news UCIPEM n. 945 – 15 gennaio 2023

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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Sono strutturate: notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

CONTRIBUTI ANCHE  PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA

02 ABUSI                                              Gli abusi e i rapporti Stato-Chiesa da rivedere

03 BENEDETTO XVI papa emerito  Benedetto XVI, il destino del papa professore

05                                                          Autorità e “dispositivo di blocco”: di un certo uso della teologia di J. Ratzinger

09                                                          Benedetto XVI, papa della vecchia cristianità

10                                                          Leonardo Boff: «Quella porta sbattuta in faccia alla modernità»

12                                                          Benedetto XVI, teologo dell’anti-modernità, papa dell’anti-Concilio

16                                                          Ratzinger e la crisi del cattolicesimo. Intervista a D. Menozzi, storico delle religioni

18                                                          Finisce il falso dualismo dei due papi. Resta l’eredità incerta di Ratzinger

19 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA  Newsletter CISF – n. 01, 11 gennaio 2023

21  CHIESA DI TUTTI                           Il clericalismo seppellirà il cattolicesimo?

25                                                          Nella Chiesa il maschilismo è più forte e decisivo del Vangelo

26                                                          Papa Francesco: attenti «alle false notizie»

27                                                          La Chiesa di mons. Gaenswein. Quella di oggi e quella di domani

28 CHIESA NEL MONDO                    Le violenze sessuali, una specificità cattolica?

30  CITTÀ DEL VATICANO                 “Georg sostiene di riferire i pensieri di Benedetto ma non so se dice la verità”

32                                                          Wojtyla, Ratzinger e Francesco: il dialogo con l’Islam

34                                                          Il silenzio di Papa Pacelli una sconfitta per la Chiesa

35 CONSULTORI UCIPEM                  Milano 2. Incontri sul tema della fertilità e fecondità di coppia

36 DALLA NAVATA                             2° Domenica del tempo ordinario – Anno A

36                                                          Commento di p. Ernesto Balducci

37 DIALOGHI                                       La vergogna del corpo: una bestemmia millenaria?

38 ECCLESIOLOGIA                             «È la fine della Chiesa o l’inizio di un modo nuovo di vivere il cristianesimo?»

40 FRANCESCO VESCOVO ROMA   Lo scudo di Bergoglio

41                                                          Vito Mancuso: “Ora la sfida di Francesco è l’apertura alle donne”

44 LITURGIA                                        Maria Montessori. ”Ci ha insegnato che il bambino ha una capacità spirituale innata”

44 RIFLESSIONI                                   Crisi e futuro della Chiesa

52                                                          Taylor: «L’età secolare è un’opportunità»

53 SINODO                                           Card. Grech, “l’Instrumentum laboris” dopo la primavera 2023

54 TERZO SETTORE                             Terzo settore: qualcosa è cambiato?

55 VIOLENZA                                       Ricerca: violenza su donne lascia ‘cicatrici molecolari’ su almeno 3 geni

ABUSI

Gli abusi e i rapporti Stato-Chiesa da rivedere

Marko Rupnik è un prete cattolico, gesuita, affermato artista autore di mosaici che ha decorato importanti edifici di culto nel mondo e nel cuore dello stesso Vaticano. Tra quelli a noi più vicini vi è la cripta nella chiesa nuova di San Pio a San Giovanni Rotondo i cui mosaici dorati sono stati realizzati tre il 2009 e il 2013. Ma è anche un riconosciuto esperto delle tradizioni cristiane orientali e dunque richiestissimo predicatore di esercizi spirituali. Due suore che lo avevano denunciato anni fa per abusi sessuali e di potere, hanno parlato di recente con i media, rendendo in questo modo nota al pubblico una questione grave che era stata accuratamente tenuta sotto silenzio. Nonostante il processo avviato dai gesuiti per verificare le accuse avesse concluso che il comportamento di Rupnik era effettivamente stato quello denunciato dalle religiose.

Esprimiamo vicinanza alle vittime degli abusi, quelle note e quelle ignote, siamo interessati alle ragioni strutturali che favoriscono gli abusi in vista di una riforma della chiesa cattolica e riteniamo che la forma giuridica e i contenuti della relazione tra Stato e Chiesa cattolica in Italia rappresentino un ostacolo alla ricerca della verità ma anche alla missione della stessa chiesa cattolica e agli interessi dei cittadini italiani.

Le accuse contro Rupnik sono state indagate dalla Congregazione della Dottrina della Fede, ex Sant’Uffizio, che le ha ritenute credibili al punto di scomunicarlo, decisione assunta nel maggio del 2020 e annullata dopo pochi giorni, possibilità di esclusiva pertinenza papale. La scomunica era stata comminata per aver assolto in confessione una suora considerata complice delle trasgressioni sessuali, colpa che comporta automaticamente una tale sanzione. Tra il 2020 e il 2021 una seconda indagine svolta sempre dalla Congregazione non ha sortito nessuna sanzione canonica riconoscendo l’avvenuta prescrizione dei reati. Il preposto generale dei gesuiti Arturo Sosa in una recente conferenza stampa ha sostenuto che sarebbero in atto «misure di restrizione del ministero del padre Rupnik», che «egli è a Roma, e continua il suo lavoro come artista, negli ambiti non toccati dalle misure restrittive a suo carico». La sua teologia ha precisato Sosa «non viene messa in questione, ma il suo comportamento come prete nell’esercizio del ministero sacerdotale».

Benché il personaggio sia conosciuto e rilevante, la notizia ancorché tardiva i fatti risalgono agli anni 90 è stata riportata in Italia da pochi giornali. I racconti dimostrano che un clima di omertà e condizionamento ha ritardato le denunce delle vittime, pare ventuno religiose. Sorprende anche che le vittime non si siano rivolte alla magistratura italiana sia perché una violenza e un abuso sono prima di tutto un reato sia perché nella chiesa cattolica non esiste la separazione dei poteri che è garanzia di imparzialità della amministrazione della giustizia.

È anche vero che abusi e violenze vengono svelati anche in altri ambienti dove la struttura gerarchica del potere è particolarmente pronunciata come negli ambienti polizieschi, militari e carcerari, ma qui siamo in un ambito in cui si professa la fratellanza, l’amore reciproco, il servizio vicendevole. Sarebbe un errore considerare il caso Rupnik un fenomeno legato alla singola persona senza mettere in discussione la struttura gerarchica e la concentrazione di potere della organizzazione in cui è avvenuto. La sacralità del sacerdozio, la patriarcale esclusione delle donne dallo stesso, il potere indiscutibile concentrato nella gerarchia che si autogenera sono le radici dei tanti «casi Rupnik».

Sarebbe altresì un errore considerare la questione puramente interna alla chiesa cattolica, come gran parte del mondo laico è incline a fare di fronte alle questioni ecclesiastiche. Secondo la Costituzione del 1948 ( artt. 7 e 8)mentre «le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano», lo Stato e la chiesa cattolica «sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Quando il mondo laico e il mondo cattolico comprenderanno l’anacronismo di queste norme, anche il rapporto concordatario tra Stato e chiesa cattolica cesserà. Sarebbe intanto molto utile abolire il comma 4 dell’art.4 del Concordato secondo il quale gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero. Ma nel frattempo e prima sarà forse la società correttamente informata a comprendere che strutture autoritarie, fratellanza e sorellanza non vanno mai d’accordo.

  Maurizio Portulari   “Quotidiano di Puglia” 10 gennaio 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230110portulari.pdf

BENEDETTO XVI

Benedetto XVI, il destino del papa professore

Ci sono frasi che possono segnare o almeno definire un destino. “Penso che, siccome Dio ha fatto papa un professore, abbia voluto che venissero in primo piano proprio quest’aspetto della riflessione, ed in particolare la lotta per l’unità di fede e ragione”. Sono parole pronunciate da Benedetto XVI nel 2010, nel libro intervista “The Light of the World”. Era giunto al pontificato, dopo essere stato per molti anni Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ed essere chiaramente il cervello teologico di Giovanni Paolo II, il papa più “politico”, con il quale per una trentina d’anni aveva promosso, senza concessioni, un’esigente riunificazione dottrinale della Chiesa. La stesura del Catechismo della Chiesa Cattolica, da lui attentamente curata, è stata l’ideologia che, dichiarata di autorità pontificia, ha cercato di imporre come norma e criterio per la catechesi e anche per la teologia.

                Di fatto, il prestigio di professore tedesco, unito ad un ricco percorso di pubblicazioni teologiche, è riuscito ad introdurre nell’ambiente un senso di dignità culturale per l’annuncio della fede cristiana. Rispondeva così a un’esigenza globale di aggiornamento, che il Concilio Vaticano II aveva solennemente riconosciuto e proclamato. Era urgente, dopo la grave crisi dell’Illuminismo, che aveva messo in crisi il ruolo preminente con cui il cristianesimo aveva segnato per un millennio e mezzo la cultura occidentale e da allora, in larga misura, anche quella del mondo.

Egli, non solo per formazione, ma per aver personalmente partecipato al Concilio, sembrava ben preparato ad assumere l’alto compito. E ha deciso di affrontarlo continuando, con altro stile ma con lo stesso atteggiamento di un certo messianismo salvifico, la strada già intrapresa con il precedente papa, Giovanni Paolo II. Ma succede che, a questo punto, tutto sembra confermare ciò che gran parte dei teologi aveva denunciato fin dall’inizio. Il Concilio aveva aperto le porte ad una rivoluzione evangelica e quello che questi due papi intendevano imporre era un rinnovamento di compromesso, con accorgimenti di forma e accomodamenti di stile. Alla fine, stavano solo puntellando lo stesso vecchio edificio. Si è proceduto attraverso un’ermeneutica restauratrice del messaggio conciliare, con il rafforzamento dell’autorità centrale.

                Se Giovanni Paolo II ha insistito soprattutto sulla disciplina di un governante forte ed esperto, Benedetto XVI si è concentrato sulla teologia. Seguendo anche lo stile del predecessore, ha pubblicato alcuni ottimi documenti, come “Deus caritas est” (Dio è amore), “Spe salvi” (Salvati dalla speranza) e “Caritas in veritate” (Carità nella verità), che sono stati luminosi e pieni di speranza, in quanto si sono concentrati sull’annuncio centrale della fede, evitando i temi collaterali e discutibili.

                Ma, riguardo agli sforzi relativi ad un sostanziale aggiornamento teologico, è stato tradito dalla sua interpretazione del servizio papale, ritenendosi un “papa maestro”: ha pensato che la sua autorità pastorale di annunciatore della fede e di animatore di vita in un senso evangelico, lo investiva anche del potere di controllare il “servizio teologico”. Ha trasformato la sua teologia in un modello di teologia. Di conseguenza, ha continuato, rafforzandolo con la nuova autorità papale, il controllo autoritario che aveva esercitato come prefetto della dottrina della fede. Le censure, i procedimenti e le esclusioni di quello che suonava come un fondamentale rinnovamento si sono moltiplicate, imponendo nell’insegnamento più o meno ufficiale i testi dei rappresentanti della restaurazione teologica. Semplificando: Hans Urs von Balthasar (α1905-ω1988) contro Karl Rahner (α1904- ω 984).

Riguardo al secondo, è arrivato a dire: “Lavorando con lui, mi sono reso conto che Rahner ed io, pur concordando su molti punti e su molteplici aspirazioni, vivevamo dal punto di vista teologico su due pianeti diversi”. Proprio lì e anche con qualche semplificazione, appare un sintomo che, mi si consenta l’opinione, è tutta una diagnosi: il teologo Ratzinger è molto lontano dalla creatività e dalla profondità del teologo Rahner. Non ha riconosciuto, come invece Rahner, la necessità di un “cambiamento strutturale nella Chiesa” o di un radicale superamento del paradigma scolastico, aprendo per la teologia e per la Chiesa un futuro che batte con i pugni alle porte dell’umanità. Dell’umanità religiosa, bisognosa che entri di nuovo l’aria fresca del Vangelo. E dell’umanità laica, alla quale non è di troppo ascoltare l’offerta di luce e di speranza che Gesù di Nazareth ha acceso duemila anni fa.

                Non a caso chiudo qui queste riflessioni con questa evocazione. Poiché confesso di aver sempre considerato come perdita di una grande opportunità il fatto che la scarsa focalizzazione della diagnosi abbia impedito a Benedetto XVI di sfruttare le sue eccellenti doti di sintesi precisa e di esposizione illuminante che su questo tema centrale gli offriva l’ampia diffusione del suo libro sul Nazareno. Non tenendo conto dei progressi degli studi biblici, della proclamazione conciliare dell’autonomia del mondo e del nuovo dialogo tra le religioni, non è riuscito a presentare al mondo una visione aggiornata e veramente credibile della sua figura. La figura profondamente umana di uno come noi che, annunciando la parola che Dio è amore infinito e perdono incondizionato e che, praticando una condotta fraterna, impegnata e liberatrice di tutti gli umiliati e offesi, rimane lì come un faro aperto, che, oggi come agli inizi, continua a mandare segnali con i quali tante persone nel mondo si sintonizzano intimamente, trovando in essi senso e salvezza.

             L’articolo del teologo spagnolo di lingua galiziana Andrés Torres Queiruga (professore ordinario di filosofia della religione presso l’Università di Santiago di Compostela, è tra i fondatori di Encrucillada, Revista Galega de Pensamento Cristián, una pubblicazione creata nel 1977 che rivendica l’uso della lingua galiziana nella Chiesa), è stato pubblicato il 7 gennaio 2023 sul sito di informazione religiosa Religión Digital (www.religiondigital.com) con il titolo

Benedicto XVI, el destino del Papa profesor”  . Traduzione di Lorenzo Tommaselli                                        www.adista.it/articolo/69306

Autorità e “dispositivo di blocco”: di un certo uso della teologia di J. Ratzinger

“Ad discendum item necessario dupliciter ducimur, auctoritate atque ratione. Tempore auctoritas, re autem ratio prior est”

“Per imparare, siamo anche necessariamente guidati in due modi: dall’autorità e dalla ragione. Per quanto riguarda il tempo, l’autorità; quanto alla realtà, invece, la ragione è più importante”

(Agostino., De ord., II, IX, 26 [CCL, XXIX, 121, 2-122, 4].

Vorrei tornare con una certa precisione su un “modello di argomentazione” che a partire dagli anni ‘70 si è diffuso nel discorso magisteriale cattolico e ha assicurato progressivamente una vera e propria “paralisi” di quell’orientamento alla riforma e ai processi di aggiornamento, che il Concilio Vaticano II aveva provvidenzialmente reintrodotto nella vita della Chiesa. Altrove ho già trattato il fenomeno, identificando una sorta di “stile magisteriale”, che si basava su una strategia paradossale: negando la propria autorità, esso conserva tutta la sua autorità. (cfr. 22 marzo 2016)

.www.cittadellaeditrice.com/munera/chiesa-in-uscita-e-esercizio-dellautorita-oltre-un-luogo-comune-del-magistero-recente.

Riprendo qui brevemente il senso di quel primo ragionamento.

1. Il problema della autorità. Nel testo citato osservavo come, nel dibattito ecclesiale scaturito dalle parole profetiche di papa Francesco sulla “Chiesa in uscita” e sul “superamento della autoreferenzialità”, non si fosse ancora chiaramente compreso quanto questa priorità, che giustamente il papa ha enunciato fin dai primi giorni del suo ministero – e che già era chiaramente presente nel suo testo presentato alla Congregazione dei Cardinali in conclave –richiedesse una profonda revisione dello stile con cui la Chiesa pensa e agisce rispetto al tema del “potere”  e della “autorità”. Per poter “uscire dalla autoreferenzialità” e diventare davvero “eteroreferenziale” – ossia per non mettere al centro sé, ma l’Altro e l’altro –  la Chiesa deve anzitutto riconoscere di essere investita di una reale ed efficace autorità. In altri termini, essa deve poter confidare nella possibilità di intervenire autorevolmente sulla propria dottrina e disciplina–su ciò che pensa di sé e su ciò che fa di sé -, senza cedere alla tentazione di “impedirsi un ripensamento”, magari in nome della fedeltà alla tradizione.

                Se la Chiesa pensa che l’unico modo di essere fedele al Vangelo sia continuare in tutto e per tutto come prima – sia dottrinalmente sia disciplinarmente – si convincerà subito di dover restare assolutamente immobile per essere pienamente se stessa. Farà dell’immobilismo la sua ossessione. A questa tentazione Francesco ha voluto rispondere con tre anni di una parola profetica, che vuole anzitutto persuadere la Chiesa e il mondo di due cose:

  1. che la fedeltà è mediata dal movimento, dalla conversione, dall’uscire per strada, non dalla stasi, dalla paura e dal chiudersi tra le mura;
  2. che per muoversi occorre riconoscersi la autorità di stare nella storia della Chiesa e della salvezza in modo partecipe e attivo, non come spettatori muti e passivi o come semplici “notai”.

Ma questa considerazione trova più di una resistenza non soltanto nella inevitabile inerzia del modello da superare, ma anche in alcuni “luoghi comuni”, di cui vorrei considerare quello che possiamo esprimere come la riduzione della autorità alla “rinuncia alla autorità”.  Si tratta di un luogo comune molto affascinante, che assume talvolta una notevole rilevanza nella esperienza ecclesiale e che il magistero può e deve utilizzare in passaggi complessi. Si traduce, formalmente, in una dichiarazione di “non possumus”. È questo uno dei punti chiave del “magistero negativo”, che la tradizione antica, medievale e moderna ha coltivato con attenzione e con cura. Si tratta, in ultima analisi, di una “autolimitazione del magistero”. Ma tale autolimitazione, che di per sé è a garanzia di “altro”, e che dunque dovrebbe arginare e ostacolare le forme della autoreferenzialità ecclesiale, è entrata con grande forza nella esperienza ecclesiale degli ultimi decenni, in particolare a partire dalla fine degli anni 70. {Paolo VI è morto il 6 agosto 1978. ndr}

                2. Il “dispositivo di blocco”. Ora vorrei identificare con maggior chiarezza il cuore di tale argomentazione in un ragionamento artificioso – che per certi versi appare come una sorta di “sofisma” – e che non è difficile attribuire a J. Ratzinger, in una parabola temporale di almeno 35 anni, che va dal 1977 al 2012. Si tratta di un “dispositivo teorico” che realizza, mediante una indiscutibile finezza retorica, un risultato prestabilito: bloccare ogni cambiamento e far prevalere, affettivamente prima che concettualmente, un primato dell’antico sul moderno. È un “dispositivo di blocco”, che paralizza affettivamente, “per attaccamento”, identificando la tradizione con l’affetto, ogni progetto di riforma.

                Prima di analizzare le tappe principali di questo interessante fenomeno, che per brevità chiamerò “dispositivo di blocco”, vorrei chiarire meglio la peculiarità del mio approccio:

a) L’apporto di questo “modello di pensiero” è assai significativo poiché riguarda prima il Ratzinger Arcivescovo 24 marzo 1977, poi il Ratzinger Prefetto 25 novembre 1981 e infine il Ratzinger papa 19 aprile 2005: è cioè il frutto non del “primo Ratzinger”, libero da impegni pastorali, ma del “secondo e ultimo Ratzinger”, impegnato con responsabilità crescenti a livello diocesano e poi, ben presto, di Chiesa universale.

                b) Il cuore della argomentazione è il frutto non soltanto di una indiscutibile competenza teologica, ma anche della abdicazione alla ragione, in una forma piuttosto marcata, per dar spazio ad un “affetto”, o, ancora meglio, ad un “attachement”, ad una “attaccamento” irrinunciabile e assunto come auctoritas indiscutibile: la ratio cede ad una auctoritas affettivamente sovradeterminata, e per questo incontrollabile.

c) Per tale motivo oso attribuire al ragionamento la qualificazione di “dispositivo”: esso non spiega razionalmente, ma avvalora retoricamente e impone giuridicamente una soluzione che non ha solide basi se non in un affetto. Ciò determina l’effetto di far “evaporare” ogni legittima istanza di cambiamento, che trasforma immediatamente, e direi quasi violentemente, in una contraddizione con gli affetti e perciò in una negazione e in una minaccia della tradizione.

d) Funziona, infine o forse anzitutto, da supporto teorico perfetto, quasi da assioma indiscutibile, per affermare un assetto resistente e immobile della Chiesa, di fronte ad un mondo minaccioso ed infido, al quale la Chiesa non deve piegarsi. Recuperando temi e motivi dell’antimodernismo di un secolo prima, il “dispositivo” funziona perfettamente da “blocco” contro un Concilio Vaticano II percepito, sempre meno come risorsa e sempre più come “deriva”.

                In questo post vorrei mostrare questo “dispositivo di blocco” in 4 versioni, storicamente progressive, quasi come una “messa a punto” sempre più affinata e acuta di esso. La presentazione riguarderà, in ordine, 4 documenti ecclesiali del tutto caratteristici di questo approccio:

  1. la “Lettera sulla prima confessione” dell’Arcivescovo di Monaco, del 1977,
  2. la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 1994,
  3.  la Istruzione Liturgiam authenticam del 2001,
  4. il Motu Proprio Summorum Pontificum, del 2007, a cui va aggiunta la “lettera ai Vescovi tedeschi” sulla questione del “pro multis”, del 2012.

3. Quattro esempi del “dispositivo”

3.1. Nelle premesse è insinuata la conclusione: Lettera sulla prima confessione. Il primo “luogo dottrinale” in cui è messo in opera il “dispositivo di blocco” è il rapporto tra prima confessione e prima comunione, che l’allora Arcivescovo di Colonia reimposta “contro” la svolta impressa dal suo predecessore, card. J. Doepfner, il quale aveva spostato la prima confessione dopo la prima comunione. La pretesa è di contrastare un “uso pedagogico” della tradizione, ma la teologia che dovrebbe guidare il nuovo avviso si identifica, semplicemente, con la “evidenza affettiva” del principio di autorità. Nel testo della lettera pastorale “Prima confessione e prima comunione dei fanciulli” (1977) Ratzinger arriva a capovolgere il senso della tradizione, pur di garantire la sopravvivenza della prassi (per lui) più tradizionale, affermando un primato di un sacramento di guarigione rispetto ad un sacramento di iniziazione, in grave tensione addirittura con il Concilio di Trento e con la differenza “di dignità” che esso esige sia riconosciuta tra i sacramenti. Egli afferma infatti: “solo con la confessione personale diventano vere le invocazioni di perdono della liturgia eucaristica e questa liturgia eucaristica della Chiesa conserva la sua grande profondità personale che per altro è il presupposto della vera comunione” (9). Giunge così a subordinare la comunione eucaristica alla confessione personale, come regola di approccio originario al senso della comunione stessa, con una evidente e grave forzatura della tradizione. Tutto questo, oltretutto, argomentato con una motivazione davvero sorprendente: il nuovo Arcivescovo chiede agli operatori pastorali di “lasciare le proprie idee più care per il bene della comunità”, ma di fatto, con questa lettera, egli impone le proprie idee più care – quelle per lui affettivamente più urgenti – a scapito del cammino di maturazione della comunità. Usare la Didaché come testo-chiave per affermare il primato della confessione individuale sulla comunione eucaristica è una argomentazione molto arrischiata, con un uso della “auctoritas” del tutto anacronistico e privo di riscontro storico. Ma qui, per la prima volta, salvo errore, appare il “dispositivo di blocco”: argomentando senza vero rigore, e in modo puramente affettivo, egli ottiene soltanto una “conformazione autoritaria” del comportamento, senza motivazione teologica consistente.

3.2. Documenti non infallibili e prassi infallibili: la spiegazione di Ordinatio Sacerdotalis. Molti anni dopo, nel 1994, con Ordinatio sacerdotalis { riservata  esclusivamente ai Vescovi}

www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_letters/1994/documents/hf_jp-ii_apl_19940522_ordinatio-sacerdotalis.html

di cui Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede fu il grande ispiratore, sul tema della “ordinazione delle donne al sacerdozio”, Giovanni Paolo II riprende con forza questo stile, dichiarando che “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”. Con una dichiarazione di “non autorità”, e di cui lo stesso Prefetto chiarisce più tardi, la natura “non infallibile”, si vuole chiudere la questione, pur non escludendo che “altre ordinazioni” siano percorribili. La negazione della autorità determina la conferma della forma classica del potere ecclesiale e addirittura pretende di riconoscere, non infallibilmente, una tradizione infallibile. Sposta la infallibilità dal documento alla tradizione, con un salto mortale argomentativo assai azzardato. Senza assumere alcuna nuova autorità, si riconosce autorità soltanto al passato, senza tematizzazione alcuna delle novità culturali, antropologiche ed ecclesiali che l’ultimo secolo aveva recato, come se la storia non fosse. Nel cuore del documento, e della sua esplicazione successiva, appare con chiarezza, di nuovo, il “dispositivo di blocco”: affetto, attaccamento e autorità sostituiscono la ragione teologica. Sentimento e potere, al posto della ragione. Anzi, la ragione dovrebbe, a posteriori, limitarsi a giustificare il sentimento di attaccamento e il principio di autorità. Ratzinger sa bene, con Agostino (cfr. esergo iniziale di questo post), che il solo principio di autorità non basta, che occorre anche trovare una “ratio”, ma auspica un lavoro razionale solo “a valle”, non “a monte”.

3.3 Per contraddire l’esperienza: traduzione letterale, anche senza destinatario in “Liturgiam authenticam” e nella lettera sul “pro multis”. Alcuni anni dopo, nel 2001, fu Ratzinger l’ispiratore della V Istruzione sulla Riforma Liturgica Liturgiam authenticam,

www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccdds/documents/rc_con_ccdds_doc_20010507_comunicato-stampa_it.html

dalla quale scaturiva una nuova versione del “dispositivo di blocco”, con la assoluta affermazione del “primato del latino” sulle “lingue vernacole”. L’effetto di questa teoria sulla traduzione, priva di fondamento storico – nella quale si arrivava a stabilire la irrilevanza della lingua dei destinatari e la pretesa di “traslitterare le figure retoriche latine” – era duplice: la paralisi del rapporto tra periferia e centro nella gestione delle traduzioni liturgiche e la dimenticanza che la “vita ecclesiale” non pulsava più nelle vene del latino, ma in quelle delle lingue nazionali, che non erano più, ormai da 50 anni, lingue di traduzione, ma lingue di esperienza e di creazione. Una ripresa successiva, nella Pasqua del 2012, da parte di papa Benedetto, di una lettera ai Vescovi tedeschi, sulla questione del “pro multis” metteva in luce, ancora una volta, la forza del “dispositivo di blocco”: la traduzione letterale “fuer viele” (per molti) doveva imporsi “affettivamente” e “autoritativamente”, mentre sul piano concettuale doveva essere smentita da una catechesi accurata, che spiegasse come “per molti” significhi “per tutti”. Una immagine di singolare evidenza della contraddizione interna al “dispositivo di blocco”.

3.4. Parallelismo rituale, con effetto anarchico: Summorum Pontificum, monstrum romanæ curiæ. L’ultima tappa di questo percorso efficace del “dispositivo” si incontra nel 2007,con il Motu ProprioSummorum Pontificum”,

www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html

 mediante il quale, mentre si creava un parallelismo di forme rituali del medesimo “rito romano”, ci si spogliava della autorità di orientare la liturgia ecclesiale lungo le linee della Riforma Liturgica e si rimettevano in pieno vigore i riti che la Riforma stessa aveva voluto superare, denunciandone i limiti e le distorsioni. Anche in questo caso il Magistero “si autolimita”, perde potere, poiché non avrebbe la autorità di orientare la tradizione e le scelte dei singoli ministri ordinati, ma in tal modo restituisce autorità a forme di esperienza preconciliare. Il “dispositivo di blocco” qui argomenta di nuovo in modo astorico: “ciò che è stato santo una volta, deve poterlo essere sempre”. Dunque la Chiesa non si riconosce alcun potere di Riforma. Ciò che è stato di per sé si perpetua senza alcuna possibilità di orientamento o conversione. E un principio argomentativo, di per sé negativo e puramente astorico, dà causa ad effetti storici assai gravi: perdita di controllo dei Vescovi diocesani sulla prassi liturgica, accentramento del controllo in un organo “affettivamente condizionato” – la Commissione Ecclesia Dei-, il diffondersi di una rilevanza “politica” – in senso ecclesiale e in senso mondano – della “forma straordinaria” come “forma reazionaria”. Il “dispositivo di blocco” non ha fermato le cose: ha sicuramente bloccato lo sviluppo della Riforma e ha generato un vero e proprio “monstrum romanæ curiæ”, con conseguenze laceranti facilmente prevedibili e oggi finalmente superate.

