Violenza di genere

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Violenza di genere

Autrice: Cristina Danielis

          La violenza sulle donne è da molto tempo al centro del dibattito pubblico insieme e concomitante ai casi di femminicidio che oramai sono di una frequenza intollerabile. Il “progresso” ha raggiunto livelli di alta tecnologia; l’intelligenza artificiale, le comunicazioni, lo studio sull’alimentazione e come allungare la vita alle persone. Tuttavia la cosa che sembra ancora lontana è il rapporto civile e paritario tra uomo e donna. Le stime sui femminicidi sono terribili e sembra che il numero aumenti di giorno in giorno in modo esponenziale.

           Dallo stupro fine a sé stesso all’assassinio delle donne perché interrotto il legame con il compagno che non volevano più. Dai 16 ai 70 anni e oltre, l’età a rischio per una donna che esce di casa senza avere la tranquillità di poterlo fare senza correre rischi di violenze, percosse e stupro, magari di gruppo, è altissimo. E quella fisica, non è l’unica forma di violenza, non solo minacce, percosse, schiaffi e aggressioni, si tratta anche di ricatti, persecuzioni psicologiche e morali subite per molto tempo fino ad arrivare all’atto finale, il femminicidio.

Si chiama “violenza di genere”.

In linea di massima, secondo dati probabilmente sottostimati, in Italia ogni 7 minuti un uomo stupra una donna e ogni 3 giorni uccide la propria compagna.

Chi sono i carnefici?

Forse migranti irregolari o persone con disturbi mentali, magari tossicodipendenti?

          NO, questi sono stereotipi sbagliati. Per confondere, deviare e mimetizzare i veri responsabili. Perché i casi di violenza da parte di uomini che provengono da culture diverse dalla nostra sono largamente inferiori rispetto agli uomini italiani. La prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne tra i 16 e i 44 anni in Occidente e nel mondo sono per il 70% dovute a mariti, fidanzati, ex partner, rifiutati dalla compagna dopo molto tempo di sofferenze e vessazioni.

          E non solo questo. Per violenza quotidiana è anche quando una donna non può gestire il suo tempo, non può vestirsi come le pare, è assillata dalla gelosia del partner, subisce ricatti emotivi e psicologici, persecuzioni violando i suoi diritti fondamentali. Durante gli anni dedicati alla mia professione, tanti sono stati i corsi di aggiornamento sulla violenza di genere. Se l’obiettivo del Consultorio, in un approccio multidisciplinare è “promuovere la salute della donna e della famiglia” anche il tema della violenza è centrale nell’intervento territoriale.

          L’ostetrica accoglie la donna e spesso fa da filtro. Già al primo approccio, durante il colloquio, può cogliere aspetti che vanno oltre l’effettivo motivo che l’hanno portata al consultorio. Tanti sono i messaggi che arrivano all’operatore, dal linguaggio non verbale, piuttosto che parole chiave che sono lo specchio del suo malessere quotidiano. In quel contesto la donna si rilassa e si concede la libertà di espressione, lo spazio neutro e la presenza dell’ostetrica che le dedica tempo e ascolto, le sono sicuramente di aiuto nell’esprimere i suoi disagi. Tali condizioni favorevoli, unite alla fiducia che si instaura tra lei e l’ostetrica, sono un buon terreno su cui lavorare al fine di tutelarla da circostanze che nel tempo potrebbero metterla in serio pericolo.

Il Caso

           Chadia (nome di fantasia) è di nazionalità marocchina, quarantacinque anni circa, quattro figli e sposata ad un uomo autoritario e violento. Chadia ha adottato la cultura europea anche se non ha abbandonato il velo. In casa comanda il marito, che spesso la copre di lividi per i motivi più banali. La violenza all’interno delle mura domestiche è pressoché la “normalità”, e se i vicini ne sono a conoscenza, non ne fanno parola.

