News UCIPEM n. 992 –10dicembre 202323

News UCIPEM n. 992 –10dicembre 202323

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le news sono strutturate: notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}. Link diretti e link per pdf -download a siti internet, per documentazione.

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue di erse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

02.AMMINISTRAT.DI SOSTEGNO   l volto umano dell’istituto

03 ASS. IT. CONSUL. CONIUGALI    Lettera al Ministro della giustizia

05 BENE COMUNE                              La passione per il bene comune

06 BIBBIA                                             Rut e Noemi, libere da chiusure e muri identitari

08 C. INTERN. STUDI FAMIGLIA      Newsletter CISF – n.45, 6 dicembre 2023

10 CHIESE IN EUROPA                       Il vescovo Crociata: “Messa in discussione la  nostra capacità di annuncio”

10 CONSULTORI UCIPEM                  Milano 1 –  Istituto la casa                Rivista dicembre 2023- -n. 3 – anno XXV

11  COPPPIA                                        Quanto può durare una crisi di coppia?

12 DALLA NAVATA                             2° Domenica dell’ Avvento – Anno B

12                                                          Euangelion: la «buona notizia»

13 GENITORI                                        Oralità della vita

16 MEDIATORE FAMILIARE              La svolta. Via libera ai mediatori familiari nel nuovo processo di famiglia

18                                                          Essere genitori insieme

20 PRESBITERI SPOSATI                    Riammissione selettiva al ministero di preti dimessi dallo stato clericale

21 PRETI                                                La solitudine dei preti e la solitudine degli uomini

23                                                          Neppure i laici hanno scelto di diventare monaci

23                                                          Uno sguardo da laico sulla questione del burnout dei preti

2 4                                                          Il sogno di una comunità veramente fraterna

25 SEGNI DEI TEMPI:                         Verso un nuovo modello etico

27–                                                        Enrico Chiavacci, In memoriam

33 SESSUOLOGIA                                Sesso e genere oltre l’alternativa

34 SINODI DIOCESANI                       Piccoli passi anche in Italia

36                                                          Convertite il vostro parroco alla sinodalità

AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO

Amministrazione di sostegno: il volto umano dell’istituto

Persona al centro, i riscontri in merito da parte della Corte Costituzionale

La persona al centro nella Costituzione

La Costituzione, fonte primaria del nostro ordinamento, è in grado di incidere sulla legislazione poiché non si può, nel legiferare ed interpretare le norme – quindi nella concreta applicazione – non tener conto del respiro costituzionale e dunque dell’ incidenza dei suoi principi sull’intero sistema normativo. La Costituzione che pone al centro la persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità.

                Queste le premesse per poter leggere, in maniera costituzionalmente conforme, l’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto da L. 6/2004.

www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2004;6

Presupposti e finalità dell’amministrazione di sostegno

Le disposizioni codicistiche che vengono in rilievo sono gli artt. 404 e ss CC inseriti nel Libro I “Delle persone e della famiglia”, Titolo XII ” Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia” Capo I.

                In particolare, l’art 404 rubricato Amministrazione di sostegno, ne enuclea i presupposti, testualmente dispone “Importante sottolineare che, come si evince dalla disposizione testè richiamata, l’impossibilità di attendere alla cura dei propri interessi può derivare da una qualsiasi infermità, anche non mentale, o da una menomazione fisica. La finalità dell’istituto de quo è precipuamente quella di tutelare con la minore limitazione possibile della capacità di agire, persone prive, in tutto o in parte, di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana.”

                Infatti il soggetto beneficiario dell’amministrazione di sostegno conserva la capacità di agire, esclusa per i soli atti individuati, nel caso concreto, che richiedono l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno.

Il taglio col passato: quando ricorrere all’amministrazione di sostegno

Pronunciatasi in merito, la Consulta già con la sentenza 440/2005

https://giurcost.org/decisioni/2005/0440s-05.html

affida al giudice l’apprezzamento relativo all’individuazione dell’istituto che garantisca all’incapace la tutela più adeguata alla fattispecie concreta, limitando nella minore misura possibile la sua capacità, e, qualora la scelta cada sull’amministrazione di sostegno, il giudice – nel provvedimento di nomina e nelle successive modifiche, modella l’ambito dei poteri dell’amministratore in relazione allo stato personale e alle condizioni di vita del beneficiario, in sostanza alle caratteristiche peculiari del caso concreto. In ciò, l’istituto de quo si distacca dai previgenti istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, che la dottrina più sensibile alla tematica in esame, aveva fortemente criticato, sottolineandone in merito l’inadeguatezza e la rigidità di tali meccanismi che non consentono di “diversificare” le forme di intervento a seconda delle esigenze che concretamente si manifestano, ma appaiono preminentemente volti all’esigenza di salvaguardare il patrimonio e gli interessi della famiglia di origine dell’incapace. Il taglio netto che fa la differenza è proprio questo: nell’amministrazione di sostegno, la centralità della cura e della tutela della individualità della persona. L’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato non già in base al diverso e meno inteso grado di infermità o di impossibilità di attendere alla cura dei propri interessi del soggetto carente di autonomia, quanto piuttosto nella maggiore idoneità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto. È il giudice a dover valutare la conformità di tale misura alle predette esigenze, tenendo debitamente conto del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario e considerato anche la gravità e la durata della malattia o dell’impedimento, nonché di tutte le altre circostanze rilevanti che caratterizzano il caso concreto.

La possibilità di gradazione della misura in relazione alla fattispecie concreta

Se a legittimare l’applicazione dell’istituto in esame è l’esigenza della cura della persona, è pur vero che la nomina di un amministratore di sostegno comporta comunque una potenziale limitazione di capacità del soggetto beneficiario, suscettibile di gradazione proprio in ragione dell’esigenza di tutela della persona. È il giudice ad adeguare la misura alla situazione concreta della persona e anche a variarla nel tempo, in caso di mutamento delle circostanze concrete, in modo da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile con il minor sacrificio della sua capacità di autodeterminazione. Su questa scia, la Corte Costituzionale n. 114/2019

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2019&numero=114

ha sancito che le disposizioni in materia di amministrazione di sostegno sono state interpretate in modo da valorizzare tutte le capacità del soggetto beneficiario non compromesse dalla disabilità fisica, psichica o sensoriale sicché ogni limitazione della capacità, pur possibile, deve essere contenuta nel provvedimento di nomina del giudice tutelare e nelle successive modifiche.

La qlc relativa all’art. 3 co. 4 e 5 della legge 219/2017

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/16/18G00006/sg

Quanto sopra esposto, è ineludibile premessa per un’ulteriore pronuncia della Consulta n 144/2019,

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2019&numero=144

 con la quale ha respinto la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art 3 co 4 e 5 L. 219/2017 nella parte in cui prevede che l’amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (di seguito DAT) possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato. In via preliminare, con la legge de qua ogni persona, in previsione di una propria futura incapacità di determinarsi, può esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte terapeutiche e a singoli trattamenti. L’art 3 reca la disciplina applicabile nel caso in cui la persona non sia capace di agire perchè minore, interdetta, inabilitata ovvero beneficiaria di amministrazione di sostegno. Tale normativa però non disciplina “le modalità di conferimento, all’amministratore di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in ambito sanitario” che restano regolate dagli artt. 404 cc. Il che significa che è il giudice tutelare che, con il decreto di nomina, individua l’oggetto dell’incarico e circoscrive gli atti che l’amministratore potrà compiere, anche in ambito sanitario, sulla base delle necessità concrete del beneficiario, stabilendone l’estensione nel solo interesse di quest’ultimo; ben potendo modificare i poteri conferiti all’amministratore anche in un momento successivo alla nomina, tenendo in debito conto, ove mutassero le condizioni di salute, delle sopravvenute esigenze del beneficiario. Il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario non comporta -anche e necessariamente- il potere di rifiutare i trattamenti necessari al mantenimento in vita, ma spetta al giudice attribuire all’amministratore di sostegno tale potere, laddove ne ricorra concretamente l’esigenza, posto che in base alla patologia riscontrata, potrebbe manifestarsi l’esigenza di prestare o negare il consenso a trattamenti sanitari di sostegno di vitale. Viene negata l’incostituzionalità delle norme richiamate proprio sull’assunto che si limitano a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere.

                In definitiva, un istituto dal “volto umano”, dove al centro è la persona e l’esigenza che venga adeguatamente tutelata, tenendo conto dei suoi bisogni.

Antonia De Santis            Studio Cataldi                    3 dicembre 2023

www.studiocataldi.it/articoli/46269-amministrazione-di-sostegno-il-volto-umano-dell-istituto.asp

ASSOCIAZIONE ITALIANA CONSULENTI CONIUGALI e FAMILIARI – AICCeF

Lettera al Ministro della Giustizia

L’AICCeF non ci sta a che il nuovo Regolamento dell’Albo nazionale dei Consulenti tecnici di ufficio presso i Tribunali contenga soltanto professioni sanitarie e educative, ignorando il mondo della relazione d’aiuto che può fornire alla magistratura e alla comunità servizi qualificati e coerenti con le esigenze giudiziarie. Per cui abbiamo scritto al Ministro.                  6 dicembre 202

                               Gentile Ministro,

Le scrivo in qualità di Presidente dell’Associazione professionale A.I.C.C.e F. (Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari) per porre  alla Sua cortese attenzione la figura professionale del Consulente della Coppia e della Famiglia (in breve Consulente Familiare), che svolge una funzione di rilievo strategico nell’affrontare le difficoltà relazionali e le conflittualità familiari e genitoriali.

L ‘A.I.C.C.e F., Associazione professionale fondata nel 1977 e disciplinata dalla legge 14 gennaio 2013, n.4 (Disciplina in materia di professioni non organizzate) è annoverata tra le Associazioni che rilasciano ai propri iscritti l’Attestazione di qualità e di qualificazione professionale dei servizi resi, sicché i contenuti del Decreto 4 agosto 2023, n. 10, in merito al  Regolamento concernente “L’individuazione di ulteriori categorie dell’Albo dei Consulenti tecnici di Ufficio e dei settori di specializzazione di ciascuna categoria, l’individuazione dei requisiti per l’iscrizione all’albo, nonché la formazione, la tenuta e l’aggiornamento dell’elenco nazionale”, sono stati motivo di riflessione ma anche di stupore dell’intera area professionale, per le ragioni che seguono.

Infatti, nel quadro delle categorie in cui è ripartito l’Albo nazionale dei Consulenti tecnici d’ufficio, per l’ambito delle relazioni familiari, di coppia e genitoriali sono stati previsti spazi in cui rientrano gli Educatori professionali oppure le professioni sanitarie di psicologia, senza tenere conto delle altre professionalità che si occupano quotidianamente di sostenere le coppie e le famiglie nell’affrontare le problematiche relazionali e i disagi sociali che fanno parte del ciclo naturale della vita.

Il Consulente della Coppia e della Famiglia, disciplinato dalla richiamata legge 14 gennaio 2013, n.4, si occupa per l’appunto di relazioni, è un professionista socio educativo che armonizza le relazioni umane, aiuta la persona a prendere coscienza del proprio modo di essere in relazione con il sé, con il/la partner, con gli altri componenti della famiglia e della compagine sociale. E trova nella persona umana il suo più intimo valore.

La funzione di armonizzare le relazioni, stemperare i conflitti e insegnare una comunicazione non violenta e rispettosa dell’altro, a prescindere dai coinvolgimenti economico patrimoniali e dalla gestione dei figli, è risultato molto utile ai magistrati che intervengono nelle separazioni e divorzi, in quanto consente di ottenere tra le parti una relazione fluida e produttiva, una maggiore consapevolezza del ruolo di genitore e di partner, coordinando in maniera efficace la coppia e quindi la famiglia anche nel delicato percorso separativo ma ancor di più nella fase in cui, definito l’aspetto giudiziario, bisogna costruire nuovi assetti relazionali.

L’AICCeF ritiene pertanto di vitale importanza continuare ad assicurare la presenza di questi professionisti all’interno degli Albi dei CTU dei Tribunali, in linea con l’idea di diversificazione delle competenze professionali ma soprattutto di cooperazione tra le stesse a disposizione della magistratura giudicante, per avvalorare il concetto che le relazioni all’interno della coppia e della famiglia non sono patologiche e per contribuire a tutelare il benessere sociale.

Come Associazione professionale, che tutela la figura del Consulente della Coppia e della Famiglia  , chiedo perciò che venga inserita, all’interno del Decreto Ministeriale. n.109 del 3.8.2023, pubblicato in data 4 Agosto 2023, la figura del Consulente della Coppia e della Famiglia, quale esperto dell’area famiglia e minori, perché non è oggettivamente comprensibile la motivazione di una tale mancata inclusione negli elenchi dei Consulenti Tecnici d’Ufficio, che rischia di privare risorse preziose al servizio della comunità.

Con osservanza

La Presidente    Stefania Sinigaglia

https://aiccef.it

BENE COMUNE

La passione per il bene comune

Dov’è andata la nozione di bene comune? Che fine ha fatto? Bene comune è un concetto essenziale per la convivenza, per la qualità della vita nella polis. Questa espressione è composta da due parole: “bene” e “comune”. “Bene” significa ciò che noi vorremmo e ciò che noi auguriamo alle persone alle quali siamo legati. Il bonum, il bene è ciò che gli uomini e le donne desiderano per vivere bene e in pienezza. “Comune” deriva dal latino communis, che indica un compito fatto insieme e anche un dono condiviso. Bene comune, dunque, non è semplicemente un patrimonio comune, qualcosa di materiale o di immateriale posseduto insieme, ma è l’insieme delle condizioni di vita che favoriscono il benessere, l’umanizzazione di tutti: bene comune sono anche la democrazia, la cultura, ecc.

“Bonum commune” è un concetto formulato nel momento dell’emergenza dell’occidente, nel XIII secolo. Sulla scia di Aristotele è stato Tommaso d’Aquino a osservare che, come la società, la rete delle relazioni, è antecedente all’individuo-persona, così l’unità del corpo è antecedente alle membra che lo compongono. Sicché il bene di ciascuno abbisogna del bene comune che lo preceda e nel quale possa definirsi. Nei secoli successivi, però, questo concetto di bene comune è stato tralasciato in favore della concezione individualista e utilitarista della società, e si è progressivamente imposta l’idea secondo la quale l’organizzazione politica della società si giustifica per il fatto che essa garantisce ai suoi membri i diritti individuali, di cui sarebbero dotati anteriormente alla loro esistenza sociale.

In verità, proprio nell’attuale crisi a livello mondiale sta tornando la ricerca sul bene comune, anche perché le scienze umane sempre di più attestano che vivere è inter homines esse. L’essere umani insieme è l’elemento vitale, indispensabile alla nostra esistenza in quanto persone. Stare tra gli uomini, vivere le relazioni non è solo ciò che ci ha umanizzato, ma è anche la prima forma del bene che gli uomini conoscono, un bene comune. Senza ecosistema relazionale non c’è cammino di umanizzazione. Ecco allora il bene comune al di sopra degli interessi particolari e degli egoismi competitivi.

Certamente ci sono beni comuni che appartengono alla collettività, utili all’intera società, beni tangibili come l’acqua, l’aria, la terra, i monumenti, il paesaggio: sono beni comuni essenziali per raggiungere “il bene comune” che ingloba libertà, democrazia, salute, cultura, ecc. Nella Costituzione italiana, è vero, non si parla di “bene comune”, ma espressione come “utilità sociale” (art. 41) e “utilità generale” (art. 43) indicano che c’è un trascendere l’interesse privato in nome della communitas, della società, della polis. La communitas, la polis ha diritti proprietari i quali creano beni comuni, beni sottratti all’appannaggio dei singoli: questi beni instaurano un altro modo di possedere, che aiuta il bonum commune. Si tratta di essere convinti che non è possibile la polis, la communitas senza il concorso di beni comuni materiali e immateriali; che non è vero che la vita buona di una società si realizza grazie all’autoregolazione dei mercati; e che l’espressione “bene comune” deve tornare a essere un “oriente” per tutti i membri della società.

 Enzo Bianchi                      La Repubblica – 04 dicembre 2023

s://www.repubblica.it/rubriche/2023/12/04/news/altrimenti_del_4_dicembre_2023-421563602

BIBBIA

Rut e Noemi, libere da chiusure e muri identitari

Delle tre donne cui sono intitolati tre libri dell’Antico Testamento, secondo il canone cattolico, Rut è l’unica non ebrea. Sia Ester sia Giuditta sono infatti donne che appartengono al popolo di Israele mentre Rut è una moabita, una straniera insomma. Il piccolo libro che da lei prende il nome è, in verità, un breve racconto dal contenuto quasi fiabesco ma dal messaggio fortemente politico e teologico. La sua dirompenza coinvolge la figura delle donne e l’assunzione da parte loro di un ruolo “apicale” – come si direbbe oggi – circa il destino del popolo di Giuda.

Il primo grande segreto del successo di Rut sta nella sua intelligenza: non avrebbe mai potuto procurarsi un futuro da sola. Pensò così di unire il suo cammino esistenziale a quello di un’altra donna, anche lei sicura di non potersi salvare da sola, vecchia e priva di marito e di figli com’era, e trovandosi, peraltro, in terra straniera. A quel tempo Israele non aveva ancora un re e a occuparsi del popolo c’erano i giudici; continue e insistenti erano le guerre con i nemici cananei e filistei che cercavano di resistere all’espansione degli israeliti. Alle guerre si aggiungevano le carestie dovute alle stagioni di siccità che non mancavano nell’antica regione che i Romani chiamarono, in seguito, Palestina.

                In una di quelle stagioni sfortunate Noemi, originaria di Betlemme, emigrò in Moab – il territorio dell’attuale Giordania – insieme a suo marito e ai suoi due figli che avevano anche preso mogli dai moabiti. Dopo dieci anni, disgraziatamente, tutti gli uomini della famiglia morirono e Noemi si ritrovò vedova e sola e con due nuore vedove a loro volta. Affamate, senza mariti e senza figli, non si prospettava nessun futuro per loro.

Allora «Noemi disse alle due nuore: “Andate, tornate ciascuna a casa di vostra madre; il Signore usi bontà con voi, come voi avete fatto con quelli che sono morti e con me! Il Signore conceda a ciascuna di voi di trovare tranquillità in casa di un marito”» (Rt 1,8-9). Noemi rinuncia al diritto che la famiglia del marito manteneva sulle mogli anche quando questi ultimi erano morti, non è una suocera egoista e non pretende di essere servita dalle sue nuore, non vuole che queste, insomma, sacrifichino la loro felicità restando sottomesse alla suocera.

Noemi scardina l’ordine patriarcale della società del tempo. Ciò che conta per lei è che le due nuore possano riprendersi la loro vita e trovare un altro marito nel loro Paese. Ma una delle due non volle darle ascolto e dovette stupire la vecchia suocera quando rispose: «Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza di te, perché dove andrai tu, andrò anch’io, e dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anch’io e lì sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora, se altra cosa, che non sia la morte, mi separerà da te” (Rt 1,16-17).

Vedendo che era decisa ad andare con lei, Noemi non insistette più e le due donne, unione di due fragilità, diventarono così decise da intraprendere un altro viaggio, una nuova emigrazione, questa volta da Moab a Giuda, verso la città da dove – molti anni prima – era partita l’anziana Noemi. Giunsero a Betlemme e qui si invertirono le posizioni rispetto ai dieci anni precedenti: ora toccava a Rut essere la straniera e a Noemi essere l’oriunda.

Quel che contò fu la loro sororità, quella loro alleanza, quella loro sapienza che le aveva portate a capire che solo condividendo il bisogno di ciascuna avrebbero avuto ricchezza per tutti. Per il popolo di Betlemme e di Moab, di Israele e di Canaan unito e amato da un unico Dio. Divenute libere da chiusure e muri identitari, Noemi e Rut restituirono a tutto il Paese un futuro di fraternità e di pace. Che siano esempio e luce per le donne ebree e palestinesi, musulmane e cristiane, bianche e nere, perché si facciano sorelle e alleate per salvare il futuro della terra, dei poveri e dei bambini.

