NewsUcipem n. 553 –5 luglio 2015

NewsUcipem n. 553 –5 luglio 2015

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“notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line   direttore responsabile Maria Chiara Duranti.

direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le “news” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.           Le news sono:

  • notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
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  • Le notizie, anche con il contenuto non condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.
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            Il contenuto di questo new è liberamente riproducibile citando la fonte.

Per i numeri precedenti

dal n. 1 (10 gennaio 2004) al n. 526 richiedere a                                        newsucipem@gmail.com

dal n. 527 al n. 552 andare su

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ADOTTABILITÀ                             Due gemelli da maternità surrogata con paternità biologica.

ADOZIONE INTERNAZIONALE  Kafala: disegno di legge per disciplinare gli effetti in Italia.

ADOZIONI INTERNAZIONALI    Russia: gli istituti per i minori abbandonati diventano mini.

Vietnam: adozioni aperte solo per gli “Special Need”.

AFFIDO CONDIVISO                      Cooperazione fra genitori con ausilio\controllo Servizio sociale

ASSEGNO DIVORZILE                  Revoca dell’assegno solo se sono intervenuti fatti nuovi.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO  Mantenimento anche se i figli dormono spesso dal padre.

CHIESA CATTOLICA                    Ecco cosa vuol dire essere casti oggi.

Nella morale fondamentale: un nodo imprescindibile Piana,

COGNOME PATERNO                   Interesse del minore ad evitare un danno alla sua identità.

CONSULTORI familiari UCIPEM  Taranto:il consultorio gestisce a Grottaglie il consultorio giovani

DALLA NAVATA                            14° domenica del tempo ordinario – anno B –5 luglio 2015.

FECONDAZIONE ARTIFICIALE  Sulla sentenza della CC sulla fecondazione eterologa

FORUM Associazioni Familiari       Meeting del Lazio appello alla tutela dell’identità della famiglia.

FRANCESCO VESCOVO di Roma            Per “sciogliere i nodi” della famiglia oggi.

GOVERNO                                       Linee guida delle procedure e delle tecniche di PMA.

Relazione al Parlamento concernente la L. n. 40\2004.

MEDIAZIONE FAMILIARE                      Strumenti a sostegno della famiglia in crisi

L’avvocato e il mediatore familiare.

MIGRAZIONI                                  Italiani all’estero crescono + degli immigrati: 1° volta in 20 anni.

NULLITÀ                                          No nullità del matrimonio con 3 anni di convivenza.

OMOFILIA                                       Annullamento trascrizione di matrimonio all’estero tra omofili.

PARLAMENTO Senato 2° Giustizia           Disciplina delle unioni civili.

Divorzio diretto.

                                                           Affidamento condiviso.

SEPARAZIONE                                Separazione e liti tra coniugi: psicologo non obbligatorio.

SINODO SULLA FAMIGLIA          Comunione ai divorziati risposati dopo un percorso di penitenza.

                                                           Ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti? Kasper.

Parole di Gesù, riguardo al matrimonio e al divorzio.

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ADOTTABILITÀ

Stato di adottabilità di due gemelli nati in Ucraina da maternità surrogata ma con paternità biologica.

 Tribunale per i Minorenni di Firenze, decreto del 12 giugno 2015.

Nel caso di specie, il Tribunale per i Minorenni di Firenze si è trovato a dover giudicare sullo stato di adottabilità di due minori nati da una maternità surrogata effettuata in Ucraina, nel rispetto della legislazione di tale Stato, risultati figli biologici del sig. x, italiano, che con la moglie li aveva portati in Italia, tentando di farli passare per i loro figli biologici e legittimi.

Nel corso dell’istruttoria era emersa chiaramente la paternità biologica del sig. x, così come attestato dall’esame del DNA.

Alla luce delle relazioni del servizio sociale era emerso, altresì, che non vi erano evidenze rispetto all’abbandono materiale e morale dei minori, i quali risultavano abitare in un ambiente idoneo ed in nucleo familiare ben inserito socialmente e assistito da una solida rete familiare e di amicizie.

Il Tribunale ha ricordato che recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato che il rispetto per la vita privata (art. 8) include il primario interesse dei minori nati da madre surrogata a definire la propria identità come essere umano, compreso il proprio status di figlio, ciò a maggior ragione quando uno dei genitori che è ricorso alla surrogazione è anche il padre biologico dei minori; a ciò si aggiunga che la recente giurisprudenza della Corte EDU ha anche riconosciuto, accanto alla genitorialità biologica e genetica, anche quella di tipo “sociale” a tutela dell’interesse del minore.

Il Tribunale, nel caso in oggetto, in adesione alle suddette evoluzioni giurisprudenziali europee, figlie di una visione pluralista della famiglia, ha confermato l’assenza di stato di abbandono morale e materiale dei minori, seppure nati da un progetto genitoriale parzialmente svincolato dal paradigma naturalistico, posto che il sig. X risulta padre biologico dei minori e la sig.ra Y va considerata “madre sociale” degli stessi; il Tribunale ha, dunque, dichiarato il non luogo a provvedere sullo stato di adottabilità.

            AIAF – Newsletter     2 luglio 2015              www.aiaf-avvocati.it/archivio-newsletter

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

                        Kafala: disegno di legge per disciplinare gli effetti in Italia.

            Il Servizio studi del Senato ha pubblicato un breve studio sul Disegno di legge A.S. n. 1552-bis “Norme di adeguamento dell’ordinamento interno alla Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aja il 19 ottobre 1996,

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/906954/index.html

e, in particolare sulla scelta di stralciare dal disegno di legge di ratifica dell’indicata Convenzione, approvato l’11 giugno 2015 e in via di pubblicazione, le norme di adeguamento dell’ordinamento interno con riguardo alla c.d. kafala, istituto presente in numerosi Paesi islamici. Lo stralcio è dedicato alle procedure da seguire per il collocamento del minore straniero che non si trova in una situazione di abbandono. In particolare, lo studio parte dalla constatazione che nei Paesi che seguono “i precetti coranici non esiste rapporto di filiazione diverso dal legame biologico di discendenza che derivi da un rapporto sessuale lecito” e non è ammessa l’adozione. In tali Paesi, per evitare che figli senza genitori restino privi di tutela, è stata introdotta la kafala, “un istituto tramite il quale è garantita la protezione ai minori orfani, abbandonati o, comunque, privi di un ambiente familiare idoneo alla loro crescita”. Simile all’affidamento, la kafala non ha istituti analoghi nell’ordinamento italiano, con la conseguenza che, per disciplinarne gli effetti è intervenuta, in diverse occasioni, la Corte di Cassazione, i cui orientamenti sono riportati nel testo.

            Nello studio si pone attenzione all’articolo 3 del disegno di legge in base al quale al minore cittadino extra Ue, entrato in Italia in base agli articoli 1 e 2, “si applicano le disposizioni sulla conversione del permesso di soggiorno al raggiungimento della maggiore età (art. 32 TU)”, escludendo invece l’applicazione delle disposizioni sul ricongiungimento familiare. Una scelta – osserva il Servizio studi – che si discosta “dai più recenti approdi giurisprudenziali che hanno riconosciuto il ricongiungimento familiare anche utilizzando come presupposto un rapporto di kafalah”.

            Con il disegno di legge è anche prevista una modifica dell’articolo 42 della legge n. 218/1995.

Marina Castellaneta              3 luglio 2015

www.marinacastellaneta.it/blog/kafala-disegno-di-legge-per-disciplinare-gli-effetti-in-italia.html

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Russia: gli istituti per i minori abbandonati diventano mini.

L’accoglienza a misura di bambino. E’ questo l’obiettivo di un lungo iter normativo e organizzativo che porterà la Russia ad avvicinarsi agli standard occidentali in fatto di accoglienza dei minori abbandonati. Dal primo settembre 2015 tutti gli istituti in cui vivono bambini che sono sotto la protezione dello Stato, verranno divisi in piccoli gruppi formati al massimo da otto di loro. Ad essi verrà assegnato un tutor/educatore e soprattutto uno spazio fisso che permetterà ai piccoli di ridurre il carico di stress.

            E’ questo il più importante elemento emerso a Samara, città tra le più importanti della Russia, teatro del terzo congresso panrusso delle istituzioni che si occupano di bambini abbandonati. Benjamin Kaganov, Vice Ministro dell’Istruzione e della Scienza della Federazione Russa ha affermato: “Il nostro compito è garantire a ogni bambino una famiglia, ma quando questo non è davvero possibile, occorre almeno trovare una forma d’accoglienza il più possibile adeguata alle esigenze di un bambino”.

            Il percorso di formazione del personale dei vari istituti è durato due anni. Alcune realtà hanno già recepito il nuovo sistema. Ma non è il solo successo. Come calcolato dal Ministero della Pubblica Istruzione, in Russia è notevolmente aumentato il numero di famiglie affidatarie. Tanto che il numero dei bambini accolti in istituto è sceso da 119mila a 81mila.

            fonte: otr.online.ru    Ai. Bi. 3 luglio 2015               www.aibi.it/ita/category/archivio-news

 

Vietnam: adozioni internazionali aperte solo per gli “Special Need”.

Salgono a tre le agenzie americane autorizzate ad adottare in Vietnam. Il ministero di Giustizia del Paese asiatico ha inserito Alliance for Children tra le organizzazioni che possono operare all’interno del Programma di Adozioni Speciali. Come le altre due: la Dillon International e la Holt International Children’s Services, già presenti da tempo.

            Tra il 1999 e il 2003 i bambini nati in Vietnam e adottati da famiglie americane sono stati 5.578. Ma se nel 2008 le adozioni concluse furono 748, l’anno successivo passarono a 481, per azzerarsi quasi nel 2010, quando si contano sulla punta delle dita: solo 9 i bimbi adottati. Era l’anno nel quale il Vietnam si era dato la nuova legge sull’adozione, ancora in vigore. Poi dal 2011 al 2013 le adozioni dal Vietnam verso l’America sono state sospese.

            La presenza di tre agenzie potrà rilanciare le adozioni nel Paese asiatico. Ma sempre nel rispetto della Convenzione de L’Aja, gli Stati Uniti hanno avviato un programma di adozione limitato a bambini con bisogni speciali, ovvero quelli d’età superiore ai cinque anni, gruppi di fratelli o bimbi con qualche problema di salute. Tutti gli altri minori in stato di abbandono non rientranti nei parametri dei cosiddetti ‘bisogni speciali’ non potranno essere adottati da famiglie americane.

            Fonte: Dipartimento di Stato americano

Ai. Bi. 30 giugno 2015                       www.aibi.it/ita/category/archivio-news

Gli Enti autorizzati italiani sono 7.

www.commissioneadozioni.it/it/gli-attori-istituzionali/gli-enti-autorizzati/ricerca-ente-autorizzato.aspx

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AFFIDO CONDIVISO

Cooperazione fra i genitori da realizzare con l’ausilio e il controllo del Servizio sociale.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza, n. 13505, 1 luglio 2015.

Il rispetto del mandato conferito al Servizio sociale e all’UOP presuppone una cooperazione fra i genitori da realizzare con l’ausilio e il controllo del Servizio sociale e che in questa prospettiva solo una reciproca programmazione dell’attività professionale e del tempo aggiuntivo da dedicare al figlio potrà consentire l’operatività di un’indicazione finalizzata a garantire un’ampia frequentazione fra la madre e il figlio e la piena fruizione da parte del minore del suo diritto alla bi-genitorialità.

            avv. Renato D’Isa      2 luglio 2015k                                    Sentenza

http://renatodisa.com/2015/07/02/corte-di-cassazione-sezione-i-sentenza-1-luglio-2015-n-13506-il-rispetto-del-mandato-conferito-al-servizio-sociale-e-alluop-presuppone-una-cooperazione-fra-i-genitori-da-realizzare-con-lausi

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ASSEGNO DIVORZILE

Revoca dell’assegno di mantenimento: solo se sono intervenuti fatti nuovi.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza, n. 13514, 1 luglio 2015.

Il giudicato “rebus sic stantibus”, che connota le pronunce relative a rapporti soggetti a mutamenti determinati da eventi successivi, è comunque dotato, fin quando non vengano accertate sopravvenienze tali da imporre delle modifiche o revoche, di autorità, intangibilità e stabilità, anche se limitate nel tempo.

avv. Sugamele                        3 luglio 2015   sentenza          www.divorzista.org/sentenza.php?id=10353

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Mantenimento anche se i figli dormono spesso dal padre.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 13504 1 luglio 2015.

Non conta il fatto che i minori pernottino spesso dal padre perché, ciò che conta, è la stabile coabitazione ossia la collocazione, e se questa è presso la madre, l’altro coniuge deve comunque versare l’assegno.

In materia di divorzio o separazione, quando l’affidamento condiviso dei figli prevede il collocamento prevalente presso uno dei genitori, il genitore non collocatario deve sempre pagare l’assegno di mantenimento, e ciò vale anche nell’ipotesi in cui i bambini vadano spesso a stare in casa di quest’ultimo, anche dormendovi la notte. Lo ha detto la Cassazione.

Ciascun genitore contribuisce al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito: è quello che viene definito “principio di proporzionalità” [art. 155 co. civ.]. Tuttavia, il mantenimento deve essere versato al genitore presso cui i figli sono collocati per via del fatto che è presso questi che si forma la “stabile coabitazione”. Il pernottamento frequente dei minori presso il genitore non collocatario non lo dispensa, quindi, dal versare il mantenimento.

Il genitore collocatario prevalente ha diritto ad avere corrisposto dall’altro coniuge l’assegno di mantenimento. In materia di divorzio o separazione, quando l’affidamento condiviso dei figli prevede un collocamento prevalente presso uno dei genitori, la corresponsione dell’assegno di mantenimento deve porsi a carico del genitore non collocatario.

Redazione La legge per tutti             2 luglio 2015

sentenza     www.laleggepertutti.it/92734_mantenimento-anche-se-i-figli-dormono-spesso-dal-padre

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CHIESA CATTOLICA

Ecco cosa vuol dire essere casti oggi.

«A voi giovani dico: siate casti … fate lo sforzo di vivere l’amore castamente!». Queste parole di papa Francesco ai giovani pronunciate a Torino domenica scorsa 21 giugno 2015

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/june/documents/papa-francesco_20150621_torino-giovani.html

hanno suscitato reazioni di ogni tipo ma tutte rivelative del dato che “castità” è una parola sovente incompresa, anzi misconosciuta e derisa, soprattutto perché è confusa con l’astinenza o la continenza sessuale o con il celibato. L’etimologia ci suggerisce che è casto (castus) colui che rifiuta l’incesto (in-castus). L’incesto avviene ogni volta che non si vive la distanza e non si rispetta l’alterità, che non è solo differenza. Non è casto chi cerca la fusione, l’attaccamento, il possesso: segno di tale ricerca è l’aggressività che, in questi casi, facilmente si accende e si manifesta. Sono sempre più convinto che la sessualità sta nello spazio del dono, perché richiede di dare e di ricevere e si colloca sempre nella relazione tra due soggetti. La sessualità non si riduce alla genitalità e la capacità di dono e di accoglienza è più ampia di quella esercitata nella genitalità: investe, infatti, l’intera persona e le sue relazioni. Per questo la sessualità è cosa buona e bella, ma il suo uso può essere intelligente o stupido, amante o violento, legato all’amore o alla pulsione. La sessualità ci spinge alla relazione con l’altro, ma dipende da noi cercare, in questa relazione, l’incontro o il possesso, la sinfonia o la prepotenza, lo scambio o il narcisismo.

Potremmo dire che la castità è l’arte di non trattare mai l’altro come un oggetto, perché in questo caso lo si “consuma” e lo si distrugge. Arte difficile e faticosa, che richiede tempo: non si nasce casti ma al contrario — va detto con chiarezza — si nasce incestuosi, e l’esercizio di separazione e di distinzione ci conduce verso una soggettività vera e autonoma. La castità conferisce alle relazioni umane una trasparenza che permette alle persone di riconoscersi nel rispetto del loro essere più intimo. Si pensi all’incontro sessuale dei corpi nella loro nudità e all’intimità che ne deriva. Quando i corpi nella nudità si incontrano e si intrecciano, si accende una conoscenza reciproca che non è comparabile a quella che possono avere l’uno dell’altro anche gli amici più intimi. Condividere il corpo e il respiro crea un’unione che è “conoscenza unica”, è — oserei dire, citando Giovanni Paolo II — “liturgia dei corpi”, è conoscenza penetrativa, di una profondità unica. Quando si tocca un corpo, non si tocca qualcosa, ma una persona, che non è un oggetto di piacere, che non può essere consumata, ma che è possibilità di comunione autentica. Senza questa comunione non è possibile la castità, ma solo l’obbedienza alla pulsione, all’estro, al possesso. Scriveva Rainer Maria Rilke: «Non c’è nulla di più arduo che amarsi: è un lavoro, un lavoro a giornata… L’amore è difficile e non è alla portata di tutti».

L’atto sessuale, compiuto nei tempi e nei modi che gli amanti sanno discernere come belli, buoni e “giusti”, è conoscenza, e non si deve avere paura di affermare che proprio il piacere sommo dell’atto sessuale incendia tale conoscenza. Ma non è facile distinguere questo piacere sommo dell’incontro dei corpi, dei cuori, delle intelligenze, dalla pulsione. Sì, la pulsione da sola, con la sua prepotenza, può creare l’inferno, eppure essa ci abita, e, se non ci fosse, non saremmo naturalmente capaci di darci e di accoglierci. La pulsione da sola può addirittura portare a un’unione dei corpi che conosce solo l’attimo fuggente e a un’eccitazione dei sensi che conosce la senescenza precoce dei sensi stessi. Non è anche per questo che sovente le storie d’amore, anche sigillate pubblicamente, conoscono la fine e dunque il fallimento dell’amore? L’amore tra due persone è un lungo cammino che solo una forza più grande di loro — che il credente riconosce come la misericordia di Dio — può far leggere come cammino possibile senza interruzioni: da parte degli amanti c’è sempre un venir meno, un non essere adeguati all’altro, un’incapacità a essere sinfonici. L’amore deve vincere sempre, ogni giorno, su tutte le forze che gli sono contrarie perché obbediscono solo alla pulsione, la quale non vuole il bene dell’altro, anche se ci fa dire che all’altro si vuole bene.