          Ho seguito Chadia nel percorso delle sue quattro gravidanze e questo ha contribuito a creare un solido rapporto di fiducia. A volte, durante i nostri colloqui, si lascia scappare qualche parola su ciò che succede a casa, ma senza la sua denuncia non mi resta che ascoltare e sperare che prima o poi si decida a porre fine a questa vita. Sa che io sono disponibile in qualsiasi momento. Un giorno, però, accade che Chaida si presenta al Consultorio con il velo non curato e con un grosso ematoma che le copre metà viso, fino alla mandibola. Capisco che è spaventata e che è arrivato il momento di intervenire, per lei e per i suoi figli. Io e la collega assistente sociale parliamo a lungo con Chadia, fino a che lei non decide di denunciare il marito. Dice che lo fa per i suoi figli che non sente più al sicuro accanto ad un padre tanto aggressivo, sempre pronto ad alzare le mani. Accetta, quindi, di andare al Pronto Soccorso e intraprendere l’iter giudiziario nei suoi confronti. A Chadia e ai suoi figli viene riservata una stanza separata e protetta dove poter raccontare il suo calvario. Il viso di questa donna è gonfio e con vistose ferite, esito della frattura dello zigomo e percosse. Grazie alla denuncia, il marito viene arrestato e condannato a tre anni di reclusione. La moglie, dopo tanti anni di crudeltà gratuite, viene ospitata con i figli in una comunità protetta e dopo la sentenza, potrà crescere i suoi ragazzi con lavori saltuari e l’aiuto dei servizi sociali.

          Questa donna non ha avuto amore, solo violenze e miseria, eppure ha dato prova di coraggio e determinazione, denunciando un uomo senza morale, privo del senso della famiglia e del rispetto della stessa.

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Considerazioni

          La donna, per natura, ha una tolleranza infinita nei confronti dell’uomo che ama. Per amore arriva a giustificare comportamenti e agiti anche illeciti. Ma non solo, subisce i maltrattamenti fino ad assumerne le responsabilità … per malesseri che invece appartengono soltanto a lui (” forse ho fatto qualcosa che lo ha fatto arrabbiare …”).

         Quando si rende conto che il loro rapporto è malato e pensa di allontanarsi da un rischio ben peggiore, spesso è troppo tardi. L’ultimo atto della sua esistenza. Irreversibile. Farà parte di una cronaca che annuncia l’ennesimo femminicidio. Ancora una volta quell’uomo ha concluso il suo volere.

         L’unica forza che lo fa sentire maschio è la forza fisica: la sopraffazione nei confronti della persona che lo fa sentire piccolo di fronte alla grandezza della donna. Perché dà alla luce i figli, li cresce, li ama incondizionatamente e dimostra loro di essere la colonna della famiglia. Questo, per alcuni maschi è insopportabile, così la violenza diventa l’unica strada possibile.

  E allora deve rendersi conto che l’amore incondizionato va di pari passo con l’autostima e la consapevolezza del proprio valore intrinseco. Esigere rispetto. Il rispetto da parte del compagno, del datore di lavoro, del vicino di casa, del prossimo. La donna, in quanto tale, sa sempre come cavarsela. Perché mai avrebbe avuto il privilegio del parto se non fosse in grado di espletarlo? L’amore è il suo faro, è la forza da cui attingere per superare le prove più ardue, ma lo stesso sentimento non deve portarla all’autodistruzione, perché amare non vuol dire morire, ma arricchirsi reciprocamente, confrontandosi trasferendo questi valori ai figli.

          I figli maschi che crescono in famiglie dove non c’è rispetto per la donna, saranno a loro volta compagni maltrattanti, le femmine cresciute da padri violenti saranno a loro volta maltrattate da adulte da altrettanti uomini simili al loro padre. I figli sono lo specchio delle loro famiglie, dove c’è amore e rispetto cresceranno futuri adulti responsabili ed equilibrati, viceversa avremo uomini capaci di imporsi solo con l’uso della violenza.

