newsUCIPEM n. 572 –15 novembre 2015

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Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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ABORTO                                           Marche: è possibile seppellire i feti morti prima della nascita.

ADDEBITO                                      Se il marito tradisce non deve pagare il mantenimento né perde la casa.

AFFIDO                                             Quanti sono i minori fuori famiglia in Italia?

ASSEGNO DI MANTENIMENTO  Addio mantenimento della moglie.

Condannato il padre che non lo versa a figlia e si dimette da lavori.

BIOETICA                                        Embrioni «scartati» un gelido destino.

CASA FAMILIARE                          No casa all’ex con figli ultratrentenni e titolari di altro immobile.

No casa all’ex con i figli se non è mai stata abitata dalla famiglia.

CHIESA CATTOLICA                    Nel patto delle catacombe il seme della Chiesa di Francesco.

CONSULTORI Familiari UCIPEM Faenza. Il corpo racconta

Parma. Incontri e rubrica sul settimanale diocesano.        

CORTE COSTITUZIONALE          Selezione degli embrioni con malattie genetiche trasmissibili.

DALLA NAVATA                            33° domenica del tempo ordinario – anno B -15 novembre 2015.

FAMIGLIA                                       Famiglia, separazioni e responsabilità.

ISTAT            Matrimoni, separazioni e divorzi. Anno 2014.

FAMIGLIA INCONTRI                   Dove va la famiglia? Orientarsi in un tempo di cambiamento.

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA I fedeli laici non sono semplici esecutori di ordini.

MATRIMONIO                                Crollano i matrimoni. Belletti: un istituto delegittimato

MEDIAZIONE FAMILIARE                      Le premesse della mediazione familiare nelle fonti sovranazionali.

NULLITÀ MATRIMONIALE         Se avessi potuto leggere queste cose prima di sposarmi!

OMOFILIA                                       Trascrizione di matrimonio tra persone dello stesso sesso

SCIENZA&VITA                             Sulla selezione degli embrioni la Consulta svincola l’eugenetica.

SINODO SULLA FAMIGLIA          Il Sinodo: il testo e l’evento.

 

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ABORTO

Marche: è ora possibile seppellire i feti morti prima della nascita

            Grande soddisfazione per l’affermato diritto dei genitori di essere informati riguardo alla possibilità di seppellire i resti mortali del loro figlio morto prima di nascere, è stata espressa dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, da FederVita Marche e dalla Pastorale della Salute delle Marche. Martedì scorso, 10 novembre 2015, infatti, è stata approvata all’unanimità la modifica al regolamento di polizia mortuaria da parte del Consiglio della Regione Marche. Una proposta presentata dal consigliere Luca Marconi, su proposta delle due associazioni. L’idea era nata dal sollecito di una mamma che in seguito all’interruzione spontanea della propria gravidanza alla ventesima settimana di gestazione, si era vista negare la richiesta di effettuare il seppellimento.

            Alla fine la donna vi era riuscita ma solo facendo valere la propria professione di avvocato. Il nuovo provvedimento offre anche la libera possibilità di scrivere sulla lapide i nomi dei genitori e quello che avrebbero voluto dare al figlio, cosa oggi spesso negata.          

“Finalmente un’importante istituzione come la Regione Marche riconosce che anche quello prenatale è un lutto – dichiarano le due associazioni – e come tale va data la possibilità di poterlo esprimere con quei gesti di pietà che vedono coesi ambiti civili e religiosi”.

Redazione       Zenit org                    12 novembre 2015

www.zenit.org/it/articles/marche-e-ora-possibile-seppellire-i-feti-morti-prima-della-nascita

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ADDEBITO

Se il marito tradisce non deve pagare il mantenimento né perde la casa.

L’addebito della separazione non è correlata all’obbligo di mantenimento e all’assegnazione della casa coniugale. Tradimenti non necessariamente condannati all’obbligo di pagamento del mantenimento. Spesso si confonde il concetto di addebito della separazione con quello relativo all’obbligo di mantenimento e all’assegnazione della casa familiare. Si tratta, in verità, di tre istituti diversi con presupposti non necessariamente coincidenti. Cosicché si può ben verificare che il coniuge a cui sia addebitata la colpa della rottura del matrimonio (per esempio a seguito di infedeltà) non sia né tenuto a versare il mantenimento all’ex, né perda la casa di proprietà.

Cos’è l’addebito e quali sono le conseguenze. L’addebito – ossia la dichiarazione di responsabilità per la rottura del matrimonio – scatta nei confronti del coniuge il cui comportamento colpevole, in violazione dei doveri coniugali, abbia determinato l’intolleranza della convivenza. Di certo, quindi, l’infedeltà è causa di addebito, sempre che essa sia l’effettiva ragione della “rottura” tra i coniugi. Diversamente, in un contesto in cui il rapporto si sia già sgretolato per altre ragioni e l’infedeltà sia solo una normale conseguenza, essa non è considerata causa di addebito. Un’altra causa di addebito potrebbe essere un comportamento vessatorio e violento, l’abbandono della casa familiare, la violazione del dovere di assistenza morale e materiale, ecc.

            Contrariamente, però, a quanto potrebbe credersi, non è vero che il coniuge a cui sia imputato l’addebito debba necessariamente pagare il mantenimento. Infatti le conseguenze dell’addebito sono altre, ossia:

  • chi subisce l’addebito non può pretendere il mantenimento da parte dell’altro coniuge. Potrebbe tutt’al più chiedere, in caso di effettivo bisogno, gli alimenti: un contributo corrispondente all’importo minimo indispensabile per garantire la sopravvivenza (l’ammontare è inferiore, quindi, all’assegno di mantenimento che, invece, per come a breve si vedrà, mira a garantire lo stesso tenore di vita di cui si godeva durante il matrimonio);
  • chi subisce l’addebito perde i diritti di successione verso l’altro coniuge: per cui se decede prima il coniuge non responsabile della separazione, quello che ha ricevuto l’addebito non può accampare pretese come erede. Viceversa, se muore prima il coniuge con l’addebito, l’altro gli succede regolarmente (a meno che non sia intervenuto il divorzio);
  • il separato con addebito perde il diritto alla pensione di reversibilità dell’ex, salvo che il giudice gli abbia riconosciuto il diritto agli alimenti;
  • il coniuge con addebito paga le spese processuali della causa di separazione;
  • il coniuge con addebito potrebbe (ma è piuttosto difficile che accada) essere condannato, al termine della causa di separazione, al risarcimento del danno nei confronti dell’altro coniuge. Ciò avviene solo in casi straordinari che, nell’ipotesi di infedeltà, consistono in quelle ipotesi in cui il tradimento sia stato consumato in modo particolarmente lesivo della dignità dell’ex (si pensi a un tradimento ripetuto e continuo, noto a tutta la collettività o, per esempio, con la migliore amica della propria ex moglie).

Come visto, tra tutte le conseguenze della dichiarazione di addebito, per come appena elencate, non vi è l’obbligo al pagamento dell’assegno di mantenimento. Dunque, non è automatico che il coniuge infedele, cui sia stata addebitata la separazione, debba versare l’assegno mensile di mantenimento all’ex. Il che non è detto che accada, ma altri sono i presupposti, per come vedremo a brevissimo.

A che serve l’assegno di mantenimento. La funzione dell’assegno di mantenimento non è quella di sanzionare il coniuge colpevole della rottura del matrimonio, ma solo quella di garantire al coniuge economicamente più debole lo stesso tenore di vita di cui godeva durante il matrimonio. Dunque, il mantenimento ha solo una funzione assistenziale. La regola è dunque la seguente:

  • chi tradisce versa il mantenimento solo se l’altro coniuge ha un reddito inferiore, che non gli consente di mantenere il tenore di vita che aveva durante il matrimonio; nelle altre ipotesi non è tenuto ad alcun mantenimento;
  • chi tradisce non può mai chiedere il mantenimento per sé; a tutto voler concedere potrebbe chiedere gli alimenti (che sono ben più misera cosa) se solo dimostra di versare in condizioni di povertà estrema.

Se, dunque, è vero che chi subisce l’addebito non può pretendere il mantenimento nonostante sia più povero dell’altro, non è detto che chi tradisce debba sempre pagare il mantenimento all’ex se quest’ultimo ha lo stesso reddito del coniuge fedifrago o, addirittura, uno superiore. Si pensi, per esempio, all’uomo che sposa una donna particolarmente benestante, che con il proprio patrimonio contribuisce maggiormente al ménage della famiglia. In tal caso, se il marito tradisce la moglie non le dovrà versare alcun mantenimento. Tuttavia, il marito, in quanto colpevole, non potrà a sua volta chiedere il mantenimento.

            Che funzione ha l’assegnazione della casa coniugale. Così come chi tradisce non deve necessariamente versare il mantenimento, non è neanche detto che egli debba lasciare la casa coniugale all’ex. Anche in questo caso, la funzione dell’assegnazione della casa non ha natura punitiva, ma serve solo a garantire ai figli di continuare a vivere, nonostante la separazione dei genitori, nello stesso habitat domestico. Di conseguenza:

  • se la coppia non ha figli, chi tradisce continua a vivere nella propria casa di proprietà e la stessa non viene assegnata all’altro coniuge;
  • se i figli sono ormai autonomi economicamente o non vivono più con i genitori, la casa rimane al legittimo proprietario (che, appunto, potrebbe essere il coniuge traditore);
  • se il genitore a cui è stata assegnata la casa familiare e presso cui sono stati collocati i figli decide di andare a vivere altrove, la casa torna nella disponibilità dell’altro coniuge.

E l’affidamento dei figli? Anche le regole sull’affidamento dei figli non subiscono influenze dall’eventuale accertamento dell’infedeltà. Il padre infedele – ha più volte ripetuto la giurisprudenza – può essere un buon padre e, quindi, ha diritto a vedere e frequentare i figli secondo i principi dell’affido condiviso (che in questo caso non hanno ragione di essere derogati). Anzi, la madre che per ripicca non gli consente di vedere i minori rischia di perdere essa stessa l’affidamento della prole.

Redazione LpT                      11 novembre 2015

www.laleggepertutti.it/104108_se-il-marito-tradisce-non-deve-pagare-il-mantenimento-ne-perde-la-casa

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AFFIDO

“Quanti sono i minori fuori famiglia in Italia?”

Quanti sono esattamente i minori fuori famiglia? Quanti quelli che sono accolti da una famiglia affidataria e quanti invece quelli che vivono nelle comunità educative? Domande semplici a cui basterebbe rispondere con un censimento che faccia il punto della situazione su scala nazionale e regione per regione. Ma avere questi dati aggiornati è quasi impossibile: un arcano, un mistero frutto di superficialità e, probabilmente, di poco interesse da parte delle istituzioni pubbliche. Risultato? Dati incompleti, disomogenei e soprattutto non aggiornati. Dalle Regioni, infatti, arrivano informazioni frammentarie per cui non è ancora possibile pubblicare dati nazionali sui minori fuori famiglia completi, aggiornati al 2013 e confrontabili con quelli degli anni precedenti.