Quando, di fronte all’altro soggetto, non si sa stare con rispetto, come davanti a un mistero, a una trascendenza; quando non si è capaci di inchinarsi di fronte all’altro e di farlo per amore; quando non si percepisce il segreto dell’altro, che sfugge alla nostra presa, allora non si è capaci di castità.

Ecco la difficoltà della castità, quasi impossibile, invivibile si potrebbe dire; anche Gesù, del resto, ha messo in guardia i suoi discepoli: «Chiunque guarda una donna per bramarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore» (Mt 5,28). Guardare una donna per bramarla è vederla non in quanto donna, ma come oggetto, dunque non percepire in lei “la persona altra”; significa passare accanto a una possibile relazione autentica, per percorrere altre vie che non portano alla comunione.

Ma proprio mettendoci di fronte a questa esigenza, comprendiamo le nostre fragilità, le nostre incapacità, e misuriamo la dominante animale che è in noi e che non sempre siamo capaci di sottomettere e di ordinare. Proprio per questo — io credo — Gesù ha annunciato il mistero della sessualità e l’ha legato in modo escatologico al regno di Dio veniente. La castità è un lungo tragitto, e si sarà casti veramente solo se si accetterà di morire, se si sarà capaci di fare della morte un atto, un atto di scioglimento di legami. Troppo spesso si assimila il celibato alla castità, dimenticando che il celibato è una situazione che si vive, mentre la castità è a un altro livello: non è una situazione, ma una dinamica che non raggiunge mai pienamente il suo obiettivo. Noi umani siamo così deboli, conosciamo così poco le nostre profondità, non abbiamo presa sul nostro intimo più nascosto e siamo abitati da pulsioni e desideri non sempre distinguibili. Proprio per questo, oso dire che chi fa professione di celibato può promettere davanti a Dio ed esprimere con i voti questa situazione, mentre la castità non dovrebbe essere una promessa, perché a essa il soggetto può tendere, ma mai viverla senza incrinature né contraddizioni. Il celibato cristiano richiede di cercare la castità ma non si identifica con essa. Del celibato si può forse dire che è “grandezza”, ma si deve dire che è anche “miseria”, quella miseria che ognuno conosce nelle sue contraddizioni alla castità.

Ecco perché credo sia bene che papa Francesco abbia ricordato ai giovani le esigenze della castità, tensione interiore preziosa in ogni scelta di vita legata all’amore e impossibile da raggiungere senza un cammino di umanizzazione

Enzo Bianchi la Repubblica 1 luglio 2015  

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/07/01/che-cosa-vuol-dire-essere-casti-oggi29.html?ref=search

 

Nella morale fondamentale: un nodo imprescindibile, una tensione feconda   

L’applicazione del binomio carisma-istituzione all’etica implica anzitutto la considerazione della radice antropologica da cui tale binomio trae origine. Il suo fondamento ultimo va, infatti, ricercato nella persona, la cui unità originaria non implica uniformità, ma è costituita da una differenza, quella tra spirito e corpo, i quali vanno intesi non come elementi del tutto autonomi che confluiscono successivamente in unità – come vogliono le posizioni dualiste –, ma come dimensioni costitutive della stessa realtà.

            La compresenza di queste due dimensioni non è tuttavia del tutto pacifica: a spirito e corpo corrispondono istanze diverse legate alla natura dell’uno e dell’altro, che danno origine a una situazione tensionale. Mentre, infatti, lo spirito tende al superamento dei limiti spazio-temporali e ad esaltare l’interiorità umana, e in quanto tale de-situa la persona proiettandola costantemente oltre se stessa, il corpo la situa, circoscrivendola entro uno spazio e un tempo definiti e obbligandola a fare concretamente i conti con i propri limiti. La dialettica tra le due dimensioni appare inevitabile. E tuttavia, lungi dall’assumere connotati di radicale opposizione, diventa in definitiva sorgente di reciproco arricchimento.

            La tensione tra spirito e legge. Il rapporto tra carisma e istituzione affonda le proprie radici, in ultima analisi, proprio in questo dato antropologico. Se vale il principio secondo il quale agere sequitur esse, l’agire morale, in quanto espressione di un soggetto insieme spirituale e corporeo, riflette (e non può che riflettere) questa dialettica. Le dinamiche che qualificano in modo specifico l’impianto dell’eticità rinviano al rapporto tra l’aspetto soggettivo e l’aspetto oggettivo dell’agire, che viene declinato nei rapporti tra coscienza e norma, tra atteggiamento buono e comportamento giusto (o retto), tra intenzionalità ed efficacia storica; in sintesi, tra spirito e legge.

            La ragione ultima della moralità va senz’altro rintracciata nel mondo interiore della persona, perciò nello spirito che anima di sé la decisione e nel quale si rende trasparente il coinvolgimento della persona nella concretezza dell’azione. Ma lo spirito, in quanto espressione della persona, che è realtà strutturalmente relazionale, esige il ricorso a un dato oggettivo – il mondo dei valori e delle norme – il quale fornisce le condizioni per il corretto sviluppo delle relazioni interpersonali. Si determina così una circolarità virtuosa tra spirito e legge; anche se si tratta di una circolarità non perfettamente bilaterale, perché il primato è dello spirito, e l’adesione alla legge costituisce un segno importante ma non univoco di valutazione della moralità.

            La conferma di questo assunto viene dalla teoria dell’opzione fondamentale, la quale evidenzia con chiarezza, nella determinazione dell’eticità, l’importanza primaria del progetto di vita, ma rinvia anche alla sua necessaria mediazione nelle scelte particolari quotidiane, riconoscendo peraltro che tra le due realtà non si dà perfetta equivalenza. Le scelte particolari, infatti, non sono sempre e necessariamente espressione della scelta fondamentale e in sintonia con essa, la quale proprio per questo può (normalmente attraverso un processo graduale di segno opposto) venire ribaltata.

            Carisma e istituzione manifestano dunque, sul terreno dell’etica, la loro indispensabile correlazione, pur nel riconoscimento della distinzione dei rispettivi ambiti e nell’ammissione della presenza di una gerarchia di valori. Questa assegnando al carisma, cioè allo spirito, il primato (non rinunciando, in altri termini, a evidenziare la priorità della coscienza, dell’intenzionalità e dell’atteggiamento buono), mette tuttavia nel contempo in luce l’importanza dell’istituzione, rendendo trasparente come la moralità comporti, nella sua piena espressione, l’implicazione dei due fattori.

            La “novità” della morale evangelica. La dialettica tra carisma e istituzione trova, a sua volta, riscontro anche nell’ambito del messaggio evangelico. L’aperta polemica nei confronti del formalismo farisaico o l’affermazione che a contare nella valutazione del comportamento umano non è ciò che entra nella bocca dell’uomo ma ciò che esce dal suo cuore (Mt 15,15-20; Mc 7,15) evidenziano con chiarezza il primato assegnato dalla morale evangelica allo spirito o al mondo interiore dell’uomo.

            Questo primato non implica, tuttavia, rifiuto di attenzione alla legge, la quale conserva intatta la propria validità: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5,17). Le stesse antitesi del discorso della montagna (“Avete inteso che fu detto agli antichi… ma io vi dico”, Mt 5,21-48), che sembrano opporre la novità inaugurata da Gesù ad alcune istanze della legge mosaica, rappresentano in realtà un “portare la legge al suo compimento” (al suo pleroma). La “novità” di Gesù consiste dunque piuttosto nel dare corso a una “giustizia migliore” o “superiore” (Mt 5,20), cioè nell’adesione interiore a ciò che la legge propone, privilegiando lo spirito e incentrando l’agire attorno al comandamento dell’amore.

            Il primato è assegnato in questo caso al carisma, senza che questo debba significare la rinuncia a fare i conti con l’istituzione, con gli aspetti più specificamente normativi dell’esperienza morale, che rappresentano un fattore permanente (e necessario) di confronto per l’agire umano. Il rapporto tra carisma e istituzione trova, infine, piena esplicitazione nella relazione tra le norme-precetto, che segnano il limite da non oltrepassare e obbligano perciò a un assenso senza eccezioni e senza limitazioni, e norme escatologico-profetiche, che rinviano costantemente oltre, perché hanno come obiettivo il perseguimento dell’ideale di perfezione e conferiscono, di conseguenza, alla condotta del credente il carattere di un cammino di conversione permanente.

            La dialettica è dunque qui tra due istanze, che hanno entrambe un carattere normativo, ma che al tempo stesso mettono in luce la strutturale tensione che caratterizza l’esperienza cristiana: che non può ridursi al rispetto di una serie di divieti, ma sollecita una costante apertura al bene i cui contenuti non sono mai del tutto circoscrivibili, perché coincidono con la carità, essenza stessa del Dio trinitario.

            Le conseguenze per la definizione dell’eticità. Il dinamismo dell’etica in generale, e di quella cristiana in particolare, è dunque radicalmente riconducibile alla dialettica tra carisma e istituzione. Questo conferisce una particolare duttilità alla valutazione della condotta morale, dove il contenuto materiale dell’azione risulta essere una spia (non univoca) della moralità soggettiva, la quale rinvia al mondo interiore della persona e può essere colta (in termini mai radicali e definitivi) dalla stessa persona coinvolta. L’esortazione di Gesù a “non giudicare” (e a non giudicarsi) per “non essere giudicati” scaturisce da questa constatazione. Come, d’altronde, l’insistente invito di papa Francesco a esercitare la misericordia – è questo il messaggio del prossimo giubileo – non va confuso con una sorta di buonismo irenico, ma è espressione di un essenziale dato antropologico, la percezione dell’impossibilità di formulare un giudizio radicale e definitivo su qualsiasi comportamento umano.

            Ma il discorso non deve essere ristretto soltanto a questo ambito. Ha implicazioni importanti anche nell’ambito della definizione della verità morale. Il dualismo, che ha caratterizzato in passato (e tuttora caratterizza in larga misura) questa definizione, e che tende a separare nettamente l’aspetto oggettivo da quello soggettivo, riconducendo di fatto l’eticità al primo e considerando il secondo soltanto in fase applicativa, è insufficiente.

            Non è questa, infatti, la specificità della verità morale, che non si identifica con la verità metafisica, ma include (e non può che includere) la soggettività come elemento costitutivo, essendo l’eticità radicata, in ultima analisi, nella coscienza del soggetto e dovendo tuttavia contemporaneamente fare riferimento a un dato oggettivo. Il rapporto tra carisma e istituzione rappresenta pertanto il connotato fondamentale del fatto etico, poiché appartiene alla stessa definizione della sua identità.

Giannino Piana    il Regno attualità n. 6\2015         29 giugno 2015

www.dehoniane.it/control/ilregno/dialogoMoralia?idDialogo=989601

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COGNOME PATERNO

Interesse del minore ad evitare un danno alla sua identità personale.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n.12640, 18 giugno 2015.

La Corte di Appello ha rigettato la sentenza di primo grado che aveva autorizzato un padre, stante il dissenso espresso a riguardo dalla madre che per prima lo aveva effettuato, a procedere al riconoscimento della figlia minore, disponendo che essa assumesse il solo cognome paterno; la decisione si è basata sul presupposto che tale scelta fosse stata adottata nell’interesse della minore, con riferimento all’insussistente attitudine identificatrice del cognome materno, tenuto conto dell’ancora tenera età della bambina, nonché dell’implausibilità sociale del doppio cognome, a fronte della “maggiore plausibilità del solo patronimico”.

Sul punto la Suprema Corte ha ribadito che i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che è essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poiché l’art. 262 c.c. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionata né dal “favor” per il patronimico, né dall’esigenza di equiparare almeno tendenzialmente il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all’attribuzione del cognome del figlio legittimo o legittimato (dpr 396/2000, art. 33), delle quali, peraltro, sono già stati evidenziati profili di non aderenza al dettato costituzionale.

La Corte ha evidenziato che “oltre che nei casi in cui ne possa derivare un diretto pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del padre, l’assunzione del patronimico con esclusione del cognome materno non può essere disposta quando l’esclusione di detto cognome, ormai naturalmente associato al minore nel contesto sociale in cui egli si trova a vivere, si risolve in un’ingiusta privazione di un elemento distintivo della sua personalità”.

Al di là del fatto che la minore in questione fosse molto piccola e dunque non si è ritenuto che avesse già acquisito una definitiva e formata identità con il matronimico, la Corte ha evidenziato come la decisione del giudice in materia di attribuzione del cognome sia dotata di ampia discrezionalità ed incensurabile in cassazione se adeguatamente motivata; nel caso di specie, non erano stati denunciati vizi motivazionali quindi il motivo di ricorso è stato rigettato.

E’ stato, però, accolto il motivo di ricorso relativo al diritto della madre al rimborso delle spese sostenute anteriormente al periodo di vigenza del contributo stabilito in sede giudiziale, rimborso che era stato negato sul presupposto che mancasse la prova rigorosa circa la loro entità. La Corte, nel confermare che il genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita ha diritto di regresso nei confronti dell’altro genitore per la corrispondente quota ex artt. 148 e 161 c.c., ha anche precisato la natura in senso lato indennitaria di detto rimborso, potendo così ricorrere al principio generale dell’equità come criterio di valutazione del “pregiudizio” economico subito.

AIAF – Newsletter     2 luglio 2015              www.aiaf-avvocati.it/archivio-newsletter

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Taranto. Il consultorio familiare gestisce a Grottaglie il consultorio giovani.

            Grottaglie: Consultorio Giovani “Il Focolare – Via Carlo Marx, 1 74023 Grottaglie (Ta)

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DALLA NAVATA

14° domenica del tempo ordinario – anno B –5 luglio 2015.

Ezechiele          02.05 «Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli – sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro»

Salmo             123.01 «A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli»

2 Corinzi          12.09 «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»

Marco               06.04 «Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”»

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FECONDAZIONE ARTIFICIALE

Considerazioni sulla sentenza della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa

Sentenza n. 162, 10 giugno 2014 (Gazzetta ufficiale n. 26, 18 giugno2014.

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=162

  1. I principali contenuti della sentenza. Con la sentenza n. 162, 10 giugno 2014, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004, nella parte che stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili. In conseguenza del pronunciamento la fecondazione eterologa ha iniziato ad essere praticata in Italia. Risultano da considerare attentamente gli esiti a cui la Corte è pervenuta e le rispettive motivazioni. Si può condensarli nelle seguenti posizioni:

a)      Secondo la Corte gli artt. 2, 29, 31 Cost. stabiliscono il diritto alla formazione di una famiglia e il diritto di autodeterminazione delle coppie colpite da sterilità e infecondità irreversibili: “La scelta di tale coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia dei figli costituisce espressione della fondamentale libertà di autodeterminarsi” che concerne la sfera privata e familiare. In rapporto a ciò la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile e infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere “incoercibile”. Questo a patto che l’autodeterminazione della coppia non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA (procreazione medicalmente assistita) di tipo eterologo: secondo la Corte anch’essa attiene alla sfera dell’autodeterminazione, di modo che l’uguaglianza della patologia tra coppie omologhe ed eterologhe è sufficiente a oltrepassare il divieto di eterologa, nonostante le ben diverse situazioni di fatto; La sentenza sostiene che la PMA vada pensata come il genus e la PMA eterologa una semplice species della prima;

b)      L’art. 32 Cost. è violato dal divieto di eterologa che non tutela l’integrità fisica e psichica delle coppie di cui sopra, e ciò a fronte del fatto che l’art. 32 Cost. è “comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica”; D) la complessità degli interessi in gioco richiede un bilanciamento tra loro che assicuri un livello minimo di tutela legislativa ad ognuno, e tenendo presente che “la stessa tutela dell’embrione non è comunque assoluta ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione”. Orbene secondo la Corte questo ragionevole bilanciamento non è stato raggiunto dalla legge 40 in ordine alla PMA: “Il censurato divieto [di PMA eterologa], nella sua assolutezza, è pertanto il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, in violazione anche del canone di razionalità dell’ordinamento”; E) l’illegittimità del divieto di eterologa “deve escludere, in radice, un’eventuale utilizzazione della stessa ad illegittimi fini eugenetici”; F) possono ricorrere alla PMA di tipo eterologo esclusivamente coppie maggiorenni di sesso diverso.

Occorre valutare gli argomenti della Corte e cercare di far affiorare il non detto e/o i suoi punti di fragilità e talvolta perfino di manifesta omissione. Ciò potrebbe sembrare un esercizio inutile dal momento che le sentenze della Corte sono inappellabili: in realtà, pur tenendo nel debito conto tale aspetto, anche le sentenze inappellabili sono valutabili e perfino criticabili, ed in ciò si esplica una funzione tutt’altro che secondaria della dialettica civile.

  1. La nuova concezione della paternità introdotta. La Corte è consapevole di avallare una “nuova concezione della paternità” secondo cui “il marito è padre del concepito o nato durante il matrimonio”, dove il legislatore ordinario ha aggiunto ‘nato’ alla precedente formulazione dell’art. 231 del codice civile. Tuttavia la revisione del suddetto articolo era espressamente ed inequivocabilmente finalizzata a eliminare ogni discriminazione rimasta nel nostro ordinamento tra i figli nati nel e fuori del matrimonio, così garantendo la completa eguaglianza giuridica degli stessi (cfr. Decreto legislativo 28-12-2013, n. 154, G. U. 08-01-2014). Questo chiaro intento non è provenuto dal desiderio di introdurre una nuova concezione del matrimonio – come sembra sostenere la Corte -, ma appunto dalla volontà di equiparare figli nati nel e fuori dal matrimonio. Questa finalità nulla ha a che vedere con la fecondazione artificiale eterologa, che non nasce dalla volontà di sanare una situazione pregressa o di mettere fine ad una discriminazione in ordine al figlio già nato, ma la crea. Conseguentemente non si comprende come la Corte possa fare ricorso alla nuova formula dell’art. 231, di cui va ribadito lo scopo specifico, per avallare una nuova concezione della paternità: questa si materializza nell’intento apriorico e volontaristico di sdoppiare la figura del padre, separando padre genetico e padre sociale che era l’esito cui si voleva pervenire, non il risultato di un argomento. E per pervenirci la sentenza amplia sino a distorcerlo il senso dell’art. 231.