*1958  Rosanna Virgili                           Roma Sette         6 dicembre 2023

                                               www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/12/rosanna-virgili-rut-e-noemi-libere-da.html

Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia- -CISF

Newsletter CISF – N. 45, 6dicembre 2023

ʘ             Evviva i volontari! Celebrata internazionalmente il 5 dicembre di ogni anno, la Giornata del Volontariato rappresenta un momento significativo per riflettere sul ruolo che i volontari hanno nel fare la differenza nella nostra società. Lo slogan scelto quest’anno è “If everyone did”(Se tutti facessero). Questo tema mette in evidenza la potenza delle azioni collettive di solidarietà. Se tutti si impegnassero nel volontariato organizzato, l’associazionismo diventerebbe una enorme risorsa rinnovabile, con cui ciascuno potrebbe contribuire a risolvere le principali difficoltà, sociali e ambientali, dei nostri tempi. Vi proponiamo una bella clip dalla Croce Rossa di Prignano sul Secchia (MO), in cui giovanissimi volontari si raccontano [su YouTube – 2 min 33 sec]

                www.youtube.com/watch?v=sMnSdqSlavo

ʘ             Famiglia e conti pubblici, dalla finanziaria al fiscal compact.  Continua la serie di pillole video di alcuni degli autori del Cisf Family Report 2023, che illustrano la questione “politiche familiari” da differenti prospettive disciplinari e metodologiche. Questa settimana Francesco Farri, professore associato di Diritto Tributario all’Università di Genova e Consigliere giuridico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, spiega le principali novità previste quest’anno in Finanziaria per la famiglia, oltre a segnalare come il tema delle misure a favore della famiglia dovrebbe essere oggetto di articolare considerazione in campo europeo, attraverso l’esclusione dai vincoli del Fiscal Compact [su YouTube – 2 min 37’’)                                www.youtube.com/watch?v=PQzOA-YIz5

ʘ             Il punto sui caregiver familiari in Europa. È urgente che l’Unione Europea conduca un’indagine sulla realtà dei caregiver familiari, al fine di fornirne un quadro più chiaro, tenendo conto di fattori quali il genere, l’età, la natura della relazione con l’assistito e la portata delle cure e del sostegno forniti. La raccolta e il monitoraggio dei dati dovrebbero inoltre essere integrati dall’assegnazione di finanziamenti adeguati da parte dell’UE per iniziative (sub)nazionali simili, volte a far luce sulla situazione degli assistenti familiari nei diversi paesi”. È l’indicazione conclusiva e urgente del paper “Too old to care? Thematic note reflecting on the specificities of the ageing family carers population in the EU” [qui il testo integrale – 11 pp] realizzato da Coface, che fornisce un punto chiaro e preciso sulle azioni poste in atto in questi ultimi anni dalla UE sul fronte invecchiamento della popolazione.

https://coface-eu.org/wp-content/uploads/2023/11/COFACE-Thematic-Note-on-Ageing-Family-Carers.pdf

ʘ             Il presidente del Consiglio Nazionale del Notariato, Giulio Biino, la rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino dell’UNHCR, Agenzia Onu per i Rifugiati, Chiara Cardoletti, hanno firmato il memorandum per l’inclusione sociale ed economica dei rifugiati in Italia e per la tutela dei loro diritti fondamentali, in accordo con gli obiettivi di sviluppo sostenibile 2030 riconosciuti dalle Nazioni Unite. L’accordo impegna i notai a predisporre azioni di assistenza ai rifugiati su tutto ciò che attiene le procedure burocratiche e di autenticazione della documentazione necessaria all’iscrizione anagrafica, il riconoscimento dei titoli di studio, gli atti di ricongiungimento e matrimonio ecc.                     https://notariato.it/wp-content/uploads/comunicato-stampa.pdf

ʘ             L’evoluzione del lavoro domestico in Italia. È il tema dello studio del Primo Osservatorio “Il potenziale del lavoro domestico – Proposte di intervento” di Nuova Collaborazione (Associazione nazionale datori di lavoro domestico), realizzato dal Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi, con l’obiettivo di esplorare il lavoro domestico nel contesto socioeconomico italiano. Il report, edito da Guerini e Associati [e disponibile sui  www.nuovacollaborazione.com                         www.centroeinaudi.it

 dimostra quanto il lavoro di cura – perno del “sistema famiglia” – non sia realmente supportato da adeguate politiche e agevolazioni fiscali, in quanto quelle esistenti non coprono i costi del lavoro domestico, come nel caso delle badanti per persone non autosufficienti. Oltre a mostrare un enorme gap di genere (il 27% delle donne ridimensiona la propria carriera, contro l’8% degli uomini) la ricerca evidenzia che il 35% delle famiglie è costretto a diminuire o cessare l’attività lavorativa in assenza di colf, badanti e baby-sitter, percentuale che sale al 50% tra le famiglie a basso reddito.

ʘ             Dalle case editrici

  • G. Semprebon, L’uomo, il cristiano, e le scelte consapevoli del fine vita, San Paolo, Cinisello B.  (MI), 2023, pp. 96
  • S. Tamaro, Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere, il dovere di educare, Solferino, Milano, 2019, pp. 122,
  • E. Granata, Il senso delle donne per la città. Curiosità, ingegno, apertura, Einaudi, Milano 2023, pp. 190,

(…) Ai suoi studenti del primo anno, Elena Granata propone sempre un piccolo test: quante architette conoscete? La fatica di trovare nomi femminili universalmente famosi mostra quanta strada ci sia da fare, per dare voce a un universo che, sostanzialmente escluso dalla progettazione urbanistica, si è dedicato “alla scala minuta, granulare, del design dell’abitare e della vita quotidiana, progettando spazi di prossimità e di benessere”. Ma è questa la dimensione che, più di tante altre, serve al nostro oggi, anzi al domani delle città (…) (B.Verrini)

www.famigliacristiana.it/media/pdf/cisf/23cisfnews45-allegatolibri.pdf

ʘ             Save the date

  • Webinar (IT) – 11 dicembre 2023 (15-17). “L’impegno dell’Italia per la tutela dei diritti dei bambini e degli adolescenti nel mondo” a cura di Officina Unicef [qui il link per partecipare]
https://form.jotform.com/233063835871359
  • Convegno (Roma)11 dicembre 2023 (14-18). “La leadership come servizio nell’impresa: Un nuovo modello di etica per il manager” a cura della Pontificia Università Gregoriana [qui il programma]

www.unigre.it/it/eventi-e-comunicazione/eventi/calendario-eventi/la-leadership-come-servizio-nellimpresa-un-nuovo-modello-di-etica-per-il-manager1

  • Convegno (Roma)12 dicembre 2023 (17-18-45). “L’educatore al bivio: legare o sciogliere”. Pierangelo Sequeri e Paolo Crepet aprono il nuovo ciclo di incontri della Cattedra Gaudium et spes, presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II [qui tutte le info]

www.istitutogp2.it/wp/2023/12/04/leducatore-al-bivio-legare-o-sciogliere-pierangelo-sequeri-e-paolo-crepet-aprono-il-nuovo-ciclo-di-incontri-della-cattedra-gaudium-et-spes

  • Incontro (ReimsFR) – 14 dicembre 2023 (20-22). “Quel est le rôle de la fraternité dans l’éducation de nos enfants?”, proposto dall’Institut Catholique de Paris e la Diocesi di Reims e delle Ardenne [qui per info]           www.icp.fr/a-propos-de-licp/agenda/quel-est-le-role-de-la-fraternite-dans-leducation-de-nos-enfants
  • Convegno (Roma) 3/5 gennaio 2024.Creare Casa. Convegno Nazionale Vocazioni e Università” a cura dell’Uff Naz per la Pastorale delle Vocazioni della Conferenza Episcopale Italiana [qui il programma]
https://vocazioni.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/10/2023/11/23/Depliant-Vocazioni.pdf
  • Convegno (Milano/Web)27 gennaio 2024 (8.30-17.30). “Esperienze avverse e traumatiche: il punto di vista della psicoanalisi” a cura del Centro Milanese di Psicoanalisi [qui tutte le info e programma]

www.cmp-spiweb.it/27gennaio24-convegno

  • Webinar (Int) 16 gennaio 2024 (inizio ore 15 – UK Time). “Towards the Future: EMERGING RESEARCHERS SEMINARS II” a cura dell’Oxford Institute of Population Ageing, segnaliamo il ciclo di seminari dedicati ai temi dell’invecchiamento e realizzati in collaborazione con un gruppo di atenei sudamericani [qui l’intero programma di date e il link per seguire]

www.ageing.ox.ac.uk/events/view/528

https://a4e9e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fgg=wsswt/e-ge=s/fh0=oys49a1:a=.-4&x=pv&65kac&x=pp&qzb9g6.b9g9h/:i4-7d=vu3xNCLM

CHIESE IN EUROPA

Il vescovo Crociata: “Messa in discussione la nostra capacità di annuncio”

L’arcivescovo Mariano Crociata *1953  presidente della COMECE,

(Commissione delle 26 conferenze episcopali della Comunità Europe) legge il suo intervento alla plenaria del CCEE (Consiglio Conferenze Episcopali) alla Valletta (Malta).

Per il vescovo Mariano Crociata, il grande problema è prima di tutto culturale. Perché i fenomeni che si vivono in Europa, dal rinascente populismo nazionalista alla deriva anti-religiosa, sono complessi e interconnessi, e “i meccanismi di reazione di tipo irrazionale alla fine denunciano il limite culturale e spirituale che affligge il nostro mondo e i nostri Paesi”. È un punto sul quale “siamo interpellati come Chiesa e come pastori, perché viene in questione la nostra capacità di annuncio e il nostro compito educativo. Senza supporto culturale e spirituale anche il processo sociale, politico e istituzionale si inceppa”.

                In questa intervista con ACI Stampa, il presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea, che monitora le attività delle istituzioni europee ed è composta dai vescovi delegati dei Paesi membri dell’Unione, fa una riflessione ad ampio raggio che parte proprio dall’attuale contesto europeo e delle attività della COMECE.

Da quasi due anni, l’Unione vive una guerra nel suo cuore. Come può essere una Unione di pace?

                La peculiarità di una entità sopranazionale come l’UE, né stato né federazione di stati, sta proprio nel suo essere un soggetto internazionale frutto di una libera condivisione di sovranità in ambiti definiti da parte di Paesi che hanno scelto di aderire ad essa. Da questa capacità di comporre insieme unità e diversità deve scaturire la pace tra gli stessi Paesi membri e tra i Paesi con i quali l’Unione è chiamata a intessere relazioni. Purtroppo, ci sono diverse smentite a questa duplice aspirazione di unità e pace che sta all’origine dell’Unione. La guerra in Ucraina, in particolare, continua a far soffrire e schiacciare un popolo, a minacciare l’intera Europa e ad avvelenare il clima politico e sociale globale.

Quale è stata l’attività principale della Commissione del corso dell’anno?

                L’evento principale è stato senza dubbio la nostra plenaria a Roma nel marzo scorso, culminata con una udienza del Santo Padre. Il Papa ha riproposto in sintesi il messaggio che viene dalle origini e dalla storia dell’Unione Europea, nata dal sogno dei padri fondatori, un sogno di unità e di pace. Abbiamo avvertito le parole di papa Francesco come un richiamo a un impegno che deve essere dei membri della nostra Commissione e delle nostre Chiese, per contribuire così al cammino verso una unità e una pace sempre più grandi nella stessa Unione e in tutto il continente.

                Quali sono i vostri obiettivi?

                Siamo chiamati a rilanciare la nostra missione istituzionale, anche di fronte alle scadenze che la vita dell’Unione presenta, in particolare la prossima tornata elettorale europea del giugno 2024. Sono in gioco, infatti, il destino dell’Unione e soprattutto la sua capacità di rispondere in maniera significativa alle attese non solo dei Paesi che le hanno dato vita ma anche alle attese di tanti altri in questo tempo. Il paradosso sta nel fatto che mentre si constata una disaffezione, se non una insofferenza, di non poco conto da parte di molti nelle popolazioni dell’Unione verso di essa, c’è una profonda attesa perché essa raggiunga la capacità di dare soluzione a una serie di nodi e di problemi ai quali i singoli Paesi devono comunque far fronte e che sperimentano di non essere nelle condizioni di sciogliere.

Come pensate di rispondere a queste sfide?

Le Commissioni che lavorano sotto la presidenza di un vescovo e sono passate da tre a sei: oltre a quelle per affari legali, affari socio-economici e azione esterna, ora anche quelle per immigrazione e asilo, etica ed educazione e cultura. Inoltre, si è appena costituito un nuovo gruppo di lavoro sulla sostenibilità, che si occupa di ambiente, energia e agricoltura. Inoltre, il rinnovo di don Manuel Barrios Prieto *1962  come Segretario generale della COMECE segna una volontà di continuità e di consolidamento del lavoro che si sta svolgendo.

I conflitti in corso hanno impatto sull’Europa?

Difficile dire gli effetti diretti e indiretti in Europa dei conflitti in corso, di cui auspichiamo, e per questo soprattutto una preghiamo, una soluzione giusta e pacificatrice. Certo, il clima attuale non è determinato solo dalla guerra in Ucraina, ma anche dalla guerra esplosa in Israele e Palestina dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre scorso. È certo che ogni sforzo deve essere messo in campo per indirizzare diversamente discorsi e pensieri rispetto a una deriva rassegnata al peggio.

Quale è stata la risposta della COMECE?

                Abbiamo diffuso il 10 novembre una Dichiarazione firmata da tutti i vescovi delegati, nella quale si segnala una grande preoccupazione per le vittime, per i popoli e i loro diritti, per gli effetti di deterioramento del clima sociale (si fa riferimento non a caso a diversi fenomeni di disgregazione della coesione sociale) e non ultimo dei rapporti tra le nazioni. Abbiamo notato che “la polarizzazione della comunità internazionale, alimentata da una rinnovata logica di competizione tra grandi potenze, insieme all’erosione della fiducia nei contesti di cooperazione multilaterale, lascia aperto anche lo scenario di un’escalation incontrollabile con conseguenze catastrofiche per l’intera umanità”.

Cosa farete in vista delle elezioni?

Abbiamo definito un documento di lavoro che racchiude una rassegna delle più importanti questioni che stanno a cuore alla comunità ecclesiale e che sono comunque determinanti per il futuro della stessa Unione Europea. Questi i temi: stato di diritto e democrazia, dialogo basato sull’art. 17 TFUE, diritti fondamentali, diritto di famiglia e difesa della vita umana, guerra e pace, giustizia sociale – lotta alla povertà – difesa dei più vulnerabili, digitalizzazione e intelligenza artificiale, cura della casa comune, migrazione e asilo, allargamento dell’UE, relazioni esterne dell’Unione Europea – posto e missione dell’Europa nel mondo.

                Ma come vede la situazione in Europa?

                Penso si debba allargare lo sguardo per fissarlo su alcune dinamiche culturali che si muovono nel fondo della vita dei nostri popoli.

                A cosa si riferisce?

                Mi riferisco alla tendenza a chiudersi in difesa di una sicurezza che ci si illude di garantirsi istallandosi in un dorato isolamento, effetto in realtà di una paura che non riesce ad essere gestita perché mancano gli strumenti di lettura e di interpretazione della complessità, adattandosi a risposte semplicistiche ma proprio per ciò inutili. I segnali che arrivano dagli esiti delle tornate elettorali nazionali, come l’ultima nei Paesi Bassi, destano qualche preoccupazione almeno per tre fattori: l’affermarsi della tendenza populistica, l’incertezza degli esiti del voto spesso con l’effetto di produrre una situazione politica difficilmente governabile, la consistenza crescente dell’astensionismo.

Cosa segnalano questi fenomeni?

Si tratta di fenomeni che segnalano una debolezza e rendono sempre più fragili le strutture e la vita delle democrazie. La regressione è segnalata ancora di più dal ritorno non solo della guerra sul suolo europeo ma già di situazioni conflittuali che sembrano riportare a epoche e climi storici del passato.

E come può reagire la Chiesa?

La difficoltà a convivere con la complessità e i fenomeni di regressione a cui ho accennato non sono facili da gestire, anche perché ormai siamo tutti interconnessi. I meccanismi di reazione di tipo irrazionale alla fine denunciano il limite culturale e spirituale che affligge il nostro mondo e i nostri Paesi. Su questo punto mi pare che siamo interpellati come Chiesa e come pastori, perché viene in questione la nostra capacità di annuncio e il nostro compito educativo. Senza supporto culturale e spirituale anche il processo sociale, politico e istituzionale si inceppa.

Quale dunque la risposta?

 A questo riguardo, sebbene su fronti formalmente diversi, tutti dobbiamo attivare un impegno convergente. Il cammino sinodale nel quale le nostre Chiese sono coinvolte è una opportunità irripetibile di condivisione e di confronto, dentro e fuori le nostre comunità, per rianimare con la nostra visione della società le sorti delle comunità credenti e la presenza della Chiesa nel nostro continente, nonché il suo specifico apporto all’Unione Europea.

E quale è il contributo della COMECE al cammino sinodale?

È un contributo peculiare, portato precisamente attraverso il dialogo con le realtà istituzionali espressione dell’Unione Europea, attraverso un ascolto e un discernimento attenti e una offerta di contributi volti a promuovere il bene comune nell’Unione in un’ottica cristiana; e inoltre facendo riverberare i contenuti e gli effetti di tale dialogo in ambito più propriamente ecclesiale attraverso le conferenze episcopali dei delegati e le rispettive Chiese. L’ottica cristiana poi, che è peculiare della natura e del servizio della COMECE, richiama il fatto che, inseparabilmente dalla specificità cattolica della sua identità e della sua missione, essa svolge il suo compito in un collegamento stabile e in una collaborazione cordiale con la CEC, e perciò con una sensibilità e una attenzione propriamente ecumeniche.

Andrea Gagliarducci            ACI Stampa          La Valletta 6 dicembre 2023

www.acistampa.com/story/europa-il-vescovo-crociata-messa-in-discussione-la-nostra-capacita-di-annunCIO

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Milano 1 –  Istituto la casa             Rivista dicembre 2023- -n. 3 – anno XXV

Luigi Filippo Colombo                                     Editoriale

Dagli scritti di don Paolo Liggeri  Come il cuore dei piccoli

Beppe Sivelli                                                      Invecchiando ancora s’impara

Alma Bianchi, Lucia Mella                             Essere genitori insieme     ↓↓↓ (il testo

Elena D’Eredità                                                 Figli, genitori, sport

Jolanda Cavassini                                             Caldi ricordi d’inverno

Mary Rapaccioli                                                Quando arriva il Natale

Caterina Mallamaci                                          Adozione e cooperazione

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COPPIA

Quanto può durare una crisi di coppia?

Le crisi relazionali sono parte integrante dello sviluppo di una coppia. Infatti, è attraverso le difficoltà che le persone possono imparare a conoscersi meglio, affrontare situazioni complesse, armonizzare le differenze e rafforzare i legami. La chiave è che entrambi i partner lavorino insieme per risolvere i problemi e comunichino apertamente e onestamente. Solo così si può uscire da una crisi di coppia e rendere la relazione un luogo di crescita personale e di felicità

Quanto può durare una crisi di coppia? Una crisi di coppia può durare alcune settimane o diversi mesi, a seconda della gravità dei problemi e dell’impegno applicato nel risolverli. Durante questo periodo, le emozioni possono essere intense e la comunicazione può diventare difficile. È importante ricordare che ogni relazione è unica e che la durata delle crisi può variare.

Quanto può durare una crisi di coppia? Questa è una domanda complessa a cui non è facile rispondere.

Tuttavia, ci sono alcuni segnali che possono aiutarci a capire quanto può durare una crisi relazionale.

                Livello di impegno e volontà di entrambi i partner a lavorare sulla relazione: se entrambi i partner sono disposti a fare uno sforzo per risolvere i problemi e migliorare la relazione, la crisi può essere risolta più velocemente. I partner saranno in grado di comunicare apertamente e onestamente, di trovare compromessi e soluzioni che soddisfino entrambi. Se uno o entrambi i partner mostrano scarsa volontà di lavorare sulla relazione, la crisi può prolungarsi. I partner possono essere più propensi a chiudersi in sé stessi, a evitare di affrontare i problemi e a cercare di scaricare la colpa sull’altro. In questo caso, la crisi può richiedere un periodo di tempo più lungo per essere superata o può addirittura portare alla rottura della relazione.

La gravità dei problemi nella relazione: se ci fossero problemi più gravi come infedeltà, abuso o mancanza di fiducia profonda, la crisi potrebbe richiedere più tempo per essere risolta. Questi problemi creano ferite profonde all’interno della relazione e richiedono un lavoro intenso per ricostruire la fiducia e superare il dolore.