          Spesso, nella mia professione, assisto le mamme al loro domicilio, e il cuore si gonfia di felicità di fronte all’armonia, alla condivisione e agli scambi di tenerezze. Coppie giovani ma ricche di valori rese ancor più solide dall’arrivo di un figlio: bambini sereni e liberi di crescere in un clima positivo e accompagnati da genitori accoglienti che offrono terreno fertile per la realizzazione dei lori sogni futuri.

           Saranno adulti liberi di sviluppare le potenzialità di cui ogni bambino è dotato fin dalla nascita.

          Di queste famiglie ne è pieno il mondo, ne sono sicura, ne sono testimone e voglio crederci profondamente.

          Le persone non si distinguono dal sesso, ma dalle qualità interiori, dalla capacità di esprimere il meglio di se a vantaggio di una società ricca di valori.

        Il bene sovrasta il male, in questo dovremmo credere tutti.

Cristina Danielis

Ostetrica

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Dopo l’ultimo femminicidio.

Una riflessione

          Marisa Leo, l’ultima vittima, era di una bellezza disarmante. Sono incappata in una foto che la ritrae viso a viso con la sua bambina, due volti illuminati da sorrisi aperti al mondo che irradiano gioia. Uno di quei sorrisi è spento per sempre, l’altro chissà se sarà ancora così splendente ora che la sua mamma è stata cancellata dal mondo. Marisa non potrà nemmeno avere giustizia, la mano che l’ha abrasa dal foglio dell’esistenza si è girata verso il suo proprietario e lo ha sottratto all’assunzione delle sue responsabilità. È uno strazio continuo. Cadiamo come foglie autunnali sotto implacabile tramontana. Sembra non esserci scampo, non esserci strada sicura, non esserci comportamento capace di garantirti riparo. Denunci, non denunci, vai via, rimani, rivendichi il tuo diritto di essere persona libera, accetti di essere proprietà di un altro, bevi, non bevi, ti vesti scollata, ti vesti da scaricatore di porto, sei bella, sei brutta. Dove sta il recinto che ti tiene al riparo?

          Come ogni volta si farà tanto vuoto rumore nelle stanze del potere. Si invocheranno misure più severe, un codice rosso ancora più rosso, più interventi nelle scuole, nuove campagne informative ma poi lo sappiamo che la realtà quotidiana nelle nostre città sarà diversa. E ci saranno denunce a cui non si crede, processi alle vittime, giudizi che bloccano ogni tentativo di liberazione, fondi che mancano, provvedimenti che non vengono presi, centri antiviolenza costretti a chiudere, case rifugio sempre troppo poche per accogliere tutte, processi che ci mettono mesi o anni per cominciare, servizi sociali che premono per carenza di fondi perché le donne collocate in casa rifugio vengano dimesse, anche se non hanno ancora una casa, anche se il processo penale verso i loro abusanti non è ancora cominciato e quegli uomini sono liberi di cercarle, di fare ciò che vogliono, anche se non si riesce a trovare per esse un lavoro regolare, con un contratto, con una paga dignitosa, con orari compatibili con il loro essere sole a crescere i figli che hanno avuto il coraggio di salvare portandoli via dalla violenza assistita che li segnava dentro un giorno dopo l’altro, anche se non si riesce a trovare qualcuno disposto ad affittare loro una casa.

A volte ho una rabbia dentro che mi mangia, a volte solo una profonda infinita tristezza.

          Servono tante cose per provare davvero a proteggere le donne, servono tante cose per dar loro una vera occasione di rinascita, servono tante cose per cambiare le cose. Ma dovete chiedere cosa serve davvero a chi quella devastazione, quel dolore, quelle difficoltà, quelle paure, quegli ostacoli li conosce, li vede e li affronta ogni giorno accanto alle migliaia di donne che cercano prima di sopravvivere e poi di tornare a vivere con pienezza. Chiedeteci cosa serve. Chiedeteci di cosa abbiamo bisogno per lavorare meglio. Chiedeteci cosa serve davvero alle donne che accogliamo. Chiedeteci cosa potete fare per loro.

