicini sempre più al numero 1 piuttosto che al numero 2 è preoccupante, in quanto indica un dimezzamento delle generazioni. Pensiamo altresì all’età media delle mamme, che aumenta, alle preoccupazioni evidenziate dal senatore Barani sugli indici di povertà, che oggi sono direttamente proporzionali al numero dei figli. Oggi è quindi necessaria una politica aggressiva proprio per sostenere le famiglie con i figli e anche quelle con un figlio, atteso che il problema e la prospettiva di tante giovani coppie è anche finalizzata a far nascere e crescere un figlio. Se andiamo ad analizzare i costi medi per educare un figlio fino alla maggiore età, vediamo che sono molto pesanti e che normalmente il 35-40% della spesa della famiglia è orientata all’educazione e al mantenimento del figlio. È necessaria un’attenzione particolare, ma bisogna dire che sono stati posti in essere diversi atti; ho detto che sono frammentari e forse proprio per questo non c’è una capacità di focalizzazione. Il tema della conciliazione tra vita lavorativa ed educazione dei figli è stato evidenziato dai senatori Centinaio e Tarquinio. La legge n. 228 del 2012 ha introdotto la possibilità di fruire del congedo parentale anche su base oraria, demandando alla contrattazione collettiva le modalità applicative, a seconda delle esigenze del settore. Il jobs act, con le misure per la conciliazione delle esigenze di vita, cura e lavoro, ha introdotto significative modifiche volte a rendere più flessibile, anche nel pubblico impiego, l’utilizzo dei congedi parentali, aumentando l’arco di tempo in cui gli stessi possono essere fruiti. Anche l’elevazione, introdotta dal decreto legislativo n. 80 del 2015, dell’età del bambino, da otto a dodici anni, ai fini della fruizione del congedo parentale costituisce uno strumento di maggiore flessibilità per i genitori. Vi sono tante altre misure che sono finalizzate, chiaramente, a una flessibilità e a una conciliazione tra la vita lavorativa e l’educazione dei figli, perché ci sono tante mamme che perdono il lavoro nei primi due anni di vita del bambino. Sono numeri significativi e preoccupanti. È necessario cercare di affrontare anche questo tema, perché è un argomento importante. La senatrice Mattesini ha evidenziato l’esigenza di avviare una ricognizione delle esperienze nei diversi territori sulle politiche di sostegno alla famiglia. Io sono d’accordo ed è mia intenzione anche avviare – e lo dico in continuità e con rispetto per il lavoro svolto da chi mi ha preceduto (vedo qui il senatore Giovanardi) – l’aggiornamento dell’attuale piano nazionale della famiglia mediante il necessario apporto delle Regioni e degli enti locali nella Conferenza unificata.             Senatore Giovanardi, rispondo soprattutto alla sua premessa. Ci sono delle articolazioni e delle attività organizzative nell’ambito delle deleghe assegnate che sono funzionali all’attività del Governo. Ritengo che la delega alla famiglia sia completa e consenta di dare uno stimolo ai miei colleghi di Governo per arrivare a una disciplina organica. È una delega senza portafoglio, in quanto l’obiettivo è quello di far spendere agli altri colleghi del Governo, in modo organico ed efficace, a sostegno della famiglia, le risorse di loro competenza. Il senatore Barani ha posto delle questioni alle quali rispondo evidenziando il provvedimento denominato social act, pendente alla Camera dei deputati. Per finanziare questa delega si prevede la costituzione di un fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale di 600 milioni di euro per il 2016, incrementato, a partire dal 2017, con un miliardo all’anno. Vi è, poi, un’altra serie di misure. La senatrice Bencini ha posto la questione del gioco d’azzardo. Io ho evidenziato come si debba risolvere una contraddizione. Lo dico al di là della delega agli affari regionali, che mi porta, in Conferenza unificata, a presiedere un rapporto tra Governo ed enti locali. Vi è una contraddizione tra uno Stato che non può prescindere da un’entrata e lo stesso Stato che avvia delle politiche per contrastare determinati rischi. Ho chiesto, proprio su questo tema, al Ministro dell’economia e delle finanze e al Ministro della salute di inserire un mio rappresentante nell’ambito dell’Osservatorio per il contrasto della diffusione del gioco d’azzardo e il fenomeno della dipendenza grave, un organismo istituto in attuazione della legge di stabilità 2015, proprio perché sono convinto che tale dipendenza incida pesantemente sulle relazioni familiari. Il senatore Panizza ha posto il tema del family audit, rispetto al quale sono particolarmente sensibile. Sono stato recentemente a Bari: la Regione Puglia ha recepito, in collaborazione con la Provincia di Trento (che è stata la Provincia in cui si è generata l’idea, sempre sostenuta dal Dipartimento della famiglia), il percorso del family audit. È un percorso molto significativo e qualificante anche di crescita delle imprese con determinate regole che siano vicine alle esigenze delle famiglie e dei lavoratori. Per quello che riguarda, invece, la domanda della senatrice Catalfo, il Governo, in ottemperanza alle note sentenze del Consiglio di Stato, ha proposto un emendamento che è oggetto del sindacato ispettivo, ripristinando un sistema di calcolo ISEE, limitatamente alla platea delle persone con disabilità, coincidente con quello previgente all’introduzione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013 e tuttora fonte della complessiva materia in esame. Su questo tema consiglio alla senatrice di avviare un rapporto, anche dialettico, sulle considerazioni che sono certamente da analizzare con attenzione, con il Ministro competente per materia che sicuramente, e der quello che mi riguarda, potrà essere sensibilizzato.