            A lanciare l’allarme il sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali, Franca Biondelli, durante l’audizione che si è svolta l’11 novembre davanti alla commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, presieduta dall’on. Michela Vittoria Brambilla (presidente della commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza) nell’ambito dell’indagine sui minori fuori famiglia.

            “Spiace – ha sottolineato la presidente on. Brambilla – la scarsa attenzione mostrata da alcune Regioni. Il tema meriterebbe ben altro impegno”. Praticamente solo le Regioni del Centro-Nord (Piemonte, Val d’Aosta, Lombardia, Province di Trento e di Bolzano, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Umbria) hanno risposto al questionario lanciato dal ministero del Lavoro con dati omogenei e confrontabili: tra il 2012 e il 2013 si può constatare un piccolo aumento, da 15.196 a 15.532 accolti. Si conferma anche, dai dati nazionali disponibili, “la distribuzione sostanzialmente equa” tra servizi residenziali e affidi familiari che sono comunque più diffusi nelle regioni centrosettentrionali.

            Un altro dato caratteristico, benché sia stato possibile censire solo una parte dei minori stranieri non accompagnati, è l’aumento della presenza straniera nei servizi residenziali: nel 2013 praticamente un ospite su tre era straniero, con un raddoppio dell’incidenza rispetto al 1998 (33 contro 16%). Comunque, hanno assicurato sia il sottosegretario che il direttore generale per l’inclusione e le politiche sociali, Raffaele Tangorra, prosegue l’impegno del ministero per raccogliere ed integrare i dati con l’obiettivo di pubblicare presto numeri nazionali più precisi.

            In tre Regioni (Piemonte, Emilia Romagna e Campania) è stata anche lanciata una rilevazione sperimentale sulla qualità e sugli esiti dell’accoglienza. In tutte l’esito prevalente dell’affidamento familiare risulta essere il ritorno nella famiglia di origine (rispettivamente 37% dei casi, 35% e 46%).

            “Spiace che la mancata collaborazione di alcune Regioni – ribadisce la Brambilla -, purtroppo quasi sempre le stesse, ci impedisca di disporre fin d’ora di un quadro aggiornato e attendibile del fenomeno. L’attenzione dovrebbe essere proporzionale alla delicatezza del tema, invece così non è”.

            Quindi i dati “più aggiornati” che si hanno risalgono al 2012, ovvero a quelli contenuti nel rapporto “Affidamenti familiari e collocamenti in comunità al 31.12.2012”, redatto dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: ad “oggi” sono 28.449 i minori nel nostro Paese, di cui 14.194 in affido familiare e 14.255 in comunità: ancora tanti, pur in leggero e costante calo dal 2007, quando erano 32.400. Di questi quasi i due terzi dei bambini tra gli 0 e i 2 anni temporaneamente fuori famiglia si trovano in comunità residenziali: sono il 64,2% (ovvero 955 minori), mentre solo il 35,8% (568 bambini) vive con una famiglia affidataria. Niente affatto trascurabile è anche il dato relativo ai piccoli tra i 3 e i 5 anni: in questo caso, la percentuale di minori accolti in strutture residenziali è minoritario rispetto a quella di coloro che vivono con dei genitori affidatari, ma i primi sono pur sempre il 42,7%, contro il 57,3% dei secondi, ovvero1.083 contro 1.561 minori. Paradossalmente, è dai 6 anni in su che si ricorre di più all’affido familiare: La percentuale più bassa degli accolti in strutture residenziali si registra infatti nella fascia 6-10 anni: è del 38,6%, comunque più di uno su 3. Anche gli adolescenti fuori famiglia tra gli 11 e i 14 anni si trovano prevalentemente in affido familiare: il 54,2% contro il 45,8% che si trova in comunità.

Ai. Bi.  12 novembre 2015                 www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Addio mantenimento della moglie.

Come si determina l’assegno di mantenimento, il calcolo, la capacità di lavorare della donna e l’impossibilità a mantenerla del marito. Ai giudici piace sempre meno l’idea un mantenimento della donna giovane e ancora abile al lavoro; e forse, non piace neanche più alle donne stesse, complice una mutata situazione economica e sociale rispetto a quando le norme del codice civile furono scritte. Così le aule dei tribunali sono sempre meno propense all’accordare assegni di mantenimento generosi e, molto spesso, superiori alle capacità del soggetto onerato (di norma, appunto, l’uomo).

            Una recente sentenza della Cassazione [prima Sezione civile, Sent. n. 11870, 9 giugno 2015] risulta particolarmente interessante perché segna uno spartiacque tra le situazioni in cui vi è effettiva situazione di bisogno della donna – situazioni in cui l’assegno di mantenimento assume una valida giustificazione – e altre invece in cui lo stato di bisogno è solo il frutto del capriccio e della pigrizia – nel cui caso, invece, il mantenimento va negato -. In particolare, l’inversione di rotta segnata dalla Suprema Corte (rispetto a un passato non troppo recente) consiste nell’affermare che la donna giovane, in grado di lavorare e, quindi, di reperire con la propria attività quel reddito necessari a mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva durante il matrimonio, non ha diritto ad alcun mantenimento. E ciò anche se, durante l’unione, svolgeva mansioni di casalinga. Insomma, ciascuno dei due ex coniugi deve badare a sé stesso e non c’è modo di obbligare l’uomo a mantenere la donna se quest’ultima ha le risorse fisiche e mentali per guadagnare. A tal fine, anche un’attività saltuaria potrebbe rilevare come motivo per chiedere la revisione delle condizioni di mantenimento e azzerare l’assegno. Tuttavia l’aspetto forse centrale di tutto questo discorso è che ora l’onere della prova ricade sulla donna e non più sul marito.

            Sappiamo che non esiste un criterio matematico in base al quale la legge definisce come calcolare il mantenimento, ma la Cassazione ha dettato alcune linee guida abbastanza chiare. Eccole:

1)      il primo obiettivo dell’assegno di mantenimento è quello di garantire alla donna lo stesso tenore di vita di cui godeva quando ancora era legata in matrimonio con l’uomo;

2)      tale obiettivo va perseguito nella misura in cui sia sostenibile per l’uomo e, quindi, compatibile con le nuove spese da questi assunte a seguito della separazione (si pensi al canone di affitto di una nuova abitazione, il mutuo per l’acquisto di una nuova casa, ecc.).

Ferme queste due linee direttive, accanto ad esse si aggiungono altri criteri che possono integrare la valutazione del giudice e spingere l’ago della bilancia da un lato piuttosto che dall’altro. Per esempio il tribunale dovrà tenere conto della durata della convivenza prematrimoniale, del matrimonio stesso prima della rottura, del contributo offerto da ciascuno dei due coniugi alla conduzione familiare, ma soprattutto della capacità di reddito del coniuge che chiede il mantenimento. In altre parole se quest’ultimo è ancora “abile”, capace cioè di procurarsi con le proprie forze di che vivere, perché giovane, preparato/a, magari con un titolo abilitativo e una formazione professionale, allora il mantenimento potrà essere negato.

            L’onere della prova. L’aspetto più interessante della sentenza in commento è che la Corte rigetta la domanda di mantenimento della donna, una casalinga, per non aver questa fornito alcuna prova dell’oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio. In altre parole, l’importanza del principio affermato in sentenza è quello secondo cui la dimostrazione della “difficoltà economica” e della “impossibilità a procurarsi un reddito” spetta alla donna. L’assegno, insomma, non diventa più una misura automatica, che scatta per il solo fatto della separazione tra i due coniugi.

In passato gran parte degli assegni di mantenimento sono stati accordati a semplice richiesta: il giudice ha accordato in automatico il mantenimento, quasi si trattasse di una misura assistenziale perpetua, una sorta di assicurazione sulla vita. Sembra invece consolidarsi il principio per cui, se il richiedente (di norma la donna) non offre una valida giustificazione economica, con una prova rigorosa, della sua incapacità a procurarsi un reddito, perde ogni diritto. E non c’è modo di integrare la prova in appello.

            I precedenti. In passato, la Corte aveva sposato orientamenti più rigidi se non opposti. Si pensi che, nel 1994 [Cass. Sent. n. 2982/1994], i giudici avevano sostenuto invece che, in tema di divorzio, il coniuge che richiede l’assegno divorzile può limitarsi a dedurre di non avere i mezzi adeguati, trasferendo così sulla controparte l’onere probatorio della contraria verità. Successivamente l’orientamento è mutato divenendo più rigido. Nel 2004 [Cass. Sent. n. 21080/2004], la Cassazione ha sostenuto che il coniuge richiedente il mantenimento deve dimostrare, con idonei mezzi di prova, quale fosse tale tenore di vita e quale deterioramento ne sia conseguito per effetto del divorzio, nonché tutte le circostanze suscettibili di essere valutate dal giudice alla luce dei criteri legislativi per la determinazione dell’assegno. L’anno scorso il Tribunale di Milano [sent. n. 14269/2014] ha ribadito l’importanza di considerare la capacità lavorativa del coniuge che richiede il mantenimento. In materia di assegno di mantenimento – si legge in sentenza – per verificare i presupposti dell’attribuzione dello stesso (a seguito di separazione personale), si deve prioritariamente valutare il tenore di vita della famiglia, per poi valutare se i mezzi economici del coniuge richiedente siano tali da consentire il mantenimento di tale tenore di vita, indipendentemente dall’erogazione di un contributo di mantenimento, e se sussista una disparità economica tra i due coniugi. Si deve, poi, avere riguardo alle potenzialità economiche complessive dei coniugi (come emerse durante il matrimonio), tenendo conto della durata del matrimonio e dell’apporto dato da un coniuge alla formazione del patrimonio dell’altro. Nella valutazione delle potenzialità economiche complessive, infine, deve anche considerarsi l’attitudine al lavoro proficuo quale potenziale capacità di guadagno e quale attitudine concreta allo svolgimento di un lavoro retribuito, tenuto conto dei fattori individuali ed ambientali.

            Come si calcola l’assegno divorzile o di mantenimento. Secondo la Corte, l’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in due fasi:

1)      nella prima fase, il giudice verifica l’esistenza del diritto del soggetto che chiede il mantenimento: accerta, cioè, l’eventuale inadeguatezza dei suoi mezzi economici per garantirsi il tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Il parametro di riferimento, però, non è solo il reddito della famiglia quando ancora era unita, ma anche quello che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione del matrimonio. In questo modo, allorché una coppia faccia grossi sacrifici solo per far decollare un’attività o la carriera di uno dei, ma ciò avvenga solo dopo la separazione, di tale utile potrà partecipare anche l’altro coniuge, come ricompensa ai precedenti sforzi fatti;

2)      nella seconda fase il giudice procede alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio.

Nell’ambito di questo duplice accertamento assumono rilievo – sottolinea la Corte – anche le rispettive potenzialità economiche.

                        Redazione LpT                      9 novembre 2015

Sentenza     www.laleggepertutti.it/103881_divorzio-addio-mantenimento-della-moglie

Va condannato il padre che non versa il mantenimento alla figlia e per di più si dimette da due lavori.

Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 44683, 6 novembre 2015.

Impensabile anche l’applicazione della particolare tenuità del fatto in ragione della deprecabile condotta. Non solo ha fatto mancare il mantenimento alla figlia, ma cosa ancor più grave si è dimesso per ben due volte dal lavoro, macchiandosi di una condotta inevitabilmente sanzionabile ex art. 570 c.p. A stabilirlo è la Cassazione (allegata), rigettando il ricorso di un uomo che ricorreva avverso la decisione della corte d’appello di Palermo di conferma della condanna per il reato di violazione degli obblighi familiari, rideterminando la pena e condannandolo anche al risarcimento del danno nei confronti della moglie.

            A nulla rileva la difesa dell’uomo che sosteneva che la moglie e la sua famiglia d’origine avessero i mezzi per provvedere “autonomamente all’intero sostentamento in supplenza dell’obbligo violato” dallo stesso. Né le saltuari regalie da parte dell’imputato, in quanto “l’adempimento dell’obbligo si concretizza, infatti, solo nel mettere a disposizione del genitore in concreto affidatario il proprio contributo indispensabile per fronteggiare le quotidiane permanenti essenziali esigenze di vita del minore” Ancora, ha affermato la S.C., diversamente da quanto dedotto dal padre e per consolidata giurisprudenza di legittimità, “lo stato di bisogno dei minore è presunto, salvo i casi in cui egli abbia personali autonome risorse economiche o finanziarie sufficienti in grado di permettere a chi ne ha il contingente affidamento l’utilizzazione finalizzata all’autonomo sostentamento”.

            Quanto alla particolare tenuità del fatto, è impensabile per il Palazzaccio poterne richiedere l’applicazione sulla base del modesto “peso” economico dell’obbligo previsto a carico del padre. Non solo costui ha deliberatamente ignorato il proprio dovere, disinteressandosi completamente della figlia e ponendo in essere “una condotta consapevolmente colposa e protrattasi per lungo tempo e con sottrazione totale all’obbligo pur dal contenuto modesto”, per di più si è dimesso volontariamente da due attività lavorative. Tutto ciò è all’evidenza ostativo, ha concluso la S.C., alla configurabilità della fattispecie di speciale tenuità. Per cui, ricorso rigettato e padre condannato anche al pagamento delle spese processuali.

Marina Crisafi Newsletter Giuridica 09 novembre 2015 – – studiocataldi.it

www.studiocataldi.it/articoli/19985-cassazione-va-condannato-il-padre-che-non-versa-il-mantenimento-alla-figlia-e-per-di-piu-si-dimette-da-due-lavori.asp

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BIOETICA

Embrioni «scartati» un gelido destino.

La sentenza n. 229\2015 della Corte costituzionale, [vedi oltre], ha di nuovo per oggetto la legge 40\2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Questa volta a finire sotto la lente della Consulta è stato l’art. 13, laddove esso vieta, al comma 3.b, «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni», e, dunque, anche quella per evitare il trasferimento in utero di embrioni affetti da anomalie genetiche e lo sviluppo di figli affetti da patologie a esse correlate.

Il tribunale di Napoli, nel sollevare il quesito di legittimità della sanzionabilità penale della «condotta dell’operatore medico volta a consentire il trasferimento nell’utero della donna dei soli embrioni sani o portatori sani di malattie genetiche» aveva fatto riferimento non solo all’art. 13.3.b (divieto di selezione), ma anche al primo comma dell’art. 14 che vieta «la crioconservazione e la soppressione di embrioni». La ragione (correttissima) di questo accostamento è legata alla realtà del laboratorio clinico di fecondazione in vitro: contrariamente a quanto spesso fatto intendere nei dibattiti pubblici e attraverso i mass media, l’identificazione e la selezione degli embrioni ‘sani’ e di quelli ‘malati’ implica – allo stato attuale delle possibilità di intervento terapeutico sull’embrione prima dell’impianto (praticamente inesistenti) – che quelli ‘malati’, non trasferiti in utero, siano immediatamente distrutti o consegnati alla ricerca sperimentale (con conseguente successiva distruzione), oppure conservati in azoto liquido senza ragionevoli aspettative di ulteriore sviluppo (e, dunque, destinati a perdere progressivamente la loro vitalità con il passare degli anni).

Attualmente, di fatto – ancor prima che di principio e di norma – la questione della selezione degli embrioni destinati all’impianto endometriale non è separabile da quella del loro destino (di sviluppo o di morte) e, dunque, da quella della loro soggettività e dignità umana e della conseguente tutela giuridica. Qualunque strada si intenda imboccare per sciogliere l’intricato nodo del rapporto clinico, etico e giuridico tra Pma, salute del nascituro concepito in vitro, e determinazione della madre in ordine alla gravidanza attesa, essa deve confrontarsi con il nesso obiettivo tra selezione embrionale e diritti del concepito, riconosciuti e assicurati dal primo articolo della legge 40 al pari di quelli di «tutti i soggetti coinvolti» nella Pma. Un articolo mai messo in discussione a Palazzo della Consulta.

Nella risposta ai giudici partenopei – da leggersi in continuità con la recente sentenza n. 96/2015 della stessa Corte costituzionale ed entro i limiti da essa posti, che estende il ricorso alla Pma anche (e solo) «alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità» della patologia previsti dalla legge 194 sull’aborto volontario (art. 6.1.b) – la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 13 laddove esso proibisce e sanziona la selezione eugenetica degli embrioni in relazione a malattie ereditarie che possono essere trasmesse dai genitori ai figli, ma ha contemporaneamente respinto l’ipotesi di incostituzionalità per quanto concerne i commi 1 e 6 dell’art. 14. In prima considerazione, questa decisione sembra prospettare una situazione non realistica, impraticabile: l’art. 14, infatti, vieta sia la soppressione che la crioconservazione degli embrioni. Quale, dunque, il destino di quelli non selezionati per il trasferimento in utero in quanto presentano anomalie genetiche? La sentenza, in riferimento a un’altra della Consulta sulla medesima legge 40, la n. 151/2009, che ha di fatto aperto la strada alla crioconservazione non solo temporanea (cause transitorie di forza maggiore) degli embrioni residuali rispetto al trasferimento in utero, prospetta anche per quelli ‘malati’ la medesima sorte.

Non possiamo però non chiederci come il pur apprezzabile riconoscimento all’embrione umano di un «grado di soggettività correlato alla genesi della vita» che non lo rende «certamente riducibile a mero materiale biologico», presente nel testo della sentenza, sia coerente con l’autorizzazione di una procedura – la crioconservazione senza ragionevole prospettiva di ripresa dello sviluppo – che interrompe proprio la «genesi della vita» di un individuo umano. Uno di noi, anche se ‘scartato’.

Roberto Colombo                  Avvenire         12 novembre 2015

www.avvenire.it/Commenti/Pagine/EMBRIONI-SCARTATI-UN-GELIDO-DESTINO-.aspx

Legge 40, 19 febbraio 2004              www.camera.it/parlam/leggi/04040l.htm

Sentenze Corte Costituzionale                                      www.giurcost.org/decisioni

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CASA FAMILIARE

Niente casa coniugale all’ex con figli ultratrentenni e titolari di altro immobile.

Corte d’appello Taranto, Sezione civile, sentenza n. 203, 30 aprile 2015.

La Corte d’appello conferma la revoca dell’assegnazione dell’immobile in ragione del venir meno dei presupposti per il permanere dell’obbligo. E’ guerra contro i “bamboccioni” anche da parte dei giudici di merito. Se i figli sono ultratrentenni e per di più titolari di altro immobile, non vi è ragione perché la casa coniugale continui ad essere assegnata a loro e al genitore convivente. Anzi è da ritenersi superato quel ragionevole limite di tempo e di misura che ha giustificato l’assegnazione e la casa deve tornare all’altro genitore esclusivo proprietario.

            Lo ha ribadito la Corte d’Appello di Taranto con la recente sentenza n. 203/2015 (allegata), rigettando l’appello proposto da ex coniuge e figli avverso l’ordinanza con cui il tribunale li aveva condannati all’immediato rilascio dell’immobile, precedentemente adibito a casa coniugale, in favore del legittimo proprietario. Richiamando i principi consolidati in giurisprudenza di legittimità, il giudice pugliese ha infatti sottolineato che “nell’ipotesi di immobile di esclusiva proprietà di un coniuge, allorché venga disposta la revoca dell’assegnazione dell’immobile all’altro coniuge, deve necessariamente conseguire la restituzione dell’immobile all’avente diritto”.

            Del resto, ai fini del riconoscimento dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, ovvero del diritto all’assegnazione della casa coniugale, la stessa Suprema Corte ha affermato (cfr. Cass. n. 18076/2014) che “il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l’assegnazione dell’immobile, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni”.

            E nella vicenda, i figli rispettivamente di 35 e 31 anni, non solo non hanno provato il loro stato di disoccupazione ma sono anche proprietari di un appartamento, donato loro dalla nonna paterna.

Per cui appello rigettato e ordinanza confermata: ex e figli, pertanto, dovranno rassegnarsi a liberare la casa!

Marina Crisafi           Newsletter giuridica – studiocataldi.it    09 novembre 2015

www.studiocataldi.it/articoli/19994-niente-casa-coniugale-all-ex-con-figli-ultratrentenni-e-titolari-di-altro-immobile.asp

Niente casa coniugale all’ex che vive con i figli se non è mai stata abitata dalla famiglia.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 22581, 4 novembre 2015.

Per la Cassazione, il presupposto per l’assegnazione è l’esigenza di conservare l’habitat che ha costituito il centro di aggregazione della famiglia. Nessuna assegnazione della casa coniugale all’ex moglie, collocataria dei figli, se l’immobile non è mai stato abitato dalla famiglia. Lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza (allegata) rigettando il ricorso di una donna separata dal marito che impugnava la sentenza della corte d’appello di Roma di rigetto dell’istanza di assegnazione della casa coniugale.

            Il giudice di merito (confermando la decisione del giudice di prime cure) aveva affidato la figlia minore ad entrambi i genitori, disponendo la residenza presso la madre, fissato a carico del marito un assegno di mantenimento di 2mila euro a favore dell’ex e della bambina (mille euro cadauno) e negato l’assegnazione della casa coniugale di proprietà esclusiva dell’uomo. La donna, però, era di diverso avviso e adiva la Cassazione lamentando che la casa era stata acquistata con denaro comune e destinata ad abitazione della famiglia, cosa di fatto impedita dall’ex marito che il giorno prima del trasferimento nel nuovo appartamento aveva abbandonato lei e la figlia portando con sé anche le chiavi.

            Per gli Ermellini, tuttavia, ha ragione la corte di merito. Il rigetto della domanda di assegnazione della casa di proprietà esclusiva del marito – hanno affermato infatti – “che pacificamente non è mai stata adibita ad abitazione del nucleo familiare, è coerente alla giurisprudenza di legittimità secondo cui l’assegnazione della casa familiare prevista dall’articolo 155-quater c.c., rispondendo all’esigenza di conservare l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, è consentita unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi avessero la disponibilità”. Per cui, ricorso respinto e donna condannata al pagamento delle spese di lite.

