News UCIPEM n. 991 – 3 dicembre 2023

News UCIPEM n. 991 – 3 dicembre 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

            Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

02 ASSOCIAZIONE VIANDANTI        Giannino Piana, In principio non era così

07 AUTOR. GARANTE MINORI        Violenza sui minori, l’Autorità garante Carla Garlatti scrive al Presidente Meloni

08 C. INTERN. STUDI FAMIGLIA      Newsletter CISF – n.44, 29 novembre 2023

O9 CHIESA IN ITALIA                          Trento-abusi: la fiducia tradita

12                                                          Card. Matteo Zuppi: L’amore è sempre relazione, dono, libertà, rispetto

13 CHIESA NEL MONDO                    I vescovi tedeschi e l’abuso spirituale

15 CITTÀ DEL VATICANO                  Papa alle vittime di abusi: il silenzio sul vostro dramma si rompe ascoltandovi

17 DALLA NAVATA                             1° Domenica dell’ Avvento – Anno B

17                                                          «Vegliate!»

18 DONNE NELLA (per la ) CHIESA 25 novembre. Vittime di si crede dio

19                                             Lazzarini. È ora di dire basta alle umiliazioni spacciate per “cammino ascetico

21 FEMMINICIDIO                              Educare alla relazione

22                                                          Solo il rispetto delle differenze disinnesca la violenza di genere

24                                                          Una riflessione dopo Giulia Cecchettin: chi parla ai giovani di sesso e relazioni?    

25                                                          Uomo-donna, la buona relazione passa dalla “maturità affettiva

27                                                          Donne, la mattanza va al di là del patriarcato

28 FRANCESCO vescovo di ROMA  La teologia fatta dalle donne Non una semplice pennellata rosa

30                                                          «Papa Francesco è isolato. Sui social l’ala tradizionalista è molto più vivace»

31                                                          Il Papa: ho una bronchite molto acuta «La Chiesa è donna, smaschilizziamola»              

32 LITURGIA                                        Riforma liturgica sessant’anni dopo. Mons. Busca: luci, ma anche ombre da superare

34                                                          Sante famiglie

35                                                           Maria, Donna di pace

36 SACERDOTI                                     Preti oberati e chiesa di oggi: dal “Cristo capo” al “Dio comunione

37 SACERDOZIO                                  Il celibato di Gesù

39 SINODO                                           Enzo Bianchi, il sinodo e il popolo LGBT+

40                                                           L’uniformità nuoce all’unità

42                                                           Le donne non hanno ancora piena dignità ecclesiale

43 TESTIMONI                                  Cereti: 90 anni di gratitudine

44                                                          Mons. Bettazzi, “camminatore di pace”: uno speciale di “Mosaico”

Associazione Viandanti   Rete dei Viandanti

Separati, Divorziati, Risposati    Fallibilità dell’amore umano nello sguardo di Dio

Bologna, 13 settembre 2014

Giannino Piana, In principio non era così.

Dalla parola, alla morale

La questione dei divorziati risposati nella chiesa – della possibilità della loro ammissione ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia e, in termini più ampi, del riconoscimento del loro secondo matrimonio – esige, per essere affrontata correttamente, che si pervenga, da un lato, a una corretta interpretazione del messaggio neotestamentario circa l’indissolubilità e che non si rinunci nello stesso tempo a tenere, dall’altro, in seria considerazione le difficoltà che, in molti casi, si incontrano a vivere una scelta, come quella matrimoniale, quale scelta per la vita (e per la morte).

A questi due versanti in apparenza non strettamente tra loro connessi (ma in realtà, come si vedrà, convergenti) sono dedicate le riflessioni che vengono qui proposte, che intendono, anzitutto, fornire una chiave di lettura teologico-morale dei testi del Nuovo Testamento relativi all’indissolubilità (I); per affrontare, in seguito, in una prospettiva antropologico-etica, la questione della fedeltà per la vita o, più precisamente il tema delle cosiddette decisioni irrevocabili, e definirne il vero significato (II).

I. Il significato teologico-morale dell’indissolubilità

Le parole di Gesù sull’indissolubilità sono riportate, con leggere varianti, che non ne modificano la sostanza, in quattro passi dei vangeli (Mt 5, 31; 19, 3-9; Mc 10, 2-12; Lc 16, 18) e in un passo della prima lettera ai Corinzi (7, 10-11). Mentre tuttavia Luca fa semplicemente un rapido accenno, Marco e Matteooffrono una versione più ampia, pur con alcune differenze dovute alle diverse sensibilità delle comunità cui si rivolgono.

Matteo ha infatti come referente la comunità giudeo-cristiana e Marco le comunità provenienti dal mondo pagano. Senza trascurare gli altri testi, privilegiamo qui il loghion di Matteo 19, perché sembra la versione più vicina all’originale. In esso si legge: Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “E’ lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. Egli rispose: “Non avere letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola car? Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Gli domandarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?”. Rispose loro: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19, 3-9).

Il contesto è quello di una disputa di Gesù con i farisei che lo interrogano “per metterlo alla prova”. Per comprendere tuttavia le ragioni della domanda e il senso della risposta è necessario tenere in considerazione la prassi veterotestamentaria sul ripudio esposta nel testo di Dt 24, 1-4. La genericità dei motivi addotti per ricorrervi – “ha trovato in lei qualcosa di vergognoso” (o di “indecente”) – ha dato luogo all’affermarsi di una disputa serrata con interpretazioni diverse tra le scuole rabbiniche. Al tempo di Gesù due di esse si contendevano il campo: la scuola di Shammai rigorista, che ammetteva il ripudio solo nel caso di adulterio, e la scuola di Hillel, più permissiva, che lo permetteva anche per motivi molto banali (quest’ultima tesi aveva la prevalenza).

La domanda dei farisei è, dunque, incentrata su quel “per qualsiasi motivo”; essi intendono capire cioè se Gesù fa sua la posizione più permissiva o quella più rigorista. Ma la risposta di Gesù scavalca la domanda in modo perentorio: nessuna ragione giustifica il ripudio! E ai farisei che obiettano scandalizzati che la legge mosaica lo ammette, egli replica che tale ammissione è dovuta alla “durezza di cuore” (sklerocardia), ma che “in principio non era così” (v. 8). La regolazione introdotta dalla legislazione mosaica è una forma di mediazione, che fa proprio il criterio del male minore, in una situazione compromessa dalla presenza del peccato.

La condizione nuova creatasi con l’ingresso di Gesù nella storia e la venuta del regno di Dio rende possibile l’adesione all’ordine creazionale. Grazie alla redenzione, l’amore umano gode di una nuova condizione di grazia; è reso partecipe – come già ricordato – dell’agape divina. La situazione escatologica è tuttavia, nello stesso tempo, più e meno dello stato protologico; è più perché la redenzione pone l’uomo in uno status di piena figliolanza divina, figli nel Figlio; è meno perché le cicatrici del peccato sono ancora presenti, e la liberazione è data all’uomo come inizio e caparra. Il ritorno all’in principio, al paradigma originario, va dunque letto nella prospettiva del “già” e del “non ancora”, come qualcosa con cui si ha già a che fare fin d’ora, ma che costituisce anche il fine cui tendere, qualcosa dunque che avrà il suo pieno compimento solo nel futuro assoluto.

                1.Una norma escatologico-profetica. Letta in quest’ottica, la radicalità del messaggio di Gesù sull’indissolubilità non ha il carattere di una norma giuridica, ma ha piuttosto il significato di un imperativo profetico, di un ideale di perfezione. Considerare il pronunciamento sull’indissolubilità come una nuova codificazione legale – ha scritto Giuseppe Barbaglio (*1934-†2007)  – equivarrebbe a misconoscere il vero significato di un’affermazione profetica. L’indissolubilità più che una clausola giuridica del matrimonio è l’esigenza inderogabile con cui gli sposi devono confrontarsi, è una vocazione radicale d’amore a cui la fede nel regno di Dio chiama i credenti. L’interpretazione di Barbaglio (e di molti altri biblisti) trova peraltro conferma nell’ambito della teologia morale, dove si distinguono due tipologie di norme: le norme-precetto, che sono norme chiuse, le quali esigono un’adesione totale e incondizionata (senza eccezioni) – tali sono, ad esempio, i precetti della seconda tavola del Decalogo espressi peraltro in forma imperativo-negativa – e le norme escatologico-profetiche, che sono invece norme aperte, finalistiche, che rinviano ad un ideale di perfezione – tali sono le “beatitudini” e i “ma io vi dico” del discorso della montagna – e che conferiscono pertanto all’esistenza cristiana i connotati di un cammino di permanente conversione. Anche in quest’ultimo caso non va eluso il carattere normativo – non si tratta, infatti, di pii consigli per una casta di eletti ma di veri e propri riferimenti obbliganti per chi vuole porsi alla sequela di Gesù –; ma la normatività è nel tendere costantemente verso, facendo spazio ad inevitabili forme di mediazione dettate dalle situazioni particolari.

L’indissolubilità del matrimonio proclamata da Gesù andrebbe dunque interpretata non nella prospettiva di una norma-precetto che vincola in assoluto il presente, pur potendo (e dovendo) già essere in esso perseguita, ma come profezia del futuro escatologico. Essa acquisterebbe così il significato di un’indicazione circa la volontà e il progetto di Dio; un ideale a cui tendere dunque, che si realizzerà pienamente soltanto alla fine dei tempi. Così considerata l’indissolubilità non può certo tradursi immediatamente in legge o in disciplina ecclesiastica, ma ha bisogno, per diventare tale, di un’opera di mediazione o di adattamento, che non può prescindere dall’attenzione alle condizioni concrete in cui l’esperienza umana si sviluppa, e deve in particolare tener in conto la debolezza umana.

2. Le eccezioni neotestamentarie. A fare da supporto a questa interpretazione concorrono una serie di fatti significativi che meritano di essere segnalati Il primo è costituito dalla considerazione che la proposta di Gesù è inserita da Matteo, oltre che nel contesto della disputa con i farisei, anche nell’ambito del discorso della montagna: Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio (Mt 5, 31-32). Si tratta del discorso morale per eccellenza del Nuovo Testamento, le cui norme, lungi dall’essere norme-precetto, sono norme escatologico-profetiche, che hanno come obiettivo ultimo il “siate dunque perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 48). Ciò a cui alludono è dunque una direzione verso cui andare; un cammino da intraprendere verso una meta che sta sempre davanti e oltre.

Il secondo fatto si riferisce, invece, alla presenza nei testi neotestamentari di alcune eccezioni alla radicalità del messaggio di Gesù. Significativo è, anzitutto, a tale riguardo, il famoso inciso del vangelo di Matteo, che si trova in ambedue i passi citati (Mt 5, 32; 19, 9) e che viene normalmente ritenuto un’aggiunta dell’evangelista, il quale tenderebbe a realizzare una sorta di adattamento dell’insegnamento di Gesù alla situazione particolare della sua chiesa, composta da giudeo-cristiani particolarmente sensibili all’esigenza di salvaguardare la continuità con la tradizione mosaica. Comunque s’intenda il termine porneia – la traduzione ancor oggi più corretta sembra essere “adulterio” (le chiese ortodosse lo hanno sempre inteso così) – ciò che appare evidente è l’ammissione di una deroga da parte di Matteo al rigore dell’indissolubilità evangelica). Analogo significato va attribuito al cosiddetto “privilegio paolino” (1 Cor 7, 12-16), dove viene affrontato il caso dei matrimoni, in cui uno dei due coniugi abbraccia in seguito la fede cristiana. La posizione che l’apostolo assume, attribuendola esclusivamente a sé stesso (“Agli altri dico io, non il Signore”, v. 12), prevede, nel caso in cui il coniuge non convertito accetti la situazione, il mantenimento del legame – il coniuge non credente e i figli vengono infatti santificati dal coniuge credente – ; ma riconosce, laddove si creino delle serie difficoltà di coabitazione, la piena libertà di separarsi (secondo alcuni anche di adire a nuove nozze). Siamo anche qui di fronte a una certa relativizzazione del valore dell’indissolubilità in favore della fede; indissolubilità che più che un valore umano appare come un’istanza evangelica che può essere compresa soltanto all’interno di una prospettiva di fede, e che non può pertanto essere ridotta a mero fatto etico-giuridico.

Le questioni sollevate da ambedue i casi sono senz’altro complesse e vanno viste, per essere correttamente interpretate, nel particolare contesto delle primitive comunità cristiane e in riferimento ai problemi in esse emergenti. È quanto osserva giustamente G. Dianin, il quale scrive: “L’inciso di Matteo e il cosiddetto privilegio paolino sembrano riguardare un piano più operativo riferito alle problematiche delle primitive comunità cristiane. Hoffmann sintetizza i diversi elementi del problema riconoscendo le difficoltà, a livello esegetico, di arrivare a una interpretazione univoca della questione. L’uso molteplice della parola porneia non permette alcuna conclusione in forza dei soli reperti filologici, perciò è necessario chiamare in causa il contesto. Le prime comunità avevano bisogno di precetti chiari e il Nuovo Testamento testimonia che ciò avvenne in modi molto diversi; la richiesta di Gesù, che rimaneva generale, venne interpretata ora come insegnamento etico, ora come prescrizione legale. “La comunità cristiana, pur mantenendosi legata alla parola di Gesù, non la considerò in alcun modo come legge, ma come imperativo che richiede una sempre nuova interpretazione” (p. Hoffmann). E mentre Marco evidenzia l’insopprimibile unità del matrimonio, motivandola con il richiamo all’opera creatrice di Dio, Matteo segue la medesima strada, ma ammette il divorzio in caso di adulterio, riconoscendo che, in questo caso, l’unità del matrimonio non esiste più de facto. È difficile contestare che quella di Matteo sia proprio un’eccezione pensata per la sua comunità all’interno della controversia tra le scuole di Shammai e di Hillel.

Paolo si trova di fronte al problema nuovo del matrimonio tra un pagano e un convertito al cristianesimo e se, in linea generale, questo non dovrebbe essere un problema, in casi particolari potrebbe diventarlo; allora il matrimonio può essere sciolto in favore della fede, dopo aver preso atto della chiusura totale della parte pagana”. Ciò che emerge con chiarezza da ambedue i testi ricordati è un’interpretazione non legalistica della posizione di Gesù, e l’esigenza conseguente della primitiva comunità cristiana – esigenza di cui si sono fatti carico sia Matteo che Paolo – di mettere in atto, sul terreno pastorale, una mediazione, che ne renda possibile l’adesione entro i limiti della debolezza della condizione umana. L’interpretazione dell’indissolubilità come norma escatologico-profetica risulta, dunque, nei due casi evidente.

II. La fedeltà per la vita: il limite delle scelte irrevocabili

L’altro versante della riflessione di ordine antropologico-etico riguarda l’idea di fedeltà per la vita (e per la morte) e, conseguentemente, il valore e il limite delle cosiddette “scelte irrevocabili”, le scelte che riguardano cioè gli stati di vita. L’indissolubilità è infatti la ricaduta, sul piano istituzionale, di una fedeltà assoluta e incondizionata, senza alcuna limitazione.

  1. La fedeltà come fattore costitutivo dell’amore coniugale. Ora è indubbio che l’amore coniugale, che sta a fondamento del matrimonio (come lo si intende oggi in un’accezione personalista), in quanto incontro di persone che tendono a una comunione totale attraverso il dono reciproco, porta connaturata dentro di sé l’esigenza di una fedeltà radicale. La fedeltà non può che essere il contesto entro il quale l’amore coniugale si sviluppa e la legge fondamentale del suo stesso sviluppo. L’amore autentico implica infatti, da un lato, il darsi all’altro in modo totale e definitivo; e comporta, dall’altro, un crescere gradualmente, superando costantemente se stessi. La conferma viene dall’esperienza dell’innamoramento. Le espressioni che i fidanzati si scambiano quando giungono seriamente a decidersi per il matrimonio sono contrassegnate dalla tensione all’unicità del rapporto e allo scavalcamento del tempo: “Amo te solo (a), amo te sempre”. Questo sta ad indicare che all’inizio di ogni esperienza di amore genuino è presente (e non può non esserlo) l’aspirazione a una comunione che si protende nel tempo fino a proiettarsi verso l’eterno.

Si deve aggiungere che il dono reciproco tra i coniugi si incarna spesso in una terza persona, il figlio: esso è la realtà, divenuta oggettiva, del dono di vita che uomo e donna si sono scambiati e il compimento di tale dono. La procreazione, quando è atto pienamente umano, esige continuità e stabilità di rapporto. Deve, infatti, essere preparata nell’amore, vissuta nell’amore, portata a compimento nell’amore. Il figlio mentre, infatti, conferisce, da un lato, al rapporto una dimensione di stabilità, necessita a sua volta, dall’altro, di uno stato di fedeltà, che è condizione perché possa sviluppare positivamente la propria identità personale.

La fedeltà nell’amore ha, poi, una ragione ulteriore; risponde all’esigenza di essere fedeli a sé stessi; un’esigenza irrinunciabile, perché rappresenta l’unico modo per potersi realizzare. La scelta matrimoniale, come tutte le altre scelte di vita che incidono sulla strutturazione profonda dell’esistenza, implica un particolare coinvolgimento di sé, capace di far sentire chi la vive come custode e artefice

dell’unità della propria vita. L’irrevocabilità è perciò legata tanto all’irripetibilità della persona quanto alla peculiarità della scelta che coinvolge l’esistenza nella sua globalità.

La fedeltà corrisponde, dunque, all’intima dinamica dell’amore coniugale, tendenzialmente unico e destinato a durare nel tempo. Essa è, ce lo ricorda Thomas Mann, “il grande vantaggio dell’amore comandato dalla natura, dell’amore generante, possibile nel matrimonio… In realtà il matrimonio è tanto un effetto e un prodotto dell’istinto di fedeltà, quanto il suo generatore, la sua

scuola, il suo terreno, il suo custode. L’uno e l’altra formano una cosa sola: è impossibile dire chi sia nato prima, il matrimonio o la fedeltà”.

Un’altra eccezione alla radicalità evangelica dell’indissolubilità (peraltro da sempre accettata, senza esitazione, dalla chiesa cattolica) è la possibilità per le vedove di passare alle seconde nozze: “Una donna è legata per tutto il tempo in cui vive suo marito; ma quando il marito è morto, è libera di sposarsi con chi vuole, solo nel Signore” (1 Cor 7, 39). Paolo si assume, anche in questo caso, la responsabilità diretta della presa di posizione, suggerendo la casta vedovanza come la soluzione migliore, ma riconoscendo la libertà della vedova, perciò il diritto che ha di risposarsi. Di per sé la radicalità evangelica dell’indissolubilità supporrebbe che il vincolo matrimoniale non possa cessare neppure con la morte di uno dei due coniugi.

Crescere gradualmente, superando costantemente se stessi. La conferma viene dall’esperienza dell’innamoramento. Le espressioni che i fidanzati si scambiano quando giungono seriamente a decidersi per il matrimonio sono contrassegnate dalla tensione all’unicità del rapporto e allo scavalcamento del tempo: “Amo te solo (a), amo te sempre”. Questo sta ad indicare che all’inizio di ogni esperienza di amore genuino è presente (e non può non esserlo) l’aspirazione a una comunione che si protende nel tempo fino a proiettarsi verso l’eterno. Si deve aggiungere che il dono reciproco tra i coniugi si incarna spesso in una terza persona, il figlio: esso è la realtà, divenuta oggettiva, del dono di vita che uomo e donna si sono scambiati e il compimento di tale dono. La procreazione, quando è atto pienamente umano, esige continuità e stabilità di rapporto. Deve, infatti, essere preparata nell’amore, vissuta nell’amore, portata a compimento nell’amore. Il figlio mentre, infatti, conferisce, da un lato, al rapporto una dimensione di stabilità, necessita a sua volta, dall’altro, di uno stato di fedeltà, che è condizione perché possa sviluppare positivamente la propria identità personale.

La fedeltà nell’amore ha, poi, una ragione ulteriore; risponde all’esigenza di essere fedeli a sé stessi; un’esigenza irrinunciabile, perché rappresenta l’unico modo per potersi realizzare. La scelta matrimoniale, come tutte le altre scelte di vita che incidono sulla strutturazione profonda dell’esistenza, implica un particolare coinvolgimento di sé, capace di far sentire chi la vive come custode e artefice dell’unità della propria vita. L’irrevocabilità è perciò legata tanto all’irripetibilità della persona quanto alla peculiarità della scelta che coinvolge l’esistenza nella sua globalità.

La fedeltà corrisponde, dunque, all’intima dinamica dell’amore coniugale, tendenzialmente unico e destinato a durare nel tempo. Essa è, ce lo ricorda Thomas Mann, il grande vantaggio dell’amore comandato dalla natura, dell’amore generante, possibile nel matrimonio… In realtà il matrimonio è tanto un effetto e un prodotto dell’istinto di fedeltà, quanto il suo generatore, la sua scuola, il suo terreno, il suo custode. L’uno e l’altra formano una cosa sola: è impossibile dire chi sia nato prima, il matrimonio o la fedeltà”.

                2. La questione del tempo. A mettere in difficoltà la fedeltà è il complesso rapporto dell’uomo con il tempo. L’amore coniugale ha in sé la tensione a superare il tempo, ma deve contemporaneamente fare i conti con esso; deve accettarne la sfida. Si inserisce qui il tema delle cosiddette “scelte irrevocabili” che riguardano l’ingresso nei diversi stati di vita. La domanda che inevitabilmente affiora è la seguente: è possibile contrarre in un tempo cronologico particolare la scelta di legarsi per sempre a uno stato di vita, ritenendosi vincolati in coscienza per tutta la vita? In altre parole, è possibile decidere, in termini radicali, ora per allora (nunc pro tunc), scavalcando la distanza che sussiste tra presente e futuro?

Già, a suo tempo, Tommaso d’Aquino, affrontando la questione di tali scelte, asseriva che si tratta di “scelte nelle quali l’uomo intende decidere di tutto sé stesso, ma non decide mai totalmente” (de se ipso toto, sed non totaliter). In esse si esprime infatti la volontà dell’uomo di coinvolgere l’intera esistenza, ma attuandosi in uno spazio e in un tempo circoscritti nei quali non è possibile conoscere e tanto meno padroneggiare quanto accadrà in futuro in contesti nuovi e diversi, esse non possono che avere un carattere limitato e parziale. La immutabilità radicale della scelta presupporrebbe una contrazione del tempo sul presente, e non invece il suo dispiegarsi in momenti successivi i quali fanno sì che il futuro non possa che rimanere una realtà velata ed incognita.

Ha origine così la possibilità che anche le scelte matrimoniali, fatte con le migliori intenzioni e con la più grande serietà, vengano messe in discussione attraverso un processo di graduale deterioramento e allentamento, fino a venir meno. L’amore coniugale è una realtà fragile, che va custodita con cura: le situazioni nuove cambiano infatti le persone e modificano le modalità e il senso dei rapporti, con l’insorgere talora di difficoltà insormontabili, che hanno come esito l’impossibilità di una convivenza serena e feconda.