Che Dio vegli sulla tua bambina Marisa, che questo mondo possa essere per lei migliore di quanto è stato per te.

Benedetta Rizzi

La dottoressa Benedetta Rizzi, figlia della mantovana Alberta Poltronieri, è laureata in psicologia all’ università di Napoli e specializzata in psicoterapia ad indirizzo sistemico-relazionale.

Accanto all’attività privata, collabora con l’associazione Spazio Donna di Caserta operando come psicologa al centro antiviolenza Aurora di Piedimonte Matese e come operatrice nella CADM di Caserta (casa di accoglienza per donne maltrattate), una casa rifugio che accoglie donne vittime di violenza domestica (qualora ve ne siano insieme ai loro figli minori) che devono essere messe in protezione.

Riflessioni dopo il colloquio

Con una serie di articoli intendo proporre alcune riflessioni sul lavoro psicologico in un consultorio familiare dove opero da molti anni, in una forma discorsiva e narrativa che ho ideato immaginando un breve dialogo “con una collega tirocinante a cui mi rivolgo prendendo spunto dal colloquio che abbiamo appena svolto. (P. Breviglieri)

“Perché proprio a me?”

Lo psicologo di fronte al dolore del paziente

          Caro Giulio, la signora S. che abbiamo incontrato poco fa ci ha parlato dei tanti suoi problemi fisici che in un susseguirsi di tappe sembrano disegnare una sorta di via crucis. Sono problemi che stanno limitando la sua vita e interferiscono molto sul suo ruolo all’interno della famiglia, come moglie e madre creandole sensi di colpa e di inadeguatezza. S. è una donna forte, vitale piena di voglia di vivere e di relazioni positive, è sempre stata abituata ad affrontare i problemi con energia, ma ora di fronte ad un percorso sanitario incerto di cui non si conosce l’esito, si sente schiacciata, avvilita, svuotata, con la paura di cedere allo sconforto. Sul piano clinico potremmo probabilmente parlare di un’incipiente depressione reattiva, visti i suoi sintomi sempre più definiti: scoraggiamento, senso di colpa, senso di scarso valore, rabbia, insonnia, voglia di isolarsi.

         S. è una delle tante persone che si rivolgono allo psicologo non per un quadro psicopatologico, un disturbo o una difficoltà relazionale ma per una fatica a reagire ad eventi particolarmente gravosi e dolorosi che li hanno investiti e che hanno stravolto il loro abituale assetto di vita e di percezione di sé.

          Cosa fare in queste circostanze? Come cercare di dare un aiuto che non sia solo un ascolto passivo e che d’altra parte non può utilizzare il setting e gli strumenti tipici della psicoterapia?

          Ripensando al colloquio che abbiamo svolto proviamo a individuare alcuni passaggi e interventi con il paziente che possono essere piuttosto cruciali e fondamentali.

Mi pare che potremmo individuare quattro momenti particolarmente importanti che si dovrebbero concatenare nel colloquio:

  1. rispecchiamento comprensivo
  2. validazione
  3. contrasto alle distorsioni cognitive
  4. promozione di strategie di fronteggiamento
  5. ricerca e attribuzione di un senso

Passiamo in rassegna brevemente queste diverse fasi:

Rispecchiamento comprensivo

           Con questo termine si intende il momento in cui cerchiamo di raccogliere l’esperienza del nostro paziente attraverso un ascolto attento, non giudicante ma nello stesso tempo analizzando i diversi aspetti che ne costituiscono il contenuto; i fatti principali, i pensieri del soggetto, i suoi stati d’animo, le reazioni dell’ambiente esterno. Questa fase è accompagnata da un atteggiamento profondamente empatico dello psicologo che deve “immergersi” nell’esperienza riportata dal paziente, sentirla risuonare dentro di sé, comprenderla nei suoi significati. Questo movimento di ascolto è punteggiato da numerosi momenti in cui lo psicologo restituisce il discorso del paziente riportandolo un po’ con le sue parole o trovando delle brevi sintesi che ne vengono a cogliere il significato. Non si tratta di interpretazioni ma semplicemente di modi per dire le cose che il paziente ci ha trasmesso con le nostre parole mostrandogli così nel modo più efficace che lo abbiamo capito.