      La presenza di supporto esterno: se entrambi i partner cercano aiuto da liberi professionisti o associazioni come Aiuto Famiglia, la crisi può essere risolta più rapidamente. L’importanza del sostegno esterno risiede anche nella possibilità di acquisire una prospettiva diversa: quando una coppia è coinvolta in una crisi, può diventare troppo emotiva e incapace di guardare la situazione con obiettività. Affidarsi a esperti può contribuire a ridurre lo stress e a migliorare il benessere emotivo di entrambi i partner. Avere un alleato che ci sostenga nei momenti di crisi può farci sentire meno soli e più sicuri nell’affrontare le sfide.

La capacità di comunicazione dei partner: se i partner sono in grado di comunicare apertamente ed efficacemente tra di loro, sarà più facile risolvere i problemi e superare la crisi. Quando si affrontano difficoltà o conflitti, una comunicazione chiara permette ai partner di esprimere le proprie preoccupazioni in modo costruttivo e di cercare soluzioni insieme. I partner devono essere in grado di ascoltare e comprendere le esigenze dell’altro e trovare compromessi per risolvere i problemi. Una comunicazione efficace riduce la possibilità di fraintendimenti e incomprensioni, creando così le basi per risolvere la crisi della coppia.

La capacità di compromesso: se entrambi i partner sono in grado di trovare soluzioni di compromesso ai problemi e alle differenze che si presentano, la crisi può essere risolta più rapidamente. Quando entrambi i partner sono disposti a mettere da parte i propri desideri e opinioni per trovare un terreno comune, le possibilità di risolvere una crisi aumentano notevolmente.

I segnali di una coppia in crisi. Quali sono i segnali di una coppia in crisi? Variano da coppia a coppia, ma ci sono alcuni indizi comuni che dimostrano che la relazione sta attraversando un periodo difficile.

Come una bussola che indica la giusta direzione, è importante riconoscere i sintomi che possono indicare una crisi di coppia in corso. Prestando attenzione a questi segnali, i partner possono intervenire tempestivamente e lavorare insieme per superare gli ostacoli.

  • Scontri e litigi continui: se la maggior parte delle interazioni dei partner prevede scontri e litigi continui, questo può essere un segno di una crisi profonda. I litigi ripetuti minano il legame emotivo tra i partner e prolungano le situazioni di crisi tra loro.
  • Mancanza di comunicazione e di intimità: se il dialogo profondo o l’intimità fisica scarseggiano o scompaiono, ciò può indicare una crisi nella coppia. Come un fiume in secca, la mancanza di comunicazione e di intimità può erodere il legame tra i partner.
  • Perdita di interesse reciproco: se entrambi i partner hanno perso interesse nel conoscersi e sostenersi a vicenda, questo può essere un segno di una crisi in corso. Come una brezza che si affievolisce, la mancanza di interesse reciproco può portare a una distanza emotiva.
  • Solitudine: se uno o entrambi i partner si sentono soli nella relazione, questo può essere un segno di crisi. Come una tempesta che oscura il cielo, la solitudine può creare un senso di disconnessione e infelicità.

Spunti e riflessioni finali. Le crisi all’interno delle coppie possono presentare una vasta gamma di intensità e durata, a seconda della specifica situazione. Alcune possono durare solo poche settimane, mentre altre possono protrarsi per mesi o persino anni. La durata dipende da diversi fattori, come la gravità del problema, la personalità dei partner coinvolti, nonché la loro capacità di comunicare e risolvere insieme i problemi.

È importante ricordare che le crisi di coppia sono un inevitabile aspetto di ogni relazione e, nella maggior parte dei casi, col tempo  e con grande dedizione possono essere superate. La comunicazione aperta e sincera tra i partner risulta fondamentale per superare le difficoltà. Inoltre, è importante considerare l’aiuto, come la consulenza di coppia, che può risultare estremamente utile per superare le crisi e migliorare la relazione.

AAF – Associazione Aiuto Famiglia: dal 2005 creiamo armonia                        dal 7 luglio 2005

www.aiutofamiglia.org/crisi-coppia/durata-crisi-coppia

DALLA NAVATA

2° Domenica di Avvento – Anno B

Isaìa                                      40, 01. «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati».

Salmo responsoriale     84, 09. Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo,

                                               per i suoi fedeli. Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la

                                               nostra terra.

2 Pietro                                03,08. Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo  giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza.

Marco                                   01,01. Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.

Euangelion: la «buona notizia»

L’inizio del Vangelo di Marco, che si legge questa domenica, è estremamente denso e allo stesso tempo programmatico: in poche parole è condensato tutto quello che seguirà. Cerchiamo allora di assaporare l’intensità e la profondità di queste prime parole: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio».

            Si parla di un «inizio», termine che per delle orecchie «bibliche» risuona come la prima parola di Genesi: «bereshit», cioè «in principio». Il senso allora non è tanto quello di essere inizio di qualcosa, ma quello di essere «il fondamento» dell’azione di Dio, che dalla creazione arriva fino al compimento, alla pienezza di vita. Infatti il testo prosegue con «del vangelo», in greco euangelion, che significa «buona notizia»; cioè il fondamento di questa azione di creazione e di salvezza è una «buona notizia», un «lieto annuncio».

Una cosa interessante è che questo termine «evangelo/vangelo» viene utilizzato da Marco non solo nel senso letterale di «buona notizia», ma anche per indicare una tipologia di scritto, un genere letterario.

Questa «buona notizia», questo «vangelo» – prosegue Marco – è «di Gesù, Cristo, Figlio di Dio». Il dire che il vangelo è «di Gesù» ha un duplice significato: vuol dire sia che la buona notizia è annunciata, realizzata da Gesù, ma anche che questa «buona notizia» è Gesù stesso; e il nome «Gesù», Ioshua, significa letteralmente «Dio salva».

            Ecco allora che il fondamento della buona notizia è che «Dio salva» e, allo stesso tempo, che questa buona notizia è data da «Dio salva». Subito dopo il nome «Gesù» segue, infatti, la sua presentazione come Messia, ovvero «unto», in greco christos, e come «figlio di Dio».

Gesù è l’unto, è il messia davidico, la sua persona ha un carattere regale: nella Bibbia, infatti, il re di Israele viene chiamato l’unto di Dio, il «messia del Signore», e l’intronizzazione regale prevedeva l’unzione. Inoltre Marco lo definisce «figlio di Dio», non solo conferendogli un ruolo importante, ma rivelando così il senso profondo della sua unzione, la manifestazione piena della sua figliolanza, della sua conformità alla volontà di Dio, della realizzazione proprio della regalità di Dio, una regalità portatrice di salvezza.

Siamo quindi di fronte alla sintesi della vicenda di Gesù e, allo stesso tempo, di ciò che egli annuncerà, il contenuto del suo messaggio. E da questo primo e denso messaggio iniziale si passa a presentare la figura di Giovanni Battista: egli è colui che apre la strada, a lui spetta il compito di preparare il terreno attraverso l’invito alla conversione e alla purificazione delle coscienze affinché il popolo sia in grado di riconoscere e accogliere il Messia.

La descrizione che Marco fa di Giovanni è molto simile a quella del profeta Elia: un personaggio austero, essenziale, si potrebbe definire ascetico: si ciba di cavallette e miele selvatico e il suo vestito è fatto di peli di cammello. Il suo ruolo è quello di compiere la profezia di Malachia: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti» (Ml 3,1).

Ed è sempre il profeta Malachia a identificare il messaggero che verrà con Elia: «Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri» (Ml 3,23-24).

            Ma c’è sempre uno scarto tra la profezia e il suo compimento, proprio perché la profezia non è predizione del futuro, descrizione dettagliata di quanto avverrà, ma annuncio e, allo stesso tempo, conferma della fedeltà di Dio verso sé stesso e verso il suo progetto di salvezza.

Ed è importante che questo scarto ci sia, perché se da una parte la profezia aiuta a rinvigorire la speranza e a comprendere il senso di quanto accade, dall’altra è anche apertura alla «novità» di Dio, una «novità» che non può essere pre-detta, racchiusa o circoscritta.

            Proprio per questo l’«Elia» che deve venire si manifesta in Giovanni e il Messia che si attende non si presenterà trionfale e maestoso, terribile e imponente, ma come «uno fra i molti».

EsterAbbattista, Biblista

GENITORI

Genitorialità, oralità della vita

L’articolo scava i significati più intimi dell’essere genitori, arte che si modella con i figli e non sui figli

Nell’antica Roma il Genio (Genius, con la stessa radice di “gens” e del verbo “gignere”, generare) era una divinità relativa al culto domestico, cioè la divinità tutelare della forza generativa di ogni uomo e quindi anche di ogni famiglia (mentre ogni donna pare aver avuto la propria Giunone, Iuno) cui si dedicavano dei riti. Genio, perciò, è da intendersi in senso lato come l’identità e intimità della famiglia, nel bene e nel male. Come potrebbe (o dovrebbe) essere intesa la genitorialità (che deriva da “genio”) tenendo conto della forza creativa delle parole.

                “Genitorialità” contiene la parola “arte”, perché è un’arte. Può essere assimilata all’arte pasticcera, perché bisogna rispettare la miscela degli ingredienti, le dosi, i tempi di lievitazione, di infornatura, avere passione, pazienza, dedizione, saper inventare, guarnire, decorare, e ogni regione geografica ha le sue varianti e peculiarità come ogni famiglia.

Dalla parola “genitorialità” si possono ricavare altre parole e creare dei giochi di parole, per cui genitorialità è dare: “origine” alla vita; “alito” di vita; “altare” all’amore; “torte” da preparare; forza come “tori”; giornate” da condividere; “ali” per librarsi; “orti” da coltivare; “ori” da conservare e “altro” di più; “arti” da esercitare; “originale”, perché ogni genitore lo è a suo modo come l’unicità di ogni figlio.

                Le R della genitorialità: relazione, responsabilità; responsività; rituali educativi da costruire; ricatti affettivi da evitare; riconoscimento; ristrutturazione della rete familiare e parentale, ricordi (tra l’altro i genitori devono tenere a mente che i bambini acquisiscono competenze linguistiche sin dalla nascita o dal grembo materno); rispetto; ruoli; rischio.

                Genitorialità: è accudire, custodire la vita dei figli. Entrambi i verbi contengono “dire” perché la genitorialità è un dire di sé, mediante l’esempio, l’essenza, l’esserci.

                Ogni persona è un essere omeostatico e la genitorialità è una delle esperienze di vita che richiede ancor di più questa ricerca di equilibrio. Anche ogni processo cellulare è un equilibrio tanto che, quando qualcosa non va, si manifestano alterazioni o patologie. In questa ricerca di equilibrio della genitorialità il legislatore fornisce varie indicazioni, tra cui quelle dell’art. 147 cod. civ.. “Doveri verso i figli”

https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-vi/capo-iv/art147.html#:~:text=Spiegazione%20dell%27art.%20147%20Codice%20Civile%20L%27obbligo%20di%20mantenimento,sono%20inseriti%2C%20in%20relazione%20alla%20disponibilit%C3%A0%20dei%20genitori.

In particolare, sono significative le locuzione “assistere moralmente” e “nel rispetto delle loro […] inclinazioni naturali”, ovvero i genitori non devono far mancare la loro presenza, il loro sguardo educativo lungimirante, non assecondare ma rispettare le inclinazioni naturali dei figli (che, altrimenti, potrebbero pure non voler far nulla) senza forzarli a fare quello che loro avrebbero voluto fare o vorrebbero farne (per esempio far studiare pianoforte anziché batteria) e non essere amici dei figli.

Anche l’art. 315 bis del codice civile offre una guida ai genitori.

https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-ix/capo-i/art315bis.html

Nei primi commi si parla dei diritti del figlio e nell’ultimo si parla dei doveri del figlio non perché il senso del dovere sia ultimo, ma perché il figlio deve prima vivere e crescere nel rispetto per poi contraccambiarlo. Come si legge pure nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, articolo relativo all’educazione, dove alla lettera a prima si parla dello sviluppo della personalità del fanciullo e, poi, alla lettera c si parla di rispetto dei genitori. La relazione e il rispetto sono circolari e reciproci come si ricava altresì dall’etimologia delle due parole. La genitorialità non è né possesso né potere sul figlio ma ponte verso il figlio e ponte di vita, forse un ponte tibetano perché frammezzato da difficoltà e, al tempo stesso, da forti emozioni.

                Il pedagogista Daniele Novara scrive:I bambini manifestano tante paure, più o meno razionali, semplicemente perché sono piccoli e avvertono un senso di impotenza legata alla loro condizione. Il genitore ansioso e iperemotivo alimenta questi timori oltre misura con le classiche esortazioni: «Dai su, perché fai così?», «Forza, sei grande, smettila di fare il bambino spaventato» o frasi analoghe che finiscono per segnalare l’apprensione del papà o della mamma“. Essere genitori non è solo dare la vita ma fornire anche l’alfabeto della vita, gli strumenti per codificare e decodificare situazioni ed emozioni. Per fare ciò è necessario che la genitorialità sia espressione di adultità, maturità, idoneità ad approntare e/o affrontare le varie circostanze della vita e le conseguenti reazioni ed emozioni (come nei tempi del coronavirus). “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di sé stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita, garantendo che la società in cui uno vive sia in grado di creare le condizioni che permettono a tutti i suoi membri di raggiungere la salute” (dal paragrafo “Entrare nel futuro” della Carta di Ottawa per la promozione della salute, 1986).

Per gli insegnanti c’è un minimo di criterio di selezione mentre per i genitori no. Per la genitorialità non ci sono regole da dettare perché la genitorialità è quotidianità, singolarità, originalità. Si possono fornire, però, “con-sigli” per il percorso, quali accorgimenti e accortezza, conforto e confronto, rispetto e reciprocità (tra i genitori e tra genitori e figli), che sono tra gli elementi che più spesso mancano. In passato si chiedevano e si ascoltavano i consigli delle proprie mamme, delle vicine, degli insegnanti. Oggi, invece, sembra che ci si armi dello slogan: “Il figlio è mio, tutto mio e me lo gestisco a modo mio!“. La genitorialità è una capacità che cresce (o dovrebbe crescere) con l’età dei figli facendosi “com-petenza” e “com-potenza” (anche per prevenire “crisi di impotenza” o “deliri di onnipotenza”, propri o dei figli). Queste indicazioni si possono ricavare pure dalle fonti normative tra cui la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e in particolare dall’art. 18 che si riferisce direttamente ai genitori.

Nel 2019 è stata pubblicata la “Child-Focused Parenting Time Guide” (“Guida ad un Piano dei tempi genitoriali centrato sul minore”), a cura del Minnesota State Court Administrator’s Advisory Committee on Child-Focused Parenting Time (amministratore del tribunale statale del Minnesota Comitato consultivo sul tempo dei genitori incentrato sui minori). Questa preziosa e analitica guida (che ha aggiornato e approfondito un precedente documento, frutto di uno studio concluso nel 1997) contiene informazioni mirate a favorire l’esercizio della genitorialità di entrambi i genitori a seguito della separazione, nel tentativo di limitare al massimo gli effetti negativi sui figli delle eventuali conflittualità tra i partner. Di particolare interesse l’individuazione di linee operative analiticamente suddivise secondo le età dei figli, a conferma della centralità del “best interest of the child“, e nella realistica consapevolezza che i bisogni dei bambini e le modalità di interazione con i due genitori non possono non cambiare – a volte anche radicalmente – nel corso del tempo, dalla prima infanzia fino all’adolescenza. Perché i bambini hanno diritto al tempo, al loro tempo, alla loro età e anche alla distinzione tra infanzia e adolescenza, a maggior ragione nelle situazioni di separazione e divorzio che sono scelte dai loro genitori (tutto ciò è espresso nella Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, 2018).                                                                                                                          www.garanteinfanzia.org/landing2/Libretto.pdf

Alla luce dell’aumento di genitori incompetenti, di matrimoni falliti, di rapporti conflittuali e di bambini contesi, ragazzi devianti, sarebbe necessario istituire o costituire “scuole” sulla genitorialità. Vari sono gli indici normativi che supportano questa necessità, a partire dall’art. 31 della Costituzione da cui si ricava la tutela della formazione della famiglia e della protezione della maternità e dell’infanzia. E già prima dell’art. 31, l’art. 2 sulla solidarietà e l’art. 3 sulla rimozione degli ostacoli. Ai principi costituzionali si aggiungono alcuni atti internazionali, tra cui le summenzionate Carta di Ottawa per la promozione della salute e Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Negli USA, soprattutto dopo l’emergenza sanitaria del coronavirus, sono stati attivati percorsi formativi online sulla genitorialità, dai temi più generali fino alle situazioni più specifiche e complesse. I corsi sono a pagamento, e molti di loro sono accreditati presso numerosi tribunali dei vari Stati, dal momento che molti giudici prescrivono ai genitori percorsi formativi obbligatori. Per quanto apprezzabile c’è da chiedersi se la genitorialità possa essere una competenza da acquisire o maturare online e se si possa sostituire/costituire ogni relazione con la modalità digitale. Occorre, piuttosto, risalire all’etimo di “digitale” che deriva dal latino “digitalis”, a sua volta da “dig?tus”, “dito”: la genitorialità dovrebbe riacquisire la capacità di usare le “dita” con i figli, riappropriandosi delle attività manuali di una volta, dal contadino al tornitore.

                Genitorialità: maternità e paternità, latte e miele, dolcezza e tenerezza. “Ogni fanciullo ha il diritto di avere dei genitori o, in loro mancanza, di avere a sua disposizione persone o istituzioni che li sostituiscano” (art. 8.11 Carta europea dei diritti del fanciullo): una delle poche disposizioni in cui si afferma il “diritto ai genitori”, in cui si ribadisce la soggettività piena del bambino guardando le cose dalla sua posizione e non da quella dei genitori.

La genitorialità è una scelta e i figli non sono impegnativi ma sono un impegno. “Ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita” (art. 6 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Il pediatra spagnolo Carlos Gonzalez sostiene: “Se volete portare vostro figlio in braccio, fatelo. Se volete smettere di lavorare per mesi o per anni per crescerlo, o rifiutare una magnifica opportunità di lavoro all’estero per stare con la vostra famiglia, fatelo. Ma solo se volete. Se non volete, non fatelo. Dire: “Ho sacrificato la mia carriera per stare con mio figlio” è assurdo tanto quanto: “Ho sacrificato la relazione con mio figlio per la carriera”. Non sono sacrifici, sono scelte. Vivere è scegliere, le giornate hanno solo ventiquattro ore e chi fa una cosa non può farne un’altra contemporaneamente. Scegliete quello che in ogni momento vi sembra opportuno, e basta. Chi fa quel che vuole non sta rinunciando, sta riuscendo, non si sacrifica, ma trionfa” (in “Un dono per tutta la vita”, 2018).

“Coraggio” etimologicamente deriva da “cuore”: entrambe le parole rappresentano (o dovrebbero rappresentare) la famiglia perché la genitorialità è atto di coraggio e di cuore. Consapevolezza, altra parola chiave: addirittura si organizzano percorsi di consapevolezza perché mancano la maturità, l’adultità, la responsabilità. Quello che dovrebbe essere la genitorialità, percorso di consapevolezza sull’essere genitori e sull’avere figli.

Tutti i bambini adottati portano con sé l’esperienza dell’abbandono e della perdita. Sono bambini che si sentono privi di valore affettivo e che pensano di non meritare l’amore dei genitori. Ma sono anche bambini con grandi risorse, aperti alle esperienze positive che l’adozione può regalare loro e desiderosi di credere in un mondo migliore di quello che hanno conosciuto” (cit.). La genitorialità adottiva parte da una maggiore consapevolezza che i figli non sono “propri” e che hanno un loro bagaglio di vita che può presentare ogni sorta di imprevisto. La genitorialità adottiva dovrebbe “fare scuola” ad ogni forma di genitorialità.

                La genitorialità adottiva insegna e conferma che la genitorialità non è geneticità (trasmettere il proprio patrimonio genetico) ma oralità, ovvero trasmettere, diffondere, comunicare amore, vit

   Margherita Marzario, insegnante e giurista               03 dicembre 2023

www.studiocataldi.it/articoli/46284-genitorialita-oralita-della-vita.asp

MEDIATORE FAMILIARE

La svolta. Via libera ai mediatori familiari nel nuovo processo di famigli

È entrato in vigore il decreto previsto dalla riforma Cartabia sul ruolo e sulle funzioni di questo prezioso strumento di dialogo. Via libera ai mediatori familiari nel nuovo processo di famiglia.