La Corte ritiene altresì che la PMA eterologa possa essere accostata per analogia all’istituto dell’adozione in cui la provenienza genetica è diversa dall’appartenenza sociale. Alludendo all’adozione la sentenza osserva che “il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa”. In questo modo la sentenza consapevolmente cancella la radicale differenza tra adozione e PMA eterologa, dal momento che l’adozione come garanzia di una famiglia per il minore non ha nulla a che vedere con la PMA che garantisce un minore ad una famiglia. L’adozione pone rimedio ad un fatto già intervenuto, mentre la PMA appartiene all’ordine del progetto premeditato che di per sé è necessariamente anteriore al factum o al risultato. E’ abbastanza chiaro che da tali premesse si possa dedurre quasi ogni tipo di conseguenze, soprattutto se si intende prescindere dalla realtà della procreazione umana e dei suoi rapporti naturali, un elemento che percorre profondamente la sentenza.

  1. Un altro suo nucleo centrale è il “diritto al figlio”. Si tratta di un assunto che rischia di compromettere la visione della persona umana come avente in sé una propria dignità. Si possono, infatti, vantare diritti sulle cose, non sulle persone: la persona è soggetto di diritto, non oggetto. Avendo ritenuto esistente il diritto a realizzare la genitorialità e alla formazione della famiglia con figli, la Corte ha stabilito che il divieto dell’eterologa “cagiona, in definitiva, una lesione della libertà fondamentale della coppia destinataria della legge n. 40 del 2004 di formare una famiglia con dei figli”. Il richiamo alla “libertà fondamentale” mostra che la sentenza ha creato una sorta di diritto al figlio vestendolo sotto le forme di una libertà incoercibile. I ‘diritti di libertà’ dell’adulto sembrano prevalere su ogni altro diritto, mettendo in evidenza la torsione che viene impressa al tessuto della Carta tramite un’ermeneutica che si potrebbe chiamare libertaria. Di conseguenza i suoi valori fondamentali subiscono una notevole soggettivazione, in specie per quanto attiene al Titolo II relativo ai rapporti etico-sociali, reinterpretati secondo diversi profili. L’esito di tale ermeneutica è che il cercato bilanciamento tra diritti confliggenti appare molto spesso fissato a favore dell’adulto. Questo risultato emerge con particolare evidenza nella sentenza in esame: qui il termine “bilanciamento” tra diritti della coppia e diritti del figlio proveniente da eterologa risulta del tutto improprio e palesemente ingannevole, dal momento che al figlio non sono riconosciuti i diritti fondamentali di avere genitori reali e di conoscere le proprie origini, chiaramente subordinati alla “incoercibile” libertà di autodeterminazione della coppia. Dunque più che di bilanciamento si deve parlare di prevaricazione di una parte sull’altra; ed il motivo dell’esito è agevolmente rintracciabile nella suddetta libertà.
  2. L’irresponsabilità del fornitore dei gameti. Uno degli aspetti più problematici della sentenza è il fitto velo che copre la figura del fornitore di gameti, sostanzialmente fatta sparire nelle considerazioni della Corte (il termine “fornitore” o “cedente” è molto più idoneo di quello di donatore, a cui la sentenza fa costante riferimento in ossequio ad un suo uso nominalistico che tende a coprire la realtà dell’evento). La cosa è tanto più stupefacente poiché il fornitore è un attore assolutamente fondamentale e necessario del processo che conduce alla PMA eterologa ed al nuovo nato. La fenomenologia del fatto, se così posso esprimermi, è ricostruita in maniera manifestamente carente, poiché le argomentazioni avanzate si volgono verso la coppia e la sua libertà, ed in misura appena accennata al concepito, mentre il silenzio cala sulla questione del fornitore. Già questo dovrebbe rendere attenti alla ricostruzione incompleta e perfino fittizia dell’evento operata dalla sentenza, e sollevare un interrogativo sulla concezione del diritto sottesa: poiché quest’ultimo non può che regolare rapporti reali, ciò presuppone che i fatti o i processi siano considerati nella loro reale integrità e non siano violati criteri o principi fondamentali della convivenza umana.

Due elementi tra loro intrecciati debbono essere considerati: I) la figura del fornitore e II) l’oggetto della fornitura. Consideriamo dapprima la figura del fornitore dei gameti che da un lato è motore indispensabile dell’intero processo procreativo, ma che dall’altro rimane nascosto e senza volto nella sentenza, coperto da un’inaccettabile irresponsabilità verso il figlio. Il fornitore non è considerato come soggetto responsabile ma appunto solo come colui che mette a disposizione gameti: “La nascita da PMA di tipo eterologo non dà luogo all’istituzione di relazioni giuridiche parentali tra il donatore di gameti ed il nato”. La frase conferma l’irresponsabilità del fornitore e mina alla base il rapporto di filiazione che è originario. In sostanza la sentenza, omettendo un punto centrale, concede un’immotivata e a mio parere distruttiva sospensione del criterio di responsabilità che è costitutivo delle società umane e ne regola le azioni: il criterio cioè che tutti e ciascuno sono chiamati a rispondere delle conseguenze prevedibili delle loro azioni, che nel caso del fornitore eterologo significa rispondere dell’atto che condurrà alla nascita del figlio e degli obblighi che ne promanano. Lasciando nell’ombra le inderogabili responsabilità del fornitore, la Corte sembra avallare un’indubbia violazione del suddetto criterio che sta alla base delle società umane: una violazione o deroga che non rientra nei poteri della Corte avanzare o concedere, dal momento che il criterio di responsabilità è anteriore alla Carta e da essa presupposto. Non ci possono essere ambiti sottratti in linea di principio al criterio di responsabilità. In secondo luogo nella sentenza si sottintende che la cessione di un gamete risulti equivalente alla cessione di una porzione di sangue o di un rene. Viene così occultata la differenza fondamentale tra l’una e l’altra cessione, dal momento che il rene è parte di un corpo già vivente, mentre il gamete è principio di una nuova vita. Ciò rende incomparabili i due atti, per cui le regole che si applicano per il primo caso non possono valere per il secondo e con esse le diverse responsabilità dei fornitori: il secondo atto è gravato da una responsabilità molto maggiore del primo. E tale responsabilità non può essere evacuata facendo scomparire la figura del cedente o equiparando tacitamente la cessione di un gamete alla cessione di un organo. Si rileva a questo proposito un grave cedimento al pensiero tecnico su cui tornerò.

5. Un castello costituzionale costruito ad hoc. La sentenza evita accuratamente (e pour cause) ogni riferimento all’art. 30 ed al suo posto costruisce un ‘castello’ o assemblaggio costituzionale che richiama gli artt. 2, 3, 29 e 32.  Tale castello, in certo modo creato ad hoc per giungere all’esito preferito, coincide con quello dei ricorrenti, sulla cui posizione la Corte si è appiattita.   Tanto più importante segnalare il silenzio, che non può che lasciare esterrefatti, concernente l’art. 30. Esso recita: “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”. Tali doveri e diritti provengono dal fatto della procreazione, sono insiti nell’evento generativo, e dunque sono obiettivi e non opzionali. Sottratti ad una scelta volontaristica post factum, sono indissolubilmente connessi alla generazione di un figlio, di modo che tale connessione non può essere distrutta per semplice volontà degli attori adulti, in specie per quanto concerne il fornitore di gameti. L’articolo 30 intende individuare nella genitorialità naturale il fondamento dell’obbligo alla cura del figlio da parte dei genitori, ossia punta a individuare in tale genitorialità ciò che rende certo e giuridicamente vincolante il dovere dei genitori di prendersi cura del nuovo nato. La filiazione non è un fatto tecnico-produttivo ma essenzialmente relazionale tra il genitore reale e il figlio, e tutto ciò non si può ricondurre all’autodeterminazione volontaristica dell’adulto. Conseguentemente rimane ai margini o anche francamente messo da parte che nella fecondazione eterologa la figura stessa della genitorialità è viziata sul duplice piano dell’irresponsabilità del fornitore e dell’atteggiamento soggettivo dei ‘genitori’ che scavalcano il concetto di filiazione naturale, e il diritto del figlio alla cura da parte di chi lo ha generato.

6. Pensiero tecnico e pensiero reale. Al di là dell’articolato della sentenza, una parola merita il ricorso sempre più ampio nel dibattito pubblico e nell’attività legislativa al criterio di non-discriminazione, spesso sotto la spinta dell’opinione pubblica prevalente in un certo momento, a sua volta convenientemente formata dal sistema dei media. Eppure esso, cui ci si richiama con clamore, è violato con grande frequenza quando si nega il carattere di essere umano ad una determinata categoria di soggetti. Nei loro confronti si opera la discriminazione più radicale fra tutte, poiché si nega loro la dignità umana. Si ponga mente alla selezione eugenetica degli embrioni, evento in cui tra soggetti di pari dignità si procede ad accoglierne alcuni e a rifiutarne altri. Non c’è violazione più palese del criterio di non-discriminazione. Su questo aspetto la Corte ha opportunamente dichiarato l’esclusione in radice della PMA eterologa a fini eugenetici.  Il problema non è però così semplice e categorico. Basandosi sulla libertà incoercibile della coppia di avere figli, è stato introdotto un ‘diritto al figlio’ che non consta, e che renderà più arduo opporsi alla potente spinta verso il riconoscimento di un nuovo ‘diritto’, quello ad un ‘figlio geneticamente sano’. In merito occorre considerare che un diritto ed un principio sono chiamati in causa dalla problematica in esame: il diritto alla vita dell’embrione che è senza condizioni, e che pertanto non dipende dal possesso o meno di una qualità determinata quale la salute; ed il principio supremo della dignità della vita umana, che non ha gradi e che vieta ogni selezione o discriminazione tra embrioni.

7. Annotazioni sui diritti di libertà e sull’indisponibilità dell’idea di famiglia naturale. Riflettendo sulle argomentazioni e i presupposti profondi della sentenza, emerge a mio avviso un cedimento al pensiero tecnico che si fa appariscente almeno sotto due profili: la già ricordata non-considerazione della figura del fornitore e delle sue responsabilità, che presuppone un punto di vista tecnico-funzionale (quello che per il pensiero tecnico è un fornitore, per il pensiero reale è un padre o una madre); la sostanziale omologazione tra PMA omologa ed eterologa. Sotto quest’ultimo profilo la sentenza dichiara legittima la PMA eterologa, sulla scorta di una supposta equivalenza sostanziale tra le varie PMA. La PMA sarebbe il genus a cui appartengono con parità di valore le due species dell’omologa e dell’eterologa: siccome la legge 40 ha reso legale l’omologa, altrettanto deve dirsi per l’eterologa. Questo modo di argomentare sembra presentare due nuclei particolarmente fragili: da un lato applica in maniera del tutto estrinseca un criterio di analogia tra omologa ed eterologa passando sopra le fondamentali diversità esistenziali; dall’altro mostra una fatale dipendenza dall’istanza tecnica che omologa nel senso che passa sopra le differenze reali, in accordo con il suo carattere in cui tutto diviene funzionale e intercambiabile: la tecnica conosce le regole del produrre e non le norme dell’agire. Solo da un punto di vista esclusivamente tecnico l’eterologa è una species della PMA, non certo da un punto di vista reale, per la differenza esistenziale invalicabile tra le due situazioni. In tal modo la procreazione umana viene riportata e ridotta ad un problema tecnico, e l’esonero che la sentenza offre in merito appare uno scardinamento gravido di numerose conseguenze e di ulteriori scardinamenti. Ammessa la PMA eterologa per le coppie sterili o infeconde, si possono pronosticare i prossimi passi a cui si potrebbe pervenire: la fecondazione eterologa per coppie capaci di procreare, per persone singole, per coppie omosex. Coloro che hanno condotto una battaglia politica e mediatica in favore dell’eterologa, hanno più volte dichiarato che proprio questi saranno i passi ulteriori da compiere per sradicare ogni paletto ancora in essere. Già si annunciano o sono stati inoltrati rinvii della legge 40 alla Consulta per rendere legale la PMA per coppie fertili portatrici di patologie genetiche ereditarie, sotto la doppia veste di ricorrere alla Fivet omologa, procedendo poi alla diagnosi e selezione preimpianto degli embrioni, o utilizzare la PMA eterologa.   In realtà la completa liberalizzazione dell’eterologa, che potrebbe essere raggiunta anche in Italia facendo saltare i non molti ripari che la sentenza mantiene, potrà avere conseguenze ancora più ampie: mercato senza limiti dei gameti, fecondazione incontrollata da parte di ogni tipo di coppia, utero in affitto, “famiglie” plurigenitoriali o monogenitoriali, fine dei legami familiari come li abbiamo conosciuti, aumento esponenziale della distruzione degli embrioni umani, incremento degli interventi eugenetici.

8. Un’ermeneutica omissiva da un lato e estensiva o amplificatoria dall’altro. Ciò che suscita preoccupazione è la trasformazione impressa dalla sentenza alla struttura della nostra Carta attraverso un’ermeneutica omissiva da un lato e estensiva o amplificatoria dall’altro. Oltre ai già citati punti (irresponsabilità del fornitore, selezione arbitraria del ‘castello’ costituzionale, cedimento al pensiero tecnico, obiettiva preminenza assegnata alle figure adulte), va segnalato il peso sproporzionato attribuito al diritto di tutela della salute fisica e psichica dell’adulto, un peso che rischia ormai di non avere limiti e che in genere viene fatto valere contro il soggetto debole non nato. Tale estensione soggettivistica del diritto alla salute fisica e psichica dell’adulto può essere facile porta di ingresso per operazioni eugenetiche di ogni tipo.

   La nostra Carta a fondamento personalistico, impregnata del valore della dignità della persona e dei suoi diritti-doveri, viene interpretata in vari casi in senso libertario, facendo perno sulla libertà di autodeterminazione dell’adulto, ormai interamente identificata con la dignità personale. Si fa strada lo slogan sul “diritto di avere diritti”, in cui si illude il cittadino sulla superfluità dei doveri.

9. Annotazione sui diritti di libertà. Nel 1946-47 la questione dei diritti umani era all’ordine del giorno dappertutto, in concomitanza con la preparazione della Dichiarazione universale. Non stupisce perciò che il tema dei diritti dell’uomo percorra in profondità il dibattito dell’Assemblea costituente italiana e la struttura della Carta, con particolare intensità per il tema della persona e del finalismo dello Stato, intorno ai quali venne costruito l’edificio costituzionale. In merito la prospettiva basilare fu individuata da G. Dossetti in un indirizzo che “a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella comple­tezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale; anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, ecc.) e quindi per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato; c) che per ciò af­fermi l’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato”. Conseguentemente il principio di libertà dell’individuo non può mai essere presentato come l’unico centro della nostra Costituzione in quanto sono co-principi almeno altrettanto importanti l’adempimento dei doveri, la solidarietà, la partecipazione.

10. La nostra Costituzione riconosce le realtà della persona e della famiglia nella loro indisponibilità. Questo offre l’occasione per puntualizzare un elemento basale sui limiti intrinseci al potere legislativo in ordine alla famiglia ed al suo modello naturale fondato sul matrimonio tra persone di sesso diverso. In merito opino che i Parlamenti che hanno dichiarato legittima la ‘famiglia omosex’ o altre forme di famiglia diverse da quella naturale siano andati molto oltre le competenze reali che loro spettano, cedendo ad una forma insidiosa di positivismo giuridico: licitum et legale quia permissum. La costruzione del diritto civile diventa la distruzione di quello naturale. Sostenendo ciò, non si nega l’opportunità di regolare tramite la legge i rispettivi diritti e doveri della convivenza omosessuale, a patto che quest’ultima non diventi una mera fotocopia del matrimonio.

11. diritti della madre e del concepito. Prima di concludere desidero accennare ad un tema che apparentemente esula dalla 162, ma che in realtà l’attraversa in ordine al bilanciamento tra i diritti della coppia e quelli del concepito: la questione del diritto alla vita. Uno dei ricorrenti ha fatto esplicito riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1975 nella parte che recita: “Non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”, avanzando l’idea che al diritto del nascituro a conoscere la propria origine genetica non possa esser data prevalenza per l’appena citata non equivalenza tra diritti della madre e del concepito. La sentenza del 1975 intendeva regolare il conflitto, oggi sempre più raro, tra salute della madre e salute del figlio, risolvendolo a favore della madre e dell’aborto. Essa, pur impiegando un criterio di differenza tra la madre-persona ed il concepito non-ancora persona, cominciava a riconoscere che il concepito non è mera portio viscerum della madre.

Nella sentenza 35/1997 la Corte si espresse in maniera diversa, facendo riferimento non a chi è/non è persona, ma al diritto alla vita: “Così pure si è rafforzata la convinzione, insita nella Costituzione italiana, in particolare nell’art. 2, secondo la quale il diritto alla vita, inteso nella sua estensione più lata, sia da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana.”. Nella sentenza non ricorre il termine ‘persona’: il riferimento della Corte è al diritto alla vita, e tale diritto, uguale per tutti e per ciascuno, è unitario e indivisibile.