Marina Crisafi –         Newsletter giuridica 09 novembre 2015 – studiocataldi.it

www.studiocataldi.it/articoli/19968-niente-casa-coniugale-all-ex-che-vive-con-i-figli-se-non-e-mai-stata-abitata-dalla-famiglia.asp

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CHIESA CATTOLICA

Nel patto delle catacombe il seme della Chiesa di Francesco.

Cinquant’anni fa 42 vescovi del mondo (poi diventati 500) si impegnarono per una “Chiesa povera per i poveri”. Era il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II. Alcuni vescovi di varie parti del mondo, a Roma per partecipare all’assise conciliare, si trovarono a celebrare alle catacombe di Santa Domitilla e “alla fioca luce della sera” firmarono un patto in 12 punti per una “Chiesa povera e per i poveri”. “Era emersa già l’idea della Chiesa dei poveri, soprattutto per l’influsso dell’episcopato latino-americano – racconta uno dei firmatari, mons. Luigi Bettazzi, [92 anni il 26 novembre], vescovo emerito di Ivrea, allora ausiliare a Bologna di mons. Giacomo Lercaro-. Si era, però, ai tempi della Guerra Fredda e il papa Paolo VI ebbe timore che questa sottolineatura potesse assumere un colore politico, così preferì pubblicare più tardi un’enciclica su questo argomento: la Popolorum Progressio”. Fu allora che i vescovi belgi, capofila del Movimento della Chiesa dei poveri, proposero l’idea di un patto tra i vescovi del mondo per impegnarsi in uno stile di vita sobrio, più vicino alla gente, lontano dal lusso e dalla tentazione del potere. A cominciare dai titoli: “Rifiutiamo di essere chiamati con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…) – si legge nel testo -. Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre». “Vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto” enuncia puntigliosamente l’elenco in 12 punti, rinunciando “per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti. Né oro, né argento”. “Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca” si impegnavano i vescovi, e “tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli”.

            Alla base del servizio rivolto in particolare a “persone e gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati” c’è la consapevolezza “delle esigenze di giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni”; per questo i vescovi – inizialmente 42, arrivati poi nel corso del tempo a 500 – si proponevano di cercare di “trasformare le opere di ‘beneficenza’ in opere sociali fondate sulla carità e la giustizia”.

E’ urgente un Vaticano III

            Non meraviglia trovare tra i firmatari personalità come dom Helder Camara, arcivescovo di Recife in Brasile; l’ausiliare di Cordoba (Argentina) Enrique Angelelli assassinato durante la dittatura e amico dell’allora padre Jorge Mario Bergoglio; l’arcivescovo di Nazaret, Hakim; Massimo IV patriarca di Antiochia, Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba (Ecuador), difensore dei campesinos; il vescovo di Tournai (Belgio), Charles-Marie Himmer, che tenne l’omelia di quella celebrazione alle catacombe. Successivamente il patto fu firmato anche dal beato mons. Oscar Romero, assassinato dalla giunta militare del Salvador.

            “Ah, come vorrei una Chiesa povera per i poveri” disse a pochi giorni dalla sua elezione, il 16 marzo 2013, papa Francesco. Cinquant’anni dopo la sensibilità e lo stile del pontefice venuto dalla fine del mondo sembra realizzare quell’impegno preso dai vescovi conciliari a Santa Domitilla e conferisce un sapore particolare alle celebrazioni previste per l’anniversario. “Come un seme di frumento – afferma mons. Bettazzi – messo sotto la terra e cresciuto pian piano fino a dare i suoi frutti”.

Chiara Santomiero    Aleteia                        14 novembre 2015

http://it.aleteia.org/2015/11/14/nel-patto-delle-catacombe-il-seme-della-chiesa-di-francesco

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Faenza. Il corpo racconta

Incontri per ragazze 11-12 anni

 

 

https://famigliefaenza.files.wordpress.com/2011/01/volantino-roberta-moretti.jpg

www.informafamiglie.it/emiliaromagna/faenza/prima-e-dopo-la-nascita/consultori-familiari-pubblici-e-privati/consultorio-familiare-ucipem/user_view

Parma                        Incontri e collaborazione con il settimanale diocesano.

Incontri                       Un adolescente fra noi. Parliamone insieme. A cura della dr Erika Vitrano, psicologa

Cosa cambia nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza? Quali criticità emergono? Quali sono le maggiori difficoltà che genitori e figli incontrano?

Due cicli di incontri di gruppo, rivolti ai genitori e a tutti coloro che accompagnano gli adolescenti nel loro percorso di crescita. L’obiettivo è quello di creare un’occasione di confronto e di scambio fra adulti, accogliere difficoltà, offrire sostegno e attivare risorse.

1° ciclo                       26 novembre   Genitori e adolescenza: si salvi chi può.

Erika Vitrano e Margherita Campanini

                        3 dicembre 2015, 7 gennaio e 4 febbraio 2016

2° ciclo            27 marzo, 14 aprile, 19 maggio 2016

L’iniziativa gode del patrocinio e del finanziamento del Comune di Parma, Assessorato alla Partecipazione

www.famigliapiu.it/

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CORTE COSTITUZIONALE

Non è reato la selezione degli embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili.

Sentenza n. 229, depositata 11 novembre 2015.

Norme impugnate: Art. 13, c. 3°, lett. b), e 4°, e art. 4, c. 1° e 6°, della legge 19/02/2004, n. 40.

Illegittimità costituzionale parziale.

Dispositivo: la Corte Costituzionale

1)      dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela della maternità e sulla interruzione della gravidanza) e accertate da apposite strutture pubbliche;

2)      dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 1 e 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevata − in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione ed all’art. 117, primo comma Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 − dal Tribunale ordinario di Napoli, con l’ordinanza in epigrafe.

http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero=229

www.giurcost.org/decisioni

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DALLA NAVATA

33° domenica del tempo ordinario – anno B -15 novembre 2015.

Daniele           12, 01 «In quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque sarà scritto nel libro».

Salmo                         16, 11 «Mi indicherai il servizio della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra».

Ebrei               10, 14 «Cristo, infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati».

Marco             13, 44 «Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

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FAMIGLIA

Famiglia, separazioni e responsabilità

1. Sparisce la potestà genitoriale. Qual è la nozione di responsabilità genitoriale introdotta dal Dlgs 154/2013? La legge 219/2012 di riforma della filiazione aveva delegato il Governo a delineare «la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale». Il legislatore delegato ha in realtà sostituito il termine “potestà”, di chiara matrice “adultocentrica”, con quello più moderno e rispondente ai canoni europeisti di “responsabilità”, mantenendone di fatto invariato il contenuto, che viene descritto dal primo comma dell’articolo 316 del Codice civile. La norma in questione stabilisce che «entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore». Il principio qui enunciato è quello della bigenitorialità, già introdotto nel nostro ordinamento con la legge 54/2006, che sancisce il diritto del figlio di coltivare un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori.

2. Dal riconoscimento la responsabilità Quali sono i diritti che la legge italiana riconosce ai figli nati da genitori non coniugati? La riforma varata con la legge 219/2012, attraverso la riformulazione dell’articolo 315 del Codice civile, ha proclamato l’unicità dello stato di figlio. La norma citata, rubricata “Stato giuridico della filiazione”, stabilisce infatti che «tutti i figli hanno lo stesso “status” giuridico». Dalla data di entrata in vigore di questa novità, almeno sul piano sostanziale, non vi è più alcuna differenza tra i figli nati dentro e quelli nati fuori dal matrimonio. A rafforzare tale enunciazione di principio vi è poi la previsione, contenuta nel quarto comma dell’articolo 316 del Codice civile, dell’automatismo tra riconoscimento e attribuzione di responsabilità genitoriale. La norma stabilisce infatti che il «genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui» e che «se il riconoscimento del figlio, nato fuori dal matrimonio, è fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta a entrambi». In che cosa si traduce concretamente l’esercizio della responsabilità genitoriale lo dice l’articolo 315-bis, che rappresenta una sorta di statuto dei diritti e doveri del figlio. Secondo la norma, il figlio ha diritto a essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni; ha, inoltre, diritto di crescere in famiglia e a mantenere rapporti significativi con i parenti; deve, infine, rispettare i genitori e ha altresì il dovere di contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.

3. Parificazione ma con riti diversi. Quali differenze di trattamento ancora permangono tra i figli nati dentro e fuori dal matrimonio? Sul piano sostanziale si è finalmente giunti a una completa parificazione tra tutti i figli. Dal punto di vista processuale, invece, sono ancora previsti due differenti modi di far valere i diritti dei figli, a seconda che i loro genitori siano o meno sposati. La legge 219/2012 ha individuato nel tribunale ordinario l’unico giudice deputato a conoscere delle controversie relative alla responsabilità genitoriale; tuttavia ha mantenuto una diversità di rito, che finisce con il perpetrare la discriminazione tra i figli. I figli nati nel matrimonio si avvalgono infatti di un rito caratterizzato dalla cognizione piena, con le conseguenti garanzie difensive, mentre quelli nati fuori dal matrimonio accedono alla tutela giurisdizionale attraverso il rito camerale, concepito per i procedimenti di volontaria giurisdizione e, conseguentemente, poco adatto alla tutela dei diritti soggettivi.

4. Le decisioni affidate al giudice. Se i genitori che esercitano congiuntamente la responsabilità genitoriale non sono d’accordo su una decisione da assumere nell’interesse del figlio, chi ha il potere di decidere? In caso di contrasto tra i genitori, se vi è l’urgenza di assumere una decisione, non è più il padre ad avere il potere di decidere, come stabiliva il testo dell’articolo 316 del Codice civile, ora modificato, ma è necessario ricorrere senza formalità al giudice: sarà quest’ultimo, infatti, a suggerire le determinazioni più idonee e, se il contrasto permane, ad attribuire il potere decisionale a quello dei genitori che, nello specifico caso concreto, reputa più idoneo. È anche bene ricordare che lo stesso articolo 316 del Codice civile, all’ultimo comma, prevede che il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale, pur rimanendone titolare, ad esempio nel caso in cui nell’interesse del minore sia stato disposto l’affidamento esclusivo a un solo genitore, ha comunque sempre il compito di vigilare sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio.

5. Genitori con diversa cittadinanza. Come viene regolamentata la responsabilità genitoriale nel caso i due genitori abbiano diversa cittadinanza? Con la riforma della filiazione è stato affermato che il riconoscimento dello stato di figlio è regolato dalla legge nazionale del minore, o, se più favorevole, da quella dello Stato di cui sono cittadini i genitori o coloro che vogliono effettuare il riconoscimento. Sul criterio della legge nazionale del minore prevale dunque oggi l’interesse di quest’ultimo. Inoltre la riforma ha stabilito che si deve in ogni caso applicare la legge italiana, nel punto in cui sancisce l’unicità dello stato di figlio, nonché le norme di diritto italiano che: a) attribuiscono ad entrambi i genitori la responsabilità genitoriale; b) stabiliscono il dovere di entrambi i genitori di provvedere al mantenimento del figlio; c) attribuiscono al giudice il potere di adottare provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale in presenza di condotte pregiudizievoli per il figlio.