3. Il senso autentico della fedeltà. Questa visione realistica delle scelte di vita ci aiuta infine a definire, in termini più corretti, il significato autentico della fedeltà. La vera fedeltà non è passiva e ripetitiva, ma attiva e creativa; esige il costante sforzo di integrare all’interno dell’impegno assunto i cambiamenti che inevitabilmente sopraggiungono. La scelta iniziale va pertanto di continuo rinnovata, superando i momenti difficili e le conflittualità della vita quotidiana, con la tensione ad aprirsi permanentemente al futuro. La fedeltà è, come ha scritto J. De Finance, una fedeltà che risulta da una scelta insieme definitiva e perpetuamente rinnovata: definitiva perché fondata su valori eterni; perpetuamente rinnovata, perché essendo il soggetto e l’ambiente entro il quale si sviluppa inseriti nel tempo, non potrà mantenersi che al prezzo di un incessante sforzo di adattamento e di creazione”.

La vita a due è dunque una vita di costante adattamento e riadattamento, che si sviluppa attraverso un progressivo dialogo, una crescente comunicazione. Il tempo è la condizione di questo sviluppo; esso consente all’amore di approfondirsi, fino a raggiungere la piena maturità umana. La fedeltà non è perciò una realtà conseguita una volta per tutte, ma un compito da perseguire mediante un rinnovamento continuo del rapporto. Essa è – come si è già ricordato – la capacità di vincere le resistenze che vengono da situazioni nuove e impreviste, piegandole positivamente alle esigenze della propria scelta originaria. È la capacità di riscegliere ogni giorno, in modo nuovo e diverso, sulla scorta della scelta compiuta una volta per tutte.

La dispersione dello spazio e del tempo – osserva acutamente M. Nédoncelle – è certo una condizione della fedeltà terrestre. Se la vita non ci sparpagliasse, la fedeltà non dovrebbe precedere con la fede il termine che essa afferma e al quale si consacra. Ma il ruolo della fedeltà è precisamente quello di invertire il tempo per compiere la persona. Al movimento di deriva che ci impone la natura, essa sostituisce la continuità eterna e l’iniziativa insostituibile che la nostra vocazione ci propone.

O piuttosto trasforma i ritmi. Da un avvenimento che ci travolge, essa trae un ricordo che dimora; di un ostacolo che ci arresta, essa fa un trampolino che ci eleva. Ha la funzione, insomma, di salvare l’incontro spaziale nella nostra durata e, in tal senso, di temporalizzare lo spazio e di eternizzare così il tempo.

Concludendo, interpretazione teologico-morale dell’indissolubilità evangelica come norma escatologico-profetica o ideale di perfezione e attenzione realistica alla condizione umana e ai suoi limiti convergono nel mettere in evidenza la necessità di una mediazione pastorale e giuridica dell’istanza della fedeltà per la vita di fronte a situazioni divenute incompatibili con il perseguimento dell’ideale evangelico. Sembra essere questa un’esigenza che prende corpo in una forma di giustizia, la quale ha la sua espressione più alta e più vera nella misericordia.

Giannino Piana Fallibilità dell’amore umano nello sguardo di Dio

www.viandanti.org/sito/wp-content/uploads/2014/09/Piana_In-principio-indissolubilit%c3%a0_Def-Sito.pdf

AUTORITÀ GARANTE PER L’INFANZIA E L’ADOLESCENZA

Violenza sui minori, l’Autorità garante Carla Garlatti scrive al Presidente Giorgia Meloni

Formalizzate le proposte avanzate in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia. Chiesto un incontro con Palazzo Chigi

L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti* 1957 ha inviato una nota al Presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni per portare all’attenzione del Governo le proposte in tema di violenza sui minorenni formulate lo scorso 20 novembre, in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia. Garlatti ha chiesto un incontro a Meloni per parlare delle questioni che investono i diritti di bambini e ragazzi nel nostro Paese.  

Ho sottoposto al Presidente Meloni la necessità che l’Italia si doti, entro la fine della legislatura, di una legge organica per la prevenzione e il contrasto di tutte le forme di violenza”, dichiara Garlatti. “Tra gli interventi che la normativa dovrebbe contenere ho evidenziato l’opportunità di introdurre l’obbligo di richiedere il certificato del casellario giudiziale anche ai volontari che operino a contatto con i minorenni in forma continuativa, come già avviene nei casi di rapporto di lavoro o volontariato organizzato, al fine di escludere precedenti penali per reati a sfondo sessuale. Inoltre, ho suggerito di ampliare il novero dei reati specifici che dovrebbero impedire di svolgere attività con bambini e ragazzi”.

La nota contiene anche proposte in tema di violenza di genere nelle coppie di giovanissimi. “Anche alla luce dei recenti, tragici fatti di cronaca – sottolinea Garlatti – è indispensabile mettere in atto interventi destinati agli adolescenti. In tale ambito ho suggerito, in particolare, la realizzazione in tutto il territorio nazionale di centri antiviolenza dedicati esclusivamente alla presa in carico dei ragazzi. Strutture che, in rete con i servizi già presenti, siano in grado di offrire spazi e assistenza a misura di adolescente. Allo stesso modo è fondamentale che vengano adattati al linguaggio degli adolescenti gli strumenti di autovalutazione del grado di rischio di una relazione affettiva, in modo che rispondendo a un questionario anonimo un adolescente possa prendere consapevolezza della situazione nella quale si trova”.

24 novembre 2023

www.garanteinfanzia.org/violenza-minori-garante-garlatti-scrive-meloni

Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n. 44, 29 novembre 2023

§ Giornata mondiale per le persone disabili. La disabilità con gli occhi di un bambino [guarda il video, 1min. 56″].Un breve video, senza parole, di meno di due minuti, di qualche anno fa (2016). Eppure la sua potenza espressiva rimane intatta. E mette a nudo la libertà dei bambini di accogliere chi appare come diverso, contrapposta alla difficoltà che gli adulti dimostrano, ben al di là delle proprie intenzioni. Per una volta, i bambini dimostrano di possedere le competenze necessarie per una società più umana ed inclusiva, molto più degli adulti. C’è sempre da imparare!                                                                                                                                               www.youtube.com/watch?v=6lyO_kaD5HM

 § Ocse/Oecd: the uneven impact of high inflation [leggi il Report] (Le imprevedibili differenze di impatto degli alti tassi di inflazione), Report OCSE, N. 18 degli Oecd papers on well-being and inequalities. Dopo un lungo periodo di prezzi stabili e di costi del denaro bassi o tendenti a zero, in pochi mesi l’impatto dell’inflazione è stato avvertito in modo significativo a livello globale, generando fenomeni di disuguaglianza e di impoverimento. Interessante, in questo Report dell’OCSE, l’attenzione al modo in cui le diverse forme e strutture familiari sono state più o meno colpite da tale fenomeno. A conferma che la dimensione familiare rimane cruciale nel definire benessere, vulnerabilità e processi di impoverimento delle persone e delle famiglie, e che anche l’analisi economica deve riuscire a “leggere la famiglia”.

  www.oecd-ilibrary.org/social-issues-migration-health/the-uneven-impact-of-high-inflation_59e2b8ae-en

 § La povertà oggi in Italia: tenere accesi i riflettori. In occasione della VII Giornata Mondiale dei Poveri, il 19 novembre scorso, Caritas Italiana ha presentato il suo Rapporto 2023 su povertà ed esclusione sociale in Italia dal titolo “Tutto da perdere” [qui il testo integrale in pdf].

https://archivio.caritas.it/materiali/Rapporti_poverta/2023/rapportopoverta2023_tuttodaperdere.pdf

 “Il focus centrale e trasversale è dedicato in questa edizione al fenomeno dei working poor, ossia di quelle situazioni di povertà, personali e familiari, in cui non manca il lavoro, ma il reddito non è sufficiente a una vita dignitosa”. Un tema su cui tenere sempre alta l’attenzione, in cui la composizione della famiglia e le relazioni al suo interno possono fare la differenza (cfr. anche il recente Cisf Family Report 2023, “Politiche al servizio della famiglia”, soprattutto sul rapporto tra famiglia e povertà, nelle Conclusioni – pp. 216-226).

https://cisf.famigliacristiana.it/cisf/cisf-news/articoloCISF/politiche-al-servizio-della-famiglia-la-rassegna-stampa.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_29_11_2023

 § Politiche per la famiglia in Italia e in Europa: tanto da imparare. La percentuale di nuclei familiari a rischio di povertà a livello nazionale è del 20,1%, in presenza di tre figli tutti minori sale al 37,7% e rimane alta anche se i tre figli non sono tutti minori (30,9%). l’Italia investe per la famiglia poco più della metà di quanto investono i Paesi più virtuosi. Leggi l’analisi di Pietro Boffi sul sito di Famiglia Cristiana, a partire dai dati del Cisf Family Report 2023 (soprattutto il capitolo 5, Le politiche familiari in Europa, di P. Garcia-Ruiz e P. Redondo-Mora,  pp. 143-180).

www.famigliacristiana.it/articolo/litalia-fanalino-di-coda-in-europa.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_29_11_2023

www.sanpaolostore.it/politiche-al-servizio-della-famiglia-cisf-family-report-2023-9788892243187.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_29_11_2023

§ Dalle case editrici

M. e R. Manali, In cammino con Chiara e Francesco, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 2021, pp. 270.

Pellai, La vita accade, ed. Mondadori, Milano, 2022, pp. 196.

M. Lora, Il matrimonio in Giovanni Paolo II, Editoriale Romani, Savona, 2023, pp. 393.

§ Save the date – dall’Italia e dall’estero

  • Trento, 2-7 dicembre 2023 – 12.a Edizione del Festival della Famiglia, Lo spread tra “ famiglia reale” e “famiglia desiderata”. Quali le politiche da attuare partendo dall’autonomia dei giovani e dal sostegno all’occupazione femminile. La manifestazione è coordinata dall’Agenzia per la coesione sociale della Provincia autonoma di Trento con il patrocinio del Dipartimento per le politiche familiari della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

www.trentinofamiglia.it/News-eventi/Eventi-annuali-dell-Agenzia/Festival-della-famiglia

  • Cuneo, 4 dicembre 2023. (9.30-12.30) – Rito unitario per le persone, i minorenni e le famiglie, convegno promosso dall’Osservatorio nazionale diritto di famiglia- sezione di Cuneo e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cuneo, con crediti formativi per avvocati.
  • www.ordineavvocaticuneo.it/wp-content/uploads/2023/11/Evento-4-dicembre-1.pdf
    Webinar (Eng/Ger) – 5 dicembre 2023. (13.00-14.00 – ora di Roma/Berlino).-
    Being older and younger in rural regions – how we can promote social cohesion at local level (Essere giovani e anziani nelle aree rurali – come promuovere coesione sociale a livello locale), a cura di Population Europe e della Förderfonds Wissenschaft (Berlin), In Inglese e tedesco (English and German language).

www.linkedin.com/posts/population-europe_the-future-of-our-living-together-activity-7127652266634797057-JiC_

  • Assisi (PG), 8-10 dicembre 2023 – Conta le stelle. Scoprire la promessa della fertilità nel tempo dell’infertilità, ritiro per coppie di sposi promosso  dalla Fraternità “San Giovanni Paolo II(www.pastoraleconlefamiglie.org)
  •  [qui per programma ed iscrizioni]         www.domuspacis.it/conta-le-stelle
https://a4e9e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fgg=wsswt/e-ge=s/fh0=oyr49a1:a=.-4&x=pv&65kac&x=pp&qzb9g6.b9g9h/:i4-7d=vu3vNCLM

CHIESA IN ITALIA

Trento-abusi: la fiducia tradita

Il dolore degli abusi sessuali sta chiedendo alla Chiesa cattolica un profondo ripensamento anche del suo agire pastorale: mettere a parola la complessità del tema, oltre gli slogan, significa individuare i possibili passi per una vita ecclesiale più capace di testimoniare il Vangelo. «L’elitismo, il clericalismo favoriscono ogni forma di abuso. E l’abuso sessuale non è il primo. Il primo è l’abuso di potere e di coscienza».

                Le parole di papa Francesco hanno aperto i lavori del convegno «La fiducia tradita. Gli abusi di potere, di coscienza e spirituali all’interno della Chiesa», che il Servizio Diocesano Tutela Minori della diocesi di Trento ha organizzato venerdì 10 novembre 2023. Si sono succeduti gli interventi di Anna Deodato, del Consiglio di Presidenza Servizio Nazionale Tutela Minori della CEI (Milano); Katharina Anna Fuchs, dell’Istituto di Psicologia della Pontificia Università Gregoriana (Roma) e, infine, Barbara Facinelli, responsabile del Centro di Ascolto del Servizio Tutela Minori (Trento).

Ascolto delle vittime. Il primo passo è stato dedicato a un tempo di ascolto della testimonianza di una persona ferita da forme diverse di abusi. L’ascolto, guidato dalla prof.ssa Deodato, ha permesso ai partecipanti di entrare in contatto con ciò che una vittima, anche a distanza di tempo, vive nell’intimo della sua persona: la sua lotta per vivere, le tracce di dolore che emergono anche attraverso circostanze che si ripetono e rinnovano memorie faticose, le domande sulla fede. Ciascuno dei presenti in sala ha avvertito in modo forte, profondo e con chiarezza come l’esperienza di un abuso sconvolge la vita di una persona: «come può cadere in prescrizione il dolore di una persona che si ritrova con la vita sfasciata. Questa parola è terribile. Non la si può capire se non la si vive, perché non si capisce che il dolore dell’abuso è un dolore che non trova pace».

Sono parole che non possono non inquietare e smuovere le coscienze di ciascuno e di tutti. Ce ne siamo accorti anche nel momento in cui siamo stati invitati a reagire personalmente e in sala a partire da alcune domande: cosa sto pensando, cosa ho provato mentre ascoltavo, quali parole ed emozioni mi ritrovo nel mio intimo.

                Lo scambio libero che ne è seguito ha evidenziato come ciascuno abbia partecipato e avvertito in modo intenso ciò che la vittima ci aveva trasmesso: senso di umiliazione, di lotta interiore, rabbia dell’ingiustizia subita, la desolazione della solitudine, ma anche – come qualcuno ha messo in luce – la forza profonda del desiderio di continuare a vivere.

Questo primo momento è stato un esercizio formativo, ci ha permesso di entrare nella seconda parte del Convegno con maggiore consapevolezza e rispetto, consapevoli che tutto ciò che si conosce dell’abuso fa soprattutto parte di una realtà che ferisce le persone, la Chiesa e la società.

Abuso di potere. L’approfondimento, affidato alla prof.ssa Fuchs, ha ulteriormente consegnato con chiarezza i termini della questione. Va affrontato prima di tutto un chiarimento linguistico, per mettere a fuoco che cosa si intenda per abuso spirituale, e così superare una certa confusione concettuale, culturale e linguistica. Come ogni abuso, è strettamente collegato a tre fattori: il superamento dei confini e dei limiti, il ruolo del potere, la fiducia.

                Dunque, il primo focus è sul ruolo del potere, in quanto l’abuso è fortemente legato al suo esercizio. Ogni tipo di istituzione è coinvolta; nel contesto ecclesiastico in particolare, si danno due tipi di potere, quello di governo e l’autorità morale.

L’abuso di potere si può esprimere attraverso forme di squilibrio («causato, ad esempio, dalla posizione, dalla gerarchia ecclesiastica, dall’età, dall’esperienza di vita o di lavoro o dallo stato sociale») e dentro relazioni asimmetriche («incluse quelle pastorali, spirituali, educative e formative»).

Lo squilibrio di potere si manifesta in modo sottile e inconsapevole, come può essere il modo di comportarsi, di parlare o di vestirsi, così da essere individuato quale membro di un gruppo. Nell’abuso di potere gioca un ruolo fondamentale la fiducia che viene posta nell’abusante, stimato per le sue competenze e capacità umane e professionali: nella vita religiosa, la questione è amplificata dalla fede in Dio quale componente di fondo della relazione. La fiducia è abusata quando «i confini nelle relazioni fiduciose vengono violati o trasgrediti e quando una persona colpita da abuso lo rivela e non viene creduta».

Abuso spirituale. Un secondo focus è dato all’abuso spirituale, che avviene solitamente «nel nome di Dio», e quindi è molto difficile da mettere in discussione. Si esprime in «schemi sistematici di comportamento di controllo, intimidazione e manipolazione; uso improprio o manipolativo della sacra Scrittura e/o di altri testi religiosi e spirituali; minacce di conseguenze spirituali negative; violazione dell’autodeterminazione e della libertà spirituale».

                È un abuso di potere e di fiducia che interseca sia la dimensione orizzontale che quella verticale della persona; è incarnato da figure di guide spirituali (fondatori, superiori, accompagnatori ecc.) che si collocano tra Dio e l’uomo quali unica fonte di risposte corrette.

                Le persone colpite rischiano la perdita dell’identità personale, perché quella di gruppo diventa predominante; sono violati i confini dell’accompagnamento spirituale; la persona è isolata; si creano relazioni di dipendenza, sostenute da un pensiero elitario e da un’obbedienza cieca; vengono posti obiettivi missionari ambiziosi e irraggiungibili; nasce confusione tra foro interno ed esterno.

Abuso di coscienza. Terzo e ultimo focus è sull’abuso di coscienza, collegato strettamente all’abuso spirituale e alla violenza psicologica, una forma sottile e subdola di maltrattamento, con tante «facce» diverse, che vanno dall’umiliare, al criticare, negare, controllare, accusare, biasimare o isolare un’altra persona per destabilizzarla, metterla in imbarazzo o per creare dipendenza.

I documenti della Chiesa hanno riconosciuto la coscienza quale «luogo dell’ultima responsabilità e dell’identità personale dell’uomo in relazione con Dio». È l’autorità suprema, prima di qualsiasi istituzione religiosa e civile. Quando l’apertura e la fiducia di una persona diventano strumenti per sostituirsi alla sua coscienza, si dà un abuso; nasce una relazione profondamente distorta: chi è accompagnato, viene sollevato dalla fatica della scelta; chi accompagna, acquista sempre più potere: «Questa è la cosa giusta! Questa è la tua strada/la tua vocazione! Dio ti ha chiamato a questo! Questo è buono e questo è cattivo!». Anche se il consiglio è corretto, sono vincolate o annullate la libertà personale e la possibilità di crescere nella scelta autonoma.

Su diversi livelli. Le dinamiche manipolative e abusive mettono a rischio i singoli, ma anche gruppi di persone, famiglie, fino ad arrivare a intere comunità, in tanti luoghi pastorali: «accompagnamento spirituale; contesto educativo/formativo; catechismo; confessione; gruppi di preghiera; vita quotidiana di un movimento e di una comunità; ritiro spirituale; omelia».

                Una regola di fondo va ricordata: «La violazione dei confini in un’area porta a soglie di inibizione più basse in altre aree»; per questo l’abuso di coscienza o spirituale possono «preparare, giustificare e accompagnare altre forme di abuso».

Spesso le ferite e le conseguenze di questi abusi sono profonde e dolorose; la prof.ssa distingue tra otto livelli diversi: spirituale; emotivo; psicologico/mentale; fisico; cognitivo; morale; psico-sociale; finanziario. Il numero di livelli dice da solo la gravità, che coinvolge anche vittime secondarie: testimoni, familiari, appartenenti alla comunità o movimento religioso.

In sintesi, gli abusi di potere, di coscienza e spirituali sono una realtà che può teoreticamente colpire tutti, soprattutto nei momenti di fragilità o vulnerabilità.

«L’abuso spirituale e l’abuso di coscienza sono delle questioni difficili e molto delicate con delle conseguenze talvolta gravi sulla vita, sulla salute psichica e fisica, sulla relazione con Dio e sulla fede delle persone colpite. Entrambe le forme di abuso sono legate al potere e alla fiducia e hanno molte sfaccettature, per questo non è sempre facile riconoscerle, percepirle e distinguerle. Per questo motivo, la consapevolezza e la conoscenza dell’argomento, delle sue dinamiche e delle sue conseguenze sono essenziali per aiutare le persone colpite e per prevenire attivamente il tradimento della fiducia come capita negli abusi spirituali e di coscienza».

Azioni necessarie e possibili. Prima di tutto, è «essenziale sensibilizzare il più possibile sulla responsabilità associata a una certa posizione e al potere che l’accompagna». Si tratta poi di porre come obiettivo di ogni azione pastorale quello di «formare le coscienze, non pretendere di sostituirle» (Amoris lætitia 37).

                Infine, è stato toccato il modo con cui la Scrittura viene interpretata, come guadagno di umanità oppure come fonte di sottomissione. Sono questi ambiti centrali per il ripensamento di ogni agire ecclesiale, perché sia trasparenza di quel Dio che ha trasformato in servizio ogni potere.

                Il convegno si è concluso con le parole della dott.ssa Facinelli, che ha presentato l’attività del Servizio diocesano tutela minori.

                 L’articolo è stato redatto con la collaborazione delle relatrici del convegno, Anna Deodato, del Consiglio di Presidenza Servizio Nazionale Tutela Minori della CEI (Milano), e Katharina Anna Fuchs, dell’Istituto di Psicologia della Pontificia Università Gregoriana (Roma)

Rolando Covi    Settimana news 21 novembre 2023

www.settimananews.it/chiesa/trento-abusi-la-fiducia-tradita

Card. Matteo Zuppi: L’amore è sempre relazione, dono, libertà, rispetto

Testo dell’omelia che il Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente  della CEI, ha pronunciato

il 26 novembre, a Verona, in occasione della Santa Messa di chiusura del XIII Festival della Dottrina sociale.

Il Vangelo di oggi ci aiuta a riscoprire cosa è la dottrina sociale della Chiesa e l’unità indivisibile tra questa e la celebrazione eucaristica, tra lo spirituale e il materiale, tra l’amore per Dio e quello per il prossimo ad iniziare dai “suoi fratelli più piccoli”. Solo di loro Gesù dice che qualunque cosa facciamo al loro corpo la facciamo a Lui. È lo stesso Cristo deposto sull’altare. La dottrina sociale non riguarda alcuni specialisti! Aiuta tutti a capire come dare da mangiare ad un affamato, a capire perché ha fame, a interrogarsi su cosa richiede farlo. La dottrina sociale è sempre dinamica, non è mai conclusa!