          Quando la signora S. ci ha parlato ad esempio del suo lungo ricovero in isolamento, ho commentato ad un certo punto che “immaginavo quanto fosse terribile essere lontani dai propri cari e non vedere dei progressi sul piano della ripresa fisica”.  Sono frasi molto semplici in apparenza quasi banali, che tuttavia creano questa sintonia nel sentire con il paziente.

          L’effetto di questo intervento non è mai banale perché il paziente riceve la conferma di essere stato capito in profondità e che il suo vissuto doloroso è stato “preso in carico” dallo psicologo in tutta la sua complessità e pesantezza.

Validazione

           Questo termine si riferisce allo sforzo di dimostrare al paziente che le sue reazioni hanno un senso, che sono in fondo comuni e che possono essere spiegate come modalità comprensibili di reagire. Questo tipo di intervento è volto a rassicurare il paziente rispetto al fatto di “essere come gli altri”, di non essere più debole, più cattivo o più stupido, ma semplicemente di essere come tutti: un essere umano che reagisce secondo modi e meccanismi abbastanza comuni. Per svolgere questa operazione durante il colloquio, lo psicologo cerca di commentare e discutere con il paziente le sue reazioni e spiega anche dal punto di vista del funzionamento mentale come esse siano coerenti e comprensibili.

           Con S. abbiamo preso in esame ad esempio quel continuo ripetersi nella sua mente: “perché proprio a me?” “perché di tanti pazienti solo io ho avuto quella complicazione così rovinosa?” “sento che contro di me vi è un destino avverso”. Questi pensieri così negativi e distruttivi, sono tuttavia molto normali e comuni e dipendono da tanti fattori, dalle nostre esperienze passate, dal nostro temperamento e anche da come è fatto il nostro sistema di psichico come esseri umani.

Con S. per cercare di spiegarle come mai lei si senta di aver fatto qualcosa di male per il fatto di essere malata, abbiamo illustrato il concetto della giustizia immanente che il grande psicologo Jean Piaget ha scoperto esistere nei bambini. Egli ha infatti mostrato come i bambini, ma anche gli adulti quando devono dare dei giudizi “a caldo” tendono a mettere in relazione delle conseguenze negative con cause attribuibili a comportamenti errati commessi dal soggetto anche se le due cose (conseguenze e comportamenti) sono completamente disgiunte e scollegate nella realtà. Si tratta in buona sostanza della stessa spiegazione che davano gli ebrei al problema delle malattie fisiche che venivano attribuite a delle colpe commesse o dal soggetto stesso o dai suoi genitori o antenati.

           Sapere che in noi ci sono meccanismi di pensiero automatici e primitivi che ci portano a dare significati irrazionali alla realtà, non elimina questi pensieri ma ci permette di fare un primo passaggio per sentirci non completamente succubi degli stessi. Ecco che quindi arriviamo ad un’altra fase importante che consiste nel prendere le distanze da questi.

Contrastare le distorsioni cognitive

           La mente della persona che vive condizioni di limitazione, stress, avversità o incertezza si riempie di pensieri molto negativi che tendono a riproporsi con insistenza e a generare sentimenti ed emozioni sempre più distruttive. Questi pensieri spesso sono esagerati o catastrofici e in qualche modo sono anche frutto di quelle modalità di pensiero primitivo o infantile con cui talvolta leggiamo la realtà. Per questo possiamo chiamarle vere e proprie distorsioni cognitive: rappresentazioni della realtà in cui la stessa anche se non è deformata al punto da divenire delirante, resta comunque alterata e sensibilmente diversa da come la si potrebbe guardare con un’ottica più equilibrata.