6. Famiglie allargate: quali sono le tutele. Nelle cosiddette famiglie allargate, come è possibile tutelare il legame che si viene a creare tra il figlio e il coniuge del proprio genitore? L’articolo 44 della legge 184/1983, alla lettera b, consente al coniuge di adottare il figlio minorenne dell’altro. Peraltro, il minore adottato conserva lo “status” di figlio rispetto ai propri genitori biologici, e conseguentemente conserva tutti i diritti e i doveri nei confronti della famiglia di origine, instaurando tuttavia un ulteriore legame di parentela con l’adottante. L’articolo 45 della legge 184/1983 stabilisce che, per procedere all’adozione a norma dell’articolo 44, è necessario il consenso, oltre che dell’adottante, anche dell’adottando che abbia compiuto i 14 anni. Se l’adottando ha compiuto i 12 anni, deve comunque essere personalmente sentito; se ha un’età inferiore, va sentito a seguito di una considerazione della sua capacità di discernimento. In ogni caso, l’articolo 46 della legge citata prevede la necessità dell’assenso dei genitori dell’adottando. Quando tale assenso è negato, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell’adottante, può, ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse del minore, pronunciare ugualmente l’adozione, salvo che l’assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale. La norma riconosce dunque al genitore esercente la responsabilità un diritto incontrastato di negare l’assenso, che non può essere superato neppure dalla valutazione del tribunale.

7. Gli effetti dell’adozione. Quali sono gli effetti sull’esercizio della responsabilità genitoriale nel caso di adozione del figlio del coniuge? L’adottato conserva i diritti e i doveri nei confronti della famiglia di origine. Tuttavia l’adozione comporta anche per l’adottante la titolarità e l’esercizio della responsabilità genitoriale sull’adottato, e l’obbligo di mantenerlo, istruirlo ed educarlo conformemente a quanto prescritto dall’articolo 315-bis del Codice civile. Dottrina e giurisprudenza sono più volte intervenute per cercare di chiarire il rapporto tra la famiglia di origine ed il genitore adottivo in relazione allo svolgimento dei compiti genitoriali, osservando che, a seguito dell’adozione, i genitori biologici cessano di rappresentare all’esterno il figlio e di amministrarne il patrimonio, conservando tuttavia il potere/dovere di educazione unitamente ai genitori adottivi. In particolare, in relazione ai casi di adozione ex articolo 44, lettera b, è stato rilevato che l’adozione comporta per l’adottante l’assunzione in via primaria, unitamente alla responsabilità genitoriale, dell’obbligo di mantenimento dell’adottato e il venir meno di tale obbligo per il padre biologico, salva la possibilità – in via sussidiaria –di ripristinare l’obbligo in caso di insufficienza di mezzi dell’adottante e del coniuge. L’adottato assume il cognome dell’adottante, anteponendolo al proprio. Infine, all’adottante spetta l’amministrazione dei beni dell’adottato, dei quali, tuttavia, non ha l’usufrutto legale, non potendo, pertanto, utilizzare le rendite di questi beni per il mantenimento proprio o del complessivo nucleo familiare, ma esclusivamente a beneficio dell’adottato, con l’obbligo di investirne l’eccedenza in modo fruttifero.

8. L’adottante «more uxorio». Il convivente “more uxorio” può adottare il figlio della partner? L’articolo 44, comma 1, lettera b, della legge 184/1983 subordina espressamente tale ipotesi di adozione all’esistenza di un rapporto di “coniugio” tra l’adottante ed il genitore del minore. Tuttavia è stata ipotizzata la possibilità per il convivente “more uxorio” di accedere all’istituto dell’adozione in casi particolari, attraverso l’applicazione della lettera d del medesimo articolo, che consente al minore di essere adottato «quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo». Con sentenza 626 del 28 marzo 2007, il Tribunale per i minorenni di Milano, ampliando la portata interpretativa della norma, ha ammesso che l’impossibilità di affidamento preadottivo possa essere non solo di mero fatto, ma altresì di diritto, in assenza, cioè, di una dichiarazione di stato di abbandono del minore (avendo lo stesso almeno un genitore esercente la responsabilità con lo stesso convivente), e ha dichiarato l’adozione da parte del convivente della madre. Tale decisione è stata assunta dopo che il Tribunale aveva valutato il concreto interesse del minore, che nel tempo aveva instaurato un solido legame affettivo con il compagno convivente della propria madre.

9. La Cedu e le adozioni omosessuali. L’adozione, in casi particolari, può essere chiesta dal convivente omosessuale del genitore? Aderendo all’orientamento giurisprudenziale espresso dal Tribunale per i minorenni di Milano con la sentenza 626 del 28 marzo 2007 – che ammette la possibilità di adozione ex articolo 44, lettera d, per le coppie di conviventi (eterosessuali), sempre che la decisione corrisponda all’interesse primario del minore, si potrebbe ritenere che la medesima conclusione sia applicabile anche nel caso di conviventi del medesimo sesso. Sul punto sembra essere intervenuto soltanto il Tribunale per i minorenni di Roma con la sentenza 30 giugno-30 luglio 2014, che, richiamando la pronuncia della Corte di cassazione 601/2012, ha ribadito che «ferma restando la valutazione della fattispecie concreta… non può presumersi che l’interesse del minore non possa realizzarsi nell’ambito di un nucleo familiare costituito da una coppia di soggetti del medesimo sesso». La Corte di cassazione aveva, infatti, chiarito che l’inserimento di un minore in una famiglia composta da due persone dello stesso sesso non è di per sé pregiudizievole al minore stesso, dovendo il preteso pregiudizio essere adeguatamente comprovato da chi lo deduce. Ne consegue che «se la dannosità di un contesto familiare omosessuale per un minore non può presumersi… non può neppure presumersi che l’interesse preminente del minore non possa realizzarsi in tale contesto». «Pertanto – ha proseguito il Collegio romano – una volta valutato in concreto il superiore interesse del minore a essere adottato e l’adeguatezza degli adottanti a prendersene cura, un’interpretazione dell’articolo 44, comma 1, lettera d, della legge 184/1983 che escludesse l’adozione per le coppie omosessuali solo in ragione della predetta omosessualità, al tempo stesso riconoscendo la possibilità di ricorrere a tale istituto alle coppie di fatto eterosessuali, sarebbe un’interpretazione non conforme al dettato costituzionale in quanto lesiva del principio di uguaglianza (articolo 3 della Costituzione)». Infine, è stato altresì ricordato che «una lettura dell’articolo 44, comma 1, lettera d, che escludesse dalla possibilità di ricorrere all’istituto dell’adozione in casi particolari coppie di fatto omosessuali a motivo di tale orientamento sessuale si porrebbe in contrasto con gli articoli 14 e 8 della Cedu» (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). La Corte europea dei diritti umani, nella sentenza del 19 febbraio 2013, aveva ritenuto discriminatoria, per violazione dell’articolo 14, in combinato disposto con l’articolo 8 della Cedu, la legge austriaca che non consentiva alle coppie omosessuali l’adozione cosiddetta cogenitoriale (adozione del figlio del convivente), concessa invece alle coppie di fatto eterosessuali.

10. Il legame affettivo consolidato. Quali strumenti hanno i genitori “acquisiti” per mantenere una relazione continuativa con il figlio minore del proprio convivente dopo l’interruzione della convivenza? Il tribunale per i minorenni, secondo l’articolo 333 del Codice civile, è chiamato a intervenire, nell’esclusivo interesse del minore, ogni volta che la condotta del genitore, pur non essendo tale da giustificare una pronuncia di decadenza della responsabilità genitoriale, appaia comunque pregiudizievole al figlio. Conseguentemente, la persona che veda improvvisamente reciso il proprio legame con un minore ha la possibilità di rivolgersi alla procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni del luogo di residenza del minore, che, valutata la segnalazione, può decidere di ricorrere allo stesso tribunale affinché assuma i provvedimenti più opportuni. Nel richiedere tale forma di tutela è possibile richiamare anche la normativa sovranazionale, fonte di rango “super” primario, che sancisce il diritto del minore a una famiglia e al rispetto della vita familiare. La stessa giurisprudenza minorile ha avuto modo di evidenziare che la mancanza di una espressa previsione di legge non è sufficiente per precludere al giudice di riconoscere e regolamentare, nell’esclusivo interesse del minore, rapporti affettivi consolidati.

11. «genitori sociali» alla Consulta. Il tribunale, in applicazione dell’articolo 337-ter del Codice civile che sancisce il diritto del minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, può disciplinare il diritto dei minori di mantenere il rapporto instauratosi con l’ex compagno del loro genitore biologico, riconoscendo conseguentemente la legittimazione attiva – pur funzionale all’interesse dei minori –del cosiddetto genitore sociale? La Corte d’appello di Palermo (ordinanza 17 luglio – 31 agosto 2015), intervenuta recentemente nel caso di una madre “sociale” che aveva chiesto, ai sensi dell’articolo 337- ter del Codice civile, la regolamentazione delle proprie frequentazioni con i figli della sua ex compagna, nati a seguito di un percorso di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo condiviso dalle due donne, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 337 ter nella parte in cui non consente al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore conservare rapporti significativi con l’ex “partner” del genitore biologico, per violazione dell’articolo 2 della Costituzione, che ricomprende tra le “formazioni sociali” anche le famiglie di fatto, incluse quelle riguardanti coppie formate da persone dello stesso sesso, e conseguentemente degli articoli 30 e 31 della Costituzione, nonché del successivo articolo 117, che obbliga il legislatore italiano a rispettare i vincoli giuridici imposti dal diritto dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali; ha quindi disposto che gli atti venissero trasmessi alla Corte costituzionale.

12. Prevale l’interesse del minore. Qualora l’attribuzione del rapporto di filiazione con i due genitori omosessuali avvenga all’estero, è possibile ottenerne il riconoscimento in Italia? La Corte d’appello di Torino, con la sentenza del 29 ottobre 2014, ha affermato che, ai fini del riconoscimento o meno dei provvedimenti giurisdizionali stranieri, si deve avere prioritario riguardo all’interesse superiore del minore, che è stato ribadito in ambito comunitario con particolare riferimento al riconoscimento delle sentenze straniere in materia di rapporti tra genitori e figli dall’articolo 23 del regolamento Ce 2201/2003, il quale stabilisce espressamente che la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico dev’essere effettuata tenendo conto dell’interesse superiore del figlio. Nel caso di minore nato all’estero, da una coppia omosessuale, in seguito a un procedimento di fecondazione medicalmente assistita eterologa, l’atto di nascita può essere trascritto in Italia, secondo quanto affermato dalla Corte d’appello di Torino, poiché non si tratta di introdurre “ex novo” una situazione giuridica inesistente, ma di garantire la copertura giuridica a una situazione di fatto, in essere da diverso tempo, di un bambino che è stato cresciuto da due donne che la legge del Paese di provenienza riconosce entrambe come madri. Nel valutare il “best interest” per il minore non devono essere legati tra loro il piano del legame fra i genitori e quello fra genitori e figli: l’interesse del minore pone, “in primis”, un vincolo al riconoscimento di un rapporto di fatto.

