NewsUcipem n. 550 –14 giugno 2015

NewsUcipem n. 550 –14 giugno 2015

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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“notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line   direttore responsabile Maria Chiara Duranti.

direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le “news” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

            Le news sono così strutturate:

  • notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
  • link a siti internet per documentazione.
  • Le notizie, anche con il contenuto non condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.
  • La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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            Il contenuto di questo new è liberamente riproducibile citando la fonte.

Per i numeri precedenti

dal n. 1 (10 gennaio 2004) al n. 526 richiedere a                                        newsucipem@gmail.com

dal n. 527 al n. 549 andare su

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ADOZIONI INTERNAZIONALI    Moldova. Centinaia di bambini “dimenticati” negli istituti.

ANONIMATO DEL PARTO                       In pericolo diritto alla segretezza del parto e la vita dei bambini.

CHIESA CATTOLICA                    Magistero e sensus fidei.

5 PER MILLE                                               Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà.

CONGEDI PARENTALI                 Congedi parentali al padre se la madre è casalinga.

CONSULTORI FAMILIARI                       San Miniato. Il legame creativo nelle relazioni familiari.

CONSULTORI familiari UCIPEM  Messina. Regolazione naturale della fertilità.

Pescara. LegAmi – laboratori esperienziali 2015/16.

COORDINAZIONE genitoriale       Le linee guida. Contestualizzazione e traduzione in italiano.

DALLA NAVATA                            11° domenica del tempo ordinario – anno B –14 giugno 2015.

DIRITTI                                            Il bambino, oggi: il diritto di avere diritti.

Nonni e nipoti: un rapporto che non può essere reciso.

DIVORZIO                                       Divorzio breve: se il coniuge non firma.

FECONDAZIONE ARTIFICIALE  Eterologa, allarme sui gameti presi all’estero.

FORUM Associazioni Familiari       Misure di contrasto alla povertà.

FRANCESCO VESCOVO di Roma            No a concezione riduttiva matrimonio, promuovere famiglia.

Differenza uomo donna fa crescere figli.

MATERNITÀ                                               Se la maternità diventasse prestigio.

OMOFILIA                                       Matrimonio gay. L’errore di unificare le varietà dell’amore.

PARLAMENTO Camera Assemblea Ratifica convenzione Aja protezione minori.

Camera 2° comm. Giustizia Adozione dei minori.

Senato 2° comm. Giustizia   Disciplina delle unioni civili.

SCIENZA & VITA                           Rivalorizzare differenza sessuale x smentire indifferenza gender.

SINODO SULLA FAMIGLIA          Contributo al Sinodo sulla famiglia: liberate la speranza.

                                   Roma ha parlato, ma la causa non è finita.

La famiglia tra natura e grazia.

TRIBUNALI PER I MINORENNI  I Tribunali minorili vanno sostituiti con giudici di famiglia.

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Moldova. Centinaia di bambini “dimenticati” negli istituti: per loro l’attesa di una famiglia dura anni

In Moldova ci sono centinaia di bambini adottabili ma molti di loro aspettano anni negli istituti o nei centri di collocamento in attesa che una famiglia li accolga. Questo per le procedure di adozione lunghe e per le “preferenze” delle coppie che tendono a prediligere i bambini più piccoli. E intanto quelli più grandi o con qualche problema fisico rimangono negli istituti.

Secondo quanto riporta il sito trm.md/ (teleradio moldova) solo un centinaio di bambini sono stati adottati l’anno scorso. Le coppie, che vogliono accogliere in casa un bambino, dichiarano di essere stanchi di aspettare anni, e le stesse autorità riconoscono che la procedura di adozione è difficile.

Per migliaia di piccoli rimasti senza genitori, la “casa” è solo l’istituto o il centro di collocamento. Per la maggioranza di loro, potrebbe essere già troppo tardi perché le famiglie vogliono adottare un bambino piccolo.

I rappresentati della Direzione per la protezione dei diritti del bambino di Chisinau riconosce che la procedura di adozione è complicata, ma dicono che bisogna conformarsi alla legge. Secondo dati ufficiali, circa 200 famiglie della Repubblica di Moldova si trovano in lista di attesa, mentre 350 bambini aspettano di essere adottati.

Un numero quindi sufficiente per le richieste delle coppie disponibili, ma nella maggior parte dei casi, le famiglie vorrebbero solo un bambino sano, mentre la maggioranza dei bambini adottabili hanno qualche difficoltà fisica o semplicemente hanno più di 8 anni.

L’anno scorso sono stati adottati 104 bambini. Per 24 piccoli di Chisinau la procedura è in itinere. Forse fra 1 anno potrebbero avere di nuovo una famiglia.

Fonte: trm.md/ro/social        Ai. Bi. 11 giugno 2015                      www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ANONIMATO DEL PARTO

In grave pericolo il diritto alla segretezza del parto e la vita dei bambini non riconosciuti.

Lunedì 15 giugno andrà in Aula alla Camera il testo approvato dalla Commissione Giustizia in merito all’accesso all’identità delle donne che non hanno riconosciuto il loro nato.

I promotori della petizione per la “Difesa del segreto del parto, della salute delle donne e del futuro dei bambini non riconosciuti”, ha inviato a tutti i deputati la lettera allegata in cui esprime il proprio profondo dissenso, proponendo anche le necessarie modifiche al testo.

Appello

Difendiamo il segreto del parto, la salute delle donne e il futuro dei bambini non riconosciuti

Gentile Onorevole, ci rivolgiamo a lei per sottoporre alla sua attenzione una questione che ci sta molto a cuore e che ci preoccupa moltissimo Le riassumiamo brevemente i fatti.

Come lei sa, la legge italiana consente alle donne di partorire in ospedale, garantendo così le necessarie cure sanitarie per sé stesse e per i nascituri, anche nel caso in cui le partorienti non intendano riconoscere i propri nati. In questi casi i neonati (300 – 400 ogni anno) sono dichiarati adottabili e, nel giro di pochi giorni, vengono inseriti in una famiglia adottiva in base alla Legge 184/1983. Lo Stato riconosce a queste donne il diritto alla segretezza del parto: per 100 anni nessuno potrà conoscere la loro identità.

La sentenza n. 278/2013 della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della vigente normativa in materia di adozione «nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata (…) su richiesta del figlio ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione».

In ottemperanza a questa sentenza, sono state presentate presso la Camera dei Deputati diverse proposte di legge: la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati le ha unificate nel testo“Disposizioni in materia di accesso del figlio adottato non riconosciuto alla nascita alle informazioni sulle proprie origini e sulla propria identità”, a nostro parere molto negativo, su cui hanno espresso pareri critici le Commissioni Affari Costituzionali e Affari sociali.

Importanti al riguardo anche gli articoli pubblicati da Il Sole 24ore dell’11 maggio 2015 e la La Stampa del 12 maggio 2015, che riportano le motivate critiche di due giuristi molto stimati: Morozzo della Rocca e Vladimiro Zagrebelsky.

www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-05-11/i-diritti-contesi-parto-anonimo-063637.shtml?uuid=ABtbzxdD&refresh_ce

www.anfaa.it/wp-content/uploads/2015/05/art.-Zagrebelsky-La-stampa-12.5.-2015.pdf

Nella formulazione del testo unificato della Commissione Giustizia si prevede che il Tribunale per i minorenni, su richiesta delle persone non riconosciute alla nascita, si attivi per rintracciare le donne che hanno partorito in anonimato. Questo testo, se approvato, avendo effetto retroattivo, determinerebbe conseguenze gravi ed irreversibili alle oltre 90mila donne che dal 1950 ad oggi hanno partorito avvalendosi del diritto alla segretezza.

A nostro avviso, per rispettare il loro diritto all’anonimato, la possibilità di far venir meno questo diritto e quindi di essere rintracciabili può essere concessa solo alle donne che volontariamente si avvalgono della facoltà di recedere dalla decisione a suo tempo assunta. In questa direzione va la petizione e molte prese di posizione, di cui alla nota allegata. Non è ammissibile a nostro parere il percorso inverso, cioè che siano i nati da queste donne ad avviare il procedimento presso il Tribunale per i minorenni affinché le rintracci, se loro non hanno preventivamente manifestato la loro disponibilità al riguardo. Nei fatti verrebbe violato il diritto alla segretezza ancora riaffermato dalla Corte costituzionale. Infatti, le istanze sarebbero inevitabilmente prese in esame da un numero elevato di persone: i Giudici, i Cancellieri e la Polizia giudiziaria del Tribunale per i minorenni cui si rivolge l’interessato, i responsabili dei reparti maternità, gli impiegati addetti alla conservazione del plico in cui sono indicate le generalità della donna e del neonato, il personale dell’anagrafe tributaria nazionale incaricato di rintracciare attraverso il codice fiscale l’ultima residenza della donna, gli altri Giudici, i Cancellieri incaricati di contattarle, il personale, anche impiegatizio, i servizi sociali interpellati al riguardo dai Tribunali (è assai probabile che le donne non abitino più nelle città in cui hanno partorito). Inoltre le lettere di convocazione, indirizzate alle donne (su carta intestata del Tribunale o della Procura per i minorenni o da altro Ente) per verificare la loro disponibilità ad incontrare i propri nati, potrebbero molto facilmente essere viste dai loro familiari.

Come ha giustamente osservato la sociologa Chiara Saraceno su La Repubblica del 9 dicembre scorso “non occorre molta fantasia per immaginare lo scompiglio che può provocare nella famiglia di questa donna l’arrivo di una lettera del Tribunale dei minorenni o la visita di un’assistente sociale. Non sono cose che capitano normalmente a tutti. Come potrà giustificarla al suo eventuale marito o compagno, ai suoi eventuali figli, al suo intorno sociale? E come sarà garantita la riservatezza nella lunga catena comunicativa dal Tribunale fino all’assistente sociale? Con che diritto lo Stato può rompere il patto di segretezza che ha stipulato con lei nel momento in cui lei ha deciso di non abortire portando invece a termine la gravidanza, partorendo in sicurezza e affidando il bambino ad un destino migliore di quello che lei sentiva di potergli garantire?”.

Particolarmente preoccupanti sono le conseguenze che la nuova norma avrebbe sulle gestanti che in futuro volessero non riconoscere il proprio nascituro: lo faranno sapendo che, anche senza il loro preventivo consenso, potranno essere rintracciate dopo 20/ 30 anni o più? Che ne sarà dei loro piccoli? Non dovremo stupirci se le gestanti non andranno più a partorire in ospedale, non avendo garanzie sulla segretezza del parto e se aumenteranno gli infanticidi e gli abbandoni dei neonati in luoghi e con modalità che metteranno in pericolo la loro vita. Non è secondario il fatto che il non riconoscimento del neonato e la garanzia della segretezza dell’identità della donna è anche uno strumento a difesa della stessa vita di donne che provengono da contesti in cui per tradizioni o pratiche di origine religiosa, l’avere rapporti sessuali o partorire al di fuori del matrimonio viene “punito” con l’uccisione (i cosiddetti “delitti d’onore”). Vogliamo solo rimandare la loro esecuzione?

Ci permettiamo, infine, di aggiungere che riteniamo disumana la disposizione contenuta nel testo base, secondo cui la richiesta di accesso all’identità della partoriente è incondizionata nel caso in cui la donna sia deceduta: una violazione palese non solo del suo diritto all’anonimato, ma anche del diritto suo e dei suoi congiunti alla riservatezza che non è più in grado di tutelare!

Lo stato si è impegnato nei confronti di queste donne a non rendere mai noto il loro nominativo ed ora il parlamento non può tradire quell’impegno!

Confidiamo che le nostre osservazioni e proposte vengano da voi prese in considerazione e condivise: a questo proposito vi informiamo che, in vista della prossima discussione in Aula, stiamo lavorando anche alla preparazione di emendamenti al testo approvato dalla commissione Giustizia, che ben volentieri vi inoltreremo, nel caso condividiate la possibilità di presentazione da parte vostra.

Restiamo a disposizione per ogni ulteriore chiarimento. Porgiamo i più deferenti saluti.

Donata Nova Micucci, Presidente Anfaa

Maria Grazia Breda, Presidente Fondazione Promozione Sociale

Francesco Santanera, Presidente Associazione Promozione Sociale

Andrea Ciattaglia, Direttore della rivista Prospettive Assistenziali

Torino, 9 giugno 2015

www.anfaa.it/blog/2015/05/22/diritto-allaccesso-dellidentita-della-partoriente-da-parte-dei-figli-non-riconosciuti-alla-nascita-aggiornamento

 

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CHIESA CATTOLICA

Magistero e sensus fidei.

Una delle questioni più appassionanti, che emerge chiaramente dal dibattito intersinodale, potrebbe essere formulata in questi termini: come è possibile che il magistero ecclesiale sulla famiglia possa restare tanto “sordo” alle esigenze complesse della realtà familiare e arroccarsi in un mondo autoreferenziale, con una dottrina monolitica e una disciplina inadeguata non solo all’uomo, ma anzitutto al Vangelo? In altri termini, come può essere tanto grande la divaricazione tra dottrina ufficiale, sensus fidei e consensus fidelium?

            Un codice senza lacune. Per rispondere a questa domanda, dobbiamo individuare, in due sviluppi ecclesiali del XX secolo, le radici remote e prossime della nostra peculiare condizione, che forse non ha eguali nella storia della Chiesa.

            Da un lato, meno di 100 anni fa, nel 1917, entrava in vigore, per la prima volta nella storia della Chiesa, un Codice di diritto canonico. Con l’introduzione di questo “strumento”, l’approccio alle questioni giuridiche mutava di orizzonte. Entrava nell’esperienza ecclesiale non solo l’idea di un “corpus unitario”, contenente tutta la legislazione fondamentale della Chiesa, ma veniva introdotta anche l’esperienza di una “legge universale e astratta”, che non lasciava lacune o buchi: ogni questione veniva integralmente prevista, anticipata e risolta. A priori si poteva pensare di avere, autorevolmente, una risposta per ogni domanda. Lo spazio della “discrezione” (e dell’“economia”), pur non essendo superato, veniva fortemente ridotto e limitato. A questa “idea moderna di legge” dobbiamo sia la sparizione del criterio del “male minore” come soluzione delle questioni controverse, sia la “blindatura” del sistema e l’affermarsi del principio di “completezza del sistema giuridico”.

            Un magistero “de universis”. Qualche decennio più tardi, con diverso intento, il concilio Vaticano II introduceva un nuovo paradigma magisteriale. Di esso importa qui sottolineare non tanto l’originalità dello stile o la profondità delle riscoperte, ma soprattutto la totalità profetica della competenza. Per la prima volta, nella storia della Chiesa, il magistero assumeva, in positivo, una competenza diretta su ogni sfera dell’esistenza del soggetto credente.