Il piano per i servizi socio-educativi per la prima infanzia, nel 2015, è stato rilanciato grazie a nuovi finanziamenti, pari a 100 milioni di euro, attualmente in fase di erogazione. Nel Documento di economia e finanza per il 2016 si prevede, entro il dicembre del 2016, il rifinanziamento del fondo per il rilancio del Piano di sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, al fine di garantire politiche familiari che favoriscano la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Presidente. Hanno adesso facoltà di replicare gli interroganti, per un minuto ciascuno. (…)

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=17&id=973130

Camera. Assemblea   Unioni civili.

PDL C3634 – D’iniziativa dei senatori: Cirinnà ed altri: Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze (Approvata dal Senato S2081).

            9 maggio 2016. Illustrazione della relatriceMicaela Campana                    pag. 2 e 68

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0620&tipo=stenografico#sed0620.stenografico.tit00060

            Discussione sulle linee generali          e replica del Governo on. Gennaro Migliore, Sottosegretario di Stato per la giustizia.                                                     pag. 48

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0620&tipo=stenografico#sed0620.stenografico.tit00020.sub00010

10 maggio 2016. Esame questioni pregiudiziali e sospensive.          pag. 12

Maria Elena Boschi, Ministra per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento. A nome del Governo, autorizzata dal Consiglio dei ministri, pongo la questione di fiducia sull’approvazione, senza emendamenti né articoli aggiuntivi                    pag. 35

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0621&tipo=stenografico#sed0621.stenografico.tit00060.sub00020

            11 maggio 2016. Seguito della discussione             pag. 1

Votazione con approvazione pag. 76

Presenti 522, Votanti 423, Astenuti 99 Maggioranza 212

Hanno votato sì 372 Hanno votato no 51.

