UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUcipem n. 534 – 22 febbraio 2015
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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ADOZIONE INTERNAZIONALE La Bellezza e l’Inferno delle Adozioni Internazionali. Griffini.
Sen. Di Biagio: dalla CAI attendiamo spiegazioni.
On. Chaouki: come contrastare il crollo delle adozioni internaz?
Lo sfascio delle adozioni internazionali e il silenzio di Stato
ADOZIONI INTERNAZIONALI Il Cile non ha risentito della crisi delle adozioni internazionali:
AFFIDO ESCLUSIVO Affidamento esclusivo cd. rafforzato.
ASSEGNO DI MANTENIMENTO Decorrenza nella separazione e nel divorzio.
Obbligo anche se i figli minori sono assistiti dai nonni.
ASSEGNO DI SEPARAZIONE Legittimo il riconoscimento dell’assegno a lei, se lui è medico.
CHIESA CATTOLICA Una buona notizia per i confessori? Petrà.
Sinodo ritardi attese e speranze. Sebastiani.
150 anni prima del sinodo, schiavitù e “legge naturale”. Grillo.
Il teologo direbbe: riconosci il fallimento.
“Sono d’accordo La Chiesa sarà più vicina ai fedeli” Meluzzi.
È giunta l’ora dei preti sposati?
CONCILIAZIONE FAMILIARE Le coppie in crisi possono «ritrovarsi».
DALLA NAVATA 1° domenica di Quaresima – anno B –22 febbraio 2015
DANNI Responsabili gli eredi se il padre trascura il figlio.
DEMOGRAFIA La ‘sterilizzazione’ di Stato: ecco perché l’Italia non fa figli.
FECONDAZIONE ARTIFICIALE Pasticci per il feto.
FISCO Imu, Tari, Tasi: chi paga nel caso di separazione dei coniugi?
FRANCESCO VESCOVO di Roma La famiglia. I fratelli.
GOVERNO Conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
NULLITÀ DEL MATRIMONIO Nullità canonica: ricorso congiunto annulla ostacolo convivenza.
Individuata condizione ostativa di ordine pubblico a delibazione.
Delibazione e convivenza stabile e duratura tra i coniugi.
Delibazione ed eccepibilità della prolungata convivenza.
Riserva mentale: esclusione del bonum prolis e conoscibilità.
Non delibabile la sentenza canonica se convivenza prolungata.
OMOFILIA Matrimonio omoses.:famiglia non esisteper tradizione, ma per natura
ONLUS Regali e Onlus, previa comunicazione all’Agenzia delle Entrate.
PARLAMENTO Camera Giustizia. Accesso dell’adottato alle proprie origini.
Senato. Giustizia e Esteri. Ratifica della Convenzione Aja 1996.
POLITICHE FAMILIARI Basta con l’elemosina alle famiglie.
PROCREAZIONE responsabile I figli e i conigli. Piana
SEPARAZIONI E DIVORZI Per gli‘assistiti’: sanzioni per gli avvocati “ritardatari”.
SINODO DEI VESCOVI Baldisseri: Sinodo famiglia in ascolto del popolo di Dio.
TRIBUNALI Tribunale dei minori o ordinario: quale dei due competente?
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ADOZIONE INTERNAZIONALE
La Bellezza e l’Inferno delle Adozioni Internazionali: il punto di vista di Marco Griffini
Piazza inBlu, programma radiofonico di radio InBlu, in onda la mattina alle 9.06, dedica una puntata al tema dell’adozione internazionale. La conduttrice Chiara Placenti intervista il presidente di Amici dei Bambini, Marco Griffini.
Qual è lo stato di salute dell’adozione internazionale?
Quest’anno è l’ennesimo annus horribilis dell’adozione internazionale. Da tempo il settore è piombato in una fase depressiva, la Commissione per le Adozioni Internazionali non si raduna da un anno e per la prima volta non c’è nemmeno un ministro a presiederla. E’ come quello che accade nel corpo umano, quando il sangue non circola più. L’agonia è legata a un fattore preciso: a livello politico non si crede nell’adozione internazionale.
Quali sono nel mondo i numeri dell’adozione internazionale?
La nostra missione è fare impresa sociale: noi esistiamo per dare una famiglia ai bambini abbandonati. Basti ricordare quanto emerse dal Rapporto delle Nazioni Uniti redatto nel 2009. Già sei anni fa è stato registrato un dato impressionante: nel mondo vengono realizzate 266mila adozioni. Se dovessimo dare una famiglia ai soli bimbi orfani di genitori morti per l’Aids dovremmo moltiplicare le adozioni per 66 volte, quindi 15 milioni. E allora il punto è questo. L’Italia, l’Europa, il mondo che cosa intendono fare rispetto a questa emergenza?
Quale sarebbe una buona soluzione?
L’adozione internazionale non è mai entrata con la sua gravità nella cooperazione internazionale. Non mi stancherò mai di ripeterlo: il punto non è dare un figlio a una coppia dei genitori, ma è dare una mamma e un papà a un bambino abbandonato. Il punto di vista adultocentrico è profondamente sbagliato.
Spesso però le famiglie sono scoraggiate, perché l’iter adottivo è molto costoso e lungo.
L’adozione internazionale è afflitta da mali che potrebbero essere spazzati via. Intanto non vorrei essere al posto delle famiglie, che devono scegliere tra ben 66 enti autorizzati. Molti dei quali non organizzati all’estero, privi di personale dipendente in loco. Riceviamo ogni giorno lamentale di famiglie che denunciano le richieste da parte di enti autorizzati a portare soldi in nero all’estero, cifre importanti che possono arrivare anche a 15 mila euro. Questo fa inevitabilmente schizzare in alto il costo delle adozioni. Purtroppo poche sono le coppie che decidono di denunciare. E poi ci sono i problemi burocratici. L’Italia, insieme al Belgio, è l’unico paese che prevede un doppio passaggio al Tribunale del Minorenni. Se si eliminasse il doppio passaggio- come Amici dei Bambini chiede da tempo- l’iter adottivo si accorcerebbe di almeno un anno. Personalmente mi sento di incoraggiare le famiglie. Ci sono Paesi dove adottare è possibile in tempi anche ragionevoli.
Quali sono le cause della crisi?
E’ un dato inconfutabile il calo delle adozioni internazionali a livello mondiale. Ma le cause di questa crisi non sono le stesse in tutti i Paesi occidentali. Tanto è vero che nel 2011 mentre negli altri Paesi, Francia in testa, il numero delle adozioni internazionali crollava a picco, in Italia registravamo un periodo felice. Il problema degli ultimi 3 anni risiede altrove. Siamo in presenza di una cattiva gestione della Commissione Adozioni Internazionali. Che è priva della necessaria forza propulsiva da parte della componente politica. Dopo la presidenza fantasma di Andrea Riccardi e la “meteora” rappresentata da Cecile Kyenge, l’attuale Cai è caratterizzata da una gestione personalistica. Sono state accorpate in una sola figura le cariche di presidente e vicepresidente. Questo non ha prodotto uno snellimento dell’attività della Cai, ma un colpevole rallentamento dei compiti a cui essa è preposta. In un anno di mandato è stata convocata una sola assemblea generale, si sono verificati ripetuti casi di mancato rilascio agli enti di documenti e autorizzazioni indispensabili per poter operare nei Paesi esteri; le richieste degli Enti Autorizzati per aprire nuovi Paesi giacciono inevase; non sono stati convocati tavoli-Paese per affrontare congiuntamente le situazioni critiche; non son state organizzate missioni congiunte nei paesi di origine. Lo sfascio dell’adozione internazionale in Italia sta quindi proprio in queste disfunzioni.
Se il sistema Italia funzionasse, davvero pensa che le adozioni internazionali potrebbero risolvere il dramma di tanti bambini abbandonati nel mondo?
La storia insegna. L’adozione internazionale attiva anche processi virtuosi. Il caso della Bolivia è esemplare. Attualmente il Paese del Sud America è lo Stato con il maggior numero di associazioni di genitori adottivi. E’ successo che le famiglie boliviane hanno cominciato a interrogarsi sugli italiani in particolare e gli occidentali in generale che affrontavano costi alti pur di adottare i loro bambini. Ed è successo quello che tutti coloro che sono dalla parte dei bambini sperano: l’incremento delle adozioni nazionali nei Paesi che fino a pochi anni fa erano solo i Paesi d’origine dei nostri figli. In Bolivia è stata l’adozione internazionale a incoraggiare le adozioni nazionali. E non è un caso se sono proprio i genitori adottivi boliviani che da tempo invitano il Governo di La Paz a riaprire le adozioni internazionali, bloccate dal qualche anno.
Aibi 17 febbraio 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
Di Biagio (Ap), dalla CAI attendiamo spiegazioni non le solite accuse di calunnie.
Riportiamo il comunicato ufficiale diffuso dal senatore Aldo Di Biagio (Area Popolare) in risposta alla nota pubblicata dalla CAI, Commissione Adozioni internazionali, sul suo sito istituzionale il 16 febbraio 2015. La Commissione sostiene che le informazioni contenute nell’interpellanza del senatore Di Biagio e relative al modus operandi adottivo della Commissione nella Repubblica Democratica del Congo non sarebbero veritiere.
www.commissioneadozioni.it/it/notizie/2015/adozioni-nella-repubblica-democratica-del-congo.aspx#
Di seguito il comunicato del senatore Di Biagio. “Ormai siamo a quota due comunicati nei quali la CAI parla di ingiurie, diffamazione e calunnie ma non osa mai sfiorare i fatti indicando dove in realtà queste calunnie si celano”. Lo dichiara Aldo Di Biagio, senatore di AP in riferimento al comunicato della Commissione Adozioni Internazionali apparso sul sito il 16 febbraio 2015.
“Ritengo che l’accusa mossa dalla CAI alle iniziative parlamentari che “ostacolerebbero l’attività della Commissione” sia particolarmente grave e meriti inderogabili spiegazioni – evidenzia – anche perché una replica della commissione sarebbe preferibile in aula, come risposta alle tante interrogazioni sul tema, e non attraverso una semplice nota, che si limita ad accuse ignorando di proposito i fatti”.
“E’ grave che un organo governativo parli di “ falsa rappresentazione dei fatti in sede parlamentare” e credo sia il momento che la questione venga affrontata nelle opportune sedi, analizzando i documenti citati nelle interrogazioni ed acquisendo le controdeduzioni della CAI per fare finalmente chiarezza su cosa stia accadendo davvero in Congo e negli altri Paesi”.
“Credo sia chiaro che nei confronti della Presidente della CAI non vi sia nulla di personale – sottolinea – perché l’unica priorità è quella di creare condizioni ottimali per far lavorare gli enti superando la faida interna che sembra essersi creata e che si riversa sulle spalle di centinaia di famiglie che attendono che si sblocchi una situazione vergognosa”. Di Biagio conclude: “ quanto esposto nelle mie interpellanza si basa su documenti ufficiali e sarà mia cura dare pubblicità agli stessi in fase di discussione parlamentare”.
Aibi 17 febbraio 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
On. Chaouki (Pd) “Come contrastare il crollo delle adozioni internazionali?
Puntare su dialogo tra addetti ai lavori e migliorare il lavoro della Commissione Adozioni Internazionali.
“Il calo delle adozioni internazionali deve far riflettere in generale su sistema di accoglienza del nostro Paese attraverso questo importantissimo strumento di tutela dei minori abbandonati nel mondo. Il dialogo tra i vari addetti ai lavori è il presupposto essenziale per una visione rinnovata”. E’ chiaro e diretto il deputato del Pd Chaouki Khalid (Pd), che commenta così il calo delle adozioni internazionali registrato in Italia solo a partire dal 2011 in controtendenza rispetto ad altri Paesi come Francia, Spagna e Stati uniti in crisi invece dal 2006.
Il deputato Chaouki, autore di una proposta di legge sulla riforma delle Adozioni internazionali che giace in Commissione giustizia della Camera, entra nel merito portando avanti una riflessione su quelle che possono essere le cause del calo italiano “non adducibile ad una crisi globale”.
Mentre, infatti (come dimostra il grafico) gli altri Paesi (Francia, Spagna e Stati Uniti) dal 2006 al 2011 sono in caduta libera, l’Italia, in controtendenza si conferma come fiore all’occhiello dell’accoglienza con picchi in positivo proprio dal 2008 al 2011. Per Chaouki “Il sistema italiano delle adozioni internazionali, che in passato era stato capace di portare da noi più di 4mila bambini all’anno, oggi presenta ampi margini di miglioramento”.
Ma soprattutto quello che evidenzia il deputato del Pd è che “l’attuale calo dei numeri non può essere riconducibile al calo che in altri Paesi era già in atto mente l’Italia continuava a crescere, proprio grazie alla sua vocazione specifica di accoglienza: siamo il secondo Paese al mondo per numero di adozioni ma dobbiamo lavorare ancora meglio migliorando il lavoro della Commissione per le Adozioni Internazionali, rinforzando gli accordi bilaterali con i Paesi d’origine dei bambini e tenendo sempre come faro ed obiettivo principale il benessere del fanciullo”.
Dichiarazioni che trovano conferma nei numeri. Se dal 2006 al 2011 in Francia si è passati da 3.977 minori adottati nel 2006 a 1995; in Spagna da 4.472 nel 2006 a 2573; negli Stati Uniti da 20.679 a 9.320 mentre in Italia, in controtendenza da 3188 a oltre 4 mila. Insomma mentre gli altri scendevano, l’Italia saliva: nel Bel Paese si registra, dunque, negli stessi 5 anni un trend in assoluta controtendenza.
Come mai Francia, Spagna e Usa dal 2006 al 2011 c’è crisi e non in Italia? Secondo l’Istituto francese di studi demografici (Ined), alla base del trend negativo a livello globale le ragioni sarebbero riconducibili al miglioramento del tenore di vita nelle Nazioni a basso reddito, la riduzione del numero di orfani, la maggiore diffusione della contraccezione e l’attenuazione delle nascite “illegittime” che avrebbero portato a una generale diminuzione dei bambini abbandonati e quindi anche di quelli adottabili. A rimanere nel “circuito” delle adozioni, quindi, secondo l’Ined, sarebbero rimasti quasi soltanto i bambini “speciali”: affetti da qualche forma di patologia, con un’età superiore ai 6 anni oppure in gruppi di fratelli. Ma a giudicare dai dati positivi registrati in Italia queste cause non hanno influito sull’andamento delle adozioni internazionali nel nostro Bel Paese. Anzi, proprio negli anni della crisi (2006- 2011) in controtendenza rispetto al resto del mondo, l’Italia viveva il periodo di suo massimo splendore, con rispettivamente 4.130 e 4.022 piccoli accolti.
Il problema degli ultimi 3 anni evidentemente risiede altrove: in una cattiva gestione della Commissione Adozioni Internazionali e in una totale mancanza di forza propulsiva da parte della componente politica della Cai. (…)
Aibi 18 febbraio 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
Lo sfascio delle adozioni internazionali e il silenzio di Stato.
In otto mesi presentate 19 interpellanze da 103 parlamentari. Ma il governo non risponde!
Si chiama “democrazia rappresentativa”. Sta alla base dell’ordinamento politico della Repubblica italiana. Secondo questo principio, i cittadini, tramite il voto, eleggono democraticamente i propri rappresentanti in Parlamento. Questi avranno poi il compito di farsi carico delle richieste, delle istanze, delle necessità del popolo che rappresentano. Per farlo, interagiscono, dibattono, chiedono dei provvedimenti al governo in carica. Il quale è chiamato ad agire di conseguenza per il bene della società. O almeno a dare una risposta, se interpellato.
Ma, ahinoi!, in quello che un po’ nostalgicamente ci ostiniamo a chiamare “Bel Paese”, la pratica è spesso molto diversa dalla teoria. Basti pensare che, nel 2014, solo il 37% delle istanze depositate alla Camera dei Deputati e al Senato ha avuto un riscontro da parte dell’esecutivo: meno di 3mila su quasi 8mila. E, aspetto di particolare gravità, vittima privilegiata del disinteresse governativo sembra proprio essere l’adozione internazionale. Nel suo caso, la percentuale di mancate risposte fa l’en plein: 100%. Un fiume di 19 tra interpellanze (8) e interrogazioni (11) presentate sia a Montecitorio che a Palazzo Madama, da esponenti di tutti gli schieramenti politici attualmente presenti nelle due Camere: nessuna risposta!
La crisi dell’adozione internazionale è sotto gli occhi di tutti. I minori adottati nel nostro Paese si sono dimezzati nel giro di pochi anni e diminuiscono a ritmi paurosi, tanto da far presagire l’estinzione dell’accoglienza adottiva in poco tempo. A questi ritmi, nel 2020, l’adozione internazionale sarà solo un ricordo. Un tema, questo, che, dato il numero e la frequenza di atti parlamentari depositati in Senato e alla Camera, evidentemente sta a cuore a molti, visto l’interesse assolutamente trasversale che ha incontrato in questi mesi. Chi pare non accorgersi di quanto sta accadendo, però, è proprio il governo. Che si ricorda dell’adozione internazionale nei momenti di giubilo (ricordiamo la promessa del premier Renzi di mettere mani alla riforma del sistema annunciata con un tweet il giorno dello sblocco dell’adozione di 31 bambini congolesi a maggio 2014). E poi non degna neppure di una risposta le decine di atti che i vari parlamentari, rappresentanti del popolo italiano, gli sottopongono. A rimetterci sono naturalmente centinaia di bambini abbandonati nei più diversi angoli del mondo, in attesa di una famiglia che potrebbe non arrivare mai, complice l’inefficienza del sistema-adozioni nel nostro Paese.
Basta dare un’occhiata all’elenco dei primi firmatari delle varie interpellanze e interrogazioni presentate in Parlamento da giugno 2014 a febbraio 2015 per rendersi conto di quanto trasversale e massiccia sia la richiesta di chiarimenti rispetto a quanto sta avvenendo nella realtà delle adozioni internazionali in Italia. Dall’onorevole Scagliusi del Movimento 5 Stelle ai senatori Giovanardi e Sacconi e l’onorevole Pagano del Nuovo Centrodestra; dalla deputata Nicchi di Sinistra Ecologia e Libertà ai vari Gigli, Di Biagio, Mauro di Area Popolare, passando per i numerosi esponenti del Partito Democratico (Iori, Scuvera, Patriarca, Zanin). E si tratta di numeri ancora ridotti se confrontati con quello totale dei parlamentari che hanno sottoscritto (tra firmatari e cofirmatari) i vari atti rivolti al governo sul tema delle adozioni internazionali in questi mesi: ben 103, di cui 99 deputati e 4 senatori!