 La Chiesa vive nel mondo. Non ne ha paura, ma ha paura di diventare come il mondo se perde l’amore di Gesù o lo fa diventare un tranquillante per il proprio benessere individuale. La Chiesa legge nel mondo – così com’è – i segni dei tempi, quelli che ci aiutano a capire il Vangelo e a comprendere cosa è chiesto oggi a noi che vogliamo metterlo in pratica. Il Vangelo non dà una risposta per tutto ma ci insegna a trovarla sempre perché ci aiuta ad amare tutto e tutti. E questa è la risposta di Gesù: ti amo. È amore che diventa intelligenza, cultura, umanesimo, prassi e che la Chiesa offre a tutti, regala a chiunque e chiede a tutti coloro che hanno responsabilità sociali, cioè per la comunità. Alcuni ne hanno parecchie ma, attenzione, tutti abbiamo le nostre! Siamo persone “socievoli”, non individui-isole! Non ci sono spettatori nella società e nella Chiesa. La dottrina sociale non è allora di qualcuno ma di tutti e per tutti. Non è di parte, tanto meno di un partito, ma prende posizione e sta sempre dalla parte della persona, dal suo inizio alla sua fine, chiunque essa sia, mistero di amore che ci è affidato. Non ha altre preoccupazioni la Chiesa che essere fedele a Gesù e al suo prossimo e questa è la sua libertà. Fare qualunque cosa per il Signore libera dalla misera ricerca di ruolo, di successo, di potere per il potere, di usare le buone intenzioni per nasconderne altre, di scegliere per opportunismo o favoritismi, di ridurre il sociale ai propri “soci” e non a tutte le persone. I poveri sono suoi e farlo a loro significa farlo a lui. Il giudizio inizia già oggi e quanto ci aiuta esercitarci nel fare le cose davanti a Dio per farle davanti agli uomini. La dottrina sociale della Chiesa nasce da questa consapevolezza: il tuo futuro dipende dal loro e viceversa, anche il loro futuro dipende da te. Non è mai la stessa cosa se “facciamo” misericordia oppure non facciamo niente, se ci fermiamo invece di passare oltre, se diventiamo noi il prossimo e loro per noi facendocene carico. Chi ama i poveri ama tutti e non per convenienza, tanto che siamo ammoniti a non cercare nessun contraccambio, fossero riconoscimenti o ruoli. L’amore vero è solo gratuito e solo la gratuità ci fa trovare quello che davvero ci serve. La ricerca di amore per sé senza il prossimo diventa ossessiva, provoca una malata esaltazione di sé senza limiti, nascondendo la fragilità per poi precipitare nella depressione senza fondo. L’amore che possiede è violento perché al centro c’è solo l’io mentre l’amore è sempre relazione, dono, libertà, rispetto. Non è mai difficile la dottrina sociale, anzi è possibile a tutti e ci rende davvero umani. Dipende se la viviamo con amore. Altrimenti un affamato è solo un problema, una grana da evitare e non un fratello da amare. È proprio vero: siamo sulla stessa barca. Ve lo ha scritto Papa Francesco: la libertà personale è unita a quella comunitaria. L’amore moltiplica il poco ma solo se lo condividi. Solo dopo avere offerto il pane capiamo che questo basa per tutti, altrimenti restiamo solo a difendere i nostri cinque pani che finiranno per non bastare mai neanche per noi. Siamo sazi quando saziamo e condividiamo! Papa Francesco ci chiede di rimuovere le cause che determinano la povertà, la sofferenza. Anche per questo l’impegno per la pace è fondamentale, perché la guerra causa tutte le povertà, quelle condizioni di cui ci ha parlato il Vangelo: fame, sete, nudità perché perdi tutto per prima cosa la dignità, tutte le malattie, diventi prigioniero, ostaggio e torturato, sei uno straniero perché devi scappare. “Aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro”. Non faremmo così con i nostri fratelli, che sono più piccoli, quindi doppiamente affidati a noi? La dottrina sociale ispira, anzi esige una traduzione politica, nel senso più alto del termine, esigente, rigoroso anche per liberarla da errori, corruzione, inefficienza tanto che qualcuno vorrebbe sostituirla “con l’economia o a dominarla con qualche ideologia”. Abbiamo bisogno di una politica, di un’economia, di persone responsabili che in ogni loro servizio pensino con una visione ampia, e che portino avanti un “nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi”. (FT177). Si tratta di un progetto comune per l’umanità presente e futura, affidato a ciascuno nella libertà delle scelte ma nel rigoroso impegno a vivere questo amore cristiano. “Tutti gli impegni che derivano dalla dottrina sociale della Chiesa sono attinti alla carità che, secondo l’insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr. Mt 22,36-40)”. Ciò richiede di riconoscere che “l’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore”. La carità non è “un sentimento sterile, un sentimentalismo soggettivo” (FT 185). E quanto ci serve lasciarci educare ad un sentimento di amore che lega in relazioni affettive, umane, rete che ci fa essere parte di una comunità vera e non isole che possono confidare solo su sé stesse. Gesù ci affida tutto di sé perché diventi realtà, vita, intelligenza, risposte, gesti concreti, piccoli e grandi ma di solo amore. Le opere di misericordia sono la prima dottrina sociale indicata da Gesù per tutti, e dalla quale nessuno può ritenersi escluso per ruolo o condizione. E facciamolo non per dovere, ma per amore, con le mani, il cuore e la testa, uniti dall’amore per Gesù. Un affamato ci aiuta a condividere e donarlo ci aiuta a trovare il pane che non finisce e a dare valore a quello della terra. Dare da bere un po’ di acqua ci farà sentire la sete di vita e trovare la sorgente nel nostro cuore che zampilla per la vita eterna. Rivestire un nudo ci regala la nostra vera dignità e ci farà vestire l’abito più bello, quello splendente della carità. Visitare un malato ci fa capire la forza straordinaria dell’amore che guarisce e riflette quello di Gesù, medico buono che non lascia soli nessuno e che protegge dalla sofferenza e dall’abbandono. Andare in carcere ci aiuterà a capire che nessuno è mai il suo peccato, anche terribile, perché la consapevolezza di questo non diventa condanna ma incontra la misericordia che apre al futuro e affranca dal passato. Accogliere uno straniero e renderlo di casa ci fa trovare il nostro prossimo e straniera diventa solo la divisione e l’indifferenza che fanno perdere l’umanità. Il suo regno è di fratelli tutti. In un mondo pieno di divisioni e di meschinità, minacciato dalla pandemia e attraversato da violenza e guerre, capiamo la nostra vera forza, essere suoi e appartenere a Lui. E ci fa sperimentare già oggi la gioia che nessuno ci può togliere. Sono felice quando faccio agli altri quello che voglio sia fatto a me. Solo per amore

www.chiesacattolica.it/card-zuppi-lamore-e-sempre-relazione-dono-liberta-rispetto

CHIESA NEL MONDO

I vescovi tedeschi e l’abuso spirituale

                Negli ultimi tempi le cronache hanno portato alla ribalta, da parte di fondatori di comunità o personaggi carismatici, casi di abuso spirituale. Esso consiste «nell’abuso dell’autorità spirituale che qualcuno ha o si attribuisce, ad esempio come pastore, direttore spirituale, formatore, e alla relativa manipolazione, ad esempio, dell’interpretazione delle sacre Scritture, della tradizione spirituale della Chiesa o della spiritualità di una comunità».

                In Germania ci sono stati di recente i casi della comunità “Totus tuus” della diocesi di Münster e della Christusgemeinschaft di Osnabrück. In Francia i Fratelli di Saint-Jean, Fraternités de Jérusalem, Verbe de Vie

Molto spesso tali forme di costrizione accompagnano altri tipi di abusi e violenza, e nel caso dell’abuso spirituale «le conseguenze psichiche, emotive, biografiche ed esistenziali, le ferite che a volte durano per tutta la vita, sono paragonabili a quelle della violenza sessuale»   c (Heinrich Timmerevers *1952, vescovo di Desdra).

                Parlarne anche se non è reato. Per questa ragione la Conferenza episcopale tedesca ha voluto richiamare l’attenzione sul tema, anche perché «l’abuso spirituale come sistema complesso non è qualificato come reato né nel diritto penale canonico (versione riformata del 2021) né nel codice penale statale».

                E il 26 settembre ha pubblicato, a cura del Segretariato della Conferenza episcopale, il sussidio «Abuso di autorità spirituale. Sul trattamento degli abusi spirituali», che sulla base degli studi disponibili circoscrive il problema e offre possibili misure preventive e d’azione sulla base del diritto canonico e amministrativo.

                Del testo, pubblicato in traduzione italiana su «Il Regno – documenti» di novembre 2023,

https://ilregno.it/documenti/2023/19/labuso-di-autorita-spirituale-vescovi-tedeschi

proponiamo la prefazione a cura del vescovo di Dresda, il focolarino Heinrich Timmerevers, che all’interno della Conferenza episcopale tedesca fa parte del gruppo incaricato per le esperienze di violenza. (D. S.)

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La storia del sussidio. Il presente sussidio su «L’abuso di autorità spirituale. La gestione degli abusi spirituali» ha una storia. Dal punto di vista delle persone colpite, è durato troppo a lungo il periodo in cui la loro sofferenza non ha potuto essere affrontata e nominata, non è stata vista, non è stata riconosciuta, se non è stata addirittura banalizzata. Non di rado, in un’inversione aggressore-vittima, a essere incolpate dell’abuso e delle sue conseguenze sono state le vittime stesse.

Tuttavia i resoconti delle vittime, le esperienze degli operatori pastorali nell’accompagnarle e un numero crescente di pubblicazioni sull’abuso spirituale o clericale rendono più che evidente che si tratta di un intero complesso di atti abusivi e di un contesto globale di manipolazione e soggiogamento spirituale. Le conseguenze psichiche, emotive, biografiche ed esistenziali, le ferite che a volte durano per tutta la vita, sono paragonabili a quelle della violenza sessuale. Per questo motivo è un primo e importante passo che i vescovi tedeschi, nel sussidio L’abuso di autorità spirituale, seguano un linguaggio usato dalle stesse persone colpite.

                Parole e concetti mancavano. Ma anche all’interno della Conferenza episcopale tedesca mancavano le parole e i concetti per cogliere ciò che ci veniva riferito e che non si poteva più trascurare. La Commissione pastorale e la Commissione per le vocazioni spirituali e i servizi ecclesiastici hanno tenuto una conferenza riservata a Mainz il 31 ottobre 2018 per affrontare per la prima volta in modo esplicito gli abusi spirituali in quanto tali. La conferenza si è concentrata sui resoconti delle donne colpite e sulle esperienze delle persone che le hanno accompagnate.

Le due commissioni suddette hanno quindi istituito un gruppo di lavoro con il compito di riassumere le esperienze esistenti in materia di abusi spirituali in un sussidio di lavoro, che doveva contribuire a chiarire i termini e fornire informazioni su come identificare, sanzionare e prevenire gli abusi spirituali.

Si parla di «abuso di autorità spirituale». Dopo un ampio processo di consultazione, in aggiunta alle riflessioni di un simposio digitale interdisciplinare internazionale su «Guide spirituali pericolose? Abuso psicologico e spirituale» (12-13.11.2020), il gruppo di lavoro ha prodotto la bozza del presente sussidio. Un ringraziamento particolare va ai membri di questo gruppo di lavoro: il dott. Peter Hundertmark (Speyer), la dott. Rosel Oehmen-Vieregge (Paderborn), il diacono Patrick Oetterer (Colonia), la dott. Hannah Schulz (Bensberg), Axel Seegers (Monaco di Baviera) e i dott. Claudia Kunz e Paul Metzlaff del Segretariato della Conferenza episcopale tedesca (Bonn).

                Nelle loro ulteriori consultazioni con le persone colpite, con i membri degli ordini religiosi e delle comunità spirituali e con gli operatori pastorali, le due commissioni sopra citate si sono espresse a favore del comprendere l’abuso spirituale, in questo sussidio, nel senso preciso di abuso di autorità spirituale. Infatti un abuso in sé non può mai essere di natura spirituale. Ma sia il clero sia i laici come pastori e operatori pastorali, guide spirituali, responsabili di congregazioni o leader di comunità spirituali e così via possono abusare dell’autorità spirituale che è loro o che è loro attribuita.

Le vittime sonio adulte. Diversamente dall’abuso di potere spirituale da parte dei funzionari della Chiesa, l’abuso di autorità spirituale concerne anche coloro che manipolano altri spiritualmente senza avere una funzione istituzionale o strutturale di potere nella Chiesa. In un gran numero di casi, questo abuso di autorità spirituale nella Chiesa ha fatto strada a violenze sessuali su bambini, giovani e adulti.

Tuttavia l’elaborazione dell’abuso spirituale è un processo a sé e distinto dalla violenza sessuale. A differenza di quest’ultima, non è mai stato inserito nei fascicoli personali di possibili autori o autrici di abusi. Nel caso dell’abuso spirituale, le vittime che si fanno avanti erano già adulte durante il periodo dell’abuso, che spesso si è protratto per anni nel caso di membri di ordini e comunità religiose. A differenza della violenza sessuale l’abuso clericale, se non è avvenuto in connessione con quello sessuale, non viene quasi mai perseguito dai pubblici ministeri.

Siamo solo all’inizio. L’esperienza precedente nelle diocesi lo dimostra: le vittime vogliono innanzitutto che le loro esperienze vengano definite abusi spirituali e che la sofferenza che ne deriva venga nominata e riconosciuta. A differenza della violenza sessuale, tuttavia, siamo solo all’inizio del processo di chiarimento e di definizione dell’abuso spirituale.

Nel preparare il sussidio abbiamo dovuto affrontare una tensione tra il fatto che, da un lato, le diocesi hanno espresso l’urgente necessità di una pubblicazione tempestiva del sussidio sull’abuso spirituale nella cura pastorale, nelle organizzazioni e nelle comunità spirituali, e il fatto che, d’altro lato, attualmente si sta mettendo insieme una grande esperienza nell’approccio all’abuso dell’autorità spirituale e il processo di valutazione scientifica non è ancora stato completato.

Prevenire la manipolazione spirituale. Soprattutto per quanto riguarda la pena, ad esempio la sanzione ecclesiastica o il riconoscimento della sofferenza delle persone colpite, dagli sviluppi in corso emergono sempre nuove domande. In questo contesto i vescovi nell’Assemblea plenaria di primavera del 2023 hanno pubblicato questo sussidio e contemporaneamente hanno annunciato per il 2026 una sua valutazione e revisione sulla base degli attuali sviluppi della prassi e della scienza.

Vorrei quindi chiedere ai destinatari di questo sussidio – pastori, operatori pastorali, direttori spirituali e predicatori di esercizi, responsabili di ordini religiosi e comunità spirituali, referenti e consulenti dei punti di contatto per le vittime di abusi spirituali e sessuali e, non da ultimo, le vittime stesse – un riscontro che ci consenta di valutare e aggiornare i principi di base e la praticabilità di questa guida tra tre anni.

                La sfida centrale della cura pastorale sarà quella di prevenire precocemente la manipolazione spirituale e di dare spazio alla libertà che lo Spirito di Dio dona (cf. 2Cor 3,17). Dobbiamo darci questo importante compito di prevenzione! (Bonn/Dresda, 31 maggio 2023)

https://ilregno.it/documenti/2023/19/labuso-di-autorita-spirituale-vescovi-tedeschi

CITTÀ DEL VATICANO

Papa alle vittime di abusi: il silenzio sul vostro dramma si rompe ascoltandovi

L’incontro di Papa Francesco con la delegazione di persone della diocesi di Nantes (Francia) vittime di abusi in età minorile, oggi pomeriggio a Casa Santa Marta.

                Nel messaggio consegnato al mattino dalla Commissione Tutela Minori, ricorda che “l’abuso è un tradimento della nostra umanità data da Dio

Le persone erano accompagnate da alcuni religiosi della Congregazione dei Fratelli Monforte di San Gabriele e della Commissione per il Riconoscimento e la Riparazione (Crr) della diocesi francese. Il gruppo aveva incontrato per due ore, nel corso della mattina, la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, nella sua sede in centro a Roma, a Palazzo Maffei Marescotti, e qui gli era stato letto e consegnato un messaggio del Papa. È stato un momento di ascolto, apprendimento e dialogo focalizzato sul percorso di testimonianze, memoria e prevenzione che portano avanti con la Chiesa locale e la Congregazione.

L’incontro della delegazione di persone della diocesi di Nantes (Francia) vittime di abusi in età minorile, con la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, nella sede di Palazzo Maffei Marescotti

Tutti insieme per rompere il silenzio degli abusi. Il sovvertimento dei diritti di un bambino attraverso la violenza e l’abuso è un tradimento della nostra umanità data da Dio” scrive Francesco. Voi, ricorda, come “molti bambini e persone vulnerabili” avete sperimentato “il male più grande in un luogo in cui avete – insieme alle vostre famiglie – cercato ciò che è vero e buono”. “Ho chiesto alla Commissione di ascoltare le vostre parole a nome mio e di raccogliere le vostre testimonianze – prosegue il Pontefice nel suo messaggio – affinché possano rafforzare e ispirare il nostro impegno comune per sradicare gli abusi dalla nostra Chiesa e dalle nostre comunità. Possiamo farlo solo insieme, tutti insieme, ognuno facendo la sua parte per rompere il silenzio degli abusi”.

Ascoltare ciò che vittime e sopravvissuti hanno da dire. Come dimostra il vostro cammino insieme ai Fratelli Monforte di San Gabriele, continua il testo “questo silenzio può essere rotto se all’interno dell’Istituzione stessa c’è un’apertura attiva e rispettosa ad ascoltare ciò che le vittime e i sopravvissuti hanno da dire. Questo non è sempre facile e mi congratulo con tutti voi per questo risultato di camminare e imparare insieme in un dialogo onesto”. Da parte sua, Papa Francesco conclude rinnovando “l’impegno non-negoziabile delle Chiese per I’attuazione e la verifica delle politiche di salvaguardia e degli standard professionali nella formazione umana del nostro clero e dei nostri religiosi, nonché la ricerca di ambienti sicuri nelle nostre scuole”. E ringrazia le vittime “per il vostro coraggio e la vostra resistenza, sappiate che siete ascoltati”.

All’inizio del suo messaggio, il Papa ricorda di aver istituito la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori “per voi e per i molti bambini e persone vulnerabili” vittime degli abusi.

Vatican news    28  novembre 2023

www.vaticannews.va/it/papa/news/2023-11/papa-francesco-incontro-vittime-abusi-diocesi-nantes-francia.html

DALLA NAVATA

1° Domenica di Avvento anno B

Isaia                      64, 06. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.

Salmo                   79, 19.Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.

Paolo 1Corinzi  01, 06. La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più

                               alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.

Marco                  13, 37. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

«Vegliate!»

                L’Avvento non solo segna l’inizio di una «continuità», data appunto dalla ciclicità delle letture evangeliche, ma esprime anche la dimensione fondamentale del credente, che è quella della «veglia». Una veglia non finalizzata a sé stessa, ma motivata dall’attesa di un evento di fronte al quale ci si vuole trovare pronti, vigili, preparati. Ecco dunque che è verso questo «ad ventum» che il cammino di fede di un credente ha la sua meta.

                Vegliare, allora, significa avere lo sguardo rivolto verso la meta, senza lasciarsi distrarre da altre mete, cercando di avere sempre chiaro davanti a sé, lungo il cammino, quale sia il percorso giusto, quello che non ci fa deviare a destra o a sinistra, che non ci fa cercare altre mete o altri traguardi.

                E per comprendere la direzione giusta, tra le difficoltà, gli inganni o le illusioni che in un tale percorso s’incontrano, è importante comprendere che in questo cammino verso l’«ad ventum», se da una parte c’è qualcosa che ancora non è e verso cui si deve tendere – ed è questo il senso della preposizione «ad» –, dall’altra c’è qualcosa che è già avvenuto, che è «ventum».

                In questo senso la ricerca del cammino da compiere, la strada da scegliere, così come la speranza e la certezza di giungere fino alla meta, sono ancorate proprio in questo «ventum». Ciò che abbiamo alle spalle è il faro che ci guida verso il futuro, pertanto è importante comprendere questo «passato», proprio perché è da lì che si proietta la luce che illumina il cammino.

                In altre parole, il «ventum» è la prima «venuta», l’incarnazione del Figlio di Dio nel Gesù di Nazaret, riconosciuto dai suoi discepoli come il Messia di Israele e delle genti. Egli è il «venuto» e, proprio per questo, è anche il «veniente» (Ap 1,7.8; 4,8 etc.) verso cui andare; è ciò che dobbiamo sempre avere davanti a noi per poter comprendere la giusta via da seguire.

                Tutta l’esistenza non solo del credente, ma della Chiesa stessa, intesa come popolo in cammino, ha come paradigma imprescindibile – e allo stesso tempo identitario – la rivelazione messianica di Gesù, poiché da questa trae origine, vita e dinamismo per «vegliare» nel cammino della storia verso la sua ultima e definitiva venuta.

                Da qui l’importanza di conoscere sempre di più l’«evento», così come questo è avvenuto: in un determinato contesto storico, politico, religioso e, aggiungerei, anche sociale, non certo per ricreare una tale situazione storica, ma per trarre quel fondamentale paradigma o quei paradigmi necessari perché il cammino dell’oggi ne sia illuminato e vengano garantite, in un altro momento storico e in una realtà diversa, la fedeltà e una sempre autentica risposta a quell’evento.

                In questo senso «vegliare» è ritornare sempre alla fonte, agli inizi, per poter riconoscere ciò che è «fondante» distinguendolo da ciò che è corollario, accessorio, «umanamente aggiunto». Solo così è possibile rimanere svegli, non «addormentati» e proseguire il cammino incontro alla definitiva «venuta».

                La vigilanza, poi, è un qualcosa che non si può demandare ad altri, che compete a ogni singolo credente: è responsabilità personale. L’invito, infatti, che risuona nel Vangelo è rivolto non solo al «portiere» della casa, ma a ciascun servo, secondo i propri compiti e poteri: «Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

                Tutto questo, infatti, si declina nella singolarità di ognuno, poiché ognuno è chiamato a vivere in prima persona l’«incontro» con il «veniente», un incontro unico, totale e pieno che coinciderà con l’abbraccio definitivo nella pienezza di vita; e per non rischiare di perdersi lungo il cammino, lungo l’attesa è utile fare memoria di quanto Dio stesso dice a Giosuè all’inizio del suo mandato come guida del popolo verso la terra promessa: «Tu dunque sii forte e molto coraggioso, per osservare e mettere in pratica tutta la Torah che ti ha prescritto Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, e così avrai successo in ogni tua impresa» (Gs 1,7).