            L’esercizio del magistero, che almeno fino al Vaticano I era consistito quasi solo in una duplice forma di linguaggio – quello del canone di condanna e quello della definizione dogmatica – ora assumeva il compito di dire, in positivo, l’esperienza della fede e la struttura della Chiesa, l’ascolto della parola e la celebrazione del culto, il lavoro dell’uomo e il suo tempo libero, i mass media e la formazione dei presbiteri, la libertà religiosa e la missione… Nulla restava esterno al magistero. Questa era, allora, una totalità positiva, assunta profeticamente, nella crescente coscienza della “differenza” tra Chiesa e mondo, ma costituiva anche un precedente non privo di insidie: estendendo le competenze magisteriali a tutta la realtà, tale scelta avrebbe potuto essere usata, in futuro, come una formidabile autodifesa contro la realtà. Inventata per “riaprire le finestre” e far entrare aria fresca, avrebbe potuto essere usata, un domani, per “sprangare le porte” e vivere di aria condizionata e stantia.

            Un sinodo “aperto”? Se oggi il sinodo dei vescovi trova difficoltà a “riconoscere” una realtà ad esso “esterna” – la vita irriducibile delle famiglie, la loro diversità, le loro gioie e le loro sofferenze – ciò è dovuto alla combinazione inattesa di una “totale blindatura del sistema giuridico” –, anche se pensato da Pio X come modernizzazione della Chiesa – e dall’estensione del magistero a ogni aspetto della vita del cristiano, che, da segno di profezia e di ascolto, diventa indizio di diffidenza e di sospetto.

            Se, dal lavoro intersinodale, si sollevano questioni che riguardano l’autonomia della vita familiare, il riconoscimento del bene delle seconde unioni, la pluralità delle forme con cui trova origine la vita familiare… davanti a tutto ciò è legittimo che si ponga una questione di fondo: è possibile che un “apparato”, che ha nel Codice uno strumento onnicomprensivo e nel magistero un principio di autorità coestensivo all’esistenza dei soggetti, possa “riconoscere” altro che se stesso? Potrà mai liberarsi davvero dell’autoreferenzialità una Chiesa che si rifugi, continuamente, nella legge blindata dal Codice e nell’autorità garantita dall’estensione del magistero conciliare?

            Potrebbe essere una buona cosa comprendere ciò che è vivo e ciò che è morto – come si diceva un tempo – di queste due grandi esperienze della tradizione ecclesiale.

Sincronizzare la legge e i profeti. In particolare, per salvaguardare la preziosa tradizione giuridica, occorrerà metter mano ad una delicata riforma del Codice, che possa sincronizzare la comprensione del matrimonio canonico a una forma ecclesiale e ad una forma civile che abbiano acquisito il principio di “libertà di coscienza” non solo “prima” e “nel” consenso, ma anche “dopo” di esso. La “storia del vincolo” dev’essere integrata in un sistema giuridico canonico che oggi non riesce a riconoscerla e che, per questo, è costretto a infinite finzioni, ipocrisie, giochi di prestigio, salti mortali, non solo per la salvezza delle anime, ma non raramente per salvare anzitutto se stesso.

            Per salvaguardare, invece, il prezioso avanzamento che il Vaticano II ha consentito alla tradizione ecclesiale, occorre restituire al magistero i suoi “limiti naturali”. Potremmo dire, quasi come un paradosso, che la fedeltà al Vaticano II potrà essere garantita solo da un magistero che sappia “ascoltare” e “riconoscere” che il sensus fidei e il consensus fidelium rimane esteriore al servizio magisteriale.

            Solo un magistero che non identifichi la Chiesa con se stesso sarà veramente al servizio del Vangelo e fedele al Vaticano II. Solo un tale magistero potrà dare ascolto con curiosità e interesse alle questioni nuove, inventare soluzioni veramente spirituali, accendere di speranza i cuori dei fedeli, ossia non perdere la tradizione nell’unico modo con cui le si resta fedeli: restando capaci di fare cose nuove. Forse l’insistenza sulla “chiesa in uscita” e sul superamento dell’autoreferenzialità – che risuona con tanta forza e fin dal principio nelle parole di papa Francesco – ha proprio qui la sua origine. Francesco sa bene che tutti i temi “conciliari” non sono compatibili con una Chiesa che non abbia a che fare con un altro “fuori da sé”, e che per questo abbia perduto la strada per – e la voglia di – uscire da sé.

Andrea Grillo                        “Settimana” n. 22/2015, 8 giugno 2015

www.ilregno-blog.blogspot.it/2015/06/magistero-e-sensus-fidelium.html

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5 PER MILLE

Entro il 30 giugno inviare dichiarazione sostitutiva atto di notorietà.

            Entro il 30 giugno 2015 va inviata, tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o pec, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà con documento del legale rappresentante alla Direzione regionale dell’Agenzia delle entrate.

Il mancato invio comporta l’esclusione dalle liste del 5 per mille!

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CONGEDI PARENTALI

                        Congedi parentali al padre se la madre è casalinga.

Corte d’Appello di Venezia, sentenza n. 105, 25 maggio 2015.

Discriminazioni uomo – donna: il datore di lavoro risarcisce il dipendente-padre se gli nega i congedi parentali solo perché la moglie è casalinga.

Sì ai congedi parentali al lavoratore anche se la madre del bambino è casalinga. Ci sono voluti anni, ma finalmente la giurisprudenza è arrivata a equiparare la donna casalinga a una vera e propria lavoratrice autonoma: questo significa che non la si può trattare come una disoccupata in grado di stare sempre attaccata al figlio. Risultato, nonostante la mamma sia impegnata, di mestiere, nel ménage della casa, al marito competono ugualmente i congedi parentali. Se il datore non glieli concede, dovrà pertanto risarcirlo del danno non patrimoniale conseguente alla discriminazione.

            È questo l’orientamento della Corte di Appello di Venezia che ritiene debbano essere concessi, anche al marito della casalinga, i riposi giornalieri e i congedi per malattia del figlio [Artt. 40 e 47 del T.U. n. 151/2001]: viene così rigettata la tesi del datore di lavoro secondo cui il fatto che la madre non lavori fuori dalle pareti domestiche comporterebbe che la stessa ben potrebbe occuparsi del minore al posto dell’uomo.

            Si tratta di un precedente importante, in linea con quanto, in passato, aveva già sposato il Consiglio di Stato (la più importante Corte in materia amministrativa) [sentenze n. 2732/2009 e n. 4618/2014] secondo il quale la figura della casalinga va assimilata alla lavoratrice autonoma. Insomma l’orientamento garantista risulta più in linea con i principi della bigenitorialità. Non solo il lavoro domestico è assimilabile all’attività autonoma, ma implica un’attività più intensa e carica di responsabilità rispetto ai compiti svolti dal prestatore d’opera dipendente: deve dunque essere dichiarato illegittimo il rifiuto opposto dal datore di lavoro.

            Nel caso di specie il datore era il Ministero, che è stato condannato a pagare al dipendente gravemente discriminato un danno non patrimoniale di quasi 10 mila euro per i 195 fra permessi e giornate di congedo illegittimamente negati.

            L’attuale legge consente la fruizione del riposo giornaliero al lavoratore padre “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”. La Cassazione ha poi assimilato le giornate della casalinga fra pavimenti, lavatrici e fornelli a un vero e proprio lavoro autonomo [sent. n. 20324/2005]. Da qui l’assimilazione anche al caso dei congedi dell’uomo. Del resto, il fatto che la legge escluda l’ipotesi in cui la madre sia lavoratrice dipendente consente di ritenere che invece il beneficio possa essere riconosciuto in tutti gli altri casi, anche quando la mamma del bambino sia dedita alle cure domestiche.

            Insomma, la tutela del minore impone che tra gli obblighi del lavoratore verso il datore e i suoi doveri di padre debbano prevalere questi ultimi: la scelta è dettata dai principi di parità nella partecipazione dei coniugi nell’educazione dei figli previsti dalla nostra Costituzione [artt. 3, 29, 30, 31]. E dunque la tutela deve essere assicurata per i riposi e i congedi.

                        La legge per tutti                   8 giugno 2015

www.laleggepertutti.it/89615_congedi-parentali-al-padre-se-la-madre-e-casalinga

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CONSULTORI FAMILIARI

San Miniato. Convegno: Il legame creativo nelle relazioni familiari e di aiuto.

            San Miniato (Pi)         Conservatorio S. Chiara                   sabato 26 settembre 2015 ore 9-17

            Il Convegno si propone di approfondire e creare uno spazio di riflessione sul tema del legame nella relazione familiare e di aiuto. Il tema è affrontato in un’ottica divulgativa e multidisciplinare, con particolare attenzione agli aspetti psicologici, antropologici, legali.

            Si rivolge a quanti, professionisti della relazione d’aiuto, educatori, genitori, vivono il legame familiare e hanno a cuore il tema del miglioramento e della crescita nelle relazioni interpersonali.

            Relatori conferenze e laboratori

  • Gianfranco Trippi, psicologo, psicoanalista, già dirigente responsabile del Servizio Riabilitativo di Salute Mentale A.S.L 3 Pistoia, membro del Gruppo Psyché. Laboratorio Psicoanalitico.
  • Monica Ferri, psicologa, psicoanalista, Responsabile del Centro Psyché e coordinatore del Gruppo Psyché.  Laboratorio Psicoanalitico. Supervisore di Equipe del Consultorio “Giani”.
  • Luca Pupeschi, psichiatra, psicoanalista, Dirigente responsabile Strutture residenziali dell’A.S.L 3 Pistoia, membro del Gruppo Psyché. Laboratorio Psicoanalitico.
  • Giusy Donadio, avvocato, mediatore familiare. Coordinatrice di Equipe del Consultorio “Giani”.
  • Ilaria Giammaria, psicologa, conduttrice “Gruppi di Parola”. Membro Equipe Consultorio “Giani”.
  • Sandro Spagli, presidente del Consultorio “Giani”, già docente presso la Scuola Diocesana di Formazione Teologica di San Miniato.
    • Presentazione del convegno                                                  dott.ssa Giusy Donadio
    • La narrazione biblica come codice dei legami creativi                      dott. Sandro Spagli
    • Il legame come funzione creativa della mente                                  dott.ssa Monica Ferri
    • (S)Legare                                                                               dott. Gianfranco Trippi
  • Laboratori di discussione:
    1. Laboratorio 1 (per operatori) guidato dal dott. Luca Pupeschi         I vissuti emotivi dell’operatore nella relazione d’aiuto. Esperienza di un gruppo Balint
    2.  Laboratorio 2 (per educatori/genitori) guidato dalla dott.ssa Monica Ferri             Sostegno ai genitori nella crescita dei figli. Esperienze di confronto e condivisione
    3. Laboratorio 3 (per avvocati e mediatori)  guidato dalle dott.sse Giusy Donadio e Ilaria Giammaria           il legame spezzato: gestire il conflitto nelle relazioni familiari

Fondazione Conservatorio S.Chiara   Via Roma, 15 – San Miniato (Pi) – Tel. 0571.43050 www.sanminiato.chiesacattolica.it/toscana/san_miniato/00034534_Consultorio_Familiare.html

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Messina. Regolazione naturale della fertilità. Aspetti bio-psicologici

La pubblicazione è presente in

www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=333:regolazione-naturale-della-fertilita-aspetti-bio-psicologici&catid=94&Itemid=275

Pescara. LegAmi – laboratori esperienziali 2015/16.

Laboratori esperienziali (a tema) sulle relazioni nella complessità del nostro tempo.

Dopo la bella esperienza e la grande risposta degli anni scorsi, riproponiamo anche quest’anno altri laboratori tematici con inizio previsto da Ottobre 2015.

            Partiranno diversi Laboratori: genitorialità, perdono, comunicazione, famiglie allargate, educazione efficace, gruppi di parola per figli di genitori separati-divorziati, ecc…

            Ogni laboratorio è composto da un minimo di 10 ad un massimo di 20 partecipanti.

Grazie ad uno stanziamento della Regione Abruzzo, il contributo richiesto per ogni singolo laboratorio è di soli 30 € a persona, da versare all’atto dell’iscrizione.

Per i dettagli (conduttore, temi degli incontri, date e orari) dei singoli laboratori vedi…

www.ucipempescara.org/percorsi/genitori-consapevoli-1

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COORDINAZIONE GENITORIALE

Le linee guida. Contestualizzazione e traduzione in italiano

La Coordinazione Genitoriale è un intervento centrato sul minore, rivolto a genitori separati o divorziati, la cui perdurante elevata conflittualità costituisce un rischio di danno psicologico per i figli della coppia esposti al conflitto.

Si tratta di un nuovo intervento di ADR (acronimo inglese di ‘risoluzione alternativa delle dispute’) in cui un terzo imparziale, chiamato coordinatore genitoriale, aiuta le parti a mettere in pratica un proprio programma di genitorialità, nell’ambito dell’incarico disposto dal giudice al coordinatore o dell’incarico conferito di comune accordo da parte dei genitori che abbiano riscontrato l’impossibilità di superare una continua litigiosità con altre forme di ADR.

La coordinazione genitoriale ha visto, a partire dai primi anni 90, una crescente popolarità negli USA, dove i professionisti di ambito legale e della salute mentale plaudono all’emergere di questo processo attraverso il quale le questioni possono esser e risolte in via extragiudiziale e nel quale i genitori possono imparare a proteggere i loro figli dalle ripercussioni negative sullo sviluppo della separazione conflittuale e della loro incapacità a fornire una genitorialità condivisa.  

Nel presente articolo viene presentata questa nuova metodologia così come si è sviluppata negli USA, infine verrà proposto un sintetico resoconto della sua prima applicazione in Italia.

Le linee guida sulla coordinazione genitoriale. Contestualizzazione e traduzione in italiano

Claudia Piccinelli, psicologa, psicoterapeuta, mediatrice familiare; mediatrice familiare presso centro GeA, Genitori Ancora, del Comune di Milano; Cultore della materia M/Psi 01, Facoltà di Medicina, Università degli studi di Milano.

il caso             18 maggio 2015         www.ilcaso.it/articoli/fmi.php?id_cont=800.php

www.ilcaso.it/articoli/800.pdf

www.ilcaso.it/articoli/768.pdf

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DALLA NAVATA

                                   11° domenica del tempo ordinario – anno B –14 giugno 2015.

Ezechiele        17.24 «Io, il Signore, ho parlato e lo farò.»

Salmo             92.16 «per annunciare quanto retto è il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità.»

2 Corinzi        05.06 «sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo.»

Marco             04.27 «dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.»

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DIRITTI

Il bambino, oggi: il diritto di avere diritti; la speranza di avere un futuro.

Nella cultura giuridica europea ed italiana il bambino si evolve da problema da risolvere a risorsa da valorizzare. Il testo richiama i diritti del bambino considerato non più in una logica tradizionale di frammentarietà e di sua dipendenza come soggetto debole, ma come protagonista, con riferimento in particolare al suo benessere, alla sua pari dignità sociale, alla sua salute. Il discorso si articola sia sull’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sia sulle riforme legislative nazionali in tema di adozione, di divorzio, di riforma del diritto di famiglia, di tutela penale del bambino di fronte alle nuove insidie della pedopornografia e della rete. Nel passaggio dalla riflessione giuridica alla sensibilizzazione culturale, si richiama l’odierno contesto in cui lo sguardo sul bambino e del bambino si apre dalla tragedia della guerra alla speranza della pace.