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0622&tipo=stenografico#sed0622.stenografico.tit00040.sub00020

Testo

www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=17&codice=17PDL0039030&back_to=http://www.camera.it/leg17/126?tab=2-e-leg=17-e-idDocumento=3634-e-sede=-e-tipo=

https://www.forexinfo.it/Unioni-Civili-decreto-Cirinna-testo-legge-punti-importanti

 

Le principali novità riguardano:

  • l’obbligo di assistenza morale e materiale;
  • l’obbligo di coabitazione;
  • l’obbligo di contribuzione economica in relazione alle proprie capacità di lavoro professionale o casalingo;
  • l’obbligo di definizione di comune accordo dell’indirizzo della vita familiare e della residenza;
  • regime patrimoniale, in mancanza di diversa convenzione tra le parti, della comunione dei beni;
  • in caso di scioglimento dell’unione si applicano alcune norme previste per il divorzio, ma non quelle sulla separazione;
  • diritto all’eredità per il partner superstite e garanzia di fatto della reversibilità della pensione;
  • subentro nell’affitto o il diritto a rimanere fino a 5 anni nella caso di proprietà del partner in caso del suo decesso;
  • diritto agli alimenti in caso di scioglimento dell’unione qualora l’ex partner versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento.

Altalex, 12 maggio 2016

www.altalex.com/documents/news/2016/03/23/unioni-civili-testo

 

Il Consiglio Nazionale Forense CNF esprime apprezzamento per la scelta del Parlamento di riconoscere anche all’Avvocatura la competenza di stipulare i contratti di convivenza: “Il ruolo sociale dell’Avvocato si arricchisce di una nuova importante funzione”. Impegno ad attuare con competenza e preparazione il nuovo compito che il Parlamento ha affidato all’Avvocatura: quello di assistere i conviventi di fatto che intendano stipulare un contratto di convivenza. Il CNF esprime apprezzamento per la scelta del Parlamento di affidare anche agli avvocati il compito di stipulare i contratti di convivenza di disciplina dei rapporti patrimoniali tra due conviventi.

Per un verso si tratta del riconoscimento legislativo di una attività di “consulenza” alle famiglie nella quale i legali sono spesso coinvolti per scelta dei propri assistiti. Per altro verso, è un ulteriore passo avanti nel riconoscimento da parte dell’ordinamento di nuove funzioni a valenza pubblicistica, come per esempio già accaduto con la negoziazione assistita, che proprio nella materia familiare sta dando i risultati migliori.

            Questa riconoscimento impegna ulteriormente la responsabilità degli Avvocati nel rendere un servizio competente ed efficiente e fare in modo che le nuove tutele riconosciute dall’ordinamento ai propri cittadini possano effettivamente dispiegarsi. L’Avvocatura istituzionale promuoverà iniziative formative e organizzative affinché ciò possa realizzarsi.

Comunicato CNF       13 maggio 2016

www.altalex.com/documents/news/2016/05/17/unioni-civili-contratti-di-convivenza-cnf

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SCIENZA&VITA

Il convegno del 27-28 maggio dedicato al mondo femminile.

Centro Congressi       via Aurelia 796          Roma

 “Quest’anno il convegno di Scienza & Vita, accreditato nell’ambito della Prima Giornata Nazionale per la Salute della Donna e in sinergia col Piano nazionale per la fertilità, – precisa Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale di S&V- intende affrontare il ‘pianeta donna’ per riscoprirne le dimensioni essenziali ed esplorare i percorsi della loro piena realizzazione, in relazione alle dinamiche che caratterizzano la società contemporanea”.

Nati da donna. Femminilità e bellezza” è il tema del prossimo convegno annuale di Scienza & Vita. Si parlerà di donna, riscoprendo gli aspetti essenziali del suo essere mettendoli in relazione con le dinamiche della società contemporanea. Una donna con una identità matura, quindi, che porta con sé la consapevolezza dell’emancipazione femminile e valorizza la bellezza della sua natura: una specificità che la rende feconda verso il mondo intorno a sé.

Il tema del convegno sarà introdotto da S.E. Monsignor Nunzio Galantino, Segretario Generale della Cei, e dal Ministro della Sanità Beatrice Lorenzin e vedrà interventi di diversi studiosi e scienziati, per una lettura interdisciplinare della complessa tematica.