                Per essere sicuri di non «deviare né a destra né a sinistra» c’è quindi un’unica cosa da fare: seguire quell’unica luce che non verrà mai meno e che ha il potere di risvegliare sempre le nostre coscienze: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105)

Per essere sicuri di non «deviare né a destra né a sinistra» c’è quindi un’unica cosa da fare: seguire quell’unica

Ester Abbattista, Biblista

DONNE NELLA (per la ) CHIESA

25 novembre. Vittime di si crede dio

La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne fu istituzionalizzata dall’ONU nel 1999 in ricordo delle tre sorelle Mirabal, deportate, violentate e uccise barbaramente il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana. Da allora, il tema della violenza sulle donne è stato affrontato in più sedi e da diverse angolature. Se ne parla soprattutto quando le testate giornalistiche riportano qualche femminicidio la cui efferatezza sembra più sconcertante del precedente. Se ne parla, ma non a sufficienza, soprattutto se pensiamo che la parola è uno dei pochi strumenti che le donne hanno per fronteggiare la violenza i cui sono vittime, per dare voce al loro dolore.

La retorica delle mele marce. Ciò è tanto più vero in ambienti ecclesiali che penseremmo esenti da tale piaga. Parlo delle comunità religiose, dei monasteri, degli ambiti di volontariato e di pastorale parrocchiale dove molte donne spendono, a diverso titolo, la loro vita. Abbiamo assistito in questi ultimi decenni alla caduta degli «dei», di fondatori e fondatrici di movimenti o di cosiddette «nuove comunità» che hanno rivelato un lato oscuro e inquietante: l’abuso di molti membri, soprattutto donne, in quella gamma sconcertante che va dall’abuso spirituale, di coscienza, lavorativo e patrimoniale fino a giungere all’abuso fisico e sessuale.

Questo cancro dai mille tentacoli affonda le sue radici in un uso del potere che si spaccia come «servizio» ed è percepito, almeno all’inizio, come sacro, rassicurante e affidabile. Non si tratta di mele marce, né di casi attribuibili al narcisista di turno o allo psicopata affetto da sindrome di personalità multiple, bensì di un sistema ben oliato di gestione sacrale e maschilista dell’autorità che ha reso possibile il dilagare di questo male e ha continuato a coprirlo attraverso strategie ben assodate. Di queste, il silenzio è lo strumento più efficace e aggressivo.

La strategia del silenzio. Non è certamente il silenzio che nasce dalla profondità delle relazioni, espressione della massima intimità, bensì il suo contrario. Si vedano le recenti pubblicazioni, articoli e conferenze che lo hanno messo a fuoco con particolare oculatezza. Tacciono le istituzioni quando non danno risposte chiare ed efficaci per fare fronte agli abusi o quando non sono disposte a mettere in discussione l’impianto teologico, canonico ed ecclesiale funzionale al potere abusante; tacciono i vescovi e i superiori/re quando sono a conoscenza di abusi o di altre sopraffazioni commesse da membri delle loro comunità a scapito delle donne; tacciono gli abusatori/trici che si proclamano vittime di ingiusti attacchi persecutori nei loro confronti. Il successo che molti di loro hanno raggiunto attirando a sé innumerevoli persone è lo scudo ideale per permettersi qualsiasi trasgressione e sentirsi assolti da ogni colpa.

L’inganno della «vulnerabilità». Tacciono molte vittime: perché gli abusi non sono solo quelli avvenuti «allora», lo sono anche le conseguenze che continuano a pesare nel presente. Il solo fatto che varie commissioni e studi organizzati in questi ultimi tempi abbiano come fine la tutela dei minori – di cui non ci occupiamo in questa sede – e degli adulti «in situazioni di vulnerabilità», testimonia, spero in buona fede, l’ambiguità e la sottile violenza nascosta nella parola «vulnerabilità».

È vero: ci sono stati abusi compiuti su persone con handicap fisici e psichici rilevanti; tuttavia, quando questo attributo di vulnerabilità viene esteso in generale alle donne e specialmente alle consacrate che hanno sofferto un abuso, lo stiamo in altro modo perpetuando. Quasi a dire che lui, l’abusatore non è vulnerabile e che poi «approfitta» di donne che, per ragioni di cultura, di condizione psicologica o altro, sono invece «vulnerabili». Detto in parole povere: se non fossero state così, non avrebbero mai permesso l’abuso. Chi ha conosciuto donne consacrate vittime di abusi non si è trovato di fronte persone poco istruite, ingenue, seduttrici o psichicamente deboli, bensì donne che in nome di un alto ideale di radicalità evangelica avevano creduto di consegnare tutta la loro vita al Signore attraverso la mediazione di diverse autorità, da quelle del fondatore/trice, della superiora/e, del confessore o direttore spirituale, i quali hanno preteso, in un determinato momento, di fare le veci di Dio. Le «eresie» non sono pericolose per la parte di menzogna che contengono ma per ciò che esibiscono di vero.

Il potere abusante si nasconde spesso dietro la maschera di «santi in vita» la cui «spiritualità unica» parrebbe incarnare lo Spirito medesimo. Ed è, tra tanti altri, l’aspetto più subdolo e persuasivo poiché veste gli abiti della «radicalità» e della «novità che salva la Chiesa» facendo leva, da una posizione di dominio, sul sacrosanto desiderio di chi persegue aspirazioni così grandi.

Il nodo dell’autorità. Se non si ridefinisce il senso e lo scopo di ogni autorità dentro alla Chiesa e dell’obbedienza che le è dovuta, qualsiasi azione susseguente, sebbene animata da buoni propositi di prevenzione e tutela, è destinata a fallire e a rendere la violenza sulle donne ancora più insidiosa. Tale ridefinizione non può essere fatta da chi in modi diversi ha permesso il dilagare degli abusi. È essenziale l’apporto delle donne e delle vittime. Esse non sono le destinatarie dell’azione della Chiesa, esse sono la Chiesa. Grazie a loro è auspicabile che la Chiesa tutta abbia l’estrema onestà di guardare in faccia la propria vulnerabilità e intraprenda una profonda conversione alla luce dell’evangelo.

 Virginia Isingrini, missionaria  saveriana                             Il Regno delle donne”                  5 novembre 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202312/231201isingrini.pdf

www.ilregno.it/blog/25-novembre-vittime-di-chi-si-crede-dio-virginia-isingrini-missionaria-saveriana

Paola Lazzarini. È ora di dire basta alle umiliazioni spacciate per “cammino ascetico

 Dottore di ricerca in Sociologia e Metodologia della ricerca sociale, formatrice e giornalista pubblicista, Paola Lazzarini *1962, ha lavorato molti anni nel Terzo settore e nella cooperazione sociale. Nel 2018 ha dato avvio all’esperienza di Donne per la Chiesa e ha contribuito alla costruzione della rete internazionale Catholic Women’s Council. Tra le pubblicazioni: “Non tacciano le donne in assemblea. Agire da protagoniste nella Chiesa”, Effatà editrice, 2021. Vive a Milano con il marito e la figlia.

Assertiva, determinata e attenta a tutto quello che riguarda i desideri e le capacità delle donne, Paola Lazzarini dà l’impressione di aver sviluppato negli anni un’abitudine a “pensare in grande”. Non basta infatti occupare degli spazi nella Chiesa, se non si affronta lo squilibrio dei rapporti fra i sessi su cui si regge l’istituzione: «Non serve che il Papa metta delle donne nella Curia romana se non si guarda alla condizione femminile nella Chiesa universale», dice. Ci vuole una rivoluzione copernicana, che porti le donne dove si decide di bioetica, di maternità, di teologia. «Mi interessa che le donne che sentono la vocazione ministeriale possano esercitarla», dice, «ma più in generale mi sta a cuore tutto quello che impatta sulla vita concreta delle donne e soprattutto vorrei che nella Chiesa il discernimento delle donne contasse come quello degli uomini». «Vorrei, insomma, che non fossimo ancora considerate soltanto “complementari” ai maschi, come è stato di nuovo affermato durante l’ultimo Sinodo, dove le donne erano comunque troppo poche per poter incidere e portare a un vero cambiamento».

Studiosa e formatrice, nel 2019 ha fondato l’associazione Donne per la Chiesa, che riunisce semplici battezzate, determinate a denunciare il ruolo subalterno a cui sono relegate. Il manifesto parla chiaro: «Siamo innamorate della Chiesa, delle nostre famiglie, di chi è più fragile e più indifeso, ma innamorate anche della nostra forza, energia e intelligenza, doni di Dio. Alla Chiesa vogliamo portare tutto ciò che siamo e non sminuirci per compiacere qualcuno». Un’associazione giovane che ha acquisito subito una voce significativa, fino a diventare punto di riferimento nell’ambito del femminismo cattolico.

«Sono sempre stata consapevole delle ingiustizie sofferte dalle donne ma le consideravo come parte del cammino ascetico che mi veniva richiesto come fedele: accettarle era un modo per esercitare l’umiltà», racconta. Tutto cambia quando nasce la figlia Miriam. «Ho pensato che l’avremmo battezzata e che si sarebbe trovata a vivere le stesse umiliazioni che avevo subito io», spiega, «e mi sono detta che non potevo accettarlo: quello che per me poteva avere un significato spirituale, non era giusto imporlo a lei e alle altre ragazze».

Lazzarini è cresciuta in una famiglia molto credente, che credeva nell’impegno personale. «In casa avevamo la ”Lumen Gentium” e a otto anni sapevo già il Salterio a memoria», racconta. Va a scuola dai gesuiti e, dopo l’università, decide di farsi suora. «I miei genitori non erano contenti della mia scelta, in particolare mia madre, che pure avrebbe voluto che mio fratello si facesse prete», ricorda. «Nella mia famiglia le suore non erano stimate come i sacerdoti». In quella congregazione, Paola Lazzarini rimane per cinque anni: un periodo che ora ricorda come molto formativo, anche se non semplice. «Ho deciso di andarmene perché ero in cerca di una maggiore radicalità e non mi piaceva che pretendessero di dirmi come dovevo vivere il rapporto con Dio e anche perché desideravo relazioni autentiche, difficili all’interno della comunità».

Senza una professione, ricominciare non è semplice: «È stata molto dura», confessa oggi. «A trent’anni mi sentivo come un salmone che risale la corrente». Poi la vita riprende il suo slancio, Paola Lazzarini finisce il dottorato, trova lavoro alle Acli, si sposa. È pronta a spendere la sua vocazione in una chiave diversa, da laica, legando il suo pensiero a quello di tante altre donne che lavorano per una Chiesa più giusta e inclusiva.

Nel 2018 è folgorata da un discorso di Mary McAleese *1951  durante un incontro organizzato da Voices of Faith, in cui l’ex presidente dell’Irlanda denuncia apertamente la misoginia della Chiesa e ribadisce che le teologhe non sono «le fragole sulla torta», come ha detto papa Francesco, ma «il lievito della torta». «McAleese parlava con una tale libertà di quello che pensavo anche io da lasciarmi stupefatta», ricorda. «In quel momento mi sono resa conto di quanto ancora avessi remore a parlare liberamente».

Proprio l’incontro con le altre donne, la collaborazione e il mutuo riconoscimento sono una parte fondamentale della riflessione di Lazzarini. Anche per questo motivo ha da poco passato il testimone a Patrizia Morgante, nuova presidente di Donne per la Chiesa: «Sono contenta, perché è un segno che le donne hanno un diverso modo di esercitare la leadership», spiega. «Il potere non va posseduto ma esercitato ed è importante passare la mano e lasciare che altre facciano crescere quello che hai costruito; a mia volta io non avrei osato agire se altre donne non mi avessero invitato a farlo».

Nel futuro, per lei c’è ancora la ricerca sulla vocazione in chiave laica: «Mi interessa capire dove le donne continuano a trovare, dentro o fuori la Chiesa, il nutrimento spirituale», puntualizza. «Quali chiavi ci diamo per prendere decisioni, come facciamo coincidere ideali e scelte concrete? In una parola, la mia è una ricerca spirituale che diventa un chiedersi come si sta al mondo».

Federica Tourn                 “Jesus”                dicembre 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202312/231201tourn.pdf

FEMMINICIDIO

Educare alla relazione

Solo due giorni fa abbiamo celebrato la “giornata contro la violenza sulle donne” ed ecco che alcuni fatti di cronaca hanno provocato una serie di interventi che sono un vero grido, un doloroso appello alla responsabilità contro il ripetersi del femminicidio. Purtroppo molte letture restano a livello di cronaca e impediscono di andare alle radici di questa violenza di genere che da sempre accompagna l’umanità lungo tutta la sua storia.

Fin dalle prime pagine del grande codice che è la Bibbia, là dove si tenta di leggere il nascere della storia, appare la realtà dolorosa di una tensione tra l’uomo e la donna, tra il maschio e la femmina. Questi testi sono certamente frutto di una cultura patriarcale, ma vogliono rispondere all’interrogativo che si pone chi viene al mondo e subito fa esperienza, la prima esperienza, di una tensione e di una contrapposizione tra uomo e donna. Sta scritto infatti che la solitudine di Adam, il terrestre, cessa quando appare la polarità maschio/femmina, ma si dice anche che la donna è data all’uomo come “un aiuto contro”, espressione che mostra una contraddizione mai sanata: è un aiuto, uguale all’uomo in dignità, carne della sua carne, ma in una possibilità conflittuale che viene ribadita ed esplicitata in Genesi 3,16: “Verso il tuo uomo sarà la tua attrazione ed egli ti dominerà”. Dunque la condizione della donna, non per volontà di Dio né per destino, è letta come attrazione verso l’uomo ma nello stesso tempo soggezione alla sua forza.

È la forza dell’uomo che dà la possibilità della violenza verso la donna, che genera il primo peccato non “originale” ma “originario”: la violenza di genere. Tutta la Bibbia testimonia questa subordinazione purtroppo accettata e quindi assunta come verità da ebrei e da cristiani. Dobbiamo riconoscerlo: la donna è cosificata, e l’ultimo comandamento la mette tra le cose da non desiderare se appartengono al prossimo: tra gli schiavi, i buoi, gli asini, insomma la roba. Anche Abramo, il padre della fede, quasi per abitudine per salvare la propria vita offre la moglie Sara prima al faraone e poi al re di Gerar, più forti di lui.

 La forza. L’uomo fisicamente più forte sente di avere la vocazione a comandare sull’altro e innanzitutto sulla donna, fisicamente più debole. La forza è il vero dio, l’idolo di cui l’uomo si sente ministro. Ma accanto alla forza che detiene, l’uomo soffre la differenza, l’alterità della donna. È la prima differenza che si sperimenta venendo al mondo e la differenza certo fa paura, disturba perché è alterità sconosciuta, non è omologazione.

 Il primo istinto è negare la differenza, rimuovendola, oppure toglierla di mezzo con la violenza. Proprio questo incrociarsi della forza dell’uomo con la sua reazione verso la differenza lo spinge a imporre la sottomissione della donna e perciò di ogni genere diverso per sessualità, cultura, etnia, religione. In fondo che cos’è l’ostilità verso gli omofili, verso gli immigrati, se non il rifiuto di un’alterità che pare inaccettabile? Ecco perché la violenza fisica fino all’omicidio è epifania della forza dell’uomo e del suo rifiuto della differenza.

Perciò il compito umano che ci sta davanti è una rieducazione degli uomini alla relazione, all’accettazione della diversità, alla spoliazione della propria forza per un riconoscimento della uguale e universale dignità degli umani.

Enzo Bianchi  La Repubblica       27 novembre2023

www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/215915/educare-alla-relazione

www.repubblica.it/rubriche/2023/11/27/news/altrimenti_enzo_bianchi_lunedi_27_novembre_2023-421322949

Solo il rispetto delle differenze disinnesca la violenza di genere

Ho passato le ultime due settimane a discutere di violenza di genere a scuola. Ho deciso di far saltare così un complesso sistema organizzativo di programmazioni, perché il messaggio che volevo dare è che in questo mondo affannato a rincorrere la performance, non ci diamo più il tempo per prenderci una pausa e riflettere per capire dove stiamo andando. Ho chiesto ai ragazzi quale fosse secondo loro il motivo del fenomeno per cui in Italia ogni tre giorni viene uccisa una donna.

In molte classi è sceso il silenzio; ho scoperto poi che sono quelle in cui si sono vissute esperienze di violenza in prima persona. In altre si è acceso un forte dibattito: spesso in classi dove i maschi si sono sentiti messi in discussione.

La fuga dei quarantenni. Quello che ho notato è che più sono grandi, più i maschi di fronte a questo argomento sentono un invincibile bisogno di schermarsi, difendersi, tirarsi fuori come fosse qualcosa che non li riguarda. Un collega mi confessa di essere preoccupato che i maschi vengano troppo colpevolizzati. I più giovani hanno una modalità di fuga dal discorso di vario tipo. I più si rifiutano di riconoscere che la violenza inizia da forme invisibili e nascoste, come il linguaggio e le battute sessiste. Altri si proteggono dietro l’ironia, la battuta come meccanismo per superare il disagio o per sminuire il valore del discorso.

Un ragazzo mi ha detto: non abbiamo modelli. E mi ha fatto pensare: in effetti che modelli offriamo come società?

 I modelli che offriamo. L’Italia è stata teatrino negli ultimi vent’anni di modelli di genere politici e sociali che hanno usato le donne, sfruttandone l’emancipazione sessuale, in modo subordinato e funzionale ricacciandole nel ruolo strumentale di soddisfazione di bisogni sessuali del maschio. Abbiamo una premier che ci tiene a farsi chiamare al maschile nelle sue funzioni di governo.

A livello internazionale lo scenario che offriamo in quanto adulti è quello di un sostegno alla cultura della guerra: massacri da parte di nazioni che si dicono democratiche vengono perpetrati ogni giorno sotto gli occhi dei nostri ragazzi senza che il diritto internazionale riesca a fermare carneficine né che gridano vendetta al cospetto di Dio.

La chiesa da parte sua è l’ultima cittadella fortificata in cui ancora non si riesce a mettere in discussione il nodo potere-maschilità, con rigurgiti recenti nel tentare di mantenere e giustificare “teologicamente” privilegi maschili ed esclusioni femminili [che oramai appaiono intollerabili].

Le famiglie con i loro carichi di complessità di tempi, ritmi, relazioni, non sono più luoghi di dialogo tra generazioni; le famiglie sono per lo più tenute insieme dai salti mortali di donne sovraccariche del lavoro domestico, di cura e professionale.

Una società consumistica dopo averci tolto ideali e valori, si è scordata di dare un senso alle nostre vite. Ci comprime in strutture efficientistiche dove siamo costretti a produrre “valore” nel senso prettamente economico, dove siamo valutati per successo, performance, organizzazione, programmazione e soprattutto per la nostra RAL (Retribuzione annua lorda), che per le donne è sempre minore.

Gli esiti. I ragazzi crescono con l’angoscia che se non vai al passo sei perduto e potresti andare a finire negli scarti relazionali, ciò che non a caso che in grande quantità la nostra epoca produce. Gli uomini maschi che il patriarcato vorrebbe “per natura” aggressivi, determinati, forti e il consumismo di successo, ricchi, affermati, rischiano di diventare cinici rispetto alla loro carriera e alle loro relazioni.

In realtà questi uomini sanno di camminare sul crinale di un abisso che potrebbe farli precipitare nella follia, nei disturbi mentali, in preda ad un mondo che li costringe in un ruolo di genere dal carico impossibile da sopportare, ma di fronte al quale non imparato le parole per chiedere aiuto.

A volte penso che pur di non sopportare un sovraccarico di genere di questo tipo, in quel precipizio alcuni preferirebbero gettarvisi.

Si producono allora sì anche malattie psichiche che però sono una pandemia, perché prodotto della malattia della società stessa: personalità narcisistiche, relazioni ossessive, amore che diventa tossico perché la struttura del consumismo ha trasformato l’amato in oggetto di possesso e l’amore in incasso. Quando la relazione d’amore diventa (e lo diventa prima o dopo) perdita, vulnerabilità e sofferenza, il maschio reagisce con l’unico codice emotivo che il patriarcato gli ha insegnato e concesso: la violenza.

Come l’acqua per i pesci. Quello che mi colpisce delle storie di violenza è l’incapacità di vedere i segnali o il sottovalutarli. È questa la patologia sociale. Non li si vede dall’esterno, non li si vede quando li si subisce e nemmeno quando li si agisce.

Il patriarcato agisce come l’acqua per i pesci. Per i maschi è ancora più difficile perché quel mondo è costruito semplicemente attorno a loro. Fanno più fatica a vederlo, perché vederlo significherebbe scorgerne le tossicità e accettare di cambiare comportamenti per poterlo scardinare. Ma come chi non è mai uscito dalla propria casa la considera “normale”, così molti uomini considerano la propria struttura mentale anche giusta, semplicemente perché è quella che ha una lunga storia culturale. Si veda il successo del generale Roberto  Vannacci.

Ho ascoltato tanti interventi in queste settimane, di opinionisti, politici e personaggi pubblici. Sono davvero pochissimi i maschi il cui linguaggio e le cui argomentazioni non facciano la spia di una struttura patriarcale di cui sono preda e che perpetrano anche quando vogliono dire di essere contro la violenza sulle donne. Ha dell’imbarazzante. Fa un po’ effetto terrapiattisti.

Non riuscendo a vedere, si sentono colpevolizzati inutilmente. Ma c’è un grande abisso culturale, di percezione, di mentalità tra i maschi e le donne che abitano da sempre un mondo che invece hanno dovuto imparare a tradurre, adattare, modificare e/o tenere a bada.

Come uscirne. I più giovani sono più sensibili a certe riflessioni, forse perché gli stereotipi hanno ancora strutturato in mondo poco rigido il loro cervello più plastico o forse perché sono semplicemente stati educati alla parità di genere. Un alunno di terza Liceo ha detto: “Le donne sanno cosa vogliono perché vengono da un lento cammino di riflessione su sé stesse. Forse adesso tocca a noi uomini fare il nostro pezzo di cammino.” Un altro ha detto: “Prof, noi come singoli lo sappiamo che quello che ci dice è giusto. Solo che come gruppo poi non riusciamo. È importante che lei dica queste cose a tutta la classe così possiamo iniziare ad agire assieme”.

Un altro ha riconosciuto nelle stesse parole di genitori che “cercano di dare tutto ai figli”, un errore di educazione. “Dovrebbero metterci di fronte a più no. I no ci aiutano a crescere”.

Questi cuccioli di ragazzi hanno capito una cosa fondamentale: vogliono essere educati al desiderio, alla consapevolezza della “struttura di peccato” che in quanto maschi si portano addosso, e soprattutto hanno capito che ci vuole una presa di responsabilità collettiva in quanto maschi nel riconoscimento e nello scardinamento della violenza.

E le ragazze? Non c’è ragazza a scuola che non abbia subito violenze, molestie o aggressioni. A volte ne parlano, altre no. Non sanno cosa fare, come reagire, a chi rivolgersi, come evitare.

Ma evidentemente ci va bene così se, negli ultimi 20 anni abbiamo assistito nelle parrocchie, nella scuola e in Parlamento ad una sistematica colpevolizzazione, caricaturizzazione e contrasto alla diffusione degli studi di genere, che invece insegnano il rispetto delle differenze e aiutano a riconoscere e disinnescare i dispositivi di violenza che attuati dagli stereotipi di genere.