1. Il bambino: da problema da risolvere. Sino a non molto tempo fa il bambino veniva visto come problema da risolvere piuttosto che come risorsa da valorizzare; veniva quindi protetto quasi di riflesso, episodicamente e frammentariamente, in conseguenza dell’attenzione dedicata dagli ordinamenti giuridici alla famiglia. Quanto ciò potesse ostacolare il riconoscimento e la protezione dei diritti del bambino è agevolmente comprensibile.

Basta ricordare – a venti anni dalla Convenzione del 1989 sui diritti dell’infanzia – la denunzia delle Nazioni Unite sulle condizioni dei bambini nel mondo. Ogni 5 secondi un bambino muore per malattie che si possono prevenire o trattare, o per malnutrizione; ogni anno 10 milioni di bambini muoiono prima di aver raggiunto il quinto anno di età; circa 200 milioni di bambini sono costretti a lavorare, e metà di essi in condizioni di rischio per la loro salute e la loro vita; 100 milioni di bambini non hanno accesso all’educazione; 270 milioni di bambini non hanno accesso a cure mediche; la situazione drammatica dei bambini-soldati è sotto gli occhi di tutti. È una denunzia che lascia sconvolti; induce a riflettere sull’effettiva condizione del bambino come soggetto di diritti in generale.

In un contesto come il nostro, quella condizione è ben lontana dalla drammatica situazione globale. In Italia, come in Europa, il bambino gode di diritti e di protezione che lo rendono un “privilegiato”, rispetto ai suoi coetanei di molte altre parti del mondo; eppure, anche nel nostro Paese la “scoperta” dei diritti del bambino è relativamente recente. Una “lettura primitiva” delle norme della Costituzione dedicate al minore (sulla filiazione, art. 30; sulla protezione della maternità, infanzia e gioventù, art. 31; sul lavoro minorile, art. 37) offre una visione analitica e riduttiva della figura del bambino: un soggetto “debole” da proteggere sotto taluni aspetti specifici; non certo il protagonista di uno “statuto di diritti”, riconducibile ad una categoria autonoma di soggetti. Insomma, la tutela costituzionale appare riconosciuta al minore non in ragione di un suo autonomo interesse ma per garantire “certezza e stabilità” alla famiglia, secondo l’abitudine tradizionale di interpretare la Costituzione alla luce delle leggi ordinarie, anziché – come si deve – viceversa.

2. a risorsa da valorizzare. Ma come siamo arrivati a questa legislazione attraverso i secoli? Nella società romana il bambino era un “nihil”, un nulla. E nasceva due volte: la prima al momento del parto, la seconda quando veniva presentato al padre. Se questi lo alzava all’altezza degli occhi, significava che veniva riconosciuto; se invece lo rifiutava si produceva la “expositio” e il neonato veniva abbandonato o soppresso. Anche i malformati venivano eliminati facendoli precipitare dalla Rupe Tarpea. Quindi l’abbandono e l’infanticidio erano pratiche comuni.

Con l’avvento del cristianesimo e con la figura di Gesù Bambino s’inizia a considerare nei secoli seguenti la nuova vita come un essere umano. Nel ‘600 viene istituita la “ruota” nella quale si lasciavano i neonati indesiderati che altrimenti sarebbero stati uccisi. È del 700 il primo brefotrofio italiano a Milano. Nel 1802 viene creato a Parigi per volere di Napoleone il primo ospedale pediatrico: l’Hopital des Enfants Malades. In Italia il primo ospedale per bambini è del 1869: l’Ospedale del Bambino Gesù di Roma.

Ben diverso da queste premesse è il quadro a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso. La cultura giuridica e una serie di interventi legislativi fondamentali (soprattutto in tema di adozione, con la legge 431 del 1967; di divorzio, con la legge n. 898 del 1970; e in particolare con la riforma del diritto di famiglia, nel 1975) aprono la strada al riconoscimento dell’interesse prioritario del minore, alla sua identità autonoma e alla tutela della sua irrinunciabile personalità. Si muove pur sempre dalla famiglia, quale luogo privilegiato di formazione; ma tale “società naturale” – i cui membri sono tenuti ad assolvere i doveri reciproci sanciti nell’art. 30 Cost. – viene collocata nel più ampio orizzonte dell’universo sociale. Nell’ambito di questa visione solidaristica della famiglia e in connessione con la generale previsione degli artt. 2 e 3 della Costituzione, il favor minoris non è più funzionale esclusivamente alla protezione dell’istituzione familiare, bensì alla promozione dei diritti del bambino in quanto “cittadino in formazione”. Il bambino non è visto più soltanto come semplice destinatario di interventi statali di sporadica tutela. É visto come titolare di un interesse autonomo rispetto alla stessa struttura familiare e come centro di riferimento degli inviolabili diritti di ciascun soggetto: sia come singolo; sia come partecipe delle formazioni sociali (prima fra tutte la famiglia) in cui si svolge la sua personalità.

Restano ferme l’essenzialità e l’importanza della famiglia come primo nucleo per l’accoglienza e lo sviluppo del bambino; ed è doveroso prescindere – in questa riflessione –dal richiamo dei problemi che segnano la definizione della famiglia e la sua regolamentazione nel contesto attuale. Qualunque possa essere l’orientamento che si ritiene di assumere a proposito della definizione della famiglia – nei termini delineati dall’art. 29 della Costituzione con l’interpretazione recentemente ribadita dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 138/2010); o secondo altre prospettive – non può derivarne una limitazione, un pregiudizio o una diversa valutazione sulla posizione del bambino e sui suoi diritti.

Il minore è diventato protagonista diretto di un’intensa progettualità sociale, volta all’affermazione della sua piena dignità e del pieno sviluppo della sua personalità. Egli non è più il “grande assente”, in una Carta costituzionale che lo contempla in poche norme per un’episodica tutela; ma qualifica l’azione politica dello Stato e l’attuazione dei principi fondamentali – di solidarietà, eguaglianza, istruzione ed educazione, partecipazione sociale: in parole semplici, di pari dignità sociale – in cui la Costituzione si invera e si realizza.

3. I diritti del bambino come protagonista. Oggi ci muoviamo – sotto il profilo culturale, sociale e quindi giuridico – in un quadro profondamente diverso dal passato, che vede finalmente nel bambino, con la sua identità e la sua personalità, un protagonista. Il bambino, quale persona umana, precede ogni forma di organizzazione sociale. Al di là dell’opzione ideale cui si preferisca aderire in ordine al fondamento dei diritti in generale, una cosa è certa: i diritti del bambino devono essere comunque e sempre riconosciuti, piuttosto che attribuiti.

I percorsi di questo nuovo umanesimo, riferito alla condizione minorile, non possono prescindere dall’idea, fondante che il minore non rappresenta uno strumento per realizzare finalità diverse (ad esempio, quelle istituzionali della famiglia). Rappresenta il fine di un complessivo disegno istituzionale, del quale gli ordinamenti giuridici – nazionali e sopranazionali – risultano mezzo.

Riconoscimento, dunque, e non attribuzione dei diritti; affermazione della personalità del bambino in tutti gli ambiti dell’universo sociale e non solo all’interno della famiglia: si tratta di concetti che esprimono una visione nuova e progressista. Postulano un dinamismo sociale che prende il posto di un’assistenza statica. Dissolvono il tradizionale approccio di stampo paternalistico nei confronti dei bambini (come, più in generale, rispetto ad altre categorie esistenziali egualmente deboli: gli anziani, i malati, i detenuti). Lasciano spazio ad una solidarietà sociale che aiuta a sviluppare proprio l’autonomia e l’autodeterminazione dei soggetti socialmente più deboli.

Non si può certamente ignorare – con una prospettiva soltanto laica, anzi laicista –una delle premesse essenziali di questo sviluppo: il contributo fondamentale da sempre offerto alla tutela e al riconoscimento della vita e della dignità del minore attraverso l’insegnamento, la testimonianza e l’impegno della Chiesa cattolica. È un contributo che si manifesta nell’attuazione concreta della solidarietà; nel rispetto della dignità; nella supplenza alla mancanza della famiglia per i bambini abbandonati; nella consolidata tradizione di educazione del bambino, di sua formazione alla responsabilità, di suo avviamento alla vita sociale, di sua protezione nel mondo del lavoro, di rispetto della sua dignità e di riconoscimento dei suoi diritti fondamentali.

Una siffatta evoluzione culturale in favore dell’identità del bambino è espressa in varie fonti sovranazionali. Da ultimo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 ed inserita a pieno titolo nell’ordinamento dell’Unione Europea, con il Trattato di Lisbona – afferma, all’articolo 24, i “diritti del bambino”, basandosi sulla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, firmata il 20 novembre 1989 e portatrice di una visione straordinariamente lungimirante per quei tempi. Ed è appena il caso di richiamare la portata giuridicamente vincolante per l’ordinamento italiano sia dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (come la Carta di Nizza); sia degli obblighi internazionali (come la Convenzione sui diritti del fanciullo), alla stregua dell’art. 117 1° comma della Costituzione, come modificato nel 2001.

4. Il bambino nella prospettiva europea. Tre sono i portati essenziali dell’art. 24 della Carta di Nizza. Innanzitutto, si riconosce il «diritto alla protezione e alle cure necessarie al benessere » del bambino, in uno con la sua libertà di espressione e con l’attenzione alla sua opinione (comma 1). In secondo luogo, si enuncia il principio della «preminenza dell’interesse superiore del bambino» in tutti gli atti compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, relativi ad esso (comma 2). Infine, si afferma il diritto alle «relazioni personali e contatti diretti con i due genitori» (comma 3), salvo qualora ciò sia contrario all’interesse del bambino.

Si tratta del riconoscimento di diritti che impegnano le istituzioni degli Stati membri ad interventi specifici. Il bambino – oltre alla titolarità dell’insieme delle situazioni giuridiche soggettive contemplate nei vari ordinamenti per tutti i soggetti giuridici – diviene titolare, in forza dell’art. 24, di specifici diritti che si aggiungono ai primi. Viene codificato un obbligo di intervento, in capo agli Stati membri, per la realizzazione degli specifici interessi di cui solo i bambini sono portatori in quanto tali.

È sintomatico che il legislatore europeo non qualifichi ulteriormente il benessere al quale ha diritto il bambino: poiché è proprio l’ampiezza della nozione ad accreditarne una lettura autenticamente innovativa. Il «benessere del bambino» altro non è che la specifica dimensione, per la minore età, del riconoscimento della dignità umana quale sfondo su cui si colloca l’insieme dei diritti fondamentali.

Come la dignità dell’individuo è il contenuto minimo indefettibile dei diritti individuali –nel senso che il loro riconoscimento storico e positivo deve comunque salvaguardare l’incomprimibile essenza della dignità umana – allo stesso modo la condizione che sintetizza i diritti della minore età è quella della garanzia del «benessere del bambino», anch’essa indefettibile.

“Dignità” e “benessere” costituiscono aspetti speculari dell’identico obiettivo funzionale dei diritti fondamentali. La differenza terminologica riflette la diversa condizione esistenziale dell’individuo adulto e del minore. Si devono privilegiare, in quest’ultimo, gli aspetti dinamici dello sviluppo, i quali esigono il rispetto di una condizione assoluta: che il delicato “avanzare nella vita” avvenga nelle migliori condizioni possibili in senso fisico, materiale, mentale, ecc.

A proposito delle cure necessarie per il benessere del bambino, è significativa la definizione di salute proposta dall’Organizzazione mondiale della sanità: non tanto e non solo, in negativo, una situazione di assenza di malattia; quanto, in positivo, una situazione di benessere fisico e psichico: l’aspirazione alla miglior condizione possibile di benessere (uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”). Una simile definizione si raccorda singolarmente sia con l’art. 24 della Carta di Nizza, sia con la qualificazione della salute come “diritto fondamentale” del singolo prima che come interesse della collettività, da parte dell’art. 32 della Costituzione.

5. Salute, dolore, benessere e pari dignità sociale del bambino.

6. I diritti del bambino nell’ordinamento italiano oggi.

7. Dalla riflessione giuridica alla sensibilizzazione culturale, per la solidarietà verso il bambino.

 8. Lo sguardo dei bambini sulla guerra…

 9.… e sulla pace.

Giovanni Maria Flick, Presidente Emerito della Corte costituzionale.

Rivista N. 2    Associazione Italiana Costituzionalisti         12 giugno 2015          testo completo

www.rivistaaic.it/il-bambino-oggi-il-diritto-di-avere-diritti-la-speranza-di-avere-un-futuro.html

Nonni e nipoti: un rapporto che non può essere reciso.

Il rapporto tra nonni e nipoti è fondamentale e la violazione va condannata. La decisione della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo).

Cosa succede sul piano giuridico quando si recide il cordone ombelicale affettivo tra nonno e nipote? Possiamo subito dire che tale profondissimo legame non può essere ingiustamente interrotto, considerando che a presidio di questo delicato vincolo gli Ordinamenti devono apprestare norme chiare, giuste e coerenti nonché, all’occorrenza, rimedi giudiziali efficaci. Sappiamo che l’art. 8 della Convenzione protegge la vita privata e la vita familiare nelle sue più diverse espressioni, riservando solo uno spazio di controllo per l’Autorità pubblica in casi esplicitamente contemplati.

            Il diritto di visita dei nonni. Verificatasi una lesione dei diritti dei nonni e portata la vicenda all’attenzione della Corte EDU, questa si pronuncia con grande equilibrio nella causa Manuello e Nevi contro Italia (C.E.D.U. seconda sezione, ricorso n. 107/10, 20.01.2015). E’ bene precisare che i nonni paterni ricorrenti in questa causa hanno vissuto, in precedenza, normali contatti con la nipote, frequentandola abitualmente presso l’abitazione che loro stessi hanno acquistato al figlio, il quale vi convive con la moglie e un altro figlio nato da un precedente matrimonio. Ad un certo punto però si innesca una parabola discendente della relazione di coniugio: la moglie chiede di separarsi e domanda la revoca della potestà genitoriale, quindi una maestra sospetta il padre di abusi (poi rivelatisi infondati) nei confronti della minore, i nonni paterni (dal 2002) non riescono più a vedere la piccola nipote che, nelle more, viene affidata dal Tribunale per i minorenni ai nonni materni. Quindi, nel 2006, dopo un primo periodo nel quale veniva ripristinato (sulla carta) il diritto di visita dei nonni paterni (diritto nella realtà mai esercitato), una nuova relazione della psicologa proibisce qualsiasi ulteriore contatto tra la minore e i ricorrenti in quanto la bambina, stando a questa perizia, manifestando paura nei confronti del padre finisce per associarli negativamente alla figura paterna. Segue poi tutto l’iter giudiziario nazionale, fino al rigetto in Cassazione, propugnato senza alcun concreto risultato dai malcapitati nonni paterni.

Sul fronte opposto il Governo ha valorizzato l’opera dei servizi sociali e degli psicologi, affermando che nell’interesse della bambina (e dei nonni ricorrenti) tutto è stato fatto secondo legge.

