Il testamento biologico

Il testamento biologico

 

Autrice: Chiara Savignano 

Si è svolto all’Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova (4 maggio) un convegno sul testamento biologico e i problemi di fine vita a cui hanno partecipato il prof. Marco Collini (Presidente dell’Ordine dei medici), l’avv. Sergio Genevesi e il prof. Armando Savignano, docente di Bioetica.

Ha suscitato una vasta eco la drammatica vicenda di Fabo; a tal proposito ci sembra che la questione fosse abbastanza chiara: Fabo aveva intrapreso tutte le vie per poter continuare a vivere, ma di fronte agli esiti fallimentari ha scelto consapevolmente di morire. Come è noto, la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione per Marco Cappato, tesoriere della fondazione Luca Coscioni con la seguente motivazione: «Le pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile e/o indegna dal malato stesso.(…) Non pare peregrino affermare che la giurisprudenza anche di rango costituzionale e sovranazionale – scrivono ancora i pm – ha inteso affiancare al principio del diritto alla vita tout court il diritto alla dignità della vita inteso come sinonimo dell’umana dignità».

Anzitutto è quanto mai opportuno distinguere tra testamento biologico ed eutanasia (nelle sua varie forme). Il testamento biologico – sarebbe più opportuno chiamarlo direttive anticipate di trattamento (DAT) in quanto si può fare testamento sui beni disponibili, mentre la vita non lo è – non è assimilabile all’eutanasia, né apre necessariamente ad essa, altrimenti bisognerebbe rivedere molte norme del codice penale sul suicidio assistito, omicidio del consenziente, ecc.

Una questione cruciale – sia nel testamento biologico che nell’eutanasia – concerne l’idratazione e l’alimentazione, le quali servono a mantenere in vita chiunque: ciò è intuitivo; sono pertanto assimilabili ad una terapia in senso stretto? Se gliele avessero tolte – idratazione ed alimentazione – Fabo, ad esempio, sarebbe potuto morire anche in Italia. Invece casi come quelli di Eluana Englaro sarebbero passibili di regolamentazione giuridica mediante le DAT. Occorre distinguere, nel caso dell’alimentazione-idratazione (quella assunta convenzionalmente e artificialmente), tra lo stato vegetativo e l’eutanasia. Non alimentare o idratare un malato, che non è in condizioni di assoluta terminalità potrebbe rientrare in una forma di eutanasia passiva. L’intenzione gioca tuttavia un ruolo essenziale, in quanto solo se c’è intenzione di causare la morte di un paziente siamo in presenza di un’eutanasia. Non costituisce eutanasia, ad es. non alimentare ed idratare un paziente il cui organismo non è più in grado di accettarle, ma che anzi causerebbero un aggravamento delle sue condizioni. Idratazione ed alimentazione possono essere lecitamente rifiutate solo se dannose o se il paziente è prossimo a morire.

Un ruolo centrale nel disegno di legge è attribuito al consenso informato.

La legge tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione di ogni persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata. È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico. In tale relazione sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia. Nella relazione di cura rientrano, per le rispettive competenze, anche gli altri componenti dell’equipe sanitaria. Il consenso informato è acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che lo consentano.

Il paziente avrà il diritto di abbandonare le terapie. Ma a fronte del divieto dell’accanimento terapeutico, il medico potrà appellarsi all’obiezione di coscienza e rifiutarsi di ‘staccare la spina’.

Viene finalmente codificata l’umanizzazione del morire, perché è stato introdotto il principio del fine vita e dell’accompagnamento del paziente compresa la sedazione palliativa continua profonda, associata alla terapia del dolore nella fase terminale della vita, quando il dolore sia refrattario alle cure. Niente, dunque, abbandono terapeutico coma messa al bando dell’accanimento terapeutico, ovvero no alla ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure.

Ma sulla sedazione palliativa profonda continua è passato un emendamento che permette al paziente di chiederla, ma poi si lascia al medico la facoltà di decidere se somministrare o meno la terapia. Ecco il testo dell’articolo 1-bis: «Il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38. Nel caso di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati.

In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. Il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua o il rifiuto della stessa sono motivati e sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico». Siamo dinanzi ad un’obiezione di coscienza, ma “mascherata”

Il medico, oltre a non essere responsabile delle conseguenze che derivano dal rifiuto del paziente a essere sottoposto a terapie, può rifiutarsi di “staccare la spina”. È quanto prevede un emendamento della commissione Affari sociali, che modifica il comma 7 dell’articolo 1 della proposta di legge sul testamento biologico. Di fatto, con l’approvazione dell’emendamento, si riconosce al medico di non avere obblighi professionali qualora il paziente, ad esempio, gli chieda di sospendere terapie fondamentali per la vita, come la nutrizione e l’idratazione, o addirittura l’interruzione dei macchinari che lo tengono in vita. Il che, tradotto, significa che viene riconosciuta al medico l’obiezione di coscienza, ma in modo indiretto.

Come dicevamo, nel convegno svoltosi all’Accademia, nel suo intervento il Prof. Collini ha ripercorso la travagliata storia che ha portato fino all’attuale disegno di legge soffermandosi poi ad illustrare quanto prevede sulle questioni di fine vita il codice deontologico dei medici. Da parte sua l’Avv. Sergio Genovesi si è soffermato sugli aspetti giuridici sottolineando come il disegno di legge non fa che riprendere normative e disposizioni nazionali ed internali. Il che era quanto mai opportuno ed auspicabile specie in una questione tanto complessa e delicata. Il prof. Savignano ha trattato degli aspetti precipuamente bioetici con speciale riguardo al ruolo del consenso informato ed all’autodeterminazione rilevando come, in ultima analisi, l’ultima parola spetti, con questa legge, alla persona ammalata che potrà decidere, sulla base delle DAT, come vorrà affrontare dignitosamente le fasi del morire.

Chiara Savignano

 

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