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2023/10/31/23G00162/sg

È finalmente stato pubblicato il decreto interministeriale (27 ottobre 2023 n.151) con il quale il Ministero per il Made in Italy (Mimit), il Ministero di Giustizia e il Ministero dell’Economia hanno completato l’iter previsto dalla Riforma Cartabia per arrivare a definire la figura del mediatore familiare professionista ed il ruolo della mediazione familiare nel nuovo processo di famiglia. Dopo più di 25 anni dalla sua introduzione in Italia oggi sappiamo come la mediazione familiare rappresenti uno strumento utilissimo nella gestione dei conflitti familiari legati alla separazione e al divorzio e la sua efficacia è indubbiamente tanto maggiore quanto più precoce è l’intervento.

Dal 15 novembre 2023, giorno di entrata in vigore del decreto, possiamo dire che seppure con molti aspetti di perfettibilità il complesso panorama della Riforma ha riconosciuto il grande lavoro fatto in questi anni dalle associazioni (nel 2017 è stata costituita la Federazione italiana associazioni di mediatori familiari, F.I.A.Me.F) e dai tanti professionisti sul campo. Tutto parte dalla legge 26/11/2021, n. 206

https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2021-11-26;206

che conferisce il primo vero riconoscimento legislativo al mediatore familiare e ha reso possibile una lunga serie di azioni finalizzate all’acquisizione di uno status professionale per i mediatori familiari.

Le associazioni professionali, oltre a vigilare sulle regole di comportamento degli associati – in particolare sul rispetto del codice deontologico – e sulla formazione di base e permanente, assumono un ruolo attivo ed altamente significativo nel processo di professionalizzazione. L’appartenenza alle associazioni è su base volontaria e non costituisce un requisito essenziale per essere mediatore familiare, ma è evidente che far parte di un’associazione riconosciuta dal Mimit rappresenta un insieme di vantaggi sia per il singolo professionista, sia per il cittadino cliente/utente del servizio. La logica del sistema – in altre parole – è che le associazioni si facciano garanti della professionalità del mediatore familiare. Per questo è molto importante che i cittadini, genitori e non, che si rivolgono al mediatore familiare nel corso di una spesso dolorosa vicenda separativa, possano essere informati molto bene sulle qualifiche professionali di chi li incontra. Opportunatamente il decreto del 27 ottobre 2023 ha previsto un obbligo di informativa da parte del mediatore familiare che incontra la coppia all’inizio della mediazione – che verte, tra i molti aspetti, anche sulla propria qualifica e appartenenza associativa. Si deve lavorare dunque nella trasparenza su informazioni, regole, aspetti deontologici, basandoci sul presupposto che occorre conoscere per scegliere come recita un ormai celebre slogan coniato da Costanza Marzotto, pioniera della mediazione familiare nel nostro Paese e coordinatrice del Master in mediazione familiare dell’Università Cattolica. (vedi box)

La mediazione familiare prevede cinque regole/condizioni in mancanza delle quali non può definirsi tale: autodeterminazione, volontarietà, riservatezza, terzietà, autonomia dall’ambito giudiziario. Occorre in altre parole che le coppie che si rivolgono al mediatore familiare lo possano fare sulla base di una scelta personale, che il loro percorso di presa di accordi e di dialogo avvenga nella riservatezza più assoluta da parte del mediatore che non è un consulente del giudice, che si lavori in un contesto “terzo” rispetto a quello delle aule dei Tribunali, ma anche degli studi degli avvocati, i quali spesso sono proprio coloro che inviano in mediazione, sostenendo il lavoro dei loro assistiti fino al deposito degli accordi di separazione e/o divorzio. L’obiettivo è certamente il mantenimento del benessere dei figli, che spesso anche senza volerlo sono messi al centro dei litigi dei genitori, ma c’è un traguardo anche più elevato: poter rigenerare i legami a fronte dello tsunami causato nelle famiglie dal divorzio, come Vittorio Cigoli, padre del modello relazionale-simbolico di mediazione, ci ha insegnato (2017). Questo lavoro di prevenzione che, se attuato dai genitori a fronte dell’evento separativo, permette davvero l’esercizio della comune responsabilità genitoriale, è ciò che ha più a cuore il mediatore familiare per la sua ricaduta sul benessere dei figli e dunque delle generazioni future. È importante ribadire che l’elevata conflittualità tra i genitori non costituisce elemento ostativo alla mediazione familiare. L’intervento di un esperto terzo e qualificato può favorire la gestione di una fase conflittuale anche acuta, supportando le persone verso una maggior consapevolezza del loro ruolo genitoriale e della necessità di destinare ogni loro energia alla cura dei figli. Sicuramente invece sono ostativi i comportamenti genitoriali che non tutelano i figli, quando ad esempio vi è compromissione della responsabilità genitoriale. Per queste situazioni, purtroppo frequenti, esistono diversi strumenti di intervento e compito del mediatore è anche saper individuare ed in parte costruire le cosiddette “condizioni di mediabilità” cioè le condizioni nelle quali è possibile intraprendere e proseguire un percorso di mediazione.

La Riforma, in conformità alla convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, ha opportunamente preso in considerazione il delicato tema della violenza, così drammaticamente attuale, ponendo molta attenzione alla fase iniziale della mediazione nella quale il mediatore mette in campo la sua formazione e le sue competenze per riconoscer possibili segni di violenza che non rendono attuabile la mediazione. Sono cause di impedimento all’attivazione/prosecuzione di un percorso di mediazione familiare: la pronuncia di sentenza di condanna o di applicazione della pena, anche in primo grado, ovvero la pendenza di un procedimento penale in una fase successiva ai termini di cui all’articolo 415-bis del Codice di Procedura Penale per le condotte di cui all’articolo 473-bis.40 (abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere), nonché quando tali condotte sono allegate o comunque emergono in corso di causa. Inoltre il mediatore familiare ha l’obbligo di interrompere immediatamente il percorso di mediazione familiare intrapreso, se nel corso di esso emerge notizia di abusi o violenze. Fuori da queste rigorose cause di esclusione, il mediatore familiare è proprio la figura che accompagna, affianca le persone, come in un viaggio, utilizzando un processo predefinito, alla ricerca di accordi per attuare una separazione consapevole e che mette al centro i figli, valorizzando la competenza e la differenza che ognuno porta in sé malgrado il dolore ed il conflitto che sta attraversando.

Tornando alla Riforma c’è un riscontro chiaro del valore attribuito alla mediazione familiare nella nuova formulazione dell’art. 337 ter del Codice civile  www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-ix/capo-ii/art337ter.html

che prevede espressamente che il Giudice «prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori, in particolare qualora raggiunti all’esito di un percorso di mediazione». Come si legge nella relazione illustrativa, infatti, «non sembra ragionevole che un accordo formato dopo un percorso di mediazione sia tenuto nel medesimo conto di uno che non sia frutto di tale percorso». Se il percorso di mediazione non si è attivato prima, come sarebbe auspicabile, anche in corso di causa il nuovo rito prevede che il giudice informi le parti della possibilità di avvalersi della mediazione familiare.

                Proprio perché la mediazione familiare è un percorso volontario che può essere proposto e sostenuto dai magistrati, in questi anni si sono andate costruendo buone prassi di collaborazione tra il mondo della giustizia e quello della mediazione quali ad esempio lo Spazio informativo sulla mediazione familiare attivo dal 2018 presso il Tribunale di Milano dove è possibile incontrare mediatori familiari professionisti ogni martedì mattina per un primo momento di orientamento e di informazione. Molto concretamente la riforma prevede che «Il giudice può, in ogni momento, informare le parti della possibilità di avvalersi della mediazione familiare e invitarle a rivolgersi a un mediatore, da loro scelto tra le persone iscritte nell’elenco formato a norma delle disposizioni di attuazione del presente codice, per ricevere informazioni circa le finalità, i contenuti e le modalità del percorso e per valutare se intraprenderlo». (Art. 473-bis.10 c.p.c.). Pur rispettando la libera scelta di intraprendere o meno un percorso di mediazione familiare, il legislatore ha voluto facilitare una scelta consapevole prevedendo che presso ogni Tribunale sia istituito un elenco di mediatori qualificati ai quali le persone potranno rivolgersi per conoscere le caratteristiche di un percorso e decidere consapevolmente se intraprenderlo. Qui, un po’ chiudendo il cerchio rispetto alla scelta fatta con la L. 4/1/2013, si prevede che a potersi iscrivere nell’elenco istituzionale  dei mediatori familiari in possesso di requisiti qualificanti tra i quali l’appartenenza ad un’associazione riconosciuta dal Mimit da almeno 5 anni.

In ultimo, è importante sottolineare l’importanza della formazione iniziale e continua del mediatore familiare. Da oggi la professione del mediatore familiare è riservata in maniera esclusiva a coloro che rientrano nello standard stabilito. È ancora più vero, in altre parole, che per intraprendere questa professione occorre scegliere da subito un percorso formativo di qualità e di durata nel tempo.

Paola Farinacci, mediatrice familiare didatta S.I.Me.F., docente e tutor al Master in mediazione familiare dell’Università Cattolica.                               Avvenire 4 dicembre 2023

www.avvenire.it/famiglia/pagine/via-libera-ai-mediatori-familiarinel-nuovo-process

Essere genitori insieme

Sostenere i genitori, oltre la separazione, per salvaguardare il benessere dei figli, di tutta la famiglia e per tornare a guardare al futuro con fiducia.

                Continuare a essere genitori “insieme” può sembrare un traguardo irraggiungibile per le coppie in fase di separazione o già separate. Feriti, arrabbiati, delusi per la conflittualità o per la fine della relazione  affettiva e sentimentale, i coniugi sono indisponibili a trovare punti di accordo. Tuttavia, seppure faticosa, l’elaborazione di nuove modalità relazionali e di una ritrovata alleanza genitoriale è possibile e, anche grazie a percorsi adeguati come la mediazione familiare o in altri casi la coordinazione genitoriale, riconsegna a tutti i membri della famiglia maggiore serenità e fiducia.

La mediazione familiare. Il mediatore familiare lavora per facilitare la comunicazione e l’interazione delle coppie in un momento delicato, e spesso incandescente, della vita familiare. L’intervento del mediatore è rivolto infatti a coppie che si stanno separando, o che sono già separate, ed è finalizzato a riorganizzare le relazioni familiari in vista di un grande cambiamento, per raggiungere un accordo condiviso che metta al centro i bisogni dei figli e il benessere di tutti i membri della famiglia.

Il punto chiave della mediazione familiare consiste innanzitutto nell’accogliere la sofferenza della coppia e nel cercare di trasformare la crisi e il cambiamento, che una separazione implicano, in una risorsa. Il mediatore familiare aiuta a vedere un futuro quando il conflitto in atto annebbia tutto e si pensa che non ci sia più una speranza di felicità.

Guardare al futuro. Il mediatore è una persona “terza”, imparziale, che cerca di facilitare la comunicazione tra la coppia, aiuta chi si trova nel conflitto “ad andare oltre” e a proiettarsi nel futuro, pensando a come riorganizzare la vita familiare in vista della separazione. A causa dell’ostilità che deriva dal fallimento del proprio matrimonio o della propria relazione, per la coppia è molto difficile tenere viva l’alleanza genitoriale e dare ai figli un’educazione condivisa: la mediazione supporta la coppia di genitori proprio in questa fase di passaggio. Affinché il percorso di mediazione familiare sia efficace è necessaria la convinzione e l’impegno dei genitori, la loro disponibilità a “mettersi in gioco” e “a tenere duro”, una motivazione sincera, autentica e personale, non dettata esclusivamente dall’adesione alla richiesta di giudici o avvocati. Il mediatore ha un atteggiamento accogliente e non giudicante; ascolta i diversi punti di vista e aiuta la coppia a capire, tramite una negoziazione, quale sia la scelta migliore per il benessere dei figli.

Questo sentirsi capiti e accolti da una persona esterna al conflitto aiuta i genitori a stare meglio, a sentirsi supportati e a trovare nuove risorse che permettano loro di pensarsi in un modo diverso e più sereno.

Trovare un equilibrio. Il percorso di mediazione è sempre molto utile quando una coppia si separa, soprattutto se c’è un conflitto che non permette una comunicazione costruttiva per il bene dei figli. Il mediatore aiuta a trovare un nuovo equilibrio, a porre al centro dell’attenzione i bisogni dei figli, spesso messi in ombra dai grandi conflitti tra la coppia. I primi incontri, di “pre-mediazione”, servono proprio per valutare la mediabilità della coppia. Ci sono diversi momenti critici durante il percorso di mediazione, resistenze, paure, passaggi che vanno affrontati e superati. Una delle difficoltà maggiori che i genitori vivono, ed è comprensibile, è “stare” nella stanza della mediazione con chi li ha fatti soffrire. È una prova dura, pesante e di sofferenza attraverso cui passare per giungere, alla conclusione del percorso di mediazione, al raggiungimento di accordi condivisi che riguardano la riorganizzazione della famiglia: il tempo dei figli con ciascun genitore, la comunicazione ai figli della separazione, l’aspetto economico, la condivisione di uno stile educativo. Il percorso di mediazione familiare aiuta le coppie in questo delicato passaggio: costruire la “coppia genitoriale separata” partendo da quella coniugale, che non esiste più.

All’interno degli strumenti di intervento per le coppie separate con figli, si parla da qualche anno anche di Coordinazione genitoriale. È un metodo indicato per i genitori separati o in fase di separazione che vivono un momento di elevata conflittualità. È diversa dalla mediazione familiare in quanto si connota come un intervento molto più normativo e direttivo, applicabile nelle situazioni in cui la coppia non riesce più ad agire in modo lucido le sue competenze genitoriali. In questi casi è il Giudice che può suggerisce la figura del coordinatore che ha anche la facoltà, qualora la coppia non riuscisse, di prendere decisioni in merito ai figli e alla loro gestione.

Il professionista aiuta i genitori, altamente conflittuali, a mettere in pratica la bi-genitorialità e a costruire un nuovo modo di relazionarsi.

La coordinazione genitoriale. La coordinazione genitoriale è un metodo di contenimento del conflitto separativo in alta conflittualità e ha come obbiettivo quello di accompagnare i genitori a prendere delle decisioni di comune accordo per il bene dei figli. Quando i genitori sono in una situazione di conflitto, continuo e costante, spesso perdono di vista i bisogni e il bene dei figli e non riescono più a prendere decisioni funzionali al loro benessere: viene c oè meno la capacità genitoriale che si esprime nel riconoscere i bisogni più autentici dei propri figli e nel prendersene cura.

Contenere il conflitto. La coordinazione genitoriale non mira esclusivamente a risolvere il conflitto, ma ha l’obiettivo di contenerlo. In questo senso, le funzioni principali della coordinazione sono quella valutativa (della situazione, del conflitto e dei bisogni del/i minore/i); quella educativa (cioè la salvaguardia della relazione tra i genitori e i figli, la correzione degli stili genitoriali) e quella di coordinamento (tra gli interventi di rete di cui è il soggetto).

La coordinazione genitoriale ha inoltre la funzione di gestire il conflitto, cioè proporre e sperimentare modelli di co-genitorialità, e quella decisionale, cioè la possibilità da parte del coordinatore di prendere decisioni qualora i genitori, a causa dell’elevata conflittualità, non riescano più a trovare nessun tipo di accordo per i figli.

Rispettare gli accordi. Il coordinatore genitoriale ha sempre la facoltà di dare consigli e suggerimenti; non è neutrale ma imparziale.

Il primo obiettivo è fare in modo che i figli “non stiano più nel conflitto”, per salvaguardare il loro benessere psico-fisico. Secondariamente ha come obiettivo quello di rendere evidente ai genitori una modalità differente di comunicazione e di relazione in funzione dei bisogni dei figli, per riuscire a rispettare gli accordi che regolamentano la riorganizzazione della famiglia separata.

Bigenitorialità. L’ordinamento italiano sancisce il principio della bigenitorialità come previsto dall’art.337 ter cc. Con ciò si intende il diritto del figlio minore “di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con parenti di ciascun ramo genitoriale”.

In Italia non esistono specifiche norme che regolamentano la coordinazione genitoriale. Di solito sono i genitori che, su invito del Giudice, danno incarico a un coordinatore genitoriale. Il Giudice non può infatti coattivamente imporre di intraprendere un percorso di coordinazione genitoriale, in quanto la volontà di entrambi i genitori di partecipare è fondamentale. Tra genitori e coordinatore viene sottoscritto un contratto nel quale vengono fissati gli obiettivi da raggiungere e le regole di comportamento (condotta non aggressiva, prevaricante, assenze, ecc.) a cui i genitori devono attenersi nello svolgimento degli incontri del percorso di coordinazione

Alma Bianchi e Lucia Mella                           consultorio “Istituto La casa” Milano  dicembre 2023

PREBITERI SPOSATI

Riammissione selettiva al ministero di preti dimessi dallo stato clericale

Negli ultimi anni voci più o meno autorizzate all’interno della Chiesa esprimono l’opportunità di ordinare preti uomini sposati in luoghi dove l’accesso all’Eucaristia è difficile. Voci che si sono udite chiare nel Sinodo dell’Amazzonia e in forma lieve nel Sinodo della Sinodalità; tuttavia, abbiamo sbagliato il percorso per chiedere l’inclusione dei preti sposati nella Chiesa latina perché questa possibilità viene generalmente presentata come un’alternativa al celibato obbligatorio.

In questo modo si tende a ritenere che l’ordinazione presbiterale di uomini sposati rappresenterebbe la fine dell’istituzione secolare del celibato perché molti ministri dell’altare, di fronte alla possibilità del matrimonio, abbandonerebbero questa disciplina ecclesiastica che il Magistero della Chiesa indica come fonte di grazie per il popolo di Dio e strumento di santificazione personale per ciascun prete nella sequela di Cristo povero, casto e obbediente.

Allo stesso modo, quando la questione dell’ordinazione di uomini sposati viene presentata come la soluzione per lo scarso numero di vocazioni presbiterali nella Chiesa contemporanea, questo argomento è di senso comune perché in altre latitudini dove il matrimonio dei preti è autorizzato, le vocazioni continuano a diminuire.

Un altro argomento di cui ci si serve è la presunta convenienza dell’ordinazione di uomini sposati come modello di vita cristiana per i matrimoni e le famiglie cristiane, ma non è un argomento definitivo perché i preti sposati oggi non sono esonerati dalle difficoltà e dai problemi della famiglia.

Nonostante i limiti degli argomenti che di volta in volta vengono presentati a favore dell’ordinazione degli uomini sposati, papa Francesco ha affermato in un’intervista, pubblicata su diversi media, che la questione del celibato obbligatorio potrebbe cambiare ad un certo punto della storia, data la sua natura di disciplina ecclesiastica. Ma, contrariamente a questa possibilità che lui stesso riconosce, Francesco si colloca sulla linea del Sinodo del 1971, che, pochi anni dopo la conclusione del Concilio Vaticano II, ha affrontato direttamente la questione ed ha negato la possibilità di un cambiamento nella questione. In questo modo, il recente Magistero mantiene il celibato dei preti di rito latino come segno dei tempi per un mondo dominato, tra l’altro, dal relativismo, dall’edonismo e dall’individualismo.

Infatti, nello spirito del Diritto canonico, un uomo che sente, come gli altri, il richiamo della tentazione mondana, riesce con l’aiuto della grazia e con il suo sforzo personale a indirizzare impulsi naturali al compito dell’evangelizzazione e della salvezza delle anime.

Fin qui tutto combacia perfettamente con la lettera della Tradizione e con il Magistero recente. Da parte loro, alcuni testi della Scrittura vengono trattati, volutamente in maniera selettiva, per proseguire sulla stessa linea. Tuttavia, ed è questo il punto che vorrei proporre alla riflessione, nella pratica sono più o meno frequenti i casi di preti cattolici latini con figli, riconosciuti o meno, e anche con convivenza irregolare con una donna. Di fatto, i casi di concubinato in passato hanno motivato il rafforzamento canonico della disciplina del celibato presbiterale.