Purtroppo, nulla ha fatto in modo che il governo si degnasse di fornire almeno una risposta alle numerosissime istanze presentate. Già a fine 2014, Amici dei Bambini aveva denunciato che, in tutto quell’anno, la totalità delle interpellanze e delle interrogazioni depositate in Parlamento era rimasta senza riscontro. Il 2015 si è aperto sulla stessa falsa riga. Tanti atti formulati e presentati, ma ancora nessuna risposta.
E di fatti gravissimi continuano ad accaderne. Basti pensare all’incomprensibile ritardo con cui la nostra Commissione Adozioni Internazionali ha inviato all’Autorità Centrale della Bielorussia la documentazione necessaria affinché gli enti autorizzati italiani potessero proseguire a lavorare nel Paese ex sovietico. Un risultato ottenuto solo dopo ripetuti solleciti da parte di Minsk.
Ma soprattutto il caso dei bambini congolesi già adottati da coppie italiane trasferiti la notte del 29 dicembre 2014 da un istituto di Kinshasa senza autorizzazione delle autorità locali. Ultimo in ordine di tempo, il coinvolgimento di una presunta suora (in realtà pare sia un ex suora) in anomali trasferimenti di minori sempre nel Paese africano finiti al centro di un’inchiesta del Tribunale di Goma.
Tutti temi al centro di richieste di chiarimento presentate da parlamentari di diversa estrazione politica a un governo che, fino a oggi, continua a rimanere sordo a tali istanze e insensibile al destino di centinaia di bambini abbandonati. Su quello che a tutti gli effetti si può definire un “silenzio di Stato”, Aibinews proporrà nei prossimi giorni uno “Speciale” tematico. L’annus horribilis dell’adozione internazionale pare proprio non essere finito. In mancanza di una seria assunzione di responsabilità da parte del premier e dei suoi ministri, a finire presto sarà proprio l’adozione internazionale.
Aibi 20 febbraio 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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ADOZIONI INTERNAZIONALI
Il Cile non ha risentito della crisi delle adozioni internazionali: l’Italia è il Paese più accogliente.
Il Cile non ha risentito della crisi delle adozioni internazionali. Lo dimostrano i numeri sulla base dei quali nel 2014 sono stati adottati 110 minori nel mondo mantenendo la media registrata negli anni precedenti (dal 2011 al 2013 il trend si è attestato sui 120 circa). Un risultato di tutto rispetto soprattutto se si considera che si tratta di un trend in netta controtendenza rispetto al calo registrato negli altri Paesi del mondo.
Il segreto? Evidentemente un’Autorità centrale adozioni internazionali, il SENAME (Servicio nacional de Menores) che fa un ottimo lavoro a favore dei minori abbandonati promuovendo tutte quelle attività istituzionali e di collaborazione con gli altri Paesi, finalizzati a trovare loro prontamente una casa e una famiglia che li accolga.
Tra tutti l’Italia è il Paese che ha adottato il maggior numero di minori cileni, confermandosi così la realtà più accogliente e con cui il Cile intrattiene il maggior numero di relazioni. Un vanto di cui andare orgogliosi soprattutto se si considera che si tratta di minori che non trovano una possibilità di adozione in Cile.
Proprio il Cile il 19 febbraio 2015 è stato l’ “ospite d’onore” di un incontro, aperto ai 7 enti accreditati nel Paese, che si è svolto nella sede dell’Istituto La Casa a Milano alla presenza di Maria Fernanda Galleguillos (responsabile dipartimento adozioni SENAME) e di Josè Miguel Canales (direttore nazionale area protezione diritti minori SENAME). Nel corso dell’incontro sono stati presentati i risultati dello studio su 300 casi di adozione internazionale con le famiglie italiane, i dati di adozione internazionale Cile 2014, la pianificazione dell’attività 2015 e si è svolto un seminario sull’adozione internazionale 2015.
Nel corso di quest’ultimo, è stato evidenziato come negli ultimi tre anni nessuna coppia spagnola abbia adottato in Cile, in quanto non sono disponibili ad adottare i minori cileni (giudicati troppo grandi, gruppi di fratelli, special needs…). Viene quindi confermata la tesi che la crisi delle adozioni internazionali in Italia ha altri fondamenti: non certo l’innalzamento dell’età dei minori adottabili o il loro “status” di special need (visto che l’Italia si è sempre distinta per il suo generoso spirito d’accoglienza anche e soprattutto nei confronti dei bambini più grandi e/o gruppi di fratelli) ma la carenza di spinte propulsive e di un’azione politica “costruttiva”
Ai.Bi, Amici dei Bambini, è ente accreditato ad adottare in Cile dal 2007 e la prima adozione risale al 2009: da allora fino ad oggi sono stati adottati circa 60 minori.
Aibi 19 febbraio 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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AFFIDO ESCLUSIVO
Affidamento esclusivo cd. rafforzato.
Tribunale Torino, settima Sezione civile, ordinanza 22 gennaio 2015
Nel caso di affidamento esclusivo della prole a uno solo dei genitori, le decisioni di maggior interesse per i figli devono essere adottate da entrambi i genitori in aderenza al citato art. 337 quater c.c., a meno che il giudice non ravvisi i rigorosi presupposti per disporre un affidamento esclusivo c.d. rafforzato.
In materia di protezione dei minori, un provvedimento di natura amministrativa – come quello ex art. 403 c.c. – che va ad incidere su diritti di rango costituzionale (art. 30) in tanto può ritenersi consentito e compatibile con i principi del giusto processo (art. 111 comma secondo Cost.) in quanto l’efficacia di cui è dotato nel limitare la responsabilità genitoriale sia mantenuta in uno spazio temporale di assoluta urgenza, corrispondente ai “tempi tecnici” che occorrono per portare l’autorità giudiziaria a conoscenza dei fatti e consentire alla stessa di assumere con immediatezza, formato un collegio, le decisioni del caso, con provvedimento urgente e immediatamente esecutivo ex art. 333, 336 comma terzo c.c.
Giuseppe Buffone – Il Caso.it, n. 12048 -11 febbraio 2015
www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/12048.pdf
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Decorrenza nella separazione e nel divorzio.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 3348, 19 febbraio 2015.
In tema di separazione o divorzio, nell’ipotesi in cui uno dei coniugi abbia chiesto un assegno di mantenimento per i figli, la domanda, se ritenuta fondata, deve essere accolta dalla data della sua proposizione e non da quella della sentenza. La parte che abbia chiesto la corresponsione di tale assegno ha, poi, la facoltà di chiedere un adeguamento del relativo ammontare, non costituendo tale richiesta una domanda nuova; anche l’aumento decorrerà dalla data di deposito del ricorso introduttivo.
Studio Sugamele 19 febbraio 2015 sentenza www.divorzista.org/sentenza.php?id=9772
Obbligo anche se i figli minori sono assistiti dai nonni.
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 6682, 16 febbraio 2015.
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, lo stato di bisogno e l’obbligo del genitore di contribuire al mantenimento dei figli minori non vengono meno quando gli aventi diritto siano assistiti economicamente da terzi.
Studio Sugamele 18 febbraio 2015 ordinanza www.divorzista.org/sentenza.php?id=9763
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ASSEGNO DI SEPARAZIONE
Legittimo il riconoscimento dell’assegno a lei, se lui è medico.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile – ordinanza n. 2961, 13 febbraio 2015
Legittimo il riconoscimento dell’assegno mensile da 600 euro a favore della donna. Lui è medico e ha una prospettiva lavorativa reddituale in aumento.
Studio Sugamele 17 febbraio 2015 ordinanza www.divorzista.org/sentenza.php?id=9757
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CHIESA CATTOLICA
Una buona notizia per i confessori?
La tradizione morale cattolica è segnata dal ‘500 in poi dalla presenza di un sistema morale che prende il nome di probabilismo. Pur essendo stato fortemente criticato e sottoposto alle ironie geniali di Biagio Pascal, esso non ha mai perso vitalità dato che la sua utilizzazione pastorale -in particolare nel foro interno sacramentale- si è sempre mostrata molto preziosa.
Il probabilismo si basa sul principio che la coscienza che dubita fondatamente dell’obbligazione di una legge morale non ha il dovere certo di seguirla e può seguire le opinioni che possono essere considerate dotate di probabilità o perché appaiono fondate al soggetto (se è in grado di valutare in modo competente) o perché appaiono fondate a persone riconosciute come competenti. Da un oggetto dubbio non può derivare un obbligo certo; ciò significa che la libertà riacquista il suo ruolo prioritario e può aderire a quel che le appare dotato di fondata probabilità. Sempre secondo la tradizione cattolica, si ritiene che il probabilismo non sia applicabile nel caso in cui il Magistero si sia espresso in modo tale che per il fedele non possa darsi dubbio sull’obbligazione di una legge.
La formulazione astratta del principio che fino ad ora ho utilizzato rischia di nascondere il suo importante risvolto pratico. Tuttavia, l’esempio che mi appresto a darne può forse aiutare a capirlo. E l’esempio che faccio è quello dei divorziati risposati. Nella seconda metà del secolo scorso, dinanzi alla diffusione del divorzio e al crescere di casi di cattolici divorziati risposati desiderosi di essere ammessi ai sacramenti rimanendo nella nuova unione, il Magistero ha preso chiaramente posizione escludendo in generale tale possibilità, permettendola variamente solo in alcuni casi.
Il primo caso si dà quando la nuova unione è interiormente trasformata e in qualche modo deconiugalizzata. Ci si riferisce spesso ad esso indicandolo come la soluzione ‘fratello-sorella’.
Un secondo caso, discusso ma ancora praticabile, è questo: il confessore raggiunge la certezza morale che la prima unione è invalida ma che la sua dimostrazione in foro esterno non è possibile o è estremamente onerosa. In tal caso, infatti, si suppone la validità del consenso dei due coniugi battezzati, data l’impossibilità di adire in foro esterno la forma ordinaria di celebrazione matrimoniale. Questo caso è spesso indicato come la soluzione della ‘buona coscienza’.
In ambedue i casi si deve tener conto della precauzione generale che si deve evitare lo scandalo dei fedeli. Si intende indicare questo quando si aggiunge la clausola latina remoto scandalo.
Esclusi tali casi, il Magistero, fondandosi sulla verità dottrinale/giuridica del matrimonio cristiano, ha sempre formalmente escluso la possibilità di ammettere all’assoluzione e alla comunione i divorziati risposati. In particolare non l’ha accettata nel caso di semplice nuova unione, per quanto riconciliata con le prime situazioni e seriamente impegnata sul piano coniugale e genitoriale nella nuova condizione; né l’ha recepita nel caso di partecipazione a percorsi di accompagnamento pastorale comparabili in parte con gli antichi itinerari penitenziali.
Ebbene, dal febbraio 2014 ovvero dalla relazione del card. Kasper al concistoro, le cose sono cambiate. Il Magistero ha, di fatto, collocato nell’area del dubbio tale legge dell’esclusione dall’assoluzione e dalla comunione in tutti i casi di divorziati risposati con prima unione valida e privi dell’intenzione di vivere come fratello-sorella.
Non si può più considerare certa una legge esclusiva, sulla quale le stesse autorità della Chiesa gettano il dubbio o ne consentano formalmente la messa in dubbio. Tutti ricordiamo che l’ipotesi di una procedura di tipo pastorale (affidata primariamente al vescovo) che consenta ai divorziati risposati l’accesso ai sacramenti in particolari circostanze (stabilità, serietà coniugale e genitoriale, vita di fede…) è stata prospettata dal card. Kasper dinanzi a papa Francesco ed è stata ripresa nel Sinodo straordinario. Non solo, l’ipotesi è stata votata all’interno di un numero (52) della Relatio finalis (poi Lineamenta) ottenendo una maggioranza semplice.
Ciò significa che già fin da ora, nel caso di penitenti riconducibili alle condizioni indicate da Kasper o dalla Relatio, un confessore potrebbe serenamente ritenere dubbia la norma esclusiva e, dandosi le circostanze opportune potrebbe assolvere e ammettere alla comunione alle ordinarie condizioni. Certo, in una logica ecclesiale sarebbe preferibile se nel fare questo potesse avere il consenso del suo vescovo; tuttavia non è necessario, giacché la Chiesa nel suo insieme e nelle sue massime autorità magisteriali discutendo il cambiamento di disciplina rende ormai dubbia la norma precedente, almeno nel caso di molti divorziati risposati, ma anche (forse) nel caso di situazioni riconducibili a configurazioni analoghe.
Basilio Petrà, teologo il mantello della giustizia 1 febbraio 2015
www.ilmantellodellagiustizia.it/articoli-mese-di-febbraio-2015/una-buona-notizia-per-i-confessori
Sinodo ritardi attese e speranze.
Non si vorrebbe essere pessimisti, tanto meno all’inizio del cammino intersinodale, ma a volte è difficile ignorare del tutto la vocina molesta che sussurra dentro di noi: tutto qui?
Nei mesi che hanno preceduto il Sinodo 2014 il dibattito e le attese vertevano in modo speciale sulla possibile ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati: potrebbe sembrare una prospettiva ristretta rispetto all’insieme così vasto delle problematiche familiari, ristretta anche per quanto concerne il numero di persone eventualmente coinvolte; ma ben comprensibile in questo momento, e decisiva anche per quelli che sono divorziati e non risposati – anzi anche per gli sposati non divorziati, anche per quelli che non sono sposati: infatti, le scelte che verranno fatte non saranno neutre comunque quanto all’effetto, e saranno decisive quanto all’immagine di sé che la chiesa di Roma vorrà presentare al mondo.
Semiaperture e semichiusure. Le aperture contenute nell’intervento del card. Kasper nel Concistoro dei cardinali già nel febbraio 2014 avevano fatto pensare a possibili cambiamenti (infatti, sin da allora le voci più retrive del cattolicesimo italiano non avevano risparmiato attacchi e ironie); prudenti ma reali aperture si scorgevano anche nella Relatio post disceptationem (la indichiamo d’ora in poi con Rpd) redatta dal cardinale ungherese Pèter Erdö a metà dei lavori del Sinodo.
Nella seconda settimana, però, il lavoro dei circuli minores – in cui i padri sinodali si raggruppano sulla base delle lingue o delle preferenze linguistiche di ognuno per discutere più liberamente – deve aver visto prese di posizione anche aspre. Il risultato è visibile nel documento (per ora) conclusivo, la Relatio Synodi, che indiscutibilmente segna un passo indietro rispetto alle prospettive pastorali che si potevano scorgere o sperare con fondamento all’inizio.
Nella Rpd si faceva cenno alla possibilità di consentire ai divorziati risposati l’accesso ai sacramenti preceduto da un cammino penitenziale sotto la responsabilità del vescovo diocesano, specificando comunque che si trattava di una possibilità non generalizzata, frutto di un discernimento da attuare caso per caso in modo graduale (n. 47). La Relatio Synodi approvata l’ultimo giorno, non registrava su questo punto la maggioranza qualificata di due terzi (la maggioranza semplice sì), argomentava in modo abbastanza simile benché più prolisso e, senza risolvere, riconosceva che «la questione è ancora tutta da approfondire» (n. 52): un’apertura, dunque, almeno quanto alla riflessione se non alla prassi.
Ci sembra invece molto positivo che sia stata bocciata, forse in questo caso proprio dai padri sinodali più avanzati, la strana proposta che i divorziati risposati, se ne sentono il bisogno, facciano la «comunione spirituale», detta anche «comunione di desiderio»… A parte il fatto che questo è già possibile, visto che almeno i desideri sono liberi, e lo Spirito poi è libero anche rispetto al Sinodo, fare la comunione spirituale significa comunque essere in comunione, con Cristo e con la comunità dei credenti in lui; e se uno è in comunione, che senso avrebbe continuare a escluderlo dalla partecipazione aperta e visibile all’Eucaristia, culmen et fons della vita cristiana?
Un ‘fuori tema’ decisivo. Quello delle unioni omosessuali è senz’altro il punto in cui la Relatio Synodi appare più reticente. Nella Rpd la questione era affrontata con molta prudenza e riserva, sottolineando l’impossibilità di equiparare alla famiglia l’unione di persone dello stesso sesso (del resto è anche la posizione personale di papa Francesco), ma con alcune sottolineature significative e coraggiose: «… Si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partner. Inoltre la Chiesa ha attenzione speciale per i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli» (Rpd 50).
Ciò significa la possibilità di ammettere questi bambini ai sacramenti dell’iniziazione e più in generale alla vita della comunità cristiana, anche se vivono in un contesto considerato irregolare. È chiaro che qui non si affronta per nulla, giustamente, la possibilità di concedere alle coppie omosessuali il diritto di adozione, ma solo il caso non infrequente in cui insieme alla coppia omosessuale viva il figlio di una/uno dei due partner.
Ora nella Relatio Synodi non solo scompare la possibile apertura, ma la stessa questione cambia connotati, anzi focus: non si fa più cenno alla dignità personale e affettiva (quindi anche spirituale) che tali unioni possono avere, invece abbastanza sibillinamente si parla di famiglie «che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone omosessuali». Di colpo, dunque, al centro dell’attenzione non sembra più trovarsi la coppia omosessuale, bensì la famiglia ‘normale’ con figlio/a omosessuale: una questione seria, a volte dolorosa, ma tutta diversa.
Sparita la coppia, restano i singoli uomini e donne, a cui si riconosce solo il diritto di venir trattati con rispetto, cioè di non essere discriminati per le loro tendenze. Notiamo che, come in altri pronunciamenti precedenti, non si parla di persone «che vivono una relazione omosessuale», solo di persone «con orientamento omosessuale», quasi sottintendendo implicitamente (e in passato è stato detto a chiare lettere) che la semplice ‘inclinazione’ non può considerarsi peccaminosa, a patto che chi l’avverte in sé attui un’opzione integrale per la castità. Ma si può imporre a qualcuno la castità a vita? E comunque visibile l’imbarazzo degli estensori del documento, che a un certo punto ha condotto a un vero e proprio blocco espressivo, al non dire letteralmente più nulla come Sinodo, trincerandosi dietro un’affermazione (sull’impossibilità di stabilire analogie anche remote con matrimonio e famiglia) già presente nell’Instrumentum Laboris dello scorso giugno, così come la necessità di non discriminare, di trattare con rispetto, si trovava già in un documento del 3 giugno 2003 (Congregazione per la Dottrina della fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali).
www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20030731_homosexual-unions_it.html
La riflessione deve procedere, la comunità dei credenti deve farsene carico, e non vi è fede, non vi è comunità senza attenzione alle persone nella loro situazione concreta. È stato detto: il Sinodo è dedicato alla famiglia, la famiglia dichiaratamente è solo quella formata dall’unione di un uomo e di una donna, perciò non vi è l’obbligo – nemmeno l’opportunità, direbbe qualcuno – di considerare le unioni omosessuali. In un senso molto stretto, molto ‘tecnico’, si potrebbe anche sostenere. Non soddisfa però la coscienza cristiana: la chiesa non può disinteressarsi del disagio degli omosessuali credenti né delle loro sempre più pressanti domande, né della crescente solidarietà dell’opinione pubblica nei loro confronti. Anche senza adoperare la parola matrimonio, che si riferisce a realtà diverse, non sarebbe coerente con la centralità della persona né con l’imperativo fondamentale della carità rifiutarsi di riconoscere la bontà e la potenzialità santificante di unioni stabili e fedeli fondate sull’amore.