Nella seconda giornata sono previsti 7 gruppi di studio che rifletteranno su particolari problematiche, connesse al tema centrale, come ad esempio “maternità e lavoro”, “utero in affitto”, “femminicidio”, “adozioni”, “relazione uomo-donna ed altre ancora.

            Il convegno annuale di Scienza & Vita, ormai giunto alla sua XIV edizione, rappresenta il “punto di riferimento” delle attività di studio e ricerca che l’Associazione svolge durante l’anno. Esso costituisce anche una preziosa occasione per la partecipazione e l’incontro delle rappresentanze delle 109 associazioni locali, sparse ed operanti su tutto il territorio nazionale.

I lavori si apriranno con una riflessione a due voci: la presidente nazionale di Scienza & Vita Paola Ricci Sindoni e il consigliere Felice Petraglia, ginecologo, che definiranno il paradigma del convegno su cui si declineranno gli altri temi con una lettura interdisciplinare.

            Nella tavola rotonda, moderata dal vicepresidente Paolo Marchionni, si parlerà di «Quando eravamo femmine e maschi» con la giornalista e scrittrice Costanza Miriano, Ana Villa Betancourt del Pontificio Consiglio per i laici, lo psicoterapeuta Claudio Risé, il demografo Giancarlo Blangiardo e il medico e bioeticista Paola Pellicanò.

Il fine ultimo è riaffermare la preziosità dell’essere donna e madre attraverso una riflessione sull’identità femminile, secondo la chiave di lettura proposta da Scienza & Vita. (B. Rosati)

Comunicato stampa n. 212 – 11 maggio 2016

E’ possibile consultare il programma dettagliato del convegno al link

www.scienzaevita.org/video/nati-da-donna-femminilita-e-bellezza-in-30-secondi

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                                                       UNIONI CIVILI

                                               I conviventi si vedranno sposati a loro insaputa.

«È incostituzionale privare chiunque della libertà di scelta. E, da liberale, sono contro l’ingerenza dello Stato nella sfera affettiva e sentimentale delle persone». L’avvocato Annamaria Bernardini De Pace, celebre matrimonialista, titolare dell’omonimo studio legale specializzato in diritto della persona e della famiglia, bacchetta il disegno di legge Cirinnà che sta per passare alla Camera. «Ma davvero l’approvano così com’è? Non sanno davvero più cosa fare».

Quali sono gli aspetti controversi di questa legge?

«Intanto è scritta male. La materia riguarda tutti e quindi la legge dovrebbe essere di immediata comprensione, ma così non è. Il risultato è una norma che apre il campo a un’infinità di ricorsi e darà molto lavoro in più agli avvocati. Sembra scritta apposta per accontentare certe lobby».

Veniamo agli aspetti tecnici. Alla regolamentazione delle unioni civili.

«Innanzitutto la legge è divisa in due parti: una che regola le unioni civili tra omosessuali e l’altra che disciplina le convivenze tra eterosessuali. Dico subito che per me le unioni civili sono un compromesso partorito dalla politica, in realtà il matrimonio civile non si dovrebbe negare a nessuno perché non consentirlo significa discriminare. Perché impedire ai gay le tutele e le protezioni dello Stato quali il diritto alla pensione, le detrazioni, le riserve successorie, solo a causa dell’orientamento sessuale?».

L’articolo 1 della proposta di legge Cirinnà, al primo comma, definisce le unioni civili.

«Sì. Le chiama “specifica formazione sociale”, che non si capisce bene cosa voglia dire, anche questo è un modo per non scontentare nessuno e per evitare polemiche. Ma come chiamiamo due gay o due lesbiche che hanno contratto un’unione civile? Unionisti? Nel testo si ricorre a frequenti perifrasi perché certo non si può dire “coniugi”, visto che non è un matrimonio. Però la parte del disegno di legge che genererà maggiori complicazioni è la seconda, quella che riguarda le convivenze».

Cosa intende la legge Cirinnà per convivenze?

«È scritto nel comma 36, dove non si fa riferimento al sesso, e si specifica che conviventi di fatto sono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile».

