News UCIPEM n. 995 –31 dicembre 2023

News UCIPEM n. 995 –31 dicembre 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue di erse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

02 ABUSI                                              Una vittima di abusi sessuali nella chiesa è stata risarcita, ma non è merito della Cei

03                                                           «Così ci baciava e ci toccava», le accuse contro don Salvoldi

05                                                          Diocesi Bergamo“avviate procedure previste da diritto canonico” su anziano sacerdote

05 BIBBIA                                             La Bibbia e l’orientamento sessuale (contestualizzandola e senza moralismi)

06                                                           Rosanna Virgili “Se tutto passa… e quasi orma non lascia”

08 CHIESA IN ITALIA                          Zuppi: Per mio padre io ero don Matteo. Chi salva i migranti non va criminalizzato

11 CITTÀ DEL VATICANO                  Benedizione delle coppie omosessuali, il Vaticano risponde alle critiche

12                                                          Caso Rupnik: laicizzate tutte le religiose della Comunità Loyola

13 DALLLA NAVATA                           Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe  – Anno B

13                                                          L’abbraccio di Anna e Simeone

14 DEMOGRAFIA                                 Italia secolarizzata. Dal nord al sud si fanno meno figli, aumentano celibi e divorzi

16 DONNE NELLA CHIESA                 Il naufragio della barca

17                                                          Un Nobel da esame di coscienza

18 FEMMINICIDIO                              Femminicidio è la parola dell’anno: l’importanza di dare un nome alle cose

20 OMOFILIA                                       Una strategia per rispondere a domande su identità di genere nelle scuole cattoliche

21                                                          Figli di coppie Gay. Cosa c’insegnano una bimba, 2 papà e la Madonna come mamma

21 PRESEPE                                           Storia del presepe, tra incanto e devozione

23 RIFLESSIONI                                   Il Natale del Dio al contrario

24                                                          La nascita di Gesù è la sfida della vita

25                                                          Se solo l’ascolto ci consente la conversione della mente

26 SINODO                                           Uguaglianza X laicato e donne, unità nella diversità: Noi siamo Chiesa: la sua agenda

ABUSI

Una vittima di abusi sessuali nella chiesa è stata risarcita, ma non è merito della Cei

                Si chiama Piero Brogi ed è l’unico italiano vittima di abusi ad essere stato apertamente risarcito dalla chiesa. Non in seguito alla sentenza di un tribunale, né con un accordo privato, ma esplicitamente come indennizzo per essere stato abusato da un sacerdote quando aveva nove anni.

Brogi, pur avendo subito violenza in Italia da un prete di Roma, don Angelo Pio Loco Boscariol, non è stato risarcito dalla chiesa italiana ma da quella francese, che lo ha fatto rientrare – in via del tutto eccezionale – nel programma di ascolto e indennizzo delle vittime di abuso clericale dell’Inirr, l’Instance nationale de reconaissance et de réparation, una commissione istituita dai vescovi francesi in seguito alla pubblicazione del rapporto Ciase nell’ottobre 2021. Secondo quanto riportato dalla Ciase, la Commissione sugli abusi sessuali nella chiesa che ha agito su mandato dei vescovi francesi, sono 216mila i minori vittima di violenza da parte di preti o religiosi cattolici in Francia fra il 1950 e il 2020 (il numero sale a 330mila se si considerano anche i laici che lavorano nelle istituzioni della chiesa cattolica), mentre i sacerdoti pedofili sono circa tremila.

La vicenda di Brogi, che oggi vive a Lione e ha la doppia nazionalità, non è certo lineare. Nel 2015 scrive alla parrocchia dei santi Aquila e Priscilla di Roma, raccontando quello che gli è successo fra quelle mura quando era chierichetto, ma il parroco don Santino Quaranta non gli risponde. «Allora mi sono rivolto agli scout, all’associazione parrocchiana dei genitori e anche al cardinale Angelo De Donatis, vicario di Roma, ma mi hanno ignorato», dice Brogi. Dal silenzio alla beffa: a Natale 2016 nel presepe della parrocchia compare una statuetta del prete pedofilo. «È stato come ricevere uno schiaffo in faccia», commenta Brogi a “Domani”. Per sollecitare una reazione della chiesa, decide di intentare una causa civile per avere un risarcimento: a quel punto il parroco reagisce dicendo che il sacerdote accusato è ormai morto e che la parrocchia è «totalmente estranea, in punto di fatto e in punto di diritto, alle vicende ascritte», terminando la lettera con una «paterna benedizione».

Esasperato, Brogi prova a fare richiesta alla commissione francese ma il suo caso non viene ritenuto di competenza dell’Inirr perché l’abuso è avvenuto in Italia. Lui non si arrende e scrive al presidente Macron, minacciando di rivolgersi alla Corte europea dei diritti umani e perfino di incatenarsi all’arcidiocesi di Lione. L’arcivescovo Olivier de Germay si prende a cuore la sua storia e dopo poco tempo Brogi è infine convocato e risarcito dall’Inrr. «Hanno ritenuto che ci fosse una colpevolezza del prete», commenta Brogi. «Non basta certo a ripagarmi della sofferenza patita in tutti questi anni, ma almeno qualcuno mi ha ascoltato».

I risarcimenti fantasma. Se Parigi si è mossa, infatti, Roma è rimasta ancora una volta immobile. In fatto di risarcimenti alle vittime, la chiesa italiana per ora se l’è cavata perlopiù con accordi sottobanco di 25mila euro con la clausola di riservatezza (come abbiamo raccontato su “Domani”). La Cei, che non ha promosso un’inchiesta indipendente sugli abusi nella chiesa ma sta conducendo un’indagine interna limitata al lavoro dei Servizi diocesani per la tutela dei minori, ha espressamente evitato di parlare di risarcimenti alle vittime. Lo stesso presidente dei vescovi, il cardinale Matteo Zuppi, al momento del suo insediamento, nel maggio 2022, sul punto era stato vago e aveva soltanto detto che «nei centri diocesani si fa accompagnamento psicologico gratuito a chi lo richiede». Una linea, se così si può dire, confermata il 17 novembre 2022 in occasione della presentazione del primo report nazionale sugli abusi da monsignor Giuseppe Baturi: «Come Conferenza episcopale non abbiamo articolato forme più precise di aiuto», aveva infatti dichiarato il segretario generale della Cei. Zuppi non ha mai nascosto le sue riserve sul lavoro svolto dalla Ciase, ritenuto poco affidabile perché basato non su dati certi ma su proiezioni statistiche.

Diffidenza condivisa da papa Francesco, che due anni fa ha rinviato a data da destinarsi il previsto incontro con il presidente della Ciase, Jean-Marc Sauvé, e il 28 novembre scorso non ha voluto ricevere in udienza suor Véronique Margron, presidente della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia, e Antoine Garapon, che accompagnavano un gruppo di vittime della congregazione Frères Saint-Gabriel.

Garapon è il presidente della Crr, la Commission Reconnaissaince e Réparation, l’omologa per i religiosi di quello che l’Inirr è per i sacerdoti diocesani, e Margron, in quanto presidente dei religiosi di Francia, è colei che ha dato mandato alla Crr di occuparsi della “riparazione” degli abusi e del conseguente risarcimento. Il mancato incontro sembra confermare la freddezza che Francesco ha sempre riservato alla “via francese” che, con la sua trasparenza e radicalità di approccio ha evidenziato la dimensione sistemica delle violenze sessuali sui bambini nella chiesa cattolica. Certo è che i vescovi italiani sembrano molto attenti a non addentrarsi nella spinosa questione dei soldi, perché fin troppo consapevoli di quello che accade in altri paesi quando le vittime cominciano a chiedere un risarcimento economico per quello che hanno subito.

Il caso francese. La chiesa francese sta cominciando a fare letteralmente i conti di quanto costano i preti pedofili. I numeri aggiornati a ottobre 2023 indicano che hanno interpellato la Crr 801 persone, di cui 313 hanno ricevuto un risarcimento, per una cifra totale che supera gli undici milioni; 1.186 persone si sono invece rivolte all’Inirr (dati del marzo 2023), di cui 190 sono state risarcite con una cifra media di 37mila euro (il massimo è 60 mila euro): le due commissioni hanno finora sborsato più di 18 milioni di euro per soli 503 casi.

I soldi arrivano da un fondo di solidarietà, il fondo Selam, istituito dalla conferenza dei vescovi nel luglio 2021. Alla sua costituzione, questo fondo aveva all’attivo venti milioni, cinque dei quali erano destinati a risarcire le vittime di abuso, ma è stato subito evidente che sarebbero bastati appena per un acconto. «Non abbiamo certo denaro nascosto in cantina!», aveva detto il presidente della conferenza episcopale francese Éric de Moulins-Beaufort, lasciando intendere che per i risarcimenti ci si doveva affidare alle donazioni (dei vescovi certo, ma anche dei fedeli).

Un’inchiesta di “France 2”, però, ha fatto i conti in tasca alla chiesa nazionale e ha verificato che la cifra messa a disposizione dei sopravvissuti non è che l’1 per cento del suo patrimonio, stimato intorno agli otto miliardi: la sola diocesi di Lione ha 84,3 milioni di beni immobili e quella di Parigi arriva a 238,8 milioni di euro, con ben 737 immobili.

Stati Uniti. Oltreoceano, il problema è ben chiaro da anni. Un’ondata di cause legali ha travolto la chiesa cattolica negli Stati Uniti dopo che, nel 2019, è stata permessa una finestra di deroga di tre anni alla prescrizione per gli abusi sui minori. Per far fronte alle richieste di risarcimento, molte diocesi hanno fatto ricorso al Capitolo 11, una norma del diritto fallimentare che permette di stipulare una sorta di concordato preventivo, in cui viene garantita la liquidazione dei debiti con un risarcimento forfettario; l’azienda o l’istituzione rimangono però in funzione, «con i loro meccanismi di guadagno e i loro segreti legali nascosti», come precisa David Clohessy, ex direttore di Snap, la più grande rete di sostegno ai sopravvissuti agli abusi dei sacerdoti degli Stati Uniti. Questo non significa che la chiesa non abbia i mezzi per pagare: «Nessuna diocesi è senza soldi», precisa Clohessy, «i funzionari della chiesa affermano di essere in rosso, ma in realtà ciò che temono davvero è il contenzioso con le vittime, e in particolare il dover affrontare domande difficili, sotto giuramento, su quanto sapevano e quanto poco hanno fatto per fermare i crimini sessuali commessi dai preti sui minori».

Federica Tourn                   “Domani”             27 dicembre 2023

www.editorialedomani.it/fatti/una-vittima-di-abusi-sessuali-nella-chiesa-e-stata-risarcita-ma-non-e-merito-della-cei-l4m1mddf

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202312/231227tourn.pdf

«Così ci baciava e ci toccava», le accuse contro don Salvoldi

La Rete L’Abuso, l’associazione sopravvissuti agli abusi del clero, a ottobre ha presentato un esposto in procura a Bergamo nei confronti di don Valentino Salvoldi, 78 anni, per le sue «presunte condotte criminali ai danni di circa una decina di persone». Nella denuncia sono contenute finora due testimonianze, le uniche presunte vittime a metterci la faccia. Queste ultime, all’epoca minorenni, hanno deciso di esporsi e raccontare la loro storia a “Domani”.

Si definisce «un mendicante d’amore», don Valentino Salvoldi, sacerdote della diocesi di Bergamo. È un predicatore appassionato, che dedica la sua vita a liberare il messaggio evangelico dai lacci in cui una chiesa, a suo dire troppo rigida, lo ha imbrigliato: parla di gioia del corpo, invita a sostituire il segno di pace al termine della messa con lunghi abbracci. Dopo essere stato missionario in Africa, è tornato in Italia e all’inizio degli anni Novanta ha cominciato a organizzare campi per giovani adulti in cui si cala nel ruolo del prete progressista, aperto al confronto e critico della società capitalista. Poi decide di rivolgersi agli adolescenti. Li invita a cercare la verità, a viaggiare e a scegliersi un maestro di vita che li guidi.

I testimoni. «Valentino nei campi aveva creato una realtà alternativa, in cui le regole del mondo esterno non valevano: ti invitava a esplorare il tuo corpo, ti incoraggiava a esprimerti, a ribellarti alle convenzioni e nel farlo ti riempiva di elogi, ti convinceva che eri nel giusto», racconta Stefano Schiavon, che ha frequentato i suoi campi a partire dal 1998, quando aveva diciassette anni. Don Salvoldi ha modi informali, e i testimoni raccontano che saprebbe come conquistarsi la fiducia dei ragazzi quando evoca culture lontane in cui l’amore non è mai proibito ma sempre «generoso, prolifico, senza barriere». «Aveva 35 anni più di me e quando mi baciava era sgradevole, ma lo accettavo come parte dell’esperienza speciale che lui proponeva», dice Andrea Travani, un’altra vittima, all’epoca minorenne. Soprattutto, quel prete che pare così colto ripeterebbe ai suoi preferiti che loro hanno menti superiori e sono destinati a realizzare grandi cose. «Il rapporto fisico era la conseguenza dell’appartenere alla sua “élite”: mentre mi toccava, continuava a dirmi che ero unico e avevo qualità straordinarie, mi faceva il lavaggio del cervello», spiega Travani.

Così, mentre Salvoldi ripete ai suoi “eletti” che loro sono «l’avanguardia di Dio», le sue carezze e i suoi baci si sarebbero fatti sempre più invadenti: «Arrivava a baciare i ragazzi davanti a tutti. Una volta sono stato chiamato nella sua stanza per il “riposino” e l’ho trovato a letto sorridente e tranquillo con un ragazzino», ricorda Schiavon. Col tempo i partecipanti ai campi sono sempre più piccoli: il prete li chiamerebbe «i masturbini», è il racconto di alcune delle presunte vittime che si sono rivolte a “Rete l’Abuso”. La dinamica, per come emerge dalle testimonianze, sarebbe quella di una setta, in cui Salvoldi è il leader indiscusso: chi dissente rischierebbe di essere umiliato pubblicamente o allontanato.

«Dovevi essere in tutto e per tutto con lui: ti spingeva a lasciare la ragazza, ti portava a rompere con gli amici», ricorda Travani. Nel 2000 il ragazzo fa un viaggio in Canada con il prete di tre settimane, e oggi dice di essere caduto totalmente sotto il suo dominio. «Mi diceva che se l’avessi rifiutato mi sarei allontanato da un giusto cammino di fede: mi pareva di non avere un’alternativa». Al ritorno Andrea è dilaniato, e spiega di aver pensato al suicidio. «Da un lato i miei amici mi mettevano in guardia da questo rapporto, dall’altro lui mi diceva che era normale che rimanessi da solo perché ero troppo intelligente per essere capito. Ero così confuso e infelice che volevo uccidermi».