In pratica, inoltre, la Chiesa concede ad alcuni preti, dopo un rigoroso processo canonico, la dispensa dal celibato e di conseguenza la dimissione dallo stato clericale che consente al prete dimesso di sposarsi e di organizzare una famiglia in piena comunione con la Chiesa. Questa benevolenza del diritto canonico è un’espressione del potere papale in materia di disciplina ecclesiastica. Il prete è dispensato dal celibato, ma non è dispensato dal carattere presbiterale perché, come dice la Scrittura, i doni di Dio sono irrevocabili. Nel rescritto si avverte il prete dimesso dell’obbligo di assolvere ogni penitente in pericolo di morte. In tal senso, i preti dimessi e sposati esistono nella Chiesa latina da quando è stata stabilita la possibilità della dispensa individuale dal celibato, nella prospettiva dell’ultimo canone dell’attuale Diritto canonico, che afferma “la salvezza delle anime come legge suprema della Chiesa”.

Come prete dimesso e sposato, faccio parte di diversi gruppi di preti cattolici che si trovano nella stessa situazione. Nella maggior parte dei casi, il ritiro dal ministero presbiterale non ha significato per noi rinnegare l’ordinazione presbiterale, la vocazione o la dottrina della Chiesa; ha risposto ad un richiamo di coerenza di vita di fronte all’impossibilità personale di adempiere ai doveri dello stato di vita clericale, secondo quanto disposto dal Codice di Diritto canonico. Alcuni di noi, anche oggi, siamo stati genitori biologici durante l’esercizio del ministero. Paternità che non ha dispensa, perché comporta obblighi del diritto naturale e che non si limita all’atto umano di generare un figlio.

Tenendo conto delle premesse precedenti, concludo che abbiamo sbagliato le argomentazioni nella proposta di una nuova normativa canonica rispetto all’istituto ecclesiastico del celibato presbiterale, perché abbiamo presentato il matrimonio come alternativa al celibato obbligatorio, istituto secolare e ricchezza del Chiesa cattolica. In pratica, sembra che ciò che più preoccupa nella Chiesa non sia il fatto che i preti abbiano figli biologici o si sposino. Infatti, come accennato sopra, nella Chiesa cattolica sono sempre esistiti preti con figli o in concubinato, sebbene costituiscano una piccola minoranza. La soluzione, per evitare lo scandalo, è quasi sempre la rimozione e la nuova incardinazione del prete con l’indefettibile adempimento dei doveri civili di paternità.

L’abbandono del ministero sembra essere l’accusa più grave dei fedeli laici e dei pastori in esercizio nei confronti dei preti dimessi; avere figli naturali o intrattenere relazioni irregolari, per quanto riprovevole, non è ciò che preoccupa concretamente la Chiesa in questa materia. Al riguardo, la dottrina dell’efficacia dei sacramenti “ex opere operato” è unanime.

Allo stesso modo, e contrariamente a quanto si possa pensare, noi preti dimessi, nel sollecitare la grazia della dispensa, non abbiamo voluto rinnegare la grazia e il ministero presbiterale. Molti di noi, infatti, si preoccupano, anche molti anni dopo aver lasciato il ministero, di poter collaborare direttamente come ministri ordinati nell’Evangelizzazione.

Non si tratta allora di modificare le norme ecclesiastiche riguardanti il celibato obbligatorio dei candidati al ministero presbiterale in Occidente, di riformare la disciplina dei seminari, ma di stabilire, se la Chiesa lo ritiene opportuno, come un’eccezione in alcuni casi, la riammissione selettiva al ministero presbiterale di preti dimessi e sposati. Riammissione dei “viri probati” già segnati indelebilmente dal carattere presbiterale. Si tratta del riconoscimento, anche “ad experimentum”, della doppia vocazione al matrimonio e al ministero presbiterale possibile e reale anche nella Chiesa d’Occidente.

Dumar Espinosa “Religión Digital” – www.religiondigital.com – 4 dicembre 2023

www.religiondigital.org/el_blog_de_dumar_espinosa/viri_probati-dispensa-rescripto-curas_casados-celibato_7_2621207854.html

Traduzione a cura di Lorenzo Tommaselli

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202312/231205espinosa.pdf

PRETI

La solitudine dei preti e la solitudine degli uomini

I preti terribilmente soli. Pareri di laici/02

A seguito dell’articolo di Daniele Rocchetti, molti preti hanno risposto. Alcune testimonianze sono state pubblicate. Ma hanno risposto anche alcuni laici. Anche loro pubblichiamo molto volentieri

Caro Daniele, provo a scrivere poche righe sulla riflessione alla quale mi hai invitato. Raccolgo poche idee un po’ di corsa, condizionato da alcune scadenze. Non so se questi pensieri possano avere qualche valore. Non hanno per nulla il senso di un articolo, quanto piuttosto quello di uno scambio con il tono della nostra “amicizia da lontano”.

Il prete è cercato perché serve. Mi pare che sulle questioni di fondo che in specifico definiscono la solitudine del prete nelle nostre comunità, cristiane e umane, abbia detto tu con molta chiarezza nell’articolo introduttivo. Sono in gioco una serie di processi che si riflettono uno nell’altro.

L’aspetto che mi pare decisivo è quello di contesto. Il sacerdozio cattolico è sempre stato segnato, storicamente, da una solitudine impegnativa ed esigente, ma tanto più è tale ora, quella solitudine, in una società sempre più secolarizzata, in cui l’appartenenza religiosa, con le sue pratiche, le sue devozioni, i suoi legami, i suoi racconti, non può più essere presupposta, ma anzi progressivamente sbiadisce e muta.

Difficile sentire l’impegno di una storia comune, quando di comune c’è così poco. È difficile sentire l’amicizia degli altri, il gusto e l’impegno di una storia comune, quando di comune c’è così poco di quello che sta al fondo della propria vita, e quando da condividere c’è qualche pratica svuotata, qualche rito che risuona poco, che non riesce più a convertire, a orientare la vita.

                Spesso il sacerdote vive la distanza, magari l’indifferenza, magari lo scetticismo di chi ha intorno, che appare così estraneo a ciò che ha nel cuore. Si sente cercato per le sue “utilità”, per la supplenza che offre alla famiglia e alla società nel sostegno alle loro fragilità, piuttosto che per la sua spiritualità, per la sua persona, per una ricchezza pastorale capace di curare e accompagnare fraternamente.

Il prete si sente mancare il fiato. L’etica, la testimonianza concreta, è una forma privilegiata della fede, ma progressivamente sembra staccarsi dalla sua origine per lo stesso prete, che rischia di annegare nel fare, nel correre, nel moltiplicarsi per tutto. Si squilibra il rapporto tra l’interno e l’esterno della vita.

È uno sfondo su cui nasce il circolo vizioso che rende la parola sacerdotale sempre più fioca e esteriore, e la comunità sempre più sparuta e disorientata.

                Il prete, soprattutto il parroco, ormai è assediato dalle incombenze, non riesce a coltivarsi, a studiare, a pregare, a preparare omelie, percorsi, catechesi; non riesce a fare comunità con altri confratelli, probabilmente sente ogni tanto mancargli il fiato, mentre cerca di tenere viva la grazia della sua vocazione.

La vita, la sua organizzazione, le sue vertigini. Ho solo ripreso quello che avevi evidenziato tu. Una riflessione sulla solitudine del prete e sulla contestuale trasformazione del cristianesimo nelle società secolarizzate aprirebbe a questioni davvero complesse, che non provo neanche ad affrontare (il ruolo dei laici, il problema della castità, la presenza della donna e l’ipotesi del sacerdozio femminile …). Scelgo però una questione che sento familiare e riguarda un aspetto ancora più di sfondo della cultura del nostro tempo.

                Si insiste sulle competenze più che sulle conoscenze. L’organizzazione della vita è davvero esigente, sembra di vivere un’accelerazione storica, che dà un po’ di vertigine. Nei processi formativi si insiste per questo, credo, sulle competenze, che sostituirebbero le conoscenze: inutile imparare qualcosa che è obsoleto dopo un momento, meglio “imparare a imparare”. Naturalmente bisognerebbe intendersi circa le conoscenze cui si fa riferimento, e circa il senso di un’affermazione del genere, che rischia di togliere alla ragione la condizione della sua umanità, piuttosto che renderla più acuta e efficace.

Anche l’insegnante e il medico. Si esige una cura alla quale si toglie il senso. Senza entrare nel merito del tema, quello che pare evidente è che lo stesso ritmo del vivere, le sue esigenze di organizzazione, le sue forme di comunicazione, incidono profondamente nelle condizioni della cultura e della spiritualità. Per il prete la questione è più radicale, perché è con più evidenza segnato dalla coltivazione spirituale e dalla cura che da essa deve nascere e venire improntata.

Ma non è tanto diverso per un insegnante e per un medico di base, ad esempio, che in forme proprie sono impegnati a loro volta in uno scoraggiante lavoro di supplenza e di affiancamento alle fatiche delle famiglie e della società, rischiando anch’essi di sfibrarsi in compiti organizzativi e funzionalistici sollecitati dalla natura del “sistema burocratico”, trovandosi progressivamente poveri di tempo e di parole un po’ vere da dire a chi hanno di fronte, dimentichi del fuoco sotto la cenere.

                Prete, insegnante, medico sono in un gioco di forze nel quale quasi scompaiono. Sconforta, per professioni così delicate, il confronto con la condizione di lavoro di pochi anni fa. Quanto più pone l’accento sulla personalizzazione dell’insegnamento, ad esempio, tanto più la retorica educativa dell’istituzione appare quasi grottesca. È facile trasporre lo stesso discorso nella parola del medico e del sacerdote, impegnati ognuno nella propria cura elettiva, consegnati a un rapporto di forze in cui quasi scompaiono.

                Ed è anche facile capire che la solitudine di chi dovrebbe curare è la stessa di chi cerca qualche soccorso, di qualunque natura esso sia. Sembra, la nostra, una forma di vita che mentre si impegna a organizzare le condizioni della cura – spirituale, educativa, di prossimità – intanto le toglie il suo senso e il suo spazio. Strano non accorgersene.

Qualche forma di felicità o anche solo di quiete. Eppure. Appunto l’uomo spirituale tiene un po’ a bada la paura che abbiamo tutti, la preoccupazione dell’avvizzimento del cuore. Non si spaventa soltanto della natura scoraggiante ed esteriore dell’organizzare. Dei tempi difficili in cui vivere, che sono stati sempre di tutti gli uomini. Chi riesce a difendere un po’ della grazia originaria della sua vita, della sua scelta, nel suo mestiere tra gli altri, sa che la solitudine e la paura sono anche il frutto di un difetto di prospettiva, perché hanno accompagnato ogni esistenza in ogni tempo.

Non si è esonerati dal decidere, dal resistere a processi disumanizzanti, protestando contro quelle che sembrano rischiose derive; chissà, però, che non si possa farlo, nella resistenza e nella resa, sentendo qualche forma di felicità o per lo meno di quiete, da qualche parte, per la compagnia dello spirito, il proprio e quello degli amici, immaginandone la voce negli altri, in tutti (“gli splendidi e ignari figli di dio”).

Io penso che i preti sappiano che la causa del loro dio non è una chiesa storica, ma la storia, ovunque essa porti le sorti della loro piccola vicenda.

 Giovanni Parimbelli        26 novembre 2023

ttps://labarcaeilmare.it/chiesa-e-religioni/la-solitudine-dei-preti-e-la-solitudine-degli-uomini

Neppure i laici hanno scelto di diventare monaci

Lo smarrimento dei preti diventa smarrimento delle comunità e dei laici. E viceversa.

  • “Sento il bisogno di spazi di confronto e di condivisione e di scelte concrete che scaturiscano dal nostro esserci parlati, chiariti, a volte scontrati in vista di un bene maggiore!”
  • “Non abbiamo scelto di diventare monaci.”
  • “Serve cambiare l’idea di comunità cristiana e di chiesa.”
  • “Serve uno sguardo di realismo per non desiderare una vita che sta solo nel mondo dei sogni.”
  • “Bisogna creare legami e relazioni”.

Nella lettura delle riflessioni fornite dai presbiteri mi colpiscono molto alcune frasi, sopra riportate, perché sono le medesime che circolano tra i medesimi laici che frequentano la chiesa.

I problemi dei preti diventano anche problemi dei laici. Sono osservazioni e richieste che vanno ben oltre il bisogno di avere qualcuno con cui confrontarsi quotidianamente (perchè già avviene in famiglia) e relazionarsi seriamente (come avviene già in gruppi/associazioni). È la richiesta di chi ama la chiesa, ma ne percepisce una continua e lenta distanza da parte (di un numero sempre maggiore) dei presbiteri che la rappresentano nella comunità. Le difficoltà espresse dai presbiteri riescono a loro volta a rendere più faticoso ogni cammino ed espressione del senso e della dimensione spirituale dei (pochi) laici che si interrogano e continuano a camminare e ricercare la Verità.

Ho avuto modo, anche recentemente al Consiglio Pastorale Diocesano, di ascoltare da molti presbiteri che l’educazione e l’espressione della preghiera si esprime essenzialmente nel momento dell’adorazione eucaristica. Senza togliere alcun valore a tale espressione, ritengo che questa possa essere una delle manifestazioni della preghiera, a fronte di un bisogno del laico di trovare soprattutto riscontri, sostegni, accoglienza di sé nella Parola per quanto vive quotidianamente.

“Non abbiamo scelto di diventare monaci” neppure noi laici! In attesa di legami e relazioni reciproche e autentiche. Abbiamo bisogno anche noi di creare legami e relazioni vere con i presbiteri, perché è solo nella condivisione di momenti, esperienze e tempi della quotidianità che è possibile arricchirci reciprocamente, esprimere ttps://labarcaeilmare.it/chiesa-e-religioni/la-solitudine-dei-preti-e-la-solitudine-degli-uominiin concreto il senso spirituale che ci pervade ed attraversa, nella costruzione dell’umano, prima ancora di una comunità generalizzata e uniformata.

Credo che un’apertura, determinata dalla condivisa ricerca di incontri fraterni, possa aiutare tutti a comprendere come anche oggi il Vangelo sia significativo e comprendere, al tempo stesso, il ruolo dei presbiteri dentro attese (altrui), comprensioni (di sé) e scelte da condividere.

Giovanni Colombia           2 dicembre 2023

Uno sguardo da laico sulla questione del burnout dei preti

Carissimi,

    ho seguito con interesse i numerosi interventi sulla solitudine dei sacerdoti: molto interessanti le analisi e le osservazioni esposte. Vorrei qui proporre uno spunto di riflessione per provare a comprendere il tema anche da un ulteriore punto di vista.

La solitudine, secondo molti studi sociologici, è una delle cifre caratteristiche dell’uomo contemporaneo. Non è solo un problema dei sacerdoti – i quali avendo scelto una vita segnata dalla castità e dalla rinuncia a formarsi una famiglia, si trovano sicuramente più esposti all’isolamento – ma della nostra società.

 L’uomo moderno, assillato da ritmi frenetici, da un crescente sradicamento del territorio, da rapporti umani sempre più fluidi e deboli, spinto dalla società dei consumi ad “avere” anziché ad “essere”, chiuso nel suo sterile narcisismo, si trova in una crescente condizione segnata da relazioni povere, aride, effimere, spesso superficiali (ricordo una storiella dove una ragazzina chiede al nonno: “Ma se non avevate Facebook, come facevate a sapere chi erano i vostri amici?”). Purtroppo, questa solitudine ed incomunicabilità può trovare spazio anche nella famiglia dove il dialogo non sempre è all’altezza delle necessità (con arguta ironia, già Anton Cechov ammoniva: “se temete la solitudini, non sposatevi!”)

I dati pubblicati dal Comune di Milano (città dove vivo) non hanno bisogno di commenti: con una popolazione di quasi 1.400.000 abitanti ci sono circa 760.000 nuclei familiari! Più di un terzo delle famiglie residenti è costituito da una sola persona: vedovi, separati o divorziati, immigrati, emarginati, persone che non hanno rapporti stabili (nonostante la nuova legislazione sulle unioni civili e le convivenze). Mai come ora, l’uomo si trova abitualmente in mezzo alla folla, ma sempre più tra gente anonima, sconosciuta, senza volto, senza storia.

 Il sacerdote, in questo contesto, paga certamente un prezzo più alto, ma dobbiamo a mio avviso essere anche consapevoli che, seppure in diverse dimensioni, è un problema che riguarda moltissime persone e che segna il modo stesso di essere della nostra società.

Io credo che oggi la Chiesa, ed in particolare grazie proprio i sacerdoti (ma anche tutti noi), possa offrire molto con il suo messaggio, con la sua azione, con la sua presenza attiva e capillare ad indicare e favorire un modello di vita più autentico, solidale, responsabile.

Un cordiale saluto             Bruno Felice Duina

https://labarcaeilmare.it/chiesa-e-religioni/uno-sguardo-da-co-sulla-questione-del-burnout-dei-preti

Il sogno di una comunità veramente fraterna

Si conclude con questo contributo il lungo confronto sui problemi dei preti visti dai laici. Ci siamo imbattuti in molta lucidità e in altrettanta capacità di capire. Pensiamo che sia un atteggiamento che dovrebbe ritrovarsi nel pensare tutti gli altri, molti problemi che toccano la Chiesa.

Ho incontrato preti disorientati, spaventati. Mi è capitato ultimamente di “perdere” un po’ del mio tempo a scambiare quattro chiacchiere con alcuni preti che conosco bene, forse attratta e preoccupata anche dai loro sguardi, mai visti prima così: alcuni disorientati, altri spaventati, altri ancora … umidi di lacrime. E, tirando troppo frettolosamente le conclusioni, mi sono detta che forse, finalmente, è arrivato il tempo della consapevolezza di una Chiesa affaticata, confusa, impaurita.

Mi sono impegnata a mettermi in ascolto delle loro fatiche. Ma poi ho pensato che stavo sbagliando. Essere frettolosa non era buona cosa nei loro confronti, forse era meglio mettermi intimamente in ascolto delle loro fatiche. I racconti emersi risuonavano più o meno così:

  • non trovo il tempo per fare il prete
  • mi ritrovo tutto, ma proprio tutto sulla mia scrivania problemi da risolvere e che non sono “da prete”…
  • ho cercato di trovare qualcuno che mi capisse, ma anche chi mi ha ascoltato non ha capito niente…
  • parlano di Chiesa in uscita ma le porte sono sempre chiuse, anche quando chiediamo aiuto noi
  • e così via.

Finalmente il prete torna a essere “persona”. Ritorno al mio “finalmente”. Finalmente anche il prete torna a essere “persona”, persona capace di emozionarsi, soffrire, piangere, sentirsi solo e con il coraggio di manifestarlo. Siamo tutti battezzati con la stessa grazia ricevuta in egual misura e con la stessa benedizione Per quanto tempo noi laici cosiddetti “impegnati” a vario titolo e con diverse responsabilità abbiamo considerato i nostri preti come figure intoccabili, da non contraddire? E di conseguenza anche figure a cui non è possibile togliere competenze e responsabilità. Eppure siamo tutti “battezzati e inviati”, certo, con carismi diversi ma pur sempre con gli stessi doni, pertanto con la stessa grazia ricevuta in egual misura e con la stessa benedizione.

Papa Francesco, nella sua immensa umanità e saggezza, il 18 febbraio 2023 consegnava questo messaggio ai partecipanti al Convegno dei presidenti e dei referenti delle Commissioni per il laicato in seno alle Conferenze episcopali: “I fedeli laici non sono “ospiti” nella Chiesa, sono a casa loro, perciò sono chiamati a prendersene cura»…

E io aggiungo, perché no, a prendersi cura anche dei loro preti. Come sarebbe bella una comunità che si prende cura reciprocamente, che sa manifestare le sue fragilità, che ha voglia di crescere proprio a partire dalle fragilità con uno sguardo amorevole.

Un sogno benedetto: crescere insieme alla luce del Vangelo. In Atti 2,42-47 si legge: Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”.

È un testo scritto duemila anni fa, eppure tanto attuale e urgente che ha a che fare con il sogno di Dio per noi. Mi piacerebbe che credessimo nel sogno, quel sogno che vuole benedire, che vuol dire dire bene di tutti, anche dei nostri preti, perché ciò che ci sta a cuore è crescere alla scuola del Vangelo.

                Se noi laici adulti ci impegnassimo anche solo per lasciare il tempo ai preti di “essere preti”. Mi piacerebbe che nelle nostre parrocchie noi laici adulti ci impegnassimo anche solo per lasciare il tempo ai preti di “essere preti”. Mi piacerebbe che anche la gerarchia ecclesiastica con coraggio manifestasse e accogliesse con carità la sua fragilità, la sua umanità, la sua normalità; sarebbe una Chiesa più prossima, spogliata, vicina, accolta, capita, vera, amata.