Cosa ne pensa la corte? Ebbene, anche in questo caso ha ritenuto sussistente la violazione dell’art 8 a danno dei ricorrenti. La norma ha lo scopo di premunire le persone contro eventuali ingerenze e abusi dei pubblici poteri, in un’ottica di protezione dei diritti della famiglia e della vita privata. E’ una relazione meritevole di protezione anche quella esistente tra nonni e nipoti; tale relazione, come quella genitoriale, va preservata anche in un lasso di tempo ridotto, proprio per evitare negative conseguenze sul piano affettivo.

Risulta che l’Autorità nazionale non ha adottato ogni necessaria misura per proteggere i diritti fondamentali dei ricorrenti: in buona sostanza è stato impedito per anni il percorso di riavvicinamento con la nipote, omettendo il rispetto del loro diritto di visita riconosciuto nel 2006 dal Tribunale. Con l’accertamento dell’avvenuta violazione dell’art. 8, la Corte assegna ai nonni un indennizzo per danno morale pari a euro 16.000,00. Ancora una volta la Corte Europea richiama le Autorità nazionali ad un rigoroso rispetto dei diritti fondamentali consacrati nella Carta.

            avv. Francesco Pandolfi        newsletter Studio Cataldi      6 giugno 2015

www.studiocataldi.it/articoli/18444-ancora-la-cedu-in-tema-di-diritti-fondamentali-della-persona-la-tutela-della-relazione-affettiva-tra-nonni-e-nipoti.asp

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DIVORZIO

Divorzio breve: se il coniuge non firma.

Si può ugualmente beneficiare del divorzio breve se a volerlo è solo il marito o la moglie e non l’altro coniuge? È possibile ottenere il cosiddetto divorzio breve anche se non c’è il consenso di entrambi i coniugi. Infatti, la nuova legge non ha cambiato nulla rispetto al passato se non i tempi di attesa per passare dalla separazione al divorzio. Se tali termini, prima, erano sempre di tre anni, oggi sono di:

– sei mesi, se i coniugi si erano separati consensualmente;

– un anno, se i coniugi si erano separati giudizialmente, ossia con una regolare causa.

            Per il resto nulla è cambiato. E dunque, chi intende presentare la domanda di divorzio (che ora si chiama “breve”, ma solo per distinguerlo da quello precedente) non dovrà certo attendere il consenso dell’altro coniuge. Il consenso è necessario solo se si vuole procedere più speditamente con le nuove procedure del divorzio davanti al sindaco o con la negoziazione assistita (ossia davanti ai rispettivi avvocati). In questi casi, infatti, si deve per forza procedere consensualmente.

            Viceversa, se uno dei due coniugi non vuol divorziare dall’altro, quest’ultimo potrà ugualmente portare avanti il procedimento (entro sei mesi o un anno dalla separazione), ma dovrà farlo attivando la normale procedura di divorzio giudiziale, ossia con la difesa di un avvocato, davanti al tribunale, instaurando un giudizio ordinario.

Redazione la legge per tutti  8 giugno 2015

www.laleggepertutti.it/89609_divorzio-breve-se-il-coniuge-non-firma

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FECONDAZIONE ARTIFICIALE

            Eterologa, allarme sui gameti presi all’estero. «Possono trasmettere malattie genetiche».

All’euforia delle coppie infertili per il via libera alla fecondazione assistita eterologa sancito  dalla  Corte  costituzionale  il  9  aprile  2014,  seguono ora  due  grossi  problemi.

  1. La mancanza di donatori, che costringe i centri di procreazione assistita (per il momento solo i privati, quelli pubblici sono in stand by) a comprare gameti maschili e femminili da banche estere. 
  2. Secondo: la sicurezza degli ovuli e degli spermatozoi acquistati. Su quest’ultimo punto si sono concentrati ieri i legali appartenenti all’Associazione avvocati diritto  di famiglia (Aiaf), riuniti in convegno a Treviso.  «Il figlio che non conosce le sue origini non può sapere se i donatori erano affetti da particolari patologie e quindi non può avere  accesso alla medicina personalizzata — ha avvertito Stefania  Stefanelli, una delle massime esperte d’Italia sull’eterologa — e questo è fondamentale soprattutto nel caso delle malattie genetiche.

In altri Paesi d’Europa, invece, si può risalire all’identità del donatore, con il quale non c’è in ogni caso nessun legame parentale. Bisogna stabilire protocolli di sicurezza sulle analisi dei gameti prima del loro congelamento, per garantire la tracciabilità e tutelare la salute dei figli».

Un allarme supportato da «prove».  I gameti utilizzati in Italia provengono soprattutto da Danimarca e Spagna e benché siano inseriti in un registro nazionale appena istituito, secondo l’Aiaf «permangono problemi di sicurezza legati a donazioni plurime, soprattutto se il donatore è affetto da malattie rare».

Le linee guida approvate da tutte le Regioni, con il Veneto capofila, consentono a ogni volontario un massimo di dieci donazioni. Ma all’estero non è così, in tanti Stati non c’è un limite e così è successo che un danese colpito da malattia genetica l’abbia trasmessa ad oltre cento «figli».

«Il quadro della fecondazione  assistita, sia omologa sia eterologa, è in costante aggior-namento — spiega l’avv. Francesca  Collet, responsabile dell’Aiaf Treviso — abbiamo ritenuto importante aggiornare i colleghi e continueremo a far lo».

M.N.M.     Corriere del Veneto              11 giugno 2015

www.scienzaevita.org/wp-content/uploads/2015/06/CorrieredelVeneto_11_06_15_Eterologa_allarme_sui_gameti_presi_allestero_possono_trasmettere_malattie_genetiche.pdf

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Misure di contrasto alla povertà

Audizione presso la Commissione Lavoro, previdenza sociale del Senato della Repubblica.

Il Forum delle associazioni familiari ringrazia sentitamente il Presidente e tutta la Commissione per aver deliberato il ciclo di audizioni in oggetto, in modo da permettere alla società civile e ai soggetti interessati – le famiglie in primo luogo – di esprimere il proprio punto di vista.

Nel recente passato a più riprese sono state introdotte sperimentazioni per l’erogazione di una misura di contrasto alla povertà. Contemporaneamente il Parlamento ha discusso alcune mozioni aventi ad oggetto lo stesso tema. Inoltre sono stati presentati diversi disegni di legge da parte di molte forze politiche, segnale di una grande aspettativa sullo strumento sia nelle Istituzioni sia, ancor più, nella cittadinanza, che sono ora all’esame di questa Commissione del Senato.

Il Forum ha già da tempo avviato una riflessione sull’introduzione di misure universali di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, misure che sono già presenti in quasi tutti i Paesi europei. Proprio il confronto con il contesto internazionale dimostra però la grande variabilità di modelli e di meccanismi utilizzati per introdurre tale misura, e sconsiglia facili scorciatoie normative di omogeneizzazione forzosa a sistemi applicati in altri contesti nazionali.

            1. Una misura da armonizzare in un sistema di protezione sociale e di diritti di cittadinanza.

Prima di segnalare alcune criticità di ordine generale che necessitano di essere adeguatamente tenute in considerazione nello sviluppo del dibattito parlamentare, vogliamo però ribadire che ogni intervento in tale ambito deve fare i conti con le scelte complessive in tema di solidarietà e di diritti di cittadinanza. In particolare entrano in gioco, nel contrasto alla povertà, o meglio, come fattori protettivi dal rischio povertà, almeno tre strumenti strategici per il sistema Paese:

  • il mercato del lavoro (nella sua capacità di proteggere dalla povertà attraverso giusti salari e un “lavoro buono”);
  • il sistema di welfare, nel mix di prestazioni previdenziali, assistenziali e di cura/salute, tra servizi e interventi monetari;
  • il sistema fiscale, soprattutto nella sua capacità di equità nel prelievo sui cittadini/famiglie.

Ogni strumento di contrasto alla povertà avrà maggiore o minore impatto, e soprattutto dovrà essere organizzato in modi molto eterogenei, in diretta funzione al modo in cui questi tre sistemi riescono a garantire la libertà e l’autonomia dei cittadini. Ci permettiamo di illustrare in estrema sintesi questa avvertenza nei tre ambiti, i cui effetti sulla povertà sono peraltro estremamente interconnessi (un buon welfare, senza un buon lavoro, rischia di essere inefficace, così come un buon lavoro senza un fisco equo).

            Rispetto al mercato del lavoro, i più recenti sviluppi socio-economici hanno esposto al rischio povertà (o alla caduta vera e propria nella povertà) anche famiglie in cui il lavoro è presente, spesso anche in forma “tutelata” (con contratti a tempo indeterminato). La progressiva diminuzione del potere d’acquisto delle retribuzioni e la progressiva precarizzazione delle forme di lavoro costituiscono un fattore di cui tenere conto, come dimostra la nuova categoria sociologica degli working poors, persone/famiglie sotto la soglia di povertà pur lavorando.

Rispetto al welfare, soprattutto nel nostro Paese sono molto forti gli interventi monetari di natura previdenziale e assistenziale che contrastano (o tentano di contrastare) la povertà, a partire da intenti che sono di natura diversa, come l’assegno di accompagnamento, che per molti nuclei familiari svolge la funzione di risorsa monetaria irrinunciabile contro la povertà, anziché la funzione (appropriata) di “garanzia di pari opportunità/riequilibrio” a fronte di un oggettivo svantaggio. L’origine “lavoristica” di tanto nostro welfare genera inoltre condizioni di disparità ancora troppo forti (ad esempio il grado di protezione previdenziale/assicurativa tra lavoro dipendente e lavoro irregolare – vedi ad es. i congedi parentali).

 Rispetto all’equità fiscale, il nostro Paese presenta fortissime condizioni di non appropriatezza e di disuguaglianza: troppo disparità tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, troppa evasione ed elusione fiscale, e soprattutto troppa indifferenza alla dimensione familiare nel misurare la ricchezza. Oggi nel nostro Paese la fiscalità non vede i carichi familiari, e genera iniquità sulle famiglie con figli. Questo dato è ampiamente documentato dai dati ISTAT (vedi tabelle allegate), dove a fronte di una percentuale di famiglie sotto la soglia di povertà relativa pari al 12,6% (2013), la percentuale di famiglie in povertà relativa con 5 membri sale a 34,6% (una su tre), e quella per le famiglie con 3 figli o più è 32,9% (tabella 1). Quasi tre volte tanto, e una famiglia su 3, se ha tre figli, è sotto la soglia di povertà.  Anche i dati sulla povertà assoluta (tabella 2) confermano la drammatica situazione delle famiglie con 3 figli o più: la percentuale di famiglie con oltre il 20% sotto la povertà assoluta (senza reddito per soddisfare i bisogni primari!) sono quelle con 5 membri, quelle con 3 figli, quelle con 3 figli minori. Una famiglia su 5, all’arrivo del terzo figlio, cade in povertà assoluta. E’ oggettivo che il fisco nel nostro Paese non protegge queste famiglie dalla povertà, e certamente servirebbe un intervento fiscale preventivo di equità, ben prima di un intervento riparativo di protezione dalla povertà (reddito di cittadinanza o simili).

Il dato sulla povertà relativa si aggrava in modo drammatico nel Mezzogiorno, dove una famiglia con tre figli è povera nel 45,6% dei casi (una su due). Quest’ultimo dato richiama un’ultima questione, che riguarda il permanere di un intollerabile “differenziale territoriale”, che vede eccessivi squilibri nelle opportunità e nelle criticità tra i diversi territori, non solo rispetto alla “questione meridionale”, tornata di particolare attualità, ma anche all’interno dei vari contesti territoriali, con sacche locali di marginalità spesso collegati anche a minori funzionalità della pubblica amministrazione.

            Non è qui il caso di approfondire le implicazioni di questa premessa; ci permettiamo però di sottolineare che una fiscalità più equa rispetto ai carichi familiari, come ormai da diversi anni richiediamo a Governo e Parlamento (sinceramente con scarso ascolto), anche con lo specifico modello del FattoreFamiglia, avrebbe nel nostro Paese un indubbio e immediato effetto di protezione/prevenzione dalla povertà, soprattutto per alcune tipologie di famiglie che proprio per i carichi familiari diventano a rischio di povertà, o “povere” a pieno titolo. Proprio perché il nostro fisco è pressoché totalmente incapace di “equità orizzontale” (a parità di reddito, tra carichi familiari differenti).

2. Alcuni principi di carattere generale sul reddito minimo/di cittadinanza

Evitare la trappola della povertà. Anche nelle più recenti indagini europee viene sottolineato il perdurante rischio che un meccanismo troppo automatico e non condizionato di sussidi possa rinchiudere i beneficiari nella “trappola della povertà”, dinamica secondo cui è conveniente non lavorare (non essere attivi) per ricevere un sussidio, anziché impegnarsi in modo proattivo alla ricerca di un proprio autonomo reddito. Se l’assegno è troppo elevato, se non esistono termini temporali o efficaci e meccanismi periodici di verifica dei requisiti, se non si innesta un “contratto di reciprocità” tra beneficiario e pubblica amministrazione, il rischio di deriva assistenzialistica è molto rilevante.

  • I titolari. Il principio dell’universalismo del diritto alla protezione contro il rischio povertà è condivisibile, e una delle modalità possibili per affermarlo tale è inserirlo tra i “livelli essenziali” di assistenza sociale. Tuttavia la perdurante resistenza dei vari Governi a definire tali livelli in ambito socio-assistenziale (rispetto all’ormai consolidato modello dei LEA sanitari) non sembra garantire questo sistema. Forse occorre vagliare i limiti di età minima e di età massima per essere beneficiari, e distinguere il reddito minimo da altre politiche (per gli anziani una previdenza adeguata, per i giovani politiche proattive).
  • Destinatari ed entità dell’assegno. Sia che la titolarità del diritto al reddito sia individuale, sia che venga attribuita al nucleo familiare (in Europa esistono diversi modelli, anche se prevale in genere il criterio individuale), l’entità dell’assegno deve assolutamente essere commisurata ai carichi familiari, secondo scale di equivalenza appropriate. La povertà oggi in Italia è, infatti, fortemente legata ai carichi familiari (numero di figli, persone con disabilità, situazioni familiari particolari e via dicendo).

Qualche dubbio sorge, a questo proposito, sullo strumento utilizzabile sia per la titolarità (misurare chi è povero), sia per l’entità dell’assegno. L’applicazione del nuovo Isee e il suo impatto di equità rispetto ai carichi familiari è, infatti, ancora tutto da verificare e rischia di moltiplicare eventuali malfunzionamenti: nell’equilibrio tra redditi e patrimonio, nell’appropriatezza sui carichi familiari, nell’inclusione o esclusione dei sostegni monetari assistenziali, come la recente sentenza del Tar del Lazio ha evidenziato in tema di disabilità, accogliendo, sia pur parzialmente, un ricorso contro il nuovo Isee di alcune associazioni di disabili. Certamente la scala di equivalenza adottata nel nuovo Isee, pur con i correttivi previsti, è insufficiente ad indicare la ‘ricchezza’ di una famiglia in relazione ai carichi familiari. In allegato si riporta la scala di equivalenza del FattoreFamiglia. In merito alla quantificazione dell’assegno, l’indicazione prevalente a livello europeo che fissa l’assegno per un single al 60% del reddito mediano familiare andrebbe approfondita: troppe persone oggi hanno redditi annui da lavoro pari o di poco superiori a quanto riceverebbero dal reddito di inserimento (tra i 9.000 e i 10.000 Euro). Virtuose ed eque sono quindi quelle proposte che modulano in modo significativo l’assegno ai carichi familiari. In ogni caso è da tener ben presente che lo strumento non dovrà avere un ammontare tale da ‘invitare’ giovani, disoccupati o comunque in generale i beneficiari a rinunciare a cercare un’occupazione.