La nostra paziente di oggi ne ha portati diversi di queste distorsioni, che abbiamo cercato di mettere in discussione con un confronto pacato; ne faccio un breve elenco:

  1. L’idea di essere perseguitata da un destino avverso (interpretazione scorretta della realtà);
  2. L’idea che i suoi mali siano la conseguenza di una colpa o di una sua debolezza (svalutazione di sé, attribuzione erronea di responsabilità);
  3. L’idea chela sua vita sia completamente annullata nelle sue potenzialità dai problemi di salute (catastrofismo);
  4. L’idea che la sua malattia avrà conseguenze devastanti per tutta la sua famiglia e che lei non può permettersi di non essere come avrebbe voluto (eccessivo senso di responsabilità e eccessive aspettative su di sé).

           E’ importante individuare queste distorsioni con la paziente e metterle in discussione attraverso una confronto realistico e dialogico.  Non si tratta naturalmente di arrivare diritti alle conclusioni dicendo sbrigativamente “sono idee sbagliate”, ma si tratta di intraprendere un dialogo direi quasi socratico in cui l’idea viene messa a confronto con la realtà e ne viene vagliata la sua capacità di comprensione e di descrizione della realtà stessa. Io dico spesso ai pazienti che le nostre idee e i nostri pensieri sulla realtà sono la nostra bussola per questo dobbiamo fare un lavoro periodico di verifica per capire se queste nostre rappresentazioni riescono a contenere la realtà stessa nella sua complessità o sono delle semplificazioni che la distorcono. Alla fine di questo processo di confronto con la paziente, ad esempio, abbiamo riconosciuto che la malattia non ha messo in evidenza un suo lato debole ma tutt’altro

ella ha dimostrato in diverse circostanze di riuscire a proteggere il figlio da un’esposizione troppo traumatica e addirittura di renderlo partecipe di alcune procedure sanitarie senza che egli si spaventasse. Ecco che l’idea “sono un disastro come persona perché non riesco a fare più tutto come prima” è stata sostituita con l’idea “sono stata in grado di gestire nella mia famiglia la malattia in modo molto protettivo ed efficace soprattutto verso il figlio”. E’ evidente che questo processo cognitivo di elaborazione va consolidato e tenuto vivo a fronte dei pensieri automatici di cui si parlava che prendono spazio nella mente un po’ come certe illusioni ottiche si impongono alla percezione nonostante noi sappiamo che siano ingannevoli.

Promozione di strategie di fronteggiamento (coping)

           Accanto a questi processi di analisi dei pensieri e dei sentimenti che si agitano nel paziente, è molto importante dedicare un tempo a ragionare con lui su come pensa di affrontare sul piano comportamentale il problema, attraverso quali strategie di supporto e di aiuto e di mantenimento di alcuni momenti di gratificazione e di distrazione. Questo tipo di “discorsi pratici” hanno anche il senso di immettere il paziente in un contesto in cui siamo con lui ad affiancarlo nella ricerca di soluzioni più soddisfacenti in merito alla gestione della quotidianità, alla creazione di momenti di piacere, al mantenimento degli interessi e delle abitudini del paziente stesso. Nessuno può sottrarsi alla necessità di ripensare alla propria quotidianità, alle proprie relazioni, a come usare il proprio tempo e le proprie energie quando un evento impegnativo come una malattia interviene seriamente nella nostra vita.

          Con la nostra paziente S. a questo proposito ci siamo interrogati su come potrebbe ugualmente andare in vacanza nei posti per lei tanto amati o come potrebbe chiedere più esplicitamente un aiuto al proprio compagno nella gestione del figlio.

Una volta trovato anche questo relativo nuovo equilibrio in cui il paziente si ritrova cambiato suo malgrado e per certi aspetti adattato a questa nuova condizione, resta però un ulteriore domanda a cui è importante cercare di rispondere con il paziente stesso;

domanda che talvolta egli non fa esplicitamente ma che emerge tra le pieghe del dialogo: “tutto questo che mi è capitato è un non senso o ha un significato per me e per le persone che mi vivono accanto?”