La sentenza 35/1997 apre il cammino al riconoscimento costituzionale del diritto alla vita del concepito: la questione che oggi incombe è di murare nella nostra Carta tale diritto. Là dove il pensiero tecnico considera l’embrione un mero ed insignificante grumo di cellule, il pensiero meditante vede un essere umano a pieno titolo.

www.giurcost.org/decisioni/1997/0035s-97.htm

            Vittorio Possenti, filosofo,università di Venezia      Iustitia n. 2\2015.

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Dal meeting delle associazioni appello alla tutela dell’identità della famiglia.

            Inaugurata con un dibattito su “Matrimonio e unioni civili” la rassegna organizzata dal Forum famiglie Lazio. Belletti: «Aiutiamo il Parlamento a imboccare la strada giusta».

            Il dibattito sulle unioni civili anima le aule del Senato, ma ha trovato ampio spazio anche al Meeting delle famiglie. La terza edizione della rassegna organizzata dal Forum delle associazioni familiari del Lazio, intitolata “Desiderio di famiglia”, è stata inaugurata ieri, giovedì 2 luglio, all’istituto Pio XI del Tuscolano (via Umbertide 11). «Siamo qui per fare festa e testimoniare la bellezza della famiglia», ha spiegato alla cerimonia di apertura Emma Ciccarelli, presidente del Forum famiglie del Lazio. Motivo più che sufficiente per approfondire un argomento quanto mai delicato e di stretta attualità come il rapporto tra “Matrimonio e unioni civili: quale legislazione per il futuro del Paese?”.

Oggetto del confronto, introdotto da Emma Cicarelli, è stato il disegno di legge Cirinnà, attualmente in discussione al Senato. «É stato accettato un emendamento presentato da alcuni cattolici del Pd che premette al testo base che le unioni civili devono essere un istituto giuridico originario, e dunque qualcosa di diverso rispetto ai matrimoni», ha spiegato il giornalista di Avvenire Mimmo Muolo, moderatore dell’incontro. Una premessa che potrebbe cambiare le regole del gioco e, non a caso, ha portato Ivan Scalfarotto, sottosegretario per i rapporti con il Parlamento, allo sciopero della fame.

            «Ciò che va sostenuto è la tutela dei diritti delle persone – ha sottolineato Francesco Belletti, sociologo e presidente nazionale del Forum famiglie – ma va assolutamente garantito che qualunque regolazione sia differente rispetto alla scelta matrimoniale». Il perché è molto semplice: «L’identità della famiglia è chiarissima nel sentire del popolo e si rifà all’articolo 29 della Costituzione, secondo cui è fondata sul matrimonio, sulla differenza sessuale tra i coniugi e sull’apertura alla vita. Credo che entro l’anno – ha concluso Belletti – il nostro Parlamento arriverà a una decisione e dobbiamo aiutarlo a imboccare la strada giusta».

Emanuele Bilotti, docente di diritto di famiglia all’Università europea di Roma, è convinto che non basti definire l’unione civile un istituto giuridico originario. «L’istituzione matrimoniale è oggetto di una particolare protezione da parte della Costituzione e dà vita a un rapporto di dedizione sessuale esclusiva permanente tra i due coniugi. Questo vincolo crea un contesto di vita che è il più adeguato per l’accoglienza e l’educazione della prole». Ecco perché, secondo il giurista, «si deve arrivare a un riconoscimento giuridico delle unioni dello stesso sesso senza istituzionalizzare tali relazioni».

            «Temo che una battaglia contro l’istituzionalizzazione del matrimonio omosessuale sia una battaglia persa», ha dichiarato dal canto suo Giovanni Doria, ordinario di diritto civile all’Università di Tor Vergata. Il vero processo da arrestare, ha avvertito il giurista, è «il diritto alla genitorialità» avanzato dalle coppie dello stesso sesso, che spianerebbe la strada allo «shopping della filiazione» ed è contenuto nell’articolo 18 del DDL Cirinnà. «Il contributo dei giuristi al legislatore – ha osservato Doria – è far capire che esiste un limite: la genitorialità non è un diritto individualistico perché deve tenere conto dell’interesse prevalente del figlio».

Sui fenomeni di multiparentalità derivati dal riconoscimento dei matrimoni gay si è soffermata infine Ursula Basset, dell’Università cattolica dell’Argentina, dove i matrimoni tra persone omosessuali sono ammessi dal 2010. «La coppia, oggi, non è cosciente delle molteplici trascendenze del proprio compito. Porta tesori così grandi in vasi di creta. Senza figli il matrimonio si frammenta in mille pezzi» e i bambini che crescono con genitori dello stesso sesso sono «privati di riferimenti solidi e stabili», con la conseguenza che la loro personalità si frammenta come quella dei genitori.

            Antonella Pilia –         Romasette     3 luglio 2015

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FRANCESCO VESCOVO di Roma

                        Per “sciogliere i nodi” della famiglia oggi. Storia di un culto sudamericano.

            Si parla in questi giorni tanto di famiglia, e tanti sembrano avere ricette buone, alcune ottime. Ci viene da pensare che più che le ricette conti la memoria del significato reale e della reale forza della famiglia.

Ricordiamo qui un avvenimento che può essere di aiuto.

La storia inizia in Germania nel 1700 circa, quando un nobile – si racconta – pregando la Madonna poté migliorare la relazione con sua moglie. Fece allora dipingere ad un artista un dipinto celebrativo e costui rappresentò la Madonna, in atto di schiacciare la testa del serpente-demonio, che tiene in mano una corda piena di nodi complicati, che però al passare dalle sue mani risultano sciolti e la corda liscia e rilassata.

L’artista era Johann Georg Melchor Schmidtner, un pittore che si era formato in Germania e poi a Venezia, tanto che il quadro è di buna fattura. Venne chiamato in tedesco “María als Knotenlöserin”, cioè Maria che scioglie i nodi. Il quadro fu poi donato ad un convento e dopo la distruzione di questo finì alla chiesa di San Peter am Perlach, ad Ausburg.

Ma la nostra storia ha un seguito latinoamericano. Nel 1984 un sacerdote gesuita che era andato a studiare in Germania riportò nella sua Buenos Aires una cartolina che rappresentava il quadro. Fu tanta la devozione del sacerdote, che il dipinto fu riprodotto dall’artista Ana Betta de Berti nella città argentina e fu posto nella chiesa di San José del Talar (calle Navarro 2460) l’8 dicembre 1996.

Il quadro suscitò così tanta impressione che venne anche riprodotto altrove a Buenos Aires, ad esempio nella cappella dell’Università del Salvatore e, con il permesso del cardinale Quarracino,nella parrocchia di San Giuseppe, in ragione del vincolo sponsale di questo santo con la Vergine. Ella viene oggi chiamata la Virgen Desatanudos, cioè “Sciogli-nodi”. La data principale di venerazione della Vergine in questa particolare accezione è per l’appunto l’8 dicembre, ma anche il 15 agosto e il 28 settembre e richiama grandi folle. Viene venerata col titolo di “Patrona dei matrimoni e dei conflitti nella vita delle persone e dei popoli”.

Da questo culto viene un suggerimento: oggi si parla di famiglia solo per farne oggetto di rivendicazioni o per farne una delle tante medaglie o titoli di cui ci si fregia nella vita. Invece della famiglia bisogna innamorarsene, coltivarla, farla rifiorire da consuetudini e opacità; e riconoscere i nodi che da soli non sappiamo sciogliere. Perché i nodi ci sono; ma non devono essere l’ultima parola. E come fiorisce una famiglia che supera i nodi insieme e che non viene lasciata sola nella periferia della tristezza o della povertà! Allora per lavorare sulla famiglia bisogna prima raccontare, mostrare, illustrare (e ringraziare) le belle famiglie che popolano l’Italia, l’Argentina e tanti paesi e che attraverso i mille nodi quotidiani sanno fiorire.

Questa storia di una devozione sudamericana però resterebbe una tra le tante senza un finale speciale, cioè svelare che il sacerdote gesuita che diede vita a questo culto, portando con sé l’immagine della Vergine Sciogli-nodi dalla Germania, era un giovane Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa Francesco, così innamorato di una Madre della famiglia che ne guarda i nodi e le difficoltà.

Carlo Bellieni Zenit.org        1 luglio 2015

www.zenit.org/it/articles/per-sciogliere-i-nodi-della-famiglia-oggi-storia-di-un-culto-sudamericano

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GOVERNO

Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di PMA.

Il Ministro Beatrice Lorenzin ha firmato il decreto di aggiornamento delle linee guida della L.40/2004, che regola la Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), un provvedimento molto atteso dagli operatori del settore e dalle coppie che accedono a queste tecniche, e che entrerà in vigore con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

                  Il nuovo testo, che aggiorna le linee guida del 2008, è stato rivisto in rapporto all’evoluzione tecnico-scientifica del settore e all’evoluzione normativa; in particolare ai decreti legislativi 191/2007 e 16/2010 e all’Accordo Stato Regioni del 15 marzo 2012 (che applica alla PMA le normative europee su qualità e sicurezza di cellule umane), e alle sentenze della Corte Costituzionale n.151/2009, e n.162/2014 le quali hanno eliminato, rispettivamente, il numero massimo di tre embrioni da creare e trasferire in un unico e contemporaneo impianto, e il divieto di fecondazione eterologa.

                  Numerose le variazioni introdotte rispetto alle linee guida attualmente in vigore. Fra le principali l’accesso alle tecniche di fecondazione eterologa, la raccomandazione di un’attenta valutazione clinica del rapporto rischi-benefici nell’accesso ai trattamenti, con particolare riferimento alle complicanze ostetriche, alle potenziali ricadute neonatologiche e ai potenziali rischi per la salute della donna e del neonato nonché l’accesso generale a coppie sierodiscordanti, cioè in cui uno dei due partner è portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da HIV, HBV o HCV (nella versione precedente era previsto solo per l’uomo portatore, in quella attuale si consente anche alla donna portatrice).

                  In cartella clinica le procedure di PMA dovranno essere descritte con maggior dettaglio di quanto non lo siano state in precedenza, considerato che gli operatori possono avviare percorsi più differenziati di quanto fatto prima delle sentenze. In particolare andranno anche riportate le motivazioni in base alle quali si determina il numero di embrioni strettamente necessario da generare, ed eventualmente quelle relative agli embrioni non trasferiti da crioconservare temporaneamente.

                  Riguardo alla fecondazione eterologa, nelle linee guida vengono fornite le indicazioni per la coppia che accede ai trattamenti di fecondazione assistita, mentre tutto ciò che riguarda i donatori di gameti sarà contenuto nel testo di un nuovo Regolamento, già approvato dal Consiglio Superiore di Sanità, che sta proseguendo il suo iter per il recepimento delle direttive europee di riferimento.

[non vi sono riferimenti alla sentenza della Corte Costituzionale n. 96, 5 giugno 2015].

                  {non si citano i consultori familiari di cui all’art 3 della L 40\2004 – ndr}

Ministero della Salute, comunicato stampa n. 132, 1 luglio 2015  con allegato in pdf

www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=2148

 

Relazione del Ministro della salute al Parlamento concernente la L..n. 40\2004.

Con la presente Relazione, redatta ai sensi dell’art.15, comma 2 della Legge 19 febbraio 2004, n.40, viene illustrato lo stato di attuazione della legge in materia di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA).

Periodo di riferimento: 2013-2014 pag. 196                       1 luglio 2015

www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=2379ENDER

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MEDIAZIONE FAMILIARE

Strumenti a sostegno della famiglia in crisi

Consentitemi di condividere con voi una mia riflessione…… Quanta confusione che ruota intorno alla delicata sfera del diritto di famiglia !!! L’ingresso della negoziazione assistita e per ultimo il divorzio breve mi fanno comprendere che il legislatore non ha avuto a cuore i sentimenti, le emozioni di chi attraversa la delicata fase della separazione. Il legislatore che dovrebbe tutelare e mettere in atto misure idonee finalizzate alla tutela dell’interesse primario dei minori si illude e illude gli operatori del diritto, che con una semplice modifica al codice di rito, al fine di smaltire ed alleggerire il carico giudiziario all’interno dei Tribunali, si possano risolvere velocemente tutti i problemi che coinvolgono chi affronta la fase della disgregazione familiare, considerando e riducendo l’istituto del matrimonio ad un freddo contratto di prestazioni, senza prevedere e prendersi minimamente cura degli aspetti affettivi e relazionali che invece sono la parte più rilevante e degna di attenzione in un rapporto di coppia…… ma di cosa stiamo parlando?

Il legislatore non ha amore, non ha rispetto per i sentimenti dei bambini e degli adulti….è questa la triste verità…. e voi che operate nella delicata sfera del diritto di famiglia lo comprendete bene !!! Comprendo che deve avvenire una evoluzione nel diritto di famiglia ma non è questa la strada giusta….. Per quel che riguarda la legge appena approvata sul divorzio breve il mio parere può anche essere positivo, anche se siamo tutti consapevoli che un buon divorzio si può raggiungere, a prescindere dai tempi indicati dal legislatore, solo dopo che la coppia ha elaborato il proprio divorzio emotivo che e’ il passaggio fondamentale nella fase della disgregazione familiare. Sappiamo bene che se non si elabora emotivamente una separazione il livello della conflittualità sarà sempre alto e la ricaduta sociale non potrà che avere risvolti negativi. A mio avviso tali delicate tematiche miopiamente non considerate dal legislatore non possono risolversi sic et simpliciter allungando o riducendo i tempi del divorzio, ma prevedendo un percorso finalizzato ad una buona separazione che tiene conto degli aspetti emotivi, affettivi, relazionali quale è l’istituto della mediazione familiare!!

            Se vogliamo fare una comparazione con quello che succede in Europa, è chiaro che il legislatore italiano con la legge sulla negoziazione assistita e successivamente con il divorzio breve se da un lato si è voluto allineare alla normativa esistente in questi paesi al fine di contenere e snellire il contenzioso familiare anche nei suoi aspetti patrimoniali, dall’altro però l’intervento legislativo è avvenuto in un contesto giuridico e culturale completamente diverso e inidoneo ad accogliere e sostenere questo tipo di riforma.

            In particolare, mentre la Francia, al fine di umanizzare e sdrammatizzare gli effetti negativi del divorzio, già da tempo si è mossa nella direzione di privilegiare la mediazione, non soltanto con l’emanazione di leggi adeguate che hanno influito sulla formazione di una cultura negoziale che favorisce la responsabilità genitoriale, ma il legislatore ha anche previsto le condizioni per la realizzazione di centri di mediazione familiare, dove le coppie devono rivolgersi in forma volontaria già prima di adire il Tribunale e su indicazione del giudice successivamente.

            Ancora più netta è la scelta del legislatore tedesco che, ritenendo il divorzio un presupposto necessario ad una “correzione della vita familiare” ha previsto che dopo il divorzio ciascun coniuge, seppur gradatamente, dovrà provvedere al proprio mantenimento, prevedendo nel contempo misure atte ad agevolare l’inserimento della donna nel mondo del lavoro realizzando così la piena parificazione dei ruoli genitoriali.

            Anche in Spagna, seppur a macchia di leopardo, la legislazione sulla separazione e sul divorzio prevede una forma di accompagnamento al distacco relazionale ed emotivo della coppia a tutela dei figli attraverso un percorso di mediazione familiare.

            In Italia invece, in barba a tutti i buoni esempi appena menzionati, il legislatore della famiglia, anziché prevedere una forma di accompagnamento e di sostegno per tutte quelle famiglie che vedono fallire il proprio progetto matrimoniale e familiare, in maniera tale che anche il carico giudiziario possa trarre benefici, con tutta l’insensibilità del caso riduce semplicemente i termini per poter divorziare lasciando invariata la previsione di poter litigare dinanzi a più giudici e se non soddisfatti poter perseguire tre gradi di giudizio anche solo per far dichiarare l’addebito della separazione all’altro coniuge. Per non parlare dei contenziosi sulle spese straordinarie, sull’inadempimento delle clausole di separazione e/o divorzio, sulla modifica delle condizioni di separazione e su tutto quello che attenti avvocati, di per se già numerosi ed esasperati da una crisi economica senza precedenti possono consigliare…..

            Ma a mio modestissimo parere c’è un aspetto che non può essere tralasciato alla lettura della normativa sulla negoziazione assistita che è quello che riguarda la responsabilità professionale attribuita agli avvocati che sollecita un’evoluzione di tutta l’avvocatura verso una cultura della mediazione e della negoziazione al fine di limitare l’incremento e l’uso del conflitto giudiziale solo a questioni meritevoli di tale tutela.

            Ed è questa la grande sfida che bisogna cogliere. E’ chiaro a tutti che siamo in un momento di transizione tra un passato dove ogni conflitto sfociava naturalmente in un giudizio ad un’epoca dove il conflitto ha acquisito un’accezione di confronto, di crescita, di condivisione, di opportunità. Nella terra di mezzo ci siamo noi che abbiamo la responsabilità di cogliere il senso di tale cambiamento che, in effetti, è già avvenuto. Quanto prima ci accorgiamo di tutto questo, tanto prima possiamo contribuire a che i nostri ragazzi possano trovarsi in linea con una cultura europea già formata alla mediazione ed alla negoziazione dei bisogni.

            In questa ottica, la responsabilizzazione degli avvocati è un’occasione da non perdere, né da parte degli stessi avvocati, chiamati ad assumere quel ruolo di mediatori e di negoziatori a cui la novella auspica, né da parte dei giudici che devono saper gestire le incongruenze delle norme per incrementare il più possibile tale condivisione di responsabilità, quale motivo di crescita della sensibilità dell’avvocatura verso quel ruolo di mediazione che caratterizza la figura dell’avvocato moderno in tutti i grandi paesi stranieri, chiamato a canalizzare verso la consensualizzazione le incomprensioni che scaturiscono dalla crisi della famiglia, nella sua accezione più ampia.