  • Natura e durata. Non fissare limiti di durata al diritto di sostegno economico (in effetti scelta prevalente, ma non unica, a livello europeo) appare connesso alla già ricordata deriva assistenziale della misura (“trappola della povertà”). Meglio sarebbe un sistema a termine (24 mesi, ad esempio, rinnovabile per altri 12 al massimo), e comunque ipotizzando rigorosi meccanismi di verifica periodica. In effetti, questo si collega direttamente all’idea che la protezione dal rischio povertà non può limitarsi ad un sostegno monetario, ma deve innescare un ventaglio di servizi e sostegni, preferibilmente orientati a far uscire la persona dalla situazione di bisogno. Giusto è quindi ipotizzare un “servizio di riferimento”, un istituto/servizio/sportello cui il beneficiario deve riferirsi per ricevere offerte di lavoro, per la verifica dei requisiti, per i percorsi formativi/informativi, ecc. Ragionevole è però domandarsi se l’attuale rete dei Centri per l’impiego sia in grado di assolvere a tale progettualità promozionale (e non solo ispettiva).
  • Sostegno in cambio di prestazioni, e in vista del lavoro. In molti Paesi si collega in modo quasi univoco l’assegno a percorsi formativi e di reinserimento lavorativo. Questo è un processo virtuoso, da rendere obbligatorio per tutte le persone in condizione lavorativa; qui appare ragionevole, e auspicabile, pur con tutte le protezioni della dignità del lavoro, il vincolo di dover rispondere positivamente alle offerte di lavoro ricevute (con un limite di 2-3 offerte su cui dover scegliere), in modo “sufficientemente flessibile”.

Si suggerisce inoltre di prevedere, in tutti questi casi, un rigoroso obbligo formativo di riqualificazione professionale, nella fase iniziale di inserimento nello schema di reddito di cittadinanza, valorizzando i sistemi di formazione professionale (almeno tre settimane, con un impegno orario intensivo, non meno di 30 ore settimanali, con presenza obbligatoria, almeno per 3-4 settimane).

Tuttavia è ragionevole ipotizzare che l’assegno possa e debba essere erogato anche a persone per cui non è realistico ipotizzare un reinserimento lavorativo, sia pure protetto. Per questo occorre valorizzare ove possibile il reinserimento lavorativo, ma anche ipotizzare altri meccanismi di “responsabilizzazione”.

In particolare si propone di prevedere un vero e proprio “contratto di reciprocità”, in cui per ogni persona si possano esplicitare gli impegni possibili, e in caso di impossibilità di rientro nel mercato del lavoro immaginare azioni di “generazione/restituzione di capitale sociale” (non solo lavoro retribuito, ma azioni di dono/volontariato, partecipazione a percorsi formativi, ad attività di centri di aggregazione, ecc.).

  • Modalità di gestione. La scelta tra livello nazionale e locale è complessa, e presenta pregi e difetti in ogni sua alternativa. Ci pare più appropriato un sistema di gestione decentrato, plurale e prossimo ai potenziali beneficiari che sia in sintonia con un modello innovativo di welfare locale plurale e sussidiario (vedi il progetto REIS, dell’Alleanza contro la Povertà), che ipotizza un sistema di finanziamento e di definizione di regole nazionali, ma che affida a Comuni/enti locali e collaborazione con il privato-sociale organizzato la gestione dei percorsi individuali. Si ipotizza quindi un sistema misto, che utilizzi appieno sia banche dati e soggetti nazionali (criteri universalistici nazionali e omogenei, così come dovrebbero essere i sistemi di monitoraggio-verifica), ma anche una gestione a livello di comunità locale, con tutti gli attori sociali.
  • Sostenibilità finanziaria. La copertura economica di questa misura varia ovviamente in modo considerevole in funzione delle scelte precedentemente problematizzate (platea dei destinatari, durata, dimensione familiare). In merito si sottolineano solo due elementi: questo intervento integra il sistema di welfare attuale, in parte riorganizzando e razionalizzando precedenti misure. Occorre quindi prevedere una copertura in parte legata ad un diverso utilizzo delle risorse di spesa sociale, ma anche prevedendo un ampliamento delle risorse a partire da altre voci della spesa pubblica, quali la fiscalità generale, il riorientamento di qualche accisa sulla benzina o altre tasse di scopo, una nuova possibile tassa di scopo (ad esempio contributo di solidarietà dalle pensioni d’oro, specifici tagli ai costi della politica, ecc.). Condividiamo anche in questo caso la riflessione contenuta nel documento di presentazione del REIS, dove si afferma che “non è prioritario indicare le fonti, perché prima di tutto si tratta di un’opzione politica”.

Il costo della misura va conteggiato garantendo i costi vivi di erogazione degli assegni, ma riservando anche una quota rilevante (almeno un terzo dell’impegno complessivo) ai servizi integrativi di accompagnamento. Altrimenti, senza reali ed efficaci strumenti di accompagnamento e di verifica, si rischia di ridurre questa misura ad un mero “obolo di assistenza contro la povertà”, anziché valorizzarlo come strumento propositivo di uscita dalla povertà e dalla marginalità sociale.

            Roma, 25 marzo 2015                      Inviato con tabelle il 9 giugno 2015  www.forumfamiglie.org

www.senato.it/Leg17/3680?current_page_40471=2

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FRANCESCO VESCOVO di Roma

No a concezione riduttiva matrimonio, promuovere famiglia.

 “Promuovere la famiglia, dono di Dio per la realizzazione dell’uomo e della donna e quale cellula fondamentale della società”, di fronte a una “concezione riduttiva” del matrimonio che causa anche tra i cristiani “una facilità nel ricorrere al divorzio o alla separazione di fatto”. Questa una delle raccomandazioni del Papa nel discorso consegnato questa mattina ai vescovi di Lettonia ed Estonia, ricevuti in “visita ad limina”.

Famiglia, cellula fondamentale in una società insidiata da relativismo e secolarismo. “La famiglia, luogo dove si impara a convivere nella differenza”, va promossa. E’ la ferma convinzione espressa dal Papa ai vescovi di Lettonia ed Estonia attivi “in una società a lungo oppressa da ideologie contrarie alla dignità e alla libertà umana” e oggi di fronte ad “altre pericolose insidie, quali secolarismo e relativismo”: la famiglia – spiega Francesco – è “dono di Dio per la realizzazione dell’uomo e della donna creati a sua immagine e “cellula fondamentale della società”.

Concezione riduttiva e relativista del matrimonio causa divorzio e separazioni. Oggi, constata il Santo Padre, il matrimonio è spesso considerato una forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno; “tale concezione riduttiva – evidenzia il Pontefice – influisce anche sulla mentalità dei cristiani, causando una facilità nel ricorrere al divorzio o alla separazione di fatto”. Di qui l’invito ai presuli ad interrogarsi sulla preparazione dei giovani fidanzati e ad assistere queste situazioni, “affinché i figli non ne diventino le prime vittime e i coniugi non si sentano esclusi dalla misericordia di Dio” .

Necessaria attenzione pastorale a famiglie monoparentali. Il Papa chiede attenzione pastorale anche nei confronti delle tante famiglie monoparentali presenti in Lettonia ed Estonia a causa di una crisi economica che ha favorito l’emigrazione. “L’assenza del padre o della madre – spiega Francesco ai presuli – comporta per l’altro coniuge una maggiore fatica, in tutti i sensi, per la crescita dei figli”. I vescovi non sono soli nel loro compito: il Pontefice indica i sacerdoti al loro fianco, bisognosi di formazione “sul piano della preparazione teologica e della maturità umana”. Preziosa anche la presenza dei consacrati: “non li si apprezza solo per i servizi che rendono – rileva il Santo Padre- ma prima ancora per la loro presenza che diffonde “in mezzo al popolo di Dio il profumo di Cristo”.

Laici chiamati ad assumere responsabilità nella Chiesa e nella società. Indispensabile inoltre il coinvolgimento dei laici, “chiamati ad assumere responsabilità” nella Chiesa e nella società e ad approfondire la conoscenza della dottrina sociale della Chiesa. “I fedeli laici – conclude il Papa – sono il tramite vivo tra ciò che noi Pastori predichiamo e i diversi ambienti sociali. Sentano vicino il cuore della Chiesa!”                   Paolo Ondarza                            Bollettino radiogiornale radio vaticana 11 giugno 2015

            http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

testo ufficiale      http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/june/documents/papa-francesco_20150611_adlimina-lettonia-estonia.html

Differenza uomo donna fa crescere figli.

Le differenze tra uomo e donna fanno crescere i figli. Le famiglie reagiscano alla colonizzazione ideologica. Così il Papa aprendo in una piazza S. Pietro gremita da 20mila fedeli, il Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma. Francesco ha parlato a braccio a catechisti, sacerdoti, operatori pastorali e soprattutto ai genitori, alla cui responsabilità educativa e evangelizzatrice il Convegno è dedicato. “Seminate amore” – ha raccomandato ai genitori – “ e ricordate che i figli sono sacri”.

            Una grande gioia esplode in piazza S. Pietro quando il Papa e vescovo di Roma raggiunge il sagrato della Basilica fermandosi più volte con l’auto per stringere le mani e abbracciare i bambini. A salutarlo è la sua diocesi, “che” dice il cardinale vicario Agostino Vallini, ”da anni attua una pastorale in uscita. Ora ci appassiona la sfida di trasmettere la fede alle nuove generazioni a partire dai genitori”.

            Ed è a loro, che il Papa si rivolge prendendo la parola, dopo l’invocazione allo S. Santo. Proseguiamo insieme, afferma, sul cammino di trasmissione della fede di cui questa città ha tanto bisogno per una “rinascita morale e spirituale”: “La nostra città deve rinascere moralmente e spiritualmente, perché sembra che tutto sia lo stesso, che tutto sia relativo; che il Vangelo è sì una bella storia di cose belle, è bello leggerlo, ma rimane lì, un’idea.”

E’ un impegno grande specie pensando agli adolescenti che si trovano ad affrontare “le colonizzazioni ideologiche che avvelenano l’anima e la famiglia”: “Queste colonizzazioni ideologiche, che fanno tanto male e distruggono una società, un Paese, una famiglia. E per questo abbiamo bisogno di una vera e propria rinascita morale e spirituale.”

            Su tre parole semplici, circa il mistero di essere genitori, Francesco si sofferma.

  1. La prima è la vocazione: perché diventare papà e mamma, dice, è una chiamata di Dio “ad amarsi totalmente e senza riserve, cooperando con Dio in questo amore e nel trasmettere la vita ai figli.”: “Il Signore vi ha scelti per amarvi e trasmettere la vita. Queste due cose: la vocazione dei genitori. Questa è una chiamata bellissima perché ci fa essere, in modo del tutto speciale ad immagine e somiglianza di Dio. Diventare papà e mamma significa davvero realizzarsi pienamente, perché è diventare simili a Dio”. Chiamati dunque ad amarsi e a credere nella bellezza dell’amore: è questo che i vostri figli guardano, ammonisce il Papa, non lo dimenticate: “Per un figlio non c’è insegnamento e testimonianza più grande che vedere i propri genitori che si amano con tenerezza, si rispettano, sono gentili tra di loro, si perdonano a vicenda: ciò che riempie di gioia e di felicità vera il cuore dei figli. I figli, prima di abitare una casa fatta di mattoni, abitano un’altra casa, ancora più essenziale: abitano l’amore reciproco dei genitori”.
  2. La seconda parola su cui riflettere è comunione. “Essere genitori”, ricorda Francesco, “si fonda nella diversità biblica di essere maschio e femmina: “Questa è la ‘prima’ e più fondamentale differenza, costitutiva dell’essere umano. E’ una ricchezza. Le differenze sono ricchezze. C’è tanta gente che ha paura delle differenze, ma sono ricchezze”. Una diversità che diventa complementarietà e reciprocità, sottolinea Francesco, che fa crescere i coniugi, ma soprattutto matura i figli: “Figli maturano vedendo papà e mamma così; maturano la propria identità in confronto con l’amore che hanno papà e mamma, in confronto con questa differenza”. Una diversità che va custodita, avverte il Papa, ma, se dovesse trasformarsi in tensione, dice, dovete chiedere aiuto innanzitutto a Dio e poi “se la separazione sembra inevitabile” sappiate che la “Chiesa vi porta sempre nel cuore e che il vostro compito educativo non si interrompe”. Da qui la sua preghiera:” Non usate i figli come ostaggi”: “Mai, mai parlare ai figli male dell’altro! Mai! Perché loro sono le prime vittime di questa lotta e – permettetemi la parola – anche di questo odio, tante volte, fra i due. I figli sono sacri. Non ferirli!”
  3. L’ultimo impegno che Francesco lascia ai genitori è la missione. ”Il dono del matrimonio è missione”, dice: “siete collaboratori dello Spirito Santo che ci sussurra le parole di Gesù, siatelo anche per i vostri figli”: “Essi impareranno dalle vostre labbra e dalla vostra vita che seguire il Signore dona entusiasmo, voglia di spendersi per altri, dona speranza sempre, di fronte alle difficoltà e al dolore, perché non si è mai soli, ma sempre con il Signore e con i fratelli”.

Ma le ultime parole del Papa prima delle preghiere finali e dell’affidamento alla Vergine sono rivolte ai nonni. Loro, che hanno salvato la fede in tanti Paesi dove era proibito praticare la religione, loro che insegnavano le preghiere ai bambini. Loro hanno la saggezza, non ve ne vergognate, ripete il Papa, “tenerli a casa è una ricchezza.

www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/papa-diocesi-di-roma.aspx

testo ufficiale     http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/june/documents/papa-francesco_20150614_convegno-diocesi-roma.html

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MATERNITÀ

Se la maternità diventasse prestigio.

Caro Direttore, la maternità è tutelata nel nostro Paese, sia pure con discrepanze a seconda del tipo di impiego. In molti contratti è possibile astenersi dall’attività lavorativa anche per lunghi periodi sia in gravidanza sia dopo la nascita del bambino ed avere poi agevolazioni, di orario e mansioni, alla ripresa del lavoro. Eppure la maternità non è ancora sufficientemente valorizzata. Adesso è il momento di dare prestigio alla maternità. La maternità deve diventare più prestigiosa della carica di amministratore delegato di un’azienda, più prestigiosa di prestigiosi incarichi politici. Ma non significa che chi sceglie liberamente di non essere madre o chi non riesce a diventare madre abbia meno lustro perché, finalmente, la consistenza sociale di noi donne non è più identificata con la capacità di avere figli come un tempo.