Il sole 24 ore                                      9 novembre 2015

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FAMIGLIA INCONTRI

                        Dove va la famiglia? Orientarsi in un tempo di cambiamento.

Padova • 10 dicembre 2015. Sulla scia del Convegno ecclesiale di Firenze, la Facoltà teologica del Triveneto e la Fondazione Lanza propongono quattro incontri per riprendere i temi che saranno al centro del dibattito nazionale. L’incontro del 10 dicembre è dedicato al tema “Dove va la famiglia?”. Sono invitati a rispondere Giampaolo Dianin, Facoltà teologica del Triveneto, e Basilio Petrà, Facoltà teologica dell‘Italia centrale.

Il prossimo incontro (21 gennaio 2016) tratterà la questione “Dove va il sociale?”, con le riflessioni di Elena Pulcini, Università di Firenze, e Giuseppe Quaranta, Facoltà teologica del Triveneto. Concluderà il ciclo uno sguardo sulle “Trasformazioni dell‘umano”, da parte di Antonio Autiero, Fondazione Lanza e Università di Muenster, e Roberto Tommasi, Facoltà teologica del Triveneto (giovedì 11 febbraio 2016).

www.firenze2015.it/dove-va-la-famiglia-orientarsi-in-un-tempo-di-cambiamento

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

I fedeli laici non sono semplici esecutori di ordini.

I fedeli laici non sono membri di “second’ordine”, al servizio della gerarchia e semplici esecutori di ordini dall’alto, ma come discepoli di Cristo sono chiamati ad animare ogni ambiente secondo lo spirito del Vangelo: è quanto afferma Papa Francesco in un Messaggio in occasione della Giornata di studio organizzata dal Pontificio Consiglio per i Laici, in collaborazione con la Pontificia Università della Santa Croce, sul tema Vocazione e missione dei laici. A cinquant’anni dal Decreto conciliare “Apostolicam actuositatem”.

            Fedeli laici non sono membri di second’ordine. Il Concilio Vaticano II – afferma Papa Francesco – è stato un “evento straordinario di grazia” che “tra i suoi molteplici frutti” ha portato anche “ad un modo nuovo di guardare alla vocazione e alla missione dei laici nella Chiesa e nel mondo”. I documenti del Concilio considerano, infatti, “i fedeli laici entro una visione d’insieme del Popolo di Dio, a cui essi appartengono assieme ai membri dell’ordine sacro e ai religiosi, e nel quale partecipano, nel modo loro proprio, della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo stesso. Il Concilio, dunque – sottolinea Francesco – non guarda ai laici come se fossero membri di ‘second’ordine’, al servizio della gerarchia e semplici esecutori di ordini dall’alto, ma come discepoli di Cristo che, in forza del loro Battesimo e del loro naturale inserimento ‘nel mondo’, sono chiamati ad animare ogni ambiente, ogni attività, ogni relazione umana secondo lo spirito del Vangelo, portando la luce, la speranza, la carità ricevuta da Cristo in quei luoghi che, altrimenti, resterebbero estranei all’azione di Dio e abbandonati alla miseria della condizione umana. Nessuno meglio di loro può svolgere il compito essenziale di «iscrivere la legge divina nella vita della città terrena» (Gaudium et spes)”.

            Annuncio Vangelo non è riservato ad alcuni professionisti della missione. Il Papa si sofferma quindi sul Decreto conciliare Apostolicam actuositatem, che tratta più da vicino della natura e degli ambiti dell’apostolato dei laici. Si tratta di un documento che ricorda “con forza che «la vocazione cristiana è per sua natura anche vocazione all’apostolato» (n. 2), per cui l’annuncio del Vangelo non è riservato ad alcuni ‘professionisti della missione’, ma dovrebbe essere l’anelito profondo di tutti i fedeli laici, chiamati, in virtù del loro Battesimo, non solo all’animazione cristiana delle realtà temporali, ma anche alle opere di esplicita evangelizzazione, di annuncio e di santificazione degli uomini”.

            Doni Spirito vanno sempre di nuovo capiti. “Tutto questo insegnamento conciliare – osserva il Papa – ha fatto crescere nella Chiesa la formazione dei laici, che tanti frutti ha già portato fino ad ora. Ma il Concilio Vaticano II, come ogni Concilio, interpella ogni generazione di pastori e di laici, perché è un dono inestimabile dello Spirito Santo che va accolto con gratitudine e senso di responsabilità: tutto ciò che ci è stato donato dallo Spirito e trasmesso dalla santa Madre Chiesa va sempre di nuovo capito, assimilato e calato nella realtà!”.

            Ansia di attuare il Concilio Vaticano II. “Applicare il Concilio, portarlo nella vita quotidiana di ogni comunità cristiana” – afferma Papa Francesco – era “l’ansia pastorale che ha sempre animato san Giovanni Paolo II” che durante il Grande Giubileo del 2000 disse: «Una nuova stagione si apre dinanzi ai nostri occhi: è il tempo dell’approfondimento degli insegnamenti conciliari, il tempo della raccolta di quanto i Padri conciliari seminarono e la generazione di questi anni ha accudito e atteso. Il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato una vera profezia per la vita della Chiesa; continuerà ad esserlo per molti anni del terzo millennio appena iniziato» (Discorso al Convegno internazionale sull’attuazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 27 febbraio 2000)”. Papa Francesco conclude il Messaggio pregando il Signore affinché sia i pastori che i fedeli laici abbiano “nel cuore la stessa ansia di vivere e attuare il Concilio e portare al mondo la luce di Cristo”. Sergio Centofanti Notiziario Radio vaticana 12 novembre 2015   http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

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MATRIMONIO

Crollano i matrimoni. Belletti: un istituto delegittimato.

Gli italiani si sposano meno, e soprattutto lo fanno sempre più tardi. Lo afferma l’Istat, che traccia un quadro per alcuni aspetti preoccupante del Paese.

Nel 2014 sono stati celebrati 189.765 matrimoni, circa 4.300 in meno sull’anno precedente. E al matrimonio si arriva sempre più maturi: gli sposi hanno in media 34 anni e le spose 31. L’età della separazione si aggira intorno ai 47 per gli uomini e a 44 per le donne, ma è anche vero che le separazioni nel 2014 sono state a livelli pressoché analoghi a quelli medi degli ultimi 4 anni, mentre i divorzi del 2014 si sono rivelati essere circa 2000 in meno rispetto al 2008.

Intervista a Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari

Calano i matrimoni religiosi, soprattutto al Nord e al Centro. E comunque, i matrimoni religiosi sono più stabili di quelli celebrati con rito civile. In calo poi i matrimoni misti cioè dove almeno uno degli sposi è straniero, e quelli fra stranieri. Ma perché questo arretramento del numero di matrimoni?

R. – Il matrimonio è stato talmente delegittimato. E’ come se non ci fosse più la consapevolezza che fare famiglia ha un livello di cittadinanza pubblica. Uno facendo famiglia, faceva il suo Paese, faceva la sua comunità locale. Oggi invece questa eccessiva attenzione alla dimensione affettiva, istintiva, quindi ai sentimenti, che è importante, ma non è tutto della scelta del matrimonio, ha come tagliato fuori il matrimonio. Quel pezzo di carta, quindi, purtroppo non serve a niente e i giovani fanno sempre più fatica a sposarsi.

D. – Ci sono anche aspetti economici. Ad oggi le famiglie non riescono ad avere una fiscalità di vantaggio.

R. – Tra le difficoltà di casa, lavoro, precariato, non serve a niente, anzi, se ci si sposa fiscalmente si viene penalizzati.

            Alessandro Guarasci             Radio Vaticana                      12 novembre 2015

http://www.news.va/it/news/calano-i-matrimoni-belletti-un-istituto-delegittim

ISTAT Matrimoni, separazioni e divorzi. Anno 2014.

Nel 2014 sono stati celebrati in Italia 189.765 matrimoni, circa 4.300 in meno rispetto all’anno precedente. Ancora una flessione, dunque, ma quella osservata nell’ultimo anno è la più contenuta dal 2008. A diminuire sono soprattutto le prime nozze tra sposi di cittadinanza italiana: 142.754 celebrazioni nel 2014. Diminuisce anche la propensione a sposarsi. Nel 2014 sono stati celebrati 421 primi matrimoni per 1.000 uomini e 463 per 1.000 donne, valori inferiori rispettivamente del 18,7% e del 20,2% rispetto al 2008. Al primo matrimonio si arriva sempre più “maturi”: gli sposi hanno in media 34 anni e le spose 31.

            Per quanto riguarda l’instabilità coniugale, i dati del 2013 e del 2014 rivelano che è in atto una fase di “assestamento”. Nel 2014 le separazioni sono state 89.303 e i divorzi 52.335. In media ci si separa dopo 16 anni di matrimonio, ma i matrimoni più recenti durano sempre meno. Le unioni interrotte da una separazione, dopo 10 anni di matrimonio, sono quasi raddoppiate passando dal 4,5% dei matrimoni celebrati nel 1985 all’11% osservato per le nozze del 2005.

            I primi matrimoni civili di sposi entrambi italiani o le separazioni e i divorzi condividono la stessa geografia caratterizzata da alta frequenza al Nord e bassa nel Mezzogiorno. Restano ancora forti specificità territoriali anche se le distanze tra il Centro-nord e il Mezzogiorno si vanno lentamente riducendo.

Testo integrale in pdf allegato

Comunicato stampa               12 novembre 2015     www.istat.it/it/archivio/173316

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MEDIAZIONE FAMILIARE

Le premesse della mediazione familiare nelle fonti sovranazionali.

Abstract: Il contributo offre una ricostruzione delle fondamenta dell’istituto della mediazione familiare ricercate e ricomposte attraverso un’ampia panoramica delle fonti internazionali.

            La mediazione familiare trova il suo fondamento anche in fonti normative internazionali, a cominciare dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (New York, 10 dicembre 1948) che, all’articolo16, stabilisce che gli uomini e le donne “hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi”. Il percorso di mediazione familiare mira a ristabilire l’eguaglianza giuridica ed anche psicologica tra le parti affinché raggiungano un “mutuo dissenso” sullo scioglimento del vincolo matrimoniale e un progetto libero dai legacci della conflittualità.