            L’istituto che esprime la sua massima attenzione alla consensualizzazione ed alla responsabilità genitoriale è quello della mediazione familiare, che affonda le sue origini in America, dove nei primi anni 80 un avvocato, John Haines, che ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza della separazione, ha attraversato il dolore, la rabbia la conflittualità scatenata dai suoi stessi colleghi e ha compreso che non era quella la giusta via per affrontare una separazione ma che la via da seguire era quella dell’ascolto, della comprensione della negoziazione ragionata che non porta alla guerra ma ad una condivisione coscienziosa, consapevole e rispettosa dei bisogni di tutti coloro che sono coinvolti nel marasma della conflittualità coniugale legata alla separazione, da dove non esce un vincitore e un perdente ma due persone che hanno la libertà di decidere e scegliere in prima persona grazie all’accompagnamento del mediatore familiare professionista le condizioni della loro vita futura da separati. La mediazione familiare è una disciplina che nasce proprio da un modo nuovo di pensare e gestire il conflitto. Il conflitto, infatti, non è né positivo né negativo, esiste, ed è un’opportunità di crescita. Sappiamo bene che il conflitto scatena una forte sofferenza interiore che può essere sostenuta solo attraverso l’ascolto e la comprensione. Le spiegazioni razionali non aiutano chi vive nel dolore, solo dopo che qualcuno si e’ preso cura di loro ed ha ascoltato, compreso, rispecchiato e riconosciuto la sofferenza di entrambi le parti cominciano a sentirsi più serene e propense alla riassunzione di quella responsabilità genitoriale compromessa dalla crisi familiare. Tutto questo avviene alla presenza del mediatore familiare professionista che e’ un esperto nella gestione dei conflitti. Può avere una formazione giuridica o umanistica. E’un terzo neutrale, imparziale, scevro da pregiudizi che segue la coppia nel percorso in mediazione familiare finalizzato ad abbassare fino a ridurre la soglia della conflittualità che altro non è che la causa scatenante di un mancato riconoscimento dei propri bisogni. Riflettiamo insieme un attimo….può accadere, o accade anche a noi…. Quando ci arrabbiamo con il nostro compagno/a, quanto ci sentiamo delusi ? ……… Quando la nostra metà non attribuisce il giusto valore ai nostri bisogni…. è proprio in quel momento che inizia a nascere in noi la rabbia, ma come, io mi prodigo, io sono un bravo marito, un bravo padre, io sono una brava moglie, una brava madre, perché non mi riconosci e non mi dai il giusto valore in quello che faccio? E’proprio il mancato riconoscimento la causa scatenante del conflitto. Tutti noi abbiamo il bisogno di sentirci riconosciuti e gratificati nel ruolo di marito, di padre, di moglie, di madre.

            E’ proprio quando questo bisogno non viene riconosciuto nel tempo che nasce la rabbia, la voglia di riscatto, te la farò pagare, tu non mi comprendi, ma come io mi sono sacrificata per te, per la nostra famiglia..…. La cattiva comunicazione e le incomprensioni portano all’allontanamento dei coniugi. E’ importante comprendere che è assolutamente necessario investire nella coppia salvaguardando le relazioni. Quando questo non avviene la coppia si allontana, possono prendere spazio distrazioni e interessi al di fuori della coppia stessa che portano alla disgregazione. E la famiglia si sfascia. In quel momento l’unico potere che si ha è quello di scegliersi un avvocato forte, che faccia rispettare i nostri diritti, spesse volte la frase magica e’ proprio, …”avvocato, distruggiamo il mio ex, la mia ex, mi ha fatto tanto male”,…….e i figli? In questa fase purtroppo non si tiene conto di loro, al contrario i figli diventano strumento di contesa, come se sono di esclusiva proprietà, diventano burattini manovrati dagli stessi genitori, privi di sentimento, usati solo per compiacere ai loro bisogni……. Molti avvocati non formati in diritto di famiglia in questo gioco perverso purtroppo ci marciano. Non oso immaginare cosa accadrà con l’applicazione della negoziazione assistita…….quanti dolori, quanti drammi che cosa accadrà a tante coppie e a tanti bambini? Con l’avvento della legge sulla negoziazione assistita il legislatore ha perso un’altra opportunità. E’ invece importante che questa opportunità possano coglierla tutti gli operatori del diritto, di quello familiare in particolare. Solo a scopo esemplificativo e sicuramente non esaustivo vorrei fare un breve passaggio sulla mediazione familiare attraverso la condivisione di alcune slide che potranno darci qualche indicazione più chiara sul percorso e sulle modalità operative proprie dell’Istituto.

            L’istituto della mediazione familiare ha bisogno della preziosa collaborazione degli avvocati. Insieme, lavorando in sinergia, si può migliorare la qualità di vita di tante famiglie che attraversano la delicata fase della conflittualità familiare. Solo unendoci possiamo restituire serenità e sorrisi ai bambini ed ai loro genitori.

dr Teodora Tiziana Rizzo, Pedagogista – Mediatrice familiare                    4 luglio 2014

Direttrice dell’Istituto Nazionale di Mediazione Familiare e Penale INAMEF.

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L’avvocato e il mediatore familiare.

L’aspetto che vorrei oggi sottoporre alla vostra attenzione è quello del diverso approccio del mediatore familiare e dell’avvocato rispetto ad un evento separativo in ambito familiare, pur avendo a che fare con gli stessi interlocutori. Evento separativo che incide in maniera preponderante nella vita dei soggetti che, loro malgrado, si trovano a dover affrontare tale percorso. Loro malgrado, perché ritengo sia in ogni caso un evento traumatico, non fosse altro per dover riconoscere la necessità di mettere fine ad un progetto di vita rivelatosi fallimentare, anche se questo presupposto è ritenuto da una delle parti un valido motivo per interrompere la relazione coniugale oramai al capolinea. Ma se tutto ciò in alcuni casi può essere compreso e condiviso, in altri l’altro coniuge potrebbe non condividere tale decisione, vivendo l’evento separativo con sentimenti di dolore e di rabbia, che, se in presenza di figli, vengono riverberati su di loro; per non parlare del disagio dei minori coinvolti in una situazione di separazione dei propri genitori, disagio oramai scientificamente provato specie quando la separazione risulta essere conflittuale.

            E’ inutile nascondere che, ancora oggi, nella maggior parte dei casi, quando una coppia decide di separarsi, la prima figura professionale alla quale si rivolge è quella dell’avvocato, in una convinzione culturale che solo quest’ultimo sia legittimato a tutelare i diritti dei membri di una famiglia in fase di disgregazione.

            Molto spesso la parte, che subisce la volontà dell’altro nella dissoluzione del vincolo matrimoniale, è carica di risentimenti, senso di inadeguatezza e di frustrazione; stati emotivi che, nel suo immaginario, solo attraverso una difesa aggressiva messa in atto dal proprio avvocato, potrebbe riuscire apparentemente a compensare tale stato emotivo. Ecco allora che, nel tentativo di coalizzare l’avvocato, la parte cerca di agganciarlo emotivamente.

            Molto spesso queste dinamiche determinano un coinvolgimento emozionale sugli avvocati che si esprime, anche inconsapevolmente, attraverso una presa di posizione di questi ultimi, tale da far affrontare la controversia come se fosse una questione personale, anche nei confronti del collega di controparte, quando sappiamo benissimo che il ruolo del difensore deve essere quello di pura assistenza legale svincolato da personalismi e rispettoso dei canoni deontologici di lealtà, probità e di buon rapporto di colleganza. Queste situazioni portano a perdere di vista quali sono i veri bisogni dei minori coinvolti nella separazione dei propri genitori, soggetti a dover subire le conseguenze della crisi coniugale, rispetto alla quale molte volte non essendo adeguatamente informati, si sentono anche colpevoli di quanto accade.

            E’ naturale che chi si trova a dover affrontare la fase della separazione personale tra coniugi vive momenti di confusione, di timore, di paura rispetto a quello che potrebbe succedere, anche perché non conosce bene la realtà delle aule giudiziarie. Non tutti vivono giornalmente, come il magistrato e l’avvocato, la realtà di tali contesti; non tutti sono abituati ad affrontare e discutere i propri problemi dinanzi ad un giudice e magari anche alla presenza di decine e decine di persone che ascoltano; non tutti vorrebbero parlare dei propri sentimenti, delle proprie emozioni e delle proprie paure con persone che non conoscono. Infatti, tutte queste circostanze determinano un senso di inadeguatezza e di vulnerabilità che portano, nella maggior parte dei casi, alla deresponsabilizzazione ed alla delega a terzi nella trattazione e nella tutela dei propri diritti.

            Molto spesso da avvocato mi sono chiesto se, all’esito del giudizio di separazione, la parte da me assistita fosse soddisfatta del risultato raggiunto o avesse bisogno di qualcos’altro. Mi ponevo questa domanda perché, dopo aver ottenuto in sede giudiziale il riconoscimento di un diritto tanto preteso, spesso notavo che tale successo non veniva accolto dal cliente con lo stesso entusiasmo ed enfasi dimostrati nella fase procedimentale e quindi prima della decisione del giudice. Mi capitava molto spesso di notare che alla mia soddisfazione professionale non corrispondeva quella dal cliente.

            Nel cercare di capire il perché di questi aspetti, confrontandomi ripetutamente anche con gli stessi clienti, ho compreso che spesso quello che rimaneva al coniuge separato ad esito del giudizio, era un misero senso di solitudine e di vuoto rispetto a tutto ciò che aveva investito nel proprio progetto familiare, coniugale e matrimoniale e che, ad un certo punto, a causa della voglia di rivincita nei confronti di chi aveva deciso di infrangere tale patto, per il solo gusto di “fargliela pagare” perché non ne comprendeva le motivazioni che avevano portato alla disgregazione familiare, si rendeva conto di non avere più la famiglia che tanto aveva desiderato e nella quale aveva investito per il suo futuro, anche se oggettivamente quella famiglia non poteva più rimanere unita. Il mantenerla unita a tutti i costi avrebbe sicuramente causato una degenerazione morale, avrebbe causato gravi disagi nei figli minori nel continuare ad assistere alle frequenti liti tra i genitori, il conflitto avrebbe fatto perdere il valore del rispetto reciproco, avrebbe potuto creare un focolaio di violenze.

            Effettivamente il diritto da solo non è sufficiente a dirimere controversie in ambito familiare, che invece necessitano di un approccio multidisciplinare per comprenderne le varie difficoltà legate alle dinamiche relazionali familiari.

            Condividere i principi della mediazione in generale e di quella familiare in particolare apre orizzonti diversi anche rispetto a come affrontare e risolvere una disputa, modificando anche il modo di approccio col cliente.

            Quando l’avvocato che accoglie il cliente che manifesta la decisione di separarsi è anche un mediatore familiare, dopo aver ascoltato le relative istanze e appurato che non si versi in casi di tossicodipendenza, maltrattamenti e/o violenza familiare, abuso su minori, palese incapacità cognitiva, o in caso di soggetti con patologie invalidanti, tali da trovarsi, il mediatore, in situazioni di non mediabilità, dovrebbe condividere con lo stesso un colloquio informativo sulla mediazione familiare al fine di farne condividere i principi, i benefici, gli obiettivi, le modalità del processo di mediazione familiare, inclusa la differenza sostanziale del percorso di mediazione familiare rispetto a quello giudiziario, il tutto in maniera non suggestiva ma solo ed esclusivamente conoscitiva, eventualmente condividendo col cliente le modalità di coinvolgimento dell’altro coniuge, sempre ed unicamente a solo scopo informativo.

            Principi questi esaustivamente delineati dalla Raccomandazione 98 del 19/01/1998 del Consiglio d’Europa nonché dalla Raccomandazione 1639 del 25.11.2003 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, le quali definiscono e ribadiscono l’autonomia e la complementarietà della mediazione rispetto al contesto giudiziario, la natura compositiva e non valutativa della funzione del mediatore familiare, l’assoluta confidenzialità e riservatezza rispetto a quanto emerso nel percorso di mediazione oltre alla volontarietà nell’accesso a tale percorso, presupposto precipuamente funzionale al buon esito dello stesso.

            Quando il cliente ha chiara la grande opportunità che la mediazione familiare offre nel poter negoziare personalmente, con l’aiuto dell’esperto, tutte le questioni che riguardano la propria vita e quella dei propri figli – cosa che molto probabilmente prima del colloquio non conosceva chiaramente -, potrà scegliere con più serenità il percorso da seguire ritenuto più idoneo alla propria situazione, anche in virtù del fatto che in qualsiasi momento il cliente può decidere di terminare il percorso di mediazione, iniziando o facendo rivivere quello giudiziario.

            Se anche l’altro coniuge, dopo essere stato adeguatamente informato, accetta di esperire un percorso di mediazione familiare con l’avvocato mediatore che lo ha opportunamente portato a conoscenza della possibilità di potersi separare in maniera meno conflittuale, in un’ottica di salvaguardia degli interessi di tutti i membri della famiglia, in particolar modo quelli dei minori, nel rispetto dei propri bisogni come di quelli altrui, con particolare attenzione alla tutela delle relazioni tra genitori e figli che, evidentemente non termineranno mai e tra genitori stessi, l’avvocato mediatore assume le vesti del mediatore familiare a tutto tondo.

  • Ora il mediatore familiare, che è anche avvocato, una volta ricevuto l’incarico e porta avanti un percorso di mediazione, è soggetto al proprio codice deontologico nell’esercizio della sua professione; pertanto è soggetto al segreto professionale rispetto ai contenuti della negoziazione, nel senso che non può far uscire dalla stanza di mediazione notizie o fatti rispetto ai quali è venuto a conoscenza nello svolgimento del proprio incarico, salvo consenso scritto ricevuto da entrambi le parti;
  • non essendo la mediazione familiare una consulenza legale il mediatore, che è anche avvocato, dovrà astenersi dal fornire informazioni di tipo legale richieste anche da una sola delle parti; dovrebbe informare loro della possibilità di far partecipare un avvocato, o ancora meglio, i rispettivi avvocati, in una prossima seduta di mediazione, in modo da poter fornire le informazioni richieste al fine di superare la perplessità incontrata nella trattativa in assenza di tali ragguagli, oppure sollecitare le parti a consultarsi con il proprio avvocato di fiducia;
  • ha il dovere di informare le parti che, in osservanza del proprio codice deontologico, non può essere citato come testimone in un eventuale giudizio e che qualora ciò avvenisse può opporre il segreto professionale relativamente al contenuto degli incontri, fatti salvi i casi previste dalla legge;
  • deve astenersi dal seguire un percorso di mediazione in caso di conflitto di interesse anche solo potenziale a salvaguardia delle parti e nel rispetto del principio di imparzialità e neutralità (es. sia intervenuto a favore di una delle parti e/o sia venuto a conoscenza di determinati fatti che coinvolgano anche una sola delle parti);
  • il mediatore familiare che è anche avvocato, all’esito del percorso, non può rappresentare nessuna delle parti in giudizio; se il percorso ha avuto esito positivo, al contrario, deve invitare gli ex coniugi a rivolgersi ad un legale di fiducia affinché questi effettui un controllo di legittimità sugli accordi da loro sottoscritti prima di sottoporli all’attenzione del giudice per la loro omologazione.

L’attività della mediazione non nasce solo dall’iniziativa presa da alcuni professionisti, ma nasce dall’esigenza di dover dare delle risposte a sollecitazioni fortissime da parte dell’Europa.

            In Italia, nonostante la latitanza del legislatore nel legiferare in materia, già dalla fine degli anni ’80 professionisti che si occupano di relazioni di aiuto e che ruotano attorno alla famiglia in crisi e che hanno a cuore il benessere dei minori, hanno abbracciato e portato avanti, accogliendo le sollecitazioni da parte dell’Europa, nel rispetto dei principi e degli standard formativi e di aggiornamento professionale prescritti dall’organismo europeo più autorevole che si occupa di formazione e di ricerca in Mediazione Familiare quale il Forum Europeo per le Mediazioni Familiari e le Mediazioni, una mission di sensibilizzazione di pace e di educazione alla gestione dei conflitti familiari, nei confronti di una importante fetta di società che ha affrontato e affronta la delicata e difficile fase della separazione coniugale. Professionisti che, in un’ottica di diffusione della cultura della mediazione familiare, allo scopo di confrontarsi, formarsi e di crescere professionalmente, si sono associati dando vita alle realtà associative di cui oggi parliamo e che al fine di offrire un servizio di qualità, garantire l’etica, l’onestà, i requisiti professionali richiesti ai soci, allo scopo di promuovere la fiducia del pubblico nel processo di mediazione familiare e farne conoscere le modalità operative, si sono dotate di un proprio codice deontologico predittivo di standard di condotta professionale ai quali tutti gli associati devono uniformarsi.

            Parliamo di un numero elevato di mediatori familiari professionisti, che potrebbero soddisfare, per la loro capillare distribuzione, le esigenze di tutto il territorio nazionale. Professionisti che fanno mediazione familiare, che sicuramente raccolgono i propri successi professionali e che oggi li ringraziamo per aver voluto condividere questa giornata formativa.

            Purtroppo negli anni c’è stato anche un business rispetto alla formazione selvaggia, dove si è lucrato anche a discapito dell’utenza. Al fine di arginare questi fenomeni, l’INAMEF, con i rappresentanti delle Associazioni storiche di mediatori familiari Professionisti presenti in Italia, ha sollecitato un tavolo tecnico, per condividere la redazione di un disegno di legge finalizzato alla prescrizione dei criteri formativi ed al riconoscimento legislativo della figura professionale del mediatore familiare.

            Ora tutto questo siamo riusciti a farlo con le nostre forze. Siamo stati anche capaci ad autodisciplinarci, ad acquisire una formazione seria e qualificata, pur in assenza di una legge specifica nazionale che contemplasse tali percorsi e tale figura.