Ma quale elemento stabilisce la convivenza di fatto? Non soltanto la circostanza di coabitare.

«Il comma 37 sancisce che per stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica (prevista dal Dpr 223 del 1989). In sintesi, basta presentare agli uffici comunali questo semplice documento e si hanno quasi in automatico gli stessi diritti e doveri dei coniugi perché si ufficializza il nuovo nucleo familiare. Infatti scattano le stesse prerogative».

Anche a livello economico? Di affitto della casa, di rapporti patrimoniali?

«Il disegno di legge comprende tutto questo e, in sintesi, accomuna le convivenze di fatto a un matrimonio. Quindi è come se i conviventi di fatto fossero sposati a loro insaputa. Però questo è incostituzionale: non si può obbligare una coppia che vuole solo convivere a sottoscrivere un contratto di convivenza con diritti e doveri che non ha chiesto. Lo Stato trasforma i sentimenti in doveri economici, e non è giusto».

Parliamo della casa. Cosa accade se uno dei due conviventi muore?

«Se muore il convivente proprietario della casa di comune residenza, il convivente di fatto superstite ha diritto a continuare ad abitare nella stessa dimora almeno per due anni o per il tempo in cui è durato il rapporto. Bisogna poi anche considerare se ci sono dei figli. Per questo insisto: ci sarà molta materia anche per gli avvocati perché prevedo ricorsi e congestionamento dei tribunali. Ma credo anche che faranno affari le agenzie immobiliari, visto che adesso magari in tanti rinunceranno alle convivenze fondamentalmente per timore di pagare dopo quattrini che si preferirebbe tenere per sé».

Se poi un uomo è già stato sposato e molla pure la nuova convivente, deve pagare gli alimenti sia all’ex coniuge che all’ex convivente?

«Come avviene nei matrimoni tradizionali. Qui, nell’ultima versione del Ddl, comma 65, c’è scritto che “il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro gli alimenti nella misura determinata ai sensi dell’articolo 438 del codice civile”».

Qualcuno ventila il rischio di badanti diventate conviventi di fatto, e dunque eredi, in ragione del legame di assistenza, o storie passeggere trasformate in convivenze forzate. Sarà così?

«I problemi maggiori si avranno dal punto di vista economico ed io temo che la legge Cirinnà possa aprire la strada a una serie di soprusi se non proprio di truffe. Il rischio è concreto. Sa come si dice: fatta la legge, trovato l’inganno».

                                               Brunella Bolloli          Libero             11 maggio 2015

http://www.pressreader.com

                                              

                                               «Bigamia» consentita e gli altri vuoti del testo sulle unioni civili.

I ventinove effetti indiretti sulle norme penali, dall’aggravante per l’omicidio ai sequestri di persona. E gli effetti collaterali nel penale della nuova legge sulle unioni civili? Amnesia. Con esiti paradossali, nella corsa del governo a blindare il voto con la fiducia. Il testo Cirinnà, infatti, premette che le disposizioni che contengono la parola «coniuge» si applicano «anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso», ma «al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile».

Il riflesso più evidente è sull’omicidio, la cui pena base 21-24 anni sale a 24-30 anni se si uccide il coniuge: ma poiché l’omicidio non è certo norma a rafforzamento «degli obblighi derivanti dall’unione civile», l’aggravante non potrà pesare su assassini legati da unioni civili alla persona assassinata, mentre continuerà a valere per mariti e mogli. Stesso schema nei sequestri di persona: quando il PM blocca i beni utilizzabili dal coniuge per pagare il riscatto, il blocco non potrebbe essere imposto al coniuge legato da unione civile con il rapito.

Curiosa anche la situazione dell’abuso d’ufficio commesso da pubblici ufficiali che non si astengano in presenza di un interesse di un prossimo congiunto come il coniuge: continuerà a essere reato per mariti e mogli, ma non potrà incriminare i partner di una unione civile. Idem la «bigamia», che finirebbe per non avere rilevanza penale in relazione alle unioni civili tra lo stesso sesso, mentre la manterrebbe solo tra coniugi uomo e donna.