Cronologicamente segue la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (ratificata dall’Italia nel 1955), che all’articolo 8 disciplina il diritto al rispetto della vita privata e familiare, che può essere considerato nel contempo principio ispiratore e limite dell’intervento mediativo. “Principio” perché la mediazione familiare, appianando la conflittualità tra le parti, nasce dalla necessità di ristabilire la reciprocità del rispetto della vita privata e familiare (giacché è bene rimarcare che una famiglia, anche se in crisi o divisa, rimane pur sempre famiglia). “Limite” perché l’operatore familiare (espressione più ampia di quella di mediatore familiare) non può violare la riservatezza delle informazioni che abbia acquisito.                                                                                segue

Margherita Marzario                       4 novembre 2015

www.filodiritto.com/articoli/2015/11/le-premesse-della-mediazione-familiare-nelle-fonti-sovranazionali.html

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NULLITÀ MATRIMONIALE

Se avessi potuto leggere queste cose prima di sposarmi!

Quanti matrimoni nulli si eviterebbero se si analizzasse bene la coppia prima che arrivi all’altare? Una delle cose più difficili che abbia mai fatto è stata costringermi a sedermi e a rispondere al questionario di richiesta di nullità matrimoniale.

            È accaduto più o meno due anni e mezzo dopo il mio divorzio civile, ed è stato tremendo. Domande su di me. Domande su di lui. Domande sulle nostre famiglie, le nostre carriere, il nostro fidanzamento, il giorno delle nostre nozze. E la domanda “Cosa significava per te essere innamorato?”

            Dissotterrare quei mali e quei ricordi dolorosi che avevo tanto cercato di gettarmi alle spalle è stato angoscioso, e rivivere il mio divorzio è stata una pillola molto amara da ingoiare. C’è stato però un aspetto positivo in tutto questo. Quelle 107 domande hanno gettato luce su qualcosa di più della bruttezza di tutta la situazione. Le domande, profondamente personali, mi hanno aperto gli occhi sulla verità di ciò che era accaduto e hanno rivelato una prospettiva completamente nuova nella mia storia. Mi hanno aiutato a riconoscere le tante decisioni sbagliate che avevo preso imbarcandomi in quella relazione, e pur essendomi sposata per tutta la vita e avendo cercato di essere una buona moglie mi sono ritrovata faccia a faccia con una realtà molto triste: la scelta della persona giusta da sposare non ha avuto l’importanza adeguata nel mio desiderio di raggiungere l’ambito titolo di “signora”.

            Quando tutto era terminato e ho risposto all’ultima domanda, non ho potuto fare a meno di pensare: “Perché nessuno mi ha posto prima queste domande? Non mi sarei mai sposata con lui!”

            Ripensare i corsi prematrimoniali. Come cattolica divorziata, che ha ricevuto la nullità e si è risposata quindici anni fa, mi sono resa conto che il processo di nullità è stato una preparazione al matrimonio molto migliore dei corsi prematrimoniali che avevo frequentato prima di recarmi quella volta all’altare. Perché la preparazione autentica, significativa al matrimonio è arrivata quando era ormai troppo tardi?

            Uno degli aspetti positivi emersi durante il recente Sinodo sulla famiglia è stato il consenso sul fatto che la preparazione al matrimonio cattolico per come la conosciamo dev’essere accantonata, e che bisogna sostituirla con qualcosa di più sostanziale. Ho sentito parlare di corsi prematrimoniali realizzati su un modello simile al processo di catecumenato, e penso che sia un ottimo inizio, ma se tutto ciò che facciamo è rendere il processo più lungo e non cambiamo la formazione che viene offerta non stiamo facendo un favore a nessuno.

            Siamo sinceri. Di questi tempi, la gente non si sposa come i propri nonni o bisnonni. La società ha imposto molti tipi diversi di pressione sui single e ha imposto idee che non aiutano a far durare un matrimonio, per cui è molto importante anche accostarci alla formazione delle coppie in modo diverso. Per questa ragione, credo che le cose vadano cambiate e che si debba utilizzare la saggezza che si trova nel questionario dei processi di nullità per preparare le coppie al matrimonio. Per chiunque abbia familiarità con un questionario di nullità, il suo obiettivo è offrire ai giudici del tribunale una visione sia minuziosa che globale del rapporto di coppia, con particolare enfasi sul periodo del corteggiamento, del fidanzamento e delle nozze. Lo scopo è determinare se la coppia quel giorno ha contratto un matrimonio valido. Le domande sono intense e coprono un’ampia gamma di aspetti riguardanti chi fa la richiesta, chi la riceve e i testimoni.

            Perché facciamo tutto questo quando un matrimonio è già fallito? Non avrebbe senso sottoporre la coppia a uno scrutinio di questo tipo prima che si accosti all’altare? Ci sono due sezioni del questionario di nullità che offrono un contenuto eccellente per creare un programma di corsi prematrimoniali.

Uno è l’esplorazione dell’infanzia e della vita familiare di ogni contraente, perché questo già offre indizi relativi al fatto che abbia le idee corrette su quello che è il matrimonio. Le discussioni sull’educazione religiosa; i problemi nel matrimonio dei genitori; qualsiasi cura di problemi emotivi, psicologici o psichiatrici; precedenti di abuso di alcool o droghe e qualsiasi storia di abusi fisici, mentali o sessuali possono iniziare a dipingere il quadro più ampio necessario per sapere se uno o entrambi i contraenti è/sono adatto/i al matrimonio.

            Una seconda area di attenzione dovrebbe essere la discussione dettagliata sul periodo di conoscenza e fidanzamento della coppia, perché anche questo rivela molto sul suo livello di maturità e sul fatto che potessero già esistere degli impedimenti, come l’ignoranza del fatto che il matrimonio è chiamato ad essere un impegno permanente, esclusivo, per tutta la vita e aperto alla nuova vita. Da quanto ho sentito da sacerdoti e terapeuti matrimoniali e familiari, è questo il settore in cui le coppie vengono meno preparate al matrimonio.

            E con questo mi rimetto alle prove, ma prima vi lascio un pensiero finale. Nonostante tutte le storie di divorzio che ho ascoltato in molti anni di lavoro con cattolici divorziati, il dolore mi si rinnova ogni volta che sento qualcuno parlarne. Farei qualsiasi cosa per evitare un altro divorzio, un’altra famiglia spezzata, un altro bambino devastato a livello emotivo. Se insegniamo ai nostri figli che il divorzio non è un’opzione, dobbiamo anche dare loro gli strumenti necessari per avere un buon matrimonio. È ora di assumerci la responsabilità di dare ai nostri figli una formazione vera e significativa perché i loro matrimoni durino, e credo che il questionario di nullità possa indicarci la direzione corretta.

            Lisa Duffy, autrice di The Catholic Guide to Dating after Divorce.

Traduzione di Roberta Sciamplicotti

                        Luigi Macchiarulo Con mia mogie abbiamo fatto corsi in preparazione del matrimonio per circa 40 anni, ci siamo accorti che non ci voleva molto per capire che la maggior parte dei fidanzati non aveva le più elementari conoscenze degli impegni che propone un matrimonio religioso e ci siamo sempre chiesti perché le coppie fossero ammesse con tanta facilità al sacramento. Noi non potevamo arrogarci il diritto di dare giudizi ma i motivi di nullità erano evidenti. Difficile sfuggire all’impressione che alla chiesa servissero numeri da presentare nelle statistiche sulla numerosità dei matrimoni religiosi in confronto di quelli civili.

                        Aleteia                        11 novembre 2015

http://it.aleteia.org/2015/11/11/se-avessi-potuto-leggere-queste-cose-prima-di-sposarmi/?utm_campaign=NL_it&utm_source=topnews_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it-Nov%2011,%202015%2005:12%20pm

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OMOFILIA

Trascrizione di matrimonio tra persone dello stesso sesso

L’impedimento alla trascrizione del matrimonio contratto tra persone dello stesso sesso nasce dall’attuale contesto normativo nazionale che non riconoscendo questa unione la rende inidonea a produrre effetti: l’inidoneità dell’atto alla produzione degli effetti giuridici che gli sono propri- categoria non ignota al diritto, si caratterizza come una inefficacia in senso stretto, non conseguenza di altro vizio, e si propone come reazione dell’ordinamento nei confronti di un negozio di cui si riconosce, in relazione al quadro normativo e giurisprudenziale europeo del quale l’ordinamento stesso fa parte, la intrinseca validità, oltre che la consistenza sociale, ma i cui effetti vitali sono però preclusi nel nostro paese dalla mancata previsione legislativa.

Ne consegue che nell’attuale quadro normativo, il matrimonio tra coppie dello stesso sesso non corrisponde alla tipologia del matrimonio delineato nel nostro ordinamento e non è perciò trascrivibile.

Giuseppe Buffone, magistrato                      10 novembre 2015                 http://news.ilcaso.it/news_780

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SCIENZA&VITA

Sulla selezione degli embrioni la Consulta svincola l’eugenetica.

            “Accogliamo con sconcerto la sentenza odierna con cui la Corte Costituzionale stabilisce che è possibile selezionare all’origine gli embrioni in base al loro grado di salute, legalizzando, di fatto, una discriminazione tra i nascituri”, commenta Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita.

            Comprendiamo il dolore e la sofferenza di tutte le coppie portatrici di una malattia genetica, ma purtroppo siamo certi che una volta stabilito per sentenza, e al massimo grado, che è possibile selezionare gli esseri umani in base alla perfezione della loro mappa genetica, le storture saranno inevitabili e andranno nella direzione della massima discriminazione verso i disabili”

“.

“Come non pensare che in futuro chiunque ricorra alla Pma non voglia accedere alla possibilità predittiva di sapere tutto del nascituro e scegliere solo il più ‘adatto’? Decretare che è un diritto dei genitori decidere quale dei loro figli possa nascere, è un’ipotesi sconvolgente che va contro ogni principio di civiltà”

            Comunicato stampa n. 198  11 novembre 2015

www.scienzaevita.org/scienzavita-sulla-selezione-degli-embrioni-la-consulta-svincola-leugenetica

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SINODO SULLA FAMIGLIA

Il Sinodo: il testo e l’evento.

Due terzi dei vescovi al Sinodo sono con papa Francesco, al quale affidano la determinazione concreta della svolta pastorale sulla famiglia e il suo ruolo all’interno della Chiesa. E’ l’inizio di un grande approfondimento della esperienza matrimoniale, con accorato discernimento dei vescovi e con libertà evangelica di Francesco. Dopo tutte le esitazioni, le discussioni, le paure, le trame, gli entusiasmi, gli sgambetti, gli intrighi, le aperture e le fughe all’indietro, i risultati di queste tre settimane di “cammino sinodale” appaiono più cospicui di quanto ci si potesse attendere. In primo luogo sull’intera Relatio si è formata una “maggioranza qualificata”, anche se questo obiettivo, sicuramente decisivo, ha significato il sacrificio di alcune importanti tematiche (nessun cenno esplicito alla comunione per le “famiglie irregolari”, nessun riferimento vero alle coppie “omosessuali”, né al rapporto tra “legge” e “coscienza”). In secondo luogo, il documento, sia pure con i limiti di “contenuto” che ho già indicato, recupera molto in termini di linguaggio, di stile e di approccio: trova il registro giusto per annunciare anzitutto la “misericordia”; infine, come era accaduto anche l’anno scorso, il discorso conclusivo di papa Francesco mette in chiaro, con estrema lucidità, quali saranno le priorità che discenderanno da questo “cammino comune” appena compiuto, ma ancora da sviluppare e da determinare. Ecco una serie di “elementi” di valutazione del Sinodo, a partire dal documento a cui è giunto (nella sua non definitività).