Ricerca e attribuzione di senso

          Eccoci dunque al termine di questo piccolo percorso ad incrociare la domanda più difficile e forse più atipica, che in fondo molti psicologi non ritengono di prendere in considerazione o di sollecitare. Quello che succede ad una persona che vede stravolta la sua vita da una malattia è giustamente sentito come un “non valore”, un evento assurdo e negativo che andrebbe eliminato al più presto per tornare alla normalità. Il male è rifiutato come un oggetto estraneo, assurdo, beffardo che deve essere tenuto lontano ma che purtroppo fa parte in diversa misura della nostra esistenza. Quando questo male visita la nostra vita per un tempo non breve, dobbiamo assumere una posizione di fronte ad esso e ridefinire noi stessi in base anche a questa nuova condizione.

          Come ha ben spiegato lo psicologo statunitense A. Maslow l’essere umano vede in sé una molteplicità di bisogni (fisiologici, di sicurezza, sociali, affettivi, di stima, di auto realizzazione) al culmine dei quali egli ha collocato i bisogni di realizzazione di sé e i bisogni spirituali. Si tratta in altre parole di rispondere all’antico e sempre vivo dilemma che accompagna ogni essere umano a partire dall’adolescenza: ma in fondo quale è il significato della mia vita, cosa ci sto a fare al mondo? Come mi colloco di fronte alla vita che sto vivendo, che valori voglio incarnare nella mia vita e nei miei atteggiamenti? Cosa voglio lasciare agli altri? Che persona voglio essere?

Sono domande dal sapore filosofico o religioso che certamente possono trovare lo psicologo in una posizione di imbarazzo in quanto ritiene di non essere formato per affrontare questi temi, e credo che ciò sia vero. Tuttavia penso sempre alla disperazione della mia paziente S. che guardando alla sua vita sconvolta si chiede: “e ora? Che senso ha la mia vita ora?” Certamente è una domanda a cui nessun esperto può rispondere ma ritengo che essere con la mia paziente in un rapporto di affiancamento e di aiuto vuol dire anche non eludere questa domanda e porsi di fronte a lei a riflettere, interrogarsi, cercare con lei.

           A questo punto paziente e psicologo sono alla pari, sono due persone che si interrogano e che cercano, una portatrice di una condizione di sofferenza, l’altro portatore di tante esperienze simili, oltre che la propria, su cui ragionare.

          Non è una questione che si può liquidare con una soluzione, ma aver posto il problema, averlo quantomeno definito, aver delineato alcune possibilità, può aiutare il paziente a sentirsi sempre più uomo tra gli uomini che vivono la comune condizione del dolore. Si tratta come essere umano di dare un significato alla propria vita non solo nonostante la sofferenza ma anche attraverso la sofferenza. Questa cosa così difficile si è materializzata nel colloquio con S. quando mi ha detto: “vede ho capito che posso educare il mio bambino anche se sono malata, anzi anche attraverso l’esperienza della malattia, e vedo già ora che egli sta diventando più sensibile e maturo”.

           Non ho saputo rispondere se non ringraziandola per questo che mi stava dicendo. Per tradurre questo suo pensiero, l’ho espresso in una poesia che le ho poi inviato e che riporto con cui concludo questa mia riflessione.

Vita sulle rocce

sia vita, così s’ergono, unici punti verdi nell’azzurro terso che è un miracolo di grazia e forza il loro tronco scuro, dura è la fatica di quelle radici ma quando li ammiri dritti danzare nel sole o alla loro ombra riposi, senti la gioia che riversano in ogni palmo pulsante e li ringrazi di tanto amore.             Dr Paolo Breviglieri     Psicologo psicoterapeuta  

Ci sono abeti

che si innalzano

non nell’ombra morbida

di un inclinato bosco,

ma una roccia acuta

è data loro in sorte;

quale colpa, quale capriccio

li ha fatti così

solitari interpreti

di acrobatiche esistenze

non è dato

né sensato chiedere:

il vento ciecamente

sparge i semi

perché ogni angolo

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