Discriminazioni al contrario, cioè più sfavorevoli per le unioni civili, parrebbero crearsi per tutta una serie di condizioni che il codice continuerebbe a concedere solo a marito e moglie: la non punibilità per chi fa falsa testimonianza, mente al PM o compie favoreggiamento personale del prossimo congiunto; la non punibilità di chi a favore di un prossimo congiunto commette reato di assistenza ai partecipi di associazioni per delinquere o con finalità di terrorismo; la non punibilità del furto o della truffa ai danni del partner non legalmente separato. E qualche paradosso si creerebbe anche nei tribunali, dove oggi un giudice deve astenersi se il coniuge fa il PM o è persona offesa dal reato: sbarramenti che non varrebbero per partner dello stesso sesso legati da unioni civili. Il fatto poi che «l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione» sia stabilito dalla nuova legge solo per le unioni civili e non anche per le convivenze di fatto, discriminerà i partner della prima categoria che, diversamente da quelli della seconda, nel penale rischieranno l’accusa di omicidio o lesioni personali per l’eventuale medesima condotta di «mancata prestazione di cure o di alimentazione».

A questa montagna di effetti indiretti c’è alla Camera un solo cenno nel parere del «Comitato per la legislazione» il 12 aprile sul solo tema dell’omicidio aggravato. Come rimediare se oggi la fiducia impedirà correttivi? Gian Luigi Gatta, professore di diritto penale alla Statale di Milano, arrivato in uno studio per penalecontemporaneo.it a contare 29 effetti penalistici «indiretti e inconsapevoli» delle nuove norme, indica come ultimo treno forse «il decreto delegato di coordinamento che il Governo dovrà adottare entro 6 mesi sulle unioni civili. Ma sulle convivenze di fatto manca un’analoga delega legislativa»

www.corriere.it/cronache/16_maggio_11/bigamia-consentita-altri-vuoti-testo-unioni-civili-b40e4072-16f0-11e6-a3a2-ca09c5452a5d.shtml

Gian Luigi Gatta                   http://www.penalecontemporaneo.it/materia/-/-/-/4724-unioni_civili_tra_persone_dello_stesso_sesso_e_convivenze_di_fatto__i_profili_penalistici_della_legge_cirinn_

                                              

Correlazioni tributarie tutte da verificare

La legge sulle unioni civili, di recente approvazione, ha il contenuto di una legge-delega. La disciplina attuata con tale strumento normativo avrà, quindi, un impatto operativo solo dopo l’emanazione dei decreti delegati, che dovranno essere adottati senza il concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ciò non significa, tuttavia, che chi si occupa abitualmente di cose tributarie non sia interessato alla disciplina delle unioni di fatto: molte sono, infatti, le correlazioni con la disciplina tributaria, ad esempio con riguardo al regime patrimoniale delle unioni. Ma il tempo per occuparci compiutamente delle correlazioni tributarie della disciplina civilistica approntata per le unioni civili non manca. Allora, il percorso normativo riguardante le regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso pare arrivato al capolinea. Ma non è così.

L’ordinamento civilistico, infatti, ha la “nuova legge”, il cui contenuto, però, ha natura delegante. Ne discende che la disciplina attuata con tale strumento normativo non avrà subito l’impatto operativo. Tale operatività sarà possibile solo dopo l’emanazione dei decreti delegati. La legge delega di cui stiamo parlando, puntualmente, stabilisce che il Governo è delegato ad adottare, “entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge”, uno o più decreti legislativi in materia di unione civile di persone dello stesso sesso. Dunque, l’impatto della nuova disciplina troverà concreta attuazione, nella migliore delle ipotesi, appena prima che l’anno in corso sia arrivato alla fine. La legge delega fissa lo spazio entro cui il legislatore delegato si deve muovere. Ed è corretto che sia così.