Quante donne devono ancora morire per convincerci che tossica è l’ideologia dei generi che identifica per “natura” le donne in posizioni e caratteristiche psicologiche di cura, maternità, dolcezza, accoglienza, funzionalità e gli uomini in posizione e caratteristiche di dominio, violenza e potere? Si chiama “patriarcato”.

Selene Zorzi, teologa e docente  di filosofia e storia nei licei                             26 novembre 2016

www.avvenire.it/famiglia/pagine/solo-il-rispetto-delle-differenze-disinnesca-la-violenza-di-genere

Una riflessione dopo Giulia Cecchettin: chi parla ai giovani di sesso e relazioni?

Avevamo intervistato lo psicoterapeuta Tonino Cantelmi*1962       

in occasione di un grave fatto di cronaca a Palermo. Ma le sue parole sono ancora attuali dopo l’ultimo femminicidio: «Non si può parlare di sesso senza insegnare la costruzione di relazioni affettive. Purtroppo mancano adulti autorevoli per affrontare il tema. La pornografia riempie il vuoto e insegna il disprezzo dell’altro, racconta stereotipi di uomini predatori e donne sottomesse»

I casi di abusi e violenze che sempre più spesso riempiono le pagine di cronaca ci costringono a interrogarci su dove nasca un così difficile rapporto dei nostri figli con la sessualità e l’affettività, Ne parliamo con lo psichiatra e psicoterapeuta Tonino Cantelmi, docente presso la Gregoriana di Roma.

È la mancanza di educazione sessuale e affettiva la causa dei casi di violenza di gruppo? Siamo di fronte a un’emergenza?

«Mi sembra una situazione davvero problematica: i nostri figli subiscono una erotizzazione precoce già nell’infanzia (vengono a contatto con contenuti sessuali precocemente e troppo persistentemente) e inoltre la pornografia ha sfondato il limite degli 11 anni. Perciò ricevono una educazione sessuale da Pornhub e Youporn, per citare solo 2 delle piattaforme più invasive del Web. Secondo voi dove hanno imparato i comportamenti predatori e crudeli di cui tanto si è parlato?».

Un tempo il sesso era tabù, non se ne parlava con i genitori, poco con gli amici. È un bene o un male che ora si affronti così esplicitamente?

«È un male. L’erotizzazione precoce compromette la capacità di gestire l’intimità in modo più sano e ampio. Non a caso i cortocircuiti sessuali e aggressivi sono troppo frequenti nei ragazzini e negli adolescenti. Inoltre l’erotizzazione precoce è un fenomeno che si correla a un maggior rischio di disagio psichico, in modo particolare alla loneliness, cioè a quella dolorosa percezione di solitudine che accompagna molti adolescenti e soprattutto quelli più smart sui social».

Parlando di sessualità c’è un confine oltre il quale i genitori non dovrebbero andare per rispetto dei figli?

«Magari noi genitori parlassimo di sessualità e di educazione affettiva! Purtroppo i nostri figli non hanno davvero adulti di riferimento autorevoli: spesso, infatti, più che di adulti dovremmo parlare di adultescenti, cioè adulti che non hanno ancora risolto i temi adolescenziali e si comportano in modo assai incoerente con il ruolo genitoriale».

Quanta influenza ha la famiglia e quale è il suo ruolo nell’educazione sessuale? E la scuola?

«Verso gli 11 anni i ragazzini perdono fiducia negli adulti. A quell’età si completa la “smartphonizzazione” di quasi tutti i figli. Cosicché i ragazzini partecipano a comunità virtuali nelle quali, anche attraverso influencer e youtubers, costruiscono il loro sapere, in modo svincolato dagli adulti. Così si creano due mondi paralleli: la famiglia, la scuola, l’oratorio, i catechisti da un lato e i social e il Web dall’altro. Quale dei due mondi sarà più influente sullo sviluppo dei nostri figli? Eppure non c’è da perdersi d’animo: un adulto autorevole, coerente e affascinante è al momento ancora più attrattivo dei social!».

L’educazione sessuale e affettiva va affrontata diversamente con i maschi e con le femmine?

«No, va affrontata insieme e soprattutto va inserita nell’ampio tema dello sviluppo psicoaffettivo. Che senso ha parlare di sesso senza insegnare la costruzione di relazioni affettive e senza imparare il gusto dell’intimità, della condivisione e della reciprocità? A parlare di sesso e basta ci pensa la pornografia e a banalizzare la sessualità ci pensano i social. Solo questo può aiutare i maschi a imparare il rispetto dell’altro sesso».

Quali sono i danni della pornografia?

«La pornografia insegna il disprezzo, la manipolazione finalizzata al piacere anonimo, la crudeltà. L’intimità, invece, è empatia e reciprocità. E della pornografia sono vittime anche le ragazzine: imparano a sottomettersi e a considerarsi solo oggetto di piacere. Guardate il proliferare di pornografia light sui social: alcuni profili di ragazzine sono impressionanti per l’inconsapevolezza del loro agire. I social hanno aumentato il gender gap e sono pieni di luoghi comuni orribili».

A che età iniziano i ragazzi ad avere i primi approcci e poi relazioni?

«L’erotizzazione precoce ha precocizzato anche gli approcci sessuali. Durante la pandemia abbiamo avuto lo sfondamento del limite di 11 anni tra gli utenti della pornografia. E soprattutto non c’è gradualità. La conseguenza è il furto della felicità scambiata con stereotipi: i maschi debbono essere un po’ predatori e le femmine debbono accontentarli. Non ci crederete, ma i nostri figli vivono continuamente stereotipi di questo tipo, alimentati da social e porno».

Quali sono le parole giuste di un genitore al figlio adolescente che ha iniziato ad avere una vita amorosa?

«Le parole non servono: il problema è che spesso la relazione affettiva tra i genitori è così scadente e deludente che nessuna parola può essere efficace. La miglior risposta? Una relazione affettiva felice tra mamma e papà».

 Orsola Vetri *1965                            Famiglia cristiana  23 novembre 2023

www.famigliacristiana.it/articolo/chi-parla-ai-giovani-di-sesso-e-relazioni.aspx

Uomo-donna, la buona relazione passa dalla “maturità affettiva”

Coniugare identità e intimità è comprendere che ognuno ha un confine personale inalienabile e saper trovare la distanza “giusta” nel rapporto. Quella che permette vicinanza senza superare il limite. Di fronte al ripetersi di fatti terribili come il femminicidio è importante non fermarsi alla risposta emotiva immediata di sgomento e orrore, ma aprire una riflessione finalmente approfondita su un tema ormai ineludibile: il deteriorarsi progressivo dei rapporti tra l’uomo e la donna, tra il maschile e il femminile. Dobbiamo domandarci cosa pensiamo sia o possa essere una buona relazione tra loro, cosa contribuisca a fondarla, e cosa invece contribuisca a farne un luogo di inimicizia o sopraffazione. I rapporti positivi con gli altri dipendono da quella che chiamiamo “maturità affettiva”: una competenza non scontata, frutto di un percorso forse mai del tutto compiuto, e che riceve un’impronta cruciale nei primi contesti educativi e affettivi. Possiamo definire la “maturità affettiva” come equilibrio tra identità e intimità: due parole che sono fonte di equivoco frequente.

Identità è percepirsi nella propria unicità, con il nostro valore e i nostri limiti inevitabili; la parola “intimità” designa invece allo stesso tempo qualcosa del sé e qualcosa della relazione: intimità è lo spazio prezioso nel quale riposa ciò che in noi è più personale e profondo, ma intimità è anche la possibilità di mettere in contatto la profondità del sé con la profondità dell’altro.

Coniugare identità e intimità significa comprendere che ognuno di noi ha un confine personale inalienabile, e saper trovare qual è la distanza “giusta” nelle relazioni: quella che permette vicinanza e calore senza pretendere di violare il confine, di inglobare l’altro, di considerarlo una nostra proprietà o una risposta ai nostri bisogni. In una buona relazione, il “noi” non elimina e non ingloba l’”io” e il “tu”, ma li mette in un contatto vitale, che arricchisce entrambi; è un rapporto che si fonda sul rispetto, che è una componente essenziale di ogni relazione buona.

Per il maschio, la maturità affettiva che permette buone relazioni con la donna è un percorso complesso. Il primo, fondamentale passaggio è quello della separazione dalla madre, primo oggetto d’amore per entrambi i sessi. Non si tratta di una separazione “esterna”, ma di un progressivo affrancamento da ciò che la madre rappresenta per l’inconscio: colei che ha il compito primario di accogliere il bisogno del figlio e di rispondere a questo bisogno con assoluta dedizione. Nell’inconscio la figura materna è in continuità con l’esperienza della gravidanza, periodo della vita in cui il bisogno (di calore, di cibo, di sicurezza) riceveva risposta senza necessità di alcuna domanda. Nascendo dobbiamo imparare a chiedere per ricevere, e la madre è il primo interprete, il primo mediatore: dipendiamo da lei per la nostra sopravvivenza fisica e psichica. Molto a lungo continueremo ad aspettarci che la madre (o chiunque abbiamo investito di questo ruolo) sia in grado di comprendere i nostri bisogni ancora prima di noi, che sappia intuire il nostro pensiero, le nostre paure, le nostre necessità. Per affrancarci da questa aspettativa onnipotente dobbiamo passare attraverso graduali e fisiologiche frustrazioni: sperimentiamo che la mamma non è perfetta, che serve un linguaggio di gesti e parole per esprimere le nostre richieste; ma impariamo anche non possiamo avere risposta subito, sempre e a tutto secondo i nostri desideri.

Al bisogno del bambino di ricevere risposte, fa riscontro nella madre il desiderio di essere pienamente soddisfacente. Può essere difficile alle mamme tollerare di essere “frustranti” per i figli, soprattutto oggi, tempo di centralità dei desideri; tollerare il capriccio e sostenere la capacità di attesa non sono compiti facili, soprattutto se una donna si sente in colpa per la sua scarsa presenza, se ha bisogno di sentirsi una madre ideale, o se non tollera il disamore momentaneo di suo figlio.

Il supporto cruciale per non rimanere chiusi nella trappola del bisogno è il padre. La sua posizione nei confronti del bisogno del figlio è fin dall’origine diversa da quella della madre, perché la relazione padre-figlio non si basa sulla simbiosi primaria: il padre riceve sempre il figlio da una donna, e questo gli permette una distanza da lui emotivamente differente. Diventando padre, l’uomo non sposta mai totalmente il proprio baricentro sui figli: non per un egoismo irriducibile (come a volte pensano le mamme) ma per la sua natura di maschio-uomo-padre. Proprio questa natura, però, rappresenta la sua risorsa educativa fondamentale: può porsi, infatti, come ostacolo all’onnipotente voracità del bambino resistendo al timore di perderne l’amore, e può aiutare la donna-madre a non lasciarsi inghiottire dalla relazione con il bambino, mantenendo vivo in lei il desiderio erotico.

Una società che spinge a moltiplicare i desideri e a pretenderne la soddisfazione, che sottolinea solo i diritti, e che mette nell’angolo il maschile e il paterno come istanze colpevolmente frustranti, rende molto problematica l’uscita dalla dinamica infantile del bisogno; abbiamo dunque molti adolescenti che rimangono prigionieri di questa dinamica. Per loro tollerare la fatica, rimandare un desiderio, accettare una frustrazione, diventano spesso richieste insostenibili. La precocizzazione dell’esperienza sessuale introduce una ulteriore complessità, perché il sesso riattiva in noi il mondo fusionale-simbiotico. Nel fare l’amore l’uomo e la donna sentono di smarrire temporaneamente il proprio confine; per qualche istante l’io e il tu sembrano perdersi e ritrovare, veicolata dalle sensazioni del corpo, quella che ciascuno di noi porta in sé come antica nostalgia: l’esperienza fusionale primaria, quando il bambino non conosce il proprio confine e si sente avvolto e contenuto dal sé della madre.

L’esperienza di non poter vivere senza l’altro è una condizione che ci accomuna e che rimane incisa nel nostro inconscio. Da questa condizione, che si fonda su un dato di realtà, impariamo a uscire con il supporto delle persone che ci amano: sviluppiamo le nostre risorse e sperimentiamo le nostre capacità, e la distanza dall’altro, che all’origine percepiamo fuso con noi, si modifica progressivamente fino a permetterci di essere noi stessi. Si tratta di quello che Margaret Mahler definiva il processo di “separazione-individuazione”: un percorso in cui il piacere di funzionare e diventare sé stessi permette di accettare la fatica di rimanere “soli”. È una solitudine necessaria, perché da qui passa l’identità: siamo definiti, limitati, ma anche capaci di relazione: capaci cioè di incontrare l’altro rispettandone l’alterità.

Quello che colpisce negli atti di grave aggressione verso le donne, è che vengono compiuti spesso a seguito di un abbandono, o di una dichiarazione di indipendenza dall’uomo; “senza di te non posso vivere” diventa in questi casi la frase-chiave di una disperazione primaria, che si trasforma in furia distruttiva.

Non c’è, in questa frase e nel vissuto che esprime, alcuna dimensione adulta: c’è la percezione di un vuoto desolante, assoluto, senza soluzione. Quella di un sé primitivo che distrugge ciò che gli sfugge con gli strumenti pericolosi di un adulto. Il rapporto con la donna viene vissuto in questi casi solo all’interno della logica del bisogno: come la madre, la donna deve soddisfare ciò che dal maschio è letto come un bisogno irrinunciabile. Come con la madre, l’altro con il proprio confine e le proprie necessità non esiste, perché il bambino non conosce le necessità della madre e dà per scontato il suo piacere di soddisfarlo. A questo fa riscontro l’idea che le donne abbiano desideri uguali e sovrapponibili a quelli maschili, e ne sarebbe prova il loro essere seduttive, il loro abbigliamento, il loro facile “consenso”.

Ma di quale consenso parliamo? La donna cerca l’attenzione e lo sguardo di desiderio dell’uomo, ma cerca uno sguardo che la valorizza e le dà conferma di sé, in continuità inconscia con lo sguardo di amore e rispetto che ogni bambina desidera dal proprio padre. Lo sguardo del desiderio maschile confonde soprattutto l’adolescente, alle prese con le proprie insicurezze, e spesso purtroppo priva proprio di quello sguardo originario di amore e di stima che la fa certa del proprio valore. È dunque tragicamente facile per lei equivocare il desiderio maschile, e confondere la richiesta di sesso con la richiesta di amore.

Oggi è venuto a mancare il tempo in cui il bisogno può trasformarsi in desiderio: il tempo della maturazione e dell’attesa, il tempo del sogno e del pensiero, il tempo dell’immaginazione e della fantasia; tempo che prepara l’incontro tra i sessi, rendendoli capaci di unire passione e amore, sesso e relazione. Quando il sesso diventa solo risposta a un “bisogno” predatorio (scambiato per desiderio) non può che esaurirsi in sé stesso, come ogni bisogno. Non c’è in questo caso più spazio per la relazione, che richiede sempre la percezione dell’alterità e il rispetto del confine.

 Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra  “Avvenire” 2 dicembre 2023

www.avvenire.it/opinioni/pagine/il-ripetersi-dei-femminicidi-deve-spingere-a-una-s

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Donne, la mattanza va al di là del patriarcato

Dopo le manifestazioni per Giulia di sabato scorso vale la pena continuare a riflettere su quanto è accaduto. Perché una causa cruciale è certo il patriarcato. Ma ce ne sono anche altre, che la travalicano.

Vissi con ammirazione e i dovuti sensi di colpa la rivoluzione femminista, che entrò nella mia giovane casa con dolcezza pari all’intransigenza. Il mondo “progressista” la fece formalmente sua. Ma negli anni Ottanta accadde una cosa che doveva pur allarmare. I settimanali impegnati e progressisti iniziarono a fare a gara a mettere in copertina donne nude, provocanti, ammiccanti, con ogni pretesto. In alcune riunioni di redazione si chiedeva addirittura, come fosse l’asso da poker, “ma abbiamo la f… in copertina?”. Rientrò così dalla finestra la donna-oggetto. Perché “vendeva”. Il fatto non apparve grave ma piuttosto “libertario”. Erano stati o no quei settimanali in prima fila per i diritti della donna, a partire dal divorzio? Con quell’alibi, e la concorrenza delle tivù commerciali appena nate, tornò in forma nuova il vecchio mondo, che l’ingresso delle donne in alcune carriere rendeva meno visibile. Al punto che con Gianni Barbacetto pubblicammo nel 1988 un numero speciale del mensile “Società Civile” (“Sbatti il nudo in prima pagina”) per denunciare quanto accadeva, ripubblicando pagine e pagine di quelle copertine. Pura testimonianza.

Perché l’ondata politico-ideologica successiva restituì piena dignità a quel mondo. Non era solo patriarcato. Era qualcosa di diverso. E il nostro Parlamento nato dalla Costituzione più bella del mondo ne fu invaso. “La Lega ce l’ha duro” di Bossi alla senatrice Boniver, il “taci gallina” in aula alla senatrice Acciarini, gli insulti irriferibili del suo schieramento alla ministra Prestigiacomo proprio sui diritti. E le ironie su Rosy Bindi “più bella che intelligente”. E le alleanze internazionali nutrite dalla offerta di grazie femminili ai potenti in visita in Italia, come neanche le schiave nell’Iliade. Non persone, appunto, ma oggetti. Da anni la donna fa notizia solo se vittima di stupro (quanto siamo indignati) o se sale ai vertici di qualcosa (quanto siamo civili). Le sue fatiche più nobili e dure, la sua stessa storia civile viene ignorata. Decine di migliaia di insegnanti hanno tenuto in piedi non la scuola ma anche le istituzioni nei periodi più duri della storia nazionale, da Palermo a Milano, e non glielo ha mai riconosciuto nessuno.

I girotondi dei primi anni duemila furono inventati e alimentati soprattutto da donne ma sono stati raccontati al maschile. Le donne sono da quarant’anni la spina dorsale del movimento antimafia ma, non solo per l’immagine incombente dei grandi eroi, la narrazione che se ne fa le tiene accuratamente sullo sfondo, salve alcune familiari di vittime. La sinistra ha eletto a cuore della sua battaglia per i diritti l’“orientamento sessuale”, quando la questione delle questioni era drammaticamente l’“appartenenza di genere”, ossia l’altra metà del cielo. Come una Maria Antonietta repubblicana che sventoli le brioches (il “politicamente corretto”) quando il popolo non ha il pane. Spesso facendo dei celebri asterischi il simulacro della modernità. Incapace di vedere che mentre il numero degli omicidi scendeva a precipizio aumentava invece quello dei femminicidi, quasi che la società avesse gradualmente ma implacabilmente selezionato il bersaglio del suo potenziale di violenza. Non la violenza di una pistola, si badi; ma quella più efferata del coltello, del bastone o dello strangolamento (“Ma lei sa quanto ci vuole per strangolare una persona?”, chiese una volta un collaboratore di giustizia al giudice che lo interrogava).Emblematica fu la vicenda di Lea Garofalo. Uccisa, fatta a pezzi, bruciata, sotterramento delle ossa in campagna. Per avere tradito lo speciale patriarcato mafioso, fuggendo con la figlia Denise a cui voleva dare un futuro libero. Ci vollero anni perché il suo processo trovasse ascolto. Quando arrivò il cronista di un grande quotidiano in aula e mi chiese di che cosa si trattasse, avendolo saputo mi rispose “Ah, una mafiata”. Alzò le spalle e se ne andò.

Oggi decine di donne del sud sono sotto protezione, in luoghi lontani, addirittura con nome diverso, per la stessa ragione. Non è forse un grande problema sociale? Il fatto è che dietro Giulia c’è un mondo immenso fatto anche della nostra ipocrisia, del nostro narcisismo politico, della irresponsabilità delle istituzioni. Un mondo fatto della nostra indolenza, perché “accorrere a un grido” chiede corsa, ossia fatica. Per questo nel 2007 Marianna Manduca fu uccisa a Palagonia dopo avere denunciato l’ex marito dodici (12!) volte. C’è, se possibile, qualcosa di più grande del patriarcato. La mattanza ha molti padri. E anche qualche madre.

Nando Dalla Chiesa        “il Fatto Quotidiano”    1° dicembre 2023

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

La teologia fatta dalle donne Non una semplice pennellata rosa

Suonano davvero con una intensità particolare le parole pronunciate ieri da papa Francesco nell’incontro con la Commissione teologica internazionale. Non un «bel discorso» di teologia, ma quello che il Papa si porta nel cuore a partire dalla sua esperienza e dalle tante storie ascoltate. Mentre si consumano gli ennesimi episodi di violenza contro le donne, Francesco invita a capire «cosa è una donna e cos’è la teologia di una donna»; ancor di più a comprendere «la Chiesa come donna, come sposa».

Non ce ne vogliano quanti non sopportano l’associare al termine donna le categorie femminili con le quali la si è tradizionalmente pensata. Parlare della donna in questi termini non vuol dire certo che la condizione di sposa ne determini l’unica possibile realizzazione. È piuttosto una dimensione che ha a che fare con il modo d’essere, di sentire, di rapportarsi agli altri e al reale che è proprio delle donne. Essere sposa è come essere madre: lo si è anche se non si ha un marito e se non si hanno figli, almeno non biologicamente. Sta a indicare la capacità di assumere e di condividere senza riserve. Sposare qualcosa è aderire a essa pienamente. Si può sposare una causa, sposare una storia, sposare un ideale. C’è, dentro questo termine, l’idea di una dedizione totale, incondizionata.

Così è la Chiesa che aderisce totalmente al suo Signore e ha nell’annuncio del Suo amore la più profonda ragion d’essere cui sceglie di dedicarsi con tutte le forze, incondizionatamente. Sposa del Cristo, unita a Lui indissolubilmente, la Chiesa è anche sposa dell’umanità da amare, in Lui, altrettanto incondizionatamente. La condizione sponsale è della Chiesa nella sua totalità, in tutte le sue componenti. Tutti i membri della Chiesa sono chiamati a viverla; ma le donne lo ricordano in modo particolare, perché è sempre nel particolare che risplende quello che è di tutti. L’umano non è uniformità, ma diversità di sfaccettature: è fatto di sfumature e si comprende a partire da esse.