            Ora che si parla di mediazione familiare a questi livelli, ritengo che la soddisfazione di tutti noi è grande nell’essere consapevoli che anche in Italia, quando si parla di mediazione in ambito familiare si fa riferimento a professionisti qualificati, che hanno lavorato bene, che sono riusciti a delineare in maniera chiara il loro profilo oltre che l’ambito di intervento, professionisti che hanno dimostrato di saper rispettare il lavoro di altre figure professionali che ruotano attorno alla famiglia in crisi, in particolare quello dell’avvocato matrimonialista, consapevoli che solo lavorando in sintonia e nel rispetto dei propri ruoli e delle proprie competenze ci può essere sinergia, e che tale sinergia non può che portare beneficio ai professionisti ed all’utenza.

            Il nostro auspicio, e per il quale stiamo da tempo lavorando, è che il legislatore italiano comprendesse l’importanza di un riconoscimento legislativo di tale intervento finalizzato ad offrire una formazione professionale puntuale ed un servizio di qualità, non medicalizzato, non identificato con l’attività dei servizi sociali già oberati di lavoro, ma avente una distinta ed autonoma configurazione istituzionale, giuridica e normativa.

            avv. Antonio Bellisario Anzilotti, Formatore – Mediatore familiare 4 luglio 2014

            Segretario Nazionale dell’Istituto Nazionale di Mediazione Familiare e Penale INAMEF.

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MIGRAZIONI

            Gli italiani all’estero crescono più degli immigrati: è la prima volta in 20 anni.

Il centro studi Idos anticipa i dati del Dossier statistico immigrazione 2015, che sarà presentato in autunno. Nel 2014, i cittadini italiani residenti all’estero risultano 155 mila in più rispetto all’anno precedente, mentre i cittadini stranieri residenti in Italia sono cresciuti solo di 92 mila unità.

Gli italiani all’estero crescono più degli immigrati: è la prima volta in 20 anni, ovvero da quando negli anni ’90 l’immigrazione in Italia ha avuto una forte crescita. Lo rivela il Dossier statistico immigrazione 2015, la cui presentazione è prevista in autunno. I dati presi in considerazione nel nuovo rapporto a cura del centro studi Idos si riferiscono al 2014. “Un anno particolare – spiega il presidente di Idos Ugo Melchionda – che ha visto aumentare i cittadini italiani residenti all’estero (4.637.000, 155 mila in più rispetto all’anno precedente), rispetto a quello dei cittadini stranieri residenti in Italia (5.014.000), aumentati solo di 92 mila unità”. Invece, nei due anni precedenti lo stock degli stranieri residenti in Italia era aumentato di diverse centinaia di migliaia e quello degli italiani residenti all’estero di 155 mila unità nel 2013 e di 141 mila nel 2012. È aumentato anche il numero degli italiani che durante l’anno si sono cancellati dai loro comuni per andare a risiedere all’estero (89 mila nel 2014).

Questi cambiamenti, che non mancheranno di richiamare l’attenzione degli Stati Generali dell’Associazionismo italiano nel mondo, convocati a Roma per il 3 e il 4 luglio, hanno alla loro origine diversi fattori. Anche il 2014, come quello precedente, è stato un anno privo di quote di ingresso di lavoratori dall’estero, ad esclusione delle poche migliaia previste per il settore stagionale o per la conversione di permessi di soggiorno già in vigore in nuovi permessi per motivi di lavoro. Sono continuate, invece, le domande di visti per ricongiungimento familiare (60 mila), seppure in diminuzione rispetto al passato (76 mila nel 2013). Bisogna tenere conto anche dell’elevato numero di stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana: da 60 mila casi nel 2012 si è passati a 100 mila nel 2013 e a 130 mila nel 2014, a quanto pare in circa 4 casi su 10 riguardanti minori che hanno ricevuto la cittadinanza per trasmissione automatica dai genitori stranieri divenuti italiani e a diciottenni nati in Italia che hanno richiesto la cittadinanza.

La popolazione complessivamente residente in Italia alla fine del 2014 (60.796.000) è caratterizzata da un’età media diventata più elevata (44,4 anni) e dall’aumentata incidenza degli ultrasessantacinquenni (21,7%), superiore anche a quella che si riscontra tra gli italiani all’estero (19,9%). Inoltre, il consistente saldo negativo tra nuovi nati e morti (rispettivamente 503.000 e 598.000) trova un equivalente solo in quello degli anni 1917-1918, allora effetto della prima guerra mondiale. Gli immigrati costituiscono un parziale temperamento a questo processo di invecchiamento perché sono mediamente più giovani degli italiani, incidono per circa un sesto sulle nuove nascite (75 mila nuovi nati da entrambi i genitori stranieri nel 2014).

            Un altro notevole cambiamento è riferibile all’impennata del numero di profughi (170 mila), arrivati via mare dall’Africa e dall’Asia, seppure in buona parte interessati a raggiungere altri paesi esteri. In pratica, questi arrivi stanno sostituendo la politica delle quote in ingresso per motivi di lavoro. Si è di fronte a un vero e proprio fenomeno epocale, da riferire agli sconvolgimenti in atto nei paesi di origine e alla loro transizione demografica (in Africa, nel 2050, è previsto il raddoppio della popolazione fino a 2,4 miliardi di persone). Tale fenomeno, da un lato investe le responsabilità degli organi decisionali dell’Ue e dei singoli Stati membri, e dall’altro rischia di far trascurare le prospettive di integrazione dei 5 milioni di immigrati già residenti in Italia e di favorire derive xenofobe.

            Questi sono alcuni dei temi che verranno ampiamente sviluppati nel Dossier statistico immigrazione 2015. Permane la collaborazione con l’Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali presso il dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei Ministri e viene attivata quella con i redattori della rivista interreligiosa “Confronti”. Il Fondo Otto per Mille della Chiesa Valdese (Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste) contribuisce al finanziamento del Dossier.

            Franco Pittau, che nel 1991 fu l’ideatore del Rapporto, continuerà per il 25° anno a fornire il suo contributo, occupandosi della parte dedicata alle singole regioni. Coordinatori del rapporto saranno Ugo Melchionda, nuovo presidente di Idos, e Claudio Paravati, direttore della Rivista Confronti, mentre il direttore generale dell’Unar, consigliere Marco De Giorgi, oltre a mettere a disposizione diversi esperti per trattare i temi riguardanti le discriminazioni, con la propria rete sarà di supporto alla presentazione del Dossier, in contemporanea in tutte le Regioni all’uscita dell’annuario e, quindi, in occasione degli eventi successivi: nel 2014 ne sono stati realizzati più di 170 con il concorso degli enti locali e dell’associazionismo di ispirazione laica e religiosa.

redattore sociale                    1 luglio 2015

www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/486846/Gli-italiani-all-estero-crescono-piu-degli-immigrati-e-la-prima-volta-in-20-anni

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NULLITÀ

No nullità del matrimonio con 3 anni di convivenza

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza, n. 13515, 1 luglio 2015.

Non ha effetto, per la legge dello Stato italiano, la sentenza del tribunale ecclesiastico che annulla il matrimonio se la coppia ha richiesto detto annullamento dopo tre anni di convivenza stabile e riconoscibile all’esterno.

Lo ha ricordato una sentenza della Cassazione che, a sua volta, ha richiamato l’importante principio espresso dalle Sezioni Unite l’anno scorso [sent. n. 16379/2014].

L’annullamento del matrimonio trova un limite, infatti, nell’ordine pubblico derivante dalla necessità di tutelare il matrimonio. E dunque, la coppia non può “svegliarsi” dopo svariati anni e accorgersi, d’un tratto, che vi è stato – per esempio – un vizio della volontà, o che il rapporto non è stato consumato. Insomma, va bene l’annullamento, ma non deve essere una scusa.

 

Il matrimonio non può più essere annullato – ricorda la sentenza – tutte le volte in cui la coppia abbia avuto una stabile e palese convivenza coniugale; in altre parole, la convivenza deve essere stata:

      • di durata non inferiore a tre anni.
      • e comunque riconoscibile all’esterno con comportamenti non equivoci

            In presenza di tali due presupposti, resta sposata per la legge italiana la coppia che ha ottenuto l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota, ma la relativa sentenza non è stata poi delibata dal tribunale del nostro Stato.

            Redazione La legge per tutti             2 luglio 2015

sentenza     www.laleggepertutti.it/92739_no-nullita-del-matrimonio-con-3-anni-di-convivenza

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OMOFILIA

Annullamento della trascrizione di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso.

TAR Friuli Venezia Giulia, prima sezione, sentenza n. 00228, 21 maggio 2015

Nel caso di specie il sindaco di Udine aveva iscritto nel registro dei matrimoni presso l’ufficio di stato civile il matrimonio contratto all’estero dalla ricorrente con una persona del medesimo sesso. Con nota del 7.10.2014, il Ministro dell’Interno, ritenendo che tali trascrizioni non siano consentite dal D.P.R. 396 del 2000, ha disposto che i prefetti invitassero i sindaci ad annullare tali trascrizioni. Con una nota del 9.10.2014 il prefetto ha invitato il sindaco a procedere a tale cancellazione; il sindaco ha risposto sostenendo l’impossibilità di procedere all’annullamento di una trascrizione in assenza di una pronuncia giurisdizionale.

Infine, con il decreto (impugnato avanti al TAR) datato 27.10.2014, il prefetto ha ordinato l’annullamento d’ufficio della trascrizione del matrimonio e, successivamente, ha nominato un delegato che ha provveduto ad annullare detta trascrizione apponendo nel registro apposita annotazione.

Riassumendo i passaggi giuridici salienti della presente controversia, il collegio ha confermato, innanzitutto, la competenza del giudice amministrativo posto che in discussione è direttamente la legittimità di un atto amministrativo prefettizio che ha rimosso una trascrizione di un matrimonio contratto all’estero; solo indirettamente viene in esame la legittimità di tale trascrizione, conosciuta dal tribunale solo in via incidentale.

La trascrizione di un matrimonio contratto all’estero tra due persone dello stesso sesso non è consentita allo stato dalla legislazione italiana, come indicato chiaramente dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 138/2010; la trascrizione effettuata dal Sindaco di Udine quale ufficiale di governo risulta quindi illegittima e contra legem. La doverosa rimozione di tale illegittima trascrizione non può avvenire con l’intervento del Prefetto, che non ha alcun potere a riguardo, ma solamente ad opera dell’autorità giudiziaria ordinaria ex art. 95 d.p.r. 396/2000, in sede di volontaria giurisdizione, con l’intervento del P.M., cui spetta la tutela dell’interesse pubblico al rispetto della legalità in materia di stato civile.

 Spetta, invece, al Ministro dell’Interno ed al Prefetto il potere – dovere di sollecitare l’intervento della competente Procura della Repubblica. Il provvedimento prefettizio è stato, dunque, annullato.

AIAF – Newsletter     2 luglio 2015              www.aiaf-avvocati.it/archivio-newsletter

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PARLAMENTO

Senato 2° comm. Giustizia.  Disciplina delle unioni civili

S 14     Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili

30 giugno 2015  Prosegue l’esame congiunto sospeso nella seduta del 23 giugno.

            Riformulati e valutati emendamenti. Il seguito dell’esame congiunto è infine rinviato.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=926600

1 luglio 2015 Riformulati e valutati emendamenti e allegati.

Il seguito dell’esame congiunto è, infine, rinviato.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=929482

                                              

Divorzio diretto

S. 1504 bis e S.1857 Modifiche alla legge 1° dicembre 1970, n. 898, in materia di legittimazione alla richiesta di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio

www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1970-12-01;898

1. Dopo l’articolo 3 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è inserito il seguente: «Art. 3-bis. – 1. Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può altresì essere richiesto da entrambi i coniugi, con ricorso congiunto presentato esclusivamente all’autorità giudiziaria competente, anche in assenza di separazione legale, quando non vi siano figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero figli di età inferiore ai ventisei anni economicamente non autosufficienti»

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/912653/index.html

1 luglio 2015- Esame congiunto e rinvio

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=929482

                                              

Affidamento condiviso

S. 409, S 1163, S. 1187, S.1441, S.1756 Nuove norme sull’affidamento condiviso dei figli minori di genitori separati 

1 luglio 2015- Esame congiunto e rinvio

Riferisce sui disegni di legge in titolo la senatrice Filippin(PD), la quale sottolinea come tutte le proposte legislative in esame muovano da una valutazione condivisa circa la necessità di un intervento normativo che tenga conto di come l’esperienza applicativa della legge n. 54 del 2006 – che ha introdotto l’affidamento congiunto – sia stata sostanzialmente deludente rispetto alla finalità perseguite dalla legge medesima, finalità rappresentata da una concreta attuazione del principio della cosiddetta bigenitorialità. Le problematiche emerse nell’applicazione delle innovazioni introdotte dalla citata legge n. 54 del 2006 sono, pur con diversità di accenti, ricondotte dalle proposte in esame sia ad un non condivisibile uso della discrezionalità degli organi giudicanti in questo specifico ambito, sia a resistenze da parte degli stessi genitori nella concreta applicazione dell’istituto dell’affidamento congiunto. Da questo punto di vista le proposte si muovono nella prospettiva di modificare il quadro normativo vigente con soluzioni che vorrebbero indirizzare in modo più incisivo la discrezionalità degli organi giudicanti e la stessa possibilità di scelta dei genitori, con soluzioni che prevederebbero, in linea di massima, una più rigida ripartizione dei tempi di affidamento tra genitori e anche una più attenta e dettagliata ripartizione degli oneri economici.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=929482

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SEPARAZIONE

Separazione e liti tra coniugi: psicologo non obbligatorio

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza, n. 13506, 1 luglio 2015.

Separazione conflittuale. A pagare le spese il figlio minore. I Giudici stabiliscono un percorso psicoterapeutico individuale per i due genitori. La Cassazione annulla. E’ lesione del diritto alla libertà personale.

Il tribunale non può imporre, alla coppia di genitori immaturi che litigano sempre, dei percorsi terapeutici individuali e di coppia: si tratterebbe di un ordine contrario alla libertà personale tutelata dalla Costituzione. Pertanto gli itinerari da seguire per trovare una gestione pacifica, serena e distesa della prole non possono che essere volontari.

Lo ha detto la Cassazione. Il giudice – si chiarisce nel provvedimento in questione – non può ordinare a mamma e papà che litigano di andare dallo psicologo per imparare a gestire insieme i figli.

Non possiamo comunque nascondere quanto il percorso di sostegno alla genitorialità possa, in determinate situazioni, aiutare i genitori nella complicata gestione dei figli: è nell’interesse soprattutto di questi ultimi e della loro fragile psiche che, altrimenti, in un ambiente conflittuale, verrebbe segnata a vita. Tuttavia, la maturazione personale dei genitori – osserva la Suprema Corte – non può che restare affidata al diritto di autodeterminazione della coppia.

            Redazione La legge per tutti             1 luglio 2015

sentenza     www.laleggepertutti.it/92622_separazione-e-liti-tra-coniugi-psicologo-non-obbligatorio

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SINODO SULLA FAMIGLIA

Kasper: “Comunione ai divorziati risposati dopo un percorso di penitenza”.

Il teologo, vicino al Papa, chiede di andare incontro alle famiglie “ferite” all’insegna della misericordia. Lo fa con un articolo su una rivista dei gesuiti tedeschi che segna una tappa importante in vista del Sinodo, in programma tra mesi di tre mesi.

Ammettere i divorziati risposati al sacramento della comunione ed andare incontro alle famiglie “ferite” o ad altre forme di unione con Misericordia, tenerezza, ascolto, apertura.  A poco più di tre mesi dal Sinodo ordinario sulla Famiglia che si aprirà in Vaticano il prossimo ottobre, il cardinale Walter Kasper – tra i più ascoltati consiglieri di papa Francesco in materia di pastorale familiare – torna a proporre l’accesso dei divorziati risposati all’eucaristia dopo “un percorso penitenziale” fatto di preghiera, meditazione, confronto spirituale col proprio confessore, voglia di riprendere il cammino interrotto nella fede cristiana a causa del fallimento della precedente unione familiare. Lo fa in un convegno e in un lungo articolo pubblicato sulla rivista dei gesuiti tedeschi “Stimmen der Zeit” e che appare in esclusiva nella sua traduzione italiana sul sito del Cenacolo Amici di Papa Francesco “eancheilpaparema”, diretto dal giornalista vaticanista Raffaele Luise.

www.eancheilpaparema.it/2015/06/cardinale-w-kasper-ammissione-dei-divorziati-risposati-ai-sacramenti

            Nei due interventi il porporato torna a ribadire quanto già sostenuto nel precedente Sinodo straordinario sulla famiglia dello scorso anno, che per la prima volta affrontò tematiche fino ad allora ritenute tabù dalle istituzioni ecclesiastiche come l’ammissione dei divorziati risposati all’eucarestia e l’apertura della Chiesa a coppie di fatto, unioni gay e convivenze. Posizioni sostanzialmente contenute nel documento preparatorio del prossimo Sinodo (Instrumentum laboris) approvato dal pontefice la scorsa settimana e sul quale i padri sinodali dovranno pronunciarsi varando un testo su cui si pronuncerà definitivamente papa Francesco.

Kasper, incurante delle critiche che già sono stata fatte da vescovi e cardinali contrari alle previste aperture contenute nell‘Instrumentum Laboris, nell’articolo scritto per la rivista dei gesuiti tedeschi spezza ancora una volta la classica spada a favore dell’accoglienza per divorziati risposati e per quelle che lui – in sintonia con papa Francesco – definisce “famiglie ferite bisognose di aiuto”. “La comunione sacramentale, cui l’assoluzione apre di nuovo la strada – sostiene, tra l’altro, su Stimmen der Zeit, deve dare alla persona che si trova in una difficile situazione la forza per perseverare sul nuovo cammino. Proprio i cristiani in situazioni difficili hanno bisogno di questa sorgente di forza che è per loro il pane di vita”. Un articolo indubbiamente coraggioso – che può essere letto con il suo ricco apparato di note sul sito del Cenacolo di amici di papa Francesco “eancheilpaparema“, nel quale il cardinale Kasper che, in vista del sinodo del prossimo ottobre, ribadisce che “la via della misericordia ispira e non cancella la dottrina tradizionale della chiesa anche in tema di famiglia e di matrimonio”. In sostanza, è la tesi del porporato, i sacramenti sono “doni” che Dio, tramite Gesù, fa “ai suoi figli” specialmente a quelli che “vivono in situazioni di difficoltà e disagio a causa di fallimenti, dolorose rotture, cadute”. E che sono costretti a vivere – ricorda Kasper – anche la tragedia dell’ostracismo dai sacramenti. Problematiche che tante volte, avverte ancora il porporato, “toccano anche i figli” che più delle volte sono costretti a vivere ai margini della Chiesa o lontano dalla fede perché hanno genitori divorziati che non “possono” educarli all’accesso ai sacramenti perché “loro stessi costretti a vivere” al di fuori della comunità ecclesiale.