            La maternità non è solo una scelta individuale: costituisce un servizio sociale di valore incommensurabile, un oggettivo investimento sul futuro che un Paese deve valorizzare. Il nucleo profondo della nostra organizzazione sociale deve “sentire” la centralità e la priorità di questa scelta facendo sì che le donne non siano più costrette a scegliere tra il lavoro e un bambino, tra la carriera professionale e la maternità. Avere fatto un bambino dovrebbe fare avanzare la carriera non ostacolarla, dovrebbe costituire punteggio nei concorsi per il contributo offerto alla crescita sociale. La maternità dovrebbe essere remunerata e sostenuta comunque, anche per chi non ha un impiego.

            La maternità deve diventare il tema centrale della programmazione politica e della sensibilità sociale. Confidando nel ministero della Salute, che sta dimostrando sensibilità verso il tema della maternità, auspichiamo che lo Stato in tutte le sue articolazioni sappia prontamente mettere in campo precise scelte politiche, coinvolgendo scuola, famiglia, medicina di base, convogliando risorse economiche e professionali in questa direzione. Si tratta di un immenso investimento per i cittadini, di un capitolo che non trova soluzioni immediate ma passa attraverso un radicale rinnovamento culturale.

            In questo modo, dopo esserci affrancate dalla maternità “obbligatoria” del passato, potremo diventare protagoniste di una maternità davvero libera, perché prestigiosa. Libera e consapevole, capace anche di rispettare i limiti biologici della fertilità femminile che dopo i 35 anni cala inesorabilmente. Dobbiamo imparare come funziona il nostro apparato riproduttivo e a riconoscere i segnali che ci invia, dobbiamo sfatare i falsi miti che attribuiscono alla fecondazione assistita il potere di dare un bambino a tutti, a tutte le età e in qualunque condizione funzionale.

            Il desiderio di procreare e la decisione di avere o non avere un figlio, quando averlo, come averlo, con chi averlo serpeggia nella nostra esistenza, talvolta latente e inconsapevole, talaltra lucida, cosciente, pressante e dolorosa. Ma non dobbiamo cadere nella trappola della maternità ad ogni costo. E non dobbiamo cadere nella trappola dei datori di lavoro che pagano il congelamento degli ovociti per rinunciare alla maternità nell’età fertile, spacciando questa operazione come esercizio di libertà di scelta femminile e non come sottile coercizione a soggiacere a una concezione professionale che esclude la gravidanza come un accidente fastidioso e ingombrante.

            Infine ci dobbiamo affrancare dal commercio del nostro apparato riproduttivo, che costituisce una moderna forma di schiavitù femminile dove i mercanti di riproduzione “affittano” gli uteri delle donne indigenti del terzo mondo riducendole a contenitori-incubatori magari da abbandonare, a “prodotto” finito e consegnato, al loro destino di terremotate, come è successo alle nepalesi. È importante operare un capovolgimento della mentalità corrente e rileggere la maternità come bisogno essenziale sfrondato dalle strumentalizzazioni e dall’uso utilitaristico e consumistico che induce bisogni riproduttivi artificiosi. L’autrice è vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità, responsabile Centro infertilità e procreazione medicalmente assistita, Policlinico S. Orsola.

            Prof. Eleonora Porcu, professore associato in Ginecologia ed ostetricia all’Università di Bologna

Lettera al direttore               la Repubblica 01 giugno 2015

www.repubblica.it/politica/2015/06/01/news/se_la_maternita_diventasse_prestigio-115801520/

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OMOFILIA

Matrimonio gay. L’errore di unificare le varietà dell’amore.

La Costituzione italiana insegna che i diritti si tutelano riconoscendo le differenze, non negandole.

Che il matrimonio sia per lo Stato un «contratto» e solo per la Chiesa qualcosa d’altro è uno dei punti fermi della laicità. La questione, però, si può guardare anche da un altro punto di vista. La laicità non se ne abbia a male.

Per la Chiesa l’amore coniugale di un uomo e di una donna è un sacramento, ma diverso dagli altri sei. Infatti, la Chiesa non insegna che Gesù ha istituito («inventato») il matrimonio. Insegna invece che lo ha trovato ed elevato; che ha cioè riconosciuto, dentro il matrimonio, la qualità di base del sacramento. San Paolo e san Tommaso scrivono pagine straordinarie sul valore santificante dell’amore coniugale in sé. La Chiesa, insomma, non ha istituito, ma ha semplicemente riconosciuto la dignità dell’amore fedele — e non solo «contrattuale» — tra un uomo e una donna. Accetta che questo amore contenga, e che manifesti in una dimensione pubblica, una Grazia che non è stata Lei, la Chiesa, a metterci.

Non diversamente avviene per la politica. Lutero, quando volle dare al principe un potere senza limiti, contribuendo così alla nascita dello Stato moderno, affidò allo Stato una completa competenza anche sul matrimonio. Così si compì — come ha scritto John Witte — la nascita del matrimonio come «contratto». Del resto, lo Stato «assoluto» non tollerava nessuna istituzione autonoma: né quella del matrimonio, né quelle dell’università o dei mercati.

Una volta ridotto a «contratto», il matrimonio è una forma che gli individui — dopo aver accettato la «privatizzazione» della particolarità del loro amore imposta dallo Stato — riempiono di ciò che vogliono. La Chiesa che si fa regime o la politica che si fa Stato non tollerano troppa libertà per l’amore coniugale, né per l’amore in generale, a partire dall’amicizia. (De Tocqueville, venendo dall’Europa statalista, scopriva in un’America diversa la pratica dell’«amicizia civile»).

A questo punto, però, è possibile un’osservazione: molto secolare e poco laica. Questa osservazione può aiutare a capire meglio l’affermazione, certo molto dura, del cardinal Parolin (Segretario di Stato vaticano) che ha definito l’esito del referendum irlandese sul matrimonio tra persone dello stesso sesso «una sconfitta per l’umanità».

Nessun amore è mai una sconfitta. Mai, infatti, i diritti di una persona dipendono da come ama e da chi ama. La sconfitta sta, invece, nella perdita della coscienza della pluralità delle forme di amore (coniugale, amicale, genitoriale, ecc…). La sconfitta è il non saper più riconoscere, anche sul piano legale, la varietà degli amori e le loro differenze. Ciò si verifica inevitabilmente quando ad amori diversi si impone l’unica generica forma del contratto.

In realtà, non è affatto necessario contrattualizzare tutte le relazioni sociali per difendere anche al loro interno i diritti delle persone, soprattutto di quelle più deboli. Ad esempio, non dobbiamo pensare come un contratto il rapporto tra un genitore e un figlio per difendere i diritti dell’uno dagli abusi dell’altro.

Se, per un attimo, abbandoniamo il punto di vista laico, ci accorgiamo che ci sono tante forme di amore, ciascuna diversa dall’altra. Ci accorgiamo che, per difendere i diritti delle persone, non serve annullare la differenza tra le varie forme di amore. Semmai, ciò che serve è riconoscere queste differenze, come la Costituzione italiana prescrive e insegna.

Forse unioni civili che siano mere fotocopie dell’istituto del matrimonio tolgono più di ciò che danno. La Costituzione italiana insegna, infatti, a concepire la Repubblica come un insieme di tanti tipi di relazioni diverse, ciascuna con un proprio profilo istituzionale. Insegna che i diritti si tutelano meglio riconoscendo e responsabilizzando le differenze, non negandole. Questa è la via secolare, diversa dalla via laica.

Luca Diotallevi          corriere della sera     1 giugno 2015

http://spogli.blogspot.it/2015/06/corriere-1_32.html

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PARLAMENTO

Camera Assemblea Ratifica convenzione Aja protezione minori.

A.C. 1589-BConvenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale (fatta all’Aja il 19 ottobre 1996), approvato dalla Camera e modificato dal Senato.

11 giugno 2015 Discussione ed approvazione del disegno di legge di ratifica: Discussione sulle linee generali; esame articoli; dichiarazioni di voto; coordinamento formale; votazione finale).

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0440&tipo=stenografico#sed0440.stenografico.tit00090.sub00010

 2° comm. Giustizia. Adozione dei minori

                                     C. 2957 Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare, approvata dal Senato.

10 giugno 2015. La Commissione ha deliberato lo svolgimento di un’indagine conoscitiva in merito nell’ambito della quale ha avuto luogo l’audizione di rappresentanti: dell’Associazione Italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori (AIAF); dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (AIMMF); dell’Unione nazionale camere minorili (UNCM); dell’Associazione “La Gabbianella e altri animali”. La Commissione ha altresì svolto l’audizione di Arnaldo Morace Pinelli, Professore di diritto privato presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata e di Cesare Massimo Bianca, Libero docente di diritto civile.

www.camera.it/leg17/824?tipo=C&anno=2015&mese=06&giorno=10&view=&commissione=02&pagina=data.20150610.com02.bollettino.sede00020.tit00010#data.20150610.com02.bollettino.sede00020.tit00010

Senato 2° comm. Giustizia.  Disciplina delle unioni civili

S 14     Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili

11 giugno 2015 (2 sedute) Testo e discussione delle riformulazioni di alcuni emendamenti già presentati.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=925155

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=925156

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SCIENZA & VITA

Rivalorizzare la differenza sessuale per smentire l’indifferenza del gender.

 “Il riferimento all’ideologia del gender compiuto ieri da Papa Francesco è una nuova efficace denuncia di quanto avviene nella nostra società che, per promuovere una parificazione che non è parità, tende a negare quelle peculiari e naturali differenze che rendono complementari uomo e donna”, commenta Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita.

            “In nome della non discriminazione di nessuno, principio giusto e legittimo, si finisce invece per penalizzare realtà umane fondative del nostro vivere comune. Vietare la festa della mamma e del papà, sostituirli nei moduli con equivalenti numerici, promuovere corsi disturbanti sulla sessualità, veicolare teorie senza fondamento scientifico, sono solo alcuni dei mezzi con cui avanza una colonizzazione ideologica mascherata da progetti libertari.”

             “Tempo fa il Pontefice aveva già fatto riferimento alle possibili motivazioni che hanno spinto i modelli ideologici del gender a svilupparsi così rapidamente: forse è la difficoltà ad impostare le relazioni fra i sessi a creare quel clima “di frustrazione e di rassegnazione”, su cui si è insinuato “quella confusione, quello sbaglio della mente”. Oggi la questione si è fatta ancora più urgente e pressante e ci interpella a vari livelli: nella concretezza del dover porre un argine attivo a questa situazione, guardiamo con attenzione e simpatia ai movimenti di cittadini che si stanno organizzando in questa direzione.”

Comunicato n. 185                            9 giugno 2015

www.scienzaevita.org/rivalorizzare-la-differenza-sessuale-per-smentire-lindifferenza-del-gender

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SINODO SULLA FAMIGLIA

Contributo al Sinodo sulla famiglia: liberate la speranza.

Il tema della speranza è stranamente assente da questo sinodo, benché a me sembri la sua principale posta in gioco. Non è forse la missione primaria della Chiesa quella di aprire un cammino di speranza nel cuore di tutte le situazioni familiari per quanto diverse, complesse ed eterodosse possano essere?

Ma se ci riflettiamo, questa assenza non stupisce. Anche se la parola viene usata, è senza dubbio per nascondere meglio l’incapacità della Chiesa a testimoniarla effettivamente: moltiplicare le condizioni per accedere ai sacramenti non è forse il modo migliore per occultare ciò di cui sono invece il segno, cioè la speranza nell’amore incondizionato di Dio?

Si moltiplicano le prese di posizioni pubbliche divergenti da quelle del papa e provenienti da esponenti della gerarchia cattolica. Hanno lo scopo di instaurare un rapporto di forza preliminare ai dibattiti del sinodo, per circoscriverne e dominarne per quanto possibile la portata. Portano a tralasciare l’oggetto stesso del sinodo che è appunto quello della testimonianza e della speranza. Queste iniziative, sorte non certo per caso, hanno lo scopo di limitare i dibattiti ad uno scontro frontale tra i sostenitori della possibilità di tener conto della realtà e i guardiani del tempio della dottrina.

La speranza è prigioniera della struttura del linguaggio della Chiesa, che contribuisce a falsare il dibattito, riducendolo ad un’opposizione sterile tra dottrina e pastorale. Per garantire l’intangibilità della dottrina, si pensa prima di tutto di cavarsela ampliando il più possibile le possibilità di riconoscimento di nullità del matrimonio. Siccome questo è insufficiente, si pensa ancora di poter conciliare intangibilità della dottrina e apertura pastorale parlando di misericordia, prevedendo eventuali “percorsi di penitenza”, come se ogni fallimento fosse obbligatoriamente imputabile ad una colpa.

La speranza è anche prigioniera della cultura della Chiesa, nel suo modo di intendere ed affrontare il reale. Prendere come punto di partenza un ideale, spesso derivato da una costruzione teologica astratta più che da reali fonti scritturali, a cui si ritiene che la vita concreta debba sempre conformarsi senza alcuna possibilità di riuscirvi, non è certo il modo più appropriato per farsi comprendere dagli uomini e dalle donne di questo tempo. Tale concezione porta obbligatoriamente a pensare ogni fallimento come una colpa. Ma il fallimento non è sempre imputabile a una colpa. E anche quando la colpa esiste, non è essa la sola, né sempre la più determinante delle cause di tale fallimento. La cultura della Chiesa non tiene conto né del peso delle strutture sociali, né del ruolo dell’inconscio, né di alcuno dei limiti strutturali che circoscrivono concretamente e determinano in gran parte i nostri comportamenti.

La speranza, infine, è prigioniera dell’idea che la Chiesa si fa di se stessa. Basta ascoltare ad esempio il prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, la cui linea è senza dubbio uno degli elementi rivelatori più emblematici del modo con cui la Chiesa pensa se stessa. Nessuno può certo negare la profondità e la finezza del suo discorso, ma si nota che esso funziona nel modo seguente: si può accedere all’intelligenza della fede solo se si pone come presupposto la credenza nel fatto che la Chiesa è l’unica detentrice della verità. La credenza nella Chiesa viene per forza prima dell’accesso al contenuto del messaggio evangelico di cui essa è detentrice. Mi sembra che questo sia il principale impedimento alla possibilità che la Chiesa annunci concretamente il messaggio di speranza del Vangelo: gli uomini e le donne di oggi hanno accesso a quel messaggio solo se preliminarmente hanno passato la frontiera che è l’atto di fede nella sua istituzione. Fuori dalla Chiesa istituzione non c’è salvezza, un postulato ancora attuale. Ma, per le nostre mentalità moderne, l’adesione passa innanzitutto dalla ragione: la comprensione del senso precede la credenza nel messaggero. Gli sforzi di Benedetto XVI per riconciliare fede e ragione si sono scontrati con il fatto che per la Chiesa la fede nell’istituzione precede sempre la ragione.