Romy   5 dicembre 2023

SEGNO DEI TEMPI

Verso un nuovo modello etico

La riflessione teologico-morale vive oggi una stagione difficile. I profondi e rapidi mutamenti intervenuti, negli ultimi decenni in campo scientifico-tecnologico ed economico-sociale presentano aspetti di grande ambivalenza. Se infatti offrono, da un lato, nuove e promettenti chances alla vita dell’uomo, non mancano, dall’altro, di suscitare perplessità e paure per l’affacciarsi di gravi pericoli che mettono seriamente a repentaglio il futuro della specie umana.

                Gli attuali nodi critici. Gli ambiti nei quali si manifestano i “segni” del nuovo che avanza vanno dalla bioetica all’informazione fino alla economia (la new economy) e all’organizzazione sociale. La téchne, per l’incidenza e la pervasività che possiede, non si è limitata a modificare gli aspetti esteriori (e strutturali) della vita, ma ha provocato una vera e propria mutazione antropologica, favorendo lo sviluppo di nuove potenzialità, ma allargando nel contempo la sfera dei condizionamenti e incrementando il rischio dell’alienazione.

Artefici del proprio destino. La possibilità di intervenire in modo sempre più accentuato sui processi della vita e della morte, esercitando su di essi il dominio, conferisce all’uomo un potere di autodeterminazione, che lo sottrae al fatalismo del passato e lo mette in grado di farsi artefice del proprio destino. Ma l’esercizio di tale potere non è esente dal pericolo di abusi: la tentazione prometeica è permanentemente in agguato, e l’esercizio del controllo esige l’acquisizione di una forma di saggezza frutto di una profonda ascesi interiore.

Reale/Virtuale. Analogamente, l’uso di strumenti di comunicazione sempre più sofisticati non si esaurisce nella moltiplicazione delle informazioni, con la conoscenza, in tempo reale, di situazioni geograficamente lontane (e in passato irraggiungibili), ma modifica profondamente la coscienza, determinando la sostituzione della realtà con il “virtuale”  – Jean Baudrillard(*1929-†2007) sosteneva essere questo il “delitto perfetto” che oggi si consuma – e atrofizzando i linguaggi simbolici sui quali si costruiscono le relazioni interumane e con la natura, a favore dei linguaggi logico-matematici, destituiti di qualsiasi valenza relazionale.

Capitalismo selvaggio. Infine (ma non ultimo in ordine di importanza) il capitalismo selvaggio, che ha preso il sopravvento dopo la caduta dei sistemi ad economia pianificata dei paesi del socialismo reale, si è trasformato in una vera e propria ideologia – il cosiddetto “pensiero unico” – i cui paradigmi sono l’utile produttivo e il consumo e dalla quale è pertanto assente ogni riferimento alla questione del senso.

                L’etica si trova pertanto a dover fronteggiare una situazione paradossale: da un lato è, infatti, evidente la necessità di ricorrere ad essa per sciogliere nodi critici di grande rilevanza per il corretto sviluppo della vita umana – il giudizio sui processi manipolativi in atto non solo a livello biologico ma anche personale e relazionale è assolutamente urgente –; dall’altro, la radicalità di alcuni fenomeni segnalati – l’egemonia della tecnica, la caduta dei linguaggi simbolici e l’affermarsi di una concezione utilitarista e mercantile della vita – sembra vanificare la possibilità stessa di evocarla: laddove vengono meno tali presupposti non vi è più spazio per l’etica.

                D’altra parte, le possibilità di promozione umana offerte oggi dalla tecnica, sia nel campo biomedico che in quello dell’informazione, rappresentano un vero “segno dei tempi”: è sufficiente ricordare qui la sconfitta di malattie fino a ieri letali o lo scambio tra culture diverse e, in senso più ampio, il diffondersi di una visione universalistica della realtà come conseguenza della situazione di interdipendenza tra i popoli determinata dalla globalizzazione. Il doveroso discernimento che la morale cristiana è chiamata a fare deve soprattutto preoccuparsi di accogliere gli stimoli che vengono dai mutamenti in corso e di indirizzarli positivamente verso la promozione umana.

                La storicità dell’esperienza morale. Per affrontare le questioni segnalate la teologia morale si è impegnata, nei decenni immediatamente successivi la celebrazione del Concilio, in un serio rinnovamento metodologico. Il ricupero della fondazione biblica ha segnato il passaggio da una prospettiva negativa – al centro della manualistica tradizionale vi era il catalogo dettagliato dei peccati – ad una prospettiva positiva, incentrata sull’ideale di perfezione evangelica.

Ma l’aspetto più interessante – vero “segno dei tempi” – conseguenza immediata della presa di coscienza della storicità dell’esperienza morale è costituito dall’adozione di un nuovo modello etico; un modello teleologico, che sostituisce quello rigidamente deontologico del passato e offre, per la sua duttilità, la possibilità di un approccio molto più articolato alle diverse e complesse questioni oggi emergenti. Si tratta di un modello per il quale non si dà a priori un giudizio sulle azioni, partendo dal presupposto che sussistono azioni che non devono mai essere poste in atto “accada quello che può”, ma si valuta, di volta in volta, la positività o meno di ogni azione basandosi sulle conseguenze che da essa scaturiscono (consequenzialismo) o istituendo il rapporto tra il fine che attraverso l’azione si persegue (teleologico viene da tèlos che significa fine) e il mezzo adottato per perseguirlo (proporzionalismo).

                Un’accusa inconsistente. L’accusa che spesso viene avanzata all’utilizzo di questo modello è che con esso si incorre nel pericolo del relativismo o in una visione utilitarista dell’etica. Ma si tratta di un’accusa inconsistente. La valutazione delle conseguenze positive e/o negative dell’azione presuppone infatti, per essere adeguatamente messa in atto, il riferimento a un quadro di valori correttamente gerarchizzati; mentre, d’altra parte la bontà del fine non giustifica l’utilizzo di qualsiasi mezzo per raggiungerlo, possedendo quest’ultimo uno spessore morale che va tenuto in considerazione.

La sfida che la morale cristiana deve oggi fronteggiare è assai ardua. Esige l’abbandono della paura e il coraggio di osare (la paressìa), dando ragione di una speranza che va oltre le attese umane. Esige un nuovo slancio creativo, che consenta di ricuperare lo spirito del Concilio per dare un contributo essenziale alla  umanizzazione del mondo.

Giannino Piana

www.viandanti.org/website/segni-dei-tempi-verso-un-nuovo-modello-etico

Enrico Chiavacci in memoriam

Il 25 agosto 2013 a Ruffignano moriva don Enrico Chiavacci  (Siena, 1926), insigne studioso di teologia morale. A un mese dalla sua scomparsa lo ricordiamo, grati per il suo insegnamento, con questo articolo di Giannino Piana. (settembre 2013)

Cresciuto nel crogiolo della chiesa fiorentina, che ha vissuto nell’immediato dopoguerra una stagione di intenso fervore intellettuale e spirituale, Enrico Chiavacci è stato un maestro indiscusso nel campo della teologia morale postconciliare, dove ha lasciato, con il suo insegnamento e con il suo impegno nella ricerca, una traccia profonda e altamente innovativa.

Parola di Dio ed esperienza umana. I fermenti suscitati dal Vaticano II sono stati recepiti da lui con entusiasmo – è sufficiente richiamare qui il suo grande interesse per la “Gaudium et spes” alla quale ha dedicato nel 1967 uno dei primi commenti – e tradotti in uno sforzo di rinnovamento che si è sviluppato nei vari campi della riflessione etica, con particolare attenzione alle questioni di frontiera.

Impegnato già prima della celebrazione del Concilio a ricostruire le basi teologiche del messaggio morale cristiano, Chiavacci ha anzitutto apprezzato l’affermarsi, nella svolta conciliare, di una metodologia innovativa con la quale affrontare le diverse questioni etiche, in particolare quelle delicate e complesse sollevate sia dagli sviluppi della ricerca scientifico-tecnologica che dall’avanzare della tematica dei diritti soggettivi. Parola di Dio ed esperienza umana – i due cespiti richiamati dalla Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – sono diventati per lui, nella loro stretta correlazione, il riferimento obbligato di una riflessione rigorosa, che ha spaziato dall’ambito della morale fondamentale e generale a quello della morale speciale.

Rinnovamento metodologico. L’apporto di Chiavacci al rinnovamento della teologia morale va infatti, in primo luogo, ricercato sul terreno metodologico. La preoccupazione che ha sollecitato, fin dall’inizio, la sua ricerca è stata quella di ridare dignità a una disciplina che era ridotta a “scienza pratico-pratica” ad uso dei confessori, cioè a strumento funzionale all’amministrazione del sacramento della Penitenza secondo le regole fissate dal Tridentino. Al di là di una seria fondazione biblica mai trascurata, Chiavacci si è soprattutto impegnato a conferire solide basi teoretiche all’etica teologica, attraverso l’utilizzo di categorie filosofiche capaci di ridarle – come auspicava il Concilio (cfr.”Optatam totius”, n. 16) – credibilità scientifica, favorendo una positiva mediazione tra vangelo e cultura. Lo testimoniano in particolare alcuni saggi dedicati a questioni squisitamente teoretiche, quali la legge naturale, la fondazione della norma morale, la distinzione tra argomentazione deontologica e argomentazione teleologica, l’autonomia della morale, ecc.

L’interazione della morale con le scienze umane. L’assegnazione di centralità alla mediazione filosofica non ha impedito, d’altra parte, a Chiavacci di considerare con attenzione anche l’apporto di altre fonti. Non solo della Bibbia, cui si è già accennato, e della successiva tradizione della Chiesa, che egli dimostra di conoscere in maniera dettagliata e da cui riprende soprattutto l’istanza di aderenza alla concretezza delle situazioni presente nella casistica, ma anche delle scienze umane, in particolare della sociologia e dell’antropologia culturale, alle quali faceva frequentemente ricorso per spiegare fenomeni umani complessi, che esigono di essere anzitutto analizzati nelle loro dinamiche interne prima di poterli assoggettare al giudizio morale.

Un metodo dunque, quello di Chiavacci, che risponde pienamente alle indicazioni di rinnovamento suggerite dal Vaticano II e che ha determinato uno sviluppo significativo della teologia morale; sviluppo che oltre a restituirle autorevolezza, l’ha messa in grado di interagire positivamente non solo con le altre discipline teologiche, ma anche con il più vasto campo della cultura e della scienza, abilitandola a fornire una forma di discernimento assolutamente indispensabile per orientare in senso umanizzante i processi di trasformazione in atto nella società del nostro tempo.

L’importanza del contesto socioculturale. Ma, al di là di questa importante opera di rifondazione metodologica, gli aspetti della ricerca di Chiavacci, che meritano soprattutto di essere ricordati, sono i contenuti della sua proposta teologico-morale, che ha come asse portante la dimensione sociale dell’agire umano. La piena adesione a una concezione antropologica, peraltro presente in diverse correnti del pensiero moderno, per la quale la socialità non è qualcosa di accidentale o di sopraggiunto ma appartiene in maniera costitutiva alla natura del soggetto umano, lo ha spinto a criticare duramente la deriva individualistica che ha caratterizzato l’etica della modernità (non esclusa quella cattolica) e a suggerire le piste da percorrere per il suo superamento.

Uno degli aspetti più originali dell’opera di rinnovamento da lui intrapresa è costituito a tale proposito dall’inserimento del “sociale” nell’ambito della stessa morale generale. Egli ha infatti intuito con chiarezza che le categorie tradizionali che stanno alla base dell’impianto dell’etica erano andate soggette a un processo di privatizzazione che le rendeva incapaci di fare spazio, se lasciate a sé stesse, alla valenza sociale della moralità. Di qui il tentativo di accostare ad esse altre categorie – quelle del “sociale” e della “cultura” in particolare – destinate ad allargare l’orizzonte dell’esperienza etica, situandola nel contesto di precise condizioni socioculturali, che costituiscono un referente imprescindibile per l’esercizio della responsabilità personale e collettiva.

Pace, economia, sessualità, bioetica. L’attenzione al sociale non si arresta tuttavia qui. Chiavacci ha dedicato gran parte del suo impegno di teologo ad occuparsi dei grandi nodi critici della situazione mondiale – dal lavoro all’economia, dalla politica alla giustizia sociale, dall’innovazione tecnologica ai diritti umani, fino alla costruzione della pace – con prese di posizione nette e decise che gli hanno provocato difficoltà di non poco conto da parte della gerarchia ecclesiastica. Sono note le sue critiche radicali all’idea della massimizzazione del profitto e la sua rigorosa (e profetica) denuncia di immoralità di un sistema finanziario, che favorisce facili guadagni dovuti a giochi speculativi come quelli della Borsa; come è nota la sua severa denuncia dell’immoralità di ogni forma di guerra e l’adesione a un pacifismo radicale, quello della Pacem in terris, di cui non si è mai stancato di diffondere il messaggio.

Altri (e numerosi) sono, ovviamente, i contributi da lui offerti nei vari ambiti della riflessione morale. Basti qui ricordare i settori dell’etica sessuale e della bioetica, dove, al di là delle soluzioni tecniche, a contare come criteri irrinunciabili erano per lui il rispetto della dignità della persona e la salvaguardia della libertà della coscienza, nonché il riconoscimento dei diritti di ogni soggetto umano, senza alcuna distinzione. È significativo che il suo ultimo intervento sulla Rivista di teologia morale abbia come oggetto la questione omosessuale, e che in esso Chiavacci evidenzi il venir meno delle argomentazioni tradizionali e l’esigenza di ricercare nuove chiavi interpretative e valutative del fenomeno (Omosessualità, un tema da ristudiare, n. 167/2010, pp. 469-477).

Pastore in una piccola comunità. Dignità della persona e libertà di coscienza, che sono i pilastri sui quali poggia l’intera sua produzione, hanno senz’altro ricevuto una forte motivazione esistenziale dal suo impegno di pastore della piccola comunità di San Silvestro a Ruffignano sulla collina sopra Firenze nel comune di Sesto Fiorentino. Da questo rapporto diuturno con una comunità vera (anche se piccola), Chiavacci è stato sollecitato – lo ricordava spesso parlando con gli amici – a condividere i problemi della gente, che sono poi i veri problemi della vita. Anche da questa condivisione viene (forse) la fecondità e la coerenza della sua ricerca teologica.

Giannino Piana, già docente di etica cristiana alla Libera Università di Urbino e di etica ed economia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Socio fondatore di Viandanti.

www.viandanti.org/website/enrico-chiavacci-in-memoriam

[Era anche consulente etico del consultorio UCIPEM di Firenze e relatore al Congresso nazione a Roma nel 1989). Da buon toscano amavo le battute quesito morale: è lecito pregare mentre si fuma? E fumare quando si prega?]

Progetto di Dio nella storia

Tutto ciò che è istituzione, fosse pure ecclesiastica, è morte se è presa come fine a sé stessa. Il cristiano sa che la compiutezza del Regno – il vero bene comune dell’umanità – è sempre al di là dell’esistente.

Una creazione che continua: la storia come storia di Dio

Il rapporto fra Dio e storia è molto più complesso di quanto possa a prima vista apparire: esso va considerato entro il quadro più generale del rapporto del Creatore con il creato visto come un tutt’uno (cf. Rm 8). L’universo che noi possiamo percepire e su cui possiamo ragionare è sempre quello che sussiste entro le coordinate spazio-tempo (nulla possiamo dire dei puri spiriti). Il creato – inteso in questo senso – non è una somma di enti creati una volta per tutte e che mantengono inalterate le loro caratteristiche costitutive: esso è da considerarsi, per quanto di meglio oggi possiamo sapere, un processo continuo interattivo. Un divenire continuo (con salti di discontinuità) in cui enti o forze diverse interagiscono fra di loro. In questa visione, che oggi è l’unica scientificamente pensabile, Dio è allo stesso tempo il totalmente altro e il totalmente presente: è infantile pensare a un Dio che a un certo momento crea e poi smette di creare. In Dio, non vi sono un prima e un poi, perché anche il tempo, come lo spazio, è creato. Dio è il totalmente altro, in quanto non è concepibile entro coordinate di spazio e di tempo: occorre ricordarci che il nome di Dio è “io sono”, senza alcuna possibilità di predicato. Ma proprio per questo il Creatore è presente a ogni momento del divenire dell’universo.

Il divenire dell’universo appare oggi fondamentalmente casuale: ciò vale per il divenire cosmico (micro e macrocosmo). Si ritiene oggi che vi siano alcune leggi e alcune costanti che restano invarianti (come la velocità della luce), ma su questo non vi è alcuna certezza (non posso qui discutere questo problema). In ogni caso, ciò non sembra alterare la casualità degli eventi interattivi. Ma ciò vale anche per il divenire della vita in tutte le sue forme. e per noi sul pianeta terra vale per il divenire delle specie viventi. L’evoluzione delle specie, comunque la si voglia pensare, è un dato che sembra sicuro. Si può discutere sulle modalità del divenire delle specie, non sul fatto che ogni specie vivente è in divenire. E tale è anche la specie umana (ricordiamo che fino a 30.O0O anni or sono vi era in Europa l’uomo di Neanderthal, capace di pensiero astratto e di comunicazione: esso è rapidamente scomparso, dominato da un’altra variante della specie umana. Variante che siamo noi). La specie umana presenta, però, una caratteristica unica nell’universo a noi conosciuto. Essa interagisce ovviamente con il resto dell’universo: ne è modificata e Io modifica. Ma è capace di autocomprensione, di porre perciò fini al proprio comportamento che siano coerenti con la coscienza di sé e della propria esistenza. E con ciò è capace di scelte fra possibilità diverse di interazione, e in particolare di interazione diretta o indiretta verso i propri simili. È questo – io credo – l’atto di nascita della vita morale. Il rapporto bidirezionale con l’altro e con gli altri membri della specie umana, rapporto in continuo fluire, è la storia: la storia come succedersi continuo (e discontinuo) di modificazioni nei rapporti interumani. Se Dio è sempre presente e operante nella creazione, allora la storia è sempre da vedersi come storia di Dio. La libertà di autodeterminazione è volontà di Dio. La presenza di Dio nella coscienza (anche dell’ateo o dell’agnostico) si presenta perciò come chiamata a scegliere su sé stessi, a darsi un senso per il proprio esistere e coesistere nella famiglia umana e anche nel cosmo (tenere presente la tendenza irreversibile di esplorazione – e quindi modificazione – dello spazio extraterrestre).

La rivelazione di Dio. Nella rivelazione divina, fin dalla prima pagina, Dio – l’Eterno, l’Assoluto – si pone in relazione con l’uomo (Mensch = maschio e femmina). Il suo modo di rapportarsi con l’uomo è in sé stesso il modo assoluto, il modello di vita di relazione. Una sapienza eterna che chiede di divenire la nostra sapienza (e non vi è altra sapienza assoluta a cui agganciare le nostre scelte). Ma questa sapienza eterna è recepibile dall’uomo solo entro il quadro spazio-temporale. L’uomo, fin dai primordi della sua presenza nel cosmo, ha sempre percepito l’Eterno sia attraverso fenomeni naturali incomprensibili sia attraverso lo studio degli astri o dei vari tipi di segnali (astrologia indistinta dall’astronomia, negromanzia, il tirare le sorti, ecc.) Si noti nella Bibbia la condanna della negromanzia (cananea) o dell’astrologia (babilonese). Ma del resto la separazione fra medicina e magia a livello scientifico ha pochi secoli di vita (e a livello popolare è spesso ancora assente).