Sappiamo che i decreti delegati devono essere adottati “su proposta del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro dell’Interno, il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali e il Ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale”. Nel “concerto”, quindi, non c’è posto per il Ministro dell’Economia e delle finanze. Si tratta, infatti, di una legge, sostanzialmente integrativa (e sostitutiva) del Codice civile. Il Ministro delle Finanze non c’entra. Ma ciò non significa che chi si occupa, abitualmente, di cose tributarie non sia interessato alla disciplina delle unioni di fatto tra persone dello stesso sesso. Il diritto tributario è (e resta) ancillare rispetto all’ordinamento civilistico.

Si tratterà di capire, pertanto, quali correlazioni tributarie siano in concreto praticabili. L’individuazione delle “correlazioni tributarie” (e ce ne sono tante, specie nella disciplina delle successioni) resta un impatto a carico di chi – non per svago – si occupa di cose rapportabili al “tributo”. Questa è la regola.

Dalla legge delega (art. 1, comma 13) veniamo a sapere che il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni. Essendo prevista una “diversa convenzione patrimoniale” è consequenziale affermare che la comunione legale (anche per le unioni “civili”) rappresenta il “regime naturale”, ma è salva – comunque – una diversa opzione (volontaria e di diverso contenuto). La correlazione con la disciplina tributaria, sul punto, è presto fatta. E, in prima approssimazione, limitiamo l’osservazione alla sola imposizione sui redditi.

In questa direzione l’impatto è subito configurabile con le disposizioni recate dall’art. 4 TUIR, laddove si afferma (comma 1, lettera a) la regola secondo la quale “i redditi dei beni che formano oggetto della comunione legale […] sono imputati a ciascuno dei coniugi per metà del loro ammontare […]”. Stessa regola per i redditi riferibili ad un fondo patrimoniale di cui all’art. 167 c.c..

Ma, in questa ipotesi, nella legge delega manca qualsiasi richiamo diretto alla disciplina contenuta nell’art. 167 c.c.. Come dire che, in presenza della costituzione (volontaria) del fondo patrimoniale la “correlazione tributaria” deve essere individuata indirettamente sulla base di altri parametri. Diciamo allora che, nella legge delega si afferma testualmente (art. 1, comma 20) che “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi […] si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile […]”. Quanto basta per accettare la correlazione tributaria applicabile alla disciplina sulle unioni civili?

La risposta positiva sembra possibile. E, questa “giustificazione” potrebbe essere la corretta chiave di lettura anche quando si tratta di capire se sia possibile – nell’ambito delle unioni civili – configurare un’impresa familiare (di cui all’art. 230-bis c.c.). E la conclusione non sembra azzardata posto che, in fondo, l’intera struttura della legge sulle unioni civili, ricalca (e in larga misura) le regole già esistenti nella disciplina del matrimonio “tradizionale”.

Le divergenze sono poche e del tutto marginali. Fra queste, una soltanto potrebbe avere un certo peso. Quella attinente all’obbligo della fedeltà. Nelle unioni civili – a differenza dei matrimoni “tradizionali” – non trova spazio detto obbligo. E i “maritati” tradizionali, avranno sicuramente qualcosa da ridire. Ma questo è un altro discorso. Il tempo per occuparci compiutamente delle correlazioni tributarie della disciplina civilistica approntata per le unioni civili non manca

Tommaso Lamedica              ipsoa               14 maggio 2016

www.ipsoa.it/documents/fisco/imposte-indirette/quotidiano/2016/05/14/unioni-civili-correlazioni-tributarie-tutte-da-verificare?utm_source=nl_ipsoa&utm_medium=referral&utm_content=ipsoa%20quotidiano&utm_campaign=newsletter&TK=NL&iduser=144450

 

I nuovi contratti di convivenza passano dagli avvocati

Il Ddl sulle unioni civili assegna sia ai notai che agli avvocati il compito di autenticare gli accordi di coppia. – I contratti che regoleranno i rapporti di convivenza delle coppie di fatto passeranno dagli avvocati. A prevederlo espressamente è il testo del Ddl sulle unioni civili sul quale ieri il Governo ha posto la fiducia e che, con molta probabilità, diventerà legge dello Stato entro domani.