4. Francesco e il superamento del “dispositivo di blocco”. Come è evidente, tutti questi impieghi del “dispositivo”, sia pure nella loro diversità di contesti e di intenti, fanno ricorso ad un “luogo comune” del magistero. Hanno tutti in comune una sottile dialettica tra “perdita di potere” e “assunzione di potere”: nel momento in cui il magistero dice di “non avere autorità”, lascia in una autorevolezza assoluta e indiscussa solo lo “status quo”. Esso tende ad identificare ciò che è con ciò che deve essere. E pertanto blocca il dibattito sulla relazione tra iniziazione e guarigione, sul ruolo ministeriale delle donne, sulle forme della inculturazione liturgica e sul cammino organico della riforma liturgica. Non è difficile notare come questo “non riconoscimento di autorità” si identifichi con una conservazione del potere acquisito, spesso diventando principio e alimento di una rischiosa inclinazione alla autoreferenzialità. E, come abbiamo visto, nel “dispositivo di blocco” questo risultato è ottenuto mediante una originale sintesi tra “attaccamento affettivo” e “ragione teologica ridotta al principio di autorità”.

                In paragone a ciò, il “ritorno al Concilio” di papa Francesco appare segnato dalla esigenza di “ridare autorità” all’azione ecclesiale. Così di fatto è avvenuto su tutti e 4 i fronti che ho tentato di presentare: a partire dal 2017, una serie di documenti, che hanno la forma di Lettere “motu proprio”, hanno modificato profondamente sia la relazione tra lingua latina e lingue parlate (Magnum principium), sia la “riserva maschile dei ministeri istituiti” (Spiritus Domini e Antiquum ministerium) sia il parallelismo rituale tra diversi “ordines” del rito romano (Traditionis custodes), Solo così si può uscire dalla “tentazione della autoreferenzialità”. Ma per farlo occorre assumere un diverso approccio verso la tradizione. La Chiesa non si riconosce come una “storia chiusa”, come un “museo di verità da custodire”, ma come un “giardino da coltivare”. Per questo sarebbe molto utile rileggere il pontificato di Francesco, a quasi 10 anni dal suo inizio, non come una forma incerta e “soft” di ministero pastorale, ma come un ripensamento della forma della tradizione con cui la Chiesa non rinuncia ad esercitare la autorità e perciò supera il “dispositivo di blocco” che J. Ratzinger aveva messo a punto con tanta finezza per 35 anni. È una visione della tradizione che crea una discontinuità tra Francesco e i suoi predecessori. Francesco assume la esigenza di esercizio della autorità che i suoi predecessori avevano come sospeso, determinando spesso degli esiti caratterizzati da “paralisi”. Non è azzardato affermare che Francesco ha iniziato a  disinserire il dispositivo di blocco, cambiando sia il ruolo dell’attaccamento affettivo, sia il ruolo della ragione teologica, sia la destinazione ecclesiale del magistero. Qui, a me pare, si colloca un elemento di profonda continuità con il Concilio Vaticano II e di inevitabile discontinuità rispetto al regime controllato dal “dispositivo di blocco”. La cui incidenza, tuttavia, non è ancora tramontata, neppure su alcuni aspetti dello stesso magistero di Francesco.

Ho svolto più ampiamente il mio ragionamento nel volumetto A. Grillo, Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il “dispositivo di blocco”, Assisi, Cittadella, 2019

                               Andrea Grillo    Come se non     10 gennaio 2023                              14  tra commenti risposte

www.cittadellaeditrice.com/munera/autorita-e-dispositivo-di-blocco-di-un-certo-uso-della-teologia-di-j-ratzinger

Benedetto XVI, papa della vecchia cristianità

Ogni volta che muore un papa, l’intera comunità ecclesiale vive una profonda commozione, vedendo in lui una conferma nella fede e un principio di unità tra le varie Chiese locali.

                È possibile interpretare in molti modi la vita e gli atti di un pontefice. Io lo farò a partire dall’America Latina, per quanto sicuramente in maniera parziale e incompleta. È importante constatare, peraltro, che in Europa vive soltanto il 23,18% dei cattolici, mentre in America Latina il 62% e il restante in Africa e in Asia. La Chiesa cattolica è dunque una Chiesa del Secondo e del Terzo mondo.

                Nel caso di Benedetto XVI, conviene distinguere tra il teologo e il papa. Il teologo Joseph Ratzinger è stato un tipico teologo dell’Europa centrale, brillante ed erudito. Non è stato un creatore, bensì un eminente espositore della teologia ufficiale. Non ha introdotto teorie nuove, ma ha rinnovato quelle tradizionali, soprattutto quelle fondate su Sant’Agostino e San Bonaventura. Ha proposto la teoria della Chiesa come un piccolo gruppo profondamente fedele e santo come “rappresentazione” della totalità, senza dare importanza al numero dei fedeli. Il fatto che all’interno di questo gruppo vi siano pedofili e persone coinvolte in scandali finanziari ha tuttavia minato la sua visione.

Un’altra sua singolare posizione, che è stata oggetto di un’interminabile polemica tra noi due, è stata l’interpretazione in base a cui «la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo». Le discussioni conciliari e lo spirito ecumenico avevano sostituito “è” con “sussiste”, in maniera da aprire la strada al fatto che anche in altre Chiese potesse “sussistere” la Chiesa di Cristo. Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricerca, Ratzinger ha sempre affermato che si trattava appena di un sinonimo del verbo essere, sostenendo che le altre Chiese non fossero tali ma possedessero soltanto elementi ecclesiali e arrivando ad affermare che la mia posizione si era diffusa a tal punto da diventare comune tra i teologi. Effettivamente Ratzinger era rimasto isolato, provocando grande delusione tra le altre Chiese cristiane, come quella luterana, quella battista e quella presbiteriana.

                Intendendo la Chiesa come una specie di castello fortificato contro gli errori della modernità, egli poneva l’ortodossia della fede come punto di riferimento principale. Nonostante il suo carattere personale fosse sobrio e delicato, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede si è rivelato estremamente duro e implacabile. Più di 100 teologi tra i più insigni hanno ricevuto un provvedimento di condanna, che si trattasse della perdita della cattedra, del divieto di insegnare e scrivere teologia o, come nel mio caso, del “silenzio ossequioso”. Pensiamo a nomi illustri dell’Europa come Hans Küng, Edward Schillebeeckx, Jacques Dupuis, Bernhard Häring, José María Castillo e altri. In America Latina è stato sottoposto a interrogatorio il fondatore della Teologia della Liberazione, il peruviano Gustavo Gutiérrez, e in molti, da me a Ivone Gebara, siamo passati per la “grande tribolazione”. Lo stesso è accaduto con vari teologi degli Stati Uniti, come Charles Curran e Roger Haight. Persino di un teologo indiano già scomparso, il gesuita Anthony de Mello, Ratzinger era arrivato a proibire i libri.

                Noi teologi dell’America Latina non abbiamo mai compreso perché abbia proibito la serie in 53 volumi di “Teologia e Liberazione”, a cui hanno contribuito tanti teologi e teologhe, che era destinata a supportare i seminari, le Comunità Ecclesiali di Base e i cristiani poveri impegnati nella difesa dei diritti umani. Era la prima volta che si produceva un’opera teologica al di fuori dell’Europa di risonanza mondiale. Ma fu subito abortita. Ratzinger si mostrò nemico degli amici dei poveri.

                Sono molti i teologi che hanno ritenuto che fosse ossessionato dal marxismo, nonostante la caduta dell’Unione Sovietica. Pubblicò un documento, Veritatis nuntius (1984),

www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19840806_theology-liberation_it.html

molto critico nei confronti della Teologia della Liberazione, per quanto questa non venisse esplicitamente condannata. Il secondo documento, Libertatis conscientia (1986), ne evidenziava almeno gli elementi positivi.

www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19860322_freedom-liberation_it.html

Ma egli non comprese mai la centralità dell’“opzione per i poveri contro la povertà e per la liberazione”: sospettava che in tale formulazione ci fosse del marxismo.

                Come papa, Ratzinger ha promosso il “Ritorno alla Grande Disciplina”: una tendenza così restauratrice da reintrodurre la messa in latino. Nel 2000 (6 agosto) è stato motivo di scandalo la Dominus Iesus, in cui riaffermava la dottrina medievale superata dal Concilio Vaticano II in base a cui “fuori dalla Chiesa cattolica non c’è salvezza”. Polemizzò con i musulmani, i protestanti, le donne e con il Concilio stesso.

www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000806_dominus-iesus_it.html

Il suo modo di condurre la Chiesa non era carismatico ed era guidato più dall’ortodossia che dall’apertura al mondo e dalla tenerezza, come invece ha fatto poi papa Francesco. È stato un autentico rappresentante della vecchia cristianità europea, con la sua pompa e il suo potere politico-religioso. Ma per le sue virtù personali e per l’umiltà di cui ha dato prova dando le dimissioni sarà accolto sicuramente tra i beati.

Leonardo Boff                  Adista Notizie n° 1          14 gennaio 2023

  Leonardo Boff, (α 1938) è eco teologo brasiliano, nipote di immigrati italiani emigrati dalla borgata di Col dei Bof in comune di Seren del Grappa (provincia di Belluno) a

Nel 1984 è stato convocato in Vaticano e sottoposto a processo dalla CDF, allora presieduta dal prefetto card. Joseph Ratzinger. L’anno seguente veniva condannato al “silentium obsequiosum”. Nel 1992 ha lasciato l’ordine francescano con una lettera, “Preferisco vivere”, nella quale riassume la sua vicenda

https://www.adista.it/articolo/69297

Leonardo Boff: «Quella porta sbattuta in faccia alla modernità»

Era il 7 settembre del 1984 e Leonardo Boff sedeva come imputato dinanzi al prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede Joseph Ratzinger, in quello che appariva a tutti gli effetti come un moderno processo per eresia. Sotto accusa c’era il suo libro “Chiesa: carisma e potere”, di cui l’ex Sant’uffizio aveva evidenziato aspetti «tali da mettere in pericolo la sana dottrina della fede». Ma nel mirino del Vaticano non c’era solo un libro: c’era piuttosto quella Teologia della Liberazione (TdL), che, nata dalla realtà dei poveri (interpretata con l’ausilio delle scienze sociali e dell’analisi marxiana della storia) e diretta alla loro liberazione, aveva subito messo in allarme i centri più sensibili del potere politico e religioso.

                Sarebbe stato, aveva garantito Ratzinger, un «colloquio tra fratelli» – con gli occhi del mondo puntati su Roma non era il caso di evocare immagini inquisitoriali -, ma l’esito era già scritto. L’anno successivo Boff sarebbe stato punito con l’obbligo del silenzio ossequioso. E nel 1992, in seguito alla minaccia di ulteriori provvedimenti disciplinari, avrebbe abbandonato l’Ordine dei Francescani e rinunciato al sacerdozio, pur continuando infaticabilmente a svolgere la sua attività di teologo della liberazione. Oggi, di fronte alla morte di Benedetto XVI, dice di non provare alcun risentimento, evidenziando solo la necessità di una «lettura oggettiva» del pensiero e dell’azione di Ratzinger.

                Per Benedetto XVI sono state spese grandi parole di elogio. Lei che, insieme a tanti altri, ha pagato di persona la persecuzione vaticana, come reagisce di fronte ai commenti di questi giorni?

È normale parlare bene dei morti, soprattutto se si tratta di un papa. Tuttavia, la teologia, non potendo sottrarsi a una lettura oggettiva e critica, deve avere il coraggio di mostrare anche le ombre di Benedetto XVI. Era un teologo progressista e stimato quando insegnava in Germania. Ma poi si era lasciato contaminare dal virus conservatore della millenaria istituzione ecclesiastica, fino ad abbracciare, in alcuni aspetti, posizioni reazionarie e fondamentaliste. Basti pensare alla dichiarazione Dominus Iesus del 2000, nella quale rilanciava la vecchia tesi medievale, superata dal Vaticano II, secondo cui “fuori dalla Chiesa non c’è salvezza”:

www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000806_dominus-iesus_it.html

«Cristo è l’unica via di salvezza e la Chiesa è il pedaggio esclusivo. Nessuno percorrerà il cammino se prima non pagherà il pedaggio. Quanto alle Chiese non cattoliche, non sarebbero «Chiese in senso proprio», ma solo «comunità separate». Una porta sbattuta in faccia all’ecumenismo. Il suo sogno era quello di una rievangelizzazione dell’Europa sotto la guida della Chiesa cattolica. Un progetto risibile e impraticabile, dovendo fare piazza pulita di tutte le conquiste della modernità. Ma Ratzinger era un rappresentante della vecchia cristianità medievale.

                C’è stata poi la condanna della Teologia della Liberazione.

Per noi teologi latinoamericani è stata una grande ferita il fatto che egli avesse proibito a decine di teologi e teologhe di tutto il continente di produrre una collana di 53 volumi, dal titolo Teologia della Liberazione, come sussidio per studenti, comunità di base e operatori di pastorale impegnati nella prospettiva dei poveri. Era chiaro che egli non volesse saperne di una teologia elaborata a partire dalle periferie. Per i poveri fu uno scandalo, per noi teologi, appoggiati da centinaia di vescovi, un’umiliazione.

                Ratzinger ha pubblicato due Istruzioni sulla TdL. La prima molto dura, nel 1984. La seconda, due anni dopo, dai toni più morbidi, scritta sotto la pressione dei cardinali brasiliani Arns e Lorscheider. Ed è proprio nel 1984 che lei ha subito il processo davanti alla Congregazione della Dottrina della fede.

Il processo si concluse con l’imposizione di un “silenzio ossequioso”, un eufemismo per indicare il divieto di parlare, di insegnare, di svolgere qualsiasi attività teologica. Ma non provo alcun risentimento ripensando a quei giorni turbolenti: il fatto di aver abbracciato la causa dei poveri, i prediletti del Gesù storico, mi faceva sentire sicuro. Inoltre quel processo, seguito dai mezzi di comunicazione di tutto il mondo, aveva offerto un’enorme opportunità per far conoscere la TdL. Tutti compresero che in gioco non c’era solo una teologia, ma la posizione della Chiesa dinanzi al dramma dei poveri e degli oppressi. Con la censura e la persecuzione di tanti teologi, da Gustavo Gutiérrez a Jon Sobrino, Ratzinger non ha offerto un buon esempio: non ha ascoltato il clamore dei poveri, ha condannato i loro amici e alleati e ha frainteso la TdL. Guai a chi non si colloca al lato dei poveri, perché saranno loro a giudicarci.

                Cosa ha comportato questo fraintendimento?

Il mancato appoggio di Ratzinger alla TdL ha fatto vacillare molti cristiani. Tanto più in quanto ai teologi nella linea della liberazione era vietato offrire consulenze pastorali ai vescovi e persino accompagnare le comunità di base. È stata negata loro la gioia di lavorare nella pastorale e di insegnare teologia. Ratzinger è stato un fattore di divisione all’interno della nostra Chiesa latinoamericana.

                Come valuta il suo pontificato?

Benedetto XI ha dato continuità all’inverno ecclesiale avviato da Giovanni Paolo II con l’abbandono delle riforme del Concilio. Con il «ritorno alla grande disciplina» da lui promosso ha persino accentuato questa tendenza. Basti pensare alla reintroduzione della messa in latino. Ha concepito la Chiesa come un castello fortificato contro gli errori della modernità, dal relativismo al marxismo fino alla perdita della memoria di Dio nella società. Ha posto al centro la Verità, con la sua difesa dell’ortodossia. Privo di capacità di governo, ha seminato nella Chiesa più paura che gioia, più controllo che libertà. Era una persona affabile e delicata, ma senza il carisma del suo predecessore. Tuttavia, per le sue virtù personali e la sofferenza che ha patito, sono certo che verrà accolto tra i beati.

Come ha interpretato la sua rinuncia?

Aveva preso coscienza degli scandali sessuali e finanziari nella Chiesa, ma sentiva di non avere le forze per modificare la situazione. Serviva un altro papa più di polso. Non si trattava di problemi di salute, ma del fatto che si sentiva psicologicamente, mentalmente e spiritualmente impotente.

intervista di Claudia Fanti           Il Manifesto                      6 gennaio 2023

https://ilmanifesto.it/boff-quella-porta-sbattuta-in-faccia-alla-modernita

www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/01/leonardo-boff-quella-porta-sbattuta-in.html

Benedetto XVI, teologo dell’anti-modernità, papa dell’anti-Concilio

In questi giorni, quando giornali e televisioni parlano di Joseph Ratzinger, il “papa emerito” morto il 31 dicembre scorso, se si è fortunati ci si imbatte in espressioni come “grande papa”, o “grande teologo”; altrimenti in affermazioni tipo “il più grande teologo del ‘900”, o “il papa conservatore che ha rivoluzionato la Chiesa”. La realtà – come spesso capita dopo aver rimosso tutta l’ideologia e la retorica che circonda, con compiacenza, le figure di eminenti uomini di Chiesa – è che Benedetto XVI non è probabilmente destinato a essere ricordato a lungo, né come papa né come teologo. Da papa non ha fatto che proseguire (in maniera assai meno originale e carismatica) l’opera di Giovanni Paolo II, di cui per oltre 20 anni è stato il martello dottrinale e teologico contro chiunque si opponesse all’azione restauratrice e di lotta senza quartiere al Concilio Vaticano II e ai suoi frutti. Come teologo, lo dice bene Gilberto Squizzato in una sua recente riflessione, «condannò ogni altro tentativo di raccontare il Vangelo con paradigmi culturali e concetti diversi da quelli della filosofia greca, imponendo come vincolanti dottrine e formule teologiche che probabilmente gli stessi Apostoli (ebrei del I Secolo) avrebbero faticato a comprendere».

                Sarà piuttosto ricordato come il primo papa a rinunciare all’ufficio petrino. Ma anche in questo c’è chi – Celestino V – lo aveva fatto prima di lui. [a altri nove, compresi i deposti]

https://it.mydailyselfmotivation.com/articles/religion-people-politics/top-10-popes-who-resigned.html#:~:text=1%20Papa%20Benedetto%20XVI%20Papa%20Benedetto%20XVI%20%C3%A8,morte%20del%20suo%20predecessore%20Papa%20Giovanni%20Paolo%20II.

E quello che per molti è un gesto coraggioso e senza precedenti è stata forse una scelta indotta dagli scandali finanziari e da quelli legati alla pedofilia tra il clero che stavano scuotendo la Chiesa, e a cui Benedetto XVI non era più in grado di contrapporre nemmeno quell’immagine vincente e rassicurante, benevola e credibile che sarebbe poi stata la carta vincente del pontificato di papa Francesco. Benedetto XVI non volle poi nemmeno uscire definitivamente di scena, come sarebbe stato logico aspettarsi, scegliendo per sé un titolo, quello di “papa emerito”, che destò imbarazzo e perplessità nella Chiesa, e che ha aperto la strada a una diarchia che solo apparentemente Ratzinger ha rifiutato, ma che in diverse occasioni ha praticato, finendo per divenire il punto di riferimento di tutta l’ala reazionaria e tradizionalista della Chiesa che vede come fumo negli occhi le caute aperture di Francesco in tema di liturgia, laici, donne, sinodalità, divorziati risposati. Divenendo, di fatto, l’unico vero riferimento di quella parte di Chiesa cattolica in rotta totale (tranne che per gli aspetti mondani, il potere, il denaro) con la modernità.

                Lo ha sottolineato lo stesso Ratzinger nel suo “testamento spirituale”, in cui – in maniera piuttosto eccentrica – ha tenuto a precisare (facendo anche i nomi!) di aver visto, nel suo impegno teologico, «crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista». E di aver capito come sia vano credere «che la scienza – le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro – siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica». Buttando così di fatto a mare oltre 70 anni di ricerca biblica e teologica.

                Una carriera nel segno dell’anticoncilio. Nato in Marktl am Inn, nel territorio della Diocesi di Passau (Germania), il 16 aprile dell’anno 1927, ordinato sacerdote nel 1951, Ratzinger nel 1953 si laurea in Teologia. Nel 1957 consegue la libera docenza con un lavoro su “La teologia della storia di san Bonaventura”. Dopo un incarico di Dogmatica e di Teologia fondamentale presso la Scuola superiore di Frisinga, continua la sua attività di insegnamento a Bonn (1959-1969), a Münster (1963- 1966) e a Tubinga (1966-1969). Dal 1969 è professore di Dogmatica e di Storia dei Dogmi presso l’Università di Ratisbona, dove ricopre anche l’incarico di vicepreside dell’Università.

                Il 25 marzo 1977 Paolo VI lo nomina arcivescovo di Monaco e Frisinga, ordinandolo vescovo il 28 maggio dello stesso anno. Sempre papa Montini lo crea cardinale nel Concistoro del 27 giugno 1977. Nel 1981 Giovanni Paolo II lo vuole in Curia per guidare, da prefetto, la Congregazione per la Dottrina della Fede (CdF). Per questo, il 15 febbraio 1982 Ratzinger rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Monaco.

                Puntello dottrinale di ogni iniziativa attuata da Giovanni Paolo II per normalizzare i fermenti conciliari in ogni parte del mondo, innumerevoli sono le “vittime” – vescovi, preti, religiosi e religiose, teologhe e teologi – cadute sotto i colpi del duo Wojtyla-Ratzinger. L’elenco è sterminato, ma alcuni nomi – che si riferiscono alle sole vittime dirette dell’azione di Ratzinger – danno forse un’idea della vastità dell’operazione condotta sotto Giovanni Paolo II: Charles Curran, p. Bernhard Häring, Roger Haight, Tissa Balasuriya, Leonardo Boff, Jacques Dupuis, Anthony de Mello, Benjamin Forcano, Ivone Gebara, Jeannine Gramick, Robert Nugent, Gustavo Gutiérrez, Mattew Fox, Marciano Vidal, Paul Collins, Teresa Berger, Edward Schillebeeckx, José Maria Castillo, André Guindon, Franco Barbero, Juan José Tamayo.              Così, per meriti sul campo, nel 2005, alla morte di Wojtyla, Ratzinger sembrò a molti il suo naturale successore. Verrà eletto papa il 19 aprile 2013.

                La restaurazione è servita. Tra scandali e gaffes. Una volta eletto papa, già a maggio 2005 costringe alle dimissioni il direttore del settimanale gesuita statunitense America Magazine, una delle più prestigiose riviste cattoliche degli States, p. Thomas Reese, da anni sotto stretta osservazione della CdF. A luglio, quando Londra è appena stata colpita da una serie di attentati che hanno provocato 52 morti, le agenzie diffondono il testo del telegramma che Benedetto XVI stava per inviare al cardinale di Londra, Murphy O’Connor, nel quale definiva gli attentati come «atti inumani e anticristiani», sottolineando l’idea di un conflitto anche religioso. Resasi conto dell’incidente che il telegramma avrebbe provocato con il mondo islamico, la Sala Stampa vaticana sostituì la frase incriminata con la più generica «atti barbarici contro l’umanità».

                Nel 2006 Ratzinger mette mano alla Curia. Ufficialmente, per riformarla. Sostanzialmente, per sostituire ecclesiastici sgraditi. Ad esempio con l’accorpamento del dicastero per il Dialogo Interreligioso, guidato da mons. Michael Fitzgerald, con quello della Cultura, allora presieduto dal card. Paul Poupard. Fitzgerald lascia. L’accorpamento è solo un pretesto: nel 2007 Benedetto XVI ripristina il dicastero per il Dialogo Interreligioso, nominandone presidente il card. Jean-Louis Tauran. Stesso discorso per l’annessione (marzo 2006) del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, retto dal card. Stephen Fumio Hamao, al Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, presieduto dal card. Renato Raffaele Martino. Hamao, che era stato l’unico cardinale ad aver sottoscritto, qualche tempo prima, un appello per l’indizione di un nuovo Concilio e ad aver più volte ribadito la necessità di un profondo aggiornamento della Chiesa, viene silurato. Poi nel 2009, i due Pontifici Consigli tornano autonomi. Il 28 maggio 2006, nel discorso pronunciato nel campo di sterminio – al termine del viaggio in Polonia iniziato il 25 – Benedetto XVI, non nominando mai Hitler, parla del nazismo come di «un gruppo criminale», che «raggiunse il potere mediante promesse bugiarde» al popolo tedesco. Niente responsabilità per la Chiesa, nessuna per i tedeschi. La colpa è tutta dei «potentati del terzo Reich», «criminali» che avevano ingannato i tedeschi in nome «di prospettive di grandezza, di recupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza». Ratzinger tenta di attenuare le polemiche seguite al suo intervento durante l’udienza generale del 31 maggio 2006, quando, ripercorrendo le tappe del viaggio in Polonia, parla di «antisemitismo» e di «odio razziale», chiamando esplicitamente in causa Hitler.

                Celeberrimo è l’episodio avvenuto il 12 settembre 2006 all’Università di Ratisbona. Nella sua lectio magistralis su “Fede, ragione e università”, tenuta di fronte ai rappresentanti del mondo della scienza riuniti nell’ateneo tedesco, il papa, facendo riferimento a un dialogo del 1391 tra l’imperatore Manuele II Paleologo e un dotto musulmano persiano su cristianesimo e islam, cita le parole usate dall’imperatore contro Maometto, il quale avrebbe sostenuto che la fede va imposta anche con la spada: in questo modo il papa avalla implicitamente la tesi secondo la quale il concetto di jihad [preghiera, sforzo sulla via di Dio]equivarrebbe a quello di “guerra santa”. Ratzinger inoltre attribuisce la stesura della Sura 2,256 del Corano – «Nessuna costrizione nelle cose di fede» – al periodo iniziale della predicazione di Maometto alla Mecca, quando il profeta «era senza potere e minacciato». Una affermazione che può sottintendere che Maometto, raggiunta una posizione più forte in seno alla sua comunità, avesse cambiato opinione e si fosse invece messo a predicare la guerra santa. A seguito delle dure reazioni del mondo islamico, il papa è costretto a fare un altro deciso dietrofront: quando il discorso viene pubblicato, il 9 ottobre 2006, è corredato da ben 13 note, in 2 delle quali il papa prende esplicitamente le distanze dalle dure affermazioni dell’imperatore Manuele II Paleologo da lui stesso utilizzate, esprimendo inoltre dubbi sulla datazione della Sura 2,256.

                Ancora un clamoroso dietrofront il 7 novembre 2006. A conclusione di una visita ad limina dell’episcopato svizzero (7-9 novembre), sul Bollettino della Sala Stampa viene pubblicato il discorso durissimo di Benedetto XVI: in Svizzera, dice il papa, «secolarizzazione e relativismo hanno provocato non solo la diminuzione della frequenza dei sacramenti, soprattutto la partecipazione alla messa domenicale, ma anche una messa in questione dei valori morali propri della Chiesa». Ci sono «dei fedeli, e purtroppo anche dei preti, che mettono in questione punti della dottrina e della disciplina della Chiesa». Tali sono le reazioni suscitate dal discorso presso l’opinione pubblica elvetica che la Sala Stampa vaticana afferma che il discorso «non è stato pronunciato. Esso rifletteva il contenuto di una bozza preparata precedentemente».

www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2006/november/documents/hf_ben-xvi_spe_20061109_concl-swiss-bishops.html

A dicembre 2006, mons. Stanislaw Wielgus, vescovo di Plock, fervente sostenitore di Radio Maryja, emittente polacca ultraconservatrice, populista e antisemita, viene nominato da Benedetto XVI per guidare la diocesi della capitale Varsavia. La nomina susciterà una tale ondata di reazioni negative che il 7 gennaio 2007, Wielgus leggerà in cattedrale una breve nota in cui annuncia che il Vaticano ha accettato le sue dimissioni.

                Il 2007 è l’anno del Summorum pontificum, il documento che salda i rapporti con i gruppi più reazionari e tradizionalisti della destra cattolica, sdoganando la messa in latino secondo il rito il vecchio messale tridentino, con il prete che volge le spalle ai fedeli.

www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html

Nel 2009 arriva anche il “perdono” concesso ai vescovi ordinati nel 1988 da Marcel Lefebvre, nonostante il divieto imposto dal Vaticano. Ma uno dei quattro, il vescovo Richard Williamson, in un’intervista, afferma che nei campi di concentramento nazisti erano morti solo 2-300mila ebrei, nessuno dei quali nelle camere a gas. Segue una crisi diplomatica con Israele e il precipitare dei rapporti con i media di tutto il mondo, una mozione di censura al papa del Parlamento belga, la richiesta di ulteriori chiarimenti da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel. Il papa, viene di nuovo costretto alla retromarcia, seppure parziale: tramite la Segreteria di Stato vaticana fece sapere che Williamson avrebbe dovuto ritrattare le sue dichiarazioni negazioniste sulla Shoah «per essere ammesso a funzioni episcopali nella Chiesa». Williamson non ritratterà nulla; ma saranno i lefebrvriani stessi a sbarazzarsi di lui, desiderosi di non compromettere la riappacificazione con Roma.

                Nel 2007, durante l’incontro inaugurale della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi svoltasi ad Aparecida, in Brasile, dal 13 al 31 maggio 2007, Benedetto XVI nega l’imposizione violenta del cristianesimo in epoca coloniale, definendo per di più «un’involuzione» il processo di recupero delle religioni precolombiane in atto nel Continente. Nuove polemiche e nuova retromarcia: durante l’udienza generale del 23 maggio, in Vaticano, il papa ammette le «sofferenze e ingiustizie inflitte dai colonizzatori alle popolazioni indigene». Ma non parla, come nel caso del discorso di Auschwitz, delle responsabilità della Chiesa.