La Chiesa immagina se stessa come una fortezza la cui unica entrata è la stretta postierla della fede nella sua istituzione; controllata da doganieri zelanti, dissimula dietro le sue mura teologiche e dogmatiche la speranza di cui intende essere guardiana, mentre, di fatto, se ne rivela carceriera. Non ci possiamo aspettare dall’istituzione ecclesiale che si metta in discussione e si riformi di propria iniziativa. Questo è impossibile, dato che la maggioranza di coloro che la compongono sono stati scelti per la loro capacità di difendere la fedeltà a ciò che essa è. Alcuni, più consapevoli malgrado tutto, cercano con il papa di venir fuori da questa trappola in cui la Chiesa si è rinchiusa, ma il peso delle strutture li fa assomigliare a dei nuovi Sisifo.

La sola possibilità di aprire una breccia nei muri della fortezza sta nel tener conto dello sguardo esterno al magistero, costitutivo di buon diritto della Chiesa, che è quello dei battezzati, del popolo di Dio. Per fortuna, la legittimità della sua espressione si inscrive nella Tradizione della Chiesa. Si chiama “sensus communis fidelium”, quello che oggi è maggiormente in grado di essere in sintonia con “le gioie e le speranze” degli uomini e delle donne di questo tempo. Perché la legittimità dell’espressione del popolo di Dio si concretizzi, bisogna certo ripensare i ruoli di ciascuno nella Chiesa e rivedere la sua governance: democrazia, collegialità, sussidiarietà, equilibrio dei poteri tra magistero, teologi e battezzati. La prima tappa è certamente il riconoscimento della legittimità di un diritto di parola per i battezzati all’interno della Chiesa.

Se non ci sarà, il Sinodo della famiglia, indipendentemente da ciò che se ne spera, si ridurrà ad una discussione sulle modalità di entrata nella fortezza: se si debba ampliare la porta d’entrata (evoluzione della dottrina) o soltanto rendere meno rigide le disposizioni date ai doganieri che ne controllano la soglia (apertura pastorale). Queste due ipotesi non sono di alcun interesse perché non permettono di rispondere alla sola domanda che conta: come la Chiesa raggiunge ognuno di noi in un momento dato della nostra storia per esprimergli concretamente la speranza che Dio pone in ciascuno di noi, cioè la nostra capacità a rispondere al suo amore incondizionato indipendentemente dalla nostra situazione personale, familiare o coniugale concreta, e dalla forma giuridica che essa riveste. Solo così potremo cominciare a liberare la Speranza.

Gershom Leibowicz   www.baptises.fr” dell’11 giugno 2015

traduzione:                                        www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage

Roma ha parlato, ma la causa non è finita.

            “La Civiltà Cattolica” ha dettato agenda e conclusioni del prossimo sinodo sulla famiglia. Ma le cose potrebbero andare molto diversamente. Ultimi aggiornamenti da Francia, Germania, Argentina

L’intervista del gesuita Antonio Spadaro al teologo domenicano Jean-Miguel Garrigues, sull’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica”, continua a far discutere.

newsUCIPEM n. 548 – 31 maggio 2015 pag. 21

www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=330:newsucipem-n-548-31-maggio-2015&catid=84&Itemid=231

            “La Civiltà Cattolica”, infatti, non è una rivista qualsiasi. È stampata ogni volta con il previo controllo delle autorità vaticane, in alcuni casi fino al grado più alto. E il suo direttore Spadaro vanta una prossimità molto forte a papa Francesco.

            Hanno quindi particolarmente colpito sia la perentorietà con cui Spadaro e Garrigues hanno dettato l’agenda del prossimo sinodo sulla famiglia: “Spetta al sinodo e al Santo Padre dire fino a che punto la Chiesa può spingersi per aiutare casi particolari di naufraghi del matrimonio in una linea di indulgenza e clemenza”.

            Sia la sbrigatività con cui ne hanno prospettato le possibili conclusioni.

            In almeno due “casi particolari”, infatti, la rivista ha esplicitamente optato per la comunione ai divorziati risposati. Suscitando l’immediata reazione di un altro teologo domenicano, che ha smontato su entrambi i punti gli argomenti del confratello Garrigues:

            Sinodo. Due gesuiti e due domenicani a duello. Delle due eccezioni al divieto della comunione ai divorziati risposati proposte da “La Civiltà Cattolica” la più istruttiva è la prima, perché è da tempo anche la più frequentemente adottata nella pratica pastorale.

Padre Garrigues l’ha formulata così: “Penso ad una coppia della quale un componente è stato precedentemente sposato, coppia che ha bambini e ha una vita cristiana effettiva e riconosciuta. Immaginiamo che la persona già sposata abbia sottoposto il precedente matrimonio a un tribunale ecclesiastico che ha deciso per l’impossibilità di pronunciare la nullità in mancanza di prove sufficienti, mentre loro stessi sono convinti del contrario, senza avere i mezzi per provarlo. Sulla base delle testimonianze della loro buona fede, della loro vita cristiana e del loro attaccamento sincero alla Chiesa e al sacramento del matrimonio, in particolare da parte di un padre spirituale esperto, il vescovo diocesano potrebbe ammetterli con discrezione alla penitenza e all’eucaristia senza pronunciare una nullità di matrimonio”.

            E così gli ha replicato il confratello teologo: “È come dire che se degli esperti in materia, che vi dedicano molto tempo, non sono riusciti a individuare la prova della nullità del vincolo, allora il vescovo, che non è uno specialista in campo matrimoniale, nella sua anima e in coscienza, potrà far affidamento dopo uno o due colloqui sulla buona fede degli sposi e sull’attestazione della loro guida spirituale. “Si risponderà: ‘Ma il loro matrimonio è nullo’. In questo caso, se lo è veramente, perché non sposarli? E perché agire in segreto, con riservatezza? Perché si hanno dei dubbi? E se non li si sposa, in che cosa il fatto che il loro primo matrimonio sia nullo cambierà il fatto che essi vivono assieme senza essere legittimamente sposati con un legame sacramentale? In che cosa ciò apre loro l’accesso all’assoluzione a all’eucaristia? “Quando degli sposi alla fine si rivolgono ai tribunali ecclesiastici (quando lo fanno…) è perché pensano che vi sia un qualche fondamento alla nullità del loro vincolo, è perché sono convinti nella loro anima e coscienza che il loro matrimonio sia nullo. E se il tribunale non dà loro ragione, ne saranno per questo persuasi? Dunque tutti coloro che si rivolgono ai tribunali ecclesiastici potranno dire che in coscienza il loro matrimonio è nullo, e il vescovo potrà assolverli tutti e autorizzare tutti a comunicarsi. “Non resterebbe a quel punto che chiudere i tribunali, sostituiti dai vescovi, e persino le chiese, poiché anche un semplice matrimonio civile produrrebbe gli effetti di un matrimonio sacramentale”.

            Ciò che è interessante notare è che questo stesso “caso particolare” ora illustrato da “La Civiltà Cattolica” era già stato fatto oggetto d’esame da parte del magistero della Chiesa – con esito negativo – nella “Lettera circa la comunione eucaristica ai fedeli divorziati risposati” pubblicata nel 1994 dalla congregazione per la dottrina della fede. Nel ripubblicare in forma di libro nel 1998 questa stessa lettera, la congregazione l’aveva corredata di un’introduzione dell’allora suo cardinale prefetto Joseph Ratzinger e dei commenti dei cardinali Dionigi Tettamanzi e Francesco Pompedda.

            Pompedda, un illustre canonista che godeva di alta stima anche in quel Gotha del progressismo che è la “scuola di Bologna”, aveva messo in evidenza come il diritto canonico e la prassi giudiziaria della Chiesa non consentano di contrapporre il foro interno al foro esterno, ma nemmeno trascurino le convinzioni di coscienza dei fedeli, tant’è vero che ammettono come prova sufficiente di nullità di un matrimonio anche “le sole dichiarazioni delle parti, naturalmente ove tali dichiarazioni offrano garanzia di piena credibilità”.

            E Tettamanzi, specialista in teologia della famiglia, aveva anche lui respinto, facendosi forte dell’enciclica dottrinale di Giovanni Paolo II “Veritatis splendor“, la “stortura” di attribuire alla sola coscienza “ogni potere di decisione sulla base della propria convinzione”. Oggi l’anziano cardinale Tettamanzi ha ritrattato quelle sue posizioni, stando a quanto ha scritto in un suo libretto di quest’anno dal titolo: “Il Vangelo della misericordia per le famiglie ferite”, edito dalla San Paolo, nel quale definisce “plausibile” dare la comunione ai divorziati risposati. Ma questo è solo un ennesimo segnale di come su questa materia tutto nella Chiesa sia stato rimesso in discussione, anche ciò che sembrava definitivamente stabilito fino all’elezione a papa di Jorge Mario Bergoglio.

La discussione in Francia. Particolarmente vivace, in questi giorni, è la discussione che avviene nell’area franco-tedesca, quella dove la corrente innovatrice ha le sue punte più avanzate. Sull’altra sponda rispetto al summit a porte chiuse convocato il 25 maggio nella Pontificia Università Gregoriana di Roma dai presidenti delle conferenze episcopali di Germania, di Francia e di Svizzera assieme ad alcune decine di esperti, tutti accesi fautori di cambiamenti in materia di divorzio e omosessualità, sono almeno due i vescovi di queste stesse regioni che sono usciti ultimamente allo scoperto in argomentata difesa della dottrina e della prassi tradizionali del matrimonio.

            In Francia è intervenuto il vescovo di Ajaccio, Olivier de Germay, sul quotidiano cattolico “La Croix”: > Divorcés remariés: la fidélité est-elle possible? De Germay è stato eletto dalla conferenza episcopale francese come primo uomo di riserva nel caso in cui uno dei suoi quattro delegati al prossimo sinodo debba essere sostituito. Ma non è escluso che a Roma ci vada comunque, poiché tra i quattro eletti ce n’è uno, il cardinale di Parigi André Vingt-Trois, che è già membro di diritto del sinodo, in quanto suo copresidente. Nel suo intervento su “La Croix” De Germay richiama l’attenzione soprattutto sulla generale perdita di significato dell’eucaristia come sacrificio, che sommata alla comunione ormai fatta indiscriminatamente da tutti i fedeli ha reso incomprensibile il partecipare all’eucaristia senza comunicarsi. Quando invece proprio “il desiderio della comunione” consentirebbe ai divorziati risposati di scoprire e testimoniare il senso profondo dell’eucaristia nella vita di ciascuno, così che “lungi dall’essere una punizione, il fatto di non comunicarsi diventi una missione”.

            Nell’area francofona un’altra cittadella di resistenza a cambiamenti sostanziali della dottrina e della prassi in materia di matrimonio e omosessualità è costituita dai teologi domenicani della rivista “Nova et Vetera” stampata a Friburgo, in Svizzera: Sinodo. La proposta di una “terza via”

            Ma come si è visto nella polemica innescata da “La Civiltà Cattolica”, tra i seguaci francofoni di san Domenico sono ben presenti e attivi anche i sostenitori del cambiamento. È domenicano e francese, ad esempio, il vescovo di Algeri, Jean-Paul Vesco, che in un volumetto edito recentemente in Italia da Queriniana, dal titolo “Ogni vero amore è indissolubile”, teorizza l’esigenza di non mettere in relazione esclusiva l’indissolubilità e il matrimonio sacramentale, consentendo ai divorziati risposati di ottenere perdono e fare la comunione. Vesco rappresenterà i vescovi algerini al sinodo dell’ottobre prossimo. E sarà quindi uno dei pochissimi vescovi africani – forse non più di due: l’altro è Gabriel C. Palmer-Buckle, del Ghana – favorevoli a dei cambiamenti.

            In Germania. Non meno animata è la discussione in corso in Germania, cioè nell’occhio del ciclone.

Qui il più battagliero dei vescovi impegnati in difesa della tradizione è il giovane presule di Passau, Stefan Oster. Il suo ultimo, robusto intervento è uscito inizialmente, in tedesco, sul sito web della diocesi, ma è ora leggibile anche in francese sul numero di giugno del mensile “La Nef”: > L’oubli de Dieu et la sexualité. Il nocciolo dell’argomentazione di Oster è espresso fin dal titolo, “perché là dove Dio non esiste più, alla fine tutto è permesso, per riprendere una formula provocatoria di Dostoievski”. Questo è ciò che accade – egli osserva – anche nel campo della sessualità: “là dove Dio è dimenticato non c’è più riferimento ultimo come criterio decisivo di verità”. E quindi, in questi tempi così fortemente marcati dall’eclisse di Dio, prima ancora di enunciare dei principi morali è decisivo ritrovare “un Dio che ci ama e che proprio per questo non è indifferente alla nostra maniera di vivere, particolarmente in quanto esseri sessuati”.

            C’è una forte consonanza tra queste riflessioni del vescovo di Passau – come pure del vescovo di Ajaccio – e quelle del cardinale guineano Robert Sarah, prefetto della congregazione per il culto divino, anche lui molto impegnato nel dibattito sinodale e fresco autore di un libro dal titolo emblematico: “Dieu ou rien”, Dio o niente: > Un papa dall’Africa nera. Ciò che più distingue questi interventi è il loro andare in profondità, alle radici ultime delle questioni.

            Ed è ciò che accade, ad opera di alcuni autori, anche nella critica delle tesi di Walter Kasper, cioè del cardinale e teologo che su mandato di papa Francesco ha aperto ufficialmente l’attuale discussione sul matrimonio e la sessualità, con la relazione d’apertura al concistoro cardinalizio del febbraio 2014. C’è ad esempio, nell’area di lingua tedesca, una critica alle tesi di Kasper che è stata formulata una prima volta il 4 novembre 2014 all’istituto filosofico-teologico “Benedikt XVI-Heiligenkreuz” di Vienna dal professor Thomas Heinrich Stark, ma che da qualche settimana circola anche tradotta integralmente in inglese, a disposizione di un pubblico più vasto:  Historizität im Denken Walter Kaspers und der Einfluß des deutschen Idealismus.

            Al fine di comprendere e valutare le posizioni di Kasper in ordine al sinodo sulla famiglia, Stark ha scelto, infatti, di andare alle radici filosofiche del pensiero del cardinale, da lui individuate soprattutto nel suo saggio del 1972 “Einführung in den Glauben”, introduzione alla fede. “L’asse della fondazione filosofica di Kasper – sostiene Stark – è la relazione che egli istituisce tra verità e storicità”, per cui “non è la natura ma la storia la dimensione nella quale come cristiani incontriamo Dio”. Ne discende che “una fondazione della morale sulla legge naturale è impossibile”. Tutto diventa negoziabile, comprese le concezioni del matrimonio e della famiglia. E quindi tutto diventa politico. Nel discorso teologico di Kasper – conclude Stark – “il politico ha preso il posto della filosofia”.

            In Argentina. La discussione, naturalmente, non è in corso solo in Europa ma attraversa tutto il mondo cattolico. Dall’Argentina, ad esempio, questo sito ha rilanciato il mese scorso una serrata critica alle tesi di Kasper scritta da un giurista cattolico dell’arcidiocesi di Salta, José E. Durand Mendioroz: Sinodo. Una voce controcorrente dall’Argentina.