Impeccabile. Scrittore e conferenziere affermato, don Salvoldi è un prete difficile da mettere a fuoco. Sul suo sito scrive che ha studiato per 25 anni e per altrettanti ha insegnato filosofia e teologia morale, soprattutto come visiting professor nei paesi del terzo mondo. «Ora sono al servizio della Santa Sede per la formazione del clero delle giovani Chiese», aggiunge nel curriculum. È un “fidei donum”, cioè un sacerdote mandato a esercitare il ministero in terra di missione, ma è soprattutto un autore molto prolifico: pubblica con diverse case editrici (Paoline, Elledici, Gabrielli editori, Città Nuova e altre) saggi divulgativi di morale, raccolte di preghiere, biografie, alcuni tradotti anche all’estero. Dal sito della Gabrielli editori apprendiamo che è stato anche docente di filosofia e teologia morale all’Accademia Alfonsiana di Roma, e che «per il suo impegno è stato espulso da sette stati africani, due volte è stato davanti al plotone di esecuzione in Nigeria ed è sfuggito alla lapidazione in Bangladesh». In realtà la sua docenza all’Alfonsiana si limita a un solo semestre, nel 1988-1989, «come invitato, con un corso su “Il sacro nelle culture africane”», come attesta padre Maurizio Faggioni, docente di bioetica nello stesso istituto. È così attento a costruire la sua immagine di studioso e missionario devoto da investire qualche centinaio di dollari per l’inserimento del suo nome nell’annuario “Distinguished leadership” («per i suoi eminenti contributi come scrittore e come promotore di giustizia e di pace») pubblicato a pagamento dall’American Biographical Institute di Raleigh, North Carolina, ente più volte segnalato per truffa.

Il sacerdote ha certamente stima si sé stesso: durante una lezione in Etiopia nel 2002 si è definito troppo «bello e intelligente» per piacere alla chiesa; una chiesa che «ha paura di lui» e preferisce invece ordinare persone «più normali». Non pago dell’attività dei campi scuola, Salvoldi all’inizio del Duemila fonda poi la onlus Shalom, «un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale, avente come finalità la formazione morale e la crescita culturale dei giovani». Il suo motto è «i giovani salvano i giovani» e promette «la gioia di sentir rullare i tamburi, mentre i piedi si muovono lieti nella danza al sogno di “cieli nuovi e terra nuova”», come si legge in un volantino di presentazione. Presidente è il fratello, Giancarlo Salvoldi, politico, eletto alla Camera dei deputati per i Verdi dal 1987 al 1992. Dopo qualche anno la onlus viene messa in liquidazione e in rete non si trovano tracce di progetti effettivamente realizzati.

La versione di Zuppi. Se per alcuni l’esperienza dei campi è stata liberatoria e stimolante, per alcuni degli “eletti” sarebbe diventata presto un incubo. «Una decina di anni fa una vittima ha scritto sul sito web di Valentino che ricordava quando lo baciava sulla bocca, lo portava sul suo letto e si strusciava su di lui con la scusa di parlargli di Dio», testimonia Schiavon. «Questa persona diceva esplicitamente che quel fatto gli aveva rovinato la vita, ma il messaggio è stato cancellato».

Schiavon, che soltanto di recente ha cominciato a rielaborare il trauma, ha contattato più di cinquanta partecipanti ai campi degli anni Novanta e Duemila. «Pensavo di essere l’unico, e invece ho scoperto che molti ne parlavano già allora», afferma. «Gli abusi fisici e psicologici che ho sentito ripetere da molte persone sono sconvolgenti».

Domani” ha cercato di contattare Salvoldi per cercare di capire le ragioni di accuse così gravi, ma non ha avuto risposta. Di sicuro chi lo conosce bene spiega che si tratta di ricostruzioni del tutto errate, e di bugie che vogliono screditare un uomo che ha dato tutto per i giovani, senza mai uscire dal seminato. La Rete l’Abuso ha segnalato il caso alla diocesi di Bergamo, dove il prete risulta ancora incardinato, e al presidente della Cei Matteo Zuppi. «In maniera informale cercherò di capire se ci sono procedimenti a suo carico», ha risposto Zuppi

Il presidente della Rete Francesco Zanardi, sottolineando che la segnalazione è «l’equivalente di una lettera anonima, può rappresentare un segnale di problemi, ma anche, purtroppo, volontà di crearli o peggio di diffamazione. La giustizia richiede fatti e persone». Le presunte vittime hanno però parlato in prima persona, e presto bisognerà capire se dicono la verità oppure no.

Federica Tourn  “Domani”          28 dicembre 2023

www.editorialedomani.it/fatti/cosi-ci-baciava-e-toccava-le-parti-intime-laccusa-shock-contro-don-salvoldi-ukoayadz

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202312/231228tourn.pdf

Tutela minori: diocesi Bergamo, “avviate le procedure previste dal diritto canonico” su anziano sacerdote

In merito ad alcune notizie di stampa relative a un anziano sacerdote del clero della diocesi di Bergamo per “presunti fatti risalenti agli anni ‘90, si è già provveduto per quanto di competenza ad attivare le procedure previste dal diritto canonico, fermo restando il rispetto del lavoro della magistratura nel comune intento del giusto accertamento della verità”. Lo riferisce la Curia bergamasca in una nota in cui “riafferma il suo impegno nella tutela e protezione dei minori e degli adulti vulnerabili anche attraverso la disponibilità all’accoglienza da parte del Centro di ascolto del Servizio Tutela minori diocesano”. “La piena dignità e inviolabilità di ciascuno sono valori e fondamenti mai negoziabili, e non si farà mai abbastanza per cercare di custodirli e proteggerli”.

Agenzia Sir           28 dicembre 2023

www.agensir.it/quotidiano/2023/12/28/tutela-minori-diocesi-bergamo-avviate-le-procedure-previste-dal-diritto-/canonico-su-anziano-sacerdote

BIBBIA

La biblista Rosanna Virgili *1958

ci invita a leggere le Scritture contestualizzandole e senza moralismi

La Bibbia e l’orientamento sessuale

Più volte Papa Francesco ha assicurato che nella Chiesa c’è spazio per tutti, anche per la comunità lgbtq+ (acronimo riferito alle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e, in generale tutte quelle che non si sentono rappresentate dalla parola eterosessuale). Le sue parole riflettono le Sacre Scritture?

Sì, la sua posizione rimanda alla Bibbia, che, in realtà, parla raramente di rapporti omosessuali. Ciò che è importante è contestualizzare e interpretare tali scritture considerando la cultura e la sensibilità dell’epoca in cui sono state redatte, senza leggerle in maniera fondamentalista e moralista. Le problematiche legate all’orientamento sessuale non sono note al mondo antico, né al Medioevo, sono elaborazioni moderne. Anzi, nel mondo antico era praticata l’omosessualità, specialmente quella maschile, che in Grecia era considerata persino un valore.

Allora come spiega l’interpretazione di alcuni passi dell’Antico Testamento come una sua condanna?

Uno di questi è il versetto 22 del Capitolo 18 del libro del Levitico: “Non ti coricherai con un uomo, come si fa con una donna: è cosa abominevole“. Un passo in realtà legato alla salvaguardia dei rapporti destinati alla procreazione e non un attacco all’omosessualità. Nel contesto dell’epoca, il popolo di Israele, che era piccolo e continuamente attaccato da altri più grandi, mirava a garantire la discendenza attraverso la procreazione, per cui l’omosessualità era considerata come contraria. Attraverso la discendenza si assicurava anche il rapporto con Dio e non avere figli era una maledizione.

Anche l’episodio di Sodoma e Gomorra (Genesi 19) potrebbe essere inteso in modo diverso?

Il delitto principale dei sodomiti non fu l’omosessualità, piuttosto l’inospitalità e la violenza verso gli ospiti stranieri. Questo peccato va interpretato come un rifiuto dell’ospite, che si traduce in un rifiuto di Dio. In tal senso, l’episodio potrebbe piuttosto essere considerato come una condanna del respingimento in mare di quegli “ospiti” che oggi sono i migranti.

                Qual è invece l’approccio del Nuovo Testamento all’omosessualità?

Nel Vangelo l’importanza di avere figli per garantire la discendenza decade, a partire da Gesù. In queste pagine l’aspetto spirituale diviene più rilevante, e il concetto di discendenza si lega alla Risurrezione e, appunto, al corpo spirituale. Viene considerato in maniera nuova anche il rapporto uomo/donna, per cui vanno interpretati diversamente i passi della Prima Lettera ai Romani di Paolo capitolo 1(versetti 18-27, ndr), in genere considerati come un castigo dell’omosessualità. In questo caso la parola chiave è il “se stessi“, omoios, con cui l’apostolo gioca, a indicare che le femmine vanno con le femmine e i maschi con i maschi (versi 26 e 27, ndr). Ma non è un giudizio morale sull’orientamento sessuale, bensì una critica alla cultura individualista dei greci, a cui Paolo si sta rivolgendo, incapaci di mettersi in relazione spirituale con Dio, considerato come l’altro, facendo di sé stessi l’immagine-idolo (verso 23, ndr).

                I valori dì inclusione espressi dal Papa si tradurranno in azioni all’interno della Chiesa?

Sono certa che la Chiesa non può non aprirsi, seguendo gli insegnamenti evangelici. Le questioni legate all’orientamento sessuale non sono il primo problema della Chiesa del futuro, sono altri i temi irrinunciabili della fede cristiana. È fondamentale, soprattutto per l’Europa occidentale, l’enciclica sulla fraternità, contro l’esasperazione dei diritti individuali e il rifiuto dell’etica, che serve a regolare il rapporto con l’altro.

 Vanessa Postacchini *1972 Intervista  per “Dalle Api alle rose” Rivista del Monastero agostiniano di Santa Rita da Cascia novembre-dicembre 2023

Rosanna Virgili “Se tutto passa… e quasi orma non lascia

Corpo di donna mia, persisterò nella tua grazia. La mia sete, la mia ansia senza limite, la mia strada indecisa! Oscuri fiumi dove la sete eterna continua, e la fatica continua, e il dolore infinito. (Pablo Neruda)

                Il nostro organismo, il confronto con il tempo, il desiderio innato di eternità Anche il corpo è un divenire, è stato creato per essere mutato, migliorato, trasformato a favore della vita che esso stesso porta come sete e chiede come pienezza. Rosanna Virgili conclude oggi un percorso di riflessione in sei tappe su Corpo e Parola. A partire dai testi biblici la teologa e biblista ha offerto uno sguardo aperto ai mutamenti antropologici in corso, guardando alle ricadute sui Sacramenti della fede cattolica

                «Come sono belli i tuoi occhi dietro il velo » dice il Cantico dei Cantici alludendo a ciò che traspare del viso di lei coperto da un velo. Trame di seta che lo rendono ancor più affascinante e desiderabile. Ora le donne, da noi, non tengono più nulla dietro un velo, specialmente d’estate. Se ancora ai tempi di Totò mostrare il corpo con un bikini significava liberarsi da moralismi repressivi esercitati dai patriarcati familiari e sociali, che volevano soffocarne la pelle dentro degli “scafandri da palombari” (= costumi interi e castigati), oggi segnala, invece, più che voglia di esibire quasi un’indifferenza, un’estraneità tra sé e il proprio corpo e tra il proprio corpo e quello degli altri. Una nudità senza attesa, membra inermi esposte agli anonimi passanti e pure al vuoto di uno sguardo d’amore. Un corpo senza porte, senza un velo a vegliarne l’intimità. Il corpo si trasmette sempre più come immagine e il “velo” si trasforma nella prosaica calza da mettere sulla telecamera affinché si ottenga un effetto flou che spiani le rughe così da rendere impossibile l’emergere dei segni del tempo sulla fronte e sul collo. Ridotto ad immagine il corpo non sembra veicolare più il passato quindi la storia, le esperienze, le maternità, gli allattamenti, tutte le cicatrici che la vita vi ha scolpito. Qualcosa che molti condannano come fosse un peccato e qualcuno, con rara sapienza, non accettava, dicendo: “c’ho messo tanti anni a fare queste rughe perché dovrei cancellarle?” (Anna Magnani). Ma il desiderio di togliersi di dosso il peso degli anni è un’ansia indiscutibile del corpo. Di uomini e di donne. Il desiderio di rimuovere i difetti, le imperfezioni, le disarmonie, le malattie, tutte le forme più disparate della corruzione è viscerale e appartiene al corpo stesso. O meglio a quella che potremmo chiamare: l’anima del corpo.

Un altro corpo. Come è noto i cristiani attendono e confidano nella resurrezione del corpo. Si tratta di un altro corpo quello che continuerà a vivere dopo la morte. Come sarà allora? Paolo è il primo ad argomentare su ciò: «Ma qualcuno dirà: “Come risorgono i morti? Con quale corpo verranno?” (…) Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere (…) Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; (…) è seminato corpo animale risorge corpo spirituale » (1Cor 15,35-44). La metafora è efficace ma resta l’interrogativo non solo su come sarà concretamente possibile trovarsi in un altro corpo, ma anche su come immaginarlo. Che ne sarà dei nostri difetti fisici che tanto ci disturbano nella vita mortale? Sorge inoltre un’ulteriore domanda: ma se saremo trasformati e perfetti, come faremo a riconoscerci? Non verremo mica tutti omologati secondo i canoni della chirurgia plastica?

Com’è bella giovinezza. Prima ancora che il cristianesimo proponesse la fede nella resurrezione della carne e quindi nella speranza di trovarsi in un corpo tessuto di spirito e libero dalla corruzione del tempo, alcuni sono stati più attenti e si son detti: a quale età si vorrebbe intercettare il per sempre? Ed ecco i miti dell’eterna giovinezza. Uno dei più antichi si trova nell’epopea di Gilgamesh un testo in accadico risalente alla fine del secondo millennio avanti Cristo. Trovandosi di fronte al cadavere del suo amico Enkidu, Gilgamesh prende la decisione di andare alla ricerca di una pianta il cui nome è: “Vecchio ringiovanisci”. Nonostante fosse stato avvertito da una locandiera saggia – Siduri – che non l’avrebbe mai trovata, Gilgamesh insistette e riuscì ad averla. Ma lungo il viaggio di ritorno, distrattamente, la appoggiò su una pietra e un serpente, fulmineo, la ingoiò! Mentre quest’ultimo cambiò la pelle e ringiovanì, Gilgamesh dovette rientrare ad Uruk nelle spoglie mortali. Le delusioni che seguono a questo tipo di miti non fanno dimenticare, tuttavia, la bellezza della giovinezza e il desiderio di goderne per sempre.

C’è chi – come Lorenzo il Magnifico – suggerisce di approfittarne più possibile almeno finché dura: «Com’è bella giovinezza che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia del doman non c’è certezza ». Quasi un eco a un testo sublime del Qoèlet: « Godi, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù. Segui pure le vie del tuo cuore e i desideri dei tuoi occhi » (11,9).

                Può forse un uomo rinascere quando è vecchio? «Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodèmo, uno dei capi dei Giudei. Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse (…) “Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”. Rispose Gesù: “In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito” » (Gv 3,1-6). Non è facile comprendere di cosa parlasse concretamente Gesù in risposta alla domanda di Nicodemo. Ma è certo che questa domanda rimane più attuale che mai. Parliamo, infatti, oggi, di post-mortali, di eterna giovinezza e di appiattimento del tempo su di un’unica età. Yubal Noah Harari (*1978), nel suo “Homo Deus”, dice che saranno le scienze a darci quello che le religioni ci hanno promesso. Che dire? Importante è che l’anima non vaghi astratta dal corpo come pure che il corpo non si riduca a una carcassa senz’anima.

Generato, non creato. Il verbo generare contiene una polisemia: la perdita, la rinascita, lo sviluppo da un seme a un corpo. “ Generato e non creato”, la definizione che il Credo cattolico dà del Figlio di Dio incarnato è questa: egli è frutto e fonte di un processo. Venendo da un dinamismo, da un mutamento, da una trasformazione, continuerà a trasformarsi ed a trasformare: dal corpo animale a quello spirituale. Il corpo resta, ma non le sue strutture. Se, infatti, il primo è fatto di carne (basar) e di anima (nefeš) il secondo è fatto di spirito (pneuma). Una prospettiva del genere sul corpo dovrebbe liberare da qualsiasi attaccamento al dato “creato”. Difendere il dato naturale non costituisce il primo interesse del cristiano. Del resto nella Bibbia non si legge di una “legge naturale”, ma di diversi atti di creazione compiuti da Dio. Da essi si avvia un processo segnato dal tempo e dalla sapienza dell’uomo, il quale accetta il suo limite, sempre in rapporto con la Trascendenza.