Nell’Antico Testamento, Dio si rivela nel divenire storico del popolo eletto. È evidente un cammino di comprensione sempre più profonda (prescindiamo qui dal problema delle date di redazione del testo, quale lo abbiamo oggi). Dio si mostra sempre buono e paziente con tutti, anche con i più gravi peccati personali (Caino) o collettivi (il vitello d’oro). Fondamentalmente, tutta l’esperienza religiosa di Israele è legata alla liberazione dalla schiavitù egiziana, al dramma dell’esodo, al dono della terra. La storia è letta sempre come storia di Dio che premia o punisce l’adesione o il distacco dalla chiamata. Verso il 600 a.C. (al tempo di Giosia) emerge con i testi del deuteronomista il concetto di libertà, di coscienza (cuore) come costante presenza nell’animo della chiamata di Dio di responsabilità personale. Ogni uomo (nel caso: ogni israelita) ha la sua responsabilità nella storia di Dio. Ma Dio è sempre fuori della possibilità di comprensione concettuale e di espressione umana. Dio ha un nome che non sopporta alcun attributo o predicato, né è in alcun modo raffigurabile o descrivibile. Ogni possibile raffigurazione o concettualizzazione umana è sempre – e non può che essere – antropomorfa, inadeguata. Dio nell’Antico Testamento si può afferrare per due vie: la propria coscienza e il suo agire nella storia (e perciò attraverso gli eventi del singolo o del popolo: si pensi all’esilio babilonese, alla missione liberatrice di Ciro, all’inscrutabilità di Dio per il giusto Giobbe, alla missione dei profeti di “leggere” gli eventi e la storia).

Con l’incarnazione del Verbo, si ha un salto di qualità di indicibile potenza: io conosco Dio in una vita umana perfetta. Ogni parola, ogni gesto, tutto lo stile di vita del Signore è rivelazione dell’Eterno e della sua chiamata. Nel Vangelo non vi è alcuna speculazione filosofica o, comunque, alcuna spiegazione razionale: l’Eterno non si spiega, ma si pone davanti a noi come chiamata. La riflessione umana è invece presente negli altri testi neotestamentari, ma già in essi si presenta in schemi mentali (e filosofici) diversi per epoche, destinatari, formazione dell’Autore sacro. E anche questo è rivelazione: il compito di tradurre in contesti storici e culturali diversi la Parola che non passa. Con Gesù Cristo, l’annuncio e la chiamata a vivere nella storia esce dai confini del popolo eletto e della sua storia per aprirsi – e offrirsi – a tutte le creature, a tutte le genti, come paradigma assoluto per tutte le relazioni interumane (e anche per le relazioni uomo-cosmo in Rm 8). La comunità dei credenti in Cristo come tale, ogni singolo cristiano, ma anche ogni essere umano, sono chiamati a inserirsi attivamente nella storia della famiglia umana. È chiaro che, in epoche e luoghi diversi, la percezione di tale corresponsabilità non si è potuta estendere oltre le aree note della famiglia umana, e oltre i confini in cui vi poteva essere consapevolezza di un impatto significativo del proprio agire sugli altri esseri o gruppi umani. Le complesse divisioni politiche, e segnatamente la rigida distinzione di confini e di interessi nata con lo stato sovrano, hanno portato a concepire e identificare la propria (di singoli e di gruppi) responsabilità storica come responsabilità verso il proprio stato. Tutta la dottrina sociale della Chiesa, nelle encicliche sociali fino alla “Pacem in terris”, è vista come dottrina per la convivenza all’interno dello stato. Il concetto fondamentale di “bene comune” è legato alla prosperitas publica dello stato e ai diritti e doveri dei suoi membri. Vi sono stati momenti particolari e grandi teologi che hanno visto più lontano (s. Agostino, s. Tommaso, Francisco Vitoria: esempi di tre epoche e situazioni storiche completamente diverse), ma questo non ha inciso in modo duraturo sull’approccio della Chiesa alla storia. Irrigidimenti sociali, culturali, politici hanno fatto della storia uno spazio – una durata temporale – di tragedie per la famiglia umana, e questo avviene ancora oggi.

E anche la Chiesa al suo interno – dispiace ma è doveroso dirlo – è stata spesso complice o parte attiva in questi irrigidimenti e nelle conseguenti tragedie. Ma nella divina Rivelazione non vi è traccia di tali limitazioni. Quello che abbiamo chiamato sopra “paradigma assoluto per tutte le relazioni interumane” impone ben altra visione della storia. Vi è un progetto di Dio sulla storia della famiglia umana, il mistero nascosto nei secoli, rivelato in Cristo, tale che i potenti della terra non possono conoscerlo: ne parleremo fra poco, ma conviene rilevare qui la forza dirompente dell’enciclica “Pacem in terris”, con gli sviluppi offerti dalla “Gaudium et spes”. Con questi documenti si è operata – e si dovrebbe attuare – una rivoluzione profonda della riflessione cristiana sul sociale.

Le categorie del Regno e della pace. Siamo abituati, da molti secoli, a vedere la salvezza portata da Cristo esclusivamente come fatto privato, come perdono dei peccati di ciascun singolo cristiano. Tutto è avvenuto per la salvezza delle anime. L’avventura storica della famiglia umana, e cioè il cammino verso la perfezione dei rapporti interpersonali a livello planetario, è rimasta estranea agli interessi della Chiesa, nella teologia come nella spiritualità e nella pastorale. Ancora oggi le opere della carità verso i miseri e i deboli sono viste come “opere buone” da fare per salvarsi l’anima. L’idea che la storia ha un traguardo, che il costante processo interattivo sempre all’opera all’interno della famiglia umana è parte del disegno creatore affidato alla libera accettazione della chiamata di Dio per le sue creature, che tale disegno e tale traguardo sono la perfezione della convivenza dell’intera famiglia umana in una logica di puro dono di sé all’altro, di attenzione verso l’altro al di là di ogni umana e transitoria distinzione di lingua, popolo, nazione e razza, è un’idea ancora estranea a gran parte della Chiesa, ivi compresi eminenti pastori e teologi. Occorre comprendere che ogni essere umano è chiamato a essere, per sua libera scelta morale con creatore o – più precisamente – interprete del disegno del Creatore, di un Creatore sempre presente e operante nella storia. Etica sociale ed etica generale si fondono nella bella espressione conciliare “portare frutto nella carità per la vita del mondo”. Il concetto di bene comune non può avere altro senso che quello di “bene comune della famiglia umana”.

L’attuale possibilità di comunicazione, movimento, scambio all’interno dell’intera famiglia umana, introdotta dalle nuove tecnologie, deve esser vista come un evento storico radicalmente nuovo: esso potrebbe davvero consentire di fare dell’umanità una reale famiglia, in cui condivisione, dialogo, attenzione reciproca siano la realtà del tessuto della convivenza umana. Quello che oggi si dice, approssimativamente, globalizzazione è una realtà tecnica irreversibile offerta alla famiglia umana per sentirsi ed essere veramente tale. Il fatto che gli strumenti tecnici siano quasi interamente controllati e asserviti da interessi privati, e quindi per principio senza alcuna finalità di bene comune, costituisce un impegno severissimo per modificare tale disastrosa situazione. Proprio gli strumenti tecnici di una globalizzazione perversa possono divenire gli strumenti dell’impegno cristiano e umano per il bene comune della famiglia umana. Un altro mondo è possibile.

La riflessione etico-sociale cristiana ha troppo spesso dimenticato i due grandi temi evangelici del Regno e della pace. Ma solo all’interno di questi temi acquista spessore teologico e salvifico il tema della storia. Non è possibile fare in questa sede un’esposizione biblica e occorre limitarci a un breve cenno schematico.

Il Regno. Il Regno è la famiglia umana intera, destinataria dell’annuncio di salvezza. Il Regno è un cammino storico: esso è destinato a svilupparsi nel tempo; il vero manifesto del Regno sono le beatitudini, che ne indicano la strada e il traguardo. Il re è Cristo, Verbo di Dio da cui tutto il creato deriva e a cui deve – pacificato nella carità – ritornare. Si deve notare, ma raramente lo si fa, che il cammino storico del Regno è strettamente legato al cammino della creazione e all’evento della croce: morte e risurrezione. Ricordiamo solo, fra i tanti testi neotestamentari, i due passi quasi paralleli di Efesini e Colossesi: Cristo è la nostra pace: non solo, e neppure in primo luogo, la nostra privata pace del cuore, ma la riconciliazione di tutti gli esseri, in cielo e sulla terra, “pacificati dai sangue della sua croce“. In Cristo, nel Verbo incarnato da cui tutto il creato procede, tutto il creato – e in primo luogo la famiglia umana – deve esser “ricapitolato”. Il traguardo della storia è Cristo che riconsegna al Padre l’universo pacificato. La Chiesa non è il Regno, e neppure la fase terrena del Regno: essa è solo la serva dell’umanità, lievito, segno, sacramento del trasformarsi graduale della famiglia umana in famiglia di Dio. Ed è – e deve essere questa – la visione cristiana della storia, la comprensione del progetto del Creatore. Solo in questo quadro mentale e spirituale si può afferrare la valenza teologica del concetto di bene comune.

La pace. La pace è la logica di convivenza del Regno: una famiglia umana che sia immagine della perfetta comunione di dono fra le tre divine persone. Il tema della pace ha un’importanza enorme, per ricchezza e densità dei testi, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Ma è stato ignorato come categoria teologica per lunghi secoli. Solo negli anni ’60 del secolo scorso riappare una teologia della pace. Dobbiamo qui rinviare a opere specializzate, che oggi non mancano. È qui da rilevare come la pace, nella visione della “Pacem in Terris”, sia l’attuazione dell’ordine voluto da Dio per la sua creazione. Ma essa è – e non può essere che – il cammino stesso della storia. Fraternità, condivisione, attenzione alla dignità e ai bisogni di ogni membro della famiglia umana costituiscono il progressivo attuarsi (con il continuo impegno della Chiesa) del disegno di Dio sulla storia. La ricerca della pace non avrà mai fine fino all’ultimo giorno: la “vera et nobilissima pacis ratio” (Gaudium et spes 77) è rendere più umana la vita di ogni essere umano ovunque sulla faccia della terra. La rapida evoluzione degli strumenti della convivenza da un lato, e la costante presenza del peccato – del potere delle tenebre (Gaudium et spes 37) – rendono necessario un impegno costante. Un impegno non solo contro la guerra ma contro ogni forma di dominio, di ingiustizia, di violazione dei fondamentali diritti dell’uomo. Il mondo – la famiglia umana – è chiamato a essere uno “spatium veræ fraternitatis” (Gaudium et spes 37). “In hanc pugnam insertus” (Gaudium et spes 37) deve essere il cristiano. Ogni cristiano in ogni momento storico.

La storia della famiglia umana verso la pienezza del Regno: i segni dei tempi. La storia della famiglia umana dunque, come disegno misterioso del Creatore, come cammino verso la pienezza del Regno come parte essenziale dell’evento cosmico sempre segnato – in positivo e in negativo – dalle libere scelte dell’uomo, ma anche sempre segnato dalla forza pacificatrice della Croce, è il luogo in cui il cristiano e la Chiesa devono vivere la loro fede. Non vi è fede senza impegno nella storia.

La storia è un continuo fluire di strutture e modi di convivenza. E anche, di fronte al disegno di Dio, un succedersi di vittorie e di sconfitte. Il libro dell’Apocalisse è veramente profetico: ci presenta un succedersi di momentanei trionfi della bestia e di vittorie di Dio fino alla vittoria finale e al traguardo della Gerusalemme celeste, la città della pace dove non vi è tempio, perché il tempio – il luogo della presenza di Dio – è la comunità stessa. “Io sarò il “Dio con loro”“. Ma noi siamo chiamati a vivere e a impegnarci in questo preciso momento storico, in un momento oscuro per la convivenza umana. Conviene qui accennare alla grandezza profetica della “Pacem in terris”. Ogni momento storico presenta una sfida nuova e pertanto la lettura dei “segni dei tempi” – degli eventi, delle esigenze, delle aspirazioni degli uomini del nostro preciso tempo – è stretto dovere per il cristiano. La dottrina dei segni dei tempi fu proprio enunciata dall’enciclica e mise in crisi tutta la tradizionale visione della Chiesa e dei suoi compiti maturata negli ultimi secoli. La Chiesa e il cristiano devono sforzarsi di leggere questi segni se vogliono comprendere la propria chiamata in ciascun momento della storia: i segni della “presentia vel consilium Dei” (Gaudium et spes 11) per noi, qui, oggi. Lo stesso Spirito che ci ha rivelato l’Eterno nella Scrittura ci può rivelare la nostra chiamata attraverso la lettura attenta e amorosa dell’oggi storico della famiglia umana. C’è da domandarsi quale teologia morale possa aver senso se priva di tale passione per l’avventura della famiglia umana,

Ma la Pacem in terris presenta un’altra dottrina relativamente nuova: è la prima enciclica indirizzata non solo ai cristiani, ma a tutti “gli uomini di buona volontà“. Tutta l’ultima e lunga parte del documento è dedicata alla lode di tanti non credenti o non cristiani che pure si sono impegnati e si impegnano per la pace: da notare che la traduzione italiana indebolisce di molto (e io ritengo deliberatamente) tale lode. Ciò è avvenuto anche per il celebre testo della condanna della guerra alla fine della terza parte. Forse troppo nuovo era il vecchio (ormai morente) Giovanni XXIII per gli onesti traduttori. La lode di questi nobili uomini, e il dovere di collaborare con loro per il bene comune della famiglia umana, ha una sua precisa base teologica, ed è ampiamente ripresa dalla Gaudium et spes (si vedano in specie i nn. 77 e 92). La presenza costante del totalmente altro a tutte le sue creature è per gli esseri umani una chiamata. Tale chiamata all’impegno per la pace è nella coscienza di tutti gli uomini, e non solo dei cristiani credenti. In questo tragico momento storico è assolutamente necessaria la collaborazione di tutti gli uomini di pace: pertanto con essi “ad ædificandum mundum in vera pace cooperari possumus et debemus” (Gaudium et spes 92).

Quando un Concilio ecumenico ci dice “possumus et debemus” non ci lascia molto spazio di discussione. Invece troppe volte avviene che, di fronte a movimenti, forum, seminari di studio, manifestazioni di origine non dichiaratamente cristiana, i buoni cristiani con i loro pastori si affrettino a farne altri, a essi paralleli e riservati ai cristiani doc. Non è, questa, una boutade non degna della serietà del nostro argomento. E invece la strana idea comune a molti cristiani, ecclesiastici e laici, che solo la Chiesa possa fare la storia: idea opposta e simmetrica a quella di una Chiesa non coinvolta nella storia. Da un lato, una Chiesa il cui compito è salvare le anime nonostante la storia (o dalla storia); dall’altro, una Chiesa che cerca di imporsi nella storia attraverso partiti o poteri politici “cattolici” (ricordiamo la dottrina della potestas indirecta in temporalibus, invalsa verso il XVI secolo al crollo della potestas directa esercitata o pretesa – più o meno intensamente – fin dall’epoca costantiniana). La storia nel suo divenire continuo è parte del continuo divenire del creato, e Dio creatore e salvatore opera attraverso il cuore dell’uomo, che egli se ne renda conto o no: Gaudium et spes, n. 92 parla di dialogo e cooperazione con coloro che hanno il culto degli alti valori presenti nel cuore dell’uomo anche se egli non ne riconosce l’Autore.

La Chiesa è serva dell’umanità e della sua storia, e deve in ogni tempo sapere cogliere la voce dello Spirito che soffia come e dove vuole. Oggi, nei tristi tempi che viviamo, nuove sensibilità e nuovo coraggio emergono in uomini di diverse culture, diverse religioni, atei o agnostici: sensibilità e coraggio per il bene comune della famiglia umana. Sono voci e movimenti diversi, che colgono questo o quell’aspetto della tragedia della famiglia umana, sotto diverse angolazioni filosofiche, religiose, scientifiche. Ma che convergono tutte nell’affermare l’importanza dell’altro essere umano, il primato della misericordia sulla vendetta, il primato della pace su ogni forma di guerra. E sono voci nascenti in nazioni diverse, ma che tutte guardano alla famiglia umana di oggi e di domani (i movimenti ecologisti) come luogo di impegno che prevale sugli interessi della loro stessa nazione. I Social Forum di Porto Alegre e di Firenze sono un segnale importante. Qualcosa di nuovo sta nascendo e non ce ne accorgiamo? Ma è qualcosa che la Scrittura aveva chiaramente annunciato e il magistero di Giovanni XXIII e del Concilio hanno saputo cogliere profeticamente nei segni del nostro tempo.

Vorrei concludere con un invito al coraggio. Il coraggio di sapere sempre andare oltre, di non prendere mai per stabile e intoccabile il sistema di convivenza della famiglia umana. Il coraggio di sapere rimettere continuamente in questione i nostri modelli culturali, filosofici e anche teologici, i nostri modelli di “vita buona”. Dio Creatore e Salvatore opera nel continuo evolversi dell’universo, e opera nella storia della famiglia umana anche attraverso le nostre scelte. Il traguardo è l’ultimo giorno, e sarà il dono finale di Dio: la perfezione della convivenza nella carità. La storia è un cammino verso tale traguardo, “nell’attesa della beata speranza”: e perciò non possiamo mai fermarci sull’oggi, con il pretesto della stabilità delle istituzioni. Tutto ciò che è istituzione, fosse pure ecclesiastica, è morte se è presa come fine a sé stessa. Il cristiano sa che la compiutezza del Regno – il vero bene comune dell’umanità – è sempre al di là dell’esistente. La critica dell’esistente è essenziale per ogni cristiano e per la Chiesa. È la possibilità di leggere la storia come cammino: come realizzazione, sempre insufficiente ma non per questo meno doverosa, del progetto di Dio per la famiglia umana.

Enrico Chiavacci (da RTM, 137, gennaio-marzo 2003, pp. 27-35)     pubblicato da Fausto Ferrari

http://dimensionesperanza.it/aree/formazione-religiosa/tematiche-etiche/item/474-il-progetto-di-dio-nella-storia-i-segni-dei-tempi-enrico-chiavacci.html

SESSUOLOGIA

Sesso e genere oltre l’alternativa

La questione del “genere” (gender in inglese) ha assunto negli ultimi decenni, in particolare nel mondo anglosassone, grande attualità. Con essa ci si riferisce a una serie di teorie orientate ad accentuare la pluralità di identità delle persone, facendo riferimento a una serie di fattori che vanno oltre il semplice dato biologico originario. In realtà, a ben vedere, il problema non è del tutto nuovo. È infatti esistita anche in passato la tendenza a considerare l’identità soggettiva come frutto di un processo complesso, che coinvolge le dinamiche psicologiche ed educative, le varie forme di socializzazione e il contesto culturale entro il quale avviene lo sviluppo della personalità. 

Un ribaltamento di posizione. A contraddistinguere, tuttavia, l’attuale svolta è un vero e proprio salto qualitativo, che comporta il ribaltamento della posizione tradizionale, mettendo in primo piano i fattori ambientali e riducendo di molto (fino talora a negarlo totalmente) il peso della differenza biologica, con la conseguenza di superare i modelli relazionali tradizionali e di aprire la strada a nuove forme di incontro e di mutuo riconoscimento. A determinare questa svolta hanno concorso, da un lato, l’ideologia liberale, che è venuta affermando con forza il rispetto dell’individuazione soggettiva e la libertà della propria autocostruzione, e, dall’altro, il pensiero femminile, che nella sua fase più recente è passato (almeno in alcune aree della propria elaborazione) dal teorizzare il valore delle differenze, proponendo come modello quello della reciprocità tra i sessi, alla negazione delle stesse differenze, perciò al rifiuto della catalogazione dei generi in ragione dell’apertura a un intreccio indefinito di possibilità espressive.

L’interazione tra natura e cultura. E’ naturale che si accentui, in questo quadro, la contrapposizione tra chi – come il magistero tradizionale della Chiesa cattolica (ripreso peraltro in tempi piuttosto recenti da papa Benedetto XVI) – tende a ricondurre l’identità di genere anzitutto alla differenza legata al sesso biologico, riducendola pertanto all’essere-uomo e all’essere-donna, e chi invece attribuisce la preminenza ai fattori ricordati che esercitano un ruolo decisivo nel costituirsi della coscienza di sé, dilatando pertanto le modalità di attuazione. Lo scontro non è tuttavia necessariamente inevitabile. Sesso e genere (gender) non sono realtà alternative; sono dati che possono (e devono) reciprocamente integrarsi. Il che esige che si faccia spazio a una visione dell’umano più attenta alla complessità e alla globalità; a una visione, in altri termini, che faccia interagire costantemente tra loro natura e cultura.