            Il testo andrà ad innovare l’ordinamento italiano inserendo due nuovi istituti che affiancheranno quello tradizionale del matrimonio. Nello specifico, si tratta delle unioni civili, riservate alle coppie formate da persone appartenenti allo stesso sesso, e delle convivenze di fatto (fruibili sia dalle coppie etero che omo), entrambe differenziate sul fronte dei diritti e dei doveri, sia personali che patrimoniali (leggi in merito: “Unioni civili: ecco come cambia la famiglia”).

            Per quanto concerne le coppie di fatto, il “salto di qualità” compiuto dalla riforma sarà rappresentato dalla sottoscrizione del “contratto di convivenza” previsto dal comma 50 del testo, con cui le parti potranno disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune. Ed è proprio su questo fronte che nasce la nuova competenza in capo ai professionisti legali che, insieme ai notai, saranno chiamati ad autenticare la sottoscrizione dell’atto (pubblico o scrittura privata), nonché le sue modifiche e la sua risoluzione.

            Non si tratterà inoltre di una mera certificazione dell’autografia delle firme. L’avvocato e il notaio infatti dovranno fare qualcosa in più: attestare la liceità dell’accordo, in conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico. Spetterà sempre ai professionisti che ricevono l’atto provvedere, ai fini dell’opponibilità ai terzi, a trasmetterne copia (entro i successivi 10 giorni) al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe.

Marina Crisafi Le top news della settimana.           studioCataldi.it 12 maggio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22049-i-nuovi-contratti-di-convivenza-passano-dagli-avvocati.asp

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VIOLENZA

Cassazione: mariti gelosi attenzione! Pedinare la moglie è reato

Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 3025, 22 gennaio 2016.

Confermata la condanna per maltrattamenti a carico dell’uomo vittima di una gelosia eccessiva. La gelosia non è una buona scusa per pedinare la moglie e, ove morbosa, fa scaturire conseguenze sia dal punto di vista civile che penale. Sotto il primo profilo, può scattare, infatti, la sanzione della separazione con addebito; sotto il secondo, invece, una condanna per il reato di maltrattamenti. È quanto emerge dalla sentenza della Cassazione (allegata), che non ha avuto alcun dubbio nel confermare la condanna ad otto mesi di carcere per il reato ex art. 572 c.p. a carico di un uomo in preda ad una vera e propria ossessione nei confronti della propria consorte.

            Nella vicenda, la sesta sezione penale ha fermamente condiviso le decisioni di merito che avevano stimato come pienamente credibili le dichiarazioni accusatorie della donna sul regime di vita “insostenibile ed umiliante” impostole dal coniuge a causa della sua “morbosa gelosia”. Regime di vita cominciato sin dal rientro da Santo Domingo, dove i due avevano contratto matrimonio, e proseguito (anzi peggiorato) dopo il loro rientro, con pedinamenti continui e assillanti su tutte le attività e gli spostamenti della donna, finanche nel contesto lavorativo (presso il bar dove lavorava come cameriera) a causa del sospetto di relazioni extraconiugali.  Un quadro da incubo – protrattosi per mesi, che si era spinto anche alle offese verbali e alle percosse (certificate dal pronto soccorso) fino all’abbandono da parte della donna della casa coniugale – che vale senz’altro, per gli Ermellini, la conferma della condanna d’appello per i maltrattamenti inflitti dall’uomo all’ormai ex moglie.

Marina Crisafi                       Newsletter Giuridica StudioCataldi.it                      09 maggio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22007-cassazione-pedinare-la-moglie-e-reato.asp

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