La teologia fatta dalle donne ha questo sapore di adesione, di piena assunzione dell’umano, di dedizione incondizionata, di passione e di rigore. È una teologia che ha una carica di concretezza e una profondità di sguardo: quella che viene dalla capacità di visione, dal percepire interiormente l’esistenza degli esseri umani, la vita del mondo, e la vita di Dio che silenziosamente agisce in esse. Da qui, forse, l’energia che si avverte nelle parole delle teologhe, e che talvolta si fa fatica ad accogliere. Non è semplicemente il pathos della rivendicazione, quanto piuttosto la forza di una intelligenza del reale che spezza la rigidità di schemi già dati e apre spazi di riconoscimento, sentieri di creatività nella docilità alla sconvolgente azione dello Spirito (che nella Scrittura ebraica è al femminile…) oltre ogni logica di esclusione, di scarto. Se è vero che la teologia deve avere il sapore della vita, che deve farsi per strada oltre che nelle aule dell’accademia, c’è un contributo importante che le donne possono dare e che stanno già dando al rinnovamento della teologia.

La teologia ha già il volto di tante donne che hanno saputo dare un apporto importante allo sviluppo di tutte le discipline teologiche, portando tra l’altro in ambito teologico lo stile della collaborazione, di quel lavorare in rete che il proemio della “Veritatis gaudium” indica tra i criteri secondo cui la teologia deve potersi costruire.

www.vatican.va/content/francesco/it/apost_constitutions/documents/papa-francesco_costituzione-ap_20171208_veritatis-gaudium.html

Bisogna solo che questo emerga più chiaramente e sia adeguatamente riconosciuto. È quanto in fondo chiede il Papa anche alla Commissione teologica internazionale: che la presenza delle donne sia riconosciuta e resa visibile per l’apporto competente di cui sono capaci. Nella prima sessione del Sinodo dei vescovi, celebrata in ottobre, c’erano anche le donne: tra i membri dell’assemblea con diritto di voto, tra chi aveva il compito di coordinare il lavoro dei tavoli, tra gli esperti, tra chi ha presieduto l’assemblea; e una donna, madre Maria Ignazia Angelini, ha accompagnato con la profondità delle sue riflessioni spirituali le giornate del Sinodo. La voce e l’apporto delle donne sono stati preziosi e accolti con rispetto, direi quasi con naturalezza, come parte viva dell’assemblea, riconoscendo la qualità e lo spessore di esperienze di impegno e di competenze. Tutt’altro che una semplice pennellata di rosa. Ritrovarsi così come Chiesa è un grande segno di speranza. Ed è un valore da non smettere di ribadire.

 Pina De Simone, teologa       “Avvenire”         1° dicembre 2023

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Enzo Bianchi: «Papa Francesco è isolato. Sui social l’ala tradizionalista della Chiesa è molto più vivace»

intervista a Enzo Bianchi

«Papa Francesco è isolato, la Chiesa non rischia uno scisma ma un pericoloso smarrimento». Enzo Bianchi – ottantenne monaco, teologo, studioso della Chiesa, fondatore della comunità di Bose -non cerca paludati giri di parole per dire quel che pensa. Non si rifugia in equilibrismi nemmeno quando si parla del pontefice con il quale ha avuto, nel recente passato, aperto contrasto: lo critica e lo difende senza riserve. Ma il suo pensiero principale, spiega, è la Chiesa, il suo futuro nel mondo che cambia velocemente. A questo è dedicato il suo ultimo libro, «Dove va la Chiesa?» (edizioni San Paolo) che giovedì 30 novembre alle 18 presenta al Centro Ambrosianeum (via delle Ore 3) insieme a Ferruccio de Bortoli e a don Antonio Rizzolo.

Enzo Bianchi, la domanda è obbligatoria. Dove va la Chiesa?

«La Chiesa va verso Gesù Cristo, verso il Regno. O almeno questa è la sua vocazione, la sua missione».

Però…?

«Però negli ultimi decenni ha messo sé stessa al centro, si parla troppo della Chiesa e meno di Gesù Cristo e del Vangelo».

Da quando è iniziato questo atteggiamento, secondo lei?

«Con il Concilio Vaticano II si è arrivati a una riforma della Chiesa per portare il Vangelo nel mondo, poi però ci si è ripiegati molto sulle stesse attività della Chiesa, che si è posta sempre come domina della storia, ha creduto che tutto dipendesse da lei stessa, dimenticando la scelta di spoliazione che persino Cristo ha compiuto dal suo status di figlio di Dio. Ecco, piuttosto di avere la pretese di dover e poter dire tutto su tutti e tutto, di essere maestra e guidare gli uomini, la Chiesa dovrebbe tornare a spogliarsi e a camminare accanto agli uomini, con compassione e umiltà, per offrire a tutti la grande speranza della resurrezione».

Non trova che da papa Luciani in poi siano stati compiuti molti gesti e passi in questa direzione?

«Io li ho conosciuti tutti da vicino e posso dire che sì, Giovanni Paolo I ha compiuto gesti di spoliazione, che poi sono stati del tutto assenti nel pontificato successivo e anche in quello di Ratzinger, che non aveva forza sufficiente né all’interno della Chiesa né nei confronti del popolo di Dio,  quindi Francesco ha avuto coraggio e determinazione, ma dobbiamo dire una verità che nessuno vuole dire apertamente…».

Quale?

«Francesco è isolato, a parte quelli più vicini a lui, non è seguito dai cardinali, dai vescovi, dai preti

e lo stesso popolo di Dio sembra sordo alla sua proposta sinodale, lasciano scorrere tutto quasi nell’indifferenza. E quindi ci si trova in questa sorta di iato, tra un Pontefice profetico e il suo popolo, e questo mi inquieta molto perché poi nella comunicazione attraverso i social media è molto più vivace l’ala tradizionalista».

Quindi lei difende la rotta tracciata da papa Bergoglio, sebbene abbia avuto con lui motivi di contrasto anche piuttosto aperto e aspro?

«Io ho mosso critiche a tutti, non sono mai stato incline all’idolatria di alcun papa, ma adesso colgo una situazione molto difficile. Non credo che si vada verso uno scisma, ma temo che la Chiesa stia scivolando verso un pericoloso smarrimento».

Ma non c’è già un conclave costruito per dare continuità futura alla strada indicata da questo papa?

«Ma no, non è affatto vero che Francesco abbia creato un conclave a propria immagine, ha nominato anche cardinali scialbi e tradizionalisti, quindi il rischio per il futuro è proprio che per mantenere gli equilibri tra le diverse anime, il conclave finisca per scegliere un papa scialbo. Del resto, abbiamo visto come, nello stesso tempo, sia stato scelto di beatificare Giovanni XXIII e contemporaneamente Pio IX: un colpo al cerchio e uno alla botte».

A proposito di cardinali, qui a Milano ciclicamente qualcuno solleva la questione della mancata nomina dell’arcivescovo Mario Delpini. Lei cosa ne pensa?

«Francesco non sta scegliendo le grandi città, i grandi personaggi, ma piuttosto segue una logica di periferia. Basta pensare alla nomina del vescovo della Mongolia, all’estrema periferia del mondo e con più o meno tremila fedeli. Perché lui vuole dire così che anche il piccolo, anche il poco conta. E non è una scelta politica, bensì evangelica. Altrimenti avrebbe nominato cardinali tutti i suoi».

Un altro tema molto sentito nella diocesi ambrosiana e in tutta la Chiesa è il calo delle vocazioni. Nel libro parla anche di questo, ma ribalta il punto di partenza.

«Certo, perché prima di interrogarci sulla crisi delle vocazioni dobbiamo farlo a proposito della crisi della fede. E torno al punto di partenza: la Chiesa troppo concentrata nelle proprie attività – tutte bellissime e preziose, tante come non mai in duemila anni di storia – ha perso un po’ di vista il suo messaggio fondamentale e straordinario: la speranza che la morte non sia l’ultima parola, perché con Cristo c’è la resurrezione. Torniamo a dire questo all’umanità».

a cura di Giampaolo Rossi in “Corriere della Sera” – Milano – del 30 novembre 2023

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Il Papa: ho una bronchite molto acuta «La Chiesa è donna, smaschilizziamola»

Il Pontefice ironizza sulla sua salute: «Grazie a Dio, sono vivo. Non ho la polmonite» E alla Commissione teologica dice: «Più importante il principio mariano che petrino». Valorizzare la donna non significa sacerdozio femminile. La Chiesa è donna, ma questo non c’entra con la questione del sacerdozio femminile. Il Papa, che ieri ha tenuto varie udienze e ha rassicurato sulle sue condizioni di salute («Sono vivo», ha detto spiegando di aver avuto una bronchite acuta e non una polmonite), è tornato su uno dei temi più dibattuti del momento, ammettendo che è stato un errore “maschilizzare” la Chiesa. Francesco si è rivolto con un breve intervento a braccio ai membri della Commissione teologica internazionale. Non ha letto il discorso, consegnandolo ai suoi ospiti (anzi alla fine, ha ammesso di aver parlato troppo per le sue attuali condizioni di salute), ma ciò che ha detto è estremamente significativo.

Guardando la platea dei suoi ospiti, il Pontefice ha innanzitutto fatto la conta di quante fossero le

teologhe: «Una, due, tre, quattro donne: poverette! Sono sole! Ah, scusami, cinque. Su questo dobbiamo andare avanti! La donna – ha quindi sottolineato – ha una capacità di riflessione teologica diversa da quella che abbiamo noi uomini. Sarà perché io ho studiato tanto la teologia di una donna. Mi ha aiutato una tedesca brava, Hanna Barbara Gerl,*1945  su Guardini. Lei aveva studiato quella storia e la teologia di quella donna non è tanto profonda, ma è bella, è creativa. E adesso, nella prossima riunione dei nove cardinali, avremo una riflessione sulla dimensione femminile della Chiesa».

Francesco ha aggiunto: «Se non sappiamo capire cos’è una donna, cos’è la teologia di una donna, mai capiremo cos’è la Chiesa. Uno dei grandi peccati che abbiamo avuto è “maschilizzare” la Chiesa. E questo non si risolve per la via ministeriale, questa è un’altra cosa. Si risolve per la via mistica, per la via reale. A me ha dato tanta luce il pensiero balthasariano: principio petrino e principio mariano. Si può discutere questo, ma i due principi ci sono. È più importante il mariano che il petrino perché c’è la Chiesa sposa, la Chiesa donna, senza maschilizzarsi». Il discorso, ha quindi concluso sul punto, porta a un compito dei teologi. «Smaschilizzare la Chiesa».

Nel discorso scritto Francesco metteva l’accento sulla «teologia evangelizzatrice, che promuova il dialogo con il mondo della cultura». Una teologia “dal basso”, «ovvero con uno sguardo privilegiato per i poveri e i semplici, e al tempo stesso stando “in ginocchio” perché la teologia nasce in ginocchio, nell’adorazione di Dio». Il Papa ha anche invitato la Commissione teologica internazionale a prendere spunto dai 1700 anni del Concilio di Nicea, in coincidenza con il Giubileo indetto per il 2025, per approfondire il tema della sinodalità, come «via per tradurre in atteggiamenti di comunione e in processi di partecipazione la dinamica trinitaria» e come momento ecumenico, dato che nel 2025 «provvidenzialmente la data della celebrazione della Pasqua coinciderà per tutte le denominazioni cristiane. Come sarebbe bello se segnasse l’avvio concreto di una celebrazione sempre comune della Pasqua».

In una successiva udienza, quella ai partecipanti al seminario di “Etica nella gestione della salute”, il Pontefice è tornato sulle sue condizioni di salute. «Come vedete, sono vivo», ha detto in spagnolo. «Il dottore non mi ha lasciato andare a Dubai. Il motivo – ha spiegato – è che lì fa molto caldo e si passa dal caldo all’aria condizionata. E questo in questa situazione bronchiale» non è conveniente. Poi ha aggiunto: «Grazie a Dio non era polmonite. È una bronchite molto acuta e infettiva». Sulla terapia che sta seguendo: «Non ho più la febbre, ma prendo ancora antibiotici e cose del genere».

Mimmo Muolo “Avvenire” 1° dicembre 2023

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LITURGIA

La riforma liturgica sessant’anni dopo. Mons. Busca: luci, ma anche ombre da superare

Luci e ombre. Forse più le prime. Ma il bilancio della riforma liturgica, a 60 anni dal varo della Sacrosantum Concilium (SC) il documento conciliare che la codificò, e a 50 dalla nascita dell’Ufficio liturgico nazionale, è ricca di spunti di riflessione.

https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19631204_sacrosanctum-concilium_it.html

     Come dice il vescovo di Mantova e presidente della Commissione episcopale per la liturgia, Gianmarco Busca *1965,  al termine del convegno organizzato proprio dall’Uln per fare il punto sull’applicazione della riforma in Italia

Che cosa è emerso? Diciamo subito, e questo vale non solo per l’Italia ma per tutto il mondo, che la riforma non poteva ritenersi conclusa solo con la pubblicazione di nuovi libri liturgici. Doveva maturare pian piano una capacità celebrativa che andava di pari passo con l’esperienza di fede dei credenti e delle comunità e che chiedeva di essere rinnovata alla luce del primato della Parola e di una nuova profezia della Chiesa rispetto alle sfide storiche.

Per fare un bilancio onesto, con luci e ombre, dobbiamo inserirlo nel cammino della Chiesa uscita dal Concilio. Per restringere il campo all’Italia, sicuramente c’è stato un grande lavoro di adattamento della SC alla nostra cultura e ai nostri tempi.

                Che cosa ha funzionato e cosa bisogna invece migliorare?

Gli impulsi dati dalla riforma liturgica erano di qualità alta. Ma era richiesta anche un’alta qualità delle nostre comunità cristiane, che invece hanno conosciuto un ridimensionamento non solo numerico, ma anche, oserei dire, di spessore della vita cristiana. Non tutta la produzione liturgica – penso ai canti – è stata di buona qualità. Talvolta è stato spacciato per bello quello che non era corretto per i contenuti o i linguaggi. C’è stata inoltre qualche difficoltà nella trascrizione dei modelli celebrativi concreti delle grandi ispirazioni della riforma. Abilitare al celebrare non è qualcosa che avviene a tavolino o immediatamente.

Ci sono stati tentativi poco felici di rendere la liturgia più fruibile, talvolta l’eccesso di verbosità ha rischiato di trasferire i linguaggi della catechesi dentro il rito. Così come una sorta di autoreferenzialità dei celebranti non ha permesso di aprirsi all’incontro con Dio. In sostanza, le premesse buone della riforma restano. Ma siamo più consapevoli che non abbiamo avuto cantieri celebrativi, cioè esperienze paradigmatiche, sempre all’altezza dei modelli.

Fra le luci c’è chi colloca la ritrovata forza della Parola di Dio.

Certamente. La mensa della Parola ha oggi un proprio peso e ben superiore a prima, quando nemmeno si comprendeva nella propria lingua la Parola. Ma c’è il rischio anche qui che l’elemento didascalico, di spiegazione (ad esempio nel momento omiletico) prenda il sopravvento sulla Parola di Dio sacramentale, che è presenza del Cristo che parla. Dunque si è capito che Bibbia e liturgia sono un binomio imprescindibile per l’esperienza cristiana. Il loro rapporto chiede di essere meglio focalizzato nella predicazione, ma non solo.

Fra le ombre invece c’è chi pone l’attutirsi del senso del mistero.

In effetti è una notazione che abbiamo raccolto anche da alcune sintesi del cammino sinodale della Chiesa italiana. La questione di fondo è se le liturgie sono vive, capaci di evangelizzarci, e di aprirci all’incontro con Dio. Indubbiamente ci sono stati degli equivoci intorno alla actuosa partecipatio, alla partecipazione attiva, che spesso è stata banalmente ridotta al far fare a tutti qualcosa, mentre invece nella mens della SC l’idea è che sia una partecipazione intensa coinvolgente. La liturgia implica uno scatto, il passaggio di una soglia, l’ingresso in un mondo altro che è quello dell’umano trasfigurato dal divino. Perciò il silenzio, l’adoperare un linguaggio diverso da quello della strada restano fondamentali.

Nel convegno si è parlato di una liturgia in uscita per una Chiesa in uscita. Che cosa significa?

Significa una liturgia non autoreferenziale che ci proietta in un sacro separato, ma che è capace di ospitare il realismo della dimensione umana anche con il suo risvolto drammatico. Ad esempio, sarebbe una liturgia solo in entrata quella che cura una resa puramente estetica. La liturgia cristiana invece si fa  carico anche della non bellezza, dell’esperienza del male, del peccato, dell’incompiutezza. Nel rito entra la vita e la vita deve entrare nel rito in una osmosi continua dei vissuti portati all’altare e deposti davanti a Dio. Penso, ad esempio, ai Salmi, che sono l’anatomia dell’animo umano anche nella sua drammaticità, ma sempre in dialogo con il Signore.  Quindi in definitiva una liturgia in uscita è quella che è capace di registrare questi vissuti umani e riesce a renderli in entrata rispetto alla misericordia di Dio, alla redenzione di Cristo, alla sua croce e risurrezione.

Lei accennava prima alla musica. C’è stata una relazione in questi giorni che ricordava il cammino fatto negli ultimi anni, dalla musica beat in poi. Qual è lo stile più adatto oggi per la musica liturgica?

Occorre una musica di qualità con testi e contenuti adeguati. Perché la musica liturgica non è un apparato esteriore o decorativo. È liturgia vera e propria, è preghiera cantata, professione di fede. Fides canora, diceva sant’Ambrogio. In altri termini fede tradotta in canto. Non tutti i linguaggi musicali sono adeguati a esprimere il mistero. Occorre anche un filtro critico. Ma d’altra parte si è consapevoli che, se il popolo canta, questa è la vera solennità. Il linguaggio musicale del canto rappresenta una risorsa notevole per emozionare; dunque, per aprire il contatto con il mistero. E questo deve orientare nella ricerca degli stili. Se si canta in gregoriano, tutti immaginiamo quasi di trovarci in un monastero. Ora, la domanda è quali stili musicali sono veramente capaci di veicolare l’esperienza del mistero cristiano.

Quindi occorre preparazione tecnica da parte di chi suona e canta e sensibilità nel comprendere come le espressioni musicali possano indurre all’immersione nel mistero.

Mimmo Muolo                 Agenzia SIR        27 novembre 2023

www.agensir.it/chiesa/2023/11/27/la-riforma-liturgica-sessantanni-dopo-mons-busca-luci-ma-anche-ombre-da-superare

Sante famiglie (commento liturgia 31 dicembre 2023?

Cosa sappiamo dell’infanzia e della giovinezza di Gesù? Secondo i canoni della storiografia contemporanea dovremmo rispondere: nulla. Si può supporre che i suoi genitori abbiano rispettato le procedure cultuali giudaiche: circoncisione del neonato, imposizione del nome, purificazione della madre e del figlio mediante sacrificio presso il Tempio di Gerusalemme di «un paio di tortore o due giovani colombi» (Lc 2,21-24). Se, invece, rinunziamo alla cronistoria e proviamo a collocarci dalla prospettiva dei redattori dei Vangeli – una prospettiva di annunzio, di insegnamento, di esortazione all’imitatio Christi – abbiamo dei midrash (dei racconti leggendari edificanti) deliziosi per apprendere cosa le prime comunità cristiane pensassero del loro Maestro.

A eventi avvenuti, retrospettivamente, esse lo venerano come «luce che illumina le genti» (2,32) e «segno di contraddizione» all’interno del suo popolo (2,34): espressioni che mettono sulle labbra di Simeone, «uomo giusto e pio» (2,25), e di Anna, vedova che «serviva Dio giorno e notte» (2,37). Sarebbe stato più prudente, a mio sommesso parere, limitarsi a questi dati biblici senza impastarli costantemente, sino a farli lievitare al punto da elaborare modelli assoluti: per esempio sino alla “sacralizzazione” di questo tipo di famiglia. Tale sobrietà – di cui molte chiese protestanti storiche hanno dato prova – sarebbe stata raccomandabile anche da parte della Chiesa cattolica latina per almeno due ordini di ragioni.

                Innanzitutto per motivi d’ordine sociologico: dal primo all’ultimo libro della Bibbia troviamo vari modelli di matrimonio e di famiglia (più o meno allargata) e la storia degli ultimi due millenni ci attesta che altri modelli sono stati sperimentati in civiltà ed epoche differenti. Perché individuarne uno, canonizzarlo, e di conseguenza delegittimare tutti gli altri? Una società poligamica africana o australiana che si apra alla prospettiva del “regno di Dio” – dunque a perseguire libertà e giustizia, solidarietà e compassione, nonviolenza e collaborazione – è meno “cristiana” di una società “ufficialmente” (!) monogamica? Chi vive, come me, nel meridione italiano sa che poche persone sono affezionate all’idea della indissolubilità del vincolo coniugale fra eterosessuali quanto i mafiosi che uccidono padri di famiglia innocenti, madri incolpevoli, figli e figlie che si trovano col cognome sbagliato o soltanto nel posto sbagliato.

                Oltre alle ragioni generali, ne vedrei di specifiche. Se proprio la Chiesa cattolica avvertisse come necessaria la enfatizzazione di un modello di famiglia, perché mitizzare le singole figure che la compongono, al punto da renderle incomparabili con le famiglie “normali”? Secondo la dogmatica cattolica, infatti, Giuseppe non è vero padre biologico, ma solo “putativo” (presunto, supposto, ritenuto tale); Maria non ha concepito il figlio grazie a una relazione affettivo-sessuale con il marito, ma per un intervento “eterologo” quando ancora non era neppure sposata; la persona di Gesù, infine, non essendo umana ma divina (la seconda della Trinità), si devotamente con l’efficace, paradossale, titolo di «figlia del tuo figlio»).trova nel ruolo paradossale di genitore della sua genitrice (alla quale l’ortodosso Dante può rivolgersi

                Fossi un prete – dunque appartenente all’unica tipologia di cattolico autorizzata a predicare durante le celebrazioni eucaristiche – mi terrei stretto al primato dell’agape individuato da Gesù medesimo come cuore pulsante di ogni aggregazione familiare davvero esemplare: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Poiché chiunque avrà fatta la volontà del Padre mio che è nei cieli, mi è fratello e sorella e madre» (Mt 12,49-50).

Augusto Cavadi *1950, docente di filosofia licei,   Adista Notizie n° 41 2 dicembre2023

www.adista.it/articolo/70999

Maria donna di pace. Festa 1° gennaio 2024

Sappiamo che la disputa sull’identità di Gesù Cristo è antica quanto il cristianesimo. Quando, dopo il Concilio di Nicea (IV secolo), cominciò a prevalere la dottrina dell’unica persona divina che, «non cessando di essere ciò che era (Dio), iniziò ad essere ciò che non era (uomo)», anche la mariologia fu sottoposta a coerente revisione: la madre di Gesù divenne, nel successivo Concilio di Efeso (V secolo), «madre di Dio». E fu la polla da cui zampillò la costellazione di dogmi mariani, sino alla sua esenzione – fin dal concepimento – dal “peccato originale” (XIX secolo) e alla sua assunzione in cielo in anima e corpo (XX secolo). Questa articolata costruzione teologica sta o cade con la cristologia su cui poggia: per chi crede che Gesù sia portavoce, immagine, icona del Mistero, ma non egli stesso Dio per essenza, Maria è madre di un profeta, di un maestro, di un martire, ma non del suo stesso Creatore. Questo ridimensionamento, per così dire ontologico, fa della Madonna una donna da ammirare e imitare più che da “iper-venerare” nella sua inattingibile incomparabilità.