Abbiamo osservato come non si nasca né figli, né fratelli, ma si diventi tali. Abbiamo visto come anche la paternità e la maternità siano dei processi e non dei canoni assoluti e fissi. Dobbiamo concludere che anche il corpo è un divenire, è stato creato per essere mutato, migliorato, trasformato a favore della vita che esso stesso porta come sete e chiede come pienezza. L’anima del cristianesimo, presente in tutti i libri del canone biblico, consiste di una tensione del corpo alla vita, al superamento del limite posto dalla morte; è quanto abbiamo potuto dimostrare attraverso la lettura di molti testi. Il corpo sessuato è fatto per superare l’individualità e per vincere la solitudine; per continuare nell’apertura alla discendenza e nel fine primario dei figli, per mezzo dei quali ci si vuole procurare un plusvalore di vita dopo la morte.

                La storia del corpo che la Bibbia racconta è quella di un continuo divenire, della libertà e dell’audacia che spesso ha portato a spostare le caratteristiche dell’identità di genere, pur di garantire un futuro alla famiglia, alla società e alla civiltà. Ma ha anche continuamente cambiato gli schemi storici delle sue incarnazioni, seguendo le ragioni della Sapienza e dello Spirito: la comunione, l’amore, il patto tra due o più. Ed è questa la vera distanza tra il pensiero biblico sul corpo e quello della cultura contemporanea: quest’ultima è curiosa di vedere se sia possibile mutare i corpi delle persone allo scopo di una loro sempre maggiore autonomia, al servizio dell’individuo, affinché possa emanciparsi da qualsiasi bisogno o legame con il corpo dell’altro. Ciò porta non solo alla morte di Dio, che è l’Altro per eccellenza, ed alla morte del prossimo, ma anche alla morte dell’“umano”, così come la Bibbia lo concepisce. Essa, infatti, segue una direzione opposta, apre tutte le sue pagine ai mutamenti del corpo in vista della vita comune, dell’amore vicendevole, del riscatto dei poveri, della comunione tra le creature: «Per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo” ». ( Ef 2,16). La sua “umanità” è quella che tende all’inclusività, all’abbattimento dei muri, alla riconciliazione materiale e morale, alla resurrezione, alla costruzione di un “corpo” universale di pace. In questa tensione il corpo si trasforma, poiché nella Parola dell’abbraccio esso trova la Vita.

Rosanna Virgili                    Avvenire 23 luglio 2023

www.avvenire.it/opinioni/pagine/se-tutto-passa-e-quasi-orma-non-lascia

CHIESA ITALIANA

Il cardinale Zuppi: «Anche per mio padre io ero don Matteo. Chi salva i migranti non va criminalizzato»

Intervista di Aldo Cazzullo

  Matteo Maria Zuppi *1955

Eminenza?

«Don Matteo. Anche mio padre, da quando sono diventato prete, mi ha sempre chiamato così».

Don Matteo Zuppi, qual è il suo primo ricordo?

«A quattro anni avevo inghiottito il pezzo seghettato di un interruttore. Ricordo l’angoscia di mio padre: temeva per la mia vita, e aspettò trepidante che lo espellessi. Lo portò sempre con sé, come l’ex voto di una grazia ricevuta».

Chi era suo padre?

«Un giornalista. Direttore dell’edizione domenicale dell’Osservatore Romano, quella divulgativa: grandi fotografie, linguaggio semplice e diretto. Gliel’aveva affidata Montini, nel 1946. Papà era del 1909, suo padre Raffaele del 1863: di cognome si chiamava Zuppa, poi cambiato in Zuppi. Generazioni antiche. I figli si picchiavano con la cinghia».

Suo papà la picchiava con la cinghia?

«Controvoglia, a malincuore. Lo sentiva come un dovere: per la mentalità dell’epoca, non sarebbe stato un buon padre se non l’avesse fatto. In realtà era una persona buonissima. Noi figli eravamo cinque discoli: Giovanni, Cecilia, Luca, Marco. Io sono il quinto, poi arrivò un altro maschio, ma gli evangelisti erano finiti. Così fu chiamato Paolo».

Sua madre Carla era la nipote del cardinale Carlo Confalonieri, vero?

«Era figlia di una sua sorella. Ma lo zio era l’opposto del nepotista: “Non voglio parenti in Vaticano” diceva. Quando andavamo a trovarlo ci inginocchiavamo a baciargli l’anello, gli davamo del lei. Era un brianzolo austero, severo. Il suo Papa era Pio XI, “chinati al bacio della sacra pantofola!”».

Era un cattolicesimo conservatore.

«Tradizionale. Amava la Chiesa, la serviva, non se ne serviva. Oneri e non onori. Mio padre era parrocchiano di don Pirro Schiavizzi, l’ultimo parroco di Roma a predicare alla Curia romana, al tempo di Pio XI. Fu lui a mandarlo da don Giovanni Rossi, che era stato segretario del cardinal Ferrari, arcivescovo di Milano. Lo accompagnò ad Assisi quando fondò la Pro Civitate Christiana. Aveva frequentato gli scout, amico delle aquile randagie, l’unica forma di organizzazione giovanile alternativa al fascismo. Era il mondo da cui veniva don Minzoni, che i fascisti avevano bastonato a morte».

Lei quando scoprì la vocazione?

«Verso i ventidue anni. Nel 1971 avevo incontrato la Comunità di Sant’Egidio, il suo fondatore Andrea Riccardi. Amicizia, preghiera, poveri. Le borgate romane erano poverissime. La marrana di Primavalle, il cinodromo, il dilagare della droga: un pugno nello stomaco. Prima ero attratto dalle messe beat, comunitarie e affascinanti per un adolescente anni ’60: batteria, basso, chitarra. A Bologna ho scoperto che Luca Carboni ha cominciato così».

Com’è oggi la Chiesa?

«La Chiesa sta cambiando rapidamente. Carlin Petrini mi ha raccontato della Bra della sua giovinezza: ogni cento metri c’era un prete. È un mondo che sta finendo. I ragazzi arrivano fino alla cresima, poi non li vediamo più, e non c’è più davvero un prete “per chiacchierar”. Dobbiamo ritrovare i legami, i contatti umani, le relazioni. Dobbiamo unire umanesimo ed evangelizzazione».

Pupi Avati dice che la Chiesa rischia di non sapere parlare del Vangelo, di ridursi a una Ong e i preti assistenti sociali.

«Il Vangelo non è un distillato di verità. Il Vangelo è legato alla vita, all’umanità, all’incontro. Non dobbiamo aver paura di contaminare la verità con la vita, perché nell’amore per il nostro prossimo troveremo la verità, che è Gesù. La verità si perde come il sapore del sale quando non si unisce alla vita. Negli occhi degli altri vedremo gli occhi di Dio. La Chiesa non potrà diventare una Ong perché i poveri sono i nostri fratelli: li amo, non ci faccio mica “volontariato”! E l’amore della Chiesa è quello di Gesù: senza misura, per tutti. Fai il bene per Gesù, o per gli altri, o per te stesso? Lo faccio perché scopro Gesù, scopro gli altri e scopro me stesso».

La fede è in crisi.

«L’individualismo la svuota o la rende inutile, distante. Invece non troviamo noi stessi senza rispondere alla sete che abbiamo dentro. L’individuo trova sé stesso quando si apre al prossimo, non quando cancella la fragilità, il limite, la morte. Non siamo un’isola, anche se super accessoriata! E poi la fede cristiana è fede, amore e anche per questo sacrificio, non un elisir di benessere. Coinvolge tutta la vita».

Cosa intende?

«Noi non crediamo solo nell’immortalità dell’anima; crediamo nella resurrezione dei corpi. Quando san Paolo parla agli ateniesi dell’immortalità dell’anima, lo ascoltano con interesse; quando parla della resurrezione della carne, lo prendono in giro, se ne vanno, gli dicono: di questo ci racconterai un’altra volta. Anche l’uomo moderno fa così. Ma noi non siamo un accidente; noi siamo tutt’uno con il corpo. Come canta De André? “Mi cercarono l’anima a forza di botte”. Non dobbiamo disincarnarci, ovattare il corpo come peccaminoso. Dobbiamo riconciliarci con noi stessi, capirne la grandezza e la bellezza».

Un paragrafo del suo bellissimo libro, «Dio non ci lascia soli», pubblicato da Piemme, si intitola: «Come immagino l’aldilà». Come immagina l’aldilà, don Matteo?

«Nell’aldilà saremo una cosa sola, senza perdere la nostra identità. Non soltanto ritroveremo i nostri cari; non avremo più nemici, non avremo più estranei e noi non lo saremo più. Tutto diventerà luminoso e interessante. Non avremo più paura degli altri, vivremo senza diaframmi e senza possesso, perché impareremo ad amare e a farci amare. Non sarà una beatitudine insipida o una grande entità anonima; sarà pienezza d’amore. Però possiamo iniziare già qui! La gioia che non finisce la capiamo già oggi».

E l’inferno?

«Inferno è quando non credi all’amore, lo rovini, ti difendi, rimani a cercare la pagliuzza, ne fai un possesso quando è regalo, cerchi l’interesse quando è gratuito, ti difendi da chi ti ama. Il contrario non è la perfezione, che non esiste, ma la consapevolezza del male fatto. Nell’aldilà la consapevolezza ci farà male, ma ci porterà sempre alla misericordia».

                Un anno fa la Chiesa ha perso Papa Benedetto. Quanto era diverso da Francesco?

«Sono molto diversi gli stili. Ma questo è sempre successo: dopo Pio XII viene Papa Giovanni, e il partito romano reagisce male, lo trova un semplicione, privo di autorevolezza, senza neanche la fisionomia del Pontefice. Invece Giovanni sorprende tutti con la sua immediatezza, la sua affettività; non parla ex cathedra, parla di sé, e inventa il Concilio. Al Concilio Ratzinger c’era, ne fu tra i protagonisti, e anche se i suoi avversari l’hanno accusato di aver tradito lo spirito conciliare, lui l’ha trasmesso a Francesco, come un passaggio di testimone».

Il papato di Ratzinger si è chiuso male.

«Non la leggo così. Certo furono mesi difficili, tra uno svolazzare di corvi. Ma Benedetto ci disse di rimetterci in viaggio, di avere fede, di unire verità e amore per combattere la sporcizia e il relativismo. E Francesco si è messo in viaggio. Anche lui ha i suoi avversari che lo accusano di aver tradito».

Chi sono?

«Alcuni avversari del Papa mi ricordano gli gnostici, che riducevano Dio a entità e la fede a un salotto intelligente, senza esperienza umana. All’estremo opposto ci sono quelli convinti che la salvezza sia frutto solo delle nostre mani, come se la grazia non esistesse. In mezzo c’è il cristianesimo, la Chiesa che non contrappone mai la dimensione umana e quella spirituale».

In cosa c’è continuità tra Benedetto e Francesco?

«Nella missione, nella scelta di parlare con tutti, portare tutti a casa, credere che il Vangelo abbia tanto da dire all’uomo moderno. E se gli omosessuali dicono: la Chiesa non ci capisce, non ci vuole, ci giudica, il Papa risponde: siete tutti figli. È molto diverso, però, dal dire: “Fate come vi pare”. Far sentire che ami, che sei prossimo, non vuol dire fai tutto bene o fai come ti pare, ma “sappi che questa è sempre casa tua”».

Benedire le coppie omosessuali non significa benedire i peccatori, quindi il peccato?

«Il problema è pastorale. Certe cose le puoi dire dopo che hai fatto sentire di nuovo a casa. Così sarà possibile imparare le regole — bellissime — di una casa da cui ci si era allontanati, che si pensa non capisca e che non viene capita. La Chiesa non è fatta di angeli, di puri. Il mio predecessore, il cardinale Caffarra, era un sant’uomo, rigoroso, preoccupato che la gente non capisse con chiarezza il messaggio, e quindi voleva che il Papa dicesse come si fa, indicare le regole… La regola c’è, ma Papa Francesco si raccomanda di renderla efficace nella diversità delle situazioni. La Chiesa comunica l’amore che spiega la regola e la rende viva e questo avviene ristabilendo un rapporto con tutti. Il mondo non è bianco e nero e richiede ascolto, discernimento, accoglienza. Qualcuno può pensare: così perdi la verità».

Invece?

«Invece no, così la riscopri: vivendo, incontrando, parlando di Gesù. E scopri che il cristianesimo ha radici più profonde di quello che pensi. L’altra sera mi hanno invitato a una festa di Rifondazione, sono venuti in tanti a chiedermi una foto, “così poi la mando a mia mamma…”».

I progressisti però accusano il Papa di non aver fatto le riforme. Ad esempio, non ha consentito ai preti di sposarsi, o almeno agli sposati di fare i preti.

«I preti sposati li abbiamo già. Sono i cattolici orientali, in Romania, in Ucraina, anche qui nel nostro Paese: a Rossano in Calabria, a Piana degli Albanesi in Sicilia. Sulla questione dei “viri probati”, emersa durante il Sinodo sull’Amazzonia, il Papa ha ricordato che è lo Spirito ad agire, non la pressione dell’opinione pubblica. Tanta gente è pronta ad attaccarlo, ma così offende il dono più santo che c’è, la comunione. E la Chiesa non deve perdere mai la comunione».

C’è un rischio di scisma? Dei progressisti o dei conservatori?

«Penso e spero di no. Il divisore, il diavolo, fa sempre il suo mestiere, e ci riesce ancora di più quando fa credere di difendere così il giusto. Non cadiamo nell’errore della polarizzazione. C’è grande impegno da parte di tutti per difendere la comunione attorno al Papa. Dopo il Concilio ci fu lo scisma di una fazione conservatrice, quella di Lefebvre. Addolorò molto Paolo VI. La comunione però non è un regolamento di condominio; è ricordarsi che tutti serviamo l’unico maestro che ci ha affidato a una Madre che non dobbiamo mai offendere».

Lei nel libro cita una profezia di Paolo VI: «Vivrete nel mondo nel momento delle più gigantesche trasformazioni della sua storia». Direi che ci siamo.

«Paolo VI era un grande. I suoi ultimi discorsi sulla morte sono un testamento poetico e spirituale. Lo prendevano in giro per i suoi viaggi, dicevano che non stava mai a Roma. Fu il primo Papa ad andare a Gerusalemme, in Africa, in America, dove parlò all’Onu contro la guerra. Nelle Filippine cercarono di ammazzarlo».

Bergoglio ha incaricato lei di fermare la guerra in Ucraina.

«Qualcosa si muove. Sono stato a Kiev e a Mosca. Sono stato a Washington e a Pechino. Sia i russi sia gli ucraini hanno riconosciuto il ruolo della Santa Sede. I nunzi nelle due capitali stanno facendo un lavoro egregio. Certo, vorremmo molti più risultati sul ritorno dei bambini. Non perderemo nessuna opportunità per farlo. Non è possibile che oltre alle armi non ci sia altro per sconfiggere la guerra».

                Senza le armi dell’Occidente, l’Ucraina perde la guerra e Putin la vince.