Guardando il futuro. Non si può negare che la Relatio Synodi su molti punti costituisca un arretramento, speriamo non definitivo, rispetto alle aperture sperate (e anche semplicemente rispetto alla Rdp, uscita dalla Sala Stampa vaticana una settimana prima); tuttavia qualche elemento di progresso è avvertibile non solo quanto ai contenuti del Sinodo, ma al modo di ‘essere’ e ‘fare’ Chiesa.
In questo soprattutto si ritrova lo stile di papa Francesco. In primo luogo, com’è stato rilevato tante volte, nella coraggiosa scelta di trasparenza che lo ha indotto a volere la relazione finale del Sinodo pubblicata integralmente in tutti i suoi 62 punti, compresi i tre che, non avendo ottenuto la maggioranza di due terzi non si possono considerare approvati; corredando la relazione con indicazione precisa dei voti a favore e sfavore per ogni punto, ciò che consente a ogni lettore di farsi un’idea degli orientamenti dell’aula sinodale e della fatica del dibattito. Non è un dettaglio, ci sembra molto coraggioso (oltre che rispettoso delle diverse posizioni) ammettere che anche all’interno del Sinodo possono esservi difficoltà a capirsi, può esservi discordia, e non solo dei vescovi tra loro, ma anche nei confronti del papa: in altri tempi forse una cosa del genere sarebbe stata impensabile.
Consideriamo molto importante anche il suo discorso finale al Sinodo, particolarmente per l’accenno alle «tentazioni» che possono ostacolarne il cammino. Ma questo discorso sulle tentazioni richiede una riflessione a parte, su cui forse torneremo in futuro. Un lavoro importante resta davanti a noi, un lavoro in cui i laici, come singoli e come associazioni, non devono limitarsi a un ruolo di spettatori.
Intanto nel mese di dicembre sono state inviate agli episcopati nuove domande (46, questa volta): le risposte, insieme alla Relazione finale del Sinodo 2014, costituiranno i Lineamenta della seconda fase (2015). Le risposte anche laicali dovranno essere inviate alla segreteria del Sinodo attraverso le diocesi – a quelle dell’anno scorso invece era almeno in teoria possibile rispondere individualmente e direttamente – e questo costituisce senza dubbio un limite; senza contare che potranno rispondere solo quelli che hanno un ruolo nella chiesa locale e una sufficiente dimestichezza con i suoi piani pastorali e le sue attività. Delle nuove domande si potrebbe ripetere, in linea di massima, quanto già si disse delle prime: poco felici quanto allo stile e al linguaggio, troppo spesso sottintendono la certezza anticipata della risposta o implicitamente la suggeriscono. Quasi sempre possono apparire rivolte non a raccogliere punti di vista, ma a ribadire la visione tradizionale su tutti i punti oggetto di dibattito, chiedendo solo «che cosa si fa», nei vari luoghi, per far passare quella visione. Devo però ringraziare di cuore un amico teologo per avermi fatto notare qualche spunto di positività che non ero riuscita a cogliere nella mia lettura, attenta sì ma forse troppo sconfortata a causa dello stile assai ‘curiale’ e ufficiale di quello scritto. Nella seconda parte, ad esempio, troviamo una domanda che, nella sua apparente genericità, può contenere una richiesta precisa e quasi una promessa:
«Come aiutare a capire che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio e come esprimere questa verità nell’azione pastorale della Chiesa verso le famiglie, in particolare quelle ferite e fragili?» (dom. 20, rif. a Relatio Synodi n. 28).
La domanda 35 poi chiede se e come la comunità cristiana sia «pronta a prendersi cura delle famiglie ferite per far sperimentare loro la misericordia del Padre». L’idea soggiacente non può essere semplicemente quella di raccomandare rispetto e benevolenza, e un po’ di aiuto ove occorra: infatti, non ci sarebbe bisogno di mettere in piedi due Sinodi per questo, basta essere cristiani e persone civili.
Nelle note che accompagnano le nuove domande, solo allo scopo di facilitarne il collegamento con i vari numeri della Relatio Synodi, non vi è in genere molto da notare, ma forse un’eccezione è costituita da questa frase, che apre le domande sulla terza parte: «Nell’approfondire la terza parte (…) è importante lasciarsi guidare dalla svolta pastorale che il Sinodo Straordinario ha iniziato a delineare, radicandosi nel Vaticano II e nel magistero di Papa Francesco. Alle Conferenze Episcopali compete di continuare ad approfondirla, coinvolgendo, nella maniera più opportuna, tutte le componenti ecclesiali (…). È necessario far di tutto perché non si ricominci da zero, ma si assuma il cammino già fatto nel Sinodo Straordinario come punto di partenza» (corsivi nostri; è chiaro che la svolta pastorale di cui si parla può riguardare solo l’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia, poiché su tutti gli altri punti non si registrano svolte di rilievo).
Nella domanda 38 si afferma la necessità di un ulteriore approfondimento della pastorale sacramentale a riguardo dei divorziati risposati, «valutando anche la prassi ortodossa» (che, come si sa, concede un nuovo matrimonio dopo il fallimento irreparabile del primo); anche questa considerazione di natura ecumenica potrebbe rivelarsi di grande peso, ed è noto quanto papa Francesco desidera che siano tolti il più possibile i motivi di divisione rispetto alle chiese del mondo ortodosso.
L’ultima parola sulle tematiche dibattute nella sessione straordinaria e in quella ordinaria del Sinodo sarà ovviamente di papa Francesco il quale, nell’omelia della messa con cui ha concluso il Sinodo straordinario e beatificato Paolo VI, ha ripetuto che non bisogna aver paura «delle novità», «delle sorprese di Dio». Ma anche in vista di quella sua parola, come di tutta l’opera di rinnovamento ecclesiale da lui avviata, è necessario offrirgli in tutti i modi possibili e in spirito di dialogo un appoggio leale e affettuoso, partecipe e qualificato, e dunque mai privo di senso critico.
Lilia Sebastiani, teologa morale “Rocca” n. 4, 15 febbraio 2015
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201502/150221sebastiani.pdf
150 anni prima del sinodo, schiavitù e “legge naturale”.
Nel cammino verso il sinodo ordinario del prossimo ottobre è bene considerare lo strascico lasciato da alcuni interventi che – già ben prima del sinodo straordinario, e poi durante il suo svolgimento, nonché nei bilanci che lo hanno seguito – hanno evocato, con toni drammatici, il pericolo di “tradimento della tradizione” e la possibile perdita di fedeltà verso il depositum fidei.
Per confortare queste voci allarmate è utile ricominciare da una parola forte, detta da papa Francesco in occasione della sua famosa intervista a Civiltà Cattolica. Egli affermava, infatti: «…la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce. Pensiamo a quando la schiavitù era ammessa o la pena di morte era ammessa senza alcun problema. Dunque, si cresce nella comprensione della verità. Gli esegeti e i teologi aiutano la Chiesa a maturare il proprio giudizio […] La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata».
La capanna dello zio Tom. È significativo che questa frase sia stata pubblicata dalla rivista dei gesuiti, la cui storia fa parte a pieno titolo di quel “mutamento” nel quale la coscienza della Chiesa si approfondisce e si affina. In questo lento percorso di “affinamento”, occorre rivedere non soltanto le idee, ma le modalità dell’argomentazione e i dati dell’esperienza. L’esempio portato da papa Francesco deve far pensare: un tempo la schiavitù era ammessa e veniva giustificata con la “legge naturale” dalla stessa Chiesa.
Il pregiudizio più pesante veniva coperto e sorretto da una presunta «evidenza naturale». È utile consultare due testi d’epoca, assai significativi. Sulla stessa rivista dei gesuiti, che oggi ospita le interviste profetiche di papa Francesco, nel 1853 apparve una recensione ad un libro che rischiava di essere “messo all’indice” in quegli anni, La capanna dello zio Tom. In essa si commentava con pesante ironia “La schiavitù in America e la Capanna dello zio Tom” (Civiltà Cattolica, 1853, IV, 2, 2, 481-499), aggiungendo una serie di considerazioni a proposito della “servitudine”.
Il libro, pur essendo giudicato “non cattivo”, sollecitava questi giudizi terribili: «Lo schiavo negro o di altra tinta che non sia bianco è, come il mancipio presso i pagani, strettamente non persona ma cosa, benché (si capisce) cosa viva e semovente… una razza, diciamo, che, collocata nell’infimo grado dell’umana specie, nella carnagione nera da disgradarne l’ebano, nel crine lanoso e velluto, nella faccia schiacciata e stranamente ottusa, nell’occhio che, quando non è stupido, o è feroce o ti rivela un’astuzia volpina, nelle facoltà intellettuali lente, circoscritte, inertissime… Così in essi la condizione di schiavi pare venuta a confermare ciò che avea disposto la natura; e la ripugnanza che le altre razze trovano ad avvicinarlesi sembra condannarli ad un eterno servaggio. Or vede ognuno che somiglianti differenze non si tolgono via cogli articoli dei codici. Sia in uno Stato della Confederazione ammessa o no legalmente la schiavitù, sarà sempre vero che un Bianco non si assiderà in eterno alla stessa mensa con un uom di colore, non vorrà con essolui entrare nel medesimo cocchio od avere comune il banco, non che nel teatro, ma fino nel tempio...».
Il 13° emendamento. Allo stesso modo, un’istruzione della Congregazione per il Sant’Uffizio di tredici anni dopo (20 giugno 1866), stabiliva quanto segue: «Nonostante che i Pontefici Romani non abbiano nulla lasciato di intentato per abolire la schiavitù presso tutte le genti, e a questo si debba principalmente il fatto che già da diversi secoli non si trovino più schiavi presso molti popoli cristiani, tuttavia […] la schiavitù, di per sé, non ripugna affatto né al diritto naturale né al diritto divino, e possono esserci molti giusti motivi di essa, secondo l’opinione di provati teologi e interpreti dei sacri canoni. Infatti, il possesso del padrone sullo schiavo, non è altro che il diritto di disporre in perpetuo dell’opera del servo, per le proprie comodità, le quali è giusto che un uomo fornisca ad un altro uomo. Ne consegue che non ripugna al diritto naturale né al diritto divino che il servo sia venduto, comprato, donato. Pertanto i cristiani… possono lecitamente comprare schiavi, o darli in pagamento di debiti o riceverli in dono, ogni volta che siano moralmente certi che quei servi non siano né stati sottratti al loro legittimo padrone né trascinati ingiustamente in schiavitù… perché non è lecito comprare, senza il permesso del proprietario, la roba altrui, sottratta con il furto».
Da ultimo, possiamo ritrovare, in un recente film di successo come Lincoln, di Steven Spierlberg, l’accurata ricostruzione del superamento formale della schiavitù da parte degli USA, con l’approvazione del XIII emendamento, il 31 gennaio del 1865. 150 anni fa, per arrivare a questa storica acquisizione, fu necessario uno scontro di argomentazioni e di forze assai grande. Oggi sembra che abbiamo acquisito il “valore”, ma il metodo appare ancora piuttosto oscuro.
È bello ascoltare, nel suo discorso alla “Camera dei Rappresentanti”, un onesto “difensore della schiavitù” paventare l’effetto di “piano inclinato” che avrebbe potuto avere un’approvazione del XIII emendamento: «la legge naturale impone la differenza tra bianchi e neri davanti alla legge. Se oggi equiparassimo i neri ai bianchi, domani i neri vorrebbero votare e infine finirebbero per chiedere il voto… anche le donne!».
150 anni dopo quelle gravissime affermazioni, nel sinodo dei vescovi che si sta preparando, occorrerà evitare di ricorrere a questi argomenti rozzi, applicati non più alla schiavitù, ma a famiglie ferite, a famiglie allargate e a convivenze. A chi userà simili argomenti e paventerà tali “piani inclinati”, potrà capitare, tra 150 anni, di essere citato come un uomo – non importa se laico o chierico, filosofo o teologo – che viveva in tempi ormai del tutto incomprensibili. Ma non è detto che tutta l’inadeguatezza di questo approccio non possa balzare agli occhi già oggi, 150 anni prima…
Andrea Grillo “Settimana” n. 8, 22 febbraio 2015
www.ilregno-blog.blogspot.it/2015/02/abbiamo-tradito-anche-150-anni-fa.html
Il teologo direbbe: riconosci il fallimento.
Gentile direttore,
le garbate domande che Fabrizio Mastrofini {psicologo ndr}mi ha rivolto nella sua lettera pubblicata sul n. 7 di Settimana sono importanti e meritano una breve ma accurata risposta.
Eppure si erano sposati in chiesa… di Fabrizio Mastrofini, “Settimana” 15 febbraio 2015
“Lo psicologo, se diventasse canonista , certificherebbe che quel matrimonio non è mai stato cristiano e tantomeno un sacramento. Cosa dice il liturgista? Cosa dice il teologo? Mi piacerebbe saperlo.”
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201502/150220mastrofini.pdf
Anzitutto, debbo precisare che il senso del mio articolo
vedi newsUCIPEM n. 532 – 8 febbraio 2014, pag. 7
www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=231:newsucipem-n-532-8-febbraio-2015&catid=84&Itemid=231
non era “contro” la nullità, come istituto giuridico canonico, ma contro il suo “abuso”. Io non reputo affatto che sia un “non senso” trovare a posteriori motivi di fallimento. Ciò che reputo un abuso è costringere tutti coloro che sperimentano una crisi a ricorrere a questo procedimento.
E qui viene il secondo punto delicato della questione. La testimonianza che Mastrofini porta a prova della plausibilità e della fondatezza di una rilettura “eziologica” del fallimento in un’incapacità dei soggetti conferma l’uso legittimo di una possibile nullità, ma non sposta di un millimetro la questione del suo “abuso”. In altri termini, i due coniugi, che egli ha incontrato, hanno raccontato, apertamente, la verità della loro storia. E in essa non è stato difficile riconoscere un “effettivo” e “possibile” capo di nullità del loro vincolo. La questione è invece rappresentata da coloro che, indotti dal “sistema”, giustificano il proprio fallimento con un motivo “fittizio” originario.
Per la Chiesa la questione, in fondo, non è il processo di riconoscimento di un “vizio d’origine”, ma la pretesa che un tale vizio renda irrilevante una storia. La psicologia, con la sua percezione della realtà profonda, può avanzare legittime diagnosi. Che, sulla base di esse, il soggetto possa riconoscere la propria “immaturità originaria” è altrettanto possibile. Ma questo non può escludere che, per altri versi, vi siano casi in cui, ad un originario rapporto maturo, sia subentrata una nuova e indominabile immaturità, che a nessun costo dovremmo essere costretti a retrodatare. Come oggi accade quasi ex officio. Ecco, su questi stratagemmi “troppo umani” occorre invertire la rotta e, anziché ampliare le fattispecie della nullità, restituire una dignità ecclesiale al fallimento e alla fine del vincolo. Senza essere sempre costretti a dire che ciò che finisce in realtà non era mai iniziato.
Andrea Grillo “Settimana” n. 8, 22 febbraio 2015
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201502/150220grillo1.pdf
“Sono d’accordo La Chiesa sarà più vicina ai fedeli”.
È una notizia che riguarda da vicino i sacerdoti di domani: aiuterà le vocazioni e renderà la Chiesa più vicina ai fedeli”. Alessandro Meluzzi, psichiatra, psicoterapeuta ed ex senatore di Forza Italia e Udeur, commenta le dichiarazioni di papa Francesco che ha “in agenda” la questione dei preti sposati in veste di ipodiacono [suddiacono] (primo passo verso il sacerdozio) di rito greco-melchita. Quindi conosce in prima persona la realtà dei preti cattolici di rito orientale.
Meluzzi, papa Francesco sembra disponibile a un’apertura verso i preti sposati: è un vero cambiamento per la chiesa cattolica?
Non c’è traccia di modernità. Nella storia del Cristianesimo ci sono secoli in cui il celibato non è assolutamente considerato un obbligo. Gli apostoli, per esempio, erano sposati. Pietro era sposato. E ancora si discute se lo fosse anche Gesù. Poi nel Medioevo, con la riforma gregoriana, ci fu una forte presa di posizione sul celibato, con l’espulsione delle mogli dei parroci dalle parrocchie. I quali, messi di fronte a una scelta, salvare il beneficio ecclesiastico e i possedimenti o mettere alla porta la moglie, scelsero sempre di cacciare la moglie. {inoltre c’era il problema della successione ereditaria. ndr}
La chiesa è pronta ad accogliere di nuovo le mogli in canonica?
La chiesa cattolica ha ben 18 riti, di questi, solo due prevedono il celibato: quello romano e quello ambrosiano. Non si tratta quindi di accoglierle di nuovo, ma di estendere anche a questi riti un’usanza che è ormai quasi una norma.
Da ipodiacono greco ortodosso, vede questo adeguamento in positivo?
Decisamente. La possibilità di avere preti sposati permetterebbe anche alle persone che hanno una volontà familiare e sessuale di avvicinarsi al sacerdozio. Eviterebbe, soprattutto, che i seminari cattolici creino, come succede sempre più spesso per le aspettative distorte di chi vi entra, un’abnorme concentrazione di persone con gusti omosessuali. Cercano loro stessi, la loro identità, e un rifugio e approdano a una vita che non vogliono.
Il celibato dovrebbe garantire la totale devozione del sacerdote alla comunità. Cosa cambierebbe se il prete avesse moglie e famiglia?
Ci sarebbero intere famiglie cristiane al servizio della comunità. La moglie del parroco, i figli del parroco, i nipoti. Si creerebbe una famiglia testimoniale di vita cristiana devota alla parrocchia. Ma il passaggio intermedio del pontefice sarà quello dei “viri probati”, dei diaconi di mezza età che potranno tranquillamente fare i preti. Una possibilità di cui si era già parlato durante il concilio di Trento e che ora torna di attualità. Anche perché ce n’è davvero bisogno. E dico, senza razzismo, che invece di importare dall’estero giovani preti, spesso anche un po’ famelici, sarebbe meglio concedere il sacerdozio a un buon padre di famiglia, anche di 55 anni, che ha figli grandi e nipotini.
Sicuramente sarà questo il primo passo di papa Francesco. Non c’è il rischio che “fare il prete” diventi una carriera?