                Nel marzo 2009, Benedetto XVI dispone una visita apostolica alle congregazioni apostoliche femminili statunitensi, sospettate di una eccessiva “mondanizzazione”; un’altra nei confronti dell’organismo che rappresenta l’80% di esse, la Leadership Conference of Women Religious (Lcwr). La prima si concluderà all’inizio del 2012, la seconda pochi mesi più tardi con una “valutazione dottrinale” molto severa e l’ordine di una riforma degli statuti della Lcwr.

Nel marzo 2009 scoppia – sotto la spinta dei media internazionali – il caso dei Legionari di Cristo, sottoposti a una visita apostolica da parte del Vaticano. Il fondatore, p. Marcial Maciel Degollado, morto nel 2008, era sfuggito a un processo canonico per i numerosi abusi sessuali commessi in vita solo perché Ratzinger, nel 2006, aveva archiviato il procedimento a suo carico, ingiungendogli solo di ritirarsi a vita privata.

                Nel 2020 papa Ratzinger viene lambito dagli scandali pedofilia in Irlanda, Germania, Usa, Austria e Italia e in altri Paesi del mondo per la vicenda di un prete tedesco trasferito nel 1980, dopo essere stato accusato di abusi sessuali, dalla diocesi di Essen a quella di Monaco di Baviera, dove Ratzinger era arcivescovo. Qui, il prete pedofilo era stato di nuovo assegnato al servizio in parrocchia e anche nel capoluogo bavarese aveva commesso abusi su ragazzi.

Nel giugno 2011 Ratzinger nomina il suo “pupillo”, il card. Angelo Scola, come arcivescovo di Milano, operando un inedito e incredibile trasferimento di un prelato da una prestigiosa sede, Venezia, a un’altra, Milano, con il solo scopo di collocare Scola in pole position per un Conclave a venire.

Emerito pasticcio. L’11 febbraio 2013, logorato dalle lotte interne alla Chiesa, dagli scandali, dalla ormai palese incapacità di essere autorevole e credibile di fronte all’opinione pubblica laica e cattolica, davanti ai cardinali riuniti nella Sala del Concistoro Benedetto XVI annuncia a sorpresa: «Declaro me ministerio renuntiare». Ratzinger rinunciava al ministero petrino, a partire dalle ore 20 del 28 febbraio. Da allora ha vissuto nel monastero Mater Ecclesiæ, non uscendo mai dal territorio vaticano se non in due occasioni, una visita a Castel Gandolfo al suo successore, papa Francesco, e il viaggio in Germania nel 2021, in occasione della morte del fratello Georg; ma esercitando comunque una leadership che ha creato non poche tensioni con il papa regnante.

Due episodi su tutti: il segretario particolare di Benedetto XVI, mons. Georg Gänswein, dichiarò (2016) «Non ci sono dunque due Papi, ma di fatto un ministero allargato con un membro attivo e uno contemplativo». «Per questo, Benedetto non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca. Per questo, l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora Santità. Inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano, come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo Successore e a una nuova tappa della storia del papato».

                La bontà di questa tesi emerge nel 2020, a poche settimane dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Querida Amazonia di Francesco, quando ancora si paventava l’ipotesi che il papa potesse aprire all’ordinazione delle donne o a quella dei “viri probati”, venne pubblicato un libro a quattro mani scritto da Benedetto XVI con il card. Robert Sarah, che sbarrava a suon di ragioni dottrinarie la strada a ciascuna di queste ipotesi. Anche qui il solito teatrino: Ratzinger si dichiara estraneo a tutta l’operazione editoriale. Gänswein fa sapere all’Ansa di aver chiesto al card. Sarah «di contattare gli editori del libro pregandoli di togliere il nome di Benedetto XVI come coautore del libro stesso e di togliere anche la sua firma dall’introduzione e dalle conclusioni». Poi però la casa editrice ribadisce che il libro è frutto di un lavoro condiviso – durato mesi – tra i due ecclesiastici. E il nome di Benedetto XVI rimane.

                Al 2018 risale invece il cosiddetto “Lettergate”. Il 12 marzo, in occasione della presentazione di un’opera in 11 volumi curata da diversi autori sul magistero di papa Francesco (La teologia di papa Francesco), mons. Dario Viganò, allora prefetto della Segreteria per le Comunicazioni, legge una lettera di Ratzinger, al quale era stato chiesto, un mese prima, di scrivere una recensione dell’opera. Viene però letta solo una parte della lettera (datata 7 febbraio): quella in cui il papa emerito si oppone «allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica». Ma Viganò omette – con successivo evidente imbarazzo vaticano quando la “censura” venne scoperta – la parte in cui Ratzinger criticava la scelta di includere, nell’opera, anche un contributo del teologo Peter Hünermann il quale, fortemente critico verso il pontificato wojtyliano, era stato tra i firmatari della dichiarazione di Colonia

sacerdotisposati.altervista.org/a-dichiarazione-di-colonia-sottoscritta-da-163-professori-di-teologia

e aveva osteggiato l’enciclica di Giovanni Paolo IIVeritatis splendor” sull’infallibilità papale riguardo a temi etici.                          www.vatican.va/content/john-paul-ii/en/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_06081993_veritatis-splendor.html

L’ultima – e drammatica – vicenda è datata 2021. In gennaio, un rapporto commissionato dalla diocesi di Monaco allo studio legale Westpfahl-Spilker-Wastl afferma che Benedetto XVI, quando era arcivescovo di Monaco, tra il 1977 e 1982 avrebbe coperto quattro casi di pedofilia. Pochi mesi dopo, a giugno un 38enne della Baviera denuncia al tribunale civile di Traunstein di essere stato vittima di abusi sessuali da parte di un prete pedofilo e accusa Ratzinger di essere «a conoscenza della situazione», ma «di non aver fatto abbastanza». Il processo prosegue [anche se è defunto. Ndr].

Valerio Gigante, insegnante nei licei      Adista Notizie n° 1          14 gennaio 2023

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Ratzinger e la crisi del cattolicesimo. Intervista a Daniele Menozzi, storico delle religioni

Per approfondire i momenti fondamentali dell’azione del card. Ratzinger alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede (Cdf) e poi del pontificato di papa Benedetto XVI, Adista ha intervistato Daniele Menozzi, professore emerito di Storia contemporanea alla Normale di Pisa e studioso del papato in età moderna e contemporanea.

Professor Menozzi, tra i tanti, quale è stato l’aspetto assolutamente centrale del pontificato di Benedetto XVI, la “stella polare” che lo ha sempre orientato?

                Sulla base dei suoi interventi pubblici direi la convinzione, ereditata dalla cultura intransigente ottocentesca, che la fede cristiana, così come si è strutturata in seguito all’incontro con la cultura greco-romana, ha prodotto la civiltà e ne fornisce l’insostituibile fondamento. Di qui la linea di tutto il pontificato: la tesi che il mondo moderno, se vuole mantenere i valori civili che lo costituiscono, non può che ricorrere al sostegno della Chiesa, unica autentica depositaria e interprete della legge naturale, valida per tutti, sempre e in ogni luogo.

L’atto che più di tutti ha caratterizzato il pontificato Ratzinger è stato quello delle sue dimissioni. Oggi, a dieci anni di distanza, quale significato possiamo attribuirgli?

È stato un atto di grande lucidità e responsabilità. Il papa si è reso conto che la sua linea di governo non reggeva alla prova dei fatti. All’epoca della post-modernità la riproposizione del progetto di una Chiesa che interviene nella società per fissare le norme, universalmente valide, della convivenza civile, finiva solo per allontanare ulteriormente gli uomini dal cattolicesimo. Benedetto XVI ha capito che, per assicurare il futuro della Chiesa nel mondo moderno, occorreva un radicale mutamento. Il trauma della sua rinuncia al pontificato lo ha reso possibile.

Resterà un atto straordinario, oppure potrà diventare una scelta ricorrente? Le recenti dichiarazioni di papa Francesco sulla lettera, già scritta, di rinuncia al pontificato in caso di grave impedimento medico sembrerebbero andare in questa direzione…

                Se letto sul breve periodo, l’atto delle dimissioni è legato alle straordinarietà della crisi del cattolicesimo nel tempo presente. Ma ha una valenza di lungo periodo: dopo gli sforzi di sacralizzazione del papato che percorrono i secoli dell’età moderna e contemporanea, la rinuncia di Benedetto XVI interrompe questo processo e avvia un percorso di desacralizzazione del ministero papale. Diversi atti di Francesco lo hanno ulteriormente sviluppato. È perciò ragionevole ipotizzare che la rinuncia al ministero esercitato diventerà una prassi abituale: vale per tutti i vescovi in comunione con il vescovo di Roma: perché non dovrebbe valere anche per il vescovo di Roma?

Nelle ricostruzioni e analisi di questi giorni, quasi tutte contrassegnate da una esaltazione acritica di Benedetto XVI, si tende a rimuovere i venticinque anni di Ratzinger alla guida della Cdf. Ma fra queste “due vite” – prima “guardiano” dell’ortodossia e poi papa – c’è una frattura oppure vanno lette in continuità?

                Difficile sottrarsi all’impressione che nell’informazione sulla scomparsa del papa emerito non si sia solo dato il giusto spazio al cordoglio per una personalità di rilievo del nostro tempo, ma si sia voluto produrre una lettura celebrativa della sua figura. Si sono infatti accuratamente accantonati tutti gli aspetti che pure avevano suscitato perplessità e discussioni non solo quando Ratzinger ha guidato la Cdf, ma anche nella sua gestione della funzione papale. Comunque nel suo percorso biografico e culturale non si registra una frattura, anche se la diversa responsabilità dei ruoli svolti ha comportato diverse modulazioni nella sua azione di governo.

                In quel quarto di secolo la libera ricerca scientifica, soprattutto quella teologica, è stata imbrigliata e imbavagliata, con una serie di severi provvedimenti disciplinari che hanno colpito teologi e anche vescovi ai quattro angoli del mondo. Perché?

                La risposta è complessa. Vi è naturalmente un dato immediato: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ritenuto che la presenza di una linea alternativa a quella che avevano scelto minasse la compattezza della Chiesa e ne indebolisse il ruolo. Dunque la condanna è stata la via giudicata necessaria per garantire efficacia alla loro azione di governo. Ma vi è anche un più profondo dato culturale. La maturazione teologica di Ratzinger è avvenuta negli anni Cinquanta del Novecento, quando la Chiesa si riteneva pensabile solo come un monolite di cui è garante l’autorità del papa. Per quanto fosse profonda e raffinata, questa teologia non poteva che ritenere una minaccia inaccettabile alla verità stessa della fede quella libertà e quel pluralismo che si sono profilate dopo il Vaticano II come componente ineliminabile della ricerca di una verità che ha nelle Scritture e non nella monolitica autorità ecclesiastica il suo punto di riferimento centrale. Se Francesco insiste sulla figura della Chiesa come poliedro è perché la sua cultura teologica è maturata dopo il Concilio.

A questo proposito mi colpisce molto quello che Benedetto XVI ha scritto nel suo “testamento spirituale”, quando sostiene che i risultati apparentemente «inconfutabili» della scienza – in particolare scienze naturali, ricerca storica e teologia – sono tutti crollati al cospetto della verità della fede. Sembra quasi l’affermazione di un rifiuto di ogni ricerca che non sia guidata e diretta dalla Chiesa…

                Resta, in ordine al rapporto tra scienza e fede, un nodo che la cultura teologica della prima metà del Novecento, in cui Ratzinger è totalmente immerso, ha risolto sulla base della semplicistica condanna del modernismo. Allora la Chiesa reagì con le censure alla concezione che le conquiste delle scienze naturali e umane non potevano mai toccare la fede cristiana, perché questa si poneva su un piano del tutto diverso. Ne era ragione il timore che la perdita dei sussidi che il cristianesimo aveva per secoli tratto dalla cultura portasse alla sua rovina. La Chiesa affermò così la superiorità ontologica della fede rispetto alle scienze. I risultati della ricerca scientifica, necessariamente relativi a approssimativi, non potevano che portare conferma a una verità che sola era assoluta. Il prezzo pagato per questa impostazione è stato altissimo: la crisi del cattolicesimo ha qui una delle sue ragioni. Continuare a riproporla è la testimonianza della coerenza rispetto alla propria formazione, ma prescinde da un reale ripensamento delle possibilità della trasmissione del Vangelo nel mondo d’oggi.

                Veniamo a quello che mi sembra uno dei nodi centrali del pontificato di Benedetto XVI: l’ermeneutica della continuità applicata in particolar modo all’interpretazione del Concilio Vaticano II. Non è forse un modo “sofisticato” per anestetizzare il Concilio incanalandolo sui binari della tradizione e quindi soffocando ogni istanza di reale aggiornamento presente in esso?

                Benedetto XVI ha continuamente fatto riferimento nel corso del suo magistero al Vaticano II, al cui obiettivo di fondo – aggiornare la Chiesa per renderla accettabile all’uomo d’oggi – ha proclamato di aderire. Ma, a causa della sua cultura teologica aliena dalla considerazione della storia, non presta alcuna attenzione all’effettivo svolgimento di quell’evento: basta pensare alla singolare affermazione secondo cui i conflitti che hanno attraversato l’assemblea conciliare erano soltanto una fittizia costruzione dei media. La sua lettura dell’aggiornamento ecclesiale promosso dal Vaticano II fa così una scelta precisa tra le linee di rinnovamento presenti nei documenti conciliari: si tratta semplicemente di ammodernare una dottrina otto-novecentesca che ritiene ricapitoli l’intera tradizione.

                Si è molto parlato degli “incidenti di percorso” di Benedetto XVI durante il suo pontificato, dal discorso di Ratisbona alla liberalizzazione del rito tridentino, compreso il ripristino della preghiera del Venerdì santo per la conversione degli ebrei. Si è trattato realmente di scivoloni, poi prontamente corretti, oppure delle spie di un modo di concepire la Chiesa e il mondo?

                Mi limito alla reintroduzione del rito latino, perché qui le informazioni accumulate dagli studi sono precise e incontestabili. Da prefetto della Cdf Ratzinger ha ripetutamente incoraggiato quella “riforma della riforma liturgica” che gli ambienti tradizionalisti auspicavano. Diventato papa si è mosso in piena continuità con questa impostazione. Ha infatti assunto la singolare decisione di proclamare l’esistenza nella pubblica preghiera della Chiesa latina di un rito ordinario (quello basato sulla riforma di Paolo VI) e di un rito straordinario (quello basato sul cosiddetto messale di san Pio V). Di quest’ultimo – dove non solo la preghiera per gli ebrei del Venerdì santo, ma numerosi passi di altre preghiere non sono perfettamente coerenti con i documenti del Vaticano II – il papa auspicava la diffusione. Gli interventi di Francesco non hanno cancellato la misura, ma ne hanno eliminato la portata politica: i vescovi possono concedere il rito straordinario solo dopo essersi accertati che non è un pretesto per contestare i risultati del Concilio Vaticano II.

                Assisteremo presto alla canonizzazione di Benedetto XVI come è stato per quasi tutti i papi del Novecento?

                Sembra che negli ultimi decenni il papato abbia deciso di autocelebrarsi portando sugli altari la maggior parte dei papi novecenteschi. Alla base di questa impostazione c’è un’ambiguità che risale alla canonizzazione di Pio X ad opera di Pio XII: si santificano le virtù del semplice credente, ma con l’inevitabile sottinteso che il riconoscimento canonico ricade poi anche sull’esercizio della funzione papale del nuovo santo. Ad esempio, celebrare san Pio X significa anche esaltare le modalità di una repressione antimodernista che non è propriamente un esempio di virtù cristiane, di cui quel pontefice, sul piano personale, ha pure dato prova. Si può allora auspicare che la controversa gestione del ministero petrino da parte di Benedetto XVI aiuti a scogliere l’ambiguità di questo nodo lasciato in eredità da un pesante passato. Ma appare già evidente che le correnti che si riconoscono nelle obsolete posizioni teologiche di Ratzinger giocheranno sulla persistenza dell’equivoco per rafforzare la loro incidenza nel futuro della Chiesa. Luca Kocci            Adista Notizie n° 1        14 gennaio 2023

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il falso dualismo dei due papi. Resta l’eredità incerta di Ratzinger

Con la morte di Joseph Ratzinger si apre una fase nuova anche nel pontificato di papa Francesco: finisce in Vaticano la stagione del dualismo, della presenza di “due papi” (per quanto inesatta e scorretta fosse questa definizione). Va detto che il pontificato di Francesco ha risentito solo marginalmente della presenza del suo predecessore, nel senso che Bergoglio si è mosso comunque abbastanza liberamente lungo il cammino che si era prefisso, fra passi in avanti, aperture, frenate e incertezze. Tuttavia Ratzinger è stato a lungo una presenza ingombrante fra le mura vaticane, soprattutto per essere diventato – forse inevitabilmente, considerato il suo percorso ai vertici della Chiesa universale – punto di riferimento per un’ampia e disordinata frangia anti bergogliana che ha visto nel pontefice argentino un nemico della “vera fede”, cioè di un’ortodossia preconciliare vista come una mitica età dell’oro capace di arrestare il declino del cristianesimo in Occidente.

Difficile dire in che misura Ratzinger abbia accettato o subìto questo ruolo; di certo almeno in un’occasione, quando il Sinodo sull’Amazzonia indetto da Francesco nel 2019 si concluse con la richiesta di aprire ai viri probati (laici, anche sposati, di provata fede che possono essere ordinati e celebrare messa nelle loro comunità), Ratzinger offrì una sponda all’ondata conservatrice che intendeva bloccare ogni mutamento nell’ordine gerarchico della Chiesa. Tuttavia, è anche vero che, col passare degli anni e l’incedere della vecchiaia, il peso del papa emerito si è progressivamente ridotto fino a trasformarsi nel simulacro umano e fragile di un simbolo, un richiamo sempre più fragile a un mondo perduto.

Trent’anni al vertice della Chiesa. D’altro canto, se l’impronta tradizionalista, il disegno neoconservatore del Ratzinger cardinale e poi di Benedetto XVI sono note, una personalità come la sua rimasta al vertice della Chiesa di Roma giocando un ruolo tanto decisivo dal 1981, anno in cui Giovanni Paolo II lo chiamò alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede (CdF), al 2013, quando rinunciò al papato, non può essere liquidata troppo sbrigativamente. In merito all’attività repressiva svolta da Ratzinger nei lunghi anni in cui fu prefetto della CdF, Daniele Menozzi, storico, studioso della Chiesa e del cristianesimo, in un’intervista ad Adista osserva: «La risposta è complessa. Vi è un dato immediato: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ritenuto che la presenza di una linea alternativa a quella che avevano scelto minasse la compattezza della Chiesa e ne indebolisse il ruolo. Dunque la condanna è stata la via giudicata necessaria per garantire efficacia alla loro azione di governo».

 (α1945)

Un teologo contro tutti. Thomas Reese, gesuita, direttore per diversi anni della rivista America, incarico dal quale fu escluso quando Ratzinger divenne papa, ha scritto sulla rivista cattolica progressista National Catholic Reporter: «Era particolarmente critico nei confronti dei teologi morali negli Stati Uniti, dei teologi della liberazione in America Latina e dei teologi interreligiosi in Asia. Sono stati attentamente osservati anche gli scritti sul ministero sacerdotale, in particolare le eventuali riflessioni sull’ordinazione femminile o sul celibato facoltativo. Ogni critica all’autorità della Chiesa è stata soppressa». In generale «la soppressione del dibattito teologico sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI fu disastrosa per la Chiesa. Il ripensamento creativo dell’insegnamento della Chiesa iniziato con il Vaticano II è stato schiacciato. Piuttosto che trovare nuovi modi per spiegare la fede alle persone nel XXI Secolo, la Chiesa ha ripetuto formule che molti trovavano prive di significato».

«L’insegnamento papale sulle donne – aggiungeva il gesuita – era particolarmente ripugnante per le donne istruite, che vedevano la Chiesa come protettrice dei valori patriarcali. Descrivere l’omosessualità come “intrinsecamente disordinata” era irritante, soprattutto per i giovani».

Desacralizzare il papato. In quanto agli effetti delle dimissioni di Benedetto XVI sulla vita della Chiesa, come ha più volte ripetuto p. Federico Lombardi (già direttore della Sala Stampa della Santa Sede), la rinuncia fu un atto di governo. Un gesto indubbiamente eclatante di cui l’impatto non poteva essere sottovalutato da un teologo esperto come Ratzinger, non solo per il depotenziamento della figura del sovrano assoluto con caratteristiche divine che rischiava di accompagnare la figura de pontefice, ma anche per la quasi naturale valenza ecumenica che trascinavano con sé. Il vescovo di Roma, infatti, si poneva alla stessa altezza dei capi di altre confessioni cristiane nel momento in cui lasciva l’incarico ammettendo i propri limiti. Troppo poco, d’altro canto, si è indagato ancora sulle conseguenze che le dimissioni di Benedetto XVI hanno avuto nello schieramento tradizionalista, cioè fra quei conservatori, usciti obiettivamente in frantumi dal pontificato ratzingeriano conclusosi con un evento che ha finito col rovesciare secoli di edificazione del papa-monarca assoluto, per quanto in una riedizione modernamente mediatica di quella impostazione.

D’altro canto l’analisi sulla fine del cristianesimo come cultura egemone in Occidente era in buona parte corretta, certo la risposta ideologica e conservatrice che ha provato a mettere in scena Ratzinger non poteva funzionare.

Un prefetto di ferro, un papa incerto. Resta da dire della personalità e del carattere di Ratzinger. Chi scrive ha il ricordo di un Ratzinger-prefetto estremamente sicuro di sé, non di rado sarcastico negli incontri con la stampa, ironico e dalla battuta pronta; un uomo temuto. Le cose cambiarono quasi subito quando fu eletto papa. L’esposizione mediatica pressoché quotidiana alla quale era sottoposto entrava in conflitto con lo studioso puntiglioso abituato a elaborare le proprie “istruzioni” dietro le quinte, poi coperto dall’ampio mantello di Giovanni Paolo II. È stato detto, e corrisponde al vero, che non seppe scegliersi dei collaboratori all’altezza del governo della Chiesa. E appunto questa scarsa attitudine e dimestichezza col governo, con le necessarie mediazioni, astuzie, pazienze che il nuovo incarico comportava misero in mostra un Ratzinger inedito, mettendo in luce i limiti, le incertezze e le debolezze di un “grande inquisitore” divenuto papa. Infine, se è vero che questa debole capacità di governo fu amplificata ancor di più dal succedersi di scandali finanziari in cui era coinvolta la Curia alla fine del 2012, al contempo è un dato di fatto che il clamore della rinuncia ha portato con sé l’urgenza di porre mano alla riforma dell’indocile Curia romana convincendo i cardinali riuniti in conclave che il papato andava trascinato fuori dall’Europa.

                Francesco Peloso, vaticanista    Adista Notizie n° 1          14 gennaio 2023

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CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n. 01, 11 gennaio 2023

§ Five minutes to sea. Il senso dello scorrere del tempo e la differente percezione che se ne ha in relazione alle varie fasi della vita. È questo il tema di “Five minutes to sea”, gioiellino di animazione della regista armena Natalia Mirzoyan. Presentato in oltre cento festival e vincitore di svariati riconoscimenti, il cortometraggio si sofferma in particolare su una piccola e buffa ragazzina smaniosa di tuffarsi in acqua, costretta dalla mamma ad aspettare altri cinque minuti. Mentre seguiamo la sua spasmodica attesa, due anziani si avviano sul bagnasciuga per nuotare [VIMEO – 6 min 40 sec]                                                                                          https://vimeo.com/468976307

§ Famiglia e legge di bilancio 2023. Qual è il posto della famiglia nella Finanziaria appena approvata? Ci sono “piccoli segnali di attenzione e sostegno diretto alle famiglie, che vanno nella giusta direzione, ma ancora deboli”, commenta Francesco Belletti, direttore Cisf, sulle pagine di Famiglia Cristiana

www.famigliacristiana.it/articolo/aumentati-assegno-unico-e-congedo-parentale-bene-.aspx

 che segnala come certamente positivi il rafforzamento dell’assegno unico (aggiungendo un 50% in più per il primo anno di vita del bambino, e un ulteriore 50% in più se ci sono tre o più figli, oltre ad aver reso definitiva la maggiorazione in caso di disabilità), e l’aumento della retribuzione di un mese di congedo parentale all’80% dello stipendio (prima solo al 30%), fruibile o dalla madre o dal padre. “Ma per parlare di “priorità famiglia” la strada è ancora lunga”, scrive Belletti. “E invece il tempo si fa breve, di fronte alla crisi della natalità e al deficit di futuro per i nostri giovani”.

§  USA/Ricerca sul tema transgender: 5 cose che ogni genitore e decisore politico dovrebbe sapere. Cosa mostra la ricerca riguardo a benefici e danni dei trattamenti medici cross sex per i minori? La disforia di genere nei bambini è una condizione permanente che richiede un trattamento medico? I giovani possono essere influenzati nella loro identificazione transgender, o tutto è determinato biologicamente? Sono alcune delle domande a cui una ricerca americana condotta dall’Institute for Research&Evaluation

 – operativo nella valutazione dei programmi scolastici di educazione sessuale rivolti agli adolescenti – cerca di rispondere, evidenziando che la politica federale statunitense, che sostiene la “presa in carico affermativa precoce”, viene considerata da molti controversa. Il report attinge dati e contributi da una vasta bibliografia

 inglese –      https://institute-research.com/pdf/Transgender_Research–5_Questions_for_Parents_%26_Policymakers_(IRE%209-26-22).pdf

traduzione italiana                         Ricerca-sul-tema-transgender-5-domande.pdf

§  L’evoluzione della famiglia in Italia. È il tema della ricerca di Eumetra per Henkel Italia,Diverse&Inclusive Family – L’evoluzione della famiglia in Italia” presentata nel mese di dicembre durante l’evento “Family Gap: questioni domestiche, questioni di genere?”. All’interno del campione, rappresentativo della popolazione italiana e composto da 2.000 individui tra i 18 e i 55 anni, emerge una fotografia di stabilità della famiglia tradizionale, che non sembra destinata a mutare significativamente, almeno stando alle parole dei millennial (1985 – 1994) che, come la generazione precedente, si vede tra dieci anni sposata (76%) e con figli ancora in casa (78%)

[l’approfondimento]      www.eumetra.com/communication/diverseinclusive-family-levoluzione-della-famiglia-in-italia

§  Assegno unico universale, le nuove modalità di erogazione. Il Dipartimento per le Politiche della Famiglia ha pubblicato la Circolare Inps del 15 dicembre 2022 rendendo note le nuove modalità di erogazione per l’Assegno  Universale: a partire dal 2023, per continuare a ricevere l’assegno, le famiglie non dovranno più inviare una nuova domanda all’Inps, infatti la prestazione verrà rinnovata automaticamente a chi beneficia già dell’assegno (affinché il rinnovo sia automatico la domanda presentata in precedenza non deve essere stata respinta, revocata o non deve essere decaduta). 

https://servizi2.inps.it/servizi/CircMessStd/VisualizzaDoc.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_11_01_2023&tipologia=circmess&idunivoco=14020

§  Festival della vita 2023. “Vivere è… Ritrovarsi“. È il titolo della XIII Edizione del Festival della Vita, che si terrà dal 22 gennaio al 5 febbraio 2023 a Caserta, Castel di Sangro, Roccaraso e in altre città italiane. Il progetto, promosso dal Centro Culturale San Paolo, costituisce un’occasione d’incontro per migliaia di persone. Tra le tante iniziative in programma si ricorda l’incontro con gli studenti del territorio, presso il Real Sito di Carditello (venerdì 3 febbraio ore 11:00) e la serata di gala (sabato 4 febbraio ore 20:00) a Caserta, ospiti il cardinale Mons. Crescenzo Sepe, Antonia Salzano, madre del Beato Carlo Acutis, Antonio Parlati, direttore Centro di produzione RAI di Napoli e altri importanti testimoni del panorama culturale ed artistico nazionale.   www.festivaldellavita.it

§  Corso di perfezionamento in “sessualità, fertilità, ambiente e stili di vita“. Promosso dal Centro di Ricerca e Studi sulla Salute Procreativa dell’Università̀ Cattolica del Sacro Cuore, diretto dalla prof. Maria Luisa Di Pietro. Il Corso di Perfezionamento risponde alle crescenti richieste di approfondimento su due importanti sfide del nostro tempo: la scarsa attenzione nei confronti della salute preconcezionale della donna e dell’uomo e le sempre più frequenti difficoltà di procreare associate a problemi di infertilità. Lezioni in presenza presso l’Università Cattolica di Roma. Il Corso si articola in quattro moduli di 15 ore ciascuno, per una durata complessiva di 60 ore, e si svolgerà̀ nelle seguenti date: 10-11 marzo 2023; 14-15 aprile 2023; 12-13 maggio 2023; 14-15 luglio 2023. Le iscrizioni scadono il 18 febbraio 2023. Corso-Perfezionamento-Ses-Fertilita-Amb-Unicatt.pdf

§   Dalle case editrici

  • Mazurkiewicz L’identità dell’Europa nel contesto della migrazione, Cantagalli, Siena 2021, pp. 384
  • Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG), Unione dei Superiori Generali (USG), Pontificia Commissione per la Protezione dei Minori (PCPM)(a cura di), Per una cultura della cura e della protezione, Paoline, Milano 2022..
  • Ciliberto J., Piccinin M. (a cura di), Le pratiche collaborative nei servizi di cura e di tutela, Carocci, Roma, 2022, pp. 175.