«Dobbiamo uscire dalla logica della vittoria militare come unica possibilità e del dialogo come resa. Non è ingenuo credere che le guerre trovano una pace giusta solo con il dialogo! La Santa Sede è per il coinvolgimento della comunità internazionale, che è il terzo attore e che può e deve fare molto per trovare e garantire soluzioni adatte».

                Il modello è il Mozambico?

«Non c’è un modello. Serve una pace, se necessario creativa, come fu per il Mozambico dove furono coinvolti soggetti diversi. Ci sono diverse soluzioni. Per la Corea si individuò un parallelo come linea di separazione».

                Il Papa è stato accusato di equidistanza in Ucraina, e di essere schierato con i palestinesi a Gaza.

«Sull’Ucraina, il Papa ha sempre distinto con chiarezza tra aggressore e aggredito. Nella guerra di Gaza è vicino a entrambi i popoli. Ha condannato il crimine del 7 ottobre, come ha fatto con la guerra nella Striscia che ha già causato migliaia di morti innocenti. Francesco condanna Hamas e difende le vittime innocenti di Gaza. Cos’altro può fare il Papa?».

E la Cina, dove lei è stato?

«La Cina è una grande e indispensabile risorsa. E può certamente aiutare a trovare la pace in Ucraina».

Casarini vi ha imbrogliati?

«Casarini ha dato querela ai suoi accusatori. Vedremo come va a finire. Alcune diocesi hanno aiutato la sua Ong, in misura peraltro molto limitata in confronto al bilancio dell’associazione. Lui ha presentato tutti i rendiconti. Nel nostro mare affogano migliaia di donne e neonati, e il problema secondo lei è Casarini?».

Casarini è l’uomo delle tute bianche, del G8 di Genova.

«Lui è cambiato, fa delle cose per la vita, perché non dargli fiducia? Non per questo siamo ingenui».

Dalle intercettazioni non sembra la meritasse.

«La querela che ha presentato è esattamente per questo. A me resta sempre da capire per quale motivo le intercettazioni sono pubblicate, e perché quelle parti e non altre. La magistratura farà chiarezza. Alle diocesi coinvolte fanno fede gli impegni presi e rispettati».

Resta il rischio che con i soldi delle donazioni le Ong alimentino il traffico di esseri umani.

«Se le Ong sono complici degli scafisti, allora lo sono tutti quelli che salvano i profughi in mare, a iniziare dalla Guardia Costiera che compie il 95 per cento dei salvataggi. Guai a criminalizzare l’umanitario! Se ci fossero responsabilità o connivenze, è bene che siano condannate. Altrimenti cercherei e indicherei i veri scafisti, come ha sempre fatto il nostro giornale, “Avvenire”, con grande coraggio».

Sui migranti il Papa non ha perso la sintonia con l’opinione pubblica?

«I cristiani — ma direi tutte le persone — devono fare il possibile per salvare le vite umane. Un solo morto in mare è una sconfitta per tutti. Che prezzo ha? Poi piangiamo come per Aylan e non facciamo nulla? Francesco non ha mai detto: dovete accogliere tutti. Ha detto: gestite il fenomeno, ma non nei lager, come in Libia, o neanche in centri di raccolta dove restano anni senza fare nulla. Il fenomeno va gestito aiutando sia a partire con i corridoi umanitari, sia a restare: motivo per cui la Chiesa italiana investe 80 milioni l’anno per progetti di sviluppo in Africa».

                Che Natale sarà?

«Un Natale vero. Capiamo di più l’importanza della luce quando siamo nell’oscurità. Siamo confrontati con tanta disumanità, violenza, con la forza del male che sgomenta. Questi non sono fuori di noi e fuori del mondo, ma dentro. Ecco perché è grande il Natale: Dio viene a lottare contro la morte regalando sé stesso, facendosi solo amore».

                Nel suo libro lei racconta del ragazzo di Haiti che dopo il disastroso terremoto le chiede come Dio abbia potuto permetterlo. Lei cosa ha risposto?

«Che Dio soffre con loro, con noi. Noi cristiani siamo un po’ viziati nella relazione con Dio. Gli ebrei non osano pronunciarne il nome, i musulmani sono sottomessi. Noi abbiamo Gesù, che fa e ci chiede di fare come Lui, perché così troviamo noi stessi: imparando l’arte di amare, quella che ci rende uomini e figli di Dio come siamo. Occhio, sempre peccatori. Tutti. Ma amati».

Ma il presepe si può imporre per legge?

«Non vorrei che il presepe, che è bellissimo e umanissimo così com’è, pieno di umano e divino e che è già per tutti, diventasse antipatico e divisivo. A volte con la giusta preoccupazione dell’accoglienza pensiamo che questa significhi nascondere la storia, i tratti della nostra casa. No. Accoglienza è vivere l’umanesimo della nostra casa, che tanto è frutto proprio di quel mistero di amore che è Cristo. L’umanissimo Dio che ci rende umani».

Matteo Maria Zuppi è cardinale, arcivescovo di Bologna presidente della Cei

Aldo Cazzullo       Corriere della sera              24 dicembre 2023

www.corriere.it/cronache/23_dicembre_24/cardinale-zuppi-don-matteo-926b7614-a1cc-11ee-b35d-e5d6f5c3a4f9.shtml

CITTÀ DEL VATICANO

Benedizione delle coppie omosessuali, il Vaticano risponde alle critiche

In un’intervista al quotidiano spagnolo ABC, il cardinale Victor Manuel Fernandez (detto Tucho *1962)

 risponde agli attacchi di diversi episcopati dopo la pubblicazione di un testo che autorizza i preti a benedire le coppie “irregolari”. L’autorizzazione da parte del Vaticano della benedizione delle coppie omosessuali continua a provocare reazioni negative. Mentre diverse conferenze episcopali, in particolare in Africa, ma anche nell’Europa dell’est, si oppongono ufficialmente e pubblicamente a qualsiasi benedizione di questo tipo, il cardinale Victor Manuel Fernandez ha cominciato a rispondere alle virulente critiche.

Dopo essersi espresso una prima volta sul sito americano The Pillar, il cardinale argentino, a capo del dicastero per la dottrina della fede dal 15 settembre, ha scelto un altro medium conservatore per rispondere alle critiche formulate contro il testo pubblicato dal Vaticano il 18 dicembre. In una intervista al quotidiano spagnolo ABC, pubblicata il 27 dicembre, il cardinale argentino difende la linea della dichiarazione, intitolata “Fiducia supplicans”, firmata da lui e approvata da papa Francesco.

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/12/18/0901/01963.html

Quel documento, insiste il cardinale, non cambia in nulla l’insegnamento della Chiesa sul sacramento del matrimonio. “Il tema centrale del documento è il valore delle benedizioni ‘non liturgiche’, ‘non ritualizzate’”, precisa. Aggiungendo: “Non ratificano nulla”. Le benedizioni a coppie “irregolari”, come i divorziati risposati o le coppie dello stesso sesso, “sono solo la risposta di un pastore a due persone che chiedono l’aiuto di Dio. E in questo caso, il pastore non pone condizioni”. Il cardinale Fernandez prende l’esempio di un prete che incontra, nel corso di un pellegrinaggio, una coppia di divorziati risposati o formata da persone dello stesso sesso. “Benedirli non è accettare un matrimonio, non è neppure approvazione della vita che conducono, non è neppure un’assoluzione. È un semplice gesto di vicinanza pastorale che non ha le stesse esigenze di un sacramento”.

Il prefetto del dicastero per la dottrina della fede analizza la levata di scudi contro il suo testo: “Il problema che sollevano, afferma, è l’inconveniente di realizzare delle benedizioni nei loro contesti Regionali  che si confonderebbero facilmente con una legittimazione di una unione irregolare”. Poi prosegue: “A ciò si aggiunge che in Africa esiste una legislazione che penalizza il semplice fatto di dichiararsi gay con una pena di prigione, immaginate una benedizione”. Sul continente africano l’omosessualità è infatti proibita in trentadue paesi, una legislazione repressiva che ha spesso il sostegno più o meno esplicito dei vescovi cattolici locali.

In realtà, spetta ad ogni vescovo locale fare il discernimento necessario nella sua diocesi o in ogni caso dare degli orientamenti complementari”, aggiunge il cardinale argentino, per il quale non si potrebbe giustificare “un rifiuto totale di questo gesto richiesto ai preti”.

Loup Besmond de Senneville    “La Croix”  29 dicembre 2023   (traduzione: www.finesettimana.o

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202312/231229besmonddesenneville.pdf

Caso Rupnik: laicizzate tutte le religiose della Comunità Loyola

Tutte le religiose della Comunità Loyola, co-fondata dall’ex gesuita e noto mosaicista accusato di abusi Marko Ivan Rupnik e da Ivanka Hosta e recentemente sciolta dal Vaticano, torneranno allo stato laicale. Una conclusione per nulla scontata anche dopo il recente scioglimento della Comunità da parte del Vaticano, una sorta di conferma del fatto che un carisma autentico non c’è mai stato, che ai voti pronunciati non viene (più) riconosciuta una validità. A rivelare i dettagli del provvedimento, che non è stato pubblicato, è colui che della Comunità Loyola è stato il commissario per due anni, il vescovo ausiliare di Roma

mons. Daniele Libanori *1953  , in una intervista rilasciata all’agenzia Aci Prensa il 22/12 e ripresa dalla Catholic News Agency. Libanori ha anche rivelato che sarà istituito un fondo per assistere le donne che appartenevano alla comunità al momento del suo scioglimento. La Comunità Loyola, creata in Slovenia negli anni ’80 da Ivanka Hosta e Rupnik, accusati di aver commesso per decenni gravi abusi sessuali, spirituali e psicologici sulle consorelle, è stata sciolta dal Dicastero per gli Istituti di Vita consacrata e le società di Vita apostolica lo scorso ottobre, dopo la lunga indagine condotta da mons. Libanori, il quale ha affermato che coloro che ne facevano parte «sono allo stesso tempo dispensate dai voti religiosi e ritornano allo stato laicale», trovandosi quindi «nelle stesse condizioni di tutti i laici». Nessun risarcimento è invece previsto, dal momento che, ha spiegato Libanori, «bisogna distinguere tra lo scioglimento dell’istituto e gli abusi attribuiti a Marko Rupnik».

                E fino a oggi non c’è l’ombra di processi, sentenze o condanne a carico di Rupnik, nonostante papa Francesco abbia deciso di derogare alla prescrizione per i presunti abusi sessuali denunciati, rendendo così possibile un processo. Tuttavia, «il patrimonio intestato alla Comunità di Loyola – ha affermato Libanoriservirà a creare un fondo per l’assistenza di tutte le suore che erano incardinate nella comunità al momento della soppressione».

                In tale contesto, «nessuna responsabilità diretta o indiretta può essere attribuita alla Compagnia di Gesù, se non forse quella di aver sempre avuto fiducia in padre Rupnik, come tutti gli altri, finché le accuse non sono venute alla luce». «Per quanto mi risulta – ha proseguito – i fatti che hanno coinvolto le suore della Comunità di Loyola sono stati tenuti da ciascuna di loro nel segreto della coscienza fino al momento delle accuse. Non so nemmeno che le suore ne parlassero tra loro».

Ivanka Hosta, che ha servito dal 1994 come superiora generale della Comunità di Loyola, è stata rimossa a giugno di quest’anno dal suo ruolo e le è stato proibito di contattare le attuali o ex suore per tre anni. Le è stato anche ordinato di compiere pellegrinaggi mensili per pregare per le vittime di Rupnik. Quanto a Rupnik, espulso lo scorso giugno dalla Compagnia di Gesù, ma solo per disobbedienza ai provvedimenti restrittivi imposti dall’Ordine, oggi è attivo come prete incardinato nella diocesi di Capodistria, nella sua Slovenia.

                 Ludovica Eugenio *1966               Adista   26 dicembre 2023

www.adista.it/articolo/71157

DALLA NAVATA

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Anno B)

Genesi                                                15,01. In quei giorni, fu rivolta ad Abram, in visione, questa parola del Signore: Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande».

Salmo responsoriale                     104,08. Si è sempre ricordato della sua alleanza, parola data per mille      generazioni, dell’alleanza stabilita con Abramo e del suo giuramento a Isacco.

Paolo agli Ebrei                                11,08. Fratelli, per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.

Luca                                                      02,33. Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

L’abbraccio di Anna e Simeone

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Maria e Giuseppe portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore. Il figlio è dato ai genitori, ma subito da loro è offerto ad un altro sogno, ad un’altra strada che si apre per lui. I figli non sono nostri, appartengono a Dio, al mondo, ad una loro vocazione, «essi abitano case future che nemmeno in sogno potrete visitare» (K. Gibran).

            Salgono al tempio, ma ancora sulla soglia, altre braccia subito se lo contendono, quel bambino. E non sono braccia di sacerdoti o di leviti, ma quelle di due anziani, che non hanno ruolo nell’istituzione ma sono due innamorati di Dio. Occhi velati dalla vecchiaia, ma ancora accesi dal desiderio. È la vecchiaia del mondo che abbraccia l’eterna giovinezza di Dio. L’alternativa vera per i credenti non è tra progressisti o conservatori, ma tra innamorati e abituati (papa Francesco), tra accesi e accomodati. Gesù non appartiene al tempio, appartiene all’uomo, a chiunque ne sia assetato, è di quelli che sanno vedere oltre come Anna; è di quelli che non smettono di sognare, come Simeone, che sentono Dio come il loro futuro. Simeone prende in braccio Gesù e benedice Dio. Compie un gesto sacerdotale, una autentica liturgia, possibile a tutti, un’arte straordinaria.

Un anziano, diventato onda di speranza, una laica sotto l’ala dello Spirito benedicono: la benedizione non è un ufficio d’élites, ma esubero di gioia che ciascuno può offrire a Dio (Rosanna Virgili), che sta nelle case fuori dal tempio. È Dio che si incarna nelle creature, nella vita che finisce e in quella che fiorisce. Anche Maria e Giuseppe sono benedetti, si comportano secondo le regole ma al tempo stesso accolgono l’imprevisto, rassicurati dal rito e stupiti dai due profeti. Poi Simeone dice tre parole immense su Gesù: egli è qui come caduta, risurrezione, come segno di contraddizione. Tre parole che danno respiro e movimento alla vita, con dentro il luminoso potere di far vedere che tutte le cose sono ormai abitate da un oltre.

            Gesù come caduta. Caduta dei nostri piccoli o grandi idoli, rovina del nostro mondo di maschere e bugie, della vita insufficiente e malata. Venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare ciò che è contro l’umano.

Egli è qui per la risurrezione: è la forza che ti fa rialzare quando credi che per te è finita, che ti fa ripartire anche se hai il vuoto dentro e il nero davanti agli occhi. Perché vivere è l’infinita pazienza di ricominciare.

            Cristo contraddizione che contraddice tutta la mia mediocrità, tutte le mie idee sbagliate su Dio.

Ogni famiglia è grande ha il dovere di credere alla propria nobiltà e santità, che si gioca in una casa, ma che coinvolge il mondo.

