UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
Spiritualità
Il tempo del silenzio
Antefatto
Questo mio intervento è stato stimolato da un amico rimasto colpito da una frase scritta in una mail a lui e ad altri amici ed amiche: «Occorre fare posto al Signore e perdere tempo con Lui». Mi diceva che la scelta di “perdere tempo” diventa ancora più urgente quando siamo travolti da ritmi frenetici a cui, prima o poi, ci si abitua passivamente. Allora mi ha invitato a illustrarne meglio le radici spirituali – nel nostro caso, sono ispirate dalla fede, ma si fondono con il patrimonio culturale di ogni latitudine – e di farlo proprio ora, nei giorni in cui torniamo ad essere impauriti dalla pandemia infinita (luglio 2022), ahimè in coincidenza con la duplice preoccupazione per la gravissima siccità – effetto del cambiamento climatico con le note conseguenze tragiche “per mari e monti e fiumi e laghi”– e per la crisi socio-economica dagli esiti molto incerti. Su tutto soffia da troppi mesi l’acuirsi crudele di una «guerra mondiale a capitoli» (la nota frase di papa Francesco, in lacrime davanti al sacrario militare di Redipuglia già nel settembre 2014).
Attorniato da queste quattro variabili, forse cinque…, per nulla facili da tenere a bada, azzardo il mio intervento.
Il posto d’onore
“Fare posto” significa, nel linguaggio corrente, lasciare uno spazio libero per una persona importante o per un valore irrinunciabile. Vale a maggior ragione per i cristiani se i vangeli ci raccontano che anche Gesù «stava in disparte» per discernere, nel silenzio orante, il da farsi per diventare il Messia/Cristo: la missione era chiara, certo, non però le modalità di attuazione che il Padre non aveva preordinato per lasciare spazio alla libertà del Figlio.
Per noi il desiderio di fermarsi per far posto al Signore implica ovviamente una pausa, ma al fondo è decisivo lo spostamento in un luogo diverso, con il conseguente cambio di ritmo per imparare ad ascoltare meglio la voce della coscienza alla quale parla il Signore. È richiesto fare silenzio che, per poco o tanto che sia, possiamo persino imporci, a patto di non fissare un tempo valevole per tutti, tra l’altro soggetto a variazioni all’interno di ogni vissuto personale. Quale aiuto per sostenere il «peso leggiero» del silenzio, richiamo in breve la tradizione monastica (specie del primo millennio, senza citare opere e autori).
Stare in silenzio implica un certo travaglio perché possa diventare fecondo. Il silenzio è un esercizio, anche faticoso, che allena a uno sguardo nuovo sulla vita (ascesi); la sua fecondità si manifesta quale respiro vitale nell’atto di dialogare con se stessi, con gli altri e con Dio (mistica). Lasciando spazio al Signore, abbiamo presente gli altri verso i quali compiamo gesti e parole di compassione, senza diventare soffocanti; il silenzio infatti custodisce la differenza concreta del prossimo in quanto, sospendendo la pur necessaria parola strumentale, si generano parole vere di sostegno.
Questo in sintesi sui due tipi di silenzio che di fatto poi si compenetrano. Nell’ascesi è centrale la spoliazione di noi stessi: vigilando sui pensieri, ci abituiamo ad usare discrezione nel dialogo con il Signore, mai separato dalla intercessione per altri. Nella fecondità mistica, lo stupore di essere vivi consente l’accordatura interiore per disporsi a relazioni armoniose, ricche di riguardo e premura. Nello spazio della meditazione silenziosa siamo capaci di pensieri saggi, pronti a gustare il silenzio mistico, che ci viene donato se siamo regolari nell’esercizio, per mettere ordine in noi stessi e ritrovare la pace profonda con gli altri.
Ce lo ricorda il salmista il quale, nel ripercorrere i momenti di prove personali, riconosce i livelli alti di disperazione insinuatasi nella sua vita, soprattutto nelle situazioni difficili, quando aveva perso il senso della misura. Il silenzio consente invece il passaggio dal pianto di sconforto alle lacrime di pentimento e di commozione, segno di accoglienza della grazia del Signore per riprendere il cammino con fiducia.
Alla scuola dei Salmi
La salmodia, specie quella della proposta liturgica attuale, è la via maestra per la preghiera personale e diventa il modello del dialogo quotidiano con il Signore. Da principianti occorre qualche aiuto per prendere confidenza (incontri preparatori, fissare orari comuni…), ma poi, tranne nei versetti un po’ troppo legati agli idiomi e costumi
ebraici, siamo circondati dai quattro grandi pilastri della preghiera salmodica: lode e ringraziamento; supplica e lamento; richiesta di perdono; domanda. È opportuno fare qualche esempio.
a) lode e ringraziamento
«Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal. 8);
«Loderò il Signore con tutto il cuore, annunzierò tutte le tue meraviglie» (Sal 9A);
«Benedico il Signore che mi ha dato consiglio» (Sal 15);
«Il Signore è degno di ogni lode, la sua grandezza non si può misurare» (Sal 144).
b) supplica e lamento
«Signore, dalle angosce mi hai liberato; ascolta la mia preghiera» (Sal 4);
«Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole; intendi il mio lamento» (Sal 5);
«Fammi conoscere, Signore, le tue vie» (Sal 24);
«In te, Signore, mi sono rifugiato, mai sarò deluso» (Sal 30).
c) richiesta di perdono
«Pietà di me, Signore: vengo meno; risanami, tremano le mie ossa» (Sal 6);
«Non ricordare i peccati della mia giovinezza» (Sal 24);
«Abbi pietà di me, Signore, sono nell’affanno» (Sal 30);
«Pietà di me, Signore, nella tua grande misericordia cancella il mio peccato» (Sal 50).
d) domanda
«Sorgi, Signore, non dimenticare i miseri» (Sal 9B);
«Anche dall’orgoglio salva il tuo servo» (Sal 18);
«Signore, libera la mia vita dalle labbra di menzogna» (Sal 119);
«Chiedete pace per coloro che ti amano» (Sal 121).
Un alfabeto spirituale
Alla scuola dei Salmi vediamo che il Signore è fedele anche se noi lo siamo poco, che Lui si ricorda di noi anche quando siamo distratti, che è pietoso verso chi lo cerca con cuore sincero. Scopriamo come vivere bene, in pace con noi stessi e con gli altri.
Scopriamo la cosa più difficile per noi oggi: il Signore tesse il suo filo nello scorrere delle nostre giornate nelle quali potrebbe sembrarci di girare a vuoto. Lui sempre ci “vede-bene”, cioè cerca di benedirci, di riversare il suo amore in noi.Il Signore conosce la nostra gioiosa fatica di vivere ovvero la faticosa accettazione della vita, che pur così fragile non è mai del tutto fallimentare, anche quando siamo schiacciati sotto il peso del male, della morte violenta, delle colpe.
Alla scuola dei Salmi si impara l’alfabeto della memoria, della gratitudine e della benedizione. Senza questo alfabeto spirituale, non potremmo cogliere il legame dei vari frammenti che finiscono nella Messa, oppure in quella “spremuta” di versetti salmodici che è il Padre nostro.
Giordano Remondi
teologo