“E’ il Papa che vuole una Chiesa più aperta, accogliente e misericordiosa” nei confronti di chi soffre a causa di un matrimonio fallito o di unioni non in linea con i canoni tradizionali, ha spiegato lo stesso cardinale Kasper domenica scorsa in una tavola rotonda presso la Fraternità della Madonna della Rocca di Fondi (Latina), mostrandosi per niente preoccupato dalle critiche già sollevate da alcuni cardinali proprio in materia di comunione ai divorziati risposati. Come, ad esempio, gli appunti mossi dal cardinale Velasio De Paolis (firmatario di un libro fortemente contrario al rinnovamento pastorale sulla famiglia insieme ai cardinali Burke, Muller, Bredmuller e Caffarra) che in vista del Sinodo di ottobre ha avvertito che “chi sbaglia e vive nell’errore va corretto, non può essere assecondato” e che la “Chiesa ospedale da campo invocata da papa Francesco deve aiutare a guarire”. Quasi un avvertimento per i fautori di una Chiesa più aperta e misericordiosa, che però non preoccupa più di tanto il cardinale Kasper: “Al Sinodo si parlerà liberamente e tutti avranno la possibilità di esprimere le proprie idee. Ma i primi che hanno bisogno dei sacramenti sono quelli che vivono nelle tragedie, nelle rotture e che chiedono disperatamente di essere aiutati a riprendersi e a camminare nella fede. La Chiesa madre non può far finta di non sentire o di continuare a voltarsi dall’altra parte”.

www.repubblica.it/esteri/2015/06/30/news/kasper_-118026979/?ref=HREC1-35

 

Ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti?

Cardinale Walter Kasper

1. Un problema spinoso e complesso. La questione dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti non è un problema nuovo e non è un problema tedesco. La discussione attorno a tale questione si sviluppa da anni a livello internazionale. Papa Giovanni Paolo II si è pronunciato in proposito nell’esortazione apostolica Familiaris Consortio (FC) (1982) (n. 84) a favore della prassi ecclesiale vigente. Nell’esortazione Reconciliatio et paenitentia (1984) (n. 34) ha ribadito espressamente questa posizione. Essa è entrata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1993) (n. 1650) e nella Lettera della Congregazione per la dottrina della fede del 1994. Papa Benedetto l’ha confermata nella sua esortazione apostolica Sacramentum caritatis (SC) del 2007 (n. 29).

Papa Giovanni Paolo II ha parlato di una questione difficile e quasi insolubile, papa Benedetto di un problema difficile e spinoso. Non è quindi sorprendente che la discussione sulla questione da allora non si sia placata. Essa non riguarda solo i cristiani che ne sono toccati immediatamente, ma anche molti cristiani praticanti e impegnati che sono sposati da cinquant’anni o più, non hanno mai pensato al divorzio, ma sperimentano ora dolorosamente il problema nei loro figli e nipoti. I loro figli, a loro volta, nella maggior parte dei casi solo con difficoltà riescono a trovare la via che li conduce ai sacramenti, se i loro genitori non possono dare loro l’esempio. Non c’è quasi nessuna famiglia che non sia toccata da questi problemi. È dunque comprensibile che il problema sia avvertito come scottante da molti pastori e confessori, teologi e vescovi.

Come ci si poteva attendere, la questione si è accesa di nuovo ed è stata oggetto di controversie alla vigilia e nel corso del Sinodo straordinario dei Vescovi del 2014. Il Sinodo ordinario del 2015 deve portare a termine la discussione delle questioni e presentarle al papa perché prenda una decisione. Nelle considerazioni seguenti cerco soltanto di chiarire e di approfondire la problematica, per quanto mi è possibile.

2. La parola di Gesù – vincolante e sfida sempre nuova. Fondamentale è la parola di Gesù che l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto. Questa parola si trova in tutti e tre i vangeli sinottici (Mt 5,32; 19, 9; Mc 10,9; Lc 16,18) ed è testimoniata anche dall’apostolo Paolo (1Cor 7,10s). Non può esservi dubbio ragionevole che questa parola nella sua sostanza risale a Gesù. Nella sua inaudita radicalità questa parola non fa difficoltà solo oggi. Già i primi discepoli sono stati scioccati e per il mondo ellenistico-romano di allora era assolutamente una provocazione. Allora come oggi non possiamo indebolire la parola di Gesù attraverso l’adattamento alla situazione.

                  Con questa parola, che si rifà a Deut 24,1, Gesù ha respinto la casistica giudaica e in tal modo ha rigettato anche qualsiasi altra spiegazione casuistica o eccezione alla volontà originaria di Dio. La parola di Gesù non è quindi una norma giuridica, ma un principio fondamentale che la chiesa, con la potestà che le è affidata di legare e sciogliere (Mt 16,19; 18,18; Gv 20,23), deve far valere nelle situazioni culturali che cambiano.

                  La parola di Gesù non deve perciò essere spiegata in modo fondamentalistico. Bisogna cogliere tanto il limite quanto l’ampiezza della parola di Gesù, comprenderla nell’insieme del messaggio di Gesù e rimanere fedeli alla parola di Gesù senza dilatarla oltre misura. Questa spiegazione autorevole la troviamo già in epoca neotestamentaria: nelle ben note clausole sull’adulterio per la comunità giudaica di Matteo (5, 32; 19,9), e poi di nuovo in Paolo che in un contesto etnico-cristiano, decide con autorità apostolica per la libertà cristiana che deve valere nel matrimonio con un non credente, il quale non voglia vivere in maniera conveniente con il coniuge cristiano (1Cor 7,12-16). Su questa base si sono sviluppati più tardi il privilegium paulinum e il privilegium petrinum, così come la possibilità di sciogliere, in virtù della potestà di legare e sciogliere, un matrimonio sacramentale concluso validamente, ma non consumato.

                  In questo contesto si può comprendere la prassi pastorale flessibile di alcune chiese locali nella chiesa delle origini. L’interpretazione dei testi relativi è controversa tra gli specialisti. Su nessuna di queste ipotesi è possibile costruire una soluzione ecclesiale oggi. È tuttavia interessante il fatto che ai Padri di Trento il problema fosse noto. Essi hanno perciò insegnato contro Lutero che la chiesa non sbaglia quando non riconosce un secondo matrimonio (DS 1807), ma intenzionalmente non hanno condannato la diversa prassi ortodossa. In tal modo essi hanno insegnato l’indissolubilità del matrimonio concluso validamente (DS 1797s.; cfr. 794; 3710s), ma non l’hanno definita formalmente. Essa è però dottrina di fede vincolante, che stimola la riflessione ed è sempre una nuova sfida.

3. Il matrimonio – un segno frammentario dell’alleanza. Il Vaticano II ha raccolto la sfida. Ha superato la comprensione del matrimonio come contratto, sviluppata in linea con il diritto romano e ha compreso il matrimonio in modo analogo a quanto già aveva fatto Tommaso d’Aquino con la teologia biblica dell’alleanza come intima comunione di vita e di amore, in cui i coniugi si donano e si ricevono reciprocamente (GS 47). Con questa complessiva comprensione personale il matrimonio, richiamandosi a Ef 5,25, viene interpretato come immagine sacramentale della relazione d’alleanza tra Cristo e la chiesa. Di conseguenza la relazione tra l’uomo e la donna deve seguire il modello della relazione tra Cristo e la chiesa. Questa dottrina del matrimonio fondata nell’idea biblica di alleanza è diventata il criterio per l’insegnamento ecclesiale e la teologia recente. Da essa risulta una giustificazione più profonda dell’indissolubilità del matrimonio. Come il patto stabilito da Dio in Gesù Cristo con la chiesa è definitivo e irrevocabile, così è anche il patto coniugale in quanto simbolo reale di questa alleanza.

                  È una concezione grandiosa e convincente. Non deve tuttavia portare a un’idealizzazione estranea alla vita. Nella lettera agli Efesini si dice che Cristo ha amato la chiesa, si è donato per lei e l’ha resa pura e santa nell’acqua e mediante la parola, così che essa gli stia di fronte gloriosa, senza macchia né ruga, santa e immacolata (5,24-27). Questa non è la descrizione di una situazione ma espressione di una promessa escatologica, verso la quale la chiesa è sempre in cammino. Nel suo pellegrinaggio terreno, infatti, la chiesa può realizzare ciò che essa è, cioè la chiesa santa, solo in modo frammentario. Come chiesa santa è anche la chiesa dei peccatori, che talvolta si presenta come prostituta infedele e che sempre deve percorrere la via della conversione, del rinnovamento e della riforma (LG 8; UR 4).

                  Questo vale anche per il matrimonio cristiano. Esso è un grande mistero (mysterion) in relazione a Cristo e alla chiesa (Ef 5,32). Ma non può mai realizzare nella vita questo mistero in modo pieno, ma sempre solo in forma frammentaria. In questo senso è sotto molti aspetti un segno frammentario dell’alleanza. I coniugi rimangono in cammino e sono sotto la legge della gradualità (FC 9; 34). Hanno sempre bisogno della conversione e della riconciliazione e sono sempre di nuovo rinviati al Dio ricco di misericordia (Ef 2,4) (FC 38).

                  Il dramma può giungere fino al punto che anche i cristiani possono fallire nel loro matrimonio. Questo fallimento è sempre una catastrofe umana, in cui un progetto di vita con tutte le sue speranze va incontro alla delusione e si infrange. Un tale fallimento fa parte anche della teologia biblica dell’alleanza. Nel modo più drammatico questo si vede nel profeta Osea. In primo luogo egli constata: Israele è diventato una prostituta; Dio ha definitivamente rotto il patto (Os 1,9; 2,4-15). Ma la giusta ira di Dio lascia il posto alla misericordia. Egli lascia al suo popolo un nuovo inizio (Os 11,8s; cfr. 2,16-25). Di fronte al messaggio di Gesù il popolo si rifiuta di nuovo nella sua totalità. La critica di Gesù a questa durezza di cuore è chiara. Ma in seguito Gesù fonda, come nostro rappresentante, con la sua croce e la sua risurrezione la nuova alleanza. Egli dona il cuore nuovo promesso dai profeti (Ez 36,6s.; cfr. Ger 31,33; Sal 51,12). La durezza di cuore perdura tuttavia nella peccaminosità dei cristiani. Ma Dio rimane fedele, anche quando noi siamo infedeli. La sua misericordia è senza limiti.

                  Una teologia realistica del matrimonio deve considerare questo fallimento così come la possibilità del perdono. Anche nel fallimento umano perdura la promessa della fedeltà e della misericordia di Dio. In questo senso la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio diviene di nuovo attuale. Essa non è un semplice ideale. Il sì di Dio perdura anche quando il sì umano si indebolisce o addirittura si infrange. Esso appartiene in modo permanente alla storia della libertà dei coniugi. Il patto coniugale stabilito da Dio stesso non si infrange, anche se l’amore umano si indebolisce o si spegne del tutto. E tuttavia, anche in situazioni di fallimento umano nel matrimonio, la situazione non è mai senza prospettiva e senza speranza. Anche in situazioni nelle quali noi non vediamo alcuna via d’uscita, Dio può aprire una via nuova. La misericordia di Dio è affidabile, se solo noi ci affidiamo ad essa.

                  Una tale teologia realistica dell’alleanza, che per così dire resiste alla crisi, pone la chiesa di fronte alla questione: come può essa che si comprende come sacramento della misericordia di Dio, accompagnare su un nuovo cammino e dare nuova speranza a persone che nel loro matrimonio hanno dolorosamente fallito.

4. La comunione spirituale – una via d’uscita? Riguardo alla situazione di un matrimonio fallito, anche di divorziati risposati, la chiesa non si trova davanti a un nulla pastorale. I documenti ecclesiali recenti chiedono con forza di accostarsi alle persone che si trovano in tali situazioni dolorose e di invitarle alla partecipazione alla vita della chiesa (FC 83s; SC 29). Spesso si cerca di aprire loro un cammino con Cristo, anzi in Cristo, attraverso l’idea di comunione spirituale. Con il concetto della comunione spirituale si recupera un concetto tradizionale che è purtroppo caduto in oblio. Nei documenti del Vaticano II e nel Catechismo della Chiesa Cattolica purtroppo non viene menzionato; solo nei documenti magisteriali più recenti viene ripreso di nuovo e spesso inteso come una via d’uscita che permette di compiere un passo in avanti nella spinosa questione dei divorziati risposati.

                  La tradizione della comunione spirituale è fondata già nel grande discorso sul pane di vita del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni e poi nella sua interpretazione da parte di Agostino. Qui è il pane della vita che è Gesù Cristo, del quale diventiamo partecipi nella fede. Nel medioevo la dottrina della comunione spirituale si trova soprattutto in Tommaso d’Aquino. Il Concilio di Trento l’ha ripresa nell’insegnamento magisteriale (DS 1648; 1747). Ne risulta un triplice significato: il desiderio della comunione sacramentale (comunione in voto o cum desiderio), la recezione spirituale della comunione sacramentale (manducatio spiritualis) a differenza della recezione indegna o solo esteriore (manducatio mere sacramentalis) e infine il rendere fruttuosa la comunione sacramentale facendola propria mediante atti di pietà personale e in particolare nell’adorazione eucaristica.

                  Compresa correttamente la comunione spirituale non è una forma alternativa rispetto alla comunione sacramentale, ma è essenzialmente riferita alla comunione sacramentale. L’applicazione alla situazione dei divorziati risposati appare perciò problematica. Si raccomanda in questo modo una via alternativa alla comunione sacramentale? Affatto. Ciò, infatti, sarebbe in contraddizione con l’autocomprensione sacramentale della chiesa cattolica come sacramento visibile, cioè come segno e strumento della grazia. A ciò si aggiunge che chi riceve la comunione spirituale e nella fede è unito a Cristo non può trovarsi al tempo stesso nello stato di peccato grave. Perché allora non può partecipare anche alla comunione sacramentale? L’applicazione della comunione spirituale al problema dei divorziati risposati, se si presuppone la comprensione tradizionale, porta in un vicolo cieco.

                  Questa via è invece possibile se tacitamente si suppone un altro significato della comunione spirituale. In questo nuovo significato la comunione spirituale non designa il desiderio della comunione sacramentale che nasce dall’essere uniti a Cristo nella fede, ma un desiderio nel quale il cristiano che vive in una situazione irregolare prende coscienza della sua separazione da Cristo e diviene consapevole che il suo desiderio, finché non modifica in modo fondamentale la sua situazione, non può essere soddisfatto. Così compresa la comunione spirituale può diventare un salutare impulso alla metanoia. Una tale nuova comprensione è dunque oggettivamente possibile. Porta tuttavia inevitabilmente con sé equivoci terminologici. La tradizione della chiesa ci può raccomandare una via non esposta al rischio di equivoci.

5. Per un rinnovamento della via paenitentialis. La chiesa antica ha sperimentato dolorosamente assai presto, già nel tempo della persecuzione, che i cristiani possono fallire. Nel tempo della persecuzione molti cristiani si sono dimostrati deboli e hanno rinnegato il loro battesimo. Ciò ha portato, dopo il tempo della persecuzione, a una vivace discussione circa il modo in cui la chiesa doveva comportarsi di fronte a tale situazione. Padri della chiesa in Oriente e Occidente hanno difeso contro il rigorismo di Novaziano, che proponeva l’ideale della chiesa come vergine pura, l’immagine della chiesa come madre misericordiosa, le cui porte sono sempre aperte al peccatore disposto alla conversione. Essi hanno sviluppato la penitenza canonica, compresa come secondo battesimo non nell’acqua ma nelle lacrime del pentimento e della penitenza. In questo modo la chiesa ha preso sul serio la sua autorità di rimettere i peccati e il suo ministero della riconciliazione (2Cor 5,20). Mediante il sacramento della riconciliazione essa ha concesso dopo il naufragio del peccato non un secondo battesimo, ma per così dire una tavola di salvezza, che salva dall’annegamento e rende possibile la sopravvivenza.

            Alcuni padri hanno applicato un procedimento simile anche a cristiani che avevano rotto il loro legame matrimoniale, vivevano in una seconda unione e mediante la via della penitenza erano riconciliati e ammessi alla comunione. La chiesa orientale ha proseguito su questa via. Nel quadro di una liturgia penitenziale essa ha permesso un secondo e anche un terzo matrimonio che – benché il segno della “incoronazione” sia il medesimo – comprende non come sacramento, ma come benedizione. Inoltre essa ha recepito dal diritto imperiale bizantino ulteriori motivi per il divorzio, che vanno al di là delle clausole sulla fornicazione in Matteo. Determinante per questa prassi è il principio dell’oikonomia [disegno]. che si ispira al modo misericordioso di agire di Dio nella storia della salvezza. La chiesa occidentale non ha fatto propria questa prassi, ma ha sviluppato un proprio diritto matrimoniale indipendente dal diritto imperiale bizantino.