                                    p. Ermes Ronchi, OSM*1947            

www.avvenire.it/rubriche/pagine/l-abbraccio-di-anna-e-simeone-a-gesu

DEMOGRAFIA

Italia secolarizzata. Dal nord al sud si fanno meno figli, aumentano celibi e divorziati (le metropoli resistono)

Sempre più quarantenni, cinquantenni e sessantenni risultano non sposati. Una tendenza nuova rispetto al passato ma omogeneo nelle varie aree interne del nostro Paese. La società italiana cambia in continuazione, lo ha fatto anche negli ultimi anni, nonostante mai come in questo periodo appaia immobile, attanagliata dal declino demografico e da una staticità che pochi altri Paesi sperimentano. Non si tratta solo dell’età media o della proporzione di stranieri nella popolazione. A mutare sono anche le condizioni e gli stili di vita, le famiglie, i rapporti tra le persone. L’Italia è sempre più secolarizzata: crescono i celibi e le nubili (+ 1,18% 2019 e 2023) tra i quali naturalmente vi sono tanti conviventi non sposati. Aumentano i divorziati, che nello stesso periodo sono saliti dal 2,93 al 3,54% e allo stesso tempo diminuiscono, dell’1,81%, i coniugati.

Dati Istat. I cambiamenti sono più ampi di quanto appaiono, perché vengono in parte nascosti dall’evoluzione demografica: in una società che invecchia è normale che la proporzione di sposati cresca nel tempo solo per il fatto che vi sono più ultra-quarantenni. Considerando i dati per fascia di età i mutamenti emergono in modo ancora più evidente e si nota come coinvolgano anche quelle aree del Paese che sono sempre state più tradizionaliste. La proporzione di celibi e nubili cresce ovunque di circa cinque punti anche tra gli under trentacinque, nonostante fossero già la stragrande maggioranza. Quella presente tra chi ha fra trentacinque e quarantaquattro anni, poi, vede un incremento maggiore al Centro, di circa il sei %, e al Sud, del 5,45 %, che al Nord. A non essere sposati però sono sempre più anche quarantenni, cinquantenni e sessantenni. Solo i più anziani, quelli con più di sessantacinque anni, sembrano per ora poco interessati dal fenomeno. Nel Nord-Est un italiano tra i cinquantacinque e i sessantaquattro anni su sei ormai non è coniugato.

È proprio in questa fascia di età che si trova il maggiore aumento di divorziati. Al Nord sono ormai uno su dieci, ma crescono quasi nella stessa misura, tra un punto e un punto e mezzo, anche nel Mezzogiorno, pur partendo da una base inferiore. A differenza di quanto accadeva decenni fa oggi i cambiamenti sociali nel Nord e nel Mezzogiorno sono molto simili.

La percentuale di coniugati scende soprattutto tra i trentacinquenni-quarantaquattrenni, e cala quasi allo stesso modo, di più di cinque punti in soli quattro anni, un po’ ovunque, ma soprattutto al Centro e al Sud. Al Centro ormai gli sposati sono minoranza, il 49,67 %.

Questa omogeneità nazionale nei cambiamenti ci dice qualcosa che in fondo sapevamo già: l’Italia ormai non si può dividere solo e tanto nel solito gradiente Nord-Sud. Contano sempre più i divari tra città e provincia, tra grandi centri, periferia e medi e piccoli comuni.  Lo vediamo nell’ambito della famiglia. In dieci anni, tra 2012 e 2022, le coppie con figli sono diminuite mentre sono aumentate quelle senza. Da un punto di vista geografico il cambiamento è stato più forte al Sud e soprattutto nelle Isole, ma ha interessato tutte le aree. Il panorama appare più variegato se guardiamo ciò che è accaduto distinguendo i luoghi in base al numero di abitanti. I mutamenti più importanti sono stati quelli che hanno riguardato i comuni tra i due e i diecimila abitanti, è qui che è cresciuta di più la quota di coppie senza figli, mentre è nei centri con meno di duemila che è scesa maggiormente la percentuale di coppie che ne hanno, dal 53,3 al 48,1%.

                In totale controtendenza sono invece quelli che sono definiti dall’Istat come i centri delle aree metropolitane, ovvero le città più popolose d’Italia, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Catania e Cagliari. Qui la quota di coppie senza figli addirittura diminuisce e quella di quelle che hanno prole scende di pochissimo.

Come in altre aree d’Europa è qui che si sta concentrando l’economia, in particolare quella dei servizi, è qui che giungono molti giovani alla ricerca di lavoro, soprattutto è in queste città che la presenza degli stranieri è maggiore. Sono ora l’unica parte viva e dinamica del Paese, in cui le persone si muovono, si trasferiscono, cambiano casa e impiego. Ed è in queste città, che comunque storicamente contengono più single e non sposati del resto d’Italia, che sembra esserci una frenata alla tendenza di avere sempre meno figli. Ora sono le altre aree del Paese, la provincia e i piccoli comuni, ad assomigliare sempre di più a quello che una volta era l’immaginario della grande metropoli da un punto di vista sociale.

La conferma del fatto che questi grandi centri in futuro potrebbero muoversi ulteriormente in controtendenza rispetto al declino demografico è il fatto che, nonostante rimangano quelli con i nuclei familiari più piccoli, sono però anche quelli in cui è minore ed è cresciuta meno la quota di figli celibi e nubili tra i diciotto e i trent’anni. Sono il 74,8 %, e sono aumentati in dieci anni solo del 2,5 %, mentre nei comuni tra i diecimila e i cinquantamila abitanti sono arrivati all’83,2 %, il dieci% in più che nel 2012.

Quella che potremmo definire come l’Italia più europea, contraddistinta allo stesso tempo da una popolazione meno anziana, ma anche meno tradizionale, è però ancora minoritaria. Corrisponde per molti versi a quella in cui, per esempio, sono minori della media sia la percentuale di coniugati tra i trentacinque e cinquantaquattro anni sia l’indice di dipendenza degli anziani, che misura il rapporto tra gli over sessantaquattrenni e gli italiani in età lavorativa. In questo pezzo di Italia vi sono le province di Roma, Milano, Bolzano, Modena, Bologna, Padova, Reggio Emilia, insomma, quelle in cui non solo la popolazione, ma anche i redditi e l’occupazione hanno avuto le migliori performance negli ultimi anni. Le stesse in cui è anche maggiore la presenza di immigrati.

                Sono aree distinte da quelle che sono storicamente meno tradizionaliste, più secolarizzate e moderne, ma in cui la popolazione invecchia di più, come le province di Torino, Genova, Trieste, Udine, Venezia, Firenze, Livorno. Si tratta di quello che potremmo definire come il Centro-Nord più vecchio, una volta per alcuni aspetti all’avanguardia e ora parzialmente ai margini delle aree più dinamiche. Ma sono differenti anche dalle zone che, all’opposto, vedono una percentuale di giovani ancora rilevante assieme ad abitudini ancora tradizionali, ovvero soprattutto quelle del Sud.

Ci sono tanti tipi di Italia e in continuo cambiamento. I mutamenti che sembrano interessarci appaiono non molto diversi da quelli che hanno riguardato prima di noi altri Paesi occidentali, per esempio la concentrazione della popolazione nelle città, a loro volta divise tra una periferia spesso abbandonata e quartieri bohémien e privilegiati, o lo svuotamento della provincia. Abbiamo il vantaggio di poter osservare quello che è accaduto ai nostri vicini per imparare la lezione, copiare le buone pratiche, evitare gli errori. Sapremo farlo?

Gianni Balduzzi                Linkiesta             29 dicembre 2023

www.linkiesta.it/2023/12/dal-nord-al-sud-si-fanno-meno-figli-aumentano-celibi-e-divorziati-ma-le-metropoli-resistono

D0NNE NELLA (per la ) CHIESA

Il naufragio della barca

L’apostolo Paolo è vittima di un grave naufragio, che può essere immagine grave del “naufragio” della Chiesa di oggi. Le drammatiche disattenzioni alla crisi e i piccoli spiragli di speranza.

Paolo e la violenta burrasca in mare. In una delle ultime pagine degli Atti degli Apostoli (cap. 27) si dice di un viaggio molto fortunoso: si tratta di una violentissima burrasca in mare, dove si trova l’apostolo Paolo diretto a Roma, su una imbarcazione che continuamente rischia di essere travolta dalla virulenza delle acque. È un racconto molto particolareggiato: all’inizio tutti , per alleggerire la barca, lanciano in mare attrezzi, ancoraggi e tanto altro. La paura era quella di finire contro gli scogli. Poi la nave si incaglia in un banco di sabbia con la prua incastrata sul fondo. Ma siamo vicini alla riva.

                Il naufragio può diventare l’occasione propizia del ritorno a una originaria esperienza di fede. Conclusione: tutti si gettano in mare, chi aggrappato a qualche relitto, chi sa nuotare, nuota, forse qualcuno si perde, mentre la nave è sfasciata dalla violenza delle onde. Qui Luca, il narratore, vede nei fatti realmente accaduti, anche oltre. La nave affonda, ma “nulla andrà perduto”. Gli uomini si salvano e giungono al porto. Perché la nave è un mezzo. E quando il mezzo, anziché un aiuto diventa un ostacolo, può essere eliminata e sostituita. Oppure cambiare aspetto e includere altri modi di navigazione

                Il rifiuto di una parte, apre ad altri nuove possibilità. La nave-chiesa, la sua incerta identità, i grandi cambiamenti necessari. Quando la nave-chiesa perde la sua funzione, la sua identità, in tutto simile alle altre barche, appesantita da tante cose inutili, senza una meta a cui tendere, senza un  pensiero che la guidi, sballottata qua e là dalle mode del momento, o chiusa nelle sue ataviche sicurezze, allora è destinata al naufragio.

                Anzi, il naufragio, può diventare l’occasione propizia del ritorno a quella originaria esperienza di fede, senza la quale, le istituzioni anche le più sante, sono svuotate di senso.

Che fare? L’uomo oggi è profondamente cambiato e la Chiesa continua a parlare a uomini e donne che non esistono più. Questa nostra civiltà che si è privata della possibilità di nominare il divino, perché il divino si è indebolito, annacquato, tanto da perdere sapore e colore, questa nostra civiltà che, anziché rivolgersi alla fonte di acqua zampillante preferisce abbeverarsi a cisterne screpolate, secondo le immagini di Geremia, con poca acqua stagnante e fangosa, questa nostra civiltà ha bisogno di un cambiamento radicale, non di piccole toppe su un abito sdrucito. Siamo dentro un cambiamento antropologico. L’uomo oggi è profondamente cambiato e la Chiesa continua a parlare a uomini e donne che non esistono più. Persino l’umanesimo è sorpassato.  Cosa significa salvezza, risurrezione? Come parlare dello scandalo della Croce all’uomo d’oggi così sedotto dalla onnipotenza di sé stesso?

Il cristianesimo “esculturato”. Il gesuita Christoph Theobald ha definito il fenomeno come una  “esculturazione” del  cristianesimo delle culture europee e del nord- America nel tempo in cui il problema di Dio non interessa, nel tempo in cui la parola di Dio non è conosciuta né ricercata, ma persa nella babele dei messaggi dentro il frastuono della comunicazione globale.

Dio è andato in esilio e pochi lo rimpiangono. Non c’è posto per lui in questo mondo. Non trova casa neppure nelle nostre moderne sinagoghe, malate di clericalismo, così incapaci di ascolto profondo, abitate dai demoni del quieto vivere, del devozionismo che si compiace di una presunta purezza religiosa su cui persino i pubblicani e le prostitute sono in vantaggio, che baratta il santo con il sacro, soddisfatto dello status quo: “qualcuno in chiesa si vede”, che riesce a silenziare  la parola Di Dio, così essenziale, così scomoda e provocatoria, “scandalo e follia”, privandola della sua forza prorompente, rendendola innocua.

Dio è andato in esilio e pochi lo rimpiangono. Non c’è posto per lui in questo mondo. La Chiesa allora, incapace di far trasparire Cristo, si trasforma in un idolo, comunque fra i meno ricercati, che non può certo competere con i grandi idoli, quelli che muovono la finanza, quelli del dispotismo del potere, delle ingiustizie assurte a verità e di ogni impero del male. Tutti comunque accomunati nella fede di un’autosalvazione.

Il nostro piccolo idolo è destinato a frantumarsi. Tuttavia dalle ceneri nasce il cercatore.

Un Nobel da esame di coscienza

Lo scorso 9 ottobre è stato assegnato a Claudia Goldin*1946  il Nobel per l’Economia.

Prima donna a ricevere questo riconoscimento non in condivisione con colleghi uomini, la docente dell’Università di Harvard è stata premiata per i suoi studi sul mercato del lavoro femminile. Teorica del gender gap (divario di genere) e del glass ceiling (soffitto di cristallo), ha dato consapevolezza, prima di tutto agli Stati Uniti, poi a tutto l’Occidente e non solo, di quanto le donne siano state e siano tutt’ora sottopagate, anche occupando le stesse mansioni e con le stesse competenze dei loro colleghi uomini (ricordiamo che solo in 14 paesi europei OCSE esistono leggi contro il divario di genere, e l’Italia non è tra questi), e del soffitto invisibile che blocca le donne nell’assunzione della leadership in quasi tutte le professioni, a causa del fatto di essere, appunto, donne.

                Vite stabilite da altri. Gli studi di Claudia Goldin hanno ribadito che uno dei nodi culturali più diffusamente irrisolto riguarda la conciliazione del lavoro delle donne con la maternità. In Amoris laetitia (ai nn. 173-175) si ribadisce con nettezza l’importanza e la necessità che i bambini e le bambine siano seguiti e seguite dalle madri. Eppure, in larga parte del mondo, le madri lavorano, e le leggi che regolano il congedo di maternità adottano tempi e modi differenti da Paese a Paese. In Italia, ad esempio, il congedo è di cinque mesi, distribuiti fra prima e dopo il parto. Davvero poco, se vogliamo fare un discorso come quello in AL.

                Qui, fin da subito, si riconosce un’ambiguità che ha le sue radici sia in ambito civile, sia ecclesiale, e che non fa riferimento solo al diventare madri, ma anche alla possibilità di diventare madri. Alle donne, madri o no, non viene chiesto nulla; eppure si parla di loro come se si sapesse già cos’è bene che facciano. Una sorta di equilibrismo tattico – includere nel discorso le donne è indispensabile, ma devono essere valutate sulla base di qualche principio che le giudichi – presente sia nel mondo ecclesiale che in quello politico, tanto nella teoria quanto nella prassi.

                Questo atteggiamento si spalma su tutto il loro arco di vita ed è particolarmente focalizzato su come esse debbano “scegliere”. Si potrebbe parlare di quanto l’invecchiamento delle donne debba seguire regole prestabilite per essere accettato; di come sia ancora difficile dare per scontata la parità di genere nel lavoro non retribuito; del “tetto di cristallo” presentissimo nella realtà ecclesiale, meno in quella civile – dove però in generale solo il 30% delle donne arriva a ricoprire ruoli apicali; di tempi e luoghi del lavoro degli uomini che non hanno nulla a che vedere con l’organizzazione dei tempi e delle disponibilità delle donne.

                O madri o lavoratrici. Ma perché? I contorni di una tale esclusione delle donne da quello che è loro si inscrivono in un’operazione di vera e propria ingiustizia. Le donne che vogliono lavorare, hanno piacere a farlo, ne traggono soddisfazione e non vi rinuncerebbero mai se non in circostanze temporanee sono indicate – nella cosmogonia socio-religiosa tradizionale – come donne che hanno deviato rispetto alla priorità materna a cui sono destinate. Questa ambivalenza si registra non solo sul piano pratico, ma anche sul piano esistenziale; le donne che non corrispondono alle aspettative potrebbero essere, e spesso sono, tormentate dal senso di colpa. Vorrebbero lavorare, ma non devono; vorrebbero occuparsi dei figli e delle figlie, ma non possono.