(…) Ampia è ormai la letteratura scientifica e metodologica su questa frontiera innovativa del welfare, non più assistenziale, ma promozionale o addirittura generativo, e in questa ricca pubblicistica si colloca a pieno titolo questo interessante ed agile volume, che definisce questa rinnovata centralità delle persone che chiedono aiuto (clienti? utenti?) con l’espressione “pratiche collaborative”, e ne descrive alcune caratteristiche sia con contributi di ordine metodologico, sia a partire da alcune pratiche innovative (…) (F. Belletti)

https:/unicalmondo.musvc2.net/e/t?q=4%3d3ZOZ7Z%266%3dT%26p%3dXLa%26q%3dXLTBZ%26E%3d9vP0J_twmq_57_BrUv_L7_twmq_4BGNy.BuDkC60c9B0uP32p7.3K_twmq_4B76fEu_ISyj_ShE78_twmq_4Bw0u2c7uB_BrUv_L74Yw0uB86yOK2nHy8cP9Ck8B0.r0z%265%3doQCMeX.86v%26EC%3dW4fO

23cisfnews1allegatolibri.pdf

§  Save the date

  • ciclo di incontri (Trento) – 17 gennaio 2023 (inizio ore 20.30). “Leggere la crisi per costruire strategie a sostegno di persone e famiglie in difficoltà economiche“, nell’ambito di un ciclo organizzato da coop Progetto92 e dedicato all’educazione finanziaria [tutte le info e le date sulla brochure]

www.famigliacristiana.it/media/img/cisf/incontritrento_16gennaio.jpg

  • webinar) – 17 gennaio 2023 (11-12 CT). “Forming and Implementing a Needs Assessment“, a cura del National Council on Family Relations  www.ncfr.org/events/ncfr-webinars/forming-and-implementing-needs-assessment
  • webinar (IT) 26 gennaio 2023 (17-18.30). “Il PNRR: stato di avanzamento dei progetti d’impatto per le donne”, nell’ambito del ciclo Value@WorkOpen Talks, organizzato dall’Istituto Studi Superiori sulla Donna [qui per info]

www.upra.org/evento/valuework-open-talks-il-pnrr-stato-di-avanzamento-dei-progetti-dimpatto-per-le-donne/?fbclid=IwAR2ncJP_uFNnNGzKTdjaQzIAbJk5WosfxINNV2uxdk7rvPKuG_z3S4-1enM

  • ciclo di incontri (Milano) – 27 gennaio 2023 (17-19). “Gruppo di parola per figli di genitori separati“, ciclo di 4 incontri per bambini e ragazzi (6/12 anni e 11/15 anni) presso il Servizio di Psicologia Clinica: persona, coppia e famiglia dell’Università Cattolica di Milano (via Nirone, 15)

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  • conferenza (Rovigo) -29 gennaio 2023(9,30-12.15). “Inclusione ed esclusione, l’attesa della povera gente”, convention annuale del Centro Francescano d’ascolto [qui per
https://unicalmondo.musvc2.net/e/t?q=3%3dJV6YNV%26m%3dS%267%3dT3Z%268%3dT3SSV%26v%3d8CLq_HjuQ_St_JRsi_Tg_HjuQ_RyOxM.v7oJAGgHtFd5B5bD86j1B5pBCG.jJ_AsTp_K8o5F_JRsi_Tg1BKfJB_J1t3bRsi_Tg62DfI_AsTp_K84U-VGoLxFu98FmEv3o42FbRST4.Fw8%26e%3dCDKw3K.FfJ%262K%3d7RSW

               Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.as——-px

  • Archivio               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cis
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CHIESA DI TUTTI

Il clericalismo seppellirà il cattolicesimo?

“Cristo è venuto ad annunciare la buona notizia, il diavolo ne ha fatto una religione” (Jacques Ellul)

 (α1912- ω1994) sociologo e teologo

A Cesare quel che è di Cesare. Quindi cominciamo con la Lettera di Francesco al popolo di Dio: “Ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita… Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo”.

  www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2018/documents/papa-francesco_20180820_lettera-popolo-didio.html

Questa lettera è del 20 agosto 2018. Due anni dopo, il rapporto della Ciase (Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa) dava la visione che tutti i cattolici temevano sulla situazione che gli abusi sessuali o spirituale causavano. Siamo alla fine del 2022, quattro anni dopo la pubblicazione di questa lettera. Che cosa è stato deciso, al di là delle denunce, per porre fine al clericalismo? Nulla, disperatamente nulla.

Per comprendere bene il clericalismo e perché è e sarà difficile, probabilmente impossibile, sbarazzarsene, bisogna risalire alle sue origini e comprendere perché il clericalismo oggi fa parte integrante del “sistema” cattolico. Il clericalismo appare nel secondo e terzo secolo, si basa sulla teologia della sostituzione che “sosterrà che, tenuto conto del mancato riconoscimento di Gesù come Messia e della colpevolezza degli ebrei nella sua uccisione sulla croce, il popolo della promessa e dell’antica alleanza sarebbe stato rifiutato da Dio. Revocando promessa e alleanza, Dio avrebbe sostituito all’antico Israele (vetus Israel) un nuovo Israele (verus Israel), attraverso una “nuova” alleanza e una riformulazione della promessa”.

https://ebreieisraele.forumfree.it/?t=79297853

Considerandosi nuovo popolo eletto, la Chiesa cristiana riprende tutti gli attributi del sistema gerarchico che dirigeva il popolo ebraico: l’apparizione di una casta sacerdotale superiore, che si considera sacra (cioè in rapporto con Dio) e che detiene il potere sul popolo. Questa evoluzione della Chiesa e la nascita del clericalismo introducono dei cambiamenti fondamentali che vengono attuati nei primi concili (Nicea nel 325, primo concilio di Costantinopoli nel 381), in rapporto con la volontà affermata di Costantino e dei suoi successori di basarsi sulla forza morale costituita dalla Chiesa nascente. Queste derive, perché si tratta proprio di derive rispetto al messaggio evangelico, usciranno rafforzate dalla Controriforma (concilio di Trento nel 1542).

1 La nozione di gerarchia e di segregazione tra preti e laici. L’enciclica Vehementer Nos di papa Pio X del 11 febbraio1906 ne è una buona illustrazione:

“La Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali; e che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori”.

www.vatican.va/content/pius-x/it/encyclicals/documents/hf_p-x_enc_11021906_vehementer-nos.html

Questa enciclica sembra di un altro tempo, ma sembra aver ispirato Lumen Gentium, che è del 21 novembre 1964 (Vaticano II). Il fatto che queste nozioni siano state combattute e denunciate da Gesù nei Vangeli non ha mai preoccupato la Chiesa. “Gesù, né alcuno dei dodici apostoli sono presentati come preti, né in alcun modo riferiti al sistema gerarchico del tempio. E, al seguito di Gesù, nessuno assume la funzione di controllore della religione” (3).

2 L’apparizione di un potere sacro. Ecco un brano tratto da Lumen Gentium del 1964: “Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo”. Sorprende che questa nozione di sacro, anzi di potestà sacra, sia mantenuta ancora in un documento fondamentale del Concilio Vaticano II, mentre si sa che sia la nozione che il termine “sacro” non compaiono affatto nei Vangeli. Si può anche pensare che Gesù abbia denunciato questa nozione: i tre Vangeli sinottici (Mt 27,51 – Mc 15,38 – Lc 23,45) evocano lo squarcio del velo del tempio, il più sacro dei luoghi sacri, in concomitanza con la morte di Gesù. Non vogliono forse dire che l’avvento di Gesù significa la fine del sacro e la chiamata alla santità? Il Vangelo, dall’inizio alla fine, è il racconto di un uomo, Gesù, incarnazione di Dio tra gli uomini per prendersi cura del fratello e ridargli dignità. So che tu sei il santo di Dio, grida il primo posseduto che Gesù guarisce (Mc 1,24).

Un’altra interpretazione dello squarcio del velo del tempio – ricordiamo che solo il Sommo Sacerdote era autorizzato ad entrare nel Santo dei Santi (il cuore del Tempio di Gerusalemme) il giorno della Pasqua ebraica per onorare Dio – è che Dio, attraverso suo figlio Gesù, è ormai accessibile a chiunque e che non abbiamo bisogno di nessun intermediario per accedere alle risorse del divino. Alcuni autori lo hanno illustrato particolarmente bene. Citiamo Agostino: “Il divino è più intimo a me di me stesso”. O Maurice Zundel [α1897-ω1975, presbitero, teologo, mistico svizzero]: “Il senso della nostra vita è salvare Dio in noi. Noi siamo abitati da una presenza, la vita prosegue attraverso il nostro sì”. In una tale concezione della fede non c’è bisogno di alcun intermediario sacro tra Dio e noi.

Citiamo infine Matteo al capitolo 20, che vorremmo fosse meditato dalla nostra gerarchia ecclesiale: “Chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.

3 L’apparizione della nozione di puro-impuro. Questa nozione è molto presente nei riti ebraici ed è costantemente criticata da Gesù nei Vangeli, i riferimenti sono molti. La nozione di puro-impuro riapparsa nella Chiesa è il punto di partenza:

  • della segregazione uomini-donne, poiché la donna, come in molte religioni, è l’essere impuro (mestruazioni);
  • della giustificazione del celibato: per diventare sacro, l’uomo deve astenersi da ogni contatto sessuale con la donna; il sacro diventa, in qualche modo, la contropartita del celibato; poiché le nozioni di celibato e di sacro sono collegate, è difficile fare marcia indietro, e da qui deriva l’impasse attuale e l’impossibilità teologica di autorizzare il matrimonio dei preti o di ordinare uomini sposati (e ancor meno donne!).

Van Eyck, L’adorazione dell’Agnello mistico (pannello centrale), 1432, cattedrale Saint-Bavon, Gand

4 Una visione molto differente dell’eucaristia

La nuova visione dell’eucaristia si inscrive nella logica e nella linea delle nozioni precedenti: primato del sacro (altare), del potere (solo il prete autorizzato a celebrare), della nozione di sacrificio, della nozione di puro-impuro. Eppure, nelle prime comunità cristiane non c’è mai stata distinzione preti-laici e la condivisione del pane si fa durante celebrazioni domestiche “in memoria di lui” in spazi profani (case). Ecco il primo racconto dell’istituzione dell’eucaristia secondo san Paolo (1Cor 11) che mette l’accento sull’aspetto fraterno del pasto. Non vi si trova alcun riferimento a nozioni di sacro o di sacrificio. Questa visione dell’eucaristia sfocia in pratiche che appaiono a molti come stravaganze, come “cosificare” Dio e rinchiuderlo in una scatola (tabernacolo), o pretendere di manipolare Dio chiedendogli di scendere sull’altare… Nella teologia cattolica, i nostri bramini sono considerati, in virtù della loro ordinazione, “Alter Christus”. Addirittura alcuni, come il cardinale Sarah, coautore

di un libro con il cardinal RatzingerDes profondeurs de nos coeurs” (2020), e che non dubitano di nulla, non esitano a promuovere il prete “Ipse Christus”, cioè Cristo stesso. Queste considerazioni servono anche a giustificare il celibato dei preti.

6 Una conseguenza drammatica che ha causato milioni di morti. Un danno collaterale della teologia della sostituzione, e delle sue insinuazioni, è evidentemente l’antigiudaismo e l’antisemitismo che ha comportato. Si è dovuto attendere il Vaticano II e la dichiarazione Nostra Ætate per far cambiare la posizione della Chiesa sull’argomento, le cui conseguenze nel corso dei secoli hanno comportato milioni di morti.

www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decl_19651028_nostra-aetate_it.html

Così siamo giunti alla situazione attuale, ciò che l’ha suscitata e che molti cattolici chiamano “la Tradizione”. Fa sorridere pensare che quando i tradizionalisti fanno riferimento alla Tradizione, essa non risale mai ai primi secoli, ma, a seconda dei casi, al XVI secolo, con l’attuazione dell’autorità della Controriforma, o al XIX secolo, dopo l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, quando la Chiesa ha voluto affermare la propria autorità sulle coscienze e si è dichiarata infallibile!

Notiamo che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Già nell’Antico Testamento, il profetismo non andava d’accordo con l’istituzione ebraica e con i suoi riti. Esempi: Isaia 1,11-15: “«Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. … Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. … Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei”.

E anche: Isaia 58,1-12, Geremia 7,1-15, Amos 5,21-24 o Michea 6,7-8: “«Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato?». Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: “praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio”.

Senza dimenticare le parole che Gesù stesso rivolge ai farisei (Luca 11,46): “«Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!” O le dure parole di Gesù riferite da Matteo al capitolo 25 e che ricordano quelle di Michea: “«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». … «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me».

Ma questa opposizione di sempre tra profetismo e autorità istituzionale mi sembra che abbia poca possibilità di trovare una soluzione favorevole attualmente. L’estrema destra e una parte della destra cattolica (compresi, al loro tempo, i maurassiani [seguaci politici di Charles Maurras], benché fossero agnostici o atei!) hanno percepito tutto l’interesse che l’istituzione Chiesa può offrire loro per aver potere sulle coscienze: la protezione dell’identità cristiana di fronte alla crescita dell’islam, le questioni etiche (matrimonio per tutti, aborto, gravidanza medicalmente assistita, gestazione per altri, fine vita) e rispetto del buon costume, ecc. Ricordiamo che il 37% dei cattolici praticanti in Francia hanno votato per Marine Le Pen e Eric Zemmour, un tipo di voto che un tempo la Conferenza episcopale francese e le grandi figure della Chiesa condannavano senza ambiguità. Per dirla chiaramente, la Chiesa è percepita dalla stragrande maggioranza di coloro che vi si investono oggi, preti e vescovi in primo luogo, come l’ultimo bastione contro il “liberi tutti” e quindi per la Chiesa non è il momento di abbandonare un potere e il fondamento di tale potere, il sacro, senza il quale essa perderebbe ogni autorità di cui ritiene di aver bisogno per svolgere il proprio ruolo. E se papa Francesco non fa niente, è che preferisce lo scisma silenzioso di coloro che se ne vanno in punta di piedi, allo scisma brutale di una rottura con coloro che costituiscono ormai le forze vive dell’istituzione.

Se le cose stanno così, la Chiesa rischia di diventare una setta identitaria. Joseph Moingt esprime chiaramente l’impasse nella quale la Chiesa ormai si trova: “Finché la società e la Chiesa hanno funzionato secondo l’esercizio mondano del potere, la comunicazione interna ed esterna della Chiesa funzionava bene. In un mondo quasi totalmente cristiano, tutti udivano quell’annuncio. Ma in un mondo occidentale democratizzato e uscito dalla religione, il funzionamento dell’autorità nella Chiesa appare inegualitario e la Parola non è più annunciata al mondo perché il modello religioso che la supporta è esaurito”. In altri termini, il clericalismo andava anche bene in tempi di cristianità, ma non va affatto bene oggi.

Il termine “setta” utilizzato qui può sembrare sconsiderato e abusivo, ma è proprio di una setta l’essere ridotti al nulla, avere un linguaggio comprensibile solo a se stessa e che lascia la società totalmente indifferente. L’incarnazione nel mondo che era l’essenza del cristianesimo è semplicemente scomparsa.

Che cosa è diventato il profetismo del messaggio evangelico? Non volendo rimettere in discussione il clericalismo, la Chiesa cattolica avrà la pesante responsabilità di averlo ridotto al nulla. Ricordiamo la citazione di André Gouzes: “Se non diventiamo come i primi cristiani, saremo gli ultimi”.

Michel Bouvard

https://saintmerry-hors-les-murs.com”  25 dicembre 2022 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230108bouvard.pdf

Nella Chiesa il maschilismo è più forte e decisivo del Vangelo

Come è noto, “differenza” non è la stessa cosa di “disuguaglianza”. La differenza è un “fatto”. L’uguaglianza è un “diritto” (cf. Luigi Ferrajoli, Derechos y garantías, Madrid, Trotta 2001, pp. 77-80) Per questo, se vogliamo veramente imporre in questo mondo la maggiore uguaglianza possibile, per realizzare un tale ideale, non c’è altra via – altro rimedio – che favorire e rafforzare “la legge del più debole”, che si concretizza nei “diritti fondamentali”, proclamati nella “Dichiarazione dei diritti” del 1789 (L. Ferrajoli, op. cit., pp. 76-78).

www.criticadellastoria.it/materiale/diritto/50-dichiarazione-dei-diritti-dell-uomo-e-del-cittadino-1789

Certo, sappiamo benissimo che nel nostro mondo non si è imposta “la legge del più debole”. Sappiamo, quindi, che nella società moderna e postmoderna non si è imposta l’uguaglianza. Le disuguaglianze sono sconcertanti e crudeli. E i responsabili siamo noi che non abbiamo preso sul serio e non ci siamo battuti, di cuore e veramente, per realizzare i diritti dei più deboli.

                In queste condizioni e senza timore di esagerare, si può affermare che le Religioni – compreso il Cristianesimo – sono state (e continuano ad essere) responsabili delle mille disuguaglianze che continuano a causare così numerose ed enormi sofferenze. Non è possibile – né pretendo – descrivere e analizzare le tante disuguaglianze che la Chiesa mantiene e giustifica.

Disuguaglianze nella società. E disuguaglianze nella stessa Chiesa. Con l’aggravante degli innumerevoli silenzi della Chiesa davanti alle leggi dei più forti, in politica, in economia, in diritto, in tante cose che sarebbero ben diverse se i vescovi (e il clero in generale) alzassero la loro voce, come la alzano quando si sentono minacciati negli interessi e nelle libertà che favoriscono o minacciano la Chiesa, ciò che conta davvero per il mondo clericale.

                Detto ciò, si comprende perfettamente come e perché passano gli anni e i secoli e nel contempo la Chiesa rimane ferma nella sua decisione di mantenere la disuguaglianza delle donne rispetto agli uomini. Una decisione intoccabile, che si mantiene a prezzo di migliaia e migliaia di parrocchie che non possono celebrare l’Eucaristia, né prendersi cura dei fedeli che hanno bisogno di un consiglio, di un aiuto e soprattutto non hanno nessuno che spieghi loro il Vangelo e apporti loro luce nei loro problemi di coscienza.

Il Concilio Vaticano II nella sua Costituzione sulla Chiesa (Lumen Gentium, n. 37) ha affermato che “i laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere abbondantemente […] gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti”. Ma evidentemente per una notevole maggioranza di vescovi, teologi e capi della Chiesa è più importante mantenere le donne emarginate che rispettare i diritti che hanno i fedeli cristiani.

Inoltre, ciò accade con la consapevolezza che, come riportato nei vangeli, il gruppo umano con il quale Gesù non ha avuto il minimo attrito o problema, è stato proprio quello delle donne. Gesù le ha sempre difese, anche se non sempre erano donne esemplari. Nella sua missione di annunziare il Vangelo è stato accompagnato non solo dai “dodici”, ma anche da “molte donne”, non tutte proprio esemplari (Lc 8, 1-3). Sappiamo inoltre che, secondo i vangeli di Marco (10, 1-12) e Matteo (19, 1-12), Gesù ha anteposto il diritto della donna a ciò che era stabilito in favore dell’uomo, come indicato in Dt 24,1 (cf. Joel Marcus, Il Vangelo secondo Marco, p. 809; cf. Ulrich Luz, Il Vangelo secondo Matteo, vol. III, pp. 140-142).

                Non c’è dubbio che una notevole maggioranza di ecclesiastici non è disposta ad ammettere l’uguaglianza di diritti delle donne con i diritti dell’uomo. Anche se questo non si può dimostrare con il Vangelo in mano. E – quel che è più grave – anche se questa mentalità maschilista sta privando dei loro diritti milioni di fedeli cristiani. Anche con grave danno della Chiesa stessa, che sta perdendo il suo clero e con un futuro sempre più preoccupante.

Non c’è dubbio che nella Chiesa il maschilismo sia più forte e decisivo del Vangelo. Quale futuro dovremo attendere noi che continuiamo a volere il meglio per la Chiesa e per la società?

        L’articolo del teologo spagnolo José María Castillo – è stato pubblicato l’8 gennaio 2023 sul sito di informazione religiosa Religión Digital (www.religiondigital.com). con il titolo “Todos necesitamos de un corazón de mujer que sepa custodiar la ternura de Dios”.                .              Traduzione di Lorenzo Tommaselli per Adista

www.adista.it/articolo/69305

Papa Francesco: attenti «alle false notizie»

Non facciamoci ingannare dalle «false notizie». All’indomani del funerale e della tumulazione del corpo di Ratzinger nelle grotte vaticane, e quindi nel primo giorno in cui Francesco è l’unico a utilizzare il titolo di papa, Bergoglio pronuncia una frase, durante l’omelia nella messa dell’Epifania, con cui sembrerebbe voler liquidare come fake news, bugie, tutto quello che si è detto sul proprio conto e sul proprio rapporto con Benedetto XVI. Acominciare dalle dichiarazioni di monsignor George Gänswein (che di Ratzinger è stato segretario particolare per vent’anni) e dalle anticipazioni dei contenuti del suo libro (Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI) che uscirà giovedì prossimo per Piemme, in quella che più che una coincidenza temporale sembra un’astuta operazione commerciale e politico-ecclesiale.

Il provvedimento con cui papa Francesco ha limitato le possibilità di celebrare la messa in latino e secondo il rito preconciliare – che erano state liberalizzate da Ratzinger – «ha colpito molto duramente Benedetto XVI, penso che gli abbia spezzato il cuore», aveva detto Gänswein al quotidiano cattolico tedesco di area Opus Dei Die Tagespost. E ancora: «Restai scioccato e senza parole» quando Bergoglio mi congedò da prefetto della casa pontificia, dicendomi che avrei conservato l’incarico ma non sarei dovuto «tornare al lavoro», rendendomi così un «prefetto dimezzato», racconta Gänswein nel suo libro, riferendo anche quello che gli avrebbe confidato Ratzinger: «Sembra che papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode».

                Ieri mattina, durante la messa per l’Epifania a San Pietro, nell’omelia è arrivata la risposta indiretta di Bergoglio. «Adoriamo Dio e non il nostro io, adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col fascino del prestigio e del potere», ha detto il pontefice, che poi ha aggiunto a braccio una frase non contenuta nel testo consegnato qualche ora prima alla stampa: non adoriamo gli idoli che «ci seducono con il fascino delle false notizie». Francesco si riferiva proprio a Gänswein e alle sue esternazioni bollate come «false notizie»? Ovviamente non è dato saperlo. Certo è che quelle parole sono state aggiunte da Bergoglio all’ultimo momento – e quindi sono state stimolate dalla contingenza – e che il momento in cui sono state pronunciate non sembra proprio casuale. Se poi si considera che il titolo del libro dell’ex segretario di Ratzinger è “Nient’altro che la verità”, l’espressione «false notizie» non sembra buttata lì per caso, ma quasi una risposta allusiva a quanto detto e scritto in questi giorni.

Luca Kocci                          Adista                  07 gennaio 2023

www.adista.it/articolo/69305

La Chiesa di mons. Gaenswein. Quella di oggi e quella di domani

L’articolo di don Alberto Varinelli a commento delle memorie di mons. Gaenswein, ha avuto una valanga di lettori. Siamo ormai oltre i diecimila. Era in discussione non solo Mons. Gaenswein e il suo libro, ma anche la Chiesa. L’interessa suscitato dall’articolo di don Alberto Varinelli, curato di Grumello del Monte, è andato oltre i confini abituali del nostro blog e perfino oltre i confini italiani: l’hanno citato anche siti stranieri.

Le “memorie” di mons. Gaenswein e le discussioni. L’argomento era l’annunciata pubblicazione di memorie da parte di mons. Georg Gaenswein, segretario particolare di papa Benedetto XVI. Le poche anticipazioni avevano fatto discutere ancora prima della pubblicazione del libro.

                Papa Francesco non ama dei segretari che diventano protagonisti, come è sempre avvenuto con i Papi recenti. Per questo cambia spesso i suoi più immediati collaboratori

                L’articolo di Varinelli diceva bene il disagio che molti di noi hanno provato e stanno tuttora provando. Uno stretto collaboratore di due Papi sembra offrire l’occasione per creare contrasti e divisioni e non in qualche angolo sperduto della Chiesa, ma al suo centro. Oltretutto, all’indomani della morte di Papa Ratzinger. Ci saremmo aspettati un silenzio rispettoso e, se era il caso, anche faticoso. Lo richiedeva il luogo e il ruolo. (Adesso capiamo anche perché Papa Francesco cambia spesso i suoi segretari perché, evidentemente non ama segretari che diventano controfigure del Papa, come è successo, almeno a partire da Papa Giovanni, fino a Papa Ratzinger compreso. Tutti sapevano, infatti, chi erano mons. Capovilla, mons. Macchi, mons.  Dziwisz, e, ovviamente, Mons. Gaenswein. Nessuno sa chi sono i segretari di Papa Francesco).

Intanto: che Chiesa vogliamo costruire? Un testo profetico di Ratzinger, di cinquant’anni fa. La discussione non riguarda solo i protagonisti di oggi, ma anche la Chiesa stessa, quale Chiesa si vuole immaginare. Le discussioni di questi giorni ci mettono un po’ di malinconia, soprattutto in rapporto a queste prospettive ampie che riguardano la Chiesa di oggi e quella che ci aspetta domani. Per questo abbiamo sentito e risentito, letto e riletto un brano che molti altri hanno citato dopo la morte di Papa Benedetto. Si tratta di un testo, singolarmente profetico, scritto attorno agli anni ’70 da Joseph Ratzinger, allora giovane teologo. Lo riproponiamo ai nostri lettori per offrire, a loro e a noi, ulteriori motivi di riflessione.

    “Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare molti degli edifici che aveva costruito nella prosperità. Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. In contrasto con un periodo precedente, verrà vista molto di più come una società volontaria, in cui si entra solo per libera decisione. In quanto piccola società, avanzerà richieste molto superiori su iniziativa dei suoi membri individuali 

    (…)

    Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra. Essa farà questo con fatica. Il processo infatti della cristallizzazione e della chiarificazione la renderà povera, la farà diventare una Chiesa dei piccoli, il processo sarà lungo e faticoso, perché dovranno essere eliminate la ristrettezza di vedute settaria e la caparbietà pomposa. Si potrebbe predire che tutto questo richiederà tempo.

    (…)

    Gli uomini che vivranno in un mondo totalmente programmato vivranno una solitudine indicibile. Se avranno perduto completamente il senso di Dio, sentiranno tutto l’orrore della loro povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.

                Alberto Carrara                               La barca e il mare                                           11 gennaio 2023

CHIESA NEL MONDO

Le violenze sessuali, una specificità cattolica?

Le inchieste internazionali più approfondite hanno riguardato solo la Chiesa cattolica

intervista a Blandine Chelini-Pont.

La storica Blandine Chelini-Pont analizza la dimensione sistemica degli scandali che toccano la Chiesa e parla dei casi riguardanti le altre religioni nel mondo.

Blandine Chelini-Pont è professoressa di storia contemporanea all’Università Aix-Marseille ed è membro associato del Groupe sociétés, religions, laïcités (GSRL-EPHE). Specialiste delle interazioni culturali, politiche e legali del religioso, in particolare negli USA, è coautrice, tra l’altro, di Géopolitique des religions. Un nouveau rôle du religieux dans les relations internationales?(Le Cavalier bleu, 2019).

L’episcopato francese ha riconosciuto il carattere sistemico delle violenze sessuali nella Chiesa cattolica. Perché questo aggettivo è pertinente?

Nelle sue risoluzioni del novembre 2021, la Conferenza episcopale francese riconosce che quelle violenze sono state rese possibili da un “contesto globale”, in cui il peso delle “pratiche” e delle “mentalità” ha permesso che esse si perpetuassero, che non fossero denunciate né sanzionate. Il peso di cui si parla, tra culto del segreto e impunità, risale molto indietro. La paura dello scandalo accompagna tutta la storia medioevale della Chiesa cattolica. La mala fama, la “mauvaise réputation”, non poteva che corrompere la “società perfetta”, quella visione dell’istituzione che giustifica il suo dominio sulle anime e sui territori, e la sua giustizia.