Si discute spesso se la chiesa occidentale debba far propria la prassi ortodossa. Certamente essa può imparare dalla comprensione ortodossa dell’oikonomia. E tuttavia un ulteriore sviluppo del suo diritto matrimoniale dovrà avvenire nella linea della propria tradizione giuridica che non conosce una forma liturgica per il secondo matrimonio. L’oikonomia orientale corrisponde invece sotto molti punti di vista nella tradizione occidentale al principio dell’epikeia.[eccezione] Nel significato che le attribuisce Tommaso d’Aquino non è un diritto di eccezione, né una cessazione della vigenza del diritto, ma è la giustizia più alta, che in situazioni complesse, nelle quali un’interpretazione letterale del diritto sarebbe iniqua, fa valere il diritto in modo misericordioso “giustamente ed equamente”.

L’equità è stata compresa nella canonistica medievale come iustitia dulcore misericordiae temperata, cioè, traducendo liberamente: giustizia che con la dolcezza della misericordia trova concreta applicazione con oculatezza. In questo senso, in situazioni umanamente difficili, la chiesa potrebbe fare uso misericordiosamente della potestà di legare e sciogliere. Si tratta in questo caso non di eccezioni al diritto, ma di un’equa e misericordiosa applicazione del diritto.

Non si intende una pseudomisericordia a buon mercato. Vale, infatti, secondo quanto si legge in 1Cor 11, 28, il seguente principio: chi ostinatamente, cioè senza volontà di conversione, persevera nel peccato grave non può ricevere l’assoluzione ed essere ammesso alla comunione (CIC can 915). Questo principio è in sé evidente e indiscutibile. La questione concreta di chi si trovi effettivamente in modo ostinato in una tale situazione di perdizione non è però ancora decisa. Per dare risposta a tale questione bisogna distinguere bene le diverse situazioni ed esaminare ogni singola situazione con comprensione, discrezione e tatto (FC 4; 84). Non si può parlare di un’oggettiva situazione di peccato senza considerare anche la situazione del peccatore nella sua singolare dignità personale. Per questa ragione non può esserci alcuna soluzione generale del problema, ma solo soluzioni singolari.

Ciò risulta dal concetto di peccato grave. Il peccato grave non è costituito solo dalla materia gravis, l’azione contraria al comandamento di Dio in una cosa importante; di esso fa parte anche il giudizio della coscienza personale, l’assenso della volontà, nella quale per Tommaso l’intenzione della volontà è assolutamente decisiva; infine è decisiva la considerazione delle concrete circostanze. Su tutto ciò non si può decidere in termini generali. Perciò la sapienza della chiesa conosce accanto al foro giuridico esterno il foro interno del sacramento della penitenza.

Ci troviamo dunque di fronte alla via paenitentialis. Non si tratta di una nuova invenzione, ma si colloca, come di recente è stato dimostrato, del tutto in linea con la comprensione del matrimonio di Tommaso d’Aquino e della tradizione che a lui si richiama, in particolare del Concilio di Trento. Con la via paenitentialis non si intende l’imposizione di pesanti pene, ma del processo, doloroso e tuttavia salutare, della chiarificazione e del nuovo orientamento dopo la catastrofe della separazione, che è accompagnata da un esperto confessore mediante un colloquio che ascolta pazientemente e aiuta a fare chiarezza. Questo processo deve condurre l’interessato a un giudizio onesto sulla propria situazione, in cui anche il confessore matura un giudizio spirituale, per poter far uso della potestà di legare e di sciogliere in modo adeguato alla situazione. Come in altre questioni di grande importanza ciò accade, secondo l’antica prassi della chiesa, sotto l’autorità del vescovo (cfr. Instrumentum laboris, n. 123).

Rimane per me incomprensibile come si sia potuto obiettare a questa proposta che essa significa un perdono senza conversione. Ciò sarebbe effettivamente insensato dal punto di vista teologico. Ovviamente il sacramento della penitenza implica da parte del penitente il pentimento e la volontà di vivere nella nuova situazione con tutte le sue forze secondo il Vangelo. Nell’assoluzione non è giustificato il peccato, ma il peccatore che vuole convertirsi. La comunione sacramentale, cui l’assoluzione apre di nuovo la strada, deve dare alla persona che si trova in una difficile situazione la forza per perseverare sul nuovo cammino. Proprio i cristiani in situazioni difficili hanno bisogno di questa sorgente di forza che è per loro il pane della vita.

Un tale rinnovamento della prassi penitenziale della chiesa, al di là dell’ambito dei divorziati risposati, potrebbe avere l’effetto di un segnale per il necessario rinnovamento della prassi penitenziale che nella chiesa di oggi è a terra in modo deplorevole. Sarebbe profondamente farisaico ritenere che questo riguardi solo i cristiani divorziati e risposati. In occasione del ricordo dell’affissione delle tesi di Lutero, che cinquecento anni fa ha rappresentato l’inizio della Riforma, i cristiani cattolici ed evangelici hanno tutte le ragioni per lasciarsi dire dalla prima tesi di Lutero che tutta la vita di un cristiano deve essere una penitenza.

6. Ermeneutica della continuità ed eterna novità del Vangelo. In conclusione la questione: questo sviluppo della prassi penitenziale della chiesa sarebbe da comprendere come una rottura con la dottrina e la prassi della chiesa oppure non piuttosto nel senso dell’ermeneutica della continuità? Un’ermeneutica della continuità rettamente compresa, nel senso in cui l’ha proposta papa Benedetto nel noto discorso per gli auguri natalizi del 2005, infatti, non esclude, ma implica riforme pratiche e quindi un elemento di discontinuità. Essa è un’ermeneutica della riforma.

                  La verità della rivelazione non è un sistema rigido scolpito nella pietra e scritto su tavole di pietra, ma è la lettera d’amore del Dio vivente, scritta nei cuori di carne (2 Cor 3, 3). Secondo Tomaso d’Aquino il vangelo in ultima analisi e primariamente è lo Spirito santo infuso nel cuore dei fedeli attraverso la fede di Cristo. Dio con il suo Spirito è sempre in dialogo con la sua chiesa, la sposa del suo Figlio (DV 8), per introdurla sempre di nuovo nella verità tutta intera (Gv 16, 13) e dischiudere il vangelo, che è sempre lo stesso, nella sua eterna novità.

                  La misericordia è questa eterna novità. In essa risplende la sovranità di Dio, con cui egli è fedele sempre di nuovo al suo essere, che è amore (1Gv 4, 8), e al suo patto. La misericordia è la rivelazione della fedeltà e dell’identità di Dio con se stesso e così al tempo stesso dimostrazione dell’identità cristiana. Perciò la misericordia non toglie la verità cristiana. Essa stessa è una verità rivelata, che è strettamente legata con le fondamentali verità della fede, l’incarnazione, la morte e risurrezione di Cristo, e senza di esse cadrebbe nel nulla (cfr. Instrumentum laboris, n. 68). D’altra parte, tutte queste verità senza la dolcezza della misericordia si trasformerebbero in un sistema rigido e freddo. La misericordia le fa risplendere sempre di nuovo in modo sorprendente e conferisce sempre di nuovo alla fede forza di irradiazione. Solo così la nuova evangelizzazione può riuscire.

                  L’ammonimento a «rimanere nella verità di Cristo» include l’altro a «rimanere nell’amore di Cristo» (Gv 15,9). Si tratta di fare la verità nella carità (Ef 4,15).

Redazione             E anche il papa rema”    29 giugno 2015

testo e 30 citazioni                                                               http://www.eancheilpaparema.it/

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/06/perche-mmettere-i-divorziati-risposati.html

 

Parole di Gesù, riguardo al matrimonio e al divorzio.

Come si può notare, la quasi totalità della discussione fin qui sviluppata insiste sulla dottrina e sull’azione pastorale della Chiesa, cioè sulla sua “tradizione”. C’è però chi percorre sentieri diversi e più arditi. Andando direttamente alle origini, cioè alle parole di Gesù nel Vangelo, riguardo al matrimonio e al divorzio. È ciò che sta facendo da tempo un biblista e patrologo di chiara fama, Guido Innocenzo Gargano, monaco camaldolese, già priore del monastero romano di San Gregorio al Celio, docente al Pontificio Istituto Biblico e alla Pontificia Università Urbaniana.

Lo scorso inverno, in un saggio sul quadrimestrale di teologia “Urbaniana University Journal” padre Gargano ha sostenuto che nel regno dei cieli predicato da Gesù – stando alle sue stesse parole – c’è posto anche per chi usufruisce della concessione mosaica del ripudio per la “durezza del cuore”: Per i “duri di cuore” vale sempre la legge di Mosè.

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350966

L’esegesi di padre Gargano (citata dal cardinale Kasper nel suo articolo su “Stimmen der Zeit”) ha naturalmente sollevato vivaci reazioni. E di quattro di queste – l’ultima delle quali di Luis Sánchez Navarro, professore ordinario di Nuovo Testamento presso l’Università San Dámaso di Madrid – ha dato conto il blog “Settimo Cielo” che fa da corredo a questo sito:

  • Matrimonio e seconde nozze. Cosa direbbe nel sinodo sant’Agostino
  • Che cosa ha detto Gesù sul divorzio. Le due interpretazioni
  • Divorziato, risposato, comunicante. Una testimonianza
  • Divorzio sì o no. Il biblista duella col monaco

Ma ora padre Gargano torna in campo con un nuovo saggio, replicando ai critici e sviluppando ulteriormente la sua esegesi delle parole di Gesù su matrimonio e divorzio. Uno dei capisaldi della sua interpretazione è la supposta prossimità di Gesù a una corrente del giudaismo dell’epoca, quella degli “esseni moderati”, i quali si ispiravano contemporaneamente a due leggi: quella stabile, eterna, “scritta nelle stelle”, antecedente ad Abramo e Noè, e quella più accondiscendente di Mosè, che andava invece incontro all’uomo concreto e alla sua “durezza di cuore”.

A partire da questo sfondo e dall’affermazione di Gesù: “Non sono venuto ad abolire la legge [di Mosè] ma a dare pieno compimento”, padre Gargano scrive di essere “arrivato alla conclusione che Gesù non intendesse abolire il ripudio permesso da Mosè e tuttavia indicasse la possibilità di servirsene per raggiungere l’obiettivo inteso dal Padre fino dall’inizio della creazione dell’uomo e della donna”.

Il nuovo saggio di padre Gargano è scritto in forma di lettera al curatore di questo sito. E qui di seguito ne è riprodotto un estratto. Ma il testo completo è sette volte più ampio.

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351080

Ed è tutto di grande interesse, dalla garbata iniziale polemica con il cardinale Gerhard L. Müller, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, alla brillante citazione finale della “Divina Commedia” di Dante, dal terzo canto del Paradiso, con Piccarda presa ad emblema dei “minimi” che trovano posto nel regno dei cieli:

Anche chi dissente – e saranno molti, moltissimi – potrà comunque riconoscere che qui c’è in gioco la volontà di aderire alle parole di Gesù rettamente comprese. Non di aderire allo spirito del tempo, come invece avviene per gran parte delle attuali rivendicazioni del divorzio nella Chiesa cattolica.

 

[…] Di fronte alla domanda: “È lecito o non è lecito?” Gesù risponde serenamente, secondo il vangelo di Matteo: “Cosa sta scritto nel libro della Genesi?” Ora, quei capitoli del libro della Genesi si riferiscono certamente a ciò che succedeva nell’epoca prima di Noè, e dunque a fortiori anche pre-mosaica, che è rimasta nella storia col sigillo di un’immane tragedia che sconvolse il mondo e i progetti di Dio, col diluvio universale. Si dovrebbe dunque poter concludere che Mosè prese atto che quel punto di arrivo voluto ovviamente da Dio all’inizio del mondo, secondo la tradizione registrata dal libro della Genesi, non fosse così facile da raggiungere; e stante il rispetto, voluto da Dio stesso, della libera scelta dell’uomo, decise di proporre, non senza l’accondiscendenza di Dio, un avvicinamento progressivo a quell’ideale! E che cosa impedirebbe di concludere che anche Gesù si fosse messo nella stessa linea di Mosè nel rispondere agli interlocutori dei quali parla il vangelo secondo Matteo? […]

E dunque, quando Gesù rispondeva: “È per la durezza del vostro cuore che Mosè vi ha concesso di dare il libello del ripudio” per vivere nella libertà (cf. Mt 19, 8), nonostante la propria debolezza, non si poteva forse trattare di un’attenzione all’uomo concreto, sì, proprio all’uomo peccatore, che però non smette di guardare fisso verso l’obiettivo da raggiungere, ma che tuttavia è costretto a prendere semplicemente atto dei propri limiti, concludendo che tra il desiderio cercato e la realizzazione stessa del desiderio, ci sono di mezzo un’intera vita e le inevitabili fragilità umane proprie e altrui? Siamo davvero legittimati dalle parole di Gesù a non offrire un’altra possibilità al peccatore pentito che ammette di avere sbagliato, ma che è sinceramente determinato a ricominciare daccapo?

Chiunque abbia un minimo di esperienza pastorale sa benissimo quanta sofferenza si nasconda in tantissime situazioni personali di questo tipo. E sa anche quanta crudeltà si possa nascondere in quel “dura lex sed lex” dei nostri tribunali umani!

A questo si aggiunge che Gesù dichiara esplicitamente: “Non sono venuto ad abolire la legge di Mosè, ma a dare pieno compimento” (Mt 5, 17), cioè a realizzarla, a concretizzarla. […] A partire da questa frase sono arrivato alla conclusione che Gesù non intendesse abolire la permissione di Mosè e tuttavia che indicasse la possibilità di servirsene per raggiungere l’obiettivo inteso dal Padre fino dall’inizio della creazione dell’uomo e della donna.

In realtà Gesù è venuto come colui che si piega verso chi non ce la fa. Si piega verso il debole, si piega verso il peccatore, si piega verso il pubblicano, si piega verso il paralitico, si piega verso una donna di strada. Gesù parte cioè dalla situazione storica, concreta, della persona umana. Non è venuto per giudicare o per condannare, ma è venuto per salvare, e cioè per dare all’uomo un’energia nuova – esplicitata dal perdono – per imboccare di nuovo, nonostante tutto, la strada che conduce alla salvezza, prendendo atto di non potercela fare da solo. E dunque dandogli una mano! Questa accondiscendenza da parte di Gesù non toglieva affatto l’ideale di ciò che “si dovrebbe” e verso il quale “dovremmo tutti camminare”, ma prendeva atto che il cammino del singolo poteva, e può essere ancora oggi, un cammino differenziato.

Scoprendo queste cose ho cominciato a rendermi conto che Gesù distingue fra grandi e piccoli. Allo scriba, che insegnava ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, e ad amare il prossimo come se stessi, Gesù risponde: “Non sei lontano dal Regno di Dio” (Mc 12, 34), lasciando intravedere un uomo coerente e determinato che si potrebbe definire “grande”. Ciò non toglie però che Gesù accolga con simpatia e misericordia anche dei minimi, dei piccoli, che non riescono ad osservare la legge fino allo “iota unum“, e dunque che non possano essere considerati grandi nel Regno dei cieli.[…]

Un ulteriore punto del mio discorso parte dalla considerazione fatta da Gesù nello stesso contesto che sintetizzo così: ci sono alcuni i quali, per strade diverse, possono essere legati dalla natura, altri dalla violenza degli uomini, altri infine da una scelta libera. Tutti però dovrebbero cercare di capire in che misura sono posti da Dio come profezia di una realtà nuova che va oltre i confini della natura, delle imposizioni umane e perfino della propria libera scelta, ammettendo simultaneamente un’altra cosa molto importante e cioè che in tutti è presente un mistero non facilmente comprensibile dal punto di vista umano. Da qui l’osservazione finale di Gesù: “Chi può capire, capisca” (Mt 19, 12b).

Nell’esegesi tradizionale l’espressione: “Chi può capire, capisca” era sempre riferita al voto di verginità, come se Gesù si riferisse qui alla dimensione profetica del monaco o della monaca. In realtà sembra che l’espressione: “Chi può capire, capisca” debba essere intesa anzitutto nel contesto della risposta appena data da Gesù sulla problematica relativa al ripudio nel contesto della fedeltà matrimoniale.

Per capire meglio la dichiarazione fatta da Gesù si potrebbe inoltre fare riferimento al discorso della montagna preso nella sua completezza, dove Gesù dà determinate indicazioni, che appunto sono indicazioni e non un prendere o lasciare, o un aut aut. Come quando, per esempio Gesù dice: “beati i poveri”, in cui Matteo aggiunge: “in spirito” (Mt 5, 3). Si tratta, in questo caso, di un comando tassativo? Oppure siamo di fronte ad un’indicazione di strada nel senso di: un cammino sulla strada della realizzazione della povertà, crescendo nell’affidarvi unicamente a Dio, nonostante che quest’obiettivo resti in divenire senza cioè riuscire a realizzarsi mai pienamente come pure vorremmo che fosse? E si potrebbe anche aggiungere un sottinteso di questo tipo: guardate che se vi fate sollecitare o frenare da cose che non sono in accordo con la beatitudine dei poveri, potreste rischiare di non entrare affatto nel regno dei cieli!

Se dunque ciò che dichiara la lettera della legge mosaica, con tutto quello che si dovrebbe sistematicamente ricercare in essa, come “spiritus”, è un orientamento di vita, in cui ne va di mezzo appunto la vita eterna e la possibile felicità sulla terra, è assolutamente importante prenderla sul serio. Ma questo significa anche: non abolire la legge di Mosè in favore di chissà quale idealità perfezionista, ma piuttosto darle fiducia, accettandone la saggezza intrinseca anche quando “accondiscende” alla nostra “durezza di cuore”.

Si deve insomma proseguire a dare fiducia a Mosè, come ha fatto appunto Gesù, e non decidere di abolire del tutto le sue indicazioni. Gesù non è venuto per abolire Mosè, ma per favorirne il compimento. Infatti, la sua Legge non è fissista, non è perfezionista ma dinamica. E se questo vale per le beatitudini, è del tutto scontato che debba valere anche per ogni altro insegnamento di Gesù documentato dal Nuovo Testamento. […

estratto da       Sandro Magister       chiesa espresso                      3 luglio 2015

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351081

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