                Nel dibattito sulla denatalità, forse il più significativo nella conciliazione lavoro-famiglia, la lettura sopra descritta precede e supera quella che invece apparirebbe più sensata: e cioè che le donne hanno lo stesso diritto degli uomini di lavorare con soddisfazione, senza che questo generi alcuna ambiguità problematica, né sensi di colpa, a patto di muovere relazioni, condivisioni e organizzazioni differenti (in ambito privato e pubblico, a casa come al lavoro) nel momento in cui diventano madri. Non è un onere che solo le donne devono portare perché “l’hanno voluto”, ma una crescita comune che conviene e fa bene a tutti, come giustamente ha scritto in questo

                Tuttavia, non pare che si sia intrapreso in modo deciso questo percorso di revisione culturale della lettura del lavoro femminile e di come esso si coniughi con la maternità, tanto che ancora la percezione sembra essere che l’uno escluda l’altra: «non si può avere tutto». Non stupisce allora che ci siano giovani donne che decidono di non volere diventare madri: si veda per esempio, il numero di quante aderiscono all’essere childfree – libere da figli e per tutta la vita.

Non c’è soluzione senza cambiamento Anche nella Chiesa. Se questo è un problema, la sua soluzione non è certo quella di ricordare alle donne che sulle loro spalle veleggia il destino della natalità (dal lato ecclesiale) o quella di riempire le leggi del welfare familiare di incentivi ad avere più di un figlio o figlia (dal lato del Legislatore), senza occuparsi anche del loro diritto a lavorare secondo le proprie scelte, competenze, ambizioni e soddisfazione economica in linea con i colleghi uomini.

                Come credenti, è necessario comprendere che non consentire questa evoluzione, ritardare il cambiamento culturale che comporta l’assumerla (mentre sono anni che se ne parla, non è un argomento nuovo) potrebbe avere, e ha, come conseguenza quella di allontanare le donne dalla Chiesa. E non devono essere rimproverate loro, ma la cecità con la quale è stata ed è affrontata una delle questioni cardine dell’integrazione delle donne nella Chiesa e nel mondo, e cioè il loro diritto a essere chi vogliono e sanno di essere. In tutti gli ambiti dell’esistenza umana. Anche nel mondo del lavoro, che proprio per questo non può più essere legato solo ai modi maschili di gestire le priorità e il consumo del tempo, ma anche – e necessariamente – a quelli delle donne.

                               Emilia Palladino                              Fonte: Il Regno delle donne

www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/10/un-nobel-da-esame-di-coscienza.html

FEMMINICIDIO

Femminicidio è la parola dell’anno: l’importanza di dare un nome alle cose

La storia dei vocaboli, che entrano nell’uso, spesso dà un’idea di come sta funzionando la realtà. Ecco perché l’affermarsi di “femminicidio” nell’uso corrente potrebbe essere un segnale positivo che conferma l’attenzione ad un tema reso attualissimo dalla mobilitazione seguita alla morte di Giulia Cecchettin e dal successo del film di Paola Cortellesi, personaggio dell’anno di Famiglia Cristiana

Le parole valgono, le parole pesano. Sono pietre anche, a volte miliari. Servono per segnare, anziché per lapidare. Per questo l’Istituto della Enciclopedia italiana ha selezionato “femminicidio” come parola dell’anno 2023 che ha visto le sue ultime settimane movimentate dalla reazione civile collettiva all’omicidio di Giulia Cecchettin e dal successo del film “C’è ancora domani”, prima prova registica di Paola Cortellesi, personaggio dell’anno di Famiglia Cristiana, proprio per il suo impegno nell’accendere un riflettore contro la violenza sulle donne.

                «Come Osservatorio della lingua italiana – spiega Valeria Della Valle, direttrice scientifica, con Giuseppe Patota, del Vocabolario Treccani – non ci occupiamo della ricorrenza e della frequenza d’uso della parola femminicidio in termini quantitativi, ma della sua rilevanza dal punto di vista socioculturale: quanto è presente nell’uso comune, in che misura ricorre nella stampa e nella saggistica? Purtroppo, nel 2023 la sua presenza si è fatta più rilevante, fino a configurarsi come una sorta di campanello d’allarme che segnala, sul piano linguistico, l’intensità della discriminazione di genere. Il termine, perfettamente congruente con i meccanismi che regolano la formazione delle parole in italiano, ha fatto la sua comparsa nella nostra lingua nel 2001 (e fu registrata nei Neologismi Treccani del 2008): da allora si è esteso a macchia d’olio quanto il crimine che ne è il referente».

                La definizione che ne dà il vocabolario Treccani online è: «Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica di una donna in quanto tale, espressione di una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale che, penetrata nel senso comune anche attraverso la lingua, ha impresso sulla concezione della donna il marchio di una presunta, e sempre infondata, inferiorità e subordinazione rispetto all’uomo».

E le parole si diceva, pesano, perché dare i nomi alle cose, serve a farle emergere, a riconoscerle, a distinguerne le sfumature. Femminicidio si è affermata – indipendentemente dalla volontà di chi chiede alla lingua di correre in avanti forzando usi ancora oscillanti per dare un segnale di progresso o da quella contraria di chi fa da “remora” e cerca di resistere in nome della tradizione alle novità che l’uso afferma – perché c’era bisogno di dare un nome a una cosa che tra noi purtroppo c’è: siamo uno dei Paesi avanzati con la più bassa percentuale di omicidi volontari in rapporto alla popolazione, complessivamente intesi, circa 300 l’anno, ma un terzo di questi colpiscono le donne e la gran parte avviene in contesti relazionali e familiari. La parola che si afferma nell’uso è il segno che si sentiva nel sentimento del tempo il bisogno per brevità ed efficacia di dare un nome immediatamente evidente alla particolarità di questo tipo di assassinio.

«La nozione giuridica di “femminicidio”», spiegava di recente a un incontro pubblico, Fabio Roia, uno dei magistrati più esperti sul tema, «nel codice penale italiano non c’è, è attinta dalla Risoluzione del Parlamento europeo 28/11/2019 e significa “uccisione di donna in quanto appartenente al genere femminile”. L’uso corrente della precede dunque la cristallizzazione nei codici. L’esperienza insegna che parole, leggi e società viaggiano a velocità diverse: non basta dare un nome alle storture perché la cultura sottesa e la società che le esprime le contrasti nel profondo, non basta scrivere le leggi nei codici perché la mentalità corrente cambi al loro stesso passo, sono processi lenti: ci sono voluti almeno dieci anni perché la parola femminicidio e con essa il suo concetto si affermassero in italiano nell’uso, ce ne sono voluti di più perché la parità scritta nell’articolo 3 della Costituzione trovasse leggi conseguenti.

Fino al 1968 l’adulterio era punito dalla legge penale ma in modo diverso per uomini e donne (nella relazione tra Fausto Coppi e Giulia Occhini, la “Dama bianca”, extraconiugale per entrambi, solo lei venne arrestata); fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975 il matrimonio assegnava al marito il ruolo di capofamiglia e metteva la donna in posizione subordinata nella coppia; fino al 1981 il codice penale ha contemplato il delitto d’onore: in soldoni uno sconto di pena per l’’uomo che uccidesse la moglie o il neonato (vero o presunto figlio di relazione clandestina) per salvare il proprio onore; fino al 1996 la violenza sessuale è stata un delitto «Contro la moralità pubblica e il buon costume», non contro la persona, quasi che la vittima che la subiva fosse un dettaglio ininfluente. Il retaggio di tutto questo in qualche modo sopravvive dentro la nostra società che intanto si complica facendosi plurale, portando a coesistere spinte e controspinte che convivono, non senza tensioni, in sensibilità diverse.

                Forse però l’imporsi spontaneo della parola “femminicidio” insieme con la sua nozione alla coscienza collettiva, fino ad essere riconosciuta come parola dell’anno 2023, è davvero un buon segno: potrebbe indicare che si sta facendo un passo avanti nella consapevolezza sociale, anche se la strada sarà lunga.

Elisa Chiari                         29 dicembre 2023

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OMOFILIA

La trascendenza. Una strategia per rispondere alle domande sull’identità di genere nelle scuole cattoliche

C’è una storia folcloristica dell’Africa occidentale che spiega perché un ragno ha il girovita minuscolo. Rievoca un’antica epoca di banchetti per la stagione delle feste. Il ragno era avido di cibo, così si legò delle corde intorno a sé e diede le estremità ai villaggi vicini. Le sue istruzioni erano di tirarlo quando il cibo fosse stato pronto. Ma non si aspettava che i banchetti si sarebbero svolti nello stesso momento. Quando gli abitanti del villaggio incontrarono resistenza sulle corde, tirarono più forte. Il ragno si trovò nel bel mezzo di un tiro alla fune. Ecco perché ha un girovita minuscolo.

So cosa si prova a essere tirati in direzioni diverse. Mentre molte diocesi cattoliche sono in conflitto per le politiche sull’identità di genere, mi trovo a cercare di percorrere lo stretto crinale tra due baratri. Tengo la corda in entrambe le mani e vivo nella tensione tra le due parti.

Capisco perché le diocesi cattoliche hanno bisogno di proteggere la fede e la morale. La Chiesa ha il dovere di proteggere l’identità cattolica dall’insinuazione secolare del mondo moderno. L’ordine e la disciplina battono l’incertezza e l’ambiguità. La certezza ispira fiducia nei misteri che celebriamo.

Ma vedo anche come le politiche sull’identità di genere manchino il bersaglio. Sono scritte per imporre strategie di contenimento senza consultare le persone più colpite – presidi scolastici, insegnanti, genitori e corpo studentesco LGBTQ stesso. Le regole diventano come pietre miliari. Il risultato è un feroce e dannoso tiro alla fune. La nostra chiesa può fare di meglio.

Vedo anche come le politiche sull’identità di genere manchino il bersaglio. Sono scritte per imporre strategie di contenimento senza consultare le persone più colpite – presidi scolastici, insegnanti, genitori e minori.

Alla recente conferenza di Outreach [attività esterne, sul territorio], ho avuto la fortuna di partecipare a un comitato dal titolo “Il ministero LGBTQ nelle scuole superiori”. È vero, si tratta di un tema molto dibattuto, ma è proprio per questo che lo abbiamo affrontato con impegno. Dobbiamo imparare a dialogare senza essere moralisti e crudeli.

                È necessario capire che la storia di ogni persona è unica e personale. E dobbiamo padroneggiare l’arte di ascoltare le storie. I migliori ministri pastorali sono anche molto capaci di curare e onorare le storie. Questa è la via di Gesù.

Di fronte ai conflitti sulle regole, Gesù ha sempre cercato di trascendere le dispute invitando le persone a pensare in modo nuovo. Per esempio, quando i farisei chiesero a Gesù se fosse lecito pagare le tasse a Cesare, egli si elevò al di sopra della mischia. “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,21).

In un altro caso (e ce ne sono molti), i farisei cercano di accusare Gesù chiedendo se fosse lecito curare di sabato. E conferenza di Outreach, gli rispose: “Chi tra voi, avendo una pecora che cade in una fossa di sabato, non la prenderà e non la tirerà fuori? Quanto è più preziosa una persona di una pecora. Perciò è permesso fare del bene anche di sabato” (Mt 12,9-14). Ancora una volta, Gesù trovò il modo di superare i suoi sfidanti.

Per quanto riguarda le controverse politiche di genere nelle diocesi cattoliche, offro tre esempi di come potremmo testimoniare questo modello di Gesù cercando un atteggiamento di trascendenza rispetto al conflitto.

                1. Proporre un abbigliamento neutro dal punto di vista del genere. In primo luogo, le politiche diocesane condividono comunemente la regola secondo la quale “gli studenti e le studentesse devono indossare solo le uniformi e conformarsi a tutti i codici di abbigliamento in accordo con il loro sesso biologico”. I principi sottostanti cercano di sostenere gli standard di professionalità e modestia.

Dobbiamo imparare a dialogare senza essere moralisti e crudeli.

                Una politica alternativa potrebbe essere la seguente: “Gli studenti e le studentesse hanno il dovere di indossare un’uniforme scolastica. Sono disponibili delle soluzioni neutre dal punto di vista del genere”. Questa sembra essere una politica ragionevole in materia di codice di abbigliamento che rispetta i principi di base, ma che consente alla presidenza scolastica di applicare un certo grado di flessibilità sul campo.

                2. Riferirsi a studenti e studentesse con i loro nomi preferiti. In secondo luogo, la regola prevalente è “rivolgersi e riferirsi a tutte le persone con pronomi conformi al loro sesso biologico”. Ciò risulta difficile. Rifiuta apertamente un principio pastorale di base, secondo il quale dobbiamo incontrare le persone dove sono, perché non possiamo incontrarle dove non sono. Come espressione di cura spirituale, che dire di questo compromesso? “Ogni individuo ha il diritto di decidere il nome con cui è conosciuto. In caso di conflitto, i nomi saranno utilizzati al posto dei pronomi. I registri scolastici esterni richiederanno il nome legale dello studente e della studentessa”. Questo approccio sembra realistico e gestibile. Rispetta la complessità delle realtà sulle idee.

3. Fornire servizi igienici e spogliatoi a uso singolo In terzo luogo, la regola prevalente recita: “Tutte le persone utilizzeranno bagni e spogliatoi corrispondenti al loro sesso biologico”. Si tratta di un’altra questione molto delicata. Ci sono interessi contrastanti che riguardano gli alloggi e la sicurezza dei minori. I migliori ministri pastorali sono anche molto capaci nel curare e onorare le storie. Questa è la via di Gesù.

La soluzione è semplice. “Tutte le persone hanno diritto a uno spazio unico, se richiesto“. Il diritto alla privacy qui vince, per tutti.

                Certo, è difficile stare nel mezzo e farsi tirare da una parte all’altra come il ragno. È molto più facile scegliere da che parte stare e lanciare pietre, ma è anche anticristiano perché viola il nostro prossimo. Scegliere la trascendenza è l’opzione migliore. Come dice Papa Francesco, l’unità “è sempre superiore al conflitto”.

                Per evitare di rimanere intrappolati nel tiro alla fune, sto discernendo una nuova strategia. Invece di aggrapparmi, lascio andare le corde. Smettete di tirare. Se alziamo i palmi delle mani in una posizione di preghiera, ci arrendiamo a Cristo e confidiamo che ci indichi la strada da seguire.

                Testo originale: A new strategy for gender identity questions in Catholic schools: transcendence

Articolo di David Palmieri pubblicato sul sito internet Outreach di risorse cattoliche LGBT (Stati Uniti) il 10 luglio 2023, liberamente tradotto da Sara Piccinini                  a cura di Innocenzo · 18 dicembre 2023

www.gionata.org/la-trascendenza-una-strategia-per-rispondere-alle-domande-sullidentita-i-genere-nelle-scuole-cattoliche

Figli di coppie Gay. Cosa ci insegnano una bimba, due papà e la Madonna come mamma

Quando un uomo, gentile, venne a chiedere il battesimo per la sua bambina, lo accolsi, come al solito, con uguale gentilezza. Rimasi solo un po’ perplesso quando chiedendo di incontrare anche la mamma mi disse che “la mamma non c’era”. Purtroppo lo so che non tutti i matrimoni finiscono bene, ma non sapevo che al posto della mamma c’era un altro papà.