La “mala fama” presiede alla distinzione, che compare tra il XII e il XIII secolo, tra i reati detti “occulti” e i reati notori del clero. La logica è la seguente: i vizi non conosciuti del prete, quali che siano, si trattano nella discrezione del foro (giudizio) interno; con inchiesta discreta, la correzione fraterna a porte chiuse e la confessione, un sacramento caricato del segreto assoluto. Quanto al crimine notorio, quello della pubblica piazza, che provoca lo scandalo (o i sarcasmi!) del popolo cristiano, esige un “foro esterno” edificante: il processo per infamia, la penitenza pubblica e umiliante, la scomunica, l’interdizione dell’esercizio presbiterale, oltre agli interdetti civili definitivi e alle ammende.

Il crimine notorio più frequentemente giudicato è l’omicidio, considerato come il più terribile. Negli altri casi, la giustizia dello scandalo pubblico, che deve preservare o ristabilire la dignità della Chiesa, era sempre contrastata dalla logica dell’impunità civile del clero e del suo prestigio sociale.

Lei parla del Medio Evo, ma la Chiesa non è cambiata da allora?

La paura dello scandalo è rimasta sotto un’altra forma. La definizione progressiva di “reato

sessuale” nel diritto della Chiesa – che non distingue l’immoralità dalla criminalità – non cambierà

la cultura del nascosto e della buona reputazione.

Il codice del 1917 si “accontenta”, ad esempio, di colpire con le più terribili pene canoniche ogni prete in “coabitazione pubblica” e ogni persona cattolica riconosciuta colpevole dalla giustizia civile sia di adulterio che di stupro, di incesto, di relazioni consanguinee, di relazioni con minorenni, di bestialità, di prossenetismo. Siamo sempre nella logica dello scandalo pubblico, nella quale l’esclusione (eventuale) del prete condannato è il mezzo per evitare l’infamia.

Un’Istruzione del Sant’Uffizio esumata recentemente da ricercatori, che era stata inviata a qualche vescovo all’inizio degli anni 20 del secolo scorso (con la menzione “da mantenere segreta, da non pubblicare”) descrive una procedura che avrebbe potuto servire, forse, come primo vademecum regolamentare per la violenza sessuale. Nel suo linguaggio, essa obbliga ogni persona sessualmente “sollecitata” da un prete o da un religioso ad andarlo a denunciare. Ma due grandi avvertenze temperano questa proiezione. L’Istruzione fa una equivalenza tra tutti i reati che essa giudica “contro natura” con un paragrafo intero sul crimen pessimum, l’atto di oscenità, che include la relazione con dei prepuberi, la relazione omosessuale e la bestialità. Inoltre essa non ha mai avuto una reale pubblicità, né presso l’insieme dei vescovi, né presso il popolo cristiano. Tutto era tenuto sotto chiave in modo che la procedura si svolgesse nella massima segretezza – e, a dire il vero, che non si svolgesse.

Contrariamente ai protestanti e agli ortodossi, la Chiesa cattolica impone anche il celibato e l’astinenza al suo clero. Secondo lei, si può stabilire un rapporto con le violenze sessuali?

Affermare che questo “stato” sia la ragione delle violenze sessuali su persone in situazione di vulnerabilità mi sembra un giudizio sbagliato. L’incesto è il più frequente dei reati di pedocriminalità nella società, e lì non si tratta né di celibato né di astinenza. Inoltre, si può anche non mantenere l’astinenza senza per questo diventare un predatore.

Il rapporto, estremamente completo e documentato, della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica (Ciase), non conferma e non prova un legame chiaro tra celibato, astinenza e abusi sessuali. Tra gli abusatori cattolici, ci sono da un lato i membri del clero (il 4,6% del totale censito nell’inchiesta sulla popolazione generale inserita nel rapporto), che possono essere preti ordinati o religioni consacrati, a priori celibi e astinenti, ma anche potenzialmente diaconi sposati. Ma ci sono anche le persone in rapporto con la Chiesa (2,1%) che non sono né tra i primi né tra i secondi.

Inoltre il rapporto fa notare, a partire da colloqui fatti con dei preti condannati, ossia trentacinque persone, il fatto che alcuni presentano un comprovato “disturbo di pedofilia” secondo gli standard medici, e che altri sono depressi cronici, o che loro stessi hanno subito violenze sessuali.

Non dovrebbe essere messo in discussione anche lo status di “autorità spirituale” incarnato dai preti?

Il rapporto della Ciase definisce chiaramente le violenze sessuali come abusi di potere, commessi da persone che rappresentano l’autorità dell’istituzione, che si basano su di essa e ne riflettono la legittimità per eliminare le resistenze ed assicurare il silenzio.

Direi anche che è la passata polivalenza dell’autorità del clero e il suo vasto campo d’azione che hanno favorito il rischio. Riprendendo il rapporto della Ciase, si vede che l’ampiezza degli abusi di pedocriminalità si è ridotta con il tempo perché il clero ha una posizione sociale minore. La pedocriminalità ha dominato in un periodo in cui la Chiesa aveva una forte influenza parrocchiale, educativa, e anche familiare, con la figura del prete amico di famiglia. Quella forma di violenza è diminuita man mano che la popolazione clericale è diventata residuale, che l’autorità educativa è passata nelle mani dei laici e che la socializzazione cattolica si è trasformata o è scomparsa.

Certo, i numeri degli abusi arrivano anche dopo gli anni 90 del secolo scorso. Ma la legislazione è diventata più precisa e la parola si è liberata. Inoltre, il profilo delle violenze in ambito religioso si è spostato insensibilmente verso una popolazione adulta e femminile, e verso le comunità di vita religiosa, in particolare le “comunità nuove”.

Anche le altre comunità religiose sono coinvolte in scandali sessuali?

Per la Francia, l’inchiesta sulla popolazione in generale che accompagna il rapporto Sauvé ha compreso le persone “con responsabilità religiosa” delle altre confessioni. Il risultato è di 0,6% di tutti i casi censiti. Qual è la ragione principale di questa percentuale molto bassa? La minoranza demografica, la differenza istituzionale o qualche altra ragione? Difficile rispondere. Le altre inchieste internazionali più approfondite hanno riguardato solo la Chiesa cattolica, al punto che si può pensare che essa sia quella più colpita, o addirittura la sola. Ma si può anche pensare che la liberazione della parola e la rivelazione dell’ampiezza della pedocriminalità e delle altre violenze sessuali istituzionali siano cominciate solo da poco, e solo nelle democrazie occidentali, dove la Chiesa cattolica è stata ed è ancora molto presente.

Dai media sappiamo che i reati sessuali esistono certamente anche in altre istituzioni religiose. Ad esempio, dei maestri di scuole coraniche sono accusati di pratiche simili: esiste in questo momento un vero dramma nazionale su questa questione nel Bangladesh. Processi recenti sono in corso in Turchia, in Pakistan, in Algeria, in Marocco, in Mali, in Senegal. Nel 2019, un documentario israeliano di Yolande Zauberman, premiato, descriveva i danni della pedocriminalità sui giovani del quartiere ultraortodosso di Bnei Brak, nella periferia di Tel Aviv. Molto recentemente, un altro documentario (e un libro), “La loi du silence”, di Wandrille Lanos e Elodie Emery, ha messo in luce le esazioni sessuali dei maestri buddisti tibetani in Francia e in Europa, tra cui quelle subite da donne sotto l’influenza spirituale di Sogyal Rinpoché, molto conosciuto in tutto il mondo. Quest’ultimo è stato denunciato più volte e interpellato dalla giustizia americana negli anni 90 del secolo scorso. Ma il Dalai-Lama lo ha disonorato solo qualche tempo prima della sua morte [nel 2019] dopo una denuncia collettiva da parte degli ex discepoli.

Lei conosce bene la situazione religiosa negli USA, dove le numerose religioni convivono le une accanto alle altre. Come stanno le cose nel protestantesimo americano?

Sappiamo che è negli USA che la Chiesa cattolica ha accumulato per prima gli scandali di pedofilia, i processi e la vergogna sociale. Al punto da aver risvegliato una vecchia memoria anticattolica che era scomparsa, con le sue leggende nere. Inoltre, lo scandalo dei centri buddisti tibetani è cominciato negli Stati Uniti. E non si contano più i casi di violenze sessuali nelle comunità “chiuse” di tipo settario, e che riguardano soprattutto le donne.

Per molto tempo le Chiese protestanti sono state scandalizzate – e continuano ad esserlo – delle “scappatelle” dei loro pastori, segretamente omosessuali e che al contempo predicavano la castità coniugale, o che conducevano vite dissolute sostenendo la continenza adolescente, che tradivano la moglie, anche con professioniste, o praticando lo scambismo.

Ma ormai non si tratta più di questo tipo di faccende. Da due o tre anni, le Chiese protestanti sono anch’esse entrate nella tormenta degli scandali di pedocriminalità. Dei quotidiani texani hanno ad esempio rivelato, nel 2019, uno scandalo molto vasto riguardante 700 pastori ed educatori della Southern Baptist Convention [SBC], una rete di 47 000 chiese e quindici milioni di affiliati. Lo Houston Chronicle ha pubblicato una serie intitolate “Abuse of Faith” (“abuso di fede”), indagando su violenze su minorenni su un periodo di venti anni, dal possesso di immagini di pedofilia allo stupro. E vi si trovano gli stessi ingredienti della Chiesa cattolica: assenza di disposizioni preventive, trasferimenti di educatori, il totale diniego e il segreto.

Quest’estate, lo scandalo si è trasformato in “apocalissi”, secondo i termini usati da un responsabile della SBC. Che ha dovuto pubblicare un documento di 205 pagine indicando le centinaia di dirigenti e di membri battisti accusati o giudicati colpevoli. Lo ha fatto perché obbligata, dopo aver tentato di proteggersi da ogni responsabilità in caso di abusi nelle chiese locali, e aver spiegato che, a causa della loro autonomia, essa non aveva alcuna responsabilità sulla loro politica di prevenzione.

Nel 2018 è anche stato pubblicato uno dei primi studi empirici sulle violenze sessuali negli Stati Uniti negli ambienti cristiani protestanti, che esaminava gli articoli di stampa che riferivano degli arresti. Ha censito 326 casi tra il 1999 e il 2014. Un altro studio sociologico sugli abusi su minorenni nelle Chiese protestanti, pubblicato nel 2021, si è basato sulla stima di tre delle maggiori compagnie di assicurazione confessionali che assicurano quasi 160 000 chiese. Queste compagnie hanno segnalato un totale di 7.095 domande di indennizzo per violenze sessuali commesse da membri del clero, dipendenti delle chiese, membri della congregazione o altre persone implicate in questi ambienti tra il 1987 e il 2007. Questi rapporti indicano una media di 260 denunce per abuso sessuale all’anno.

a cura di Gaétan Supertino         “Le Monde” 11 gennaio 2023 (traduzione: www.finesettimana.org)

ttps://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230110chelinipontsupertino.pdf

CITTÀ DEL VATICANO

“Georg sostiene di riferire i pensieri di Benedetto ma non so se dice la verità”

intervista al cardinale Leonardo Sandri a cura di Iacopo Scaramuzzi

I conflitti tra conservatori e progressisti non sono una novità di oggi, ci sono almeno dalla conclusione del Concilio vaticano II (1962-1965). Papa Francesco oggi non è più solo, dopo la morte di Benedetto XVI, di quanto non lo sia inevitabilmente il «buon pastore», e va comunque avanti «con grande forza e grande entusiasmo». Joseph Ratzinger rimane nella memoria come una «presenza umile, discreta e marcata dalla gentilezza e dal sorriso».

www.repubblica.it/cronaca/2023/01/06/news/io_dimezzato_da_bergoglio_ora_padre_georg_diventa_un_caso-382296087

Quanto alle esternazioni del suo segretario, monsignor Georg Gaenswein, esse «ricadono sotto la sua responsabilità» e «nessuno può dire» se siano fondate le affermazioni che attribuisce a Benedetto. È l’analisi del cardinale Leonardo Sandri, italo-argentino, sino a novembre scorso prefetto del dicastero vaticano per le Chiese orientali, una lunga carriera di nunzio apostolico alle spalle, Sostituto agli affari generali della Segreteria di Stato con Giovanni Paolo II e il cardinale Angelo Sodano, ora vice decano del collegio cardinalizio.

  (α1943)       Eminenza, cosa lascia Benedetto XVI?

«Lascia una eredità soprattutto dottrinale e magisteriale, l’invito al mondo e a ciascuno di noi a ritornare a mettere Dio al centro della nostra vita e, partendo da Lui, a servire i nostri fratelli. Credo che l’immagine più bella sia quella di un Papa sorridente e dolce, che trattava tutti bene e nonostante l’altezza della sua figura è rimasto una presenza umile, discreta e marcata dalla gentilezza e dal sorriso».

Per Francesco cambia qualcosa? Ora il Papa è più solo?

«No, queste sono le cose che si dicono nei giornali. Benedetto era Papa emerito, ma l’unico Papa era e continua ad essere Francesco. La solitudine e anche l’abbandono da parte di alcuni lo aveva prima e lo ha adesso, ma non a causa della morte di Benedetto, bensì perché è così la figura del buon pastore, che riceve sofferenze ed è unito a Gesù nella croce».

Papa Francesco va dunque avanti spedito.

«Vedo in Francesco una grande forza e un grande entusiasmo: lo vediamo tutti i giorni nella sua parola e nelle sue decisioni: duc in altum, vada avanti!».

Cosa pensa delle divisioni tra conservatori e progressisti che ci sono nella Chiesa?

«Non sono nuove, vengono da dopo il Concilio: adesso venire a trovare la grande divisione è da ridere, sono cose che esistono da tempo».

Il Papa all’Angelus ha detto che bisogna condividere, non dividere con il chiacchiericcio.

«Certo, ma era così già con Papa Paolo VI (1963-1978, il Pontefice che ha chiuso il Concilio vaticano II)

Il grande ideale della Chiesa qual è?

La comunione. Noi dobbiamo essere in comunione con Dio, con Cristo, con i fratelli e soprattutto nella Chiesa tra di noi, tra sacerdoti, tra vescovi. Comunione che corrisponde a questa bella parola che ha usato il Papa, condivisione, partager».

L’invito alla comunione può trovare esito nel sinodo voluto da Papa Francesco?

«Certamente non si fa un sinodo per dividere di più. A Roma sono arrivati contributi molto ricchi da tutte le Chiese, anche da tutte quelle Orientali. Il “sinodo”, che significa camminare insieme, è condivisione».

In questi giorni il segretario particolare di Benedetto XVI, monsignor Georg Gaenswein, sta esternando molte critiche e perplessità, cosa ne pensa?

«Sì, ne ho letto sui giornali, ma sono cose che ricadono sotto la sua responsabilità. Erano cose un po’ risapute, eccetto per quanto riguarda la sua responsabilità nella fuga dei documenti dell’appartamento pontificio (il cosiddetto caso Vatileaks, ndr ), che lui confessa. Va comunque detto che è stato al servizio del Papa e al servizio della Chiesa, e questo è un titolo di onore».

E il fatto che attribuisca oggi dei pensieri a Benedetto?

«Queste sono cose che nessuno può dire perché io non c’ero quando ha ricevuto questi pensieri».

Lei è italo-argentino, condivide la comune origine con il Papa e lo conosce meglio di altri:

secondo lei cosa ci attendiamo nel prossimo futuro da Bergoglio?

«Io da questo Papa mi aspetto sempre che sarà un grande pastore, cioè che darà anche la vita per le sue pecore».

Iacopo Scaramuzzi                          La Repubblica                   9 gennaio 2023

www.repubblica.it/cronaca/2023/01/09/news/papa_francesco_vaticano-382640489

Wojtyla, Ratzinger e Francesco: il dialogo con l’Islam

Il card. Achille Silvestrini (1923-2019) è stato certamente l’uomo che ha fissato i termini della nuova fase del dialogo islamico cristiano, apertasi con l’Esortazione Apostolica post sinodaleUna speranza nuova per il Libano”(1997). www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_19970510_lebanon.html

Fu lui infatti, secondo molti racconti di quel tempo, a convincere Giovanni Paolo II a inserire in quell’esortazione la frase decisiva, che prendeva le mosse dalla Lettera a Diogneto, il documento fondativo del cristianesimo orientale rilanciato nella sua centralità culturale dal Concilio Vaticano II. Il brano a cui si fa riferimento si apre infatti citando la lettera a Diogneto, che dice: «In tutti i Paesi ed in tutte le culture ove essi sono sparsi, “i cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per il paese, né per la lingua, né per i costumi. […] Essi si conformano ai costumi locali per i vestiti, il nutrimento e il resto dell’esistenza, pur manifestando le leggi straordinarie e veramente paradossali del loro modo di vivere”».        www.ora-et-labora.net/A%20DIOGNETO.pdf

Muovendo da questa citazione della Lettera a Diogneto, Giovanni Paolo II scriveva: «Vorrei insistere sulla necessità per i cristiani del Libano di mantenere e di rinsaldare i loro legami di solidarietà con il mondo arabo. Li invito a considerare il loro inserimento nella cultura araba, alla quale tanto hanno contribuito, come un’opportunità privilegiata per condurre, in armonia con gli altri cristiani dei Paese arabi, un dialogo autentico e profondo con i credenti dell’Islam. Vivendo in una medesima regione, avendo conosciuto nella loro storia momenti di gloria e momenti di difficoltà, cristiani e musulmani del Medio Oriente sono chiamati a costruire insieme un avvenire di convivialità e di collaborazione, in vista dello sviluppo umano e morale dei loro popoli. Inoltre, il dialogo e la collaborazione tra cristiani e musulmani in Libano possono contribuire a far sì che, in altri Paesi, si avvii lo stesso processo».

                I cristiani parte del mondo arabo. Questo brano finalmente dava pieno riconoscimento alla cultura araba e cristiana che nell’Ottocento contribuì al grande fermento della nahda, la Rinascita araba, distinguendo il dialogo religioso dalla questione d’Oriente, che aveva invece collocato i cristiani del Medio Oriente fuori dalla cultura araba, quasi come quinte colonne del colonialismo europeo. Un fraintendimento che è costato molto caro, per decenni. Qui invece i cristiani, come nella grande esperienza della nahda, appartengono alla cultura araba, al suo tentativo di riorganizzare il nazionalismo e l’indipendenza nazionale su una base nuova, non confessionale. Il grande equivoco orientale per cui una nazione deve avere una fede, una etnia e quindi un leader veniva archiviato. Paesi naturalmente multietnici e multireligiosi trovavano il riconoscimento della loro identità nazionale, non nell’etnia, non nell’appartenenza comunitaria, ma nella cultura araba e nella realtà nazionale. Le Chiese di conseguenza cessavano di essere Chiese etniche, ma di tutto il territorio e di tutti i suoi problemi. Si apriva un’epoca nuova che dal punto di vista culturale avrebbe portato i più avanzati a parlare di Chiesa dell’Islam, e gli Stati non più intesi come confessionali, ma di tutti i cittadini, sulla base della pari cittadinanza per cui, in uno Stato nazionale, cristiani e musulmani si riconoscevano come concittadini, fedeli a una costituzione non religiosamente ispirata.

                Un dialogo su basi nuove. Questa visione ha ovviamente dovuto confrontarsi con molte contrarietà, degli integralismi in particolare: nazionalista, sostenuto dai regimi “laici”, musulmano e cristiano. A questo riguardo basti ricordare il ritorno al califfato (che unisce potere politico e religioso) caro ai Fratelli Musulmani e quanto scrisse l’intellettuale di riferimento degli integralisti cristiani, il libanese Charles Corm: «Fratello musulmano, ascolta il mio candore, io sono il vero Libano, autentico e devoto». Si spiega così la tradizione ancora viva per cui il patriarca maronita quando si reca in Francia viene ricevuto con gli onori riservati ai capi di Stato. Tutto questo però è stato archiviato da Giovanni Paolo II il 10 maggio del 1997, diciannovesimo del suo pontificato, con la frase citata, ispirata dal padre del nuovo dialogo, il card. Achille Silvestrini, un dialogo non più articolato tra cristiani fedeli all’Europa e musulmani depositari della cultura araba, per porre fine all’equivoco islamo-cristiano basato sullo scontro euro-arabo.

                Questa visione è stata ribadita dal sinodo per il Medio Oriente in epoca ratzingeriana. Nell’esortazione apostolica di Benedetto XVI, Ecclesia in Medio Oriente, infatti è scritto al punto 25, con esplicitato riferimento proprio alla nahda: «I cattolici del Medio Oriente, che in maggior parte sono cittadini nativi del loro Paese, hanno il dovere e il diritto di partecipare pienamente alla vita della nazione, lavorando alla costruzione della loro patria. Devono godere di piena cittadinanza e non essere trattati come cittadini o credenti inferiori. Come in passato, quando, pionieri della rinascita araba, erano parte integrante della vita culturale, economica e scientifica delle varie civiltà della regione, desiderano oggi, ancora e sempre, condividere le loro esperienze con i musulmani, fornendo il loro specifico contributo». È questa la formulazione più chiara e importante della nuova visione vaticana. Questo itinerario però aveva rischiato di incagliarsi nell’equivoco di Ratisbona del 2006, che pure ebbe la sua utilità risvegliando i riformisti dell’Islam.

                Il complesso passo falso di Ratisbona. Nella sua lezione di Ratisbona su fede e ragione, Ratzinger citò l’imperatore bizantino Emanuele Paleologo II, che vedeva nell’Islam una religione votata alla conversione forzata. È certo l’esperienza storica non gli dava torto, sebbene anche la storia bizantina, cioè dei cristiani fedeli ai concili di Calcedonia e di Efeso che definirono la duplice natura di Cristo, abbiano perseguitato i cristiani monofisiti, cioè quelli che rifiutavano la duplice natura di Gesù, definiti perciò monofisiti, come i nestoriani o i giacobiti. Erano Chiese floride, che dall’antica Persia giungevano fino in Cina e in India. Nel libro di Philip Jenkins, “La storia perduta del cristianesimo”, recentemente pubblicato dalla EMI, si può leggere quanto scrisse il giacobita Michele il Siro, che chiamava i bizantini “romani” e i musulmani “figli di Ismaele”: «Il Dio della vendetta… vedendo la malvagità dei romani che, ovunque governassero, spogliavano barbaramente le nostre chiese e i nostri monasteri e ci condannavano senza pietà, fece sorgere dalla regione del sud i figli di Ismaele, per liberarci per mezzo loro dalle mani dei romani… Non fu solo un piccolo vantaggio, per noi, essere liberati dalla crudeltà dei romani».

                La citazione di Emanuele Paologo II riguarda lui e appare assurdo che i musulmani abbiano contestato Ratzinger per una citazione correttamente attribuita a chi la fece, e se intendevano negare che oggi nell’Islam vi sia conversione forzata avrebbero fatto meglio a chiedere ai governi dei loro Paesi di eliminare la disposizione di legge che impone di convertirsi all’Islam a chiunque intenda sposare una donna musulmana. Ma Ratzinger citò un teologo musulmano che non apparteneva a nessuna delle quattro scuole teologiche islamiche, Ibn Hazm, seguace del piccolo zahirismo [scuola teologica]. Per lui Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria. Ecco dunque il punto caro al papa, il rapporto tra fede e ragione. Ma Ibn Hazm è l’autore de” Il collare della colomba”, dedicato all’amore e agli amanti. Nella prefazione alla traduzione italiana il professor Paolo Branca ha spiegato cosa fu per lui lo zahirismo e ha aggiunto una citazione sorprendente: «Era l’espressione della sua sincerità assoluta e il mezzo per sottoporre a una prova implacabile le affermazioni dei dotti e dei saggi». Parole di Roger Arnaldez, proprio lo studioso citato da Benedetto XVI. Così Paolo Branca può aggiungere: «In Ibn Hazm è impossibile trovare una sola frase o una parola minimamente sospettabili di quella ottusità che si immagina inseparabile da tutte le forme di fanatismo della lettera». Il problema forse era di metodo: metodo da Europa docente o da fratello pronto ad aiutare?

L’approccio nuovo di Francesco. La chiarezza dell’esortazione apostolica ratzingeriana ha fatto a mio avviso da bussola al pontificato di papa Francesco, pontificato fraterno, non europeo. Il suo successo è stato quello di credere che un approccio costruttivo, ottimista, fosse possibile, non tanto con i musulmani, quanto con l’Islam ufficiale, e quindi con la loro principale istituzione teologica, cioè proprio l’università di al-Azhar, sempre affidata al grande imam Ahmad al-Tayyeb. La disponibilità di Francesco è stata da subito indicata, sin dal suo viaggio Terra Santa, durante il quale rese visita al gran mufti di Gerusalemme al quale indicò la necessità prioritaria per tutti di «capire il dolore dell’altro»: parole troppo importanti per ebrei, cristiani e musulmani per essere sopravvalutate. Eravamo all’inizio del pontificato, al pellegrinaggio a Gerusalemme in cui Francesco volle portare con sé, accanto a sé, un rabbino e un imam, suoi amici dai tempi argentini. Una novità enorme e poco ricordata. Cominciò così un lavoro lungo che ha portato Ahmad al-Tayyeb a sorprendere il mondo intero con il documento del 2017 di al-Azhar, nel quale si afferma il principio della pari cittadinanza, del diritto cioè dei non musulmani ad essere cittadini non di seconda classe, come per un millennio è stato per la teologia islamica. Di lì a breve Francesco è arrivato al Cairo, ad alAzhar: una visita ufficiale sorprendente che ha aperto le porte ad un ulteriore balzo in avanti. La teologia della Chiesa in uscita, della Chiesa ospedale da campo, ha consentito infatti l’amicizia tra Francesco e al-Tayyeb, che nel 2019 hanno firmato il loro Documento congiunto sulla Fratellanza umana.

www.vatican.va/content/francesco/it/travels/2019/outside/documents/papa-francesco_20190204_documento-fratellanza-umana.html

 Forse si può dire che è in questo testo l’incontro tra fede e ragione, firmato dal papa e dal grande imam.

Riccardo Cristiano           Adista Notizie n° 1          14 gennaio 2023

www.adista.it/articolo/69301

Il silenzio di Papa Pacelli una sconfitta per la Chiesa

                L’enormità dei crimini compiuti dai nazisti fu tale da cogliere alla sprovvista anche un’istituzione millenaria come la Chiesa cattolica. Cercare di comprendere l’atteggiamento di Pio XII e i suoi silenzi sulla Shoah significa dunque «interpretare l’angoscia di uomini rimasti muti e sconcertati di fronte a questioni insolubili». Con questa considerazione l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha aperto ieri a Milano il dibattito di presentazione del libro di Andrea RiccardiLa guerra del silenzio” (Laterza), dedicato al comportamento di Papa Pacelli nel corso della Seconda guerra mondiale dinanzi alla tragedia immane dello sterminio. Un orrore così smisurato da sollevare interrogativi di natura teologica. Infatti Delpini ha citato il salmo in cui si manifesta una protesta di fronte a Dio per la distruzione di Gerusalemme.

Alla discussione, organizzata in Sala Buzzati dalla Fondazione Corriere della Sera, hanno partecipato, oltre all’autore del saggio, Ferruccio de Bortoli, lo storico Agostino Giovagnoli, il giurista Gabrio Forti, la senatrice a vita Liliana Segre. Più volte negli interventi di tutti i relatori è risuonato il termine «esagerazione». Già, perché in Vaticano durante la guerra qualcuno riteneva che gli ebrei esagerassero nel descrivere le persecuzioni di cui erano vittime. Mentre l’unica spaventosa «esagerazione» risiedeva nella portata inconcepibile di un genocidio perpetrato addirittura su scala industriale.

Il libro di Riccardi, ha osservato de Bortoli, racconta «una sconfitta del cristianesimo». E tuttavia oggi proprio la trasparenza su quegli eventi e l’ammissione del silenzio mantenuto dal Vaticano è il modo migliore per rendere merito ai tanti cristiani che prestarono soccorso agli ebrei braccati dai nazisti. Pio XII scelse la prudenza nell’illusione di svolgere una funzione mediatrice tra le parti in conflitto e per timore di aggravare la condizione dei perseguitati con una presa di posizione esplicita, ma viene da chiedersi che cosa sarebbe successo se avesse minacciato di stendersi sui binari davanti al treno che portava verso la morte gli ebrei catturati dalle SS durante la razzia nel ghetto di Roma del 16 ottobre 1943.

La chiave per comprendere quell’atteggiamento, ha sostenuto Giovagnoli, va ricercata nell’idea che la Santa Sede dovesse preservare la sua tradizionale «imparzialità» rispetto alle parti in conflitto, quella stessa posizione a cui si era attenuto Benedetto XV durante il primo conflitto mondiale. Solo che dinanzi alle dimensioni delle atrocità perpetrate dal Terzo Reich, di cui Pio XII era ben informato già dal 1941, il criterio dell’imparzialità finì per trasformarsi in una gabbia, dalla quale il Pontefice non riuscì ad uscire nemmeno dopo la fine della guerra.