Ma sempre in Argentina si levano voci che invece sono risolutamente a favore dei cambiamenti proposti dal cardinale Kasper. Una di queste voci è quella di un parroco di Buenos Aires, Carlos Baccioli, che è nello stesso tempo giudice del tribunale nazionale argentino e docente di medicina legale nella Pontificia Universidad Católica della capitale. Tramite il suo arcivescovo Mario Aurelio Poli, egli ha fatto pervenire a Roma, alla segreteria del sinodo, un’articolata risposta alla domanda numero 38 del questionario preparatorio, quella riguardante la comunione ai divorziati risposati.

Ed è una risposta interamente costruita “per auctoritates“, cioè con uno sterminato elenco di cardinali, vescovi, teologi antichi e recenti, tutti favorevoli all’ammissione dei divorziati risposati alla comunione eucaristica, con ampi stralci di loro interventi. Tra i vescovi, ad esempio, è citato il melchita Elias Zoghby, l’unico che nel Concilio Vaticano II si pronunciò in tal senso. Oppure hanno largo spazio i tre vescovi tedeschi, tra i quali Kasper, che negli anni Novanta proposero tale soluzione ma furono bloccati dalla Santa Sede.         Oppure ancora sono in evidenza il cardinale Carlo Maria Martini, l’altro tedesco Robert Zollitsch, il neozelandese John Atcherley Dew, quest’ultimo fatto cardinale da papa Francesco.

            Tra i numerosi teologi citati è dato rilievo all’italiano Giovanni Cereti, fonte principale della ricostruzione fatta da Kasper della prassi dei primi secoli cristiani, come anche al tedesco Eberhard Schockenhoff, personalità di punta nel summit alla Gregoriana dello scorso 25 maggio. Curiosamente, verso la conclusione del testo, ha un grande spazio anche la “auctoritas” del cardinale e poi papa Joseph Ratzinger, con un collage di sue citazioni tutte presentate come aperte a un cambiamento. Da tutto ciò, Baccioli ricava questi quattro punti conclusivi, circa l’attitudine che i sacerdoti dovrebbero tenere verso i divorziati risposati:

  1. Prima di tutto trattarli bene, come si devono trattare bene tutte le persone, praticanti e non praticanti, che si avvicinano alla Chiesa.
  2. Ascoltarli per sapere quali sono stati i motivi del loro divorzio.
  3. Se il sacerdote ritiene che vi siano cause di nullità, inviarli alla rispettiva curia diocesana, perché parlino con qualche esperto in diritto canonico che indichi loro dove e come avviare la causa relativa al loro matrimonio.
  4. Non negare loro la comunione sacramentale, nei casi esposti dagli autori che abbiamo citato.

Sandro Magister        chiesa.espressonline               8 giugno 2015

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351062

 

La famiglia tra natura e grazia.

Iniziamo la nostra riflessione dal nodo “La famiglia nel disegno salvifico di Dio” della Relatio Synodi e da alcune riflessioni a partire dalle domande del Questionario nn. 12 e 19, considerando che la Chiesa è chiamata a discernere, ma anche a valorizzare, esperienze di legame affettivo diverso dal matrimonio sacramentale e tuttavia portatrici di amore, di dedizione, di solidarietà, di promozione umana. Il matrimonio come vocazione non è necessariamente solo dei cattolici, ma può essere di molte coppie, anche solo conviventi o non credenti, perché l’impegno a vivere insieme con amore e rispetto crea una “coppia” come realtà molto diversa e superiore alla somma delle persone che la costituiscono, e per far ciò si richiedono attenzione all’altro, atteggiamenti di generosità, rinunce a egoismi, ecc., che costituiscono la base dello stare insieme e danno vita alla nuova realtà della “coppia”. Ma alla valorizzazione di queste esperienze si oppone un radicato pregiudizio. Se, infatti, tutte vengono giudicate secondo il metro di un supposto modello naturale, allora si rischia facilmente di escluderne molte. Il richiamo alla natura presente in molti documenti ecclesiastici è fuorviante perché ambiguo. Che cosa include e che cosa esclude la natura? Per fare qualche esempio, vi sono forme di legame inaccettabili (ad es. la poligamia), che tuttavia possono essere considerate naturali. Oppure, come si può dire innaturale un modello di convivenza che non si pone programmaticamente come irrevocabile? E persino le tendenze omosessuali sono così innaturali o non sono piuttosto una variante della natura?

            Ci si può appellare alla natura per sottolineare che la grazia sacramentale non è un’aggiunta estrinseca, ma una dinamica di perfezionamento interna; e tuttavia resta la difficoltà di riconoscere all’interno della condizione umana la presenza di un’unica forma naturale. L’insistenza sulla forma naturale di famiglia rischia di mettere in ombra la dimensione vocazionale della forma di famiglia fondata sul sacramento, una forma che forse è meno naturale di quanto sembri.

            La promozione della coppia nella Chiesa. I coniugi vivono oggi, più che in passato, all’interno di uno spazio sociale e culturale molto complesso, che mette a dura prova la capacità di realizzare relazioni stabili, umanamente e spiritualmente coese. L’individualismo esasperato, la precarietà del lavoro come di altre esperienze di vita, la perdita di speranza e di tensione verso il futuro, l’incapacità di fronteggiare le crisi interne alla coppia o quelle derivanti dalle situazioni familiari portano spesso ad un atteggiamento di pessimismo dentro le stesse nostre comunità ecclesiali.

            La Chiesa è sfidata a sostenere i coniugi perché acquisiscano un crescente senso di responsabilità nel vivere la pari dignità tra uomo e donna, in una fecondità che superi anche la dimensione genitoriale, nell’esercizio della paternità e maternità, in un’affettività e sessualità unitiva, nell’accoglienza dei figli, in uno sguardo aperto al prossimo e alle sue necessità, in una sobrietà di stile di vita. Diviene quindi urgente valorizzare i luoghi in cui si mettono in comune esperienze di dialogo costante, nel rispetto di tutte le posizioni, per fare emergere il profilo di una famiglia in grado di affrontare le sfide della modernità in chiave positiva. E a ciò può giovare il creare spazi di dialogo fra celibi e coppie di uomini e di donne, che cerchino di individuare le specificità di ciascuna forma di chiamata.

            In tale contesto le persone che vivono situazioni familiari di difficoltà, di fragilità, di rottura, potrebbero trovare uno spazio di accoglienza, nel quale su di esse non si esprime alcun giudizio, ma vi è condivisione dei loro problemi, sostegno concreto nelle loro fatiche, sguardo di fiducia per il loro futuro. (…).

            Divorziati risposati. L’indissolubilità del matrimonio costituisce un valore grande che, pure in un contesto culturale molto ostile, esige di essere rimotivato e proposto. Non possiamo tuttavia ignorare che in vari casi, il matrimonio sacramentale, frutto di una decisione consapevole e vissuta originariamente come impegno definitivo, può subire una crisi lacerante, la quale porta i coniugi alla separazione. Per alcuni di loro la nuova condizione può risultare umanamente molto gravosa e determinare la decisione di stabilire un nuovo legame affettivo, volendo comunque vivere in modo pieno l’appartenenza alla Chiesa.

            È certamente molto importante che essi siano accolti senza alcuna discriminazione all’interno della comunità cristiana in cui vivono, prendendosene cura (cfr. Questionario n. 35). Pensiamo, altresì, che si debba trovare per i divorziati risposati un percorso di riammissione ai sacramenti, in particolare all’Eucaristia, che è offerta non per i giusti, ma per chi sa di dover essere salvato. Circa il percorso di riammissione ai sacramenti (quindi entrando più nel dettaglio della domanda n. 38 del Questionario) pensiamo che possa consistere in un esame dei motivi del fallimento del precedente matrimonio e nell’individuazione di atteggiamenti e scelte di vita atti ad evitare il ripetersi di situazioni foriere di sofferenze.

            Su questo punto è opportuno un confronto con l’esperienza dei primi secoli della Chiesa, e con la prassi delle altre Chiese cristiane.

            L’attenzione pastorale verso persone con tendenza omosessuale. I Lineamenta dimostrano una particolare timidezza nell’affrontare il problema della pastorale delle persone con tendenza omosessuale. L’unica domanda su questo tema, la n. 40, sembra addirittura occuparsi solo delle «famiglie che hanno al loro interno persone con tendenza omosessuale».. Sembra che non si voglia accettare l’evidenza empirica che per alcune persone, create da Dio come tutte le altre, la tendenza omosessuale non è una colpa né un capriccio, ma è una caratteristica che fa parte della loro natura; bisogna anzi prendere atto che esistono anche persone che la natura ha dotato di caratteristiche sessuali incerte. In molte situazioni queste persone vengono (o venivano) fatte oggetto di scherno e derisione; in molti Stati, specie extraeuropei, permangono costumi e legislazioni gravemente persecutori.

            Dovrebbe essere ben chiaro che la Chiesa accoglie pienamente questi suoi figli, cercando di favorirne la piena crescita umana e relazionale. In questo senso abbiamo apprezzato le proposizioni nn. 50, 51, 52 della Relatio post disceptationem della prima sessione del Sinodo, di cui però non si trova più traccia nei Lineamenta, e pensiamo che debbano essere riprese e approfondite. In particolare, la n. 50, che recita che «Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana: siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? Spesso esse desiderano incontrare una Chiesa che sia casa accogliente per loro.

            Le nostre comunità sono in grado di esserlo accettando e valutando il loro orientamento sessuale, senza compromettere la dottrina cattolica su famiglia e matrimonio?». Come la n. 52 che afferma: «Senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners. Inoltre, la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli».

            La trasmissione della vita e la sfida della denatalità. Riguardo alla domanda n. 41, è molto giusto richiamare l’affermazione della Gaudium et Spes, n. 50: «I coniugi sappiano di essere cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro propria» e quindi trarne l’invito ad «annunziare e promuovere efficacemente l’apertura alla vita e la bellezza e la dignità umana del diventare madre o padre».

            Quel che invece ci lascia perplessi è il richiamo ai “metodi naturali” come unici strumenti per la paternità e la maternità responsabili. Con riferimento anche alla domanda (Questionario n. 44) su come combattere la piaga dell’aborto, ci sembra che il vero discrimine non sia fra i vari metodi contraccettivi, la cui scelta dovrebbe essere lasciata alla responsabilità dei coniugi, ma fra la contraccezione e le pratiche abortive, che invece sopprimono una vita umana in formazione.

            Continuare a sostenere l’improbabile monopolio dei metodi cosiddetti naturali rischia di allontanare dalla vita sacramentale quei pochi cristiani che ancora ritengono un obbligo morale questa prescrizione della Chiesa e, peggio, di favorire la mentalità per cui certi precetti si devono proclamare, ma non vanno presi sul serio (e questo non solo nella vita familiare!).

Chicco di Senape – Torino    30 maggio 2015

www.cdbitalia.org/2015/05/30/la-famiglia-tra-natura-e-grazia-di-chiccodisenape

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TRIBUNALI PER I MINORENNI

I Tribunali minorili vanno sostituiti con giudici di famiglia.

Il problema di un giudice specializzato, competente a trattare tutte le controversie che concernono i minori e, più in generale, la famiglia, si trascina irrisolto da molti anni. I Tribunali per i minorenni, istituiti dal regime fascista ne11934, appaiono sempre più inadeguati ed anacronistici.

Con riferimento alla materia civile il minore va considerato ormai come un soggetto giuridico a pieno titolo, con una sua precisa soggettività e personalità. Non è sufficiente l`ottica di mera protezione insita nelle leggi che lo riguardano, ma occorre promuovere una cultura che sia in grado di rendere la loro tutela effettiva, tempestiva ed incisiva. Necessitano quindi forme processuali e misure sostanziali in grado di contemperare l`obiettivo della tutela con l`esigenza di un procedimento modellato sulla falsariga del giusto processo, nello spirito dell`art.111 della Carta Costituzionale. Quanto alla materia penale, non può certamente soddisfare il fatto che per i reati da loro commessi i minori sono sottoposti al giudizio dei Tribunali minorili, mentre per i reati in loro danno, sempre più numerosi ed inquietanti (si pensi alla pedofilia ed ai maltrattamenti), la competenza passa ai Tribunali ordinari, con totale stravolgimento della procedura applicabile. L`assurdo, in tale ambito, si coglie nel momento in cui, concorrendo nello stesso reato maggiorenni e minorenni, i primi sono giudicati dai Tribunali ordinari ed i secondi dai Tribunali minorili, con il concreto rischio di verdetti contrastanti e contraddittori a fronte dell`identità del materiale probatorio valutato dai due organi.

Quanto alla materia amministrativa, attinente ai minori che, senza commettere reati, mantengono una “condotta irregolare”, si tratta di aspetti superati, balzando all`evidenza l`impossibilità di scindere aspetti sempre compresenti nella devianza del mondo giovanile, in cui il limite dell`illiceità penale non si presta ad essere percepito da una personalità ancora in formazione. Di qui un grande interrogativo del mondo forense e giudiziario: che si aspetta a tradurre in realtà l`aspettativa di un Tribunale o Sezione Specializzata “per la famiglia”, chiudendo i Tribunali minorili ed utilizzando i locali, prossimi a dismissione, delle attuali sezioni dei Tribunali ordinari? È il tempo, infatti, di un giudice specializzato e formato, che sia in grado di maneggiare gli strumenti giuridici, ma che sappia andare anche a fondo nelle vicende umane e seguirne l`evoluzione fino alla concreta soddisfazione dei diritti in gioco; che sia competente a comprendere le condotte, attento all`ascolto, con attitudini miti, capace di relazionarsi con i servizi e con le strutture di mediazione del territorio, decidendo in tempi ragionevoli. È indispensabile pertanto un tribunale per la persona, i minorenni e le relazioni familiari, con composizione multiprofessionale, con funzioni esclusive in materia civile, penale e amministrativa: anche perché si parla da tempo di una “lenta eutanasia” dei Tribunali per i minorenni.

Sulla base di tali considerazioni mi è toccato redigere, illustrandola in un Convegno svoltosi il 20 maggio al Consiglio Nazionale delle Ricerche, una proposta di legge in 34 articoli, con tanto di relazione illustrativa, che fa il paio con una proposta di legge attualmente pendente in Senato con il numero 194. Le ragioni che la rendono assolutamente meritevole di attenzione sono: sintonia con non poche esigenze prospettate dall`Associazione Nazionale dei giudici minorili; un testo pronto per l`aula, laddove la proposta 194 è una legge delega destinata, qualora approvata, a tempi più lunghi ed ai decreti attuativi del Governo; utilizzo, con i giudici di carriera, dei giudici onorari, il cui apporto è necessario ed irrinunziabile.

 Bruno Ferraro, – presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione         

Da Libero                   Associazione Forense            8 giugno 2016

https://it-it.facebook.com/pages/ASSOCIAZIONE-FORENSE-DIRITTO-DI-DIFESA/304944357008

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