Questo è un problema storico. Eppure credo che la gestione manageriale della chiesa sia molto più sviluppata con le forme clericali odierne di quanto potrebbe esserlo se fosse concesso il sacerdozio alle persone sposate. I sacerdoti hanno perso la percezione del contatto con l’umano e il quotidiano. I fedeli, invece, cercano vicinanza e comprensione. Probabilmente parlerebbero, e si confesserebbero, più volentieri con un uomo che abbia esperienza di famiglia, di paternità, di lavoro.
La vera chiesa è quella più vicina all’uomo?
Non c’è un’ingegneria istituzionale e cattolica perfetta. Però penso che la coesistenza di due cleri, uxorati e celibi, sia l’espressione ideale del cattolicesimo.
Virginia Della Sala intervista a Alessandro Meluzzi “il Fatto Quotidiano”. 20 febbraio 2015
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201502/150220meluzzidellasala.pdf
È giunta l’ora dei preti sposati?
Preti sposati. Il problema dei sacerdoti cattolici che per sposarsi devono rinunciare a celebrare, mentre i preti cattolici di rito orientale, che possono sposarsi, celebrano normalmente, è all’attenzione del Papa: “È presente nella mia agenda”, ha risposto a sorpresa ieri mattina durante un incontro con i sacerdoti romani. Il pontefice ha raccontato che lo scorso 10 febbraio, durante la messa del mattino, celebrata a Santa Marta, c’erano sette preti che festeggiavano 50 anni di sacerdozio. Una notizia normale, se non fosse che tra questi, ha spiegato il Papa, c’erano anche cinque preti sposati.
Ieri, la domanda sui sacerdoti coniugati, gli è stata rivolta da don Giovanni Cereti, teologo e rettore della Chiesa di San Giovanni Battista dei Genovesi a Roma. Don Cereti ha ricordato il caso delle Chiese Orientali, che prevedono l’ordinazione di uomini sposati, e le migliaia di preti sposati di rito latino che invece non possono celebrare.
«La Chiesa di Roma riammetta al ministero tutte queste persone preparate e serie, i preti sposati. Sapesse Santità in quanti tornerebbero. A migliaia…». “Il Papa ha accolto la mia proposta favorevolmente – ha spiegato – e con molta benevolenza. Ha detto che questo problema lo conosce bene e lo ha ben presente”.
Il teologo si è rivolto a Papa Francesco affrontando direttamente la questione: “Ho introdotto il mio discorso dicendo che quello al quale stavamo partecipando era un bellissimo incontro, una vera festa, che però escludeva quei tanti confratelli che negli anni, pur rimanendo grandi uomini di fede, hanno scelto una via diversa, quella del matrimonio. Un tema che si rende ancora più urgente vista la mancanza di clero nel mondo occidentale”.
E che il problema dei preti sposati sia all’attenzione di Bergoglio è stato poi confermato da monsignor Gianfranco Girotti, già reggente della Penitenzieria Apostolica: “La questione si sta discutendo animatamente da più parti e credo che sarà affrontata presto”.
Virginia Della Sala “il Fatto Quotidiano”. 20 febbraio 2015
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201502/150220dellasala.pdf
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CONCILIAZIONE FAMILIARE
Le coppie in crisi possono «ritrovarsi».
Le coppie in crisi possono «ritrovarsi» partendo dall’ascolto reciproco e dal tentativo di mettersi ciascuno nei panni dell’altro. «Non vogliamo che le persone rimangano insieme a tutti i costi, ma oggi tenere in vita i legami è un’operazione controcorrente». Parlano due esperti dell’Associazione per la conciliazione familiare.
Ascoltare le persone, cercare le ragioni della crisi, invitare a guardare i problemi non solo dal proprio punto di vista, ma anche da quello dell’altro. Sono le prime tappe del cammino che gli esperti dell’Associazione per la conciliazione familiare intraprendono a fianco delle coppie che hanno perso l’armonia e intendono separarsi. Nata nel novembre 2014, l’associazione formata da un gruppo di psicologi, avvocati, mediatori collabora con lo Sportello famiglia aperto dalle ACLI a Bologna.
Non vogliono tenere unita la coppia per forza, ma invitano prima di tutto a riconsiderare il valore dei legami che si sono stabiliti con l’altro. «Un’operazione che oggi è controcorrente – spiega Arianna Bellini, psicologa – perché la tendenza comune è quella di partire dal presupposto che l’amore sia finito e così si cerca subito di sostituire il vecchio col nuovo, l’oggetto di prima con qualcosa di più luccicante. Noi al contrario invitiamo le persone a non rimuovere il passato, a stare sul dolore subito e soprattutto a riconsiderare quello che è successo. Che senso ha avuto il mio matrimonio? Che valore ha avuto il legame con quella persona? Ripensare a questo vuol dire comprendere il valore dei propri legami”.
Tra le cause più frequenti che portano alla separazione ci sono la voglia del nuovo, un partner che dopo il matrimonio si rivela quello che non era e infine l’arrivo di un bambino che turba il precedente equilibrio della coppia.
Per quanto riguarda il primo caso, la spinta alla separazione è soprattutto sociale. «In un mondo che va veloce – precisa Bellini – si vuole avere tutto e si viene spinti al cambiamento continuo». Che cosa si può fare? «A volte basta parlare e fermarsi a riflettere. Così si capisce che la fatica fa parte della vita, che mettere da parte il partner equivale a buttare via la vita che si è fatta fino allora. In questo modo la crisi del rapporto diventa un’occasione per riflettere sull’importanza delle scelte soggettive, cosa che di solito si fa poco».
Sono frequenti anche i casi di chi lamenta un totale cambiamento del partner, una persona che dopo il matrimonio rivela una faccia completamente diversa da quella conosciuta prima. Di fronte a queste situazioni il dilemma è se restare all’interno del rapporto a due o andarsene. Il modo migliore per trovare una risposta è quello di aprirsi al mondo esterno. «Di solito in questi casi c’è sempre uno dei due che tende a isolare l’altro e a fargli il vuoto intorno, si tratta di coppie molto sole. Solo riaprendosi ai legami, la coppia può tornare a funzionare».
Infine anche la nascita di un figlio può turbare il rapporto, perché non si è più in due, ma in tre, ed è necessario trovare un altro equilibrio. L’avere un figlio poi porta a mettersi in discussione e fa riemergere identificazioni con i genitori, che prima erano finite nel cassetto. Anche in questo caso è importante riflettere. Cosa si vuole dall’essere genitori? Cosa si vuole da quel bimbo che è arrivato? Si pensa a ciò che si vuole concretamente dal bambino che c’è e non da quello ideale che si aveva in testa. In tutti i casi rimane fondamentale riflettere e tenere presente il grande valore dei legami, perché «i legami esistono – conclude Bellini – e servono a stare bene, a essere felici. Non si può stare bene da soli».
La finalità dell’associazione è anche quella di dare vita a una nuova figura professionale, il conciliatore familiare. «Adesso c’è il mediatore – spiega l’avvocato Massimiliano Fiorin, presidente dell’Associazione per la conciliazione familiare –, che è colui che cerca la soluzione migliore per l’affidamento dei figli e per la disciplina del patrimonio. Ci si limita insomma a trovare una soluzione concordata». Il conciliatore invece non si limita a condurre una mediazione, ma si sforza di ascoltare le persone, di invitarle riflettere e a ripensare al loro rapporto e alle cause della crisi. «A volte mi è capitato – racconta Fiorin – di incontrare coppie, che per la prima volta hanno guardato aspetti che prima non avevano considerato. Ed è bastato anche soltanto questo per non separarsi».
Ilaria Chia Il regno documenti n. 6\2015
www.dehoniane.it/control/ilregno/ospiteDetail?idArticolo=950650
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DALLA NAVATA
1° domenica di Quaresima – anno B –22 febbraio 2015
Genesi 09.09 «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi».
Salmo 24.05 «Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza».
1 Pietro 03.18 «Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo ma reso vivo nello spirito».
Marco 01.15 «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo»
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DANNI
Responsabili gli eredi se il padre trascura il figlio.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, sentenza n. 3079, 16 febbraio 2015.
Risarcimento del danno endofamiliare. Il figlio trascurato dal genitore ha diritto di ottenere dagli eredi del padre defunto il risarcimento del danno non patrimoniale.
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio sorge al momento della nascita, anche se la procreazione sia stata accertata con sentenza: la dichiarazione giudiziale di paternità produce, infatti, gli effetti del riconoscimento comportando per il genitore, in base all’art. 261 c.c., tutti i doveri propri della procreazione, mantenimento incluso.
L’obbligazione inerisce lo status di genitore, la cui efficacia retroagisce al momento della nascita del figlio. Inoltre, l’obbligo di mantenere (oltre che educare ed istruire) i figli sussiste per il solo fatto di averli generati, indipendentemente da qualsiasi domanda giudiziale. Ne consegue che, quand’anche il figlio sia stato riconosciuto al momento della nascita da uno solo dei genitori che abbia poi integralmente provveduto al suo mantenimento, l’altro genitore resta obbligato anche per il periodo antecedente alla sentenza che dichiara la paternità o maternità naturale.
Ciò posto, nel caso in cui un genitore mostri totale disinteresse per il figlio naturale, si ricade nell’ambito del cd. Illecito endofamiliare, la cui rilevanza è questione oramai indiscussa in giurisprudenza. Allorché siano lesi diritti inerenti la sfera dei rapporti familiari, intesi come genitore/figlio, la tutela giuridica del soggetto leso non è limitata al ricorso ai soli strumenti strettamente propri del diritto di famiglia: trattandosi, infatti, di una lesione di diritti e interessi costituzionalmente garantiti, si ricade nell’ambito dell’illecito civile, potendo quindi dare adito ad un’azione per il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., come reinterpretato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 26972/2008.
Fatte queste premesse, nel caso di specie la Suprema Corte, con la sentenza 3079/2015, riconosce a una figlia naturale, trascurata dal padre per tutta la vita, il diritto di agire nei confronti degli eredi del genitore defunto (moglie e figlia “legittima”) per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale: ad essere stato violato, infatti, non è solo il diritto al mantenimento, educazione e istruzione, ma l’intera sfera dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione, ben più ampia e complessa. E la cui lesione comporta una ferita ineludibile e profonda, destinata a segnare per sempre la vita del figlio trascurato dal genitore.
Confermata quindi la condanna inflitta dalla Corte di merito agli eredi al risarcimento del danno non patrimoniale in favore della figlia trascurata dal padre, e quantificato in 50.000 euro.
Valeria Mazzotta persona e danno 17 febbraio 2015 sentenza
www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=47163&catid=126&Itemid=373&mese=02&anno=2015
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DEMOGRAFIA
La ‘sterilizzazione’ di Stato: ecco perché l’Italia non fa figli.
Un Paese di vecchi e sempre meno neonati. E’ l’Italia fotografata dall’Istat: 509 mila nascite in Italia nel 2014, 5mila in meno rispetto al 2013. Il demografo Alessandro Rosina sostiene che la denatalità, è la conseguenza “prima di tutto di politiche inadeguate”. Poi c’è la tendenza a posticipare la natalità, con una ‘tattica del rinvio’ che rischia di complicare la possibilità di realizzare i propri obiettivi di vita.
Il declino demografico dell’Italia sembra inarrestabile. Il numero medio di figli per donna è pari a 1,39 (contro una media europea di 1,58): se le italiane procreano 1,31 figli, 1le straniere residenti nel nostro Paese hanno in media 1,97 figli a testa. L’età media al parto sale a 31,5 anni.
Sulle cause di questo fenomeno, Rosina, non ha dubbi. L’Europa è un continente che invecchia e ha problemi di scarso ricambio generazionale. Ma in Italia mancano quelle condizioni che in altri Paesi europei esistono. L’alto indice di disoccupazione giovanile obbliga a posticipare nel futuro scelte impegnative come il formare una famiglia autonoma e fare figli. Il nostro Paese investe poco in politiche attive, che aiutino i giovani a inserirsi nel mercato del lavoro e che sostengano il reddito nelle situazioni di disoccupazione.
Non è un caso insomma se la Francia è vicina al tasso di sostituzione generazionale di 2 figli per donna, come pure alcuni Paesi del Nord Europa. Anche perché in Italia non esistono adeguate politiche che investano sulla famiglia. All’interno della spesa sociale siamo uno dei Paesi che destina la quota più bassa in investimenti per la famiglia, e questo si ripercuote sui servizi erogati, ad esempio quelli che aiutano la conciliazione tra lavoro e famiglia, come gli asili nido. La situazione si fa drammatica al sud. Lontana nel tempo l’immagine delle famiglie numerose meridionali. Ormai nelle regioni settentrionali abbiamo 1,46 figli per donna; mentre a sud la media scende a 1,32.
Al di là della propensione individuale, degli aspetti culturali e del desiderio di fare famiglia, le effettive difficoltà economiche e le carenze del welfare – più accentuate al Sud – pesino molto sulle scelte delle famiglie”.
E una conferma di ciò si ha dalla fertilità delle donne straniere. Tra le immigrate la fertilità è scesa per la prima volta sotto la soglia dei 2 figli per donna. Nonostante partano da una propensione maggiore ad avere figli, legata agli aspetti culturali dei Paesi d’origine, le mamme straniere si trovano ad affrontare le medesime difficoltà delle ‘colleghe’ italiane, in termini economici e di carenza dei servizi di welfare”. “Ecco perché-sottolinea Rosina– non è con gli 80 euro mensile previsti dal bonus bebé che le italiane e le straniere residenti nel nostro Paese torneranno a procreare. indica che lo Stato vuole fare qualcosa e può scardinare quella propensione al rinvio in chi vuole avere figli. È un segnale positivo in attesa di misure più rilevanti, che però bisogna cominciare da subito a mettere in campo. Un reale beneficio potranno assicurarlo solo misure strutturali: un fisco più equo, maggiori investimenti in servizi per l’infanzia, politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia”.
Aibi 16 febbraio 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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FECONDAZIONE ARTIFICIALE
Pasticci per il feto.
Chi decide se abortire o non abortire in caso di maternità surrogata (utero in affitto)? La madre biologica (che però non possiede l’utero) o la madre in affitto (che però non sarà poi a contatto col feto)? E ora funziona – si riporta nell’articolo – che se la madre biologica vuole far abortire l’altra e l’altra rifiuta, la biologica può non accettare il figlio dopo la nascita?
Carlo Bellieni 22 febbraio 2015. http://carlobellieni.com/?p=1975
Maternità surrogata e aborto per il feto.
Una diagnosi di anomalie fetali presenta ai genitori un difficile – anche tragico – dilemma morale. Dove questa diagnosi è fatto nel contesto della maternità surrogata è una difficoltà aggiunta, vale a dire che non è ovvio che dovrebbe essere coinvolto nelle decisioni sull’aborto, la persona che normalmente ha il diritto di decidere – la donna incinta – che non intende crescere il bambino.
Ciò solleva la questione: in che misura, se non del tutto, se gli aspiranti genitori essere coinvolti nel processo decisionale? In maternità surrogata commerciale si pensa che, come parte dell’accordo contrattuale gli aspiranti genitori acquisiscono il diritto di prendere questa decisione. Al contrario, nella maternità surrogata altruistica la donna incinta si riserva il diritto di prendere questa decisione, ma gli aspiranti genitori sono liberi di decidere di non adottare il bambino.
Noi sosteniamo che entrambe queste strategie sono moralmente sbagliate, e che i problemi incontrati servono a mettere in evidenza i difetti più fondamentali all’interno dei modelli commerciali e altruistici, così come nei quadri giuridici e istituzionali che li supportano. Noi sosteniamo in favore del modello professionale, che riconosce i diritti e le responsabilità di entrambe le parti e fornisce un quadro giuridico e istituzionale che supporta bene il processo decisionale. In particolare, il modello professionale riconosce il diritto della surrogata per decidere se sottoporsi a un aborto, e l’obbligo degli aspiranti genitori ‘di accettare la custodia legale del bambino. Pur non risolvendo tutti i problemi che sorgono in maternità surrogata, il modello fornisce un framework [struttura logica)] che supporta bene il processo decisionale.
Abstrat Walker R , van Zyl L .
PubMed 17 febbraio 2015 www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25688455
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FISCO
Imu, Tari, Tasi: chi paga nel caso di separazione dei coniugi?
Il coniuge assegnatario della casa familiare è il soggetto destinatario dell’obbligo contributivo. La fine di un matrimonio lascia numerosi strascichi, soprattutto di natura economica, ancor più se ci sono figli.
Se il rapporto affettivo tra marito e moglie può terminare, i coniugi non possono tuttavia separarsi e prendere “semplicemente” ciascuno la propria strada: molteplici sono le conseguenze da affrontare tra cui quella di stabilire a chi compete continuare a vivere nella casa che è stata l’abitazione familiare.
Qualora vi siano figli, la nuova normativa sull’affidamento congiunto [Legge 8 febbraio 2006, n. 54] prevede che il godimento della casa familiare sia attribuito tenendo conto, in via prioritaria, dell’interesse della prole la quale deve risentire nella minor misura possibile della rottura dell’unità familiare [art. 155 quater, co. 1, cod. civ ]. Per tale ragione, il legislatore prevede che nella casa familiare continuino ad abitare i figli e con loro uno dei genitori (che di solito è la madre) pur dovendo entrambi i genitori provvedere al mantenimento della prole in misura proporzionale ciascuno al proprio reddito [art. 155, co. 4, cod. civ. ].
A chi spetta però pagare gli oneri tributari gravanti sulla casa familiare?
Mediante il provvedimento di assegnazione della casa, sentenza o decreto di omologazione, il coniuge assegnatario diviene titolare di un vero e proprio diritto di abitazione e dunque unico destinatario degli obblighi tributari.
Poiché, però, la legge di stabilità del 2014 ha eliminato l’IMU relativamente alla prima casa (ricollegando la nozione di prima casa a quella di residenza), il coniuge assegnatario non sarà oggi tenuto a pagare l’Imposta municipale aggiunta sull’immobile in cui vive con i figli [D.L. 31.08.2013, n. 102 convertito in L. 28.10.2013, n. 124].
Ad ogni buon conto l’agevolazione ora indicata è tutt’altro che reale perché il legislatore ha ben pensato di sostituire all’IMU sulla prima casa, la TASI cioè la Tassa sui servizi indivisibili. Presupposto per l’applicazione della TASI è il possesso o la detenzione a qualunque titolo di immobili: ciò significa che il coniuge assegnatario si ritroverà a dovere sostenere in via esclusiva l’obbligo tributario in quanto unico occupante, insieme ai figli, della casa familiare.
Cosa accade, però, al coniuge non assegnatario che sia titolare del diritto di proprietà su altro immobile presso il quale ha trasferito la propria residenza?