            Il testo e il suo contesto. Non bisogna certo sottovalutare il testo approvato alla fine del Sinodo, ma non si deve neppure sopravvalutarlo. Si tratta, è bene ricordarlo, di una serie di 94 proposizioni, ordinate certo in modo strutturale, ma che fungeranno da “base” per la elaborazione del testo magisteriale che, una volta pubblicato, di fatto andrà a prendere il posto del testo sinodale, con altra autorità. Per questo, se valutassimo il testo come “definitivo”, andremmo incontro a un abbaglio: piuttosto esso ha avuto un duplice compito: mettere a confronto le diverse culture e tradizioni ecclesiali di fronte alle sfide che la famiglia subisce e lancia alla cultura di oggi; preparare un “consenso diffuso” per sostenere un’opera di aggiornamento e di “conversione” della pastorale familiare.

            Il tono sereno e costruttivo. Molto hanno lavorato i padri sinodali nel “trovare il tono giusto”: uno dei meriti di questo Sinodo è stato proprio quello di non voler arrivare ad una “normativa disciplinare” – troppo ardua da costruire in modo consensuale. Si è preferito, invece, elaborare un linguaggio dell’incontro e della misericordia, invece che un linguaggio del giudizio o della condanna. La lezione del concilio Vaticano II – rilanciata da papa Francesco – ha trasmesso ai padri sinodali il desiderio di curare la “forma” almeno tanto quanto il ”contenuto”. Questa scelta ha determinato una tendenza a portare in primo piano l’atteggiamento da favorire, prima che il contenuto da definire. Pertanto, in diversi casi, il tono “garbato” e “conciliante” non ha potuto registrare che una parte dei “temi”. La ricerca di un ampio consenso ha alzato il volume delle relazioni e abbassato quello delle questioni più brucianti.

            Le resistenze e le omissioni. Cionondimeno, vi sono state resistenze, forse anche più forti di quanto si sarebbe pensato. Lettere di protesta indirizzate al papa, sul cui testo e sui cui firmatari non vi sono certezze, ma che volevano esercitare una “pressione preventiva” sul lavori del Sinodo, contestandone il merito e il metodo. Se si è arrivati a diffondere notizie false su un (inesistente) “tumore al cervello del papa”, questo ha significato che il livello di “paura” del cambiamento aveva raggiunto un livello di guardia. Il miglior commento su tutto ciò è venuto dal Cardinale Montenegro, che ha ricordato un proverbio rumeno: “Quando la carovana si mette in movimento, i cani abbaiano”.

            Alcuni casi esemplari: relazioni omosessuali e comunione ai divorziati risposati. Non vi è dubbio che nella storia del precedente Sinodo del 2014, la gestione di argomenti delicati – in primis delle coppie divorziate risposate e delle coppie gay – avevano creato resistenze e opposizioni, che si erano tradotte in un numero di voti contrari più alto del previsto. E’ però paradossale che, nel testo oggi approvato con larghe maggioranze, di fatto si siano letteralmente “obliterate” alcune questioni nodali: la omosessualità sembra riguardare la famiglia solo quando tocca “qualcuno di famiglia”: il caso cioè in cui un figlio, un fratello, uno zio manifestano un orientamento omosessuale. Ma della “relazione omosessuale di coppia” non si fa parola. Allo stesso modo ci si comporta nei paragrafi delicatissimi che riguardano la condizione ecclesiale dei “divorziati risposati”. La questione che sembrava dirimente – ossia la “comunione ai divorziati risposati – non viene mai nominata. Si gira attorno al tema, con reiterata insistenza, ma senza mai evocarlo letteralmente. Lo ripeto: tutto questo assomiglierebbe ad una “occasione perduta” se non tenessimo conto della “provvisorietà strutturale” della Relatio. Era più importante creare le condizioni di un consenso più vasto, piuttosto che sollevare tutte le questioni teoriche e pratiche e rischiare la divisione!

            La libertà del papa come ”ministero ecclesiale”. Una “divisione del lavoro” come quella che abbiamo visto durante il Sinodo mi pare che raramente si dia a vedere, non solo a livello ecclesiale. Mentre la assemblea elaborava strategie del confronto, di creazione del consenso, di mediazione linguistica e culturale, il suo Presidente faceva due cose essenziali: stava in ascolto di tutti e rilanciava profeticamente il lavoro e la progettazione, sulla base della categoria di “misericordia”. Se la famiglia manifesta la “misericordia Dei” nel modo più alto, come possiamo comprenderla solo nelle categorie dei diritti e dei doveri? Questa domanda, in mille variazioni, risuonava nei discorsi di apertura e di chiusura, ma riecheggiava anche da S. Marta e, quotidianamente, da ogni occasione in cui il papa prendeva la parola. I Vescovi hanno parlato con la prudenza della cautela, il papa con la libertà della profezia. I primi dovevano fare analisi, il secondo continuamente spronava a fare sintesi. I primi avrebbero in qualche caso voluto ancora tempo, commissioni, procedure, cautele; il secondo voleva correre per strada, farsi familiare alle famiglie, toccarle e farsene toccare. Quasi mai c’è stata dura contrapposizione: quando non “in re”, almeno “in spe”.

            La questione fondamentale: la differenza tra famiglia e matrimonio. Il Sinodo che ha “scollinato” nella disciplina delle nozze cristiane, aprendo la via per un ripensamento delle prassi con cui si affrontano le crisi matrimoniali, ha dovuto farsi carico di un problema ecclesiale ben più grande e spinoso: ossia la pretesa di non perdere il monopolio della sessualità ordinata alla vita unita, indissolubile e feconda. Da quando lo stato moderno ha “requisito” la competenza sul matrimonio, la Chiesa ha reagito spesso in modo solo istituzionale, vantando una competenza originaria e inossidabile sul “sacramento-contratto”. Questa storia, lunga due secoli, influisce ancora pesantemente sul modo di affrontare le singole questioni: non di rado, accanto al “pastore” vi è sempre acquattato un “farmacista”, col suo bilancino. Spesso nella stessa persona! Accettare che vi sia una “differenza” tra famiglia e matrimonio è, per questa mentalità classica, l’inizio della fine. Il Sinodo ci ha detto che i “pastori” hanno prevalso sui non pochi “farmacisti”, oltre che su qualche “lupo”. Per i numerosi Pastori presenti al Sinodo, questa svolta è stata non una tragica fine, ma un inizio promettente.

            Che cosa sarà domani? Appena chiuso il Sinodo, un giornalista ha chiesto ad alcuni parroci che cosa avrebbero fatto dal giorno successivo. La prudenza ha giustamente prevalso. Questo ha permesso al giornale di mettere come titolo: “I parroci frenano sulla comunione ai divorziati risposati”. Per come un Sinodo è concepito, è del tutto ragionevole che ogni “mutamento della disciplina” sia accuratamente predisposto dalla autorità competente. La Relatio ci dà alcuni criteri di fondo, che tuttavia dovranno essere a loro volta tradotti e fatti propri dalle singole comunità, mediante una adeguata mediazione magisteriale e pastorale. Ecco alcune domande che dovremo affrontare nei prossimi mesi.

Alcune domande aperte

a)      Familiaris consortio e la differenza tra comunione ecclesiale e comunione sacramentale. Propriamente, la differenza tra comunione ecclesiale e comunione sacramentale, che è stata introdotta coraggiosamente da Familiaris Consortio, quando afferma che i divorziati risposati “non sono separati dal Corpo di Cristo”, inaugura quella tensione a cui cerca di rispondere il documento sinodale, seppur solo parzialmente. Se la “forbice” tra le due forme di “comunione” era massima, nel 1981, oggi appare ridotta e ridimensionata, ma non ancora colmata. Ad ogni grado che si acquisisce come compatibile con la condizione di divorziato risposato, diventa sempre più difficile escludere il coronamento eucaristico della comunione ecclesiale. Se un divorziato risposato può fare il catechista, come può non giungere alla comunione eucaristica? Ma, d’altra parte, se un divorziato verrà tenuto esterno alla comunione sacramentale, come farà ad essere un catechista senza complessi di inferiorità?

b)      Foro esterno, foro interno: e il “foro intimo”? Fino ad oggi l’unico modo per “giudicare” della condizione dei divorziati risposati era ricorrere al procedimento canonico di riconoscimento e dichiarazione della nullità del vincolo. Questo accadeva – e tuttora accade – “in foro esterno”. Oggi è possibile che, stante la validità del primo matrimonio, si possa essere accompagnati in un cammino di integrazione ecclesiale che non esclude la comunione eucaristica, senza mettere in discussione il vincolo originario. Questo avviene “in foro interno”, nella confessione. Ma tutto questo non basterà. Alla logica oggettiva del vincolo sembra affiancarsi, quasi in parallelo, una logica soggettiva dei singoli individui, i cui nuovi legami non sembrano avere una visibilità e una riconoscibilità. Il correttivo che il “foro interno” introduce nel sistema è utile e necessario, ma non sarà sufficiente. La storia delle coscienze e delle libertà in comunione è molto più complessa e più intima della astrazione giuridica che compone “elementi oggettivi” con “cause soggettive”. La misericordia ha bisogno di altri linguaggi e di altre dinamiche. Su questo “foro intimo” occorrerà lavorare, affinando le categorie con cui interpretare e disciplinare i vissuti ecclesiali.

c)      Cammino penitenziale e cammino eucaristico: sono ancora possibili? Prevale ancora una lettura statica della vita: il foro esterno e quello interno sono “fermi” piuttosto che “in movimento”. Se il Sinodo ha sbloccato il sistema, ha “scollinato” nella tradizione, oggi dovrebbe essere molto più chiaro che penitenza e eucaristia non hanno solo la logica dell’atto formale di assoluzione e di consacrazione, ma la logica del processo rituale ed esistenziale di incontro con la Parola e con il sacramento. Come diceva Carlo Maria Martini, noi dobbiamo saper “capovolgere la domanda”. Non si tratta di far accedere i divorziati alla eucaristia dopo la soglia penitenziale, ma di farli entrare in una elaborazione penitenziale ed eucaristica della loro identità. Nella penitenza e nella eucaristia si cambia “con il tempo”. La nuova considerazione dei divorziati risposati ci porta, ultimamente, a una nuova offerta, a tutto il popolo di Dio, di una rinnovata freschezza penitenziale ed eucaristica. Il problema della “comunione” per i divorziati risposati non è di “ricevere l’ostia”, ma di “vedere riconosciuta e valorizzata” la comunione che vivono.

Su queste “domande aperte” si misurerà la discussione e la esperienza ecclesiale del mesi prossimi: a meno che Francesco non ci sorprenda ancora una volta, “giocando d’anticipo” già tra qualche settimana, magari intorno alla soglia giubilare. Chi potrebbe escluderlo?

Andrea Grillo “Settimana” n. 38/2015         10 novembre 2015

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