Il rapporto tra queste due ultime grandezze o, più precisamente l’equilibrio tra di esse, è dunque la vera soluzione del problema. Non si tratta di optare per l’una rinunciando all’altra, ma di ridefinire i livelli sui quali vanno rispettivamente ricondotti il dato naturale e i dati di ordine sociale e culturale. Si tratta di non rinunciare all’importanza fondamentale che riveste la differenza uomo-donna, che ha anzitutto la sua radice nel sesso biologico e che costituisce l’archetipo da cui ha origine l’umano, ma di non esitare, al tempo stesso, a mettere in luce il ruolo della cultura e delle strutture sociali, riconoscendo che è merito delle teorie del gender l’aver dato maggiore rilevanza nella definizione dell’identità di genere ai vissuti personali e concorrendo così al superamento di alcuni pregiudizi, fonte di gravi discriminazioni, come quelle che hanno a lungo determinato (e in parte tuttora determinano) l’emarginazione di alcune categorie, quelle degli omosessuali e dei transessuali in primis.

La questione della “legge naturale”. La posizione della Chiesa e della stessa teologia cattolica – lo si è già ricordato – è apparsa in passato arroccata nella difesa ad oltranza del dato biologico, ascrivendolo all’ordine della creazione e considerando pertanto la critica che ad esso si rivolge come un attentato alla sovranità divina. Non si può negare che dietro a tale posizione vi sia un aspetto di verità che non va eluso: l’impegno a difendere cioè la base dell’umano, che finirebbe per essere gravemente compromessa dalla radicale decostruzione dell’identità biologica quale risulta da alcune teorie del gender.

Questo non significa tuttavia (e non può significare) rifiuto di sottoporre a revisione una riflessione sulla “natura umana”, e di conseguenza sulla “legge naturale”, che ha assunto per molto tempo connotati rigidamente fisico-biologici. La storia del pensiero cristiano è, a tale riguardo, ricca di preziose indicazioni. La stessa teologia scolastica, reagendo nei confronti del pensiero patristico, che, influenzato dal dualismo platonico e neoplatonico e dal naturalismo stoico, aveva accentuato la fissità del dato biologico, ha introdotto l’attenzione al fattore culturale, mettendo in evidenza come la specificità della natura umana consiste anzitutto nella “razionalità – natura ut ratio è la definizione che ne dà Tommaso d’Aquino – e rimarcandone di conseguenza l’aspetto dinamico ed evolutivo. Tale prospettiva è oggi ampiamente ripresa dalla riflessione di stampo personalista, che considera l’umano nella sua globalità, includendo quale elemento costitutivo (e ultimativamente decisivo) il dato culturale e sociale.

La via del confronto. Le teorie del gender, i cui presupposti antropologici, oltre che dall’ideologia liberale e dal pensiero femminista, come si è ricordato, traggono origine da alcuni importanti pensatori di area francese – da Michel Foucault a Gilles Deleuze fino a Jacques Derrida – rappresentano una significativa provocazione a prendere consapevolezza della ricchezza dell’umano e a pensare l’identità partendo da una maggiore coscienza di sé e della propria libertà, nonché dall’importanza delle decisioni soggettive e degli stili di vita personali, evitando in tal modo forme di appiattimento della realtà attorno a paradigmi universalistici, che non rispettano le diversità individuali.

L’etica in generale, e quella di ispirazione cristiana in particolare, devono trarre da questa nuova interpretazione del mondo umano la sollecitazione a fondare i propri orientamenti su basi più ampie, prestando maggiore attenzione alle complesse dinamiche che presiedono alla costruzione dei comportamenti e che sono legate ai processi strutturali e culturali della società in cui si è immersi. La rivelazione biblica offre, al riguardo, importanti suggestioni, invitando a riflettere sulla dialettica esistente tra la postulazione di un “principio” (l’archetipo) al quale non si può rinunciare – la differenza originaria dei sessi – e il costante riferimento alle forme culturali, che modellano, di volta in volta, l’identità e le preferenze sessuali, configurandole, nella loro dimensione storica, come fenomeni in costante divenire.

L’abbandono di ogni preclusione ideologica e l’apertura a un confronto sereno tra le posizioni delineate – confronto incentrato sul riconoscimento della dignità della persona umana e dell’uguaglianza dei diritti, e dunque su una piattaforma di valori condivisi – è la via da percorrere per contribuire allo sviluppo di una convivenza civile nella quale le differenze, lungi dall’essere demonizzate o emarginate, si traducano in ricchezza per la vita di tutti.

Giannino Piana                                  Viandanti                            15 novembre 2014

www.viandanti.org/website/sesso-e-genere-oltre-lalternativa

SINODI DIOCESANI

Sinodo: piccoli passi anche in Italia

Mentre il dibattito «sinodale» si è trasferito temporaneamente sull’asse Roma – Germania

  con qualche appendice polacca (uno scambio tra i presidenti delle rispettive conferenze episcopali, Bätzing e Gadecki,  (con traduzione)                           www.pillarcatholic.com/p/batzing-v-gadecki-whats-behind-the

poi rientrata durante il recente vertice del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Malta, 27-30 novembre; il Comunicato finale che, tra l’altro, sancisce il passaggio della sede del Segretariato dalla Svizzera San Gallo a Roma), prosegue il suo percorso anche il cammino sinodale italiano.

www.ccee.eu/comunicato-finale-dei-lavori/

Dopo la pubblicazione a settembre delle Linee guida per la fase sapienziale del Cammino sinodale delle Chiesa in Italia, la seconda delle 3 fasi in cui i vescovi hanno suddiviso il percorso fino al 2025 (cf. qui), è nel Comunicato finale dell’Assemblea straordinaria della CEI del 13-16 novembre che si trovano ulteriori notizie.

www.chiesacattolica.it/78a-assemblea-generale-straordinaria-comunicato-finale

Italia: la fase «profetica». «L’Assemblea – afferma il comunicato – ha stabilito un cronoprogramma per la terza e ultima fase del Cammino, quella “profetica”, nella quale verranno assunti orientamenti e decisioni, approvando la seguente mozione: “I vescovi italiani riconfermano in questa Assemblea la bontà del percorso intrapreso con il Cammino sinodale che, avendo coinvolto molti fedeli, comunità cristiane e realtà sociali, si avvia verso la fase profetica per maturare proposte condivise. Questa fase del Cammino sarà scandita da due Assemblee sinodali propositive, da tenersi orientativamente nel novembre 2024 e nella primavera 2025. A queste parteciperanno i vescovi italiani, i referenti diocesani del Cammino sinodale, i membri del Comitato nazionale ed eventuali altri invitati. L’Assemblea CEI del maggio 2025 raccoglierà le proposizioni e darà loro forma definitiva. Questa Assemblea generale straordinaria dà mandato al Consiglio permanente di approvare un regolamento che stabilisca il calendario delle Assemblee sinodali, insieme alla loro composizione, alle modalità di lavoro e alle finalità”».

Il Comitato nazionale al lavoro. Una buona notizia, quella dell’organizzazione delle due «Assemblee sinodali» con una partecipazione mista tra clero e laici (come è la maggior parte dei referenti sinodali diocesani e regionali). Certo, però, un po’ in là nei tempi…

                Comunque, nei giorni successivi all’Assemblea della CEI si è riunito il Comitato nazionale del Cammino sinodale italiano. I nomi dei membri – fatta eccezione per la presidenza e per alcune «cariche», come quella dei referenti diocesani – non sono stati (ancora) resi noti, neppure ai partecipanti che si sono riuniti già alcune volte nel 2023                                                                                                               https://re-blog.it/2023/03/05/e-intanto-in-italia

e che, in base al regolamento del marzo scorso                          https://camminosinodale.chiesacattolica.it/regolamento

lavoreranno divisi per commissioni secondo le 5 macro-aree individuate per la fase sapienziale:

1) la missione secondo lo stile di prossimità;

2) il linguaggio e la comunicazione;

3) la formazione alla fede e alla vita;

4) la sinodalità e la corresponsabilità;

5) il cambiamento delle strutture.

Poi c’è un livello diocesano, non solo per quanto le diocesi fanno e faranno in base alle indicazioni della CEI, ma anche per quanto in autonomia hanno fatto, indicendo alcune, in particolare, un Sinodo diocesano vero  proprio, per dare concretezza ad alcune preoccupazioni pastorali sentite come urgenti. Come già abbiamo accennato, si tratta di Savona, Padova e Pistoia.

                Dal sito della diocesi ligure si legge che «il Sinodo diocesano “Chiesa di Savona, prendi il largo, confidando”, nella sua XII assemblea [25 novembre], ha approvato la prima parte del Liber sinodalis, ossia i capitoli dal 2 al 7: è il primo importante passo verso la conclusione di un cammino che ha coinvolto la Chiesa di Savona-Noli per più di due anni».

                A gennaio si voteranno i capitoli della seconda parte e poi a fine mese l’intero testo, che verrà consegnato alla diocesi il 17 marzo 2024.

A Padova: ultima sessione prima del documento finale. A Padova invece il 26 novembre si è tenuto il secondo e ultimo incontro della VI sessione del Sinodo intitolato «“Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 1,25)», che si concluderà con la votazione del documento finale il prossimo 17 dicembre.

«Dopo aver lavorato nelle prime 4 sessioni – recita il comunicato della diocesi – sul tema dei ministeri battesimali e nella V sessione sulla proposta relativa all’esperienza di piccoli gruppi della Parola, sullo stile delle comunità di base, il terzo tema affrontato dall’Assemblea sinodale si rifà alla cosiddetta proposta 18 (in riferimento allo Strumento di lavoro 2 – Le proposte per il cambiamento) che chiede di capire come attuare la collaborazione tra parrocchie vicine, anche valutando alcuni cambiamenti nell’organizzazione per favorire la pastorale e ottimizzare risorse umane e strutturali».

A Pistoia: «le attese di Vangelo». Iniziato nel 2022, il Sinodo della diocesi toscana ha come tema «Convocati dallo Spirito» e si concluderà nel 2024. Il 25 luglio scorso il vescovo mons. Fausto Tardelli «ha presentato e consegnato alla diocesi la prima parte del Libro sinodale, testo contenente le proposizioni generate nelle varie assemblee territoriali». Intitolato Le attese di Vangelo, esso individua alcune principali attese che l’ascolto dell’intero popolo di Dio ha rilevato: «dall’attesa di Vangelo, buona notizia volta a colmare i vuoti generati dal malessere diffuso e dalle difficoltà dei tempi che viviamo, all’attesa delle relazioni umane significative, di una fraternità reale, fatta di incontro autentico e non solo mediale tra persone, relazioni da persona a persona perché la solitudine sembra un rischio concretissimo, in tutte le generazioni. E poi l’attenzione alla donna, nella Chiesa e nella società, spesso non accolta in tutto il suo valore e in tutte le sue potenzialità di umanizzazione del mondo». Il tutto anche sintetizzato tramite un video. Nella prossima fase si tratta – ha detto il vescovo che poi ha riassunto il percorso della diocesi per il prossimo anno in una lettera pastorale – di mettersi in ascolto di «quanto lo Spirito Santo ci chiede di operare per essere autentici testimoni ed annunciatori della gioia del Vangelo che è il Signore Gesù».

Maria Elisabetta Gandolfi             Caporedattrice Attualità per “Il Regno”

Convertite il vostro parroco alla sinodalità!

La sinodalità come risposta alla crisi della Chiesa rischia di avere per ostacolo maggiore l’indifferenza di una parte del clero! Ecco la Chiesa cattolica a metà percorso di un Sinodo sulla sinodalità. Sappiamo che concretizza il cuore del “programma” del pontificato di papa Francesco, anche se non sempre è compreso dagli stessi cattolici che ne attendono decisioni concrete – o il mantenimento dell’esistente – sui temi al centro dei dibattiti, mentre l’intenzione del papa è di portare piuttosto le persone a riflettere su una maniera nuova, decentralizzata, di “prendere le decisioni insieme” per il bene di ogni Chiesa particolare, nella fedeltà al Vangelo.

A questo stadio del percorso sinodale restano due incognite che richiedono vigilanza e impegno da parte di ognuno.

  1. Dove, come e da chi, entro l’ottobre 2024, saranno approfonditi i temi teologici, canonici e pastorali identificati nella prima sessione come condizioni preliminari a qualsiasi riforma?
  2. Come sarà sviluppata da ogni vescovo sul territorio la “cultura sinodale” senza la quale questo lavoro resterà senza effetto?

        Perché dobbiamo renderci conto che “la sinodalità comincerà in parrocchia o non sarà”, secondo l’espressione del cardinale Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e Referente generale del sinodo.

È stato scritto molto su questo sinodo. Ma, di fatto, la conferenza tenuta il 15 novembre 2023 in Belgio dal cardinale Jean-Claude Hollerich, lui che ne è il referente, è particolarmente illuminante. Di fronte alle impazienze che si manifestano in diversi luoghi di Chiesa, lui usa questa formula: “Certe persone si aspettano che questo sinodo cambi le cose. Non è lo scopo del sinodo. Lo scopo è la sinodalità. Sono sicuro che la Chiesa, nei prossimi dieci o vent’anni, dovrà prendere molte decisioni. Ciò che noi stiamo cercando di fare ora è un modo di prendere queste decisioni, insieme, in modo che tutti partecipino”.

Discernere la conformità al Vangelo delle attese dei battezzati Ed è vero che questo sinodo deve essere letto attraverso una griglia nuova che sfugge a molti perché è diversa dalle pratiche del passato recente:

1 – La consultazione preventiva è stata aperta a tutti i “membri del popolo di Dio” senza distinzione (clero e laici) che si sono anche trovati rappresentati – anche se in maniera non paritaria – nelle assemblee sinodali che in precedenza erano riservate ai soli vescovi;

2 – la sintesi della consultazione, ai suoi diversi livelli: parrocchie, diocesi, Chiese particolari (cioè dei vari Paesi), continentali, e poi universale, non sono state fatte sulla base dei soli punti di convergenza da far risalire al livello superiore, il che porterebbe alla fine ad un minimo comun denominatore generalmente deludente, ma al contrario tenendo conto di tutte le opinioni espresse, precisando ogni volta quelle che trovano consenso e quelle che sono oggetto di dibattito e devono essere approfondite;

3 – il discernimento finale, che è la missione propria del sinodo, mira meno – come succedeva nel passato – a rendere intelligibili nel mondo contemporaneo delle verità di sempre discese dal Cielo e spesso presentate in maniera non gerarchizzata, ma, secondo quella che Francesco chiama “teologia induttiva”, fare proprie tutte le attese dei battezzati caratterizzati da un “sacerdozio comune” e verificare, “come Chiesa” sotto lo sguardo dello Spirito santo, la loro compatibilità con la fede cristiana e con il messaggio del Vangelo.

I teologi come una delle tre fonti dell’autorità nella Chiesa

È quindi questo discernimento che è all’ordine del giorno della seconda sessione sinodale dell’ottobre 2024. Ma, come precisa il documento di sintesi della prima sessione, questo presuppone che, nell’intervallo, certi argomenti teologici, canonici o pastorali oggetto di discussione possano essere approfonditi.

Ed è qui che incontriamo una prima incognita. A questo stadio, ignoriamo secondo quale processo venga fatto questo lavoro. Sappiamo che i 26 teologi del mondo intero convocati a Roma come “osservatori” ed “esperti” nell’ottobre scorso hanno espresso, molto presto, una forma di delusione che “La Croix” riferisce in questi termini: “Per il papa, tutti devono poter far parte della Chiesa. Molti di noi ritengono che avremmo potuto contribuirvi maggiormente durante il Sinodo. I teologi non possono essere messi ai margini e rimanere in silenzio, ma devono essere invitati a un maggior contributo nel corso dell’intersessione e durante la prossima Assemblea”.

In un libro pubblicato nel 2000, Timothy Radcliffe, allora maestro dell’Ordine domenicano, e le cui meditazioni nel corso del ritiro precedente l’apertura del sinodo hanno fortemente segnato gli animi, scriveva questo: “Il cardinal Newman diceva che ci sono tre autorità nella Chiesa: l’autorità dell’esperienza che egli situava rispettivamente nella gerarchia, nell’università e nel popolo dei fedeli. Aggiungeva che, se una delle tre diventava eccessivamente dominante, il buon esercizio dell’autorità nella Chiesa rischiava di essere compromesso”. Il processo sinodale si arricchirebbe quindi molto nel lasciare tutto il loro spazio ai teologi accanto ai vescovi e alla base del “popolo di Dio”…

La sinodalità sarà parrocchiale o non sarà A quell’incertezza, se ne aggiunge una seconda. Quale sarà la “ricezione” da parte di vescovi, preti, diaconi, religiosi e fedeli delle decisioni di questo sinodo, una volta concluso il processo? Tradizionalmente, il papa pubblica, nel giro di alcuni mesi, una esortazione apostolica conclusiva nella quale ufficializza, dalla sua autorità, ciò che crede di dover presentare tra le raccomandazioni dell’Assemblea sinodale che, secondo il diritto, è solo consultiva. È quel documento, e solo quello, che, nella Chiesa, assume allora valore magisteriale. Certo, è necessario che sia “recepito”, cioè compreso e accettato. Sappiamo, a distanza di cinquant’anni dalla sua conclusione, che ne è del  Concilio Vaticano II, che continua a far discutere. Nella citata conferenza del cardinal Hollerich, lui stesso ricorda che ci vollero due secoli perché fosse definitivamente adottata dal popolo cristiano la messa tridentina “oggi presentata da alcuni come la messa di sempre”… Ciò significa che non si può dare niente per acquisito. E che questa stessa incertezza alimenta già molti timori di divisioni nella Chiesa. Un’incertezza che si alimenta in parte da una doppia constatazione.

  1. In molte parrocchie, i preti hanno avuto delle riserve sul processo sinodale, fin dalla fase di consultazione. Alcuni si sono espressi apertamente sui “limiti” delle sintesi diocesane o nazionali che sembravano non tener conto della sensibilità “più tradizionale” dei giovani cattolici… Mentre, talvolta, erano stati loro stessi a dissuaderli dal partecipare alla consultazione. Ora, le voci che giungono oggi da certe parrocchie, è che non è stato dato nessun “ritorno” ai fedeli dei lavori del sinodo. Anche se, in certe diocesi, la sinodalità è presentata alle Equipe di animazione parrocchiale/pastorale come un “ardente obbligo” fondato sul sacerdozio comune dei battezzati.

Il 27 novembre scorso, il gesuita francese Christoph Théobald era invitato dalla comunità Saint-Merry Hors-les.murs, per parlare della prima sessione del sinodo alla quale ha assistito come teologo. Nel resoconto pubblicato sul sito della comunità si può leggere: “Il documento finale di quarantuno pagine non sarà probabilmente mai letto nelle parrocchie: Christoph Théobald raccomanda di farne un riassunto pedagogico di cinque pagine per diffonderlo e promuoverlo. Propone anche di far leggere la prima parte del documento di sintesi per riflettervi fin da ora nelle comunità parrocchiali, secondo il metodo della conversazione nello Spirito, dato che la sinodalità è un modo di fare Chiesa; il che presuppone una conversione delle mentalità, per la quale occorrerà tempo, ma che è IL criterio”.

Spetta ai battezzati convinti convertire le persone attorno a loro alla sinodalità. Essendo io stesso impegnato fin da settembre in una serie di conferenze (Pau, Chartres, Sainte-Geneviève-des-Bois) che proseguirà nel primo semestre del 2024 (Strasburgo, Tulle, Lione), ho avuto modo di incontrare molti cattolici perplessi sull’adesione della loro Chiesa diocesana alla dinamica che è stata messa in atto da papa Francesco. Anche se, puntualmente, hanno la fortuna di vivere in una o un’altra parrocchia il cui parroco è, eccezionalmente, recettivo. Dato che la loro sensazione è che la Chiesa locale, di fronte ad un processo di lungo respiro, si è data, altrove, delle priorità pastorali legate alle “urgenze locali immediate”, alla sensibilità del loro vescovo, del suo presbiterato, o degli stessi fedeli poco interessati al cambiamento. E che la sinodalità non fa parte di quelle priorità. Proprio per questo, ai fedeli convinti che la sinodalità è, secondo le parole di papa Francesco, “la forma stessa della Chiesa cattolica”, capace di farla uscire da una crisi senza fine, spetta il compito di farsene divulgatori e, se necessario, di “convertire” il proprio parroco alla sinodalità. In modo che l’anno che ci separa dalla seconda sessione sia sfruttata per preparare il terreno ecclesiale per raccoglierne domani i frutti, nella lealtà, fedeltà e “libertà dei figli di Dio”.

René Poujol in “www.renepoujol.fr” del 4 dicembre 2023 René Poujol,

(traduzione: www.finesettimana.org)                 www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202312/231206poujol.pdf

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