Alla luce delle considerazioni prima esposte, il coniuge non assegnatario non dovrà pagare l’IMU sulla nuova abitazione, a meno che non si tratti di immobile di lusso, ma si troverà a dover pagare anch’egli la TASI. Le stesse considerazioni valgono per la TARI, cioè la Tassa sui rifiuti, che dovrà essere pagata soltanto da chi abita nell’immobile.
A questo punto, altro quesito che spesso si pone riguarda il caso in cui il coniuge non assegnatario proprietario dell’immobile in cui vive sia anche proprietario esclusivo o comproprietario insieme alla moglie della casa familiare: come dovrà considerarsi per lui quest’ultima? Equivarrà a seconda casa sulla quale sarà tenuto a pagare l’IMU? Sul punto non vi sono dubbi: poiché l’immobile viene utilizzato dall’ex moglie quale abitazione principale del nucleo familiare sulla quale la stessa vanta un diritto reale di godimento, cioè il diritto di abitazione, ai fini tributari la casa familiare non potrà essere considerata seconda casa ed il coniuge non assegnatario non sarà tenuto, quindi, a versare l’IMU.
Giovanna Pangallo la legge per tutti 16 febbraio 2015
www.laleggepertutti.it/78545_imu-tari-tasi-chi-paga-nel-caso-di-separazione-dei-coniugi
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
La famiglia. I fratelli.
“Che dolore quando un rapporto fraterno si rovina. Si apre la strada a odio e tradimenti”. Papa Francesco prosegue, nell’Udienza generale, le catechesi sulla famiglia. Oggi parla del legame tra fratelli e sorelle, “un’esperienza forte, impagabile, insostituibile”
“Fratello”, “sorella”… Due parole “che il cristianesimo ama molto” e che attraversano tutte le epoche e culture “grazie all’esperienza familiare”. Su di esse si concentra la catechesi di Papa Francesco durante l’Udienza generale di oggi in piazza San Pietro. Il Pontefice aggiunge un altro tassello al grande mosaico costruito ogni mercoledì dedicato alla famiglia. Il primo sul ruolo insostituibile della madre, poi sulla presenza/assenza del padre e, nella scorsa udienza, sul dono gratuito di Dio che sono i figli.
Oggi invece si parla di “fratelli”, perché “il legame fraterno”, sin da Caino e Abele, ha sempre avuto “un posto speciale nella storia del popolo di Dio”, sottolinea il Papa. Cristo poi ha portato alla pienezza questa esperienza umana “potenziandola così che vada ben oltre i legami di parentela e possa superare ogni muro di estraneità”.
Infatti “la fratellanza è bella”, afferma Bergoglio. Laddove, invece, è orribile “quando il rapporto fraterno si rovina”, perché si apre la strada ad “esperienze dolorose di conflitto, di tradimento, di odio”. “Quando si rompe il legame fra fratelli diviene una cosa brutta, anche cattiva per l’umanità”, rimarca a braccio il Pontefice. “Anche in famiglia, quanti fratelli hanno litigato per piccole cose, o per un’eredità, e poi non si parlano più, non si salutano più… Ma questo è brutto. La fratellanza è una cosa grande, pensare che tutti e due, tutti i fratelli hanno abitato il grembo della stessa mamma durante nove mesi, vengono dalla carne della mamma! E non si può rompere la fratellanza”.
Ognuno di noi conosce famiglie che hanno i fratelli divisi, che hanno litigato o “forse nella nostra famiglia ci sono alcuni casi”. Francesco invita a riflettere: “Pensiamo un po’ invita e chiediamo al Signore per queste famiglie, perché il Signore ci aiuti a riunire i fratelli, ricostituire la famiglia”. Al contempo – soggiunge, “preghiamo per i fratelli che si sono divisi”, perché questa “è una cosa davvero dolorosa”.
Il Papa sofferma la sua riflessione quindi sul legame fraterno che si forma in famiglia tra i figli, che, nutrito da affetti e dall’educazione, “si irradia come una promessa sull’intera società e sui rapporti tra i popoli”. In famiglia, infatti, tra fratelli, “si impara come si deve convivere in società”. La famiglia, evidenzia Bergoglio a braccio, “risplende in modo speciale quando vediamo la premura, la pazienza, l’affetto di cui vengono circondati il fratellino o la sorellina più deboli, malati, o portatori di handicap. I fratelli e le sorelle che fanno questo sono moltissimi, in tutto il mondo.”. E questo “lavoro di aiuto fra i fratelli” è bellissimo. Come pure è bello “quando i fratelli sono tanti in famiglia – oggi, ho salutato una famiglia, che ne ha nove – e il più grande o la più grande aiuta il papà, la mamma, a curare i più piccoli”.
Forse, però, questa “generosità” non viene apprezzata abbastanza. O forse – dice il Papa – non sempre siamo proprio consapevoli che “è la famiglia che introduce la fraternità nel mondo”. Forse dimentichiamo che “avere un fratello, una sorella che ti vuole bene è un’esperienza forte, impagabile, insostituibile”, afferma Papa Francesco.
Lo stesso accade per la fraternità cristiana: “I più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno ‘diritto’ di prenderci l’anima e il cuore”, sottolinea. “Sì, essi sono nostri fratelli e come tali dobbiamo amarli e trattarli. Quando questo accade, quando i poveri sono come di casa, la nostra stessa fraternità cristiana riprende vita”. E se i cristiani vanno incontro ai poveri e deboli non lo fanno “per obbedire ad un programma ideologico”, ma perché “la parola e l’esempio del Signore ci dicono che tutti siamo fratelli”. Questo è, infatti “il principio dell’amore di Dio e di ogni giustizia fra gli uomini” e oggi più che mai – rileva il Santo Padre – “è necessario riportare la fraternità al centro della nostra società tecnocratica e burocratica”. Perché solo così “la libertà e l’uguaglianza prenderanno la loro giusta intonazione”.
Allora, “non priviamo a cuor leggero le nostre famiglie, per soggezione o per paura, della bellezza di un’ampia esperienza fraterna di figli e figlie”, è l’appello conclusivo del Papa. “Non perdiamo la nostra fiducia nell’ampiezza di orizzonte che la fede è capace di trarre da questa esperienza, illuminata dalla benedizione di Dio”.
Come nelle scorse udienze, prima di concludere, Francesco invita a pregare in silenzio pensando ognuno ai propri fratelli e sorelle: “Pensiamo, in silenzio e in silenzio dal cuore preghiamo per loro. Un istante di silenzio … Ecco – conclude – con questa preghiera li abbiamo portati tutti, fratelli e sorelle, con il pensiero, con il cuore, qui in piazza per ricevere la benedizione”.
Salvatore Cernuzio Zenit.org 18 febbraio 2015
www.zenit.org/it/articles/che-dolore-quando-un-rapporto-fraterno-si-rovina-si-apre-la-strada-a-odio-e-tradimenti
testo ufficiale http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150218_udienza-generale.html
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GOVERNO
Conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Consiglio dei Ministri n. 51, 20 febbraio 2015 estratto
Decreti attuativi del jobs act (…)
4. Disposizioni in materia di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (esame preliminare)
Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, ha approvato un decreto legislativo contenente disposizioni in materia di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, a norma dell’articolo 1, commi 8 e 9 della legge n. 183 del 2014.
Si tratta di un provvedimento che interviene, prevalentemente, sul testo unico a tutela della maternità (n. 151 del 26 marzo 2001) e reca misure volte a sostenere le cure parentali, a tutelare la maternità delle lavoratrici intervenendo, in alcuni casi, anche in settori che già erano stati oggetto di intervento da parte della Corte Costituzionale e non ancora recepiti in norma.
Il decreto interviene, innanzitutto, sul congedo obbligatorio di maternità, al fine di rendere più flessibile la possibilità di fruirne in casi particolari come quelli di parto prematuro o di ricovero del neonato. Nel primo caso, infatti, i giorni di astensione obbligatoria non goduti prima del parto sono aggiunti al periodo di congedo di maternità post partum anche quando la somma dei due periodi superi il limite complessivo dei 5 mesi; nel secondo caso si prevede la possibilità di usufruire di una sospensione del congedo di maternità, a fronte di idonea certificazione medica che attesti il buono stato di salute della madre. Entrambe le soluzioni sono dirette a favorire il rapporto madre-figlio senza rinunciare alle tutele della salute della madre.
Il decreto prevede un’estensione massima dell’arco temporale di fruibilità del congedo parentale dagli attuali 8 anni di vita del bambino a 12. Quello parzialmente retribuito (30%) viene portato dai 3 anni di età del bambino a 6 anni; quello non retribuito dai 6 anni di vita del bambino ai 12 anni. Analoga previsione viene introdotta per i casi di adozione o di affidamento, per i quali la possibilità di fruire del congedo parentale inizia a decorrere dall’ingresso del minore in famiglia. In ogni caso, resta invariata la durata complessiva del congedo.
In materia di congedi di paternità, viene estesa a tutte le categorie di lavoratori, e quindi non solo per i lavoratori dipendenti come attualmente previsto, la possibilità di usufruire del congedo da parte del padre nei casi in cui la madre sia impossibilitata a fruirne per motivi naturali o contingenti.
Sono inoltre state introdotte norme volte a tutelare la genitorialità in caso di adozioni e affidamenti prevedendo estensioni di tutele già previste per i genitori naturali.
Oltre agli interventi di modifica del testo unico a tutela della maternità, il decreto contiene due disposizioni innovative in materia di telelavoro e di donne vittime di violenza di genere.
La norma sul telelavoro prevede benefici per i datori di lavoro privato che vi facciano ricorso per venire incontro alle esigenze di cure parentali dei loro dipendenti. In particolare, per il riconoscimento dei benefici si esclude dal computo dei limiti numerici previsti dalle leggi e dai contratti i telelavoratori che rientrino nella fattispecie individuata dal decreto.
La seconda norma introduce il congedo per le donne vittime di violenza di genere ed inserite in percorsi di protezione debitamente certificati e, quindi, si prevede la possibilità per queste lavoratrici dipendenti di imprese private di astenersi dal lavoro, per un massimo di tre mesi, per motivi legati a tali percorsi, garantendo l’intera retribuzione, la maturazione delle ferie e degli altri istituti connessi. Viene anche introdotto il diritto di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale a richiesta della lavoratrice.
Le collaboratrici a progetto hanno diritto alla sospensione del rapporto contrattuale per analoghi motivi sempre per un massimo di tre mesi.
http://www.governo.it/Governo/ConsiglioMinistri/dettaglio.asp?d=77929
http://www.governo.it/backoffice/allegati/77929-10026.pdf
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NULLITÀ DEL MATRIMONIO
Nullità ecclesiastica: il ricorso congiunto annulla l’ostacolo della convivenza.
Corte di Cassazione.-prima Sezione civile, sentenza n. 1495, 27 gennaio 2015.
La convivenza tra coniugi durata più di tre anni impedisce la delibazione nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario. Si tratta però di eccezione che può essere rilevata soltanto dalla parte interessata, perché prevista a tutela dell’affidamento incolpevole di uno dei due coniugi. Nel caso in cui pertanto marito e moglie presentino un ricorso congiunto, volto a chiedere la delibazione della sentenza ecclesiastica, la convivenza matrimoniale non si pone come ostacolo.
Con la sentenza esprimendo tale principio di diritto, la Corte di Cassazione, torna, in materia di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario durato molti anni, aggiungendo un tassello a una questione che ha origini remote. La problematica, infatti, è stata a lungo oggetto di un contrasto giurisprudenziale, risolto con la recente sentenza 16379, 17 luglio 2014 delle sezioni Unite. www.altalex.com/index.php?idnot=68384
La vicenda all’origine della pronuncia – Una coppia, coniugata da sei anni, con due figli, chiedeva al tribunale ecclesiastico di dichiarare la nullità del matrimonio a causa dell’esclusione di uno dei bona matrimonii da parte del marito. L’uomo, in particolare, si era sposato escludendo dall’inizio che al vincolo fosse connesso l’obbligo di fedeltà (bonum fidei). Com’è noto la mancanza di accettazione del vincolo esclusivo di fedeltà all’altro coniuge, costituisce, per l’ordinamento canonico una causa di nullità del matrimonio. Dichiarata pertanto la nullità delle nozze dalla competente autorità ecclesiastica, i due, con ricorso congiunto, si rivolgevano alla Corte d’appello per la delibazione della sentenza nell’ordinamento italiano. La Corte territoriale peraltro respingeva la loro domanda sulla base della considerazione secondo cui, la convivenza di sei anni osta, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno alla delibazione della sentenza. La donna ricorreva allora in cassazione.
L’insufficiente tutela del coniuge – Per molto tempo matrimoni durati, a volte, anche decine di anni, venivano dichiarati nulli nell’ordinamento italiano mercé la delibazione di sentenze dei tribunali ecclesiastici. Unioni di venti o trenta anni, spesso arricchite dalla nascita di figli, venivano cancellate perché al momento del matrimonio uno dei due non credeva nella sacramentalità delle nozze, o nell’indissolubilità del vincolo coniugale (bonum sacramenti) o nell’apertura alla nascita di figli (bonum prolis), anche se tali riserve erano rimaste a livello di intenzione o pensiero non espresso. Così non è nell’ordinamento italiano in cui sono fondamentali i principi della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole, considerati dalla giurisprudenza di legittimità parte integrante dell’ordine pubblico.
Problematica diviene inoltre in questi casi la posizione del coniuge economicamente più debole. Com’è noto, infatti, in seguito a una dichiarazione di nullità matrimoniale al coniuge meno abbiente spetta un limitato trattamento economico regolato dagli articoli 129 e 129-bis del Cc a meno che nelle more del giudizio di delibazione lo stesso non abbia previamente ottenuto una sentenza di divorzio.
Il coniuge, in seguito dunque alla delibazione di una sentenza di nullità del matrimonio concordatario, risulta così, come più volte specificato dalla stessa Cassazione, insufficientemente tutelato rispetto al miglior trattamento che riceverebbe in seguito a una pronuncia di divorzio e ciò soprattutto quando la sentenza di nullità interviene a distanza di anni dalla celebrazione delle nozze e si sono consolidate situazioni, anche di comunione di vita, che vengono poste nel nulla dalla pronuncia stessa.
Gli interventi giurisprudenziali – La giurisprudenza italiana ha tentato di porre rimedio a tale situazione. Si sono susseguiti, infatti, vari interventi che attribuiscono rilievo, quale situazione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, alla convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio (Cassazione 1343/2011 e 9844/2012). Quest’orientamento giurisprudenziale parte dalla fondamentale distinzione tra matrimonio atto e matrimonio rapporto e insiste su quest’ultimo aspetto, il matrimonio cioè vissuto, in relazione al quale sono da considerare gli effetti di ordine personale e patrimoniale che in conseguenza dell’instaurarsi del vincolo si producono tra i coniugi e tra gli stessi e i figli, nonché gli effetti derivanti da separazione o dallo scioglimento del vincolo.
In tal senso la giurisprudenza sottolinea che il codice civile, prevedendo espressamente termini brevi di impugnazione per far valere la nullità, attribuisce importanza alla volontà delle parti di continuare e sanare il rapporto matrimoniale durato a lungo e già, a volte, definito e regolato con la separazione personale tra i coniugi. In quest’ordine di idee la giurisprudenza (richiamando Cassazione 19809/2008), rileva che l’ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese favor per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali, con la conseguenza che «i motivi per i quali esso si contrae, che, in quanto attinenti alla coscienza, sono rilevanti per l’ordinamento canonico, non hanno di regola significato per l’annullamento in sede civile».
Fondamentale in questo contesto è comunque la differenza tra la convivenza e la semplice durata del matrimonio. Si sostiene, infatti, che la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio concordatario contrasta con l’ordine pubblico italiano solo nel caso in cui, dopo le nozze, pur viziate, si sia instaurato tra i coniugi un vero consorzio familiare e affettivo, con superamento implicito della causa originaria di invalidità, al di là della durata legale del vincolo (Cassazione 1780/2012 e 9844/2012).
L’esistenza di un contrasto – Non tutta la giurisprudenza peraltro è stata concorde con tale linea interpretativa. Alcuni interventi, affermano, infatti, che la convivenza, seppur protrattasi per molti anni non osta, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico in quanto «non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l’istituto del matrimonio» (Cassazione 8926/2012). Tale orientamento parte dall’assunto secondo cui la riserva di giurisdizione sopravvive a favore dei tribunali ecclesiastici per le cause volte ad accertare la nullità del matrimonio concordatario. Di conseguenza, si sostiene, le controversie relative all’accertamento della nullità del matrimonio concordatario rimangono riservate in toto alla cognizione degli organi giurisdizionali dell’ordinamento canonico, fermo restando che il giudice dello Stato continua ad avere giurisdizione sull’efficacia civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità attraverso il procedimento di delibazione, in cui si valuta il contrasto con l’ordine pubblico interno. In tal senso si precisa che pur essendo la disposizione canonica che consente l’impugnativa del matrimonio in ogni tempo contraria al principio imperativo, contenuto nell’ordinamento statuale, secondo cui non è consentita l’impugnazione del matrimonio civile simulato dopo il decorso di un certo periodo, tale regola non costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento.
L’intervento delle sezioni Unite – Il recente intervento delle sezioni Unite mette un punto fermo alla diatriba (Cassazione n. 16739, 17 luglio2014). www.altalex.com/index.php?idnot=68384
Partendo dal presupposto della fine della riserva di giurisdizione mercé l’Accordo del 1984 (articolo 13), la Corte ha affermato che la convivenza tra coniugi, protrattasi per un certo periodo impedisce la delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio. La convivenza deve però innanzitutto essere caratterizzata da «esteriorità» ossia essere riconoscibile all’esterno e perciò anche dimostrabile in giudizio, da parte dell’interessato, restando irrilevanti tutti gli aspetti del cosiddetto foro interno. Deve inoltre trattarsi, si precisava, non di mera coabitazione ma di «consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo». Impedisce pertanto la delibazione della sentenza ecclesiastica non una mera coabitazione materiale sotto lo stesso tetto, ma solamente una vera e propria convivenza significativa di un’instaurata «affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti e obblighi reciproci», come tra veri coniugi, tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato, nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto. Peculiarità di tale sentenza è stata la determinazione precisa della durata della convivenza affinché la stessa possa essere ostativa a una pronuncia di nullità. La convivenza, infatti, deve, si precisava, essere stabile, essere durata cioè per un determinato periodo di tempo trascorso il quale può legittimamente dedursi anche una piena ed effettiva «accettazione del rapporto matrimoniale».