Il problema che si poneva, ha sottolineato Forti, era cogliere la «salienza morale» di una situazione senza precedenti, che tra l’altro vedeva in azione molti carnefici battezzati, che a volte frequentavano le chiese. Pochi furono i cristiani che avvertirono la contraddizione tra la loro fede e le direttive che giungevano dal regime hitleriano. Così anche nella Santa Sede prevalse la tesi che si dovesse scegliere il male minore, anche per paura che si potesse arrivare alla deportazione del Papa. D’altronde, ha notato Forti, è un comportamento tipico degli esseri umani cercare di normalizzare l’inimmaginabile quando lo s’incontra, rifiutarsi di vedere il male in tutta la sua profondità.

Una scelta del genere però lascia il segno. Lo ha testimoniato Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, raccontando dell’udienza privata che ebbe dopo la guerra con Pio XII grazie a suo zio Dario Agostino Foligno, convertito al cattolicesimo e avvocato presso la Sacra Rota. «Mi colpì — ha ricordato la senatrice a vita — lo sguardo del Papa. I suoi occhi erano straordinari. Davano l’impressione di vedere oltre la realtà sensibile, ma esprimevano anche una forte inquietudine, una sofferenza interiore. Era un uomo assolutamente tormentato». Era insomma consapevole di quanto il suo silenzio avesse pesato. E forse per questo quando Liliana Segre s’inginocchiò davanti a lui, Papa Pacelli le disse che di fronte a lei si sarebbe dovuto inginocchiare lui.

D’altronde il silenzio di Pio XII, ha sottolineato Riccardi, prima degli ebrei aveva riguardato i polacchi cattolici, sottoposti dai tedeschi a una occupazione militare spietata. C’erano però anche i cristiani che subivano il fascino del Terzo Reich, o che si allearono con Hitler. E in Vaticano alcuni s’illudevano che ci fossero nazisti buoni, con i quali era possibile dialogare. Non capirono che si era di fronte a un fenomeno che usciva dalle categorie ordinarie. È la stessa cecità, ha concluso Riccardi, che oggi constatiamo rispetto alla guerra in Ucraina, che è un nuovo grave fallimento dell’Europa e anche del cristianesimo.

Antonio Carioti                “Corriere della Sera”     13 gennaio 2023

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Milano 2. Incontri sul tema della fertilità e fecondità di coppia

Imparare ad amare un ciclo di tre incontri gratuiti sul tema della fertilità e fecondità di coppia che si svolgeranno in presenza e on line venerdì 13, venerdì 20 e venerdì 27 gennaio 2023 alle ore 21.00 presso il nostro consultorio familiare “Genitori Oggi”, via della Commenda, 12 – 20122 Milano, tel.  02 541202241

Gli incontri, rivolti in modo particolare alle coppie di fidanzati che si preparano al matrimonio e ai giovani sposi, saranno tenuti dalla dr.ssa Maria Emilia Boerci, ginecologa e Presidente Confederazione Italiana dei Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità.

  • Nati per amore … e per amare
  • Il linguaggio del corpo
  •  I moderni Metodi Naturali

Il consultorio offre alle donne e/o alle coppie un sostegno psicologico durante la gravidanza, nel puerperio e nel post parto. Lo staff del consultorio è composto da psicologhe psicoterapeute che lavorano in collaborazione con il personale sanitario ospedaliero della clinica Mangiagalli. Tra i servizi offerti, segnaliamo i colloqui clinici, percorsi di psicoterapia e consulenza durante la prima infanzia.

 Perchè lo psicologo? La gravidanza, il parto e il post partum costituiscono una fase ricca di emozioni, di tonalità̀ anche molto diverse tra loro: gioia, eccitazione, tranquillità̀, ansia, tristezza e paura. Le attese e i timori che emergono potrebbero anche suscitare uno stato di crisi più o meno profondo, più o meno fisiologico. Momento potenziale di cambiamento, in questa fase è importante ricevere aiuto

Servizi offerti

• Colloquio clinico alle neomamme, ai neopapà̀ o alla coppia

• Percorsi di psicoterapia individuale, di coppia e familiare

• Consulenza durante la prima infanzia

• Percorsi di elaborazione del trauma da parto

• Percorsi di gruppo sulla transizione alla paternità̀ e alla maternità̀

• Gruppi di preparazione al parto con potenziamento delle risorse personali

• Osservazione clinica delle interazioni genitore-bambino da 0 a 3 anni

        Con quale obiettivo?

Fornire a tutte le donne e/o coppie che sono in gravidanza o che hanno partorito la possibilità di uno spazio di ascolto professionale, di attenzione, di confronto e di riflessione. Ogni persona, ogni coppia, ha una propria storia, ogni gravidanza ha un suo percorso: nodi rimasti in sospeso nella propria vita vengono toccati, modificati, sciolti o talvolta resi più complessi dal ruolo genitoriale

        Quando?

Chi lo desidera potrà̀ incontrare le psicologhe durante la gravidanza, nel corso della degenza in puerperio o nel periodo successivo alla dimissione

Equipe clinica: È composta da psicologhe psicoterapeute in collaborazione con il personale sanitario ospedaliero e con gli operatori del consultorio “Genitori Oggi”

dott.ssa M. Caterina Cattaneo • dott.ssa Sara Roveraro • dott.ssa Valentina Chiorino • dott.ssa Roberta Salerno

Come contattare il consultorio

  • Durante la degenza: le psicologhe, presenti in reparto dal lunedì̀ al venerdì̀, saranno contattabili attraverso il personale sanitario del reparto nido e puerperio della Clinica Mangiagalli
  • Durante la gravidanza o dopo la dimissione, presso la sede distaccata del consultorio “Genitori Oggi”, collocata al 3° piano – scala B – della Clinica Mangiagalli, attraverso i contatti riportati

Consultorio Familiare “Genitori Oggi”                 info@genitorioggi.it                   www.genitorioggi.it

DALLA NAVATA

2° Domenica del tempo ordinario – Anno A

Isaia                      49, 06. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra.

Salmo                   19, 10. Ho annunciato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi: non tengo chiuse le labbra,

                               Signore, tu lo sai.

Paolo 1Corinzi 01,01. Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!

Giovanni             01, 29. Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».

Commento

…là dove si dice che il Verbo era presso Dio ed era Dio. Questa dottrina della preesistenza di Gesù in quanto

Dio ab æterno si presta, lasciando intatto il nocciolo della questione teorica ad una riflessione estremamente

 congiunta alla nostra esperienza storica e al discorso sulla salvezza. Noi sbaglieremmo se, ostinandoci a

 collocarci al centro del disegno di Dio, noi che abbiamo avuto fede in Cristo, allargassimo i nostri sguardi ai

 popoli e agli individui con la pretesa che essi saranno salvi nella misura in cui accetteranno il nostro messaggio,

 come se cioè la salvezza venisse dall’esterno, da una proposta fatta da noi. Nemmeno Gesù presumeva questo.

 Egli si recava tra la gente non per dire: «Vi porto il regno di Dio», ma per dire: «Il regno di Dio è già in mezzo a

 voi. è tra voi.. ». C’è dunque una preesistenza del Cristo in tutti gli uomini a cui poniamo poco mente perché ci

 fa schermo una presunzione che non muore mai, che è dura a morire come il nostro io. È la presunzione di

 collocarci al Centro del mondo, mentre al centro del mondo — ecco qual è la verità umanissima e insieme divina

 di questa affermazione — c’è l’intenzione di Dio, che era prima che l’uomo fosse, che afferra l’uomo e le

 creature tutte alla radice del loro essere. C’è quindi una salvezza che coincide con l’atto stesso della creazione,

 che sale dal profondo di tutte le creature e non solo come aspirazione ma come motivo di azione. C’è una storia

 recondita dell’umanità che è storia di salvezza e noi non possiamo metterci al centro. Ecco dove spesso i profeti

 peccano di indulgenza verso gli impulsi etnocentrici, come quei profeti che sembrano fare di Israele il popolo

 salvatore del mondo. Non ci sono popoli salvatori. A rigore non ci sono nemmeno salvatori, perché il salvatore

 è il Dio che ci ha creato. Gesù è venuto come esegeta di questa salvezza immanente a tutte le creature. Tutte

 le creature portano in sé questo amato. Mi viene in mente quella straordinaria, altissima esperienza spirituale

 vissuta da Francesco d’Assisi quando, nello scrivere la sua Regola, aveva concentrato la sua visione del mondo

 attorno alla croce di Gesù Cristo per cantare un Cantico delle creature al cui centro c’era però la croce di Gesù

 Cristo, con la conseguenza che senza guardare a quella croce non c’era salvezza.

p. Ernesto Balducci         Da “Gli ultimi tempi” vol.1 anno A

www.fondazionebalducci.com/15-gennaio-2023-ii-domenica-tempo-ordinario

DIALOGHI

La vergogna del corpo: una bestemmia millenaria?

[…] Le discipline e le norme emesse dall’istituzione romana, dalla legge multisecolare del celibato alla promulgazione ben più recente di Humanæ Vitæ (25 luglio 1968), richiedono certo uno sguardo critico e meritano di essere messe in discussione. Ma ciò che raggiunge un tutt’altro livello di gravità e che è davvero in gioco è la repulsione del corpo, una delle espressioni più funeste dello scisma compiuto dal cristianesimo rispetto alla sua fonte ebraica.

Considerare il matrimonio “un rimedio contro i desideri della carne” è una delle perdite di senso imputabili alla corrente del cristianesimo nascente che ha preso il sopravvento sugli altri modi di intendere dei primi secoli. Edificando un potere religioso assolutista nel corpus di insegnamento si consacrava, come fondamentale affermazione, la separazione dello spirito e della carne, dello spirito che eleva e della carne che corrompe. L’assimilazione della carne al peccato e la riduzione della carne alla concupiscenza hanno un enorme peso oggi nella Chiesa romana. In questo ambito, nulla è cambiato per millenni nella concezione del corpo da parte del pensiero e dei discorsi del clero cattolico. Da un lato la purezza del chierico astinente, della verginità celebrata fino allo sfinimento, e dall’altro l’impurità intrinseca della sessualità umana.

“Tutto è grazia”. Che nell’opera di Dio tutto sia grazia fa sì che siano superate le nozioni di puro e impuro – che possono essere ridotte ad errori o compiacenze di traduzione che nel memoriale li hanno gravati delle esclusioni attribuite da millenni alla parola e ai diktat del divino. E tanto più profondamente, senza dubbio, perché si trattava di una contraddizione in termini delle rappresentazioni formatesi nel cervello arcaico della nostra specie (per esempio l’ambivalenza del sangue – immagine di una sazietà/segno di morte). E capaci di penetrare nella maniera umana di intendere. Se Dio non ha creato nulla di impuro, viene abolito di conseguenza il dualismo dello spirito che eleva e della carne che abbassa, che fa avvizzire e degrada. Un contrasto nato da deviazioni dall’insondabile profondità delle fonti bibliche. Che invece distinguono solo ciò che è santo, giusto e buono e i loro contrari (indipendentemente dal loro riferimento alla purità, concetto che compare in particolare nelle traduzioni in uso presso gli ebrei ortodossi).

Nelle presentazioni del puro e dell’impuro si è radicata dall’oscurità dei tempi e fino al nostro una denuncia del corpo. Un’avversione globale a ciò che il corpo è, o una repulsione contro qualche componente della sua morfologia o della sua fisiologia, o contro qualcuno dei modi di esistere e di rapportarsi alla vita che gli è stato dato. E la ripugnanza è stata compulsivamente diretta sul corpo delle donne, a causa dell’attrazione o dell’incantesimo che l’organico e l’intimo di quel corpo esercitano sulle rappresentazioni istintive dell’impurità. Con un eccesso di ossessioni che alimentano senza fine il disprezzo e il disgusto per il corpo femminile.

Il paradosso cristiano. Che la religione cristiana abbia condiviso queste repulsioni e queste denunce del corpo, che le abbia fatte sue – sia che le abbia riprese, all’origine, dai culti (culto di Cibele) che lo circondavano e le abbia integrate, sia che, in seguito, si sia dedicato, attraverso i suoi chierici e i suoi insegnamenti, ad aggravarle e a renderle più oppressive e mortificanti – costituisce di per sé il paradosso più estremo che si possa intravedere. Perché questa degradazione del corpo appartiene ad una spiritualità che nasce nell’idea di incarnazione, in tutte le forme e gli episodi di questa incarnazione (1) – fino alla resurrezione del corpo che conclude e convalida allora tutte le resurrezioni dei corpi già presentite.

Rileggere la Genesi in compagnia di un rabbino o di qualche ebreo ingegnoso. Ecco un paradosso cristiano che produce un confronto esemplare con l’ebraismo: opponendo, da un lato, la prescrizione enunciata nel Medio Evo dal clero cattolico che decretava che, per gli sposi, la ricerca del piacere nell’atto carnale coniugale è un peccato peggiore dell’adulterio; e dall’altro, la risposta di un rabbino alla domanda che gli era posta per sapere se lo stesso atto carnale fosse autorizzato nel giorno dello Shabbat e che, affermativa, dice: a condizione che quel giorno lo sposo dia ancora più piacere a sua moglie.

Per superare il tempo della storia, o ciò che potrebbe passare per un aneddoto (ma nulla è aneddotico nell’ebraismo se non per chi non ricordasse che tutto costituisce senso), l’Incarnazione deve essere considerata alla sorgente: nella Genesi che, con una pedagogia forte, descrive il percorso della creazione dell’Adam in una allegoria che magnifica il dono della sessualità alla creatura umana. Mettendo in scena un Creatore che non si mostra più troppo sicuro di aver fatto la scelta giusta creando Adam uomo e donna insieme (la Genesi, per farsi comprendere bene, lo scrive due volte di seguito: “uomo e donna fu creato”). E che propone quindi ad Adam di farlo entrare nella condivisione della riproduzione sessuata dove un gran numero di specie lo hanno preceduto.

Offrendogli così la grazia di quella sessualità, la grazia che completa la sua venuta al mondo attraverso l’opera della mano di Dio: la sua nascita in una donna e in un uomo distinti, e chiamati ad unirsi dall’amore in cui risiede lo spirito della creazione nella sua interezza.

Un racconto ebraico, che aggiunge alla Genesi un commento, o un midrash, in forma di fumetto, ha immaginato che Dio vuole chiarire la sua proposta facendo sfilare davanti all’Adam una coppia per ogni specie che si accoppierà davanti a lui. Terminata questa processione, Dio interroga Adam. Il quale si dice felice di diventare un uomo e una donna che avranno insieme la relazione che si è attuata molteplici volte davanti ai suoi occhi. Ma con questa richiesta: “In tutte queste specie, il maschio si unisce alla femmina ponendosi dietro di lei. Ma io vorrei che la mia compagna ed io ci unissimo faccia a faccia per poterci guardare”. Un faccia a faccia che tornerà nella Bibbia, fino al riconoscimento, davanti alla tomba vuota, del Cristo risorto da parte di Maria di Magdala. Ci si rappresenterà facilmente che questa aggiunta alla Genesi, che nasce dallo stesso spirito, descrive l’istituzione dell’amore umano, compimento della creazione di un Adam sessuato.

Apparentemente, si è lontani, qui […] dal contesto di dibattiti, come quelli sul celibato dei preti, sull’esclusione delle donne dai ministeri ordinati, o sulla proibizione della contraccezione artificiale – cioè da una somma di non-sensi a cui è urgente porre fine per cercare di recuperare un tempo interminabilmente perduto a scapito del servizio dei nostri fratelli e delle nostre sorelle umani. Ma forse, ad una revisione radicale può contribuire il sostenere l’idea che la vergogna del corpo è sempre un oltraggio al Creatore di questo corpo. Alla grazia che vi ha incarnato la vita e l’amore.

  • La definizione di parti vergognose, come ha potuto resistere alla refutazione ebraica enunciata nella prescrizione della circoncisione? Prescrizione che inscrive l’Alleanza del “Popolo eletto” con Dio nella carne del pene, reiterando con lo stesso gesto la sacralizzazione della sessualizzazione dell’amore.

Didier Levy α1964  “www.garriguesetsentiers.org” 3 gennaio 2023 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230111levy.pdf

ECCLESOLOGIA

Riccardi: «È la fine della Chiesa o l’inizio di un modo nuovo di vivere il cristianesimo?»

intervista a Andrea Riccardi, a cura di Gaétan Supertino

 (α1950)

“La Chiesa brucia”, allerta Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, nel giorno dell’Epifania. In un’intervista a Le Monde, confida tuttavia il suo ottimismo e invita i cattolici a “liberarsi dalla loro sensazione di declino”

Andrea Riccardi è uno dei principali fondatori di Sant’Egidio, una comunità di laici cattolici, nota, tra l’altro, per il suo ruolo di mediazione in diversi conflitti internazionali. In un libro dal titolo evocatore, L’Eglise brûle (La Chiesa brucia?, in francese senza punto interrogativo), questo storico analizza la crisi che vive attualmente il cattolicesimo e offre ragioni per restare ottimisti.

Il titolo del suo libro fa riferimento all’incendio di Notre-Dame di Parigi. Secondo lei, vi si può vedere una metafora della Chiesa. Che cosa intende con questo?

Quell’incendio mi ha portato a chiedermi perché tutta la nostra Chiesa stia bruciando, ossia declinando. La Chiesa continua a parlare di evangelizzazione eppure i cattolici sono sempre meno numerosi, almeno in Europa. La prima causa, a mio parere, è la trasmissione tra generazioni: il cattolicesimo non circola più nelle famiglie. L’esodo rurale, nel XX secolo, ha influito molto, perché le campagne erano la culla della Chiesa. Questo si è inscritto in un fenomeno sociale molto profondo, segnato dal prevalere dell’individualismo che rompe ogni idea di comunità.

Ma ci sono anche cause interne alla Chiesa, come la crisi delle vocazioni – il “mestiere” di prete non attira più – o le diseguaglianze tra le donne e gli uomini nell’accesso ai posti di responsabilità.

Di fronte a tutti questi problemi, mi sono chiesto: è la fine della Chiesa o l’inizio di un nuovo modo di vivere il cristianesimo? Vediamo aumentare il potere di comunità perfettamente adattate alla nostra epoca, alla mondializzazione o alla società dei consumi, come il neo-evangelismo o il neopentecostalismo. La grande sfida della Chiesa è trovare il proprio posto di fronte a queste religioni basate sull’emozione e sul successo economico, senza rinnegare se stessa.

Il suo libro presenta un messaggio ottimista per il cattolicesimo. Ma secondo lei bisogna pensare a un modo nuovo di vivere la Chiesa. Che cosa significa concretamente?

Abbiamo innanzitutto bisogno di essere coerenti. Prendiamo il problema delle donne, che è fondamentale. Senza arrivare a parlare dell’accesso al presbiterato, bisogna far uscire le donne dall’isolamento che vivono all’interno dell’istituzione. Devono poter partecipare al destino della Chiesa su un piano di parità con gli uomini. Bisogna affidare loro delle responsabilità ufficiali nelle parrocchie, fare in modo che possano prendere parte alle decisioni più importanti della Chiesa. Le cose cominciano a muoversi, in particolare in Francia e in Germania. Ma bisogna andare molto più avanti in questo senso.

Prendiamo l’esempio del presbiterato. I preti sono sempre meno numerosi, e che cosa significa la Chiesa cattolica senza il ministero sacerdotale e senza la celebrazione dell’eucaristia? Non è più la Chiesa cattolica, è un’altra cosa. Dobbiamo immaginare altri percorsi per arrivare al presbiterato. Perché non l’ordinazione di uomini sposati? È una possibilità.

Ma la prima riforma da fare, a mio avviso, è quella della visione che abbiamo della nostra comunità: bisogna che ci liberiamo dalla nostra sensazione di declino. I cristiani non si possono definire un gruppo di donne e di uomini che vanno a pregare in chiesa. Sono persone che offrono l’esempio di un modo diverso di vivere e di concepire la società, ad esempio ponendo i poveri al centro. Dobbiamo offrire un “immaginario alternativo”. La Chiesa è sempre stata un laboratorio di nuove visioni e di nuovi immaginari. E può esserlo anche oggi.

Lo ha detto anche lei: oggi esistono numerosi modi diversi di essere cristiani. Perché è così importante salvare la Chiesa cattolica?

Oggi c’è un’immensa pluralità di esperienze, è vero. Penso appunto che la Chiesa cattolica offra un equilibrio prezioso tra prossimità – ogni parrocchia è diversa e innovativa alla sua maniera – e universalità – con una visione globale, una tradizione condivisa, una continuità attraverso la storia.

La Chiesa cattolica mantiene anche un rapporto particolare con la pace. Non si riduce ad una nazione, ad una etnia o a un partito politico. Anche se non sempre ci riesce, questo le permette di avere come obiettivo l’unità tra i popoli. In Africa, ad esempio, la tendenza neo-protestante è invece più frammentata e quindi più facile da manipolare dal potere politico.

La Chiesa cattolica oggi è scossa dagli scandali sessuali. Riuscirà ad essere credibile, se non risolve questo problema?

Penso che quello sia davvero “il” problema da risolvere, se no esso agirà come un veleno che risorgerà ogni volta che cercheremo di parlare d’altro. Ma penso che purtroppo questo richiederà anni. Ci sono però anche altri temi urgenti. La povertà continua a colpire ovunque sul pianeta, la crisi climatica si annuncia sempre più violenta, molti paesi sono in guerra… In questo contesto difficile, la Chiesa deve poter portare un messaggio di speranza.

La crisi degli abusi sessuali rivela anche certe faglie della Chiesa. Il rapporto Sauvé punta il dito, tra altre cose, sull’eccesso di potere dei preti. Lei cosa ne pensa?

A lungo la Chiesa ha sviluppato una concezione di potere maschile e clericale: bisogna uscire da questa trappola ereditata dal passato. Oggi i preti sono insieme pieni di poteri – nella gerarchia della Chiesa – e spesso impotenti davanti alla loro comunità. Invecchiano e si sentono sempre più emarginati dalla storia.

Dobbiamo cambiare ed evolvere verso una nuova condivisione comunitaria delle responsabilità, nella quale il prete abbia il suo ruolo come i laici, donne e uomini. Il processo sinodale avviato attualmente da papa Francesco su scala mondiale deve permettere di rigenerare in questo senso la vita della Chiesa.

In questo processo, i più innovatori sembrano essere i vescovi tedeschi. Ma sono molto criticati, in particolare in Vaticano, dove sono accusati di esporre i cattolici ad un rischio di scisma. Pensa davvero che la Chiesa sia capace di riformarsi?

La Chiesa cattolica è una grande comunità e i processi di cambiamento sono sempre stati troppo lunghi, ancor più quando si parte dalle realtà locali. Se le riforme fossero imposte dall’alto, le cose andrebbero molto più in fretta, ma non sarebbero ricevute positivamente. Il papa ha voluto un processo che parta dalla base, dal terreno. Non sarà cosa di un giorno. Probabilmente ci occuperà per i prossimi decenni. Si pensa sempre che la Chiesa sia una struttura molto autoritaria. Ma in realtà essa ha una opinione pubblica molto importante, rafforzata oggi dalle reti sociali. Molti cattolici prendono posizione in pubblico e si mettono in contatto tra loro. Ora si tratta di arrivare a un consenso. Sarà una cosa molto lunga, ma sono ottimista.

In Africa, dove il papa si recherà alla fine di gennaio – nel Sud Sudan e nella Repubblica democratica del Congo (RDC) – la Chiesa è ancora molto dinamica. Continua a reclutare fedeli e preti, alcuni dei quali vengono inviati in Europa. Il futuro della Chiesa si gioca in quel continente?

A lungo si è detto che il futuro della Chiesa si giocava in America Latina. Prima si parlava di Europa. Credo che non ci sia una terra promessa per la Chiesa. Invece penso che la Chiesa abbia un ruolo molto importante da svolgere in Africa e che il cattolicesimo africano sia effettivamente molto ricco. Nelle RDC per esempio la Chiesa attua riti molto innovativi, c’è un’università cattolica molto dinamica, molti intellettuali, ma anche azioni sociali e di mediazione che vengono attuate su iniziativa di cattolici, ecc. Non sono scioccato per il fatto che dei preti africani vengano in Europa, al contrario. Devono venire come missionari, testimoniare la loro fede e condividere le loro esperienze. L’Africa è un laboratorio del futuro del mondo. I problemi del rapporto con l’islam o con i neo-protestanti e quelli legati alla guerra, si pongono in Africa in maniera molto viva e la Chiesa è in prima linea di fronte a queste sfide. Dobbiamo concluderne che il prossimo papa sarà africano? Non lo so. Ma, dopo tutto,

perché no?

La comunità di Sant’Egidio, fondata nel 1968, si è distinta per i suoi successi diplomatici. Secondo lei, la Chiesa deve coinvolgersi maggiormente nelle relazioni internazionali?

Nella sua storia recente, la Chiesa non ha mai avuto un grande peso nella diplomazia. Pensiamo alla prudenza di Pio XII durante la seconda guerra mondiale o ai papi prigionieri di Napoleone. Il solo sovrano pontefice del XX secolo che abbia avuto davvero un peso diplomatico è stato Giovanni Paolo II, che è stato un interlocutore politicamente importante alla fine della guerra fredda. Tuttavia, la Chiesa dispone ancora di un’influenza morale molto importante. Papa Francesco è sempre molto ascoltato, anche da non cristiani.

Se vogliamo lottare per la pace, credo effettivamente che dobbiamo investire di più nella diplomazia, non fosse che sul piano intellettuale. In un certo modo, papa Francesco crede alle relazioni internazionali. Desidera incontrare i capi di Stato, ha perfino potuto svolgere un ruolo, in Siria, ad esempio, quando si è opposto ad un intervento americano.

Ma ci sarà sempre un limite. Quando Roosevelt diceva a Stalin:Il papa vuole questo, o quello”, Stalin rispondeva: “Di quante divisioni dispone?”. Il papa non ha esercito e questo conta nelle relazioni internazionali!

Gaétan Supertino           Le Monde” 9 gennaio 2023 (traduzione di fine settimana)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230108riccardisupertino.pdf

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Lo scudo di Bergoglio

«Papa Francesco non è solo». Sono numerosi gli alti prelati – della Curia romana, del Collegio cardinalizio e del panorama episcopale – che in questi giorni di tensioni e veleni contro il Vescovo di Roma gli garantiscono «piena e indissolubile fedeltà. A lui, al suo magistero e ai capisaldi del pontificato». E alla missione che predica e indica, come spiega un cardinale: «La Chiesa di Francesco è aperta a tutti, nessuno escluso. Tutti sono invitati, ricchi e poveri, vicini e lontani, qualunque sia la condizione di vita di ognuno. È la Chiesa della misericordia che non alza ponti levatoi».

La grande sfida di Francesco è rappresentata dal Sinodo sulla sinodalità in programma fino al 2024, pensato per rendere la Chiesa più pronta all’ascolto della gente, anche fuori dal recinto cattolico, a dare responsabilità ai laici e alle donne, a rapportarsi con il mondo e la contemporaneità. L’Assise è fumo negli occhi per la galassia tradizionalista.

 Attorno a questo programma – e alla persona del Papa – si schierano in un fronte comune prelati di tutto il pianeta.

Innanzitutto, l’asse di Francesco con il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin è saldo. Poi tra i fedelissimi è annoverato il cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi. Ci sono i due porporati mandati a portare la vicinanza del Papa alla popolazione ucraina sotto le bombe russe: il fido Elemosiniere Konrad Krajewski, e Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale. Un nome fortissimo è il presidente della Conferenza episcopale italiana, l‘arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi: è in totale sintonia con Bergoglio, allo stesso tempo è molto apprezzato anche per le sue capacità di dialogo con tutte le correnti ecclesiali. Altra figura preziosa alla causa è il cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente delle Conferenze episcopali d’Europa.

 C’è monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Poi Marcello Semeraro, Óscar Rodríguez Maradiaga, Claudio Gugerotti, José Tolentino de Mendonca. Monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica. Padre Enzo Fortunato, uno dei volti più noti del francescanesimo. Il laico Paolo Ruffini, prefetto della Comunicazione.

Un ruolo teologico cruciale lo ricopre l’arcivescovo di Vienna cardinale Christoph Schönborn, allievo di Joseph Ratzinger. Negli Usa Wilton Gregory, Washington; Joseph Tobin, Newark; Blase Cupich, Chicago; Robert McElroy, San Diego.

E c’è la base. Per esempio, una lettera aperta è stata diffusa per invitare monsignor Georg Gaenswein a bloccare la pubblicazione del libro che ha già scatenato polemiche. L’ha scritta un prete della diocesi di Bergamo, don Alberto Varinelli, il cui appello è stato condiviso sui social da diversi sacerdoti: «Quel testo è molto atteso dalle frange ostili al papa, e se vi saranno attacchi a Francesco farà molto male all’unità della Chiesa».