                Poiché di Maria di Nazareth sappiamo poco o niente sotto il profilo storiografico, possiamo solamente supporre che – avendo Lei accompagnato pedagogicamente per tanti anni la formazione di un tale Figlio – non deve essere stata, pur con tutti i suoi inevitabili difetti, una donna banale. E proprio in quanto donna, la memoria di Lei può suggerirci le potenzialità del femminile (che nella società occidentale, incluse più o meno gravemente tutte le chiese cristiane, sono state per secoli svalorizzate e mortificate) anche in ordine ai drammi contemporanei.

Come è noto, papa Paolo VI, nel 1967, ha scelto proprio questa festività mariana per celebrare la Giornata mondiale per la pace, accompagnandola con un proprio messaggio sul tema. Anche i papi successivi hanno mantenuto questa tradizione, sino a Francesco (di cui Matteo Prodi e Sergio Tanzarella hanno pubblicato, in edizione critica con prefazione di don Mimmo Battaglia, con il titolo Conquista la pace, i messaggi del primo gennaio di ogni anno dal 2014 al 2023).

La coincidenza della celebrazione mariana con la Giornata per la pace è casuale, priva di significato? Non mi pare che i pontefici l’abbiamo mai notato, purtroppo. Eppure il nesso, ormai evidente, fra mentalità maschilista (virilista, androcentrica) e guerra permetterebbe di sottolineare un nesso, altrettanto stretto, fra mentalità femminista (materna, sororale) e pace. Maria, proprio in quanto icona della femminilità, potrebbe prestarsi a fungere da prototipo di quanti – donne o uomini – sono protesi nella costruzione di un mondo finalmente pacificato.

La storia anche recente ci avverte, però, di non cadere nel biologismo: come si nasce maschi e si diventa uomini, così si nasce femmine e si diventa donne. Il sesso non è il genere. Ci sono uomini che coltivano, nella loro psiche e nella loro postura sociale, il femminile che è in essi, senza averne né paura né vergogna; così come ci sono donne che, nella loro psiche e nella loro postura sociale, coltivano non solo il maschile che è in esse (ciò giocherebbe a favore di una personalità integrata), ma anche il maschilismo della tradizione patriarcale in cui sono nate e cresciute. In termini equivalenti: il patriarcato maschilista è una gabbia che imprigiona tutti e tutte, proprio come la cultura della violenza come unico metodo per affrontare gli inevitabili conflitti.

                Insomma è solo una dimensione consapevolmente e criticamente femminile (che, sino al persistere del maschilismo, non può non dirsi femminista) del pensare, del sentire e dell’agire che può sostenere le persone – di ogni sesso e di ogni genere – nella ricerca quotidiana e proattiva della convivenza pacifica all’interno delle nazioni e fra di esse.

Augusto Cavadi                Adista Notizie n° 41        2 dicembre2023

www.adista.it/articolo/70999

SACERDOTI

Preti oberati e chiesa di oggi: dal “Cristo capo” al “Dio comunione

Proviamo a pensare alla comunità cristiana come ispirata e indirizzata dalla relazionalità comunionale di Dio, insieme al sacerdote, e non più diretta solo dallo stesso sacerdote.

Dopo il mio articolo sui sacerdoti generosi gravati da numerosi e pesanti incarichi,

www.vinonuovo.it/teologia/pensare-la-fede/i-preti-generosi-ci-sono-ma-li-stanno-quasi-ammazzando

ho letto con interesse le risposte di due preti ambrosiani, Paolo Brambilla e Martino Mortola, in relazione a un’utile ricerca che essi hanno condotto nella Diocesi di Milano.

www.vinonuovo.it/comunita/esperienze-di-chiesa/possiamo-mettere-un-vincolo-sui-preti

Di dialogo franco e di dibattito leale c’è urgente bisogno, per evitare — cosa assai diffusa — che molto si dica nell’ombra, poco alla luce e tutto proceda superficialmente come se il mondo che viviamo sia lo stesso di 40 anni fa, togliendo il necessario ascolto alle persone, ai tempi e allo Spirito. Devo dire che le proposte di Martino Mortola mi trovano assolutamente favorevole e credo anche che sia forse il massimo che oggi possiamo attenderci, a fronte dell’inerzia, del timore, del disorientamento che attraversa, in media, la comunità cristiana italiana, dal vertice episcopale ai laici. Proposte di buon senso, misurate, equilibrate, per restituire umanità e sostenibilità (fisica, psicologica, spirituale) al presbitero nelle condizioni di oggi.

                Vorrei però provare ad abbozzare un passo ulteriore, più audace. Al fondo delle pregevoli riflessioni di Mortola e Brambilla mi pare permanga ancora una teologia del presbitero di forte radice tridentina, su cui il Vaticano II ha, all’atto pratico, inciso poco. La citazione che Brambilla fa di PO 6 mi pare emblematica, laddove dice che «Il presbitero infatti esercita “la funzione di Cristo capo e pastore” […], dove il capo è la testa, la parte dell’organismo da cui tutto il Corpo prende vita (Col 2,19), una e unica». La parte del testo conciliare riguarda proprio quel «Cristo capo e pastore» a cui il sacerdote si conforma.

Ora, ritengo che il nodo sia proprio qui, ma che, per la chiamata che lo Spirito rivolge al tempo che attraversiamo, si possa tentare di imbastire qualche spazio ulteriore di riflessione e qualche orizzonte di cambiamento. In altri termini, sono convinto che la teologia del ministero in primis debba essere riletta, riattualizzata e restituita alla radice, per poter poi fare in modo che tale teologia sia generatrice di feconda e sostenibile vita evangelica per tutti, a partire dagli stessi sacerdoti. In questa direzione, due sono, mi pare, le vie, che per ragioni di spazio vado ad accennare, augurando possano poi seguire ulteriori riflessioni.

                La prima riguarda l’urgenza di restituire al sacerdozio la sua dimensione di ministero, ossia di ministerium, inteso come servizio al Signore (Nm 8,11) e al popolo del Signore («I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli», LG 18).

 Si potrebbe così provare a superare la tradizionale equazione officium/munus/potestas, riscoprendo — secondo alcune intuizioni felici del Vaticano II ­— il valore fondativo del battesimo di tutti i fedeli (Can. 204) e ponendo così l’accento, tra le varie accezioni del termine, sul munus come dono. L’identificazione tradizionale del sacerdozio con “Cristo capo” domanda oggi un superamento, alla luce della ricerca teologica, del magistero conciliare, della rilettura dei padri, ma anche perché ‘i segni dei tempi’ — ossia la realtà che crediamo guidata dallo Spirito — oggi non sembrano confermare tale interpretazione del presbiterato, eredità di un’altra società, di altre sensibilità umane, di altre convinzioni teologiche e giuridiche. Peraltro, restituire centralità alla dimensione del servizio, inteso come dono gratuito della grazia per servire i fratelli, non inficia la presidenza eucaristica, come la splendida pericope giovannea della lavanda dei piedi richiama. Dunque, sarebbe auspicabile considerare non un sacerdote al ‘vertice’, in una dimensione essenzialmente verticale- piramidale, ma in una dimensione orizzontale-comunionale.

                La seconda riflessione intrinsecamente legata a ciò conduce a pensare non alla conformazione del presbiterato con Cristo capo, ma con il Dio-relazione o, meglio, con il Dio-comunione (comunione tra le persone trinitarie e con l’umanità nell’evento della morte e resurrezione di Cristo), che è l’essenza del Dio rivelato dall’evangelo. Da ciò si potrebbe far discendere, nel concreto, una visione differente della stessa comunità cristiana, il cui futuro è comunione perché rispondente alla Rivelazione.

Nel concreto, ad esempio, si potrebbe pensare alla comunità cristiana (la parrocchia) non più governata dall’unica potestà presbiteriale, ma dal servizio comunionale di respiro trinitario: non più uno, ma tre persone battezzate, uomini e donne, che abbiano uffici / ministeri diversi, dove solo uno dei tre sia necessariamente un ministro ordinato — sacerdote o diacono —, responsabile del ministero ‘spirituale’, ossia del culto, dell’azione sacramentale, della cura spirituale della comunità (per usare una terminologia consolidata, il munus sanctificandi). Gli altri due ‘ambiti’ fondamentali, ossia quello organizzativo-pastorale (in qualche modo il munus docendi) e quello giuridico-economico (munus regendi) potrebbero essere affidati a figure consacrate, ma anche a figure laicali, solidamente formate, parte attiva della comunità, uomini e donne di sapienza ed equilibrio, di fede e di carità. Persone a cui andrebbe anche dato un riconoscimento economico, come oggi accade al presbitero.

Ciò che conta, inoltre, non sarebbe cosa può o non può fare il singolo, in una partizione sempre un po’ statica e rigida, ma cosa può e non può fare la comunione dei fedeli, rappresentata dalla comunione delle tre figure responsabili. In tale direzione, si potrebbe parlare di azioni ministeriali più che di munera: l’azione di organizzazione, che abbia l’orizzonte del possibile (speranza), l’azione spirituale, che abbia l’orizzonte della fede, l’azione della carità, nelle numerose sue declinazioni: si tratta di categorie oggi maggiormente eloquenti (e forse più evangeliche). Allora, più che privare una comunità del sacerdote per ‘esaurimento numerico’, si tratta di donare alla comunità, su scala territoriale maggiore (per questioni anche strutturali, economiche, quantitative) una comunione che diriga e armonizzi le membra del corpo ecclesiale; essa sarebbe analoga alla Trinità e sarebbe allo stesso tempo espressione dell’intera comunità dei fedeli, con cui è indispensabile sia in continuo e intenso legame di servizio e dialogo. Ma questo fungerebbe anche da stimolo profetico per l’umanità tutta: quale icona migliore di ‘mondo buono possibile’ per un contesto lacerato e sempre più incline all’individualismo che una comunità dove fraternità e sororità siano vissute fin dal vertice?

Peraltro, per stare alle diocesi di Milano a cui il volume di Brambilla e Mortola facevano riferimento, non è un caso che le comunità pastorali più ampie siano guidate da diaconie (dove diaconia è servizio) talvolta composte non solo da persone consacrate.

                Si tratta di aprire un cammino che possa accogliere un dialogo non specialistico, che tenga conto della ricerca teologica, della tradizione, della Scrittura, del diritto canonico, ma anche della concretezza che oggi il cristiano, sia egli sacerdote, vescovo, laico, vive quotidianamente. Per questo, che magari sia giunta l’ora di vedere la diminuzione del numero dei sacerdoti come un’occasione di grazia per una rivisitazione dello stesso sacerdozio, della grazia battesimale, della comunione? Che la necessaria attenzione a custodire l’umanità del prete non conduca a nuove forme di servizio tra tutti i battezzati?

Siamo chiamati a pensare e amare e servire non un mondo ideale, ma il mondo che abitiamo oggi e che sarà abitato domani, dove ancora il kerigma possa risuonare e dare sapore alla vita. Questo, mi pare, è una responsabilità per chi crede in un Dio incarnato nella storia.

Sergio Di Benedetto  Vino nuovo            24 novembre 2023

www.vinonuovo.it/teologia/pensare-la-fede/preti-oberati-e-chiesa-di-oggi-dal-cristo-capo-al-dio-comunione

SACERDOZIO

Il celibato di Gesù

Ho appena visto che il papa ha detto ai seminaristi francesi che “i preti sono celibi semplicemente perché Gesù lo era” e ha aggiunto che “nessuno ha il potere di cambiare la natura del sacerdozio né lo avrà mai”.

E questo, detto così, ha suscitato in me un gran numero di dubbi.

  1. La prima questione è, appunto, se Gesù fosse davvero celibe. Curiosamente, in molti ambienti porre semplicemente la domanda risulta offensivo, come se facendolo si “macchiasse” la memoria di Gesù. Quale sarebbe il problema se Gesù non lo fosse stato? Per cominciare, osserviamo che essere “celibe” non è sinonimo di non essere sposato (così come – teologicamente parlando – il digiuno non è semplicemente “non mangiare”). Il celibato è una ragione teologica per la quale qualcuno sceglie uno stile di vita di “celibato”. E questa ragione teologica è, senza dubbio, il Regno di Dio. Pertanto, affermare questo su Gesù presuppone entrambi gli elementi: che egli non avrebbe realmente formato una coppia e, in secondo luogo, che ciò sarebbe avvenuto per una ragione superiore cosciente. Sul piano storico, quindi, ciò supporrebbe che all’età di contrarre matrimonio (nell’ambiente contadino per gli uomini era abituale intorno ai 17 anni; mentre nell’ambiente urbano era diverso) Gesù, per un motivo espresso, rompe con le consuetudini (anche familiari) e ha già chiara la centralità della Signoria di Dio. È possibile questo in un essere umano che, come ogni altro, cresce nella conoscenza? (cf. Lc 2, 40.52). È noto che – in generale – il matrimonio in Israele, più che un diritto, era un dovere. Il Nuovo Testamento non dice nulla di un presunto matrimonio di Gesù, ma con criteri storici questo, più che affermare il celibato, affermerebbe il suo matrimonio. Si moltiplicano gli studi buoni sul “Gesù storico” e non sembra che se ne tenga conto in detti come quello citato. Ho seri dubbi che Gesù avesse contratto matrimonio, ma l’argomentazione “è stato/non è stato” deve seguire seri criteri di storicità. E nessuno di loro è menzionato nel semplice detto “è stato celibe”. Ora, quando si parla del ministero ordinato, di solito si fa – purtroppo – riferimento “giuridico” (come se Gesù in questa frase avesse istituito il “sacerdozio”: “fate questo in memoria di me”). Poiché si presume (senza ragioni evidenti) che a tale cena fossero presenti solo i Dodici (e non c’erano donne), il testo viene utilizzato per negare l’accesso al ministero alle donne (è sicuro che non c’erano donne alla cena? Personalmente credo che ci fossero). Curiosamente, ad esempio, l’argomentazione utilizzata è che “a quei tempi” le donne non mangiavano con gli uomini. Se applichiamo alla lettera il criterio “allora si faceva così”, dovrebbe valere anche per il matrimonio: “a quei tempi gli uomini dovevano contrarre matrimonio”. Ma supponiamo tutto ciò che acriticamente si sostiene, la frequente affermazione secondo cui nella cena Gesù istituisce il sacerdozio scegliendo i Dodici per tale ministero. Cioè, uomini sposati. Cioè, è nella natura del sacerdozio l’essere sposati.

Ma restano ancora altre domande… Gesù non era sacerdote ma laico. L’autore della “Lettera agli Ebrei” ha dovuto compiere un enorme lavoro teologico-spirituale per parlare del sacerdozio di Cristo. Per non estenderlo, l’autore afferma che lo è a causa della risurrezione. Il glorificato è sacerdote in modo nuovo (ordine di Melchisedek); non è “la persona di Gesù” il sacerdote, ma il Cristo glorioso (e per questo “non muore più”, e per questo lo è “per sempre”). L’affermazione superficiale che “perché così è stato Gesù” sembrerebbe costringere tutti gli uomini che accedano al ministero ordinato ad essere ebrei, a parlare aramaico, a circoncidersi (l’ottavo giorno) e ad essere “falegnami”. Certamente nulla di tutto ciò ha nulla a che fare con il “sacerdozio”. Ah… e ovviamente, essere uomini.

Possiamo certamente essere d’accordo sul fatto che nessuno può modificare “la natura” del sacerdozio. Ma saremo tutti d’accordo nel fatto che ci sono cose essenziali e cose occasionali, come accade in tutto ciò che è “naturale” (terminologia già piuttosto in crisi, del resto). Le centinaia di cambiamenti verificatisi nella storia della Chiesa nei modi di celebrare i sacramenti, aiutano evidentemente a considerare la distinzione tra cio che è essenziale e ciò che è accessorio. La cosa fondamentale nel “sacerdozio” (ebraico e nuovo, secondo la lettera agli Ebrei) sembrerebbe essere il fatto di essere mediatore. Ma, se il sacerdozio antico per “mediare” doveva separarsi il più possibile dall’umanità per tendere a Dio, nel caso del nuovo sacerdozio accade tutto il contrario: deve avvicinarsi il più possibile all’umanità fino a diventarle simile in tutto (eccetto il peccato); da questo si caratterizza per la misericordia e la credibilità. Questa sembrerebbe essere la natura del sacerdozio “cristiano”.

Insomma… quello che ha detto il papa mi ha lasciato un enorme malcontento… sembra più uno slogan che un’affermazione teologico-spirituale. E, se c’è una cosa che non mi aspetto dai pastori (me compreso, ovviamente) è che ricorrano a slogan inconsistenti. Penso che il popolo di Dio non se lo meriti.

Blog di Eduardo De La Serna     “Religión Digital”    1° dicembre 2023 https://blogeduopp1.blogspot.com                Traduzione a cura di Lorenzo TOMMASELLI.

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SINODO

Enzo Bianchi, il sinodo e il popolo LGBT+

Intervento di Enzo Bianchi tratto dall’incontro on line su “Il Sinodo sulla sinodalità: bilancio e prospettive” del 5 novembre 2023, trascrizione di Massimo Battaglio

Qualche tempo fa, Enzo Bianchi, ex priore della Comunità di Bose, ora fondatore della Casa della Madia (Albiano d’Ivrea), tenne una specie di catechesi sul documento finale del Sinodo. Non potendo essere presente, guardai la registrazione su youtube.

www.youtube.com/watch?v=DG3CbyM27tg

Non avevo dubbi che l’anziano monaco, sempre aggiornatissimo sulle cose dell’oggi, avrebbe dedicato almeno una parte alla questione omosessuale, sulla quale i vescovi hanno rimandato la discussione. E sapevo che sarebbe stato piccante come suo solito.

Gli ho quindi chiesto se quella parte poteva essere pubblicata su Gionata, magari nella sezione “risorse pastorali”. Enzo ha accettato, anche se ci ha messo un po’. Ha infatti risposto così: “Caro Massimo scusa il ritardo ma ero in ospedale per un doloroso intervento. Mi fa piacere che il mio intervento sia stato ben accolto e quindi lascio a te l’iniziativa di pubblicarlo. Spero di potervi stringere la mano e dirvi la mia simpatia. Enzo Bianchi”.

Visto che mi tocca, ho sbobinato il tutto e lo propongo qui. È di frizzante lettura.

Enzo Bianchi

 “(…) Tutti voi vi accorgete, per chiusi che siate, per bacchettoni che siate, che l’antropologia sessuale è cambiata, che non abbiamo più la stessa visione della sessualità che avevamo trent’anni fa. Anche i più bacchettoni, quelli che chiudono gli occhi quando sentono la parola omosessualità, se ne accorgono. Ormai vediamo tanti gay che convivono insieme; nelle nostre famiglie ci sono coppie omosessuali.

                Certamente la Chiesa si interroga. E la Chiesa che cos’ha? Ha le Scritture, che sono “molto chiare”: un rapporto omosessuale, una vita omosessuale, è “grave peccato contro Dio”. La volontà di Dio è “un’unione tra un uomo e una donna”, “aperta alla vita”; non si danno eccezioni. Nell’Antico Testamento, il peccato viene addirittura condannato con la pena di morte. La Scrittura “lo dice”, “lo condanna”.

                Nel Nuovo Testamento, i cristiani si vantano di essere differenti dai pagani proprio perché non praticano l’omosessualità. E poi abbiamo tutta una storia della Chiesa che lo annovera tra “i peccati più gravi”, addirittura tra quelli che “gridano vendetta al cospetto di Dio”. Guardate che, nel medioevo, i sodomiti, quelli che hanno il marchio dell’omosessualità, non venivano neanche seppelliti nei camposanti ma dovevano essere seppelliti fuori, accanto ai suicidi.

Si è giunti così fino alle dichiarazioni del Sant’Uffizio, fino al Catechismo della Chiesa Cattolica di vent’anni fa. Ma, in occidente, le cose cambiano. Se questo va molto bene in Africa e in Asia, in Sud America no (c’è una promiscuità terribile, che sta nei loro costumi) e, in Europa, anche la legge permette delle unioni che vengono celebrate e alle quali sono legati dei diritti e dei doveri contrattuali.

In più, nelle Chiese di Belgio, Olanda e Germania si è arrivati in questi ultimi anni ad avere dei preti che benedicono

le coppie omosessuali. Se una coppia omosessuale vive il rapporto di fedeltà, dice la sua serietà, i due sono bravi cristiani, vanno alle liturgie, frequentano la comunità o la parrocchia, a un certo punto, chiedono una benedizione. E il prete dà loro la benedizione.

Si può fare questo? Viene domandato due anni fa alla Congregazione della Fede. La Congregazione risponde in modo lapidario: “No. Non si può benedire un peccato”. Rispondono gli altri: “ma non si tratta di benedire un peccato. Si tratta di benedire un legame, una storia d’amore. E, se la Chiesa benedice le vacche, i trattori, le moto, perché non dovrebbe benedire una coppia che si vuol bene?

Non è il sacramento del matrimonio, attenzione: non è un sacramento e non è il matrimonio. È invocare, su due persone, che ci sia pace tra di loro, che siano fedeli, che il Signore le accompagni. In un secondo momento, il Papa ha detto: “Ma io, quella lettera del Sant’Uffizio, non l’ho mai vista”. E allora questi vescovi si son trovati ringalluzziti.

                L’altro ieri il vescovo di Spira, in Germania, ha scritto ai sacerdoti: “mi raccomando, benedite le coppie omosessuali purché vivano seriamente il loro rapporto e diano garanzia di fedeltà”. E gli ha dato addirittura una specie di liturgia di benedizione (in modo che non si dicano stupidaggini e non ci siano esagerazioni).

                La situazione è questa. In più, accanto a questo ma lo cito appena, c’è il problema del “gender”, che si è imposto ultimamente. Voi sapete che, nella natura, checché noi vogliamo, ci sono persone che nascono senza un genere preciso o che, durante la loro vita, sentono un’altra identità dentro di loro. È un dramma. Chi di voi ne conosce, sa che è un dramma. Io ne conosco parecchie da anni.

                Vengono a chiedermi consiglio su come vivere questa situazione. Soprattutto quelli che iniziano o vogliono iniziare un percorso che sia anche di intervento chirurgico, mi chiedono sovente: “Che succede psicologicamente? Devo farlo? Non devo farlo?”. E guardate: son tutte situazioni di dolore! Di sofferenza! E gente con la quale ci vuole misericordia e compassione! Nessun giudizio! E invece voi sapete che una parte della Chiesa non ne vuol neanche sapere.