Tale durata veniva dalla Corte di Cassazione determinata nel trascorrere di tre anni dalle nozze, tempo di convivenza necessario, ai sensi della disciplina in materia di adozione dei minori, ai fini di determinare la stabilità della coppia di coniugi aspirante all’adozione. Quando assume queste caratteristiche la convivenza pertanto integra un aspetto essenziale e costitutivo del matrimonio rapporto, tale da potersi ricomprendere nella nozione di ordine pubblico interno ostativa, dunque, alla dichiarazione di efficacia nello Stato italiano della sentenza canonica di nullità del matrimonio.
La tutela del coniuge più debole – La sentenza in esame, anche se a una lettura veloce potrebbe sembrare il contrario, sposa quest’indirizzo giurisprudenziale. Precisa, infatti, il collegio, richiamando quanto sottolineato dalle sezioni Unite che la sussistenza di una convivenza coniugale durata per più di tre anni integra un’eccezione tale da impedire la delibazione della nullità del matrimonio. Rilevante peraltro è la precisazione secondo cui si tratta di un’eccezione in senso stretto che può di conseguenza essere fatta valere solo dal coniuge, parte del rapporto matrimoniale. Tale situazione riguarda, infatti, come precisato anche dalle sezioni Unite, la sfera personalissima dello svolgimento del matrimonio.
L’eccezione non può dunque essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di delibazione, né essere rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione. Si pone, infatti, in materia una differenziazione a seconda che la domanda di delibazione sia proposta da entrambe le parti, tramite una domanda congiunta, oppure da una sola di esse.
Nella prima ipotesi sostenevano le sezioni Unite non vi sono dubbi che la sentenza canonica di nullità sia delibabile, anche in presenza di una convivenza coniugale dotata di tutti i caratteri richiesti della durata e dell’esteriorità, potenzialmente idonea a costituire ostacolo alla delibazione. È necessario, infatti, dare, sosteneva la Corte, prevalenza alla «consapevole, concorde manifestazione di volontà delle parti». Si tratta di ipotesi in cui, come nella specie, non si ha la necessità di tutelare il coniuge incolpevole. Nel caso in esame in particolare era stato il marito a contrarre matrimonio pur in assenza di uno dei bona matrimonii. Nonostante ciò la donna, consapevole della situazione, desiderava palesemente che la sentenza ecclesiastica producesse i suoi effetti anche nell’ordinamento civile: entrambi hanno presentato richiesta di delibazione e, addirittura di fronte al rigetto del ricorso da parte della Corte d’appello, è stata la moglie a proporre impugnazione.
La riserva mentale – La questione richiama la disciplina della riserva mentale. È ben noto che non può essere resa esecutiva nell’ordinamento italiano la sentenza ecclesiastica che dichiari la nullità del matrimonio concordatario per esclusione unilaterale dei bona matrimonii, laddove la riserva mentale sia rimasta nella sfera psichica del suo autore e non sia stata manifestata, ovvero non sia stata conosciuta o conoscibile dall’altro coniuge, in quanto, in tal caso, si pone in contrasto con l’inderogabile principio della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. Peraltro il limite dell’ordine pubblico così inteso non risulta travalicato laddove la richiesta di delibazione sia avanzata dal coniuge incolpevole, che abbia rinunciato a far valere la sua buona fede, o laddove lo stesso non si opponga rendendo così possibile la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii (Cassazione 21865/2005 e 1822/2005).
I provvedimenti conformi – Conformi ai principi dettati dalle sezioni Unite del 2014 sono altri due interventi della Corte di Cassazione, coevi a quello in esame che sottolineano come non sia possibile delibare la sentenza che dichiara la nullità del matrimonio concordatario in presenza di una convivenza matrimoniale durata per più di tre anni. Nel primo caso (Cassazione 1494/2015) il matrimonio era stato dichiarato nullo dai tribunali ecclesiastici per immaturità psicologica e impotentia coeundi del marito. La convivenza tra i coniugi era peraltro durata 12 anni durante i quali la moglie aveva assistito quotidianamente l’uomo alleviando la sua situazione fisica e psicologica.
La Corte, si è innanzitutto soffermata sul rapporto matrimoniale precisando che, nella specie, la coabitazione tra i due aveva dato luogo a una convivenza effettiva in quanto sostenuta dai doveri di assistenza e solidarietà che ne costituiscono il fondamento costituzionale. Ha di conseguenza sostenuto, richiamando in toto i principi dettati dalle sezioni Unite, che la dedotta esistenza di un’incapacità psichica originaria, astrattamente idonea a viziare il matrimonio atto non può «escludere l’indagine intorno ai parametri di ordine pubblico che governano il matrimonio rapporto, e in particolare non può trascurare il rilievo del carattere costitutivo della convivenza così come declinata dalle norme costituzionali interne, europee e convenzionali».
Anche nell’ulteriore sentenza n. 1493 del 2015 [vedi sotto], caso in cui si chiedeva la delibazione della nullità di un matrimonio dichiarata a causa dell’incapacità della moglie di assumersi le responsabilità nascenti dal matrimonio, la Cassazione ha respinto la domanda di delibazione, in quanto la convivenza si era protratta per vari anni.
Le osservazioni conclusive – La Corte di Cassazione, pertanto, ha seguito, l’interpretazione dettata dalla recente sentenza 16739/2014, evitando così il sorgere di nuovi contrasti. In effetti, in materia, dopo l’intervento delle sezioni Unite del 2011 (n. 1343), che accoglieva l’orientamento secondo cui una lunga convivenza impedisce la delibazione nell’ordinamento italiano della sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio il contrasto non era stato sedato in quanto, come sopra specificato, vi erano stati interventi giurisprudenziali in senso opposto (Cassazione 8926/2012).
L’orientamento che attualmente si viene a consolidare se da una parte tutela la buona fede del coniuge impedendo la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio quando il rapporto matrimoniale, effettivamente vissuto sia durato più di tre anni, dall’altra in assenza di un interesse di tale coniuge alla conservazione della situazione consente la delibazione dei provvedimenti ecclesiastici, ciò sulla base dell’assunto secondo cui il principio di tutela dell’affidamento ancorché inderogabile appartenga alla sfera di disponibilità del soggetto.
Sabina Anna Rita Galluzzo il sole24ore 9 febbraio 2015
www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/art/civile/2015-02-05/nullita-ecclesiastica-ricorso-congiunto-annulla-l-ostacolo-convivenza–120727.php?uuid=ABimpspC
Individuata condizione ostativa di ordine pubblico alla delibazione.
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 1493, 27gennaio 2015
L’individuata condizione ostativa di ordine pubblico può essere validamente opposta ad ogni tipologia di vizio del consenso, non potendo essere limitata ai vizi relativi ai bona matrimonii. Le ragioni di questa applicazione generale del predetto canone di ordine pubblico derivano dal rilievo delle fonti dalle quali si trae il carattere costitutivo della convivenza nel rapporto matrimoniale, la Costituzione (articolo 2,3, 29, 30), la CEDU (articoli 8 e 14) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (articolo 9).
La dedotta esistenza di un’incapacità psichica ad assumere gli onera matrimonii preesistente al matrimonio e continuativamente protrattasi per tutta la durata del rapporto non riveste, pertanto, alcuna incidenza rispetto all’ostacolo costituito dalla convivenza effettiva. Al riguardosi è posto in evidenza che i principi di ordine pubblico interno possono riguardare sia il matrimonio atto che il matrimonio rapporto.
“Questi due aspetti o dimensioni dell’istituto giuridico “matrimonio”, hanno ragioni, disciplina e tutela distinte – come del resto emerge dalla stessa sistematica del codice civile (rispettivamente Capi 3 e 4 del titolo 6 del Libro 1) – e devono, quindi essere distintamente considerati, anche, ed è ciò che specificamente rileva in questa sede, per l’individuazione dei principi e delle regole fondamentali che, connotando nell’essenziale ciascuno di essi, sono astrattamente idonei ad integrare norme di ordine pubblico interno che, come tali, possono essere ostative anche alla dichiarazione di efficacia nella repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario”.
La convivenza costituisce “un elemento essenziale del matrimonio rapporto” che connota la relazione matrimoniale in modo determinante. Nel giudizio di riconoscimento dell’efficacia della sentenza di nullità matrimoniale pronunciata dal Tribunale ecclesiastico, di conseguenza, la dedotta esistenza di un’incapacità psichica originaria, astrattamente idonea a viziare il matrimonio atto non può escludere lo scrutinio rispetto ai parametri di ordine pubblico che governano il matrimonio rapporto, ed in particolare non può trascurare il rilievo del carattere costitutivo della convivenza così come declinata dalle norme costituzionali interne, europee e convenzionali. Ne consegue che il canone di ordine pubblico fondato sulla convivenza effettiva non deriva dal puntuale regime giuridico della validità ed invalidità del matrimonio civile così come contenuta nell’articolo 120 c.c. ma dal sistema di regole costituzionali, convenzionali ed europee sopra illustrate, non potendo i principi di ordine pubblico essere la conseguenza diretta dell’articolazione di una singola norma interna. Comunque, dalle norme relative alla nullità del matrimonio civile si desume complessivamente un netto favor per la conservazione del rapporto matrimoniale quando sia accertato il protrarsi della convivenza nel termine in esse stabilite, come può desumersi dal regime giuridico della simulazione ed in particolare dall’articolo 123 cod. civ., u.c.
avv. Renato D’Isa 19 febbraio 2015
http://renatodisa.com/2015/02/19/corte-di-cassazione-sezione-i-sentenza-27-gennaio-2015-n-1493-lindividuata-condizione-ostativa-di-ordine-pubblico-puo-essere-validamente-opposta-ad-ogni-tipologia-di-vizio-del-consenso-non/
Delibazione della sentenza ecclesiastica e convivenza stabile e duratura tra i coniugi
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 1788, 2 febbraio 2015
Le S.U. della Corte di Cassazione, componendo un contrasto sorto nella giurisprudenza civile, hanno individuato nella convivenza stabile e duratura tra gli sposi, successiva alla celebrazione del matrimonio, e dunque attinente al matrimonio-rapporto, un limite generale di ordine pubblico alla delibabilità delle sentenze ecclesiastiche in materia matrimoniale (Cass., S.U. nn. 16379 e 16380 del 2014).
La convivenza costituisce dunque un limite generale di ordine pubblico, indipendente dal vizio genetico del matrimonio dichiarato dal Tribunale ecclesiastico. Diversamente opinando, infatti, il Giudice italiano porrebbe in essere un’inammissibile invasione nella giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità matrimoniale.
OLIR sentenza www.olir.it/documenti/index.php?argomento=101&documento=6471
Delibazione della sentenza ecclesiastica ed eccepibilità della prolungata convivenza tra i coniugi
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 1789, 2 febbraio 2015
Ai fini della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, la prolungata convivenza tra i coniugi, dopo la celebrazione delle nozze non può venire rilevata d’ufficio dal giudice, né eccepita dal Pubblico Ministero. Si tratta, infatti, di un’eccezione “in senso tecnico” che deve essere formulata, a pena di decadenza, con la comparsa di costituzione e risposta, ai sensi degli artt. 166 e 167 c.p.c.
OLIR sentenza www.olir.it/documenti/index.php?argomento=101&documento=6469
Riserva mentale: esclusione del bonum prolis e conoscibilità da parte dell’altro coniuge
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 1790, 2 febbraio 2015
La contrarietà alla filiazione costituisce un elemento della sfera intima e strettamente personale del soggetto, privo di indici esteriori di riconoscibilità. Ne consegue che la conoscenza di tale opzione personale può solo desumersi dalle dichiarazioni dirette della parte o di un terzo che dalla parte l’abbia appreso e lo riferisca al destinatario. In quest’ultima ipotesi è necessaria una specificazione puntuale del contesto spazio – temporale nel quale la circostanza è riferita. Il numero e la qualità delle persone a conoscenza della circostanza, peraltro appartenenti alla sfera relazionale del soggetto che ha assunto il vincolo coniugale con tale riserva mentale costituiscono elementi del tutto inidonei a fondare la presunzione di conoscibilità in capo all’altro coniuge. E’ necessario, pertanto, che venga indicato come dal complessivo materiale istruttorio possa affermarsi che sia pervenuta nella sfera di conoscenza dell’altro coniuge l’esclusione del bonum prolis.
Nel caso di specie si è ritenuto che la congiunzione causale o più esattamente il nesso di univocità tra il fatto noto tra amici e parenti e l’apprensione di esso da parte dell’altro coniuge fosse stata meramente affermata dalla sentenza impugnata, senza alcun sostegno argomentativo.
In conclusione, per le ragioni sopra svolte i primi due motivi di ricorso devono essere accolti e la sentenza cassata con rinvio alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione.
OLIR sentenza www.olir.it/documenti/index.php?argomento=101&documento=6467
Non è delibabile la sentenza ecclesiastica in caso di convivenza prolungata.
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 2942, 13 febbraio 2015
Non è delibabile la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio in caso di convivenza prolungatasi per almeno tre anni. A meno che la richiesta non venga formulata congiuntamente dai coniugi.
Studio Sugamele 17 febbraio 2015 sentenza www.divorzista.org/sentenza.php?id=9756
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OMOFILIA
Matrimonio omosessuale: “La famiglia non esiste per tradizione, ma per natura”.
Da filosofo o romantico non mi è difficile pensare che non vi sia legge più potente dell’amore e che senz’altro nessuna legge possa impedire di amare qualcuno. Tuttavia, da giurista posso affermare con altrettanta sicurezza che il matrimonio non costituisca un mero riconoscimento dell’amore tra due individui, ancorché tale sentimento sia normalmente (ma non sempre) alla base della scelta di due individui di convogliare a nozze.
Né il codice civile, né alcuna altra legge di rango superiore presuppone, neppure implicitamente, che alla base del matrimonio vi sia l’amore. Peraltro, è senz’altro un bene che la considerazione di tale sentimento, per varie ragioni, rimanga fuori dai codici delle leggi e non venga insudiciato da dissertazioni giuridiche.
Contrariamente a quanto taluni potrebbero ritenere, il matrimonio non è quindi un mero riconoscimento giuridico di un sentimento affettivo, di un amore appunto, tra due persone. Se fosse così, dovremmo considerare matrimonio anche quello tra due giovani fidanzati ed indubbiamente non potremmo negare ad una coppia omosessuale di convogliare a nozze. Per la stessa ragione, non potremmo impedire a chiunque si ami, di richiedere al comune un attestato del loro amore.
Ma come si è detto il matrimonio non è una “patente d’amore”. E’ ben saggio ed opportuno per tutti, che lo Stato, la società, la comunità non si interessi al nostro amore, così come ai nostri sentimenti, siano essi verso una persona amata o perfino verso uno stretto familiare.
La necessità di attribuire rilievo giuridico al matrimonio nasce quindi da un’esigenza sociale poiché solo in virtù di una specifica esigenza sociale può essere attribuito rilievo giuridico ad un fatto o ad un rapporto tra individui. Oltreché in relazione al rapporto al vincolo di coniugio lo stesso dicasi in relazione ai rapporti di parentela od affinità. Il diritto ha interesse a determinarli unicamente per finalità sociali, genericamente riconducibili ad obblighi di solidarietà familiare.
Per tale ragione, solo il rilievo sociale attribuito al matrimonio acquista, storicamente e funzionalmente senso logico agli effetti giuridici. Qual è quindi l’ontologica funzione sociale attribuibile al matrimonio che possa assumere rilievo per la società, se non la procreazione? La tutela della famiglia unita in matrimonio (ma anche, per estensione, della famiglia “di fatto”) è quindi quella della tutela del nucleo originario della società, la famiglia appunto, fondata sulla capacità, reale, presunta od astratta, di procreare figli e quindi tutelarli.
E’ vero che, contrariamente al passato, il matrimonio non è più specificamente finalizzato alla procreazione. Di tale finalità ne rimane traccia esclusivamente nel matrimonio religioso, anche se si tratta pur sempre di una traccia che trova il proprio fondamento storico e giuridico fin dagli esordi dell’istituto del matrimonio, risalente ancor prima dell’avvento della Chiesa. A ben vedere, l’istituto del matrimonio risale agli esordi della società poiché finalizzato a tutelare la famiglia, la quale, sia volta, integra un concetto previgente addirittura alla costituzione di una società organizzata e quindi precedente addirittura alla legge.
Il concetto di matrimonio, come quello di famiglia è quindi per sua natura eterosessuale. D’altronde, quale utilità sociale potrebbe avere il riconoscimento di una relazione o di una convivenza omosessuale? Tale riconoscimento gioverebbe solamente agli interessati, ma non alla collettività od allo Stato, che è ben opportuno (per tutti) che rimanga fuori dalle camere da letto o dalla sfera privata degli individui, se non nei limiti in cui sia necessario tutelare interessi collettivi particolarmente rilevanti come l’incolumità personale, i minori ecc…
Il concetto stesso di “famiglia” e quindi il “matrimonio” quale istituto giuridico posto a garanzia della stessa non può perciò che essere ricollegato solo ed unicamente alla capacità di procreare e quindi, in sostanza, considerato tale unicamente in rapporto alle unioni eterosessuali. Per tale ragione, il concetto di famiglia e quindi, conseguentemente quello di matrimonio, non può prescindere dall’unione eterosessuale tra due individui. Ciò per un evidente principio logico e scientifico ancor prima che giuridico, rispondente ai fondamenti della natura.
Il matrimonio costituisce l’istituto giuridico posto a salvaguardia della famiglia naturalmente intesa. Non si tratta quindi di un concetto “tradizionale” come se si trattasse di una “prassi”, di una “moda” o di un “costume”, di un qualcosa che è così ma che potrebbe essere anche diversamente, ma di un’equazione tanto semplice quanto tassativa, che non ammette eccezioni perché è così di sua natura.
D’altronde la famiglia non esiste certo per “tradizione” ma per natura. Essa è certamente prodromica al concetto stesso di società, che la legge stessa tende a regolare, se si considera che le prime società si sono formate come aggregazione di clan familiari e che la stessa società non esisterebbe ove non si procreasse.
Potrebbe a questo punto eccepirsi, non senza senso logico, che la procreazione può avvenire anche al di fuori della famiglia unita in matrimonio o comunque convivente e che il matrimonio può sussistere anche tra individui eterosessuali che non abbiano, non possano o non vogliano avere figli. A questa obiezione è facile rispondere da un lato che il matrimonio tende a tutelare proprio la famiglia unita in matrimonio o comunque convivente e che la tutela della prole ed il concetto stesso di famiglia prescinde dalla convivenza dei genitori e dall’altro, che il matrimonio può comunque sussistere anche laddove vi sia una mera potenzialità, sia astratta o concreta, a procreare.