Nel frattempo, un presule che ha incontrato il Papa in queste ore assicura di averlo visto «tranquillo, a parte il lutto per Benedetto XVI. È pronto a tirare dritto senza farsi condizionare dalle offensive strumentali». Il Pontefice riprende gli appuntamenti istituzionali e normali della sua agenda, a cominciare da stamattina, con il discorso al corpo diplomatico. Il 31 gennaio partirà per il viaggio in Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan.

E nel frattempo ha attuato una mossa che ha sparigliato le carte, con l’intento di stemperare gli animi: ha ricevuto a sorpresa il vescovo emerito di Hong Kong, il cardinale conservatore Joseph Zen, tra i più aspri critici di Francesco. Zen ha parlato di un colloquio «cordiale e amichevole».

Domenico Agasso           “La Stampa”       9 gennaio 2023

www.lastampa.it/vatican-insider/2023/01/09/news/lo_scudo_di_bergoglio-12454303

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230109agasso1.pdf

Vito Mancuso: “Ora la sfida di Francesco è l’apertura alle donne”

  Benedetto e Francesco: “Due Papi di grande spiritualità e anche di grande convinzione di sé. E come tutti coloro che possiedono un carisma particolarmente intenso, capaci di suscitare entusiasmi e opposizioni”, osserva il teologo Vito Mancuso. La scomparsa di Joseph Ratzinger tuttavia non porterà sconvolgimenti nel pontificato di Bergoglio e nella vita della Chiesa: “Credo che ora l’unica novità sia la possibilità che Papa Francesco effettivamente si dimetta, qualora non senta più di avere le forze per sostenere il suo servizio – aggiunge –. Non avrebbe potuto farlo prima, perché si sarebbe creata la compresenza di tre Papi. Se e quando Papa Francesco avrà intenzione di compiere questo passo, come ha fatto intendere, non avrà più motivi di ostacolo”.

                Pensa che potrà farlo realmente?

“Sinceramente mi auguro che non si dimetta, che stia bene e che prosegua il suo cammino nella Chiesa, anche per condurre in porto alcune riforme da tempo desiderate e attese”.

                Per esempio?

“Dare più spazio alle donne nella Chiesa. Proprio di recente ha annunciato che entro due anni ci sarà una donna a capo di un dicastero. Ha detto che ‘nulla impedisce a una donna di dirigere un dicastero in cui un laico possa essere prefetto’. Mi auguro che questo avvenga davvero”.

                La presenza del Papa emerito ha influito sul papato di Francesco?

“No. In questi nove anni Benedetto XVI ha tenuto un profilo di enorme discrezione e signorilità, pur avendo una personalità teologica e spirituale di altissimo livello. Da parte sua, Papa Francesco non è certo facilmente influenzabile: ha carattere da condottiero, sicuro della sua vita. Penso tuttavia che Papa Ratzinger avrebbe dovuto andare fino in fondo con le sue dimissioni”.

Ovvero?

Non vestirsi più di bianco e non chiamarsi più Papa, per non creare confusione e disorientamento. Il papato non è uno status, ma un ministero, un servizio che si assume: quando si lascia questo ‘munus’, questo ‘ufficio’, si devono abbandonare anche i segni che lo denotano. Certamente Papa Ratzinger sarebbe rimasto sempre vescovo, poteva essere insignito di una diocesi, ma la definizione di Papa emerito non mi ha mai convinto. E, come sappiamo, si è prestata anche a strumentalizzazioni da parte di frange estremiste o tradizionaliste“.

Qual è la cifra dei due papati?

“Papa Benedetto non ha mai cessato di essere un teologo: la sua forma mentis è stata sempre storica sistematica. Le sue splendide catechesi erano sempre rivolte al passato e, sia chiaro, non è un giudizio negativo: nella Chiesa cattolica lo sguardo verso la tradizione è costitutivo. Questo ha portato a sentire il pontificato di Benedetto come conservatore. Papa Bergoglio, al contrario, è caratterizzato dal guardare avanti, al presente: è stato il primo Papa a dedicare un’enciclica all’ecologia, si occupa di questioni sociali, la guerra, i poveri, le sofferenze. Il suo è un papato sociale e profetico, quello di Benedetto è stato teologico e mistico”.

Ma su tante riforme, Papa Francesco ha incontrato resistenze

“Anche Giovanni XXIII dovette fronteggiare resistenze quando decise di indire il Concilio. E accadde pure a Paolo VI nel post Concilio. Tutto questo fa parte dell’arte del governo. Certo, il governo della Chiesa, che è chiamata all’unità, è ancora più impegnativo: l’arte di un Pontefice è di creare il maggior consenso sulle sue riforme. Il Papa è come un direttore d’orchestra o il capo di un esercito: non può avere contrari il suo stato maggiore o i principali collaboratori”.

E ancora evidentemente ci sono difficoltà?

“Certe resistenze che hanno accompagnato Papa Benedetto sono ancora presenti per Papa Francesco. Ed è un dato di fatto che la situazione della Chiesa è ancora profondamente divisa”.  

Vito Mancuso   Quotidiano Nazionale   1° gennaio 2023 

www.quotidiano.net/cronaca/chiesa-donne-1.8425687

LITURGIA

Maria Montessori. Baldacci: “Ci ha insegnato che il bambino ha una capacità spirituale innata”

Abbiamo chiesto alla teologa e biblista Morena Baldacci di spiegarci l’attualità del libro di Maria MontessoriLa Santa Messa spiegata ai bambini“, uno dei doni offerti ieri dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a Papa Francesco.

 [α1870 –  ω1952]  “Ci ha ricordato che nel patrimonio italiano abbiamo anche questo grande dono, grazie a Maria Montessori: considerare l’educazione religiosa del bambino come parte dell’educazione dell’umano”.

   Morena Baldacci, docente alla Pontificia Università Salesiana di Torino, commenta così al Sir uno dei doni offerti ieri dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a Papa Francesco, nella sua prima udienza in Vaticano in veste di premier. Si tratta del libro di Maria Montessori “La Santa Messa spiegata ai bambini”, del 1955. Già nel suo discorso di insediamento alla Camera, Giorgia Meloni aveva citato Maria Montessori tra le donne che “hanno costruito con le assi del proprio esempio la scala che oggi consente a me di salire e rompere il pesante tetto di cristallo posto sulle nostre teste. Donne che hanno osato, per impeto, per ragione, o per amore”. Ne abbiamo parlato con la teologa e biblista.

                Perché è importante oggi riscoprire questo libro di Maria Montessori e come si colloca all’interno del complesso della sua opera?

                Si tratta di un testo non molto conosciuto e che fa parte di una serie di testi di Maria Montessori dedicati al tema dell’educazione religiosa del bambino. Dopo aver avviato la ricerca e la sperimentazione della sua pedagogia scientifica, che è il tema principale della sua riflessione, Maria Montessori ha poi applicato il metodo pedagogico anche alla dimensione religiosa del bambino. A questo proposito, vorrei sottolineare l’assoluta novità e genialità della trattazione di un tema all’epoca totalmente sconosciuto.

                Oggi siamo abituati a rivolgerci al bambino come soggetto attivo, ma all’inizio del Novecento era qualcosa del tutto impensabile, sia dal punto di vista della pedagogia generale montessoriana che da quello della pedagogia applicata all’esperienza religiosa.

                In una fase di maturità del suo metodo scientifico, Maria Montessori ha scelto di applicarlo anche alla dimensione religiosa del bambino. La prospettiva fino ad allora inedita è quella di considerare il bambino come già predisposto ad una sorta di apertura al dialogo con Dio. Per Maria Montessori, in altre parole, il bambino ha una sua capacità spirituale innata. Oltre al libro citato, ha scritto diversi libri di pedagogia religiosa relativi all’anno liturgico, a testimonianza di un metodo che secondo lei poteva essere applicato già dalla primissima scuola dell’infanzia.

                Che cosa significa, per Maria Montessori, una Messa a misura di bambino?

                Vuol dire mettere in atto una vera e propria sperimentazione degli elementi propri della liturgia. La preparazione dell’altare, gli oggetti, gli spazi, i luoghi liturgici, tutta la scena rituale della Messa viene ridotta in scala, aspetto tipico di tutta la pedagogia montessoriana. Ai bambini viene proposto un vero e proprio contatto con il calice, la patena, le ostie… L’intento è quello di far toccare ai bambini gli oggetti propri della celebrazione, affinché i bambini stessi possano essere aiutati a partecipare ad essa, secondo le modalità che più si adattano a loro.

Quali elementi della pedagogia montessoriana, riferiti all’ambito liturgico, sono a suo avviso ancora validi per l’oggi?

                Innanzitutto l’attenzione all’umano e alla crescita dell’umano. Quella di Maria Montessori è una dimensione pedagogica basata sul fatto che uomini si diventa attraverso un esercizio di cura dell’umano, fin dalla più tenera età.

                L’altro cardine della pedagogia montessoriana, riferita a questo ambito, è la spiritualità dell’umano, che concepisce la spiritualità non come qualcosa di distaccato dalla formazione umana, ma che ne è parte. Le connotazioni della spiritualità possono essere diverse, ma la spiritualità per Maria Montessori è qualcosa che appartiene sempre e comunque all’umano.

È un monito di cui tener conto anche per la qualità delle nostre Messe per i bambini?

                Direi proprio di sì. Noi ci dimentichiamo che i bambini nella liturgia non sono delle belle statuine da mettere in mostra in modo spettacolare, o da nascondere sotto i banchi, ma dei soggetti attivi che vanno rispettati dando loro la possibilità di partecipare alla liturgia nella loro misura.

M. Michela Nicolais, vaticanista               Agenzia SIR        11 gennaio 2023

www.agensir.it/chiesa/2023/01/11/maria-montessori-baldacci-ci-ha-insegnato-che-il-bambino-ha-una-capacita-spirituale-innata

RIFLESSIONI

Crisi e futuro della chiesa

La Chiesa ha futuro? Qual è il rapporto della Chiesa con il passare del tempo, cioè con la sua storia?

Il rischio di andare a «sbattere» nel rispondere a queste domande è elevatissimo. Sia di sbattere contro una visione meramente sociologica sia di sbattere contro un’analisi puramente e astrattamente ideo-teologica, cioè l’ideologia della «giovinezza» della Chiesa o delle sue «magnifiche sorti e progressive» in tempo di crisi.

                «L’ideologia», ha avvertito una volta papa Francesco, «non convoca. Nelle ideologie non c’è Gesù. Gesù è tenerezza, amore, mitezza, e le ideologie, di ogni segno, sono sempre rigide». L’ideologia è rigida, anche quella della giovinezza perenne.

                Ad alcuni sembra che il nostro mondo stia cessando di essere cristiano: come facciamo a parlare di giovinezza della Chiesa? L’insignificanza sembra la condanna, e parliamo di futuro? Ci dibattiamo spesso tra tradizionalismo e modernizzazione, ma non ne usciamo. E, certo, uno dei problemi gravi della Chiesa d’oggi è quel che il Papa, con un neologismo, ha definito più volte «indietrismo», una «moda» che porta non ad «attingere dalle radici per andare avanti», ma a fare un «indietrismo che ci fa setta, che ti chiude, che ti toglie gli orizzonti» e ti fa custode «delle tradizioni morte».

                La vera domanda è: se il Vangelo non fosse proclamato, mancherebbe qualcosa di essenziale alla vita umana?

Siamo capaci di pensare il futuro? Tra il 1945 e il 1946 lo scrittore svedese Stig Dagerman [α1923-ω1954-suicida] pubblicava i suoi primi romanzi.


  È tutta da leggere una sua magnifica riflessione, nella quale egli dice, tra l’altro: «Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto».

                L’impossibilità della «consolazione» (tröst, in svedese) inchioda Dagerman al timore che la propria vita sia solo «un vagare insensato verso una morte certa». Non può essere un uomo felice, dunque. C’è un bisogno di consolazione che non può – giustamente – essere soddisfatto dalla pura proiezione calcolante dei dati del già vissuto. Ecco il punto, ecco perché questa lettura è utile alla riflessione: manca il futuro. Dagerman non può pensare il futuro. L’incapacità di pensare la speranza radica e fissa il varco di uscita dalla disperazione in un assoluto presente che diventa assenza di tempo (e dunque anche di futuro), perché il tempo «tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita», scrive Dagerman. Ecco le sue parole: «Tutto quel che mi accade di importante, tutto quel che conferisce alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza –, tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è del tutto indifferente. Non solo la beatitudine si trova al di fuori del tempo, ma essa nega anche ogni relazione tra il tempo e la vita».

                Si tratta di una riflessione straordinaria. L’intuizione del meraviglioso, la sfida dell’eterno non entrano nel tempo, non diventano pensiero del futuro. Ed è straordinaria anche perché risponde alla domanda implicita: che cos’è il meraviglioso? Per Dagerman, è «l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza». Tutte situazioni che generano futuro perché sono «eventi», promesse di futuro, come lo possono essere solo il brivido e la carezza. Per Dagerman, queste situazioni «meravigliose» si radicano in un hic et nunc che non ammette altro se non l’ustione, la bruciatura, il contatto diretto istantaneo, l’assoluto presente. Egli scrive: «Non è vero che un bambino che si è bruciato sta lontano dal fuoco. È attirato dal fuoco come una falena dalla luce. Sa che se si avvicina si brucerà di nuovo. E ciononostante si avvicina». Anzi, nell’esperienza dell’ustione c’è anche una forza di verità che purifica: «Dobbiamo benedire i vulcani, ringraziarli della loro luce e del loro fuoco. Dobbiamo ringraziarli di averci accecato, perché solo chi è stato accecato può vedere davvero». Visione è accecamento, ustione, non generazione. L’esperienza di Dagerman è l’urlo di una disperazione che ha provato l’esperienza della grazia e della meraviglia, ma senza credere che questa sia possibile come storia, come futuro aperto. È un totale presente fuori dal tempo, che lascia nel buio e senza grazia il pensiero del tempo che scorre e supera l’istante.

                Qui si intravede una risposta alla domanda sulla giovinezza della Chiesa e sul suo futuro: tenere viva la convinzione che l’esperienza della grazia e della meraviglia sia possibile come storia, come futuro. La speranza sfida il nichilismo.

                Il messaggio del Vangelo sfugge di mano. Il tempo della Chiesa è il futuro, l’avvenire. Nel momento in cui passato e presente dominano senza l’orizzonte del futuro, il messaggio evangelico diventa merce da vendere, si mercifica. Anche la tradizione diventa merce. Un commercio alto, sia beninteso: di valori e idee, ma pur sempre commercio. Il messaggio del Vangelo è indisponibile, non è commerciabile, «a portata di mano», utilizzabile. Sfugge di mano, sfugge a qualunque organizzazione, a qualunque forma di propaganda manipolativa. Il Vangelo si proietta in un futuro ignoto, nell’avvenire.

                Papa Francesco, in un suo Messaggio rivolto alle Pontificie Opere Missionarie nel 2020, a proposito dei discepoli che seguivano Cristo, scrive: «Lui sta per dare inizio al compimento del suo Regno, e loro si perdono ancora dietro alle proprie congetture». Oggi come allora: siamo persi tra le congetture, come se fossimo noi a dover «organizzare la conversione del mondo al cristianesimo», scriveva il Papa, o la stessa vita dello spirito. Se la Chiesa non è una mera organizzazione, allora il sacerdos non può ridursi a un burocrate dello spirito o «funzionario della missione» che commercia salvezza predicando valori.

                «Abitare nella possibilità». L’apertura allo Spirito vive della pensabilità del futuro. Se non si è capaci di pensare un dopo, un domani, qualcosa che deve ancora accadere, allora è impossibile parlare di generazione del futuro. Appare ovvio pensare al passato che è già compiuto, e al presente che si svolge mentre lo pensiamo. E tuttavia per generare futuro – e dunque sperare – è necessario immaginare, proiettarci in un futuro possibile, riflettere su ciò che non vediamo con i nostri occhi né tocchiamo con le nostre mani. Ricordiamo che la classicità viveva la propria storia nel senso della ciclicità e dell’eterno ritorno. Il cerchio, infatti, è simbolo della compiutezza e della perfezione. I classici, sospettosi sulle utopie e sul futuro, avevano ancorato la loro identità alle origini e al passato. Essi avevano idealizzato il passato, avevano il mito delle origini. E avevano assolutizzato il presente: carpe diem! Vivi il presente, l’hic et nunc.

                      Al classico manca il futuro e, dunque, manca la speranza, che Lucio Anneo Seneca [α4 a.C.- ω65 p.C. .- suicida] intende come dulce malum, un incantesimo, perché proietta la vita in un avvenire che non è certo. La classicità aveva bisogno di sicurezza, di stabilità. La speranza – potremmo dire – nasce davvero con il cristianesimo.

                Dunque, non è affatto ovvio parlare di futuro e di speranza. Per parlare di futuro della Chiesa, allora, è necessaria un’apertura all’incertezza. Certo, però, c’è chi pensa che il futuro sia una deduzione: date alcune condizioni, si può dedurre qualcosa di quel che accadrà. Ma questo non ha nulla a che vedere con ciò che i cristiani chiamano speranza. Il futuro affidato alla statistica non apre alla speranza, ma al calcolo delle probabilità, al pensiero calcolante, capace di fare previsioni più o meno attendibili. Il futuro (anche quello della Chiesa) sarebbe così la logica prosecuzione del presente sulla base del passato. Non c’è salto, non c’è scarto, non c’è abisso, non c’è desiderio, non c’è inquietudine, non c’è rivoluzione.

                La speranza della Chiesa invece è immersione in una storia che ci arriva, dentro la quale siamo chiamati, senza essere prodotto dei nostri calcoli, e tanto meno di «piani pastorali» realizzati da «operatori». Se si ha questa attitudine alla fede, allora le porte della speranza possono aprirsi. È possibile generare futuro, «abitare nella possibilità», come scrive Emily Dickinson in un suo splendido verso: I dwell in possibility. Non si tratta di credere nella probabilità, ma nella possibilità, cioè nella possibilità di fare esperienza non legata ai limiti di ciò che è statisticamente probabile. La speranza è il territorio del possibile, che va ben al di là del campo della probabilità. È il territorio della grazia, l’unica possibilità di «giovinezza» della Chiesa. Essa implica l’incertezza, l’indeterminazione. Non l’ordine, la codificazione, il solido, ma l’informe, il diveniente, ciò che non è ancora solidificato e definito.

                C’è un abisso da superare, dunque, per vivere la speranza. C’è bisogno di una fede. Il suo campo non è quello del calcolo o dell’algoritmo, ma quello della gratia gratis data. L’abisso è quello della fiducia nella possibilità di una storia futura che non conosciamo e che non è deducibile dal presente e dal passato come fosse una logica conclusione, una storia che è «altro» rispetto a noi e ai nostri noti limiti. In questo senso il futuro non è la combinatoria delle nostre attese e delle nostre aspettative. Sarebbe un abbaglio far risiedere la speranza nella pura proiezione combinatoria dei nostri desideri. La speranza è il non ancora conosciuto, che è capace di sorprenderci, traboccante. Il motore della speranza è, in definitiva, il timore di non ricevere ciò che si attende, dunque il dubbio, l’incertezza, la precarietà inquieta.

                L’inquietudine del pensiero aperto: tra utopia e maturità. Per questo Francesco parla spesso di «sana inquietudine», che è la vera disposizione d’animo della giovinezza. Perché pensa il futuro, l’inaudito, l’imprevedibile. Ed ecco la definizione-chiave che papa Francesco fornisce del gesuita (e dunque di sé) nell’intervista che gli feci nel 2013 per La Civiltà Cattolica: «Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto». E ancora: «Il gesuita pensa sempre, in continuazione, guardando l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro». Ma – come disse in una lettera ai sacerdoti del 2007, quando era arcivescovo di Buenos Aires – bisogna stare attenti a che l’orizzonte non si avvicini a tal punto da diventare un recinto. L’orizzonte deve essere realmente aperto. E a questa apertura corrisponde un «pensiero incompleto», un «pensiero aperto». Ha chiesto una volta Francesco: «Mi lascio “scardinare dentro” dal paradosso?». Si riferiva alla forza delle Beatitudini, e possiamo riferire la domanda anche al Vangelo nella sua interezza. L’alternativa è di rimanere «nel perimetro delle mie idee».

                «Dio è creativo, non è chiuso, e per questo non è mai rigido. Dio non è rigido!», ha detto Francesco in un suo discorso ai catechisti. Così la nostra vita non deve irrigidirsi. L’esistenza umana non è una partitura già scritta, un «libretto d’opera», dice Bergoglio. C’è una dimensione di incertezza, di incompletezza che è parte integrante di una vita di fede, che è – come Francesco disse nell’intervista a La Civiltà Cattolica – «avventura», «ricerca», apertura di nuovi spazi a Dio. E questo genera «sana inquietudine».

                Bergoglio ama la posizione esistenziale di Agostino. Nella Messa per l’inizio del Capitolo generale dell’Ordine di sant’Agostino, nell’agosto del 2013, aveva parlato della «pace dell’inquietudine». Da questa visione consegue una visione della maturità che non coincide più con l’adattamento. Il tema è davvero importante per un educatore. «Lo stesso Gesù – afferma provocatoriamente Bergoglioper molte persone del suo tempo sarebbe potuto rientrare nel paradigma dei disadattati e quindi immaturi». Ma, senza cadere nell’elogio dell’anarchia, argomenta: «Se la maturità fosse un puro e semplice adattamento, la finalità del nostro compito educativo consisterebbe nell’“adattare” i ragazzi, queste “creature anarchiche”, alle buone norme della società, di qualunque genere siano. A quale costo? A costo della censura e dell’assoggettamento della soggettività, o peggio ancora a spese della privazione di ciò che è più proprio e sacro della persona: la sua libertà».

                Prosegue Bergoglio: «Un ragazzo “inquieto” […] è un ragazzo sensibile agli stimoli del mondo e della società, uno che si apre alle crisi a cui va sottoponendolo la vita, uno che si ribella contro i limiti ma, d’altra parte, li reclama e li accetta (non senza dolore), se sono giusti. Un ragazzo non conformista verso i cliché culturali che gli propone la società mondana; un ragazzo che vuole imparare a discutere». Dunque, occorre «leggere» questa inquietudine e valorizzarla, perché tutti i sistemi che cercano di «acquietare» l’uomo sono perniciosi: conducono, in un modo o nell’altro, al «quietismo esistenziale». Nell’inquietudine si genera futuro.

                Oggi invece avvertiamo una tentazione forte – a volte anche nella Chiesa –, quella di «serrare le fila». Si avverte la tentazione di opporre al caos percepito la risposta di un cattolicesimo intransigente e identitario. Noi oggi riconosciamo che una «civiltà cattolica» non è una bolla chiusa in sé stessa, né alimenta rancori nei confronti di un mondo che ad alcuni sembra ormai perso e alla deriva, abbandonato da Dio. La civiltà cattolica non è quella costruita sull’intransigenza dei puri, che uccide lo spirito. La tentazione identitaria è la necrosi del cristianesimo.

                In questo senso, Bergoglio non rifiuta l’«utopia» come mera astrazione. Al contrario, riconosce la sua carica positiva e la sua valenza politica; afferma: «Le utopie sono in primo luogo frutto dell’immaginazione, proiezioni nel futuro di una costellazione di desideri e aspirazioni». L’utopia prende forza dall’insoddisfazione e dal malessere generati dalla realtà attuale, ma anche dalla convinzione che è possibile un mondo diverso. Non è pura evasione, ma una forma che la speranza assume in una concreta situazione storica e che si accompagna a una ricerca concreta di nuove strade. Qui c’è un compito radicale: ricostruire l’immaginario della fede e della convivenza umana in una società che cambia, dove i riferimenti simbolici e culturali non sono più quelli di una volta.

                Se non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è il dubbio metodico – non quello scettico –, la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c’è esperienza di Chiesa. Se lo Spirito Santo è in azione – ha affermato una volta Francesco –, allora «dà un calcio al tavolo». L’immagine è felice, perché è un implicito riferimento a Mt 21,12, quando Gesù «rovesciò i tavoli» dei mercanti del tempio.

                Il tempo della sospensione. Non sentiamo oggi il bisogno di un «calcio» dello Spirito, se non altro per svegliarci dal torpore? I mercanti sono sempre nei pressi del tempio, perché lì fanno affari, lì vendono bene: formazione, organizzazione, strutture, certezze pastorali. I mercanti si vantano di essere «al servizio» del religioso. Spesso offrono scuole di pensiero o ricette pronte all’uso e geolocalizzano la presenza di Dio, che è «qui» e non «lì». O futuro o merce. O possibilità o commercio.

                Pensiamo al processo ecclesiale del Sinodo sulla sinodalità.

Colpisce, ad esempio, quanto ha detto il Relatore generale, il card. Jean-Claude Hollerich, nel suo saluto, il 9 ottobre 2021, durante l’inaugurazione: «Devo confessare che non ho ancora idea del tipo di strumento di lavoro che scriverò. Le pagine sono vuote, sta a voi riempirle». Occorre vivere il tempo sinodale con pazienza e attesa, aprendo bene occhi e orecchie. «Effatà, cioè: “Apriti!”» (Mc 7,34) è la parola chiave del futuro. «Non ho ancora idea…». Quanto futuro c’è in queste parole! Non è indeterminatezza, ma attesa, tensione, ascolto, consapevolezza del futuro. Occorre sopportare la sospensione, evitando che la nostra progettualità sul futuro diventi un attivismo pelagiano pettegolo o un’operazione pastorale segnata dal carisma della frenesia. Che la sospensione sia la forma della Chiesa del futuro? Certo che è, almeno escatologicamente, così. Una sospensione inquieta.

                «Disinstallarsi». Una forma dell’inquietudine sana è stata definita da Francesco con un verbo usato in un messaggio ai giovani delle Antille: desinstalarse. Alla lettera: «disinstallarsi». In italiano è stato tradotto ufficialmente con «lasciare la situazione di essere sistemati». Traduzione utile, ma arzigogolata. Ecco le sue parole in spagnolo: «Si están instalados la cosa no va. Tienen que desinstalarse los que están instalados, y empezar a luchar». Francesco chiede di «disinstallarsi».

[Coloro che sono installati devono essere disinstallati e iniziare a combattere.   traduzione di Aleteia]

Evocando la disinstallazione, Bergoglio fa leva su un principio ignaziano che guida il suo ministero petrino in modo particolare: la mobilità. Essa è diametralmente e carismaticamente opposta e complementare al criterio della stabilitas benedettina. S. Benedetto fonda monasteri e stabilizza i monaci, di modo che poi i monasteri diventino centri di irradiazione. s. Ignazio invia in missione, vuole che i gesuiti professi vivano non in collegi, ma in stationes. Se la Chiesa fosse appiattita su questa dimensione spaziale, se lo spazio fosse il suo criterio fondamentale, essa diventerebbe solo una forma del potere come le altre. Certo che la Chiesa esercita un «potere», e certo che lo ha fatto nel bene e nel male. Ma il discorso non finisce qui. Se così fosse, la Chiesa sarebbe già morta e sepolta; come tutti gli imperi, del resto. Fa comodo pensarla così, perché questo ci lascia tranquilli. Ma non è così. La giovinezza della Chiesa non sta lì.

                Con Francesco, san Paolo è salito sul soglio di Pietro in un momento in cui la Chiesa vive in una grande Corinto, in una Roma imperiale, quella descritta da Pasolini e da lui identificata con la città di New York. Così Francesco ha elevato in modo sanamente inquietante la tensione tra spirito e istituzione. Ha scritto che la Chiesa è «popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale» (Evangelii gaudium, n. 111).

                Per questo Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del regno di Dio sulla Terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito». Il motto «In hoc signo vinces» di Costantino e quello «In God we trust» che leggiamo sul dollaro statunitense sono, in un modo o nell’altro, sempre a rischio di idolatria. Ricordiamo con angoscia il «Gott mit uns». [Ordine teutonico, imperatori tedeschi, nazismo, Съ нами богъ! [Impero russo]. La teologia cristiana della storia non ha nulla a che fare con le escatologie intramondane che promettono il paradiso in terra, facendo della terra un inferno. La Chiesa è chiamata a desacralizzare le ideologie secolari, ma anche i tentativi di ideologizzare il cristianesimo. Immaginare la ecclesia triumphans su questa Terra trasforma la faith in fight, la fede in lotta. Purtroppo, le dinamiche della guerra di invasione dell’Ucraina da parte della Russia non sono aliene da questa tentazione. Il «popolo eletto», una volta diventato «impero» o «partito», entra in un intricato intreccio di dimensioni religiose e politiche capace di fargli perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo, contrapponendolo a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico» istituzionalizzato come tale. Lo muovono alla conquista o alla colonizzazione. Il futuro sarebbe ipotecato, la giovinezza defunta. E invece il tempo futuro della Chiesa è la suspense.