La cosa, comunque, non mi impedì di dare la Grazia del Battesimo alla piccola, che evidentemente non meritava di essere scomunicata prima ancora di fare la prima comunione. Pretesi, ovviamente, che ci fossero padrini adeguati, in grado di sostenere la piccola nel cammino della fede. Ora sono passati sette anni e la piccola ha cominciato a frequentare il catechismo. Accompagnata dai due papà, viene regolarmente non solo al catechismo, ma anche alla Santa Messa, cosa che non tutti i bambini fanno sempre. È entusiasta dell’oratorio feriale. Qui si sente proprio a casa sua, mentre altri forse sono più attratti da altre location. Gli altri genitori, naturalmente, conoscono la situazione e per lo più la vivono con simpatia.

Qualche tempo fa delle compagne, rompendo quasi un tabù, così, solo per curiosità, hanno chiesto alla piccola: “Ma chi è la tua mamma?”. “La mia mamma è la Madonna”. “Già, ma anche noi abbiamo, in un certo senso, la Madonna come mamma”. “E no, per voi la Madonna è come una nonna, per me è proprio come una mamma”. Penso che sia una bella storia che ha molto da insegnare, sia a quegli omosessuali ostili alla Chiesa, sia a quei cattolici ostili agli omosessuali.

Edoardo Canetta                Il Sussidiario         29 dicembre 2023

www.ilsussidiario.net/news/figli-di-coppie-gay-cosa-ci-insegnano-una-bimba-due-papa-e-la-madonna-come-mamma/2638589

PRESEPE

Storia del presepe, tra incanto e devozione

Pochi spettacoli sono incantevoli come vedere un bambino piccolo che prepara un presepio, oppure il suo stupore nel visitare quelli, grandi e popolatissimi, allestiti nelle chiese o all’aperto. Un incantamento che si ritrova nella interpretazione fiabesca del pastore che dorme nei presepi napoletani. Se infatti quella figurina si svegliasse – vuole un racconto – la ricostruzione della scena che rievoca la natività di Gesù sparirebbe come un sogno, perché il presepe è il suo sogno.

Sul tema si sono ora moltiplicati libri, articoli, trasmissioni perché proprio quest’anno cade l’ottavo centenario del presepe – letteralmente «mangiatoia», dal latino classico præsepe (da cui il medievale præsepium) – che Francesco d’Assisi volle a Greccio, una piccola località sui monti Sabini tra Umbria e Lazio, per celebrare nel 1223 il Natale. Ma il presepe da lui suggerito non fu il primo, anche se nessuna celebrazione della nascita del salvatore è stata così importante come quella, divenuta fondativa.

Francesco dunque non inventò il presepe, come dal tardo Cinquecento si iniziò invece a sostenere. Quella celebrazione nel bosco di Greccio fu però talmente espressiva della sua adesione totale al Vangelo da legarsi profondamente all’immagine di colui che dai contemporanei venne visto come un «secondo Cristo» (alter Christus).

L’origine. Della nascita di Gesù trattano innanzi tutto, due dei quattro vangeli canonici, quelli secondo Matteo e secondo Luca, scritti nella seconda metà del I secolo, e alcuni apocrifi posteriori, ognuno accentuando aspetti diversi. Con due elementi in comune: la natività prodigiosa da Maria di Nazareth, una giovane vergine promessa in sposa a Giuseppe, e il luogo dove viene alla luce il messia (cioè l’«unto» di Dio, in greco christòs): Betlemme, località della Giudea poco distante da Gerusalemme. I racconti sono essenziali. Secondo Matteo alcuni misteriosi magi guidati da una stella giungono dall’oriente per adorare «il re dei giudei», secondo Luca a visitare il bimbo salvatore sono dei pastori che vegliavano di notte le loro greggi. Già nel II secolo i due racconti canonici vengono combinati da Taziano nel “Diatessàron”, fortunata riscrittura dei quattro vangeli, proprio come nei presepi, fioriti meravigliosamente soprattutto a Napoli.

Fissata nella prima metà del IV secolo la celebrazione liturgica del Natale, si diffondono presto le prime rappresentazioni della natività di Cristo. Spesso su sarcofagi, raffigurano soltanto il bimbo in fasce nella mangiatoia tra il bue e l’asino. Assenti nei testi canonici, le due miti creature fanno la loro comparsa nel Vangelo dello Pseudo-Matteo, forse coevo, e non mancheranno più nelle raffigurazioni successive. Il testo apocrifo ne spiega la presenza con due antiche profezie ebraiche: «Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Isaia [1,3]: “Il bue riconobbe il suo padrone, e l’asino la mangiatoia del suo signore”. Gli stessi animali, il bue e l’asino, lo avevano in mezzo a loro e lo adoravano di continuo. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Abacuc [3,2, nella traduzione greca], con le parole: “Ti farai conoscere in mezzo a due animali”», in genere considerati simboli degli ebrei e dei pagani, insomma di tutta l’umanità.

Tavole e statue. Come documenta il “Contro Celso” di Origene, scritto intorno al 250, a Betlemme si mostravano la grotta dove si riteneva che fosse nato Gesù – anch’essa assente nei testi canonici ma nominata nei vangeli apocrifi e da Giustino a metà del II secolo – e la mangiatoia. Reliquie della natività di Cristo arrivarono a Roma durante il pontificato (642-649) di Teodoro I, originario di Gerusalemme, e vennero collocate a Santa Maria Maggiore, denominata beata Maria ad præsepe. Nella basilica, divenuta una «Betlemme a Roma», la liturgia prevedeva due delle tre messe di Natale: la prima, nella notte, che fino al 1869 vi era celebrata personalmente dai papi, e la terza. Se per Santa Maria Maggiore otto statue di un’adorazione dei magi vennero scolpite da Arnolfo di Cambio nel 1290, era già da un paio di secoli che «nelle chiese la notte di Natale era rappresentata ricorrendo a tavole dipinte o a statue messe sull’altare o accanto a esse o a sacerdoti-attori e ad attori» scrive Chiara Frugoni nel postumo “Il presepe di san Francesco” (il Mulino).

Grazie all’analisi parallela di testi e raffigurazioni, il libro ricostruisce la «storia del Natale di Greccio», confermando come sulla sua novità – che è la novità dello stesso Francesco – si sia accesa da subito una vera e propria guerra di biografie. La più antica e attendibile è la Vita prima, scritta per incarico ufficiale dal francescano Tommaso da Celano poco prima della canonizzazione di Francesco, avvenuta nel 1228, due anni dopo la morte. Lo stesso Tommaso attenua la scelta radicale di povertà del santo per richiesta dei suoi superiori in un secondo testo del 1244.

Più tardi Bonaventura da Bagnoregio, generale dell’ordine, ne compone altre due: una prima breve e infine, nel 1263, la “Leggenda maggiore”, ancor più normalizzata e che – ricorda Frugoni – «nel 1266 divenne l’unica biografia ufficiale e l’unica ammessa».

Una nuova Betlemme. Tutte le altre biografie furono allora ricercate e distrutte. Un’operazione così sistematica che soltanto nel 1768 fu recuperata la prima di Tommaso di Celano, come ha riassunto il giornalista e scrittore Roberto Beretta (San Francesco e la leggenda del Presepio, Medusa). Nel corso dell’Ottocento vennero poi ritrovati gli altri testi, sopravvissuti in rarissime copie.

«L’ideale più forte di Francesco, il suo desiderio maggiore, il suo proposito supremo, era quello di seguire in tutto e per tutto il santo Vangelo, e di seguire la dottrina e le orme di nostro Signore Gesù Cristo perfettamente, con ogni attenzione, con ogni cura, con tutto il fervore della mente e del cuore» scrive Tommaso introducendo l’episodio di Greccio. E aggiunge: «L’umiltà con cui si era incarnato e l’amore con cui aveva affrontato la passione occupavano a tal punto la memoria di Francesco che quasi non voleva meditare su nient’altro».

Natale che dunque racchiude ed esprime l’intero mistero dell’incarnazione e della passione di Gesù. Francesco a un amico di nome Giovanni disse che voleva «evocare il ricordo di quel bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia quando fu messo sul fieno tra il bue e l’asino». A richiesta di Francesco si prepara così solo l’essenziale, come nella più antica iconografia, e cioè la mangiatoia, il fieno, i due animali: «La semplicità è onorata, la povertà è esaltata, l’umiltà è lodata. Greccio è come una nuova Betlemme».

Normalizzare la radicalità. Nel bosco un sacerdote celebra l’eucarestia sulla mangiatoia, Francesco proclama cantando il vangelo, poi predica «e stilla parole dolcissime sulla nascita del re povero e la piccola città di Betlemme». Evoca più volte «il bambinello» e prolunga il nome di Betlemme «come il belato di una pecora, e lo diceva riempiendosi la bocca di voce o per meglio dire di tenero affetto. E ogni volta che diceva “bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi ad assaporare tutta la dolcezza di quelle parole e cibarsene» racconta il biografo. Tale è l’emozione che uno dei presenti «ha una visione. Vedeva giacere esanime nella mangiatoia un piccolino; a lui si avvicinava il santo di Dio e lo svegliava da un sonno profondo. Né questa visione – spiega Tommaso da Celanoavveniva senza un motivo, per il fatto che il bambino Gesù era stato del tutto dimenticato nel cuore di molti, ma in loro, per grazia divina, attraverso il servo Francesco quel bambino era risuscitato».

Indagando l’iconografia francescana Frugoni mostra la normalizzazione della radicalità evangelica, testimoniata dal santo sulla povertà e sul rifiuto della violenza: così del Natale di Greccio resta «un silenzio ben dipinto». Lucetta Scaraffia nella prefazione al libro di Beretta sintetizza che quel presepe, «più che un antenato dei nostri presepi domestici, era un severo monito ai suoi frati per segnare la via rigorosa che lui stesso aveva scelto senza cedimenti o ammorbidimenti», poi attenuata.

In ogni caso «l’importante è che nella chiesa coesistano i due versanti del messaggio cristiano – quello più alto e rivoluzionario e quello più “normale” e accessibile – e che l’uno non cancelli mai l’altro». Come mostra il presepe, «piccolo mondo, realistico e simbolico al tempo stesso».

Giovanni Maria Vian in “Domani” del 24 dicembre 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202312/231227vian.pdf

RIFLESSIONI

Il Natale del Dio al contrario

Significativamente nel martirologio del 25 dicembre si legge: «Memoria della Natività del Signore nostro Gesù Cristo». Natale è una memoria, anzi la memoria per eccellenza, perché ricorda la nascita di Gesù da Maria a Betlemme, una nascita che significa molto più della nascita di un bambino che viene nel mondo. Perché in verità noi possiamo proclamare che con quel parto Dio si è fatto uomo come noi, che la Parola di Dio si è fatta carne (cf. Gv 1,14), che Dio è diventato l’Immanu-El, il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; Is 7,14), solidale in tutto con noi, assumendo la nostra precarietà dal concepimento fino alla morte. Questa è per noi la buona notizia, il Vangelo che l’angelo annuncia come «grande gioia davvero per tutti».

Questo è il cuore della fede cristiana, una fede che non può entrare in concorrenza con le religioni e i loro dèi, perché ciò che proclama è esattamente il contrario di ogni religione: un Dio-uomo, un Dio nella carne mortale, un Dio che non si è limitato ad avere cura di noi ma ci ha amato fino a voler essere uno di noi, nella condivisione radicale di ciò che noi siamo, poveri uomini e povere donne gettati su questa terra.

Ma sostando su questo evento siamo soprattutto meravigliati dalla forma di questa venuta, da quello che possiamo chiamare lo stile dell’incarnazione. Dio non è venuto tra di noi con la sua potenza, con il suo splendore, con la sua gloria, in un’epifania, in una dimostrazione che si sarebbe imposta al mondo; non è neppure venuto in quelle teofanie che nell’Antico Testamento destavano timore e tremore. Il Dio cristiano si è manifestato nell’umiltà, nella semplicità di una vicenda i cui soggetti sono uomini e donne poveri, che non emergono, che non hanno neanche grandi ruoli, uomini e donne che non hanno mai cercato il riconoscimento ma che hanno voluto solo obbedire al loro Signore. Così Dio è venuto tra di noi “svuotandosi”, dimenticando le sue prerogative divine, e possiamo dire che si è abbassato fino a prendere un posto tra di noi, un posto ultimo che nessuno di noi gli potrà mai rubare (cf. Fil 2,5-8).

La forma e lo stile di questa venuta di Dio tra di noi erano inattesi, e anche per questo molti credenti hanno finito per inciampare, perché hanno trovato occasione di scandalo nella nascita di Gesù, nella sua vita, nel suo stile. Non la logica mondana, ma neppure la logica dei profeti dell’Antico Testamento si intravedeva nella venuta messianica del Figlio di Dio. Potremmo dire che Natale manifesta un “Dio al contrario” – ho pensato bene a questa espressione! -, perché non si rivela né con potenza né con splendore ma in un “Messia al contrario”; il Messia è invocato come qualcuno che sarà vincitore sui nemici, qualcuno che instaurerà un potere, seppur di pace, mentre questo Messia nasce come un povero in una stalla, deposto in una mangiatoia, e quelle fasce che lo avvolgono come bambino preannunciano le fasce con cui sarà avvolto nel sepolcro la sera della sua morte in croce.

                Il cristianesimo è tutto qui, in questa contemplazione di un Dio fatto povertà, di un Eterno fatto mortale, di un Onnipotente fatto infante, di un tre volte Santo diventato terra come noi, mortale. Nel racconto che l’evangelista Luca fa della nascita di Gesù è significativa la menzione di chi regnava davvero, del dominatore, l’imperatore di Roma, Cesare Augusto: lui sì che comandava, lui sì che aveva potere su tutta la terra, e con quel potere ordinava un censimento nella lontana Palestina. Ed è proprio questo censimento che consente a Giuseppe e a Maria di spostarsi da Nazaret di Galilea a Betlemme, e dunque consente la nascita del Messia nella sua città, la città di David: in verità – ci dice il Vangelo – chi regge e disegna la storia non è Cesare Augusto, non sono i governanti di questo mondo, in realtà resta Dio, anche se tutto questo avviene in un Dio nascosto…

Da quella notte di Natale non si può più dire Dio senza mettergli accanto la parola uomo, perché Gesù è il Dio-uomo, perché la nostra mortalità, la nostra morte è entrata in Dio e la vita di Dio è entrata in noi. Natale è la nascita di Gesù ma è anche il “congiungimento”, le nozze tra Dio e l’umanità. Questo è il Vangelo, la buona notizia, e non affatica, assolutamente, dirla e proclamarla ogni anno a Natale. Per questo non dobbiamo aggiungere nulla al Vangelo, perché il Vangelo è buona notizia e basta.

                Certo, questa buona notizia per molti umanamente può essere difficile da accogliere, perché per loro il Natale è faticoso, magari è un Natale di sofferenza, per molte ragioni: dalle guerra in Ucraina e Palestina, dalla situazione economica che per molti è povertà e per alcuni è miseria; a situazioni di malattia, di sofferenza e di separazione che affliggono nel loro cammino tante persone per le quali la vita diventa grama; e c’è chi soffre a causa della menzogna che incontra, a causa dell’omertà, a causa delle chiacchiere e della fuga dalla responsabilità. Ma in chi ha la fede, la buona notizia sconfigge queste contraddizioni e dà uno sguardo puro e saldo, che sa leggere in profondità e sa vedere in questa nascita una grande speranza e trovarvi una grande gioia.

p. Enzo Bianchi                    La Stampa                            23 dicembre  2023

.lastampa.it/cultura/2023/12/23/news/il_natale_del_dio_al_contrario-13951412/

www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/12/enzo-bianchi-il-natale-del-dio-al.html

La nascita di Gesù è la sfida della vita

Natale celebra la festa della nascita di Gesù, del Dio che si fa uomo, che si inabissa nella vita infranta che è la nostra vita, la vita di tutti gli esseri umani. Il messaggio cristiano non è, infatti, quello di abbandonare questa vita per raggiungere un’altra vita, una vita che non conoscerebbe né nascita né morte, una vita senza tempo, perfettamente compiuta, eterna, sottratta all’inferno di questo mondo. Piuttosto è quello di continuare a nascere in questa vita, di nascere nuovamente, di non smettere mai di nascere.