La possibilità di procreare anche al di là od al di fuori del matrimonio non esclude la natura di tale istituto ed anzi lo giustifica. Il matrimonio nasce, infatti, come istituto finalizzato a tutelare la relazione eterosessuale in vista della procreazione. Non a caso, le coppie con prole non unite in matrimonio sono definite “di fatto”, siano esse conviventi o meno. Ai genitori naturali sono, infatti, estesi tutti gli obblighi previsti ai genitori coniugati con la sola esclusione degli obblighi tra i partner. Il matrimonio presuppone, infatti, pur sempre una scelta consensuale poiché differentemente sarebbe imposto.
Per altri versi, posto che il matrimonio è finalizzato a tutelare l’ambiente familiare idoneo alla procreazione esso può anche anticipare l’evento procreativo. Si tratta in questo senso di considerare la mera potenzialità alla procreazione.
Alla luce di tali considerazioni, né la considerazione delle coppie con prole non unite in matrimonio (comunque considerabili “famiglie) né la considerazione delle coppie unite in matrimonio senza prole, esclude logicità al discorso che si è fatto o per converso, consente di estendere i concetti di famiglia o di matrimonio a rapporti (anche affettivi) che, per loro natura, non sono idonei alla procreazione. Và da sé, pertanto che, per sua stessa natura, non può esservi famiglia se non eterosessuale e non può esservi matrimonio se non eterosessuale. Non a caso, vengono definite famiglie “di fatto” quelle che, pur non essendo fondate sul matrimonio, presuppongano la presenza di figli, poiché nessuna utilità sociale viene riconosciuta alla mera convivenza more uxorio in mancanza di figli, neppure laddove fondate su un rapporto affettivo.
Ciò ovviamente non necessariamente impedisce, in astratto, di definire qualcosa di diverso, come “famiglia” o “matrimonio” esattamente come non può essere impedito di definire mela una pera o definire “bianco” il colore che scaturisce dalla totale assenza di luce. Non stupisce né stupirà pertanto, se qualche legislatore abbia definito od intenda definire matrimonio una relazione affettiva tra due persone dello stesso sesso. La legge, quale espressione del potere, non conosce certo limiti terminologici, così come la capacità di pensiero non conosce limiti alla stoltezza ed il potere limiti all’arroganza.
Né ciò può ritenersi discriminatorio verso qualcuno, quantomeno senza definire discriminatoria la natura. Ed è pure indubbio che ciò non equivalga ad escludere il rispetto dovuto a qualsiasi persona, a prescindere dal suo orientamento sessuale od il rispetto per i suoi sentimenti, verso chiunque siano rivolti. Anche in questo caso, infatti, non và confuso il concetto (giuridico) di matrimonio, rilevante in sé esclusivamente poiché avente rilievo sociale, con il mero rapporto affettivo esistente tra due persone, né il concetto (anch’esso giuridico) di famiglia con il mero riconoscimento di un rapporto di convivenza o di un rapporto affettivo. Né può dirsi che il riconoscimento di un rapporto affettivo tra due persone eterosessuali sia per ciò solo discriminatorio per i rapporti affettivi tra due persone omosessuali e ciò sempre perché il matrimonio non è un mero riconoscimento giuridico di un rapporto affettivo.
Altrettanto non può affermarsi che, quantomeno il nostro ordinamento giuridico, discrimini un rapporto omosessuale posto che, contrariamente al passato, l’atto sessuale di carattere omosessuale, purché consenziente, è ritenuto del tutto lecito (al pari di un analogo atto eterosessuale) e nessuna legge impedisce o limita la convivenza tra omosessuali.
Tornando quindi ai meri rapporti affettivi non vi è quindi nessuna discriminazione tra rapporti eterosessuali ed omosessuali, quantomeno nel nostro ordinamento giuridico. Nel complesso, il mancato riconoscimento come “matrimonio” di una convivenza o di una relazione omosessuale non è discriminatorio. Risulterebbe piuttosto discriminatorio il contrario, considerando in modo uguale ciò che non è, poiché ciò sarebbe altrettanto ingiusto quanto considerare in modo diverso ciò che è uguale.
Sotto un profilo prettamente politico (e questa è una mia opinione), peraltro, se il fine ultimo del riconoscimento delle unioni omosessuali è semplicemente quello di evitarne la discriminazione, tale fine sarebbe facilmente raggiungibile semplicemente rispettando le persone in quanto tali a prescindere dal loro orientamento sessuale piuttosto che sovvertire il concetto stesso degli istituti familiari, cosa che, peraltro, non può che incentivare atteggiamenti effettivamente discriminatori.
La tesi che sostiene il riconoscimento delle unioni omosessuali è stato spesso ricondotta alla sussistenza di una discriminazione di diritti, in rapporto ai diritti dei coniugi, come tali eterosessuali. Si tratta di una di ricostruzione errata e fuorviante, non soltanto per le ragioni sopra evidenziate bensì anche sotto un profilo strettamente logico giuridico. Il matrimonio, infatti (ed il punto non è irrilevante) non comporta il riconoscimento di diritti ma a ben vedere esclusivamente l’imposizione di oneri. Gli unici diritti conseguenti al matrimonio sono per loro natura funzionali all’esistenza di obblighi reciproci.
Non si esclude che molte coppie eterosessuali convoglino a nozze senza essere perfettamente consapevoli del fatto che il matrimonio comporti degli obblighi, di quali siano e della loro rilevanza. Ciò tuttavia non esclude l’insorgenza degli obblighi matrimoniali oppure, in senso lato, gli obblighi genitoriali. Allo stesso modo è fuori discussione che l’istituto matrimoniale abbia perduto, col tempo, molte di quelle prerogative obbligatorie che lo contraddistinguevano in passato, primo fra tutti l’indissolubilità.
Ciò è indubbiamente conseguente a fattori storici, sociali e culturali che hanno comportato una maggiore affermazione dei diritti dell’individuo anche nell’ambito familiare. Affermazione di diritti da valutarsi senza dubbio positivamente, soprattutto per quanto concerne la tutela dei diritti della donna, ma che a lungo andare ha via via abbattuto i fondamenti dell’istituto matrimoniale fino a farne perdere (agli occhi di taluni) i contorni o la funzione istituzionale. L’approccio al diritto tipico del nostro tempo è d’altronde banalmente improntato alla considerazione dei soli diritti, dimenticando tutto il resto, come se l’uomo fosse oramai un fanciullo goloso che tira la gonna alla mamma davanti alla vetrina dei dolciumi.
Ma la leggerezza dell’animo umano e gli affinamenti dei doveri matrimoniali non escludono il fatto che l’istituto matrimoniale presupponga l’instaurazione di oneri più che il mero riconoscimento di diritti. Ciò peraltro non stupisce, proprio alla luce del fatto che tale istituto giuridico è teleologicamente orientato proprio a favorire la procreazione e quindi a tutelare la prole. Risulta facilmente riscontrabile dalla lettura del codice civile che dal matrimonio conseguono esclusivamente obblighi (art. 143 c.c.) e non diritti e che questi ultimi scaturiscono normalmente dallo scioglimento del matrimonio o dalla separazione dei partner, proprio in conseguenza degli obblighi matrimoniali preesistenti e della necessità di tutelare la prole.
L’insorgenza e la natura di tali doveri (fedeltà, assistenza, convivenza) non può che essere spiegata, da un punto di vista storico e concettuale, alle finalità procreativa ed alla tutela della prole, anche laddove quest’ultima non vi sia, ovvero anche quando le esigenze che li determinano siano meramente astratte od indirette. Fermo restando che la maggior parte dei diritti derivanti dal matrimonio sono ricollegati alla presenza di prole e sono perciò incompatibili con l’unione omosessuale (ad es: assegnazione della casa familiare), gli altri presuppongono comunque la preesistenza di obblighi matrimoniali. A titolo puramente esemplificativo, il diritto al mantenimento, così come i diritti successori del coniuge, scaturiscono dall’obbligo di collaborazione familiare.
La pretesa di diritti equiparabili a quelli dei coniugi in relazione a rapporti extramatrimoniali (siano essi eterosessuali od omosessuali) non può quindi ritenersi giustificabile, poiché gli stessi discendono da obblighi che derivano unicamente dal vincolo matrimoniale. Anche sotto questo profilo, pertanto, non si spiega la critica alla mancata estensione del matrimonio alle unioni omosessuali in termini di violazione di un diritto. D’altronde, è facilmente intuibile che non vi siano diritti derivanti dal matrimonio che non siano facilmente ottenibili per altra via.
L’assenza di diritti successori in capo al convivente (sia esso eterosessuale od omosessuale) non esclude ed anzi favorisce la possibilità per i conviventi di ricorrere alla successione intestata. Nessuna norma impedisce ai conviventi di stipulare congiuntamente un contratto di locazione o di acquistare la comproprietà di un bene mobile od immobile, meglio ancora di quanto non sia consentito ai coniugi. Quasi nessun atto può essere impedito dal rilascio di una procura speciale.
Quanto poi ai diritti verso lo Stato, essi non troverebbero giustificazione se non alla luce del rilievo pubblicistico (collettivo) attribuito alla famiglia, ma in ogni caso, nulla esclude che un legislatore poco saggio possa comunque disporre diversamente. A questo proposito, occorre osservare che il matrimonio non costituisce un diritto personale, in quanto presuppone, per sua natura, un rapporto tra due individui (rapporto bilaterale) ed ha una specifica finalità e causa giuridica.
Il diritto personale a contrarre matrimonio, riconosciuto come diritto fondamentale dell’individuo (art. 23 par. 2°, conv. New York 19.12.1966, rat. l. 25.10.1977 n. 881; art. 12 conv. Roma 4.11.1950, rat. l. 4.8.1955 n. 848) non può, infatti, prescindere dalla causa e dalle finalità dell’istituto matrimoniale. Allo stesso modo, in termini spicci, potrebbe affermarsi che la libertà di ciascuno a contrarre trova un preciso limite nella causa e nell’oggetto del contratto, senza la quale non avrebbe alcun senso od alcuna utilità contrarre.
Il diritto fondamentale a contrarre matrimonio, riconosciuto genericamente a ciascun individuo, trova quindi un preciso limite nelle finalità dell’istituto stesso che è appunto quello di tutelare la famiglia naturale e quindi nel tipo di relazione che vi sta alla base, il quale deve essere per sua natura eterosessuale.
Ancora si richiama la “natura” quale elemento fondante del discorso. In effetti, non può non riconoscersi che il concetto di naturalità avvolge l’intera materia del diritto di famiglia. Così come si parla di naturalità con riferimento al matrimonio, altrettanto essa determina il rapporto di filiazione.
Anche l’adozione, che integra prima di tutto un istituto di tutela dei minori, è incentrato sul fondamento del principio dell‘adoptio natura imitatur sia con riferimento al tipo di legame tra gli adottanti che alla differenza d’età tra gli adottanti e gli adottati. Si badi bene che le uniche eccezioni in tal senso, trovano un proprio fondamento logico proprio nella finalità dell’istituto, che è quella della tutela dei minori o più precisamente del diritto del minore ad avere una famiglia. Ove l’eccezione non sia contestualizzata con riferimento alla finalità dell’istituto ed ai suoi limiti sarebbe, infatti, facilmente possibile elevare un’eccezione a regola, così come d’altronde mettere il carro davanti ai buoi.
Ebbene, appare a tutti inconcepibile che un ventenne possa adottare un diciassettenne, così come che una persona di età inferiore possa adottare una persona più anziana poiché ciò stravolgerebbe del tutto la finalità e la natura (il concetto stesso) dell’adozione. Tali possibilità, peraltro, non sono neppure ammissibili con riferimento all’adozione non legittimante. Non che non se ne possa ravvisare l’utilità. In una società in cui gli anziani sono spesso abbandonati a sé stessi, potrebbe essere utile prevederne forme di tutela simili (ma non uguali) a quella dei minori. Adottiamo un anziano potrebbe essere un nuovo slogan per una nuova battaglia civile!!!
Si tratterebbe tuttavia, al di là della terminologia, di una cosa diversa dall’adozione vera e propria, che, come tale, non può che riguardare i minori o comunque persone di età inferiore. Dovrebbe quindi integrare un altro tipo di istituto giuridico. Lo stesso dicasi con riferimento al riconoscimento delle unioni omosessuali. Laddove dovesse riconoscersi qualche utilità sociale ricollegata al loro riconoscimento giuridico, dovrebbe essere qualcosa di ontologicamente diverso dal matrimonio.
Fermo restando la possibilità, per il legislatore, di istituire un apposito istituto giuridico, simile ma non coincidente col matrimonio, attraverso il quale poter riconoscersi un qualche effetto giuridico anche alle coppie omosessuali, come a quelle eterosessuali che non vogliano contrarre matrimonio (cosa quest’ultima che a dire il vero avrebbe ancor meno senso logico), del tenore simile ai patti civili di solidarietà previsti dall’ordinamento francese od alle unioni civili registrate, di ispirazione tedesca, il riconoscimento di un vero e proprio matrimonio omosessuale sarebbe del tutto incompatibile con l’istituto del matrimonio.
Tanto varrebbe a questo punto, abolirlo del tutto. Ma anche laddove si volesse introdurre il matrimonio omosessuale (concetto che appare, per quanto si è detto, una contraddizione in termini) occorrerebbe prima di tutto ricorrere ad una revisione costituzionale. Il matrimonio omosessuale trova, infatti, a parere dello scrivente, un preciso limite costituzionale nell’art. 29 cost. il quale prevede l’ordinamento della famiglia “come società naturale fondata sul matrimonio”.
Il requisito della naturalità del matrimonio costituisce quindi anche un preciso limite di carattere costituzionale, senza la cui abolizione non sarebbe possibile istituire il matrimonio omosessuale o comunque rendere costituzionale tale eventuale istituzione. Anche in tal caso, poi, pur conforme al diritto costituzionale, il matrimonio omosessuale rimarrebbe ugualmente una contraddizione in termini, un’illogicità innaturale ad uso e consumo dell’uomo a cui piaccia giocare col diritto come si trattasse di un balocco per bambini.
avv. Alessio Anceschi persona e danno 11 febbraio 2015
/www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=47127&catid=117&Itemid=364&contentid=0&mese=02&anno=2015
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ONLUS
Regali e Onlus: da rispettare la previa comunicazione all’Agenzia delle Entrate.
La donazione fatta alla parrocchia, di importo superiore a 5.165,57 euro, deve seguire un iter ben preciso e determinato dalla legge [art. 2 del Dpr 441/97] per le cessioni alle Onlus, se si vuole evitare l’accertamento fiscale (di tipo induttivo). Bisogna, infatti, provvedere alla:
- comunicazione all’Agenzia delle Entrate con raccomandata a.r., almeno 5 giorni prima della consegna dei beni al donatario (con l’indicazione della data, dell’ora e del luogo d’inizio del trasporto, della destinazione finale dei beni, nonché dell’ammontare complessivo, sulla base del prezzo di acquisto, dei beni gratuitamente ceduti);
- dichiarazione sostitutiva di atto notorio (fatta dalla Onlus) al fine di attestare la natura, qualità e quantità dei beni ricevuti, corrispondenti ai dati indicati nel ddt;
- attestazione (anche in questo caso da parte dell’Onlus), a pena di decadenza dai benefici fiscali ad utilizzare direttamente i beni ricevuti in conformità alle finalità istituzionali, mediante un’apposita dichiarazione da conservare negli atti dell’impresa cedente.
Se la prova della cessione esente dall’imposta non viene fornita con tali modalità rigorose, il fisco può presumere l’esistenza di ricavi in nero. A dirlo è stata una recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Catanzaro [C.T.R. Catanzaro sent. n. 31/2015].
Oltre che per le Onlus, tale normativa scatta anche per le cessioni di beni nei confronti di enti pubblici, associazioni riconosciute o fondazioni aventi esclusivamente finalità di assistenza, beneficenza, educazione, istruzione, studio o ricerca scientifica. Va infine precisato – si legge in sentenza – che ad escludere l’obbligo di comunicazione non può valere il fatto che la cessione sia avvenuta con diverse consegne, ciascuna di importo inferiore a 5.164,57 euro. Se, infatti, le consegne avvengono nell’arco di un periodo relativamente breve (qualche mese) ciò rende evidente che, in effetti, si tratta di un’unica operazione, sia pure realizzata mediante consegne successive.
la legge per tutti 16 febbraio 2015
www.laleggepertutti.it/78603_quando-la-donazione-alla-parrocchia-fa-scattare-laccertamento-fiscale
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PARLAMENTO
Camera 2° Comm. Giustizia Accesso dell’adottato alle proprie origini.
Disposizioni in materia di accesso del figlio adottato non riconosciuto alla nascita alle informazioni sulle proprie origini e sulla propria identità.
C. 784 Bossa, C. 1874 Marzano, C. 1343 Campana, C. 1983 Cesaro Antimo, C. 1901 Sarro, C. 1989 Rossomando, C. 2321 Brambilla e C. 2351 Santerini.
17 febbraio 2015 La Commissione prosegue l’esame del provvedimento, rinviato nella seduta del 10 febbraio 2015.
Donatella Ferranti, presidente, comunica che ieri, lunedì 16 febbraio, il relatore, onorevole Beretta, all’esito dell’ulteriore ciclo di audizioni nel quale sono stati sentiti Laura Laera, Presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, Stefano Scovazzo, Presidente del Tribunale per i minorenni di Torino, e Paolo Sceusa, Presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste, ha presentato degli emendamenti ed un articolo aggiuntivo che sono stati già trasmessi ai deputati componenti della Commissione, ai sostituti ad rem, ai primi firmatari delle proposte abbinate ed al Governo, con l’avviso che il termine per la presentazione degli emendamenti scade giovedì 19 febbraio 2015.
(…) Donatella Ferranti, presidente, (…) Proroga, pertanto, alle ore 14 di venerdì 20 febbraio prossimo il termine per la presentazione dei subemendamenti agli emendamenti del relatore. (…)
www.camera.it/leg17/824?tipo=C&anno=2015&mese=02&giorno=17&view=&commissione=02&pagina=data.20150217.com02.bollettino.sede00010.tit00010#data.20150217.com02.bollettino.sede00010.tit00010
Senato 2° Comm. Giustizia e 3 Comm. Esteri. Ratifica della Convenzione Aja 1996.
17 febbraio 2015
1552. Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aja il 19 ottobre 1996, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno, approvato dalla Camera dei deputati.
572 Di Biagio ed altri. Ratifica ed esecuzione della Convenzione concernente la competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, conclusa all’Aja il 19 ottobre 1996
Testo della convenzione
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/703470/index.html
17 febbraio 2015 La Commissione prosegue l’esame sospeso nella seduta del 10 febbraio 2015.
Si passa alla votazione degli emendamenti al disegno di legge n. 1552, assunto come testo base dalle Commissioni riunite, pubblicati in allegato al resoconto della seduta del 10 febbraio, nonché degli emendamenti e subemendamenti, pubblicati in allegato al resoconto della seduta odierna.