Allora notate che, nell’instrumentum laboris, cioè quel documento con cui si è arrivati al Sinodo, c’era un paragrafo su di loro, con la formula “i cristiani LGBT…” quella cosa lì, scomparsa anche questa. Non c’è più cenno. Altro binario che non si sa dove sia finito. Chiuso per sempre? Vedremo.

                (…) Il Sinodo si è chiuso così, dicendo che adesso abbiamo un anno di gran lavoro e, tra un anno, vedremo.

(…) Dobbiamo pigliar atto che la Chiesa Cattolica è questo. È molto polarizzata, è una Chiesa immatura, non è adulta, e bisogna adesso sperare in un anno di grande lavoro da parte dei teologi, da parte di chi può aiutare il Papa in questo, per arrivare il prossimo anno a degli sbocchi con alcune decisioni, ben sapendo che, per ora, non si parlerà mai di sacerdozio alle donne (…), non si arriverà neanche alle donne diacono (…).

Credo che si arriverà ad alcune ordinazioni di uomini sposati e, sulla sessualità, credo che sarà tutto fermo. Faranno finta di niente; in occidente lasceranno che le cose vadano così, in modo che l’Africa e gli altri Paesi non si sentano disturbati nelle loro convinzioni “.

                Facciamo gli auguri di pronta guarigione a fratel Enzo Bianchi, perché, coi suoi ottant’anni suonati, possa continuare a essere il modernissimo profeta che abbiamo sempre conosciuto. Ma questa volta, ci auguriamo anche che, sulle ultime frasi, si sbagli.

Massimo Battaglio · 27 novembre 2023

www.gionata.org/enzo-bianchi-il-sinodo-e-il-popolo-lgbt

L’uniformità nuoce all’unità

Ridare tutta la loro pertinenza al dubbio e alla diversità? Il Sinodo appena concluso ha confermato i pronostici ed è rimasto al di sotto delle attese. Con 54 donne su 365 membri (nominati e non eletti) non rappresenta la diversità dei credenti. Non ha preso nessuna decisione concreta poiché le decisioni avrebbero dovuto conformarsi alla dottrina esistente.

Niente presbiterato per le donne ma, eventualmente, al massimo, il diaconato. La separazione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente del 1054, chiamata ironicamente “scisma di Roma” dagli ortodossi, scaturisce dall’insistenza del Vaticano a dettar legge sulla cristianità orientale. Le dispute cristologiche come quella del Filioque e l’aspirazione del papato a dominare la scena politica sono tentativi di creare l’unità con l’uniformità. Se si dovesse indicare una distinzione fondamentale tra la Chiesa cattolica da una parte e le Chiese riformate e anglicana dall’altra, sarebbe sulla dottrina, uniforme per la prima, diversa e fluttuante per le seconde. Tra queste ultime, sparse in tutto il mondo, si possono trovare sia degli evangelicali fondamentalisti che dei protestanti liberali. Non vi è in esse nessuna autorità magisteriale che stabilisca una inesistente ortodossia delle eresie. Le eresie non rappresentano deviazioni pericolose rispetto a una norma, sola vera, ma sono controversie attorno a certi temi: che cosa pensare della natura di Gesù, dei suoi miracoli, della sua resurrezione, che cosa significa vita eterna, che cos’è l’eucaristia? Sono tutti misteri, aperti alla meditazione, che è azzardato standardizzare in dogmi catechetici.

La Congregazione per la Dottrina della Fede è l’erede dell’Inquisizione, che fu fondata all’origine da Paolo III nel 1542 per difendere la Chiesa contro le eresie. Non ce n’era stato bisogno per quindici secoli fino a che diventò urgentemente necessario premunirsi contro la Riforma, instaurando una norma da cui nessun cattolico potesse allontanarsi. Nel nostro tempo questa istituzione se l’è presa soprattutto con importanti teologi, ad esempio: Hans Küng, Charles Curran, Leonardo Boff, Eugen Drewermann, Yves Congar. Proibendo loro di insegnare, la Roma vaticana ha bloccato la ricerca.

Si vuole ottenere con una procedura di natura giudiziaria l’unità attraverso l’uniformità. È illuminante paragonare questo obiettivo con la prassi seguita nell’ambito delle scienze naturali. Non esiste nessun organismo internazionale che accrediti o contesti determinati contributi alla ricerca in fisica. Le scienze naturali progrediscono attraverso il caso e la necessità, cioè attraverso l’enunciazione di tutte le tesi possibili e il loro confronto con la realtà sperimentale. Su certi temi come la cosmologia, vengono proposti diversi modelli in parallelo senza che nessuno pensi di condannare certe tesi. Il telescopio risolve la discussione. Lo scopo della ricerca nelle scienze naturali non è confermare la scienza esistente, ma al contrario rimetterla perpetuamente in discussione. In questo senso, la scienza è subordinata al dubbio attraverso il metodo sperimentale, dubbio che invece le credenze, le ideologie e i dogmi evitano come la peste, tanto sono fragili. Il dubbio sistematico è il motore del progresso nel sapere. Fin dal 1845,  John Henry Newman (*1801-†1880) ha posto il problema dell’evoluzione dogmatica, come Maurice Zundel al Cairo nel 1948.

Papa Francesco utilizza una formula astuta: difendere il dogma senza dogmatismo. Potrebbe diventare la base della fede e della pratica religiosa. Un’affermazione cristallizzata della dottrina può diventare controproducente. Ciò che è adeguato in una lingua, in una cultura, in una società, in un’epoca diventa contraddittorio in un’altra.

L’esempio più conosciuto è quello dell’enciclica Humanæ Vitæ. Paolo VI aveva istituito una commissione di esperti che aveva raccomandato, con una maggioranza di 66 contro 6, di non condannare i metodi “artificiali” di contraccezione. Il papa non tenne conto di quella conclusione e promulgò l’enciclica. Quest’ultima è rimasta lettera morta e non è stata rispettata dalla maggioranza dei cattolici. Senza il consenso dei fedeli, l’autorità dottrinale del papa è indebolita e inefficace. Dato che nel discorso ecclesiale vengono mantenute dottrine superate e dogmi insostenibili, nei paesi sviluppati e nelle società più istruite l’incredulità aumenta. Non si può esigere uno sforzo della volontà per ammettere o praticare ciò che è inammissibile o irrealistico. Molte persone si trovano a confrontarsi con affermazioni per loro impensabili, salvo accettare un disturbo permanente, che è malafede, nei due sensi che si possono dare a questa espressione.

Cercare di ottenere l’uniformità dei cristiani non favorisce l’unità, anzi, la rende impossibile. Le democrazie politiche sono più robuste delle dittature, perché la diversità dei partiti assicura sempre un’alternativa. Papa Francesco si leva regolarmente contro le dittature. È vitale che i ricercatori in teologia siano, anch’essi, liberi di difendere le loro tesi. Quale spazio al sensus fidelium?

 Jacques Neirynck *1931         “https://baptises.fr” del 13 novembre 2023

https://baptises.fr/actualites/luniformite-nuit-lunite

(traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202311/231130neirynck.pdf

“Le donne non hanno ancora piena dignità ecclesiale

Il Sinodo che si è appena concluso ha forse attirato meno interesse popolare di quanto non meritasse od anche ci si aspettasse negli ambienti ecclesiali. Le guerre che impazzano con i loro orrori su tutti gli schermi hanno attutito la voce di quel dialogo di pace che si è svolto per quasi un mese in Vaticano. I due anni di “preparazione” che hanno visto coinvolte, in Italia, diocesi e parrocchie, clero e laicato, avevano diffuso non solo un lessico prima estraneo ai più, ma anche un fermento, un risveglio, un clima di attesa come se, veramente, dovesse accadere qualcosa che avrebbe cambiato i paradigmi della Chiesa. Qualcosa di nuovo è, in realtà, accaduto ed è stato trasmesso con un segno: la geometria in cui è stata disposta l’assemblea sinodale in Sala Nervi. Non più una grande platea rivolta verso una ribalta ad ascoltare le parole di alcuni ma tutti seduti attorno a tavoli rotondi con diritto/dovere di ascolto e di parola. Lo sguardo di ognuno rivolto verso gli altri undici, dato che al tavolo erano seduti in dodici: un sapore eucaristico, memoria di una originaria fractio panis.

Don Tonino Bello, auspicando una chiesa “col grembiule” le suggeriva di sostituire ai “segni del potere” il “potere dei segni”: credo che il Sinodo abbia voluto e sia riuscito a far questo. E siccome i segni sono dei significanti vale a dire portatori simbolici di reali significati, a questo segno doveva corrispondere una concreta condivisione della mensa comune della Parola, ispirata dallo Spirito Santo; non si trattava, infatti, di un dibattito parlamentare ma di un dialogo sacramentale. Una disposizione eminentemente radicata nella tradizione cristiana, poiché biblica: come quando a Cesarea, in casa di Cornelio, mentre stava annunciando la salvezza del Signore Gesù, Pietro vide lo Spirito scendere su tutta la famiglia di quel centurione incirconciso e dovette riconoscergli il battesimo. Così è accaduto al Sinodo: lo Spirito è sceso su tutti, vescovi e laici, uomini e donne che da Lui hanno ottenuto la legittimità della parola e del voto. La prima volta che anche le donne – votando – hanno dato riscontro della loro fede fatta visione, idea, decisione. Con buona pace di chi, fin a Sinodo iniziato, ha continuato a non riconoscere neppure la legittimità della presenza dei laici, in punta del diritto che regola l’istituto del Sinodo dei vescovi. Dimenticando il diritto fondativo di Pietro che, con uno scatto d’intuito profetico, disse: “chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At11,17).

Che i laici – e quindi le donne – abbiano potuto partecipare attivamente ai tavoli sinodali è una grande festa per la Chiesa, più che una conquista. La festa è la Pasqua: impossibile celebrarla – nella mensa dei tavoli dei dodici! – senza le donne. Come farlo senza il fratello maggiore. Ma la Chiesa, nella sua storia, ha dovuto elaborare su un tessuto antropologico e dogmatico la teologia. E sappiamo come le cose siano andate. Se c’è stato bisogno di dedicare una parte della discussione di quest’ultimo Sinodo al tema delle donne è segno che qualcosa deve ancora compiersi circa la loro piena dignità ecclesiale.

Nella Relazione finale c’è, infatti, un numero – il 9 – così titolato: “Le donne nella vita e nella missione della Chiesa” le cui preoccupazioni sono quelle di dover riconoscere alle donne dei carismi e dei ministeri sinora ignorati o negati. Ad esempio quello del diaconato sul quale, tuttavia, padri e madri sinodali hanno proposto un tempo ulteriore di studio i cui “risultati sono rimandati alla prossima Sessione dell’Assemblea”. È stato, intanto, ribadito quanto già espresso da Papa Francesco nella “Evangelii Gaudium”, dieci anni fa: la richiesta di un maggiore riconoscimento e valorizzazione del contributo delle donne, la partecipazione ai processi decisionali e all’assunzione di ruoli di responsabilità nella pastorale e nel ministero (cf.EG 103-104).

www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20131124_evangelii-gaudium.html

Una prassi che è già stata avviata in Vaticano dove appaiono delle donne anche in ruoli apicali. Ricordando, poi, l’importanza che, per la comunione della chiesa, ha la corresponsabilità, l’Assemblea ha proposto qualcosa di prezioso: il bisogno di ampliare l’accesso delle donne ai programmi di formazione e agli studi teologici. Resta, però, da definire molto affinché perché questo si realizzi: in quali “quadri” ecclesiali, ministeriali – esclusi quelli che tendano a clericalizzarle – e professionali, e con quali mezzi – anche economici – le donne possano fare ciò. Quanto nella Relazione finale resta in sordina è la realtà concreta in cui queste buone proposte vanno a collocarsi. La discussione – non solo quella sulle donne – si è svolta, infatti, più su un piano teorico – la Tradizione, la teologia, l’ecclesiologia, la dogmatica, il diritto canonico – mentre è sembrata sfumata la percezione del contesto storico e culturale in cui vive oggi la Chiesa specialmente in Europa.

Ci si preoccupa molto della tradizione circa il diaconato femminile e troppo poco del bisogno estremo di una diaconia della fede e della fraternità che si traduca nelle realtà umane, culturali, politiche dell’oggi. Preoccupati del rigore dogmatico dei ministeri si rischia di perdere di vista la ragione degli stessi.

Quando il Sinodo si interroga: “come la Chiesa può inserire più donne nei ruoli e nei ministeri esistenti?” Oppure si chiede se: “servono nuovi ministeri a chi spetta il discernimento, a quale livello e con che modalità?” il rischio è che ci si preoccupi di come i ministeri possano promuovere le donne e non viceversa: di come le donne possano promuovere i ministeri, dar forma ed efficacia ai loro carismi indispensabili per la missione attuale della Chiesa. Il discernimento non può prescindere dalla libertà e il dovere di capire e rispondere alle tante grida che dalla terra si levano.

 Rosanna Virgili *1958, biblista e teologa – Agenzia SIR – 4 novembre 2023

www.agensir.it/chiesa/2023/11/04/sinodo-virgili-biblista-le-donne-non-hanno-ancora-piena-dignita-ecclesiaO

TESTIMONI

Cereti: 90 anni di gratitudine

Il 1° dicembre compie 90 anni un personaggio importante della ma del suo compleanno. L’intervista completa, a cura di Daniela Sala, si trova sull’ultimo numero de Il Regno – Attualità, alle pp. 632-633 e qui in digitale. A seguire ne riportiamo uno stralcio.

Le nuove nozze nella Chiesa antica

                Una delle piste di ricerca principali del suo significativo e fruttuoso percorso di studi è stata quella relativa alla prassi della Chiesa antica rispetto al problema dei «digamoi», in sostanza quanti entravano in un secondo matrimonio dopo la fine del primo. E di qui ha prospettato l’ipotesi di creare una nuova prassi nella Chiesa per dare una risposta alla questione dei divorziati risposati.

                «Il mio interesse al problema dei divorziati risposati nasce dal fatto che dal 1966 al 1970 ho lavorato in un tribunale ecclesiastico, e ho visto come esso, pur con le migliori intenzioni da parte di chi ci lavorava, appariva assolutamente inadeguato rispetto appunto alla risposta a questo problema da parte della Chiesa dell’epoca. E quindi nel giugno del 1971 pubblicai con le Edizioni dehoniane Bologna (EDB)  il volume “Matrimonio e indissolubilità, nuove prospettive.

Sono molto riconoscente all’editore di allora, perché scrissi il libro prima di partire per l’Africa e lo affidai alla casa editrice per la pubblicazione quasi senza poter rivedere assolutamente nulla. Però quel lavoro riscosse interesse in ambito accademico, ricordo in particolare le parole di apprezzamento di Peter Huizing, docente di Diritto canonico all’Università cattolica di Nimega, nei Paesi Bassi. Io dissi, dopo, che mi pareva che certi passi mi fossero stati come suggeriti dall’esterno, quasi “sotto dettatura”».

Citato in Amoris lætitia, ma a suo tempo non potei più insegnare

                «Dopo questa prima pubblicazione, nel 1977 seguì “Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva”, edito sempre da EDB, dove ho cercato di dimostrare che la Chiesa primitiva assolveva i divorziati risposati attraverso il sistema della penitenza, da vivere lungo un anno in cui si era esclusi dall’assoluzione, ma poi si veniva assolti e si poteva partecipare alla vita della comunità cristiana. Quindi non si poteva più dire che la Chiesa non aveva mai conosciuto la soluzione di questo peccato in particolare, cioè il peccato di essere venuti meno al proprio impegno coniugale.

                Credo d’aver dimostrato che nella Chiesa primitiva in realtà si dava l’assoluzione dopo un anno di penitenza pubblica. Questi sono i lavori principali che io ho fatto nella mia vita».

Che impatto hanno avuto queste ricerche nella vita della Chiesa?

«Le racconto un episodio. Il card. Francesco Coccopalmerio, qualche mese fa, mi ha detto che ha riletto attentamente l’esortazione postsinodale Amoris lætitia, che ha concluso il processo sinodale del 2013-2014 sulla famiglia, ed esaminando soprattutto il capitolo VIII si è reso conto che esso ha ripreso tutto quello che io ho sostenuto nei miei libri e nelle mie ricerche. E di ciò si rallegrava».

– Nella sua vita invece quali effetti ci sono stati?

«Sono stato in seguito escluso da qualsiasi insegnamento in campo ecclesiale o da qualsiasi riconoscimento, ma devo dire che quello che ho scritto è stato rispettato, se si esclude qualche attacco, presente principalmente in una pubblicazione apparsa presso l’editrice Cantagalli con contributi di cinque cardinali (Brandmüller, Burke, Caffarra, De Paolis, Müller; cf. anche in questo numero a p. 629), dal titolo “Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica».

Mons. Bettazzi, “camminatore di pace”: uno speciale di “Mosaico”

 Avrebbe compiuto 100 anni il 26 novembre mons. Luigi Bettazzi,[sua battuta sarei diventato un vescovo secolare, in termine ecclesiale] già vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi, morto all’alba del 16 luglio nella sua residenza ad Albiano d’Ivrea, quattro mesi prima di raggiungere il traguardo del secolo. A lui “Mosaico di pace” – rivista promossa da Pax Christi – dedica un numero monografico di 48 pagine che restituisce un’immagine ampia e completa di quello che è stato l’ultimo vescovo italiano a partecipare al Concilio Vaticano II e testimone di una Chiesa evangelica, schierata con gli oppressi, aperta ai “lontani”, pacifista e nonviolenta.

(è possibile richiedere il fascicolo di novembre contattando la redazione di Mosaico di pace: tel. 0803953507; email: abbonamenti@mosaicodipace.it).

«Era soltanto don Luigi, per tanti. Un camminatore instancabile sui sentieri del dialogo e della pace, quella vera, disarmata, senza sangue né violenza», si legge nell’editoriale redazionale che apre il fascicolo di Mosaico. «Ricordarlo proprio in questi giorni restituisce voce al nostro sogno di un “cessate il fuoco” e “mai più la guerra”», mentre «assistiamo inermi e increduli alla strage di civili, di bambini e di donne, che si consuma nella Striscia di Gaza. Alla fatica dell’Onu. Ai linguaggi di parte e  della verità storica di un conflitto che si trascina da decenni».

Un «camminatore di pace» che aveva percorso un po’ tutti i terreni di guerra degli ultimi decenni, come racconta Tonio Dell’Olio, già coordinatore nazionale di Pax Christi. «Io ricordo di averlo accompagnato in Bosnia, Kosovo, El Salvador, Guatemala, Australia, Israele, Palestina, Vietnam, Paese che, come un voto emesso, visitava ogni anno. Penso che non ci sia stato scenario di guerra che non l’abbia visto discreto seminatore di pace, della costruzione della pace», scrive Dell’Olio. «Bettazzi ha attraversato il mondo del Concilio, del dialogo, della nonviolenza, delle domande critiche, dell’incontro. Profeta della pace e della nonviolenza, don Luigi Bettazzi è tutt’altro che un protagonista del passato. È piuttosto un uomo del futuro».

Guardano al futuro, infatti, gli articoli di Bettazzi che vengono riproposti sul fascicolo speciale di Mosaico, riflessioni sulla pace, sul Concilio, sui giovani, sulla nonviolenza, sulla Chiesa, sulla politica, sul disarmo, tutte «protese alla costruzione tutta in divenire di una convivenza umana fondata sulla fraternità e sulla sororità». E poi i contributi di alcuni dei suoi «compagni di strada», che raccontano Bettazzi «nelle domande che apre e rivolge al nostro tempo»: Francesco Comina, il monaco di Bose Guido Dotti, Giancarla Codrignani, Sergio Paronetto, Raniero La Valle, Salvatore Leopizzi, il vescovo emerito di Pinerolo Pier Giorgio Debernardi e Tonino Bello, suo successore alla guida di Pax Christi, che in occasione del venticinquesimo anno di episcopato, spiegava come in Bettazzi non ci fosse mai stato «un certo momento», «una caduta da cavallo, tanto per intenderci. Una di quelle folgorazioni, cui sono spesso riconducibili certe scelte radicali che segnano la vita umana con un marchio di origine controllata e la etichettano per l’eternità», come capitato per esempio al card. Giacomo Lercaro – che fu cambiato dal Concilio – o a Oscar Romero, convertito dai crimini della dittatura militare in Salvador e dal popolo che gli era stato affidato. «Il martirio di pace è una costante così viva nel suo ministero pastorale che invano si cercherebbe il classico coup de foudre cui imputare il dirottamento della sua vita sul sentiero di Isaia», scriveva Bello, «potremmo dire che in mons. Bettazzi quella della pace è un’idea innata».

A Bettazzi è dedicato anche un volumetto appena pubblicato dalle Edb – storico marchio dei religiosi dehoniani, fallito e rimesso in vita da un gruppo editoriale, Il Portico, guidato da Alberto Melloni – A tu per tu con Dio (pp. 96, 9€), che contiene un ampio testo inedito del vescovo emerito di Ivrea, una sorta di testamento spirituale. «L’eternità è un mondo misterioso per noi umani, strutturati per inquadrare tutto nello spazio e nel tempo: l’eternità è al di fuori del tempo, inimmaginabile», scrive Bettazzi, «ciascuno si costruisce la propria eternità vivendo convenientemente nella sua vita terrena: il paradiso o l’inferno ce lo costruiamo noi giorno per giorno».

Il volume presenta anche i testi che hanno accompagnato il funerale di mons. Bettazzi: i messaggi di papa Francesco e del cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana Matteo Zuppi e l’omelia pronunciata dal presidente di Pax Christi, mons. Giovanni Ricchiuti, durante le esequie. «Anche tu, caro don Luigi, “non sei stato profeta in patria”, incontrando spesso opposizione e marginalizzazione… anche nella chiesa!», ha detto Ricchiuti. «Quante censure hai avuto! Quante volte le tue posizioni, anche recenti, contro la guerra e il riarmo sono state criticate o quantomeno… ignorate. E siamo qui ancora oggi con te a denunciare la follia delle spese militari». Le conclusioni di Ricchiuti: «Tu non sei l’uomo del passato, ma del futuro! E il modo migliore per ricordarti, unitamente a don Tonino [Bello] e ai tanti coraggiosi costruttori di pace, oggi diversamente viventi, è continuare sulla strada tracciata con la tua stessa fantasia creativa e generatrice, sapendo osare, sognare e camminare nella stessa direzione che ci hai indicato».

Luca Kocci Adista Notizie n° 41 del 02 dicembre 2023

www.adista.it/articolo/70991

[una battuta frequente nel Torinese clericale: “ già Pellegrino (Michele cardinale di Torino) e Bettazzi sono sempre sbronzi con tutti i “cicchetti” che devono ingoiare.[bicchierini di liquore e severi rimproveri in gergo militare]

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