Si tratta di accogliere sino in fondo la sfida della vita, della sua insicurezza, della sua mancanza, del suo essere vita infranta. È quello che non comprende Freud quando riduce la vita cristiana ad una vita che vorrebbe fuggire dall’asprezza del mondo, ad una vita che si ripara dalle turbolenze della vita grazie allo scudo offerto Dio.

                Tutto il contrario: sin dalla sua nascita l’essere umano incontra la sua vulnerabilità e la sua insufficienza. La vita cristiana non è vita assicurata, protetta, garantita, ma vita che fa esperienza dell’abbandono, della perdita, dello smarrimento. L’uomo di fede non si risparmia, non è soggiogato da una pulsione securitaria, non tende a fuggire dalle asperità della vita, ma si trova sempre gettato, come Paolo ha sottolineato con forza, nella “ristrettezza”, nella “persecuzione”, nella “fame”, nella “nudità”, nel “pericolo” (Rm, 8, 35). Nell’evento della nascita di Gesù il divino si abbassa e si svuota di ogni potere sovrannaturale per farsi uomo. È l’umiltà della stalla, della paglia, della mangiatoia, del fiato degli animali che riscalda il bambino venuto dal cielo. È lo sradicamento di una vita che non ha casa, alloggio, residenza, titoli, potere. Come se venisse qui ripresa radicalmente la divisione che attraversa la creatura umana descritta dalla Torah.

Essere immagine e somiglianza di Dio, incarnare lo splendore della creazione e, al tempo stesso, essere polvere destinata a ritornare nella polvere. La vita si afferma nella sua nuda forza e, nello stesso tempo, nella sua altrettanto nuda inermità.

È questo che ogni volta ci meraviglia nello spettacolo della nascita. Accade per un gattino, come per un fiore o per un bambino. Luce e polvere appaiono stretti insieme in un solo spasmo. Nascere ancora, continuare a nascere, non nonostante ma proprio perché la nostra vita è fatta di polvere ed è destinata a tornare nella polvere. Nell’evento della nascita la verità della vita si manifesta come volontà di vivere. Per questa ragione, Sartre riteneva, paradossalmente, che si deve scegliere di nascere per nascere davvero. A significare che l’evento della vita che nasce non può compiersi come un semplice evento della natura, ma esige un atto singolare di adesione alla vita. Se il Dio cristiano nasce come un qualunque essere umano, se la sua dimora non è più quella gloriosa del cielo, ma quella umilissima di una grotta sperduta di Betlemme, è per segnalare che l’evento della vita è in sé stesso, ovunque accada, un evento gioioso. Se però riusciamo a non confondere la gioia con l’ideale della felicità, sul quale, in questo caso giustamente, Freud ha speso parole definitive riconoscendo che esso appare del tutto estraneo al programma della creazione. Se infatti la rincorsa della felicità come vita armoniosa, stato d’essere che esclude la mancanza e la pena, la sofferenza e l’inquietudine, appare una vera e propria illusione religiosa poiché la vita umana è sempre vita infranta, la gioia è una possibilità che non ci è affatto preclusa. Per questa ragione Deleuze per definire la gioia una volta propose un esempio apparentemente controintuitivo. Immaginiamo un uomo moribondo, senza più speranza di guarigione, esausto nel suo letto d’ospedale. E immaginiamo che in un certo istante un raggio di luce lo raggiunga. Ecco, commenta il filosofo, che cosa è la gioia. La gioia non è nulla più di questo incontro con un raggio di luce inatteso.

Quest’uomo non è, in quel momento, compresso dal dolore, dedito alla preghiera, impegnato a fare il bilancio della propria vita. Piuttosto può vivere pienamente la semplice gioia di un raggio di luce. In quel momento egli fa tutto quello che può. Nasce ancora anche se solo per un solo istante.

Ecco una lezione che potremmo trarre dal mito cristiano della nascita di Gesù. La vita umana diviene vita colma di gioia non quando raggiunge un ideale (impossibile) di felicità, ma quando fa tutto quello che può. Non tanto con la forza della volontà, con l’irrobustimento della propria determinazione, con la disciplina dei propri comportamenti, ma nell’accogliere il mistero stesso della vita racchiuso nella nascita, nel vivere sino in fondo il nostro essere consegnati alla vita. L’uomo moribondo non può riacquistare la forza dei suoi vent’anni, non può liberarsi dalla malattia, ma può consegnarsi a quel raggio di luce che lo sorprende ancora. Ogni volta che qualcuno nasce alla vita è come se fossimo toccati da quella luce. Nell’evento di ogni nascita la vita mostra solo sé stessa, non rinvia ad altro che alla sua forza e alla sua inermità. Ogni volta che qualcosa nasce la verità della vita si mostra al di là di ogni conoscenza erudita della verità. Non c’è infatti verità alcuna senza una vita che nasce.

                Massimo Recalcati         La Repubblica   24 dicembre 2023

www.repubblica.it/commenti/2023/12/23/news/la_nascita_di_gesu_e_la_sfida_della_vita-421739218

Se solo l’ascolto ci consente la conversione della mente

Tutte le cose più importanti della vita avvengono al passivo. Dicendo “passivo” qui non intendo inerzia o inattività bensì “passione”, termine che ha un duplice senso: irresistibile trasporto (“non resisto, è la mia passione”) e insopportabile sofferenza (“la passione di Cristo”, o anche “la passione di Gaza”). Tale concetto veicola le due esperienze decisive dell’esistenza, la bellezza e la sofferenza.

Le quali vengono esperite entrambe al passivo. Per questo sostengo che tutte le cose più importanti della vita avvengono al passivo. Con ciò non intendo negare l’apporto della libertà cadendo nel fatalismo, ma piuttosto privilegiare l’ascolto. L’ascolto in tutte le sue dimensioni è quanto ci consente di essere consapevoli e vigili al cospetto di forze più grandi di noi che ci fanno patire e insieme gioire. Sto dicendo, in altri termini, che la vita nella sua pienezza si origina dall’unione simbiotica di due movimenti, il primo dei quali ci desta dal torpore della superficialità in cui si vive solo da spettatori per farci agire attivamente in prima persona, mentre il secondo ci fa comprendere che questo nostro agire non si deve conformare su di noi e a vantaggio di noi ma aprirsi a una dimensione più grande.

 Il primo movimento ci rende attivi, il secondo passivi. Di quella passività però che è apertura e che orienta verso qualcosa più importante di noi. Il primo movimento genera autostima, il secondo genera stima. Definisco la stima “devozione dell’intelligenza“. Un essere umano si compie quando, essendo giunto a stimarsi, trova qualcosa più importante di sé cui conferire la propria stima. Sotto questo profilo la vera stima nasce quando si sciolgono le catene mentali e si comincia a guardare in modo libero dalla prigione del sé, da quella ristretta angolatura della mente e del cuore che porta a considerare la realtà come un sistema geocentrico in cui al centro di ogni cosa ci sono io e tutto deve ruotare intorno a me. Vivendo secondo questa ristretta prospettiva si può avere un atteggiamento predatorio guardando agli altri come prede, o al contrario vivere nella paura sentendosi preda degli altri, ma in entrambi i casi si passa l’esistenza all’interno di un sistema egocentrico simile all’antiquato sistema astronomico geocentrico che deriva dall’ignoranza e che genera una relazione distorta con la realtà.

Crescendo invece si inizia a vedere il mondo secondo l’eliocentrismo copernicano e così si comprende la reale proporzione delle cose capendo che la realtà è più importante di noi. Questo primato della realtà genera l’atteggiamento fondamentale della passività in quanto ascolto, o attenzione, e costituisce la decisiva conversione della mente. Gesù ne parlava dicendo “metànoia“, Platoneperiagoghé“, Plotinoepistrophé”, la sapienza ebraica “teshuvà“, e il Buddha “bodhi“, termine che significa risveglio e che genera appunto la parola Buddha ossia risvegliato.

 È la conversione alla verità della realtà. È il passaggio dall’egocentrismo al teocentrismo. Elogiando il teocentrismo non intendo affermare che la maturità di una persona consiste necessariamente nel credere in Dio. Intendo piuttosto ciò che ha scritto Thich Nhat Hanh, monaco buddhista vietnamita, tra i più grandi maestri spirituali del nostro tempo: «Per esperire pienamente la vita come esseri umani tutti noi abbiamo bisogno di entrare in comunione con il nostro desiderio e realizzare qualcosa di più ampio del nostro sé individuale». Questo qualcosa di più ampio è sempre stato avvertito dalle grandi tradizioni spirituali e dai grandi filosofi e nominato per lo più mediante la categoria di divino, ma è chiaro che se ne può parlare anche in altro modo. L’essenziale è entrare in contatto con ciò che è più importante di noi.

Ma, ancora più essenziale, è percepire che ciò che è più importante di noi esiste “dentro” di noi. I vertici spirituali dell’umanità hanno da sempre fatto esperienza di questa dimensione scoprendo dentro di sé una dimensione più importante di sé, lo attestano tutte le grandi tradizioni per le quali aderire alla legge che si scopre nel profondo di sé equivale ad aderire alla legge che forma e mantiene il mondo e alla quale in Occidente ci si riferisce normalmente dicendo Dio (e altrove in altri modi tra cui Logos, Nous, Dharma, Brahman, Tao). Nella nostra epoca Etty Hillesum ha descritto così questa medesima esperienza: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio». Quando si entra in contatto con questa dimensione sentita ed esperita dentro di sé si diventa passivi, nel senso che si sviluppa la passione dell’ascolto. Da tale pathos del tutto peculiare non discende inerzia, ma al contrario quell’attività suprema che è simbiosi di passività e di attività e che, con una parola sola, si chiama “arte“. Nell’arte, infatti, il passo essenziale avviene al passivo e consiste nella ricezione del talento e dell’ispirazione, mentre solo dopo entra in gioco il lavoro personale. Il che vale a maggior ragione quando l’arte viene fruita, quando pressoché tutto si gioca nell’ascolto.

Noi non ascoltiamo solo con l’udito, lo facciamo anche con lo sguardo, il palato, il tatto, il naso: tutti i sensi sono in gioco in quell’atteggiamento che denomino ascolto o attenzione. L’ascolto per eccellenza però avviene mediante l’udito. E tra i diversi tipi di ascolto uditivo, quello per eccellenza è riservato alla grande musica. Perché la musica detiene tale primato? Perché riproduce la musica che è il mondo. Nella sua essenza ontologica, infatti, il mondo consiste in una vibrazione energetica, ovvero nella medesima struttura della musica. L’aveva già intuito Pitagora, ma noi oggi sappiamo dalla fisica che a essere originaria non è la materia ma è l’energia. Max Planck, il padre della teoria dei quanti, dichiarò un giorno: «In quanto fisico che ha dedicato tutta la sua vita alla scienza più sobria, allo studio della materia, sono sicuramente libero dal sospetto di essere un sognatore. E così a seguito delle mie ricerche sull’atomo vi dico: la materia in sé non esiste. Ogni materia nasce e consiste solo mediante una forza, quella che porta le particelle atomiche a vibrare e che le tiene insieme come il più minuscolo sistema solare».

Prima della materia quindi c’è la forza, precisamente la forza che fa vibrare l’energia allo stato caotico portandola a configurarsi come materia. Planck parla di vibrazione, e cos’è la musica se non vibrazione? Per questo la musica appare come la più efficace modalità di esperire e rappresentare il principio costitutivo del mondo. In questa prospettiva fare musica non riguarda solo i musicisti: tutti noi siamo chiamati a essere musica. Siamo suoni, dobbiamo diventare musica. Il senso del nostro essere qui è accordare i nostri suoni elementari ponendoli in successione tale da produrre una melodia dentro di noi, e poi cercare di armonizzare la melodia ottenuta con quella degli altri viventi. Questa armonizzazione tra la nostra musica interiore e quella degli altri si chiama “religio“. La religio (uso il termine latino perché quello italiano corrispondente è ormai consumato) è una successione ordinata dei suoni prodotti da quello strumento del tutto peculiare che è la libertà. Se c’è religio, la libertà si accorda con la musica originaria del mondo e con quella degli altri viventi diventando una nota consapevole e lieta della Grande Armonia. E il primo passo decisivo di questo processo virtuoso consiste nell’imparare ad ascoltare.

Vito Mancuso in “La Stampa” del 27 dicembre 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202312/231227mancuso.pdf

SINODO

Uguaglianza per il laicato e per le donne, unità nella diversità:

 Noi siamo Chiesa detta la sua agenda per il Sinodo

Con la pubblicazione delle “linee guida” da parte del Consiglio Ordinario del Sinodo dei Vescovi, lo scorso 5 dicembre è stata avviata la fase che conduce alla celebrazione della Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2024).

Il Movimento Internazionale “We Are Church International” per la riforma della Chiesa Cattolica, non ha tardato a prendere la parola per ricordare quelli che definisce i «tre temi importanti» per l’assemblea conclusiva del Sinodo sulla sinodalità. Di seguito il messaggio che ha inviato ai padri sinodali, diffuso l 16 dicembre dalla sezione italiana Noi siamo Chiesa.

«Carissimi, siamo fiduciosi che la sinodalità rappresenti il futuro della Chiesa.

Chiediamo che al Sinodo dell’ottobre 2024 sosteniate con forza tre temi principali:

 1. Uguaglianza per il laicato – Siamo lieti di aver visto non vescovi con diritto di voto al Sinodo dell’ottobre 2023. Vorremmo che tutte le future assemblee sinodali includessero un numero uguale di persone laiche rispetto ai membri del clero come partecipanti al voto. E i/le partecipanti laici dovrebbero essere selezionati da persone laiche.

 2. Unità nella diversità – Il Sinodo di ottobre 2023 ha mostrato che molti dei temi caldi che vorremmo vedere non sono sostenuti da molti nel Sud globale. Pertanto, il modo migliore per procedere è quello di abbracciare l’unità nella diversità.  Ciò è chiaramente indicato nel capitolo 19 (g) e (j) della Sintesi del Sinodo. Questo consentirebbe ad alcuni Paesi di portare avanti le importanti questioni dell’uguaglianza per il laicato, le donne, le persone LGBTQ+ e i preti sposati.

3. Uguaglianza per le donne – Tutti i ministeri dovrebbero essere aperti a tutti i battezzati che hanno quella vocazione, indipendentemente dal sesso, dall’orientamento di genere o dallo stato civile. La Sintesi del Sinodo ha rilevato posizioni diverse sull’accesso delle donne al ministero diaconale. Aprire alle donne l’accesso al diaconato sarebbe un passo importante nell’apertura di tutti i ministeri alle donne.

Chiediamo il vostro sostegno per i tre temi delineati».

Adista Redazione 24 dicembre 2023

                www.adista.it/articolo/71149

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