(…) Le Commissioni riunite conferiscono, infine, mandato alle due relatrici senatrice Rosanna Filippin (PD) e senatrice Emma Fattorini (PD) a riferire favorevolmente sul testo del disegno di legge n. 1552, già approvato dalla Camera dei deputati, come modificato, e a proporre l’assorbimento nel medesimo del disegno di legge n. 572, autorizzandole, altresì, a richiedere lo svolgimento della relazione orale.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=903025
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POLITICHE FAMILIARI
Ramonda: «Basta con l’elemosina alle famiglie, senza figli non si va da nessuna parte».
Dal seminario di Bologna organizzato dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, “Senza figli non c’è crescita” un invito ad affrontare l’emergenza denatalità con misure che restituiscano alla famiglia e alla donna la libertà di generare figli.
«Le misure adottate ieri dal Consiglio dei Ministri a sostegno della maternità sono importanti ma insufficienti. Siamo di fronte ad un’emergenza. Stiamo assistendo ad un’epidemia della denatalità, che sembra inarrestabile e mina il futuro della nostra società. Per questo serve una misura forte e precisa». Lo ha detto questa mattina Giovanni Ramonda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII, nel corso del seminario che si è tenuto a Bologna, Palazzo Malvezzi, sul tema “Senza figli non c’è crescita”. “Diamo uno stipendio ad ogni mamma”. «La nostra è una proposta netta – ha proseguito Ramonda –: dare 800 euro al mese alle mamme fino al terzo anno di vita del figlio. Non siamo contro il lavoro o gli asili nido, ma siamo convinti che nei primi 3 anni di vita il bambino abbia bisogno della mamma. Perché non dare la possibilità alle mamme che lo scelgono di stare con i loro bambini?».
«Si parla di crescita, ma come fa a crescere il PIL se non cresce la popolazione? – ha detto l’economista Ettore Gotti Tedeschi – Se la popolazione non cresce, il PIL cresce esclusivamente con l’aumento dei consumi individuali. In questi anni ci siamo mangiati i risparmi delle famiglie, ma così abbiamo sacrificato l’indipendenza e l’autonomia della famiglia. Quella della Papa Giovanni XXIII è una provocazione forte. Serve però un appoggio più ampio, soprattutto a livello ecclesiale, perché lo Stato oggi non ama la famiglia. Occorre un cambiamento culturale, per questo propongo che venga dato alla famiglia il Premio Nobel per l’economia, in quanto è la famiglia il motore dell’economia, non solo italiana ma mondiale».
Sostegno alla proposta arriva dal sociologo Francesco Belletti, presidente del Forum delle famiglie. «Non vogliamo rinchiudere le donne in casa, vogliamo che sia restituita la libertà di scelta. Occorre restituire la libertà a chi vuole mettere al mondo dei figli: oggi questa scelta uno se la deve pagare. Voi avete posto l’attenzione sull’elemento nascita, ma poi occorre anche sostenere la famiglia in tutto l’arco di tempo. Le politiche familiari sono politiche di ordinarietà: non vogliamo dare i soldi allo stato perché poi ci restituisca servizi ma che lo stato lasci i soldi alle famiglie perché siano libere».
«Non dobbiamo porre una donna di fronte alla competizione tra fare la madre e scegliere di lavorare – ha avvertito Giorgio Graziani, segretario regionale Cisl per l’Emilia Romagna –. Tre anni a casa sono troppi: siamo fuori dal mercato del lavoro. Noi proponiamo di incentivare il part-time, che consente di non lasciare ad altri i figli per tutto il giorno e intanto di proseguire il percorso professionale. Condivido lo spirito della proposta ma dobbiamo costruire politiche più ampie di sostegno alla famiglia».
«Questa norma che proponete costa troppo, però possiamo trovare delle mediazioni – ha detto Alessandra Servidori, consigliera nazionale di parità del Ministero del lavoro –. Ad esempio possiamo intervenire sugli assegni familiari, che dal 1996 sono stati spostati sulle pensioni, mentre è giusto che quello che si versa in busta paga per gli assegni familiari sia poi restituito alla famiglia».
Mario Sberna non ha nascosto la sua delusione nei due anni trascorsi come parlamentare. Chiamato da Mario Monti alla politica attiva, dopo la sua precedente esperienza di Presidente dell’Associazione famiglie numerose, ha detto che «il Parlamento riflette la società e alla società della famiglia non interessa nulla». Per questo occorre «ricominciare, per cambiare anzitutto il clima culturale».
Ramonda ha concluso auspicando che nel Sinodo sulla famiglia previsto quest’anno si ascoltino anche i figli e che emergano proposte operative concrete a sostegno della famiglia. «Come credenti – ha concluso – dovremmo unirci su questioni di vitale importanza. Perché ad esempio non apriamo un corridoio umanitario per far nascere i 100 mila bambini che muoiono ogni anno a causa dell’aborto?»
A sostegno della proposta sullo stipendio alle mamme la Comunità Papa Giovanni XXIII ha lanciato una petizione on line che sta sfiorando le 20.000 firme. Si può aderire attraverso il sito www.apg23.org o direttamente dalla piattaforma Citizengo.org al link
Comunità Papa Giovanni XXIII comunicato stampa 21 febbraio 2015
www.citizengo.org/it/14564-senza-figli-non-ce-crescita-diamo-uno-stipendio-alle-mamme
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PROCREAZIONE RESPONSABILE
I figli e i conigli.
L’intervista rilasciata da papa Francesco ai giornalisti sull’aereo di ritorno dal viaggio in Asia ha suscitato un grande e serrato dibattito sui media, soprattutto a proposito delle affermazioni riguardanti la questione della regolazione delle nascite. Con il linguaggio immediato ed immaginifico che gli è abituale – un linguaggio che non disdegna il ricorso alla concretezza degli esempi e all’uso della metafora – il papa ha affrontato i problemi che le coppie normalmente si pongono quando si trovano a decidere le loro scelte in merito alla fecondità procreativa.
Le reazioni che l’intervista ha prodotto sono state diverse e le interpretazioni talora persino contrastanti. Vi è chi ha visto nelle parole del papa una vera e propria rottura con il magistero dei pontefici precedenti, in particolare con l’Humanae vitae di Paolo VI, che condanna, in termini radicali, la contraccezione. E chi ha, invece, rilevato non esservi in realtà in esse nulla di particolarmente nuovo (e rivoluzionario) ma soltanto una presentazione più efficace della dottrina tradizionale della chiesa.
Chi ha ragione? Come va letto il messaggio papale? Quale è il senso della proposta che egli ci fa?
L’equilibrio tra generosità e responsabilità. Per rispondere a questi interrogativi è anzitutto importante tenere in considerazione l’intero quadro della riflessione di papa Francesco: il vizio di assumerne soltanto una parte o peggio ancora di estrapolare una frase, per quanto significativa, dal contesto in cui è inserita, come peraltro si è verificato anche in questo frangente – si pensi alla frase con cui si confutava la tesi secondo la quale per alcuni i cattolici devono fare figli come conigli – non può che approdare a conclusioni devianti o almeno parziali e riduttive. Ed è poi ancora più importante non dimenticare la preoccupazione pastorale che sta alla base degli interventi del pontefice e che costituisce la chiave interpretativa decisiva delle sue affermazioni.
Detto questo, ciò che immediatamente emerge dall’accostamento al testo dell’intervista è la ripresa della dottrina sul matrimonio del Vaticano II, in particolare della Gaudium et spes, dove viene sviluppato, per la prima volta in termini così puntuali, il concetto di «paternità responsabile», ripreso peraltro successivamente anche dalla stessa Humanae vitae. Il papa mette, infatti, da un lato, l’accento sull’alto significato che riveste l’atto procreativo, perciò sulla necessità di aprirsi con generosità all’accoglienza del dono della vita, evitando limitazioni indotte da atteggiamenti egoistici, e sottolinea con forza, dall’altro, l’importanza di valutare con senso di responsabilità l’esercizio concreto della fecondità procreativa, facendo riferimento alla propria vocazione – quella di coppia ovviamente – e non dimenticando, come sottolinea con forza il Concilio, le necessità della società e della chiesa. Generosità e responsabilità non sono dunque, in questa prospettiva, realtà antitetiche, ma istanze che vanno tra loro integrate. La vera generosità è, infatti, propria di chi fa concretamente i conti con le possibilità reali di cui dispone, e si apre pertanto alla responsabilità; come, d’altra parte, la vera responsabilità è quella di chi non assolutizza le proprie esigenze personali (o di coppia) secondo una logica radicalmente autoreferenziale ed egocentrica, ma si apre con generosità alla trasmissione della vita, che è, per il credente, l’atto con il quale si partecipa, nel modo più alto, all’opera creatrice di Dio.
Il significato delle esemplificazioni. La conferma dell’adesione di papa Francesco a questa concezione si ricava dalle sue stesse parole, o meglio ancora dagli esempi da lui riportati, che hanno suscitato le interpretazioni ricordate. Se, infatti, con l’immagine già evocata dei «conigli», e più ancora con il richiamo piuttosto brusco alla madre, che aveva già avuto sette figli tutti con taglio cesareo, a evitare un’ulteriore maternità {con alto rischio per vita di una madre già in dovere verso i 7 figli viventi. ndr}, egli mette con forza l’accento sulla necessità di gestire con responsabilità la fecondità procreativa – in certi casi, sembra dire, la procreazione non è più un atto di generosità, ma si trasforma in un atto di irresponsabilità; con il rimando al numero di tre figli quale quoziente da rispettare se si vuole evitare il crollo demografico, egli invita a superare la tentazione della chiusura egoistica, spingendo la coppia ad agire con quella generosità, che costituisce il criterio al quale il credente è chiamato a conformare la propria condotta in tutti gli ambiti della vita.
Per cogliere la portata di queste diverse, (apparentemente persino opposte) esemplificazioni occorre uscire dal limite angusto del provincialismo, che caratterizza, purtroppo, in larga misura, i mezzi di comunicazione sociale del nostro paese, e tenere in considerazione l’orizzonte universalistico entro il quale papa Francesco si muove. Proiettando lo sguardo sulla situazione mondiale, egli sollecita, infatti, da una parte, quei paesi in cui si registra il tasso demografico più basso (e l’Italia è tra questi) a rilanciare la natalità – a questo si riferisce il quoziente ricordato -, mettendo in evidenza i rischi che l’attuale situazione comporta per gli inevitabili squilibri che si producono tra le generazioni non solo a livello economico ma anche (e soprattutto) a livello sociale e culturale. Dall’altra, anche attraverso il ricorso agli esempi provocatori segnalati, egli invece si rivolge a quanti – singoli e nazioni – non fanno debitamente i conti con l’esigenza di un esercizio responsabile della fecondità procreativa, ricordando loro che mettere al mondo un figlio comporta un impegno assai ampio che include doveri di varia natura, non ultimo quello educativo.
Quali prospettive? La riflessione di papa Francesco sulla regolazione delle nascite va integrata – non lo si deve dimenticare – con le molte altre considerazioni che egli è venuto facendo, nel sia pur breve periodo del suo pontificato, su tematiche di carattere sociale che hanno, in qualche modo, a che fare anche con la questione qui trattata. Dall’insieme di queste considerazioni emerge un concetto di fecondità della coppia, che non può ridursi alla sola procreatività, ma che ha uno spettro assai più ampio di espressione. Essa coincide, in qualche modo, con l’apertura della coppia agli altri, con il rifiuto di ogni forma di chiusura narcisista e con un impegno allargato nei confronti della vita, non solo di quella non ancora esistente, ma anche di quella che già esiste e che esige di essere tutelata e promossa. Il che implica la messa in atto di scelte quali l’adozione e l’affidamento, ma anche di forme di servizio, che corrispondono ai bisogni della società e, per chi è credente, della comunità cristiana; scelte che vanno commisurate alla vocazione di ciascuna coppia.
Questa concezione della fecondità, e più in generale la questione della regolazione delle nascite qui affrontata, non possono tuttavia non sollevare, da ultimo, il tema dei mezzi attraverso i quali pervenire a una gestione generosa e responsabile della procreatività. Papa Francesco nell’intervista non ne ha accennato e il Sinodo straordinario dello scorso anno sulla famiglia è apparso su questo punto reticente: il testo conclusivo, che svolge la funzione di Instrumentum laboris del Sinodo che si svolgerà il prossimo ottobre, si limita a confermare a tale riguardo la dottrina dell’Humanae vitae. Ma il tema si impone con urgenza all’attenzione pastorale della chiesa, non solo perché coinvolge un numero rilevantissimo di coppie, ma anche perché ha a che fare con situazioni drammatiche – si pensi soltanto al caso della coppia in cui uno dei membri abbia contratto l’Aids {epatite C, lue, etc ndr} – che richiedono risposte realistiche. Che il papa attraverso l’intervento sulla paternità responsabile non abbia voluto lanciare un messaggio al prossimo Sinodo circa la necessità di riaprire il dibattito anche sulla vexata questio della contraccezione?
Giannino Piana “Rocca” n. 4, 15 febbraio 2015
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201502/150221piana.pdf
{Lumen gentium n. 50.2 «Nel compito di trasmettere la vita umana ed educarla …I coniugi sanno di essere cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti.».-Padre Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino e cardinale, interpellato da me direttamente nel 1968 in proposito alla regolazione dei concepimenti indicava che, in presenza di impossibilità pratica ad usare i metodi naturale, si ricorresse a quelli più confacenti alla coppia. ndr}
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SEPARAZIONI E DIVORZI
Separazioni e divorzi ‘assistiti’: sanzioni per gli avvocati “ritardatari”.
Tra i tanti oneri che incombono sugli avvocati nella negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio c’è anche quello di trasmettere una copia autenticata dell’accordo, una volta concluso dalle parti, entro 10 giorni, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, a pena di una salata sanzione pecuniaria da 2.000 a 10mila euro.
Una vera spada di Damocle che pesa sui professionisti “ritardatari” e che, secondo l’art. 6, comma 4 del c.d. “decreto giustizia” (d.l. 132/2014 convertito dalla l. n. 162/2014), compete al Comune comminare.
Tanto che qualche amministrazione comunale si è già adeguata, prevedendo una stangata minima di 4mila euro da 1 a 60 giorni di ritardo, crescenti “proporzionalmente” di 100 euro al giorno fino al tetto massimo fissato dalla legge di 10mila euro. Resta da vedere come si orienteranno gli altri Comuni, ma del resto “dura lex sed lex” e anche a voler applicare il minimo, la sanzione rimane sempre alta.
La ratio del legislatore è quella di snellire le procedure, accelerare i tempi e ridurre i costi a carico dei cittadini, di fatto, però, il rischio è che la “multa” che scatta anche per un solo giorno di ritardo, finisca con lo svuotare le tasche degli avvocati, andando a rimpinguare, invece, le “povere” casse comunali.
Marina Crisafi StudioCataldi.it 16 febbraio 2015
www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17634.asp
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SINODO DEI VESCOVI
Baldisseri: Sinodo famiglia in ascolto del popolo di Dio.
La costante attenzione della Chiesa al matrimonio e alla famiglia è stata ribadita dal cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi, durante la presentazione del libro “Persona e matrimonio: mistero, riflessioni e vita” edito dalla Libreria Editrice Vaticana. Il volume ha dato l’occasione al porporato di evidenziare come finora il diritto ecclesiastico si sia occupato principalmente di matrimonio e poco di famiglia. Lo spiega lo stesso cardinale Baldisseri
R. – Si è accentuato molto nel passato il ruolo del matrimonio che è fondamentale, è la cellula fondamentale della società è quella che costituisce la famiglia. Ma l’accento ora vorremmo porlo sulla famiglia. La famiglia non è solo la coppia. Il matrimonio sono due persone che si uniscono, un progetto, quello di formare una famiglia. Ma poi la famiglia si costituisce soprattutto con la venuta dei figli. E allora la famiglia diventa una realtà molto più ampia, pertanto anche nel campo del diritto c’è bisogno di fare un passo in più. Si è parlato molto del bonum coniugum, cioè il bene dei coniugi, e noi vogliamo accentuare il bonum familiae.
D. – A che punto siamo nel cammino verso il prossimo Sinodo?
R. – Siamo nel momento inter-sinodale, tra una prima assemblea celebrata e l’altra assemblea del mese di ottobre 2015, il momento di riflessione su tanti punti ma specialmente quelli più sensibili che sono apparsi nella Relatio Synodi. Per questo siamo molto interessati di poter studiare, approfondire, avere poi anche elementi di risposta ai temi e ai problemi.
D. – E’ in fase di svolgimento il questionario nelle diocesi di tutto il mondo. Attendete queste risposte?
R. – Il questionario, infatti, è stato inviato. C’è già un documento base che è quella Relatio Synodi dell’ultima assemblea e su quel testo abbiamo chiesto ancora, con delle domande, la reazione da parte delle Conferenze episcopali, del popolo di Dio nel mondo, che ci possano offrire qualche elemento in più. E’ piuttosto una riflessione: vedere loro oggi che cosa propongono, la gente, le componenti di tutta la Chiesa, che cosa possono offrire perché i sinodali possano avere elementi maggiori per trovare linee pastorali adeguate.
Bollettino radiogiornale radio vaticana 20 febbraio 2015 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
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TRIBUNALI
Tribunale dei minori o ordinario: quale dei due competente?
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 2833, 12 febbraio 2015
La Cassazione chiarisce la competenza per materia dopo le recenti riforme normative. Se è già pendente un giudizio di separazione tra i coniugi, l’eventuale successiva domanda diretta a ottenere provvedimenti sulla potestà dei genitori deve essere decisa dal giudice innanzi al quale è in corso il giudizio di separazione. È questo il chiarimento recentemente fornito dalla Cassazione a seguito delle recenti riforme del diritto di famiglia.
A seguito dell’entrata in vigore della legge del 2012 di riforma della filiazione [L. n. 219/2012], le domande di affido e di regolamentazione dei rapporti tra figli e genitori sono di esclusiva competenza del Tribunale ordinario e le domande di adozione dei provvedimenti in materia di decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli [art. 330 e 333 cod. civ.] (anche se presentate dal P.M.), sono ad esse strettamente connesse e non decidibili separatamente.
Le disposizione di attuazione al codice civile [art. 38 disp. att. cod. civ.], nella nuova formulazione, dopo aver affermato, tra le altre, la competenza del Tribunale per i minorenni in merito ai provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 codice civile, esclude la competenza del giudice minorile circa i provvedimenti previsti all’art. 333 allorquando sia in corso, tra le stesse parti, un giudizio di separazione: in tal caso la relativa decisione spetta al giudice ordinario.
Ordinanza la legge per tutti 16 febbraio 2015
www.laleggepertutti.it/78606_tribunale-dei-minori-o-ordinario-quale-dei-due-competente
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