                Anche la logica dell’annuncio evangelico non è espansionista o neocoloniale. Francesco ama le Chiese dello «zero virgola», che però sono semi per la Chiesa universale: dall’asiatica Chiesa in Bangladesh a quella in Mongolia; dall’europea Chiesa in Svezia a quella in Estonia. Non si tratta di un esotismo: è la forza di un processo di fecondazione. «C’è una grazia nascosta nell’essere una Chiesa piccola, un piccolo gregge», ha detto Francesco in Kazakistan. Essa consiste nella percezione di non essere «autosufficiente» e di essere invece «una comunità aperta al futuro di Dio, accesa dal fuoco dello Spirito: viva, speranzosa, disponibile alle sue novità e ai segni dei tempi, animata dalla logica evangelica del seme che porta frutto nell’amore umile e fecondo». Questa è per lui la «Chiesa del futuro»: essere «come lievito nella pasta e come il più piccolo dei semi gettato nella terra», abitare «le vicende liete e tristi della società in cui viviamo, per servirla dal di dentro». Il discernimento consiste nel capire dove sono i semi per tutti, della Chiesa universale. È l’operazione coloniale al contrario: la «disinstallazione». Quindi, il tempo del processo, della crescita è più importante dello spazio, il seme inteso come totipotenza di futuro più degli alberi e dei rami. Conta il tempo.

Il ritmo della Chiesa. Tuttavia è importante non solamente il tempo, ma anche il ritmo. Il ritmo della Chiesa non è quello della sinfonia, ma piuttosto quello che evocavamo all’inizio come ritmo del ragionamento che stiamo sviluppando: quello della jam session [riunione estemporanea] i un concerto jazz. Questo genere vede confluire tradizioni musicali disparate ed è caratterizzato dall’improvvisazione e dalla poliritmia. Espressione caratteristica sono le riunioni di musicisti che si ritrovano per una performance senza aver nulla di preordinato, improvvisando su griglie di accordi e temi conosciuti. Queste sono situazioni «geniali», dove la sfida consiste proprio nel dare una forma non preordinata a partire da un caos di suoni.

                Ecco, non si deve immaginare la Chiesa come una costruzione di mattoncini Lego diversi che si incastrano tutti al punto giusto, secondo debite proporzioni. Sarebbe, questa, un’immagine meccanica della comunione ecclesiale. Potremmo meglio pensarla appunto come una relazione sinfonica, di note diverse che insieme danno vita a una composizione. Non si tratta di una sinfonia dove le parti sono già scritte e assegnate, ma di un concerto jazz, dove si suona seguendo l’ispirazione condivisa nel momento. Questo è il ritmo del futuro: il jazz.

                Facciamo riferimento a un’esperienza concreta: chi ha seguito le Assemblee del Sinodo dei vescovi degli ultimi anni si è certamente reso conto di quanto sia emersa la sonora diversità che plasma la vita della Chiesa cattolica. Se un tempo una certa latinitas o romanitas costituiva e modellava la formazione dei vescovi – i quali, fra l’altro, capivano almeno un po’ di italiano –, oggi emerge con forza la diversità a ogni livello: mentalità, lingua, approccio alle questioni. E ciò, lungi dall’essere un problema, è una risorsa, perché la comunione ecclesiale si realizza attraverso la vita reale dei popoli e delle culture. In un mondo frammentato come il nostro, è una profezia. Per questo c’è bisogno di grande ascolto delle comunità ecclesiali nel confronto e nel dibattito sulle esperienze: è sulle esperienze che si può fare discernimento, e non sulle idee. È lo Spirito Santo che origina la jam session della Chiesa, il ritmo della sua giovinezza.

                A che punto del nostro ragionamento siamo arrivati? Abbiamo cercato fin qui di indicare come la giovinezza della Chiesa stia nella pensabilità del futuro, nell’apertura a un futuro che non sia semplice deduzione dai dati del passato, ma apertura al possibile (non al probabile), che genera una «sana inquietudine». La postura dell’anima è quella del «disinstallarsi» dalle coordinate «coloniali» dello spazio e del potere, che renderebbero il cristianesimo una cosa, una merce da vendere. Lo spazio della Chiesa è quello del seme. Da qui l’interesse di Pietro, del Papa, per le realtà meno stabilite, le realtà dello «zero virgola». L’ascolto di queste realtà periferiche o marginali produce nella Chiesa un ambiente sonoro che – se vissuto nella comunione – è quello di una jam session, dove il direttore d’orchestra non può che essere lo Spirito Santo.

Il futuro viene dal passato. Ma è il momento di fare un passo ulteriore, approfondendo il rapporto tra futuro e passato. Il futuro non è mai astratto: non può esserlo. Siamo noi stessi che speriamo! E noi siamo ciò che già siamo stati e siamo. Il futuro ci viene incontro con le forme delle nostre tensioni presenti. Il futuro viene dal passato, così la sua pensabilità. Siamo in grado di desiderare, perché siamo quel che siamo, così come la nostra vita ci ha plasmati. Non nel senso che il futuro prende le forme ormai vuote del passato, ma al contrario: il futuro risucchia in sé il passato. Nel futuro, infatti, possiamo in qualche modo recuperare ciò che è stato, integrandolo, risanandolo. Nel presente la memoria del passato acquisisce un senso imprevisto nella sua direzione.

                Quante volte un’esperienza nuova ci fa vedere un’esperienza del passato sotto un’altra luce? Quante volte capita di comprendere ciò che è accaduto nella nostra vita in una prospettiva differente? E quindi di cambiarne il senso e il valore? Possiamo descrivere il cammino del futuro in riferimento al tempo vissuto. La domanda sarebbe: come rimettere in movimento e cambiare un passato che non c’è più? Come supplire a una mancanza di amore, di educazione, di successo che fin dall’infanzia possono essere stati negati? Come disfare i nostri modi e recuperare il tempo perduto? Come convertire il passato? Conversione è dare nuovo senso all’esperienza vissuta. La conversione non è pura apertura al futuro, cambiamento di mentalità rivolto alla vita che si farà. Conversione è innanzitutto metanoia [radicale mutamento nel modo di pensare, di giudicare, di sentire,] del nostro passato, far entrare Cristo che viene nei codici della nostra vita vissuta, per vedere quanto egli fosse già presente da sempre in illo tempore, «in quel tempo». Una delle esperienze più belle dell’amore, ad esempio, è vedere come lo sguardo della persona amata (o almeno le sue tracce) era presente – anche solamente nella forma del desiderio – nella vita passata.

                Il processo temporale descritto nella fisica classica si compone in un movimento di passato-presente-futuro. Nella dinamica della speranza, la direzione della linea del tempo non è quella fisica, ma quella del senso, che non lega il futuro al presente e questo al passato in una direzione univoca, ma piuttosto lega il futuro al passato. È un problema che emerge con particolare urgenza, ad esempio, nella psicoanalisi: se non fosse così, la verità dell’interpretazione analitica e l’efficacia della psicoanalisi nella sua azione sarebbero irrimediabilmente compromesse. La memoria non va considerata come una trascrizione immutabile. Se il passato determina il presente, è perché a sua volta esso è ripreso e quindi rimodellato dal presente. È possibile una «conversione» in profondità solamente se il passato non è già determinato e non è sottratto interamente alla possibilità di azione. Il passato deve rimanere aperto. Questa è la «giovinezza». Non una condizione passeggera e transeunte, né una nostalgia da rincorrere goffamente e senza speranza come su un tapis roulant. La giovinezza consiste nel non sigillare il passato, nel lasciarlo aperto alle interpretazioni (e al loro conflitto). Perché? Perché la memoria dell’esperienza vissuta nel passato acquisisce nel presente un senso imprevisto, ma attuale ed efficace, nella direzione di un’attesa di futuro. La religione è anche un re-legere, una rilettura, un ripensamento del vissuto.

                Così si può agire sul passato in vista di un futuro. È il filo del desiderio che conduce questa retroazione, che è soprattutto anticipazione di un futuro diverso. Non possiamo lasciare indietro noi stessi come memoria, perché così non lasceremmo indietro solo il nostro passato, ma anche il nostro presente e il nostro futuro. Ciò che verrà modifica continuamente la nostra memoria, addirittura ne seleziona i contenuti.

     Vivere è davvero «abitare nella possibilità», come scriveva Emily Dickinson (α1830-ω1886). I dwell in possibility.

                Per il credente la vita è apertura alla possibilità, la quale non dipende dalle sue sole forze. Essa, infatti, come scrive san Paolo, è «criptata» in Dio (cfr Col 3,3). L’uomo spirituale non ritiene di sapere quale sia il suo destino, ma sa che Dio – e solamente Lui – ne ha la chiave. Anche gli eventi più contraddittori o negativi del passato hanno una loro comprensibilità in una password che è conosciuta solamente da Dio. Il credente sa che la sua vita è protetta da questa password. Sa inoltre che lo attende una «decifrazione» del suo destino. La giovinezza della Chiesa è protetta da questa password, è criptata in Dio, preservata da operazioni volontariste e pelagiane.

                Una Chiesa che non si separa dalla vita. C’è un episodio del Vangelo dove questa esperienza di décryptage [decifrazione] si dispiega. È quello dei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). L’episodio ci aiuta a riflettere su questo abitare nella possibilità. I discepoli vanno verso Emmaus, desolati, come Dagerman. Non vedono futuro e tornano indietro. Incontrano però un uomo che illumina il passato che avevano vissuto e li proietta verso il futuro. Converte l’esperienza fatta, svelandola: «Non ci ardeva il cuore?», riconoscono, riferendosi a quando Gesù spiegava loro il senso di quel che avevano vissuto. Papa Francesco ha spesso fatto riferimento a questi due discepoli come modello per la Chiesa che ha un futuro. I due discepoli scappano da Gerusalemme, scandalizzati dal fallimento del Messia nel quale avevano sperato. Qui possiamo leggere il mistero difficile della gente che lascia la Chiesa, che ritiene che ormai essa non possa offrire più qualcosa di significativo e importante. Di fronte a questa situazione, che cosa fare, dunque? Quale Chiesa «servirebbe» gli uomini di oggi che sono come i due discepoli di Emmaus? Papa Francesco descrive ad ampie pennellate la Chiesa del futuro: «Serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente; una Chiesa capace di decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle da Gerusalemme; una Chiesa che si renda conto di come le ragioni per le quali c’è gente che si allontana contengono già in se stesse anche le ragioni per un possibile ritorno, ma è necessario saper leggere il tutto con coraggio. Gesù diede calore al cuore dei discepoli di Emmaus».

                È da notare una cosa: la fiducia nel riconoscere con fine discernimento, in maniera acuta e forse imprevedibile, che le ragioni per le quali la gente si allontana dalla Chiesa «contengono già in se stesse anche le ragioni per un possibile ritorno». Qui il Papa vuol dire che bisogna dare credito anche alle tentazioni centrifughe, quelle che spingono a lasciare la Chiesa, che possono contenere un desiderio di autenticità che va preservato, custodito e che resta importante per una vita cristiana consapevole e piena.

                Quale il senso di questo atteggiamento, così aperto da saper trovare – sub contraria specie – in ciò che spinge ad abbandonare la Chiesa una autenticità che poi può portare a un ritorno? Il senso è il discernimento, che consiste nel saper leggere le tracce del vissuto, del passato, per cambiarne il significato, scoprendo le orme della grazia. Si tratta di «decifrare la notte», dice Francesco. Ed è quello che fa Gesù con i suoi discepoli.

Allora la condizione di spirito di una Chiesa aperta al futuro è quella che predica un Vangelo capace di convertire il passato, di cambiare il senso di ciò che è stato, che non teme la contraddizione, la crisi, e anzi vi si avventura alla ricerca delle tracce di Dio.

                Il futuro della Chiesa, in questo senso, vive non solamente come apertura al futuro, suspense, inquietudine, ritmo delle diversità armoniche, ma anche come riconciliazione piena con tutte le dinamiche dell’umano, incluse quelle centrifughe rispetto alla Chiesa stessa. Soltanto nell’eschaton [il tempo ultimo] appariranno in tutta la loro pienezza l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità della Chiesa. La Chiesa non è una societas perfecta parallela a quella umana, civile. Non è un «mondo a sé». È popolo fedele di Dio in cammino, communio viatorum. La sua giovinezza e il suo futuro consistono nel riconoscere dove il Signore è già presente nel mondo, capire dove si è fatto trovare e dove si trova: ora incoraggiando, ora chiamando a conversione. Occorre rileggere il vissuto del mondo alla luce della Provvidenza e della Grazia, riconoscere i semina Verbi, senza mai cadere nelle tentazioni della desolazione e della solitudine.

                Abbiamo delineato una Chiesa inquieta, instabile, «disinstallata», diciamo così, che però, alla luce della tensione verso il regno di Dio e grazie al Vangelo, sa dare un senso alle vicende umane.

  Così scopriremo vere le parole che Julien Green [α1900-ω1998] vergava nel suo Diario: «Credo che siamo tutti in cammino verso il cristianesimo, ed è all’incirca tutto quello che possiamo dire».

17 note                                www.laciviltacattolica.it/articolo/crisi-e-futuro-della-chiesa/?utm_source=Newsletter+%22La+Civilt%C3%A0+Cattolica%22&utm_campaign=256f883512-1850_CAMPAIGN_1_2023&utm_medium=email&utm_term=0_9d2f468610-256f883512-227762110

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Taylor: «L’età secolare è un’opportunità»

intervista a Charles Taylor  α 1931

«L’epoca secolare offre l’opportunità di riadattare le forme della spiritualità, non va ritenuta come un declino e soprattutto non bisogna pensare di tornare al passato», dice Charles Taylor, uno di più importanti filosofi viventi, autore di opere capitali come “L’età secolare” e “Le radici dell’io”, entrambi pubblicati, qualche anno fa, dall’editore Feltrinelli. Ma oltre al ruolo giocato sulla scena filosofica della seconda metà del Novecento e di questo primo scorcio di ventunesimo secolo, il filosofo canadese è stato insignito, nel 2007, anche del premio Templeton, uno dei maggiori riconoscimenti nel campo della spiritualità e che in precedenza era stato assegnato anche a Madre Teresa di Calcutta e a Aleksandr Solženicyn. Taylor, classe 1931 e professore emerito alla McGill University di Montréal, in questi giorni si trova in Italia per prendere parte all’incontro “Solo la

secolarizzazione ci potrà salvare? Fede e ragione nell’epoca del disincanto” e alla successiva tavola rotonda che si terranno all’Università Cattolica di Milano il prossimo martedì.

Professore, oggi parlare di secolarizzazione è diventato quasi un luogo comune.

Si sostiene spesso che le nostre società siano secolarizzate, che il problema di Dio sia ormai assente, che ci sia un allontanamento della fede da parte dei credenti. Tuttavia la questione va ridefinita, e non pensata in modo semplicistico. Inoltre andrebbe contestualizzata. Eventualmente il termine secolarizzazione andrebbe utilizzato per descrivere le società occidentali e, anche in quel contesto, non in maniera generalizzata perché ci sono degli ambienti delle nostre società dove il termine non è applicabile. È certo non vale per il mondo musulmano, per esempio. E così per il buddismo.

Come possiamo intendere allora questo processo affinché il termine possa servire per interpretare il nostro tempo?

Per inquadrarlo, possiamo considerare la secolarizzazione sotto tre aspetti diversi.

  1. Il primo prende in esame le istituzioni o le pratiche comuni, e non solo lo stato. E riguarda il fatto che queste istituzioni in passato trovavano legittimazione solo se erano connesse, garantite dalla fede in Dio o fondate su altre nozioni che fanno riferimento a una realtà ultima.
  2.  C’è anche un secondo modo di intendere la secolarizzazione. È quello di constatare che le persone si siano in qualche maniera distolte da Dio e dunque si siano allontanate dalle pratiche religiose e non si rechino più in chiesa.

Entrambi questi modi di vedere però non sono efficaci per indagare il problema della secolarizzazione. Dal mio punto di vista è opportuno focalizzarsi sulle condizioni sottese al credere, su come si sia modificato il contesto in cui la fede fiorisce. In questo senso la secolarizzazione consiste nel passaggio da una società in cui è impossibile non credere in Dio a una società in cui la fede è una opzione tra le tante. Oggi ci troviamo dinanzi a una tremenda varietà di possibilità e di opzioni spirituali, e da questa situazione non possiamo tornare indietro. Pertanto possiamo ritenere che una società è secolare non in virtù dell’eclissi della fede ma in forza delle condizioni che

rendono possibile l’esperienza e la ricerca spirituale in un mondo segnato dalla pluralità di opzioni

offerte.

La sua visione rompe quindi con la convinzione che la secolarizzazione faccia il paio con una situazione di decadenza e di declino.

La situazione del mondo di oggi non può essere interpretata come un semplice declino o decadenza. La nostra fede non è degenerata. Viviamo certamente in un’epoca di ansia perché ognuno si sente insicuro nel proprio intimo anche per la presenza di tutte queste possibilità. Però non possiamo pensare di tornare indietro di cinquant’anni o ancora di più in là col tempo. Per far fronte a questa situazione dobbiamo pensare che il sacro e lo spirituale si posizionano in una relazione diversa, rispetto al passato, nei confronti degli individui e della vita sociale. Questa nuova situazione in realtà può esser letta come un’occasione di ricomposizione della vita spirituale in nuove forme e di nuovi modi di esistere in relazione con la realtà ultima. Non possiamo pensare che tutta questa ricchezza, questa varietà di sentieri spirituali sia un impoverimento. Essi vanno intesi come un’occasione che consente all’uomo di fiorire.

Nel corso del Novecento il mondo cattolico ha tentato di rinnovare la fede e di ripensare le pratiche per adattarla alle nuove condizioni di credenza?

Non è un movimento che fa capolino solo nel Novecento. La ricerca del rinnovamento è sempre avvenuta, anche in passato, quando ci si richiamava alla lezione dei Padri. Solo per citare qualche esempio, basti pensare all’operato, messo in atto ai loro tempi, dai domenicani o della Compagnia di Gesù. E così nel corso dei secoli a seguire. Poi certo con Giovanni XXIII e con il Concilio Vaticano II sono intervenute delle iniziative che si sono mosse in questa direzione. È stata così valorizzata la riabilitazione della libertà, per esempio, oppure si è diffusa la concezione della Chiesa come popolo di Dio, è stato rinforzato il discorso sui diritti umani e sul valore della democrazia. E non è mancata neppure l’apertura ad altre fedi, superando così gli atteggiamenti assunti in passato dalle istituzioni ecclesiastiche. Questo percorso però non è nato dal nulla. L’esigenza di un rinnovamento era già stata inaugurata da alcuni teologi francesi come Yves Congar o Henri de Lubac.

Come far fronte all’epoca secolare che oggi sembra predominare nelle società occidentali, dunque?

Di certo non cercando una strada per fare ritorno al passato, come dicevo prima. Sarà possibile trovare ispirazione in alcune esperienze dei secoli precedenti, indubbiamente, ma la vita cristiana oggi dovrà cercare e scoprire nuovi percorsi per andare oltre la situazione attuale. Comprendere il nostro tempo in termini cristiani dipende anche dalla necessità e dalla capacità di individuare questi nuovi sentieri.

Simone Paliaga                  “Avvenire”      8 gennaio 2023

www.avvenire.it/agora/pagine/charles-taylor-l-eta-secolare-un-opportunita

SINODO

Card. Grech, “l’Instrumentum laboris dopo la primavera 2023

I tempi per la realizzazione della tappa continentale del Sinodo indicano “la primavera del 2023, per permettere alla Segreteria del Sinodo di redigere, sulla base delle sintesi pervenute, l’Instrumentum laboris per l’assemblea di ottobre a Roma”. Lo indica il card. Mario Grech, che guida la Segreteria del Sinodo, in una intervista rilasciata a Vita pastorale. “Dall’apertura della tappa alla celebrazione delle Assemblee sarà un tempo fecondo per le Chiese particolari e per le Conferenze episcopali di approfondire lo stile e il metodo sinodale”, aggiunge.

  (α1957) Il cardinale osserva che “la stragrande maggioranza delle Chiese particolari ha partecipato alla consultazione del popolo di Dio; la quasi totalità delle Conferenze episcopali (112 su 114) e la totalità delle 15 Chiese orientali sui iuris hanno fatto pervenire le loro sintesi; molti altri contributi sono stati inviati direttamente alla Segreteria del Sinodo, compresi quelli di una ventina di dicasteri della Curia romana”.

 “Siamo stati felicemente sorpresi di una partecipazione così corale. Il Documento di sintesi per la fase continentale è davvero l’eco della voce della Chiesa tutta”. Soffermandosi su questo documento, il segretario generale del Sinodo spiega che “il punto che avevamo chiaro era che dovevamo ascoltare, senza aggiungere nulla di nostro”.

“Nel Docu            mento continentale ciò che si ascolta è la voce delle Chiese, restituita dai pastori”.

Guardando ai prossimi step, il cardinale riferisce che “il Documento redatto dalla Segreteria a partire dalle sintesi delle Conferenze episcopali, prima di approdare alle Assemblee continentali, viene restituito alle Chiese particolari”.

“Il principio della restituzione è fondamentale per capire l’esercizio della sinodalità: bisogna sempre tornare là dove è partito il processo sinodale. Ogni vescovo ha ricevuto il Documento, con la raccomandazione di rileggerlo nella sua Chiesa e di fare osservazioni sul Documento – si tratta, a tutti gli effetti, di una modalità di recezione – da inoltrare alla Conferenza episcopale; questa a sua volta farà il suo discernimento e inoltrerà le osservazioni al livello continentale”. Quindi, il card. Grech osserva: “Nel processo sinodale è sempre coinvolta la Chiesa intera! Tutte le Chiese particolari, cioè tutto il popolo di Dio con i suoi pastori! In questo modo si radicano sia lo stile che la forma sinodale della Chiesa, che per la prima volta sta sperimentando anche questo livello continentale di discernimento”.

(F.P.)                     Agenzia SIR                        13 gennaio 2023

www.agensir.it/quotidiano/2023/1/13/sinodo-card-grech-linstrumentum-laboris-dopo-la-primavera-2023

TERZO SETTORE

Terzo settore: qualcosa è cambiato?

L’articolo 6 del nuovo Codice dei contratti pubblici recepisce una storia sentenza della Corte Costituzionale all’insegna della sussidiarietà

                È ormai convinzione diffusa che gli enti non lucrativi e del Terzo settore svolgano importanti attività di pubblica utilità soprattutto in ambiti quali l’educazione, l’assistenza e in certi casi la sanità, la difesa dell’ambiente e del patrimonio artistico, la promozione di attività culturali e per il tempo libero, la gestione di luoghi di aggregazione e tanti altri. Tuttavia, la rigida normativa sugli appalti ha impedito che l’attività di questi enti fosse adeguatamente valorizzata dalla Pubblica amministrazione per l’interesse generale.

Il principio dell’uguaglianza tra realtà che concorrono all’appalto, in un regime di libera concorrenza, ha fatto sì che enti non lucrativi soccombessero nella competizione rispetto alle molto più attrezzate imprese profit. Oppure che vincessero appalti al massimo ribasso compromettendo la qualità del servizio o la possibilità di offrire contratti a dipendenti e collaboratori non precari e minimamente retribuiti.

L’articolo 6 del nuovo Codice dei contratti pubblici (in attesa del parere della Conferenza Unificata, prima dell’invio al Parlamento) prevede invece che le realtà non lucrative non siano solo entità a cui appaltare servizi in regime di concorrenza, ma partner della Pubblica amministrazione nel perseguimento del bene comune. Si legge: “In attuazione dei principi di solidarietà sociale e di sussidiarietà orizzontale, la pubblica amministrazione può apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, modelli organizzativi di co-amministrazione […], fondati sulla condivisione della funzione amministrativa con i privati, sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano al perseguimento delle finalità sociali in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente e in base al principio del risultato. Gli affidamenti di tali attività agli enti non lucrativi avvengono nel rispetto delle disposizioni previste dal decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, e non rientrano nel campo di applicazione del codice”.

                L’articolo recepisce la sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, che ha sancito la coesistenza di due modelli organizzativi alternativi per l’affidamento dei servizi sociali, l’uno fondato sulla concorrenza, l’altro sulla solidarietà e sulla sussidiarietà orizzontale. Il secondo tipo di affidamenti (diretti) riguarda in particolare i servizi sociali di interesse generale erogati dagli enti del Terzo settore (ETS) e non rappresenta una deroga, da interpretare restrittivamente, al modello generale basato sulla concorrenza, bensì uno schema a sua volta generale da coordinare con il primo.

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2020&numero=131

Il fondamento costituzionale di un tale modello si ritrova nell’art. 118, comma 4 Cost., in quanto costituisce attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale coinvolgendo la società civile nello svolgimento di funzioni amministrative,                                                             www.brocardi.it/costituzione/parte-ii/titolo-v/art118.html

 e nell’art. 2 Cost., configurando uno strumento di attuazione dei doveri di solidarietà sociale necessari a realizzare il principio personalista su cui si fonda la nostra Costituzione.

www.brocardi.it/costituzione/principi-fondamentali/art2.html

Ciò che è importante sottolineare è che la nuova norma, recepisce e fa propri i contenuti degli articoli 55 e 57 del codice del Terzo settore (d.lgs. n. 117 del 2017), individuando uno spazio distinto dal mercato e basato sulla sussidiarietà. Più precisamente, viene introdotto un bilanciamento tra concorrenza e sussidiarietà orizzontale, superando la tendenza a far prevalere la prima sugli altri valori ugualmente protetti dalla Costituzione.

www.gazzettaufficiale.it/dettaglio/codici/terzoSettore

Il modello proposto intende quindi apportare benefici alla collettività in termini di efficacia, efficienza e qualità dei servizi, promuovendo la capacità di intervento di quei soggetti che meglio esprimono queste caratteristiche.

                La co-amministrazione pubblico-privato proposta non si basa infatti sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico.

                Molto innovativo è anche il criterio suggerito per la scelta degli enti affidatari dei servizi. Si prevede che debbano essere scelti nel rispetto dei principi di non discriminazione, trasparenza ed effettività e sempre in base al principio del risultato. In altre parole, si esce da una logica puramente burocratica, ma spesso solo falsamente imparziale, per accettare il principio che si debba osservare la realtà e scegliere con motivazioni esplicite, chiare e trasparenti, quegli enti che hanno dimostrato e dimostrano di essere più capaci di svolgere i servizi.

                Qualche preoccupazione si è levata sull’indicazione di “attività a spiccata valenza sociale” che potrebbe essere interpretata limitando l’applicazione alla sola tipologia dei servizi sociali. L’espressione in questione deve riferirsi alle finalità perseguite dall’attività (quello che l’art. 5 del CTS rende con “una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”), non all’oggetto dell’attività. Mentre l’enfasi dell’aggettivo “spiccata” va collegata alla scelta della Pubblica amministrazione di avviare le forme di co-programmazione, di co-progettazione e di accreditamento nel cui ambito poi si realizza il coinvolgimento degli enti di Terzo settore. Questo perché l’interpretazione della norma sia coerente con il suo spirito.

https://def.finanze.it/DocTribFrontend/getAttoNormativoDetail.do?ACTION=getSommario&id=%7B11E8A11F-F215-4B21-9EAA-60707A2C6864%7D

È chiaro inoltre che l’applicazione della norma dipenderà dalla effettiva volontà dell’ente pubblico di investire energie nell’amministrazione condivisa (la sentenza 131/2020 infatti parla di un “procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico”, ovvero di obbligo reciproco).

E dipenderà molto anche dal fatto che gli enti non lucrativi sappiano dimostrare sul campo la loro particolare utilità al bene delle persone e al bene collettivo.

Giorgio Vittadini               il sussidiario       13 gennaio 2023

www.ilsussidiario.net/editoriale/2023/1/13/terzo-settore-qualcosa-e-cambiato/2471153

VIOLENZA

Ricerca: violenza su donne lascia ‘cicatrici molecolari’ su almeno 3 geni

È quanto emerge da uno studio condotto dal Dipartimento Ambiente e Salute dell’Istituto superiore di sanità (Iss), in collaborazione con l’Università di Milano. La ricerca, pubblicata su ‘Healthcare‘, ha messo a confronto un campione di 62 donne che avevano subito violenza rispetto a uno di 50 che non l’aveva subita.

                Risultato: la violenza provoca l’ipermetilazione di tre geni legati al funzionamento della memoria, dell’apprendimento e della risposta allo stress.

                Le cicatrici molecolari impresse sulle donne che hanno subito violenza possono aiutarci a identificare strategie per prevenire gli effetti degli abusi, aumentare la resilienza e contrastare l’eventuale insorgenza di malattie croniche nelle donne sopravvissute alla violenza, commentano gli autori dello studio in una nota. La violenza contro le donne – si sottolinea – è un rilevante problema di salute pubblica globale e una violazione dei diritti umani.

Il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. La pandemia da Sars-CoV-2 ha fatto aumentare i casi di violenza, rendendo ancora più urgente e necessario un approccio multidisciplinare per contrastare questa emergenza cronica.

Adnkronos Salute           12 gennaio 2023

https://www.lasaluteinpillole.it/salute.asp?id=95004

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