I “LEGAMI DIFFICILI” NELLA FAMIGLIA E IL CONSULTORIO FAMILIARE

Autore: Prof.  JEAN  G.  LEMAIRE

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali

U. C. I. P. E. M.

XI Congresso Nazionale

I “LEGAMI DIFFICILI” NELLA FAMIGLIA E IL CONSULTORIO FAMILIARE

ROMA  23-25 aprile 1989

LA COPPIA CONIUGALE IN DIFFICOLTA’

Valutazioni teoriche e implicazioni operative

Prof.  JEAN  G.  LEMAIRE

*docente di psicologia clinica all’Università Descartes, Parigi-Sorbonne

*fondatore della A. F. C. C. C. – Associazione Francese dei Centri di Consulenza Coniugale

I LEGAMI DIFFICILI NELLA VITA DI COPPIA

                                               (dal punto di vista della struttura o del rinnovamento delle coppie)

                                                                                                                                                                                                                                                                                           Roma 23 aprile 1989

l

L’idea di legami difficili suscita l’immagine di situazioni assai diverse e non può rispondere a una definizione molto precisa. Potrebbero essere definiti difficili i legami conflittuali, nel senso che questi esigono degli sforzi e sono caratterizzati da tensioni e da dispiaceri. Ma esistono anche molti altri legami difficili, non necessariamente moltoconflittuali. Esistono inoltre legamiconflittuali, semprepiù frequenti, che rimangono difficili per poco tempo, nel senso che si concludono rapidamente con il disfacimento della coppia e talvolta con un nuovo tipo di rapporto, fra i partners separati, rapporto meno intenso ma molto più semplice e più chiaro. Perciò, dal punto di vista psicologico è meglio distinguere tra “conflittuale” e ” difficile”, due nozioni che possono essere associate, ma che non lo sono necessariamente.

Chiunque abbia potuto osservare questi fenomeni, ha notato una grande “difficoltà” nello stabilirsi e nel durare di legami tra partners molto diversi per origine, ambiente. ceto sociale, etnia, e soprattutto per cultura o età assai differenti. Tutto questo mette in evidenza quanto il legame di coppia dipenda dalla organizzazione sociale. Tuttavia. ridurre i problemi delle coppie a quelli della società è una operazione abusiva e scientificamente inesatta. Le correlazioni fra legami familiari e sociali sono complesse. Il problema dello psicologo e del terapeuta è precisamente quello di studiare questa correlazione, evitando tuttavia qualunque semplicismo riduttivo.

I
I

D’altronde, sappiamo anche che vi sono legami coniugali molto difficili, al di fuori delle differenze di appartenenza sociale: molto difficili e che spesso non si risolvono con la superficiale misura della separazione.  Alcuni coniugi affermano insieme e con molto vigore la comune volontà di divorziare, ma non giungono mai a questo punto. Si dilaniano reciprocamente, dilaniano le loro famigli e, ma mantengono fra loro un tipo di relazione complessa, paradossale e tuttavia estremamente solida: legami molto difficili, mastabili quasi indispensabili.

La spiegazione non scientifica, con tutte le razionalizzazioni inerenti, si rifà spesso ai parametri sociali, morali o biologici. Tutti i servizi sociali per l’infanzia hanno avuto modo di avvicinare queste strutture di coppie genitoriali spesso patogene, talvolta dannose. E i tentativi, autoritari o persuasivi, per separare i genitori si rivelano spesso vani.

L’aspetto interessante della nostra odierna riflessione è quello di tentare di chiarire alcune di queste disfunzioni attraverso l’analisi dei processi profondamente inconsci che hanno concorso al costituirsi o all’evolversi dei legami amorosi tra i partners. Farò anche qualche rapida osservazione sui legami di coppia difficili per cause sociologiche limitandomi a qualche riflessione sull’articolarsi degli aspetti sociali e degli aspetti psichici.

Per cogliere tali aspetti, ricorderò brevemente la tradizionale distinzione fatta da Freud a proposito della scelta dell’Oggetto d’amore, fra scelta anaclitica (per avere un sostegno) nella quale il Soggetto cerca l’Oggetto in quanto gli procura soddisfazione, cure, protezione, etc,…e scelta narcisistica nella quale il Soggetto cerca sé stesso nel suo Oggetto: sé stesso, ciò che è stato, ciò che vorrebbe essere, o una parte di sé stesso piuttosto idealizzata. Ma Freud, fin dal suo primo articolo sul narcisismo, sottolineava la stretta associazione fra questi due tipi di scelta in ogni individuo. Ho molto insistito in altre occasioni sui risultati di specifiche analisi di coppie, nelle quali la scelta dell’Oggetto avviene in virtù di una problematica per la quale il Soggetto ha bisogno di conferme narcisistiche: scegliere in maniera specifica l’Oggetto che può rimandare al Soggetto un’immagine confortante di sè, per esempio confermando il sentimento della propria esistenza (sentimento mai completamente rassicurato), della propria identità, della propria interezza, e soprattutto il sentimento del proprio valore.

Ora, il sentimento del proprio valore, la stima di sé (amor proprio nel senso originale del termine, essenziale per la sopravvivenza) può anche essere raggiunto tramite la scelta e il possesso immaginario di un Oggetto grandioso, soddisfacente, che porta onore e che arricchisce il Soggetto (sono il marito della donna più bella, sono la moglie dell’uomo più potente, ecc…). Tuttavia è ugualmente possibile rinforzare il sentimento sempre insufficiente di stima di sé cercando di impadronirsi di un Oggetto insufficiente, manchevole: è proprio grazie a questa manchevolezza che si può, per confronto, pensare di essere il migliore, il più forte, il più capace, etc.•.

Questo ultimo aspetto, generalmente profondamente inconscio prima di

una terapia di coppia, ha già un peso notevole anche per molte coppie

che funzionano bene!  

E tale aspetto diventa evidentemente ancora più significativo nei casi

 di legami difficili, specialmente quando un Soggetto invia al proprio

 Oggetto – per vie diverse e nascoste- una specie di doppio messaggio:

da un lato, in maniera visibile e cosciente. un richiamo perché

l’Oggetto d’amore si migliori e corregga le proprie manchevolezze, la propria debolezza, i propri errori; dall’altro, in maniera nascosta e comunque inconscia, un sentimento di timore che l’Altro migliorandosi diventi superiore e preferibile, e quindi rimandi al Soggetto stesso

un’immagine mediocre di sé, o che non vi sia più ragione di

un’illimitata devozione, grazie alla quale questo Soggetto aveva fino a quel momento rassicurato sé stesso circa il proprio valore morale.

        L’osservatore attento coglie questo tipo di doppio messaggio, in apparenza contradditorio, in molte coppie difficili, specialmente in coppie  di alcolisti. Dare peso solo

all’aspetto cosciente del messaggio, sottovalutando l’altro

aspetto, vuol dire non prendere in considerazione tutti i benefici secondari inconsci che un Soggetto può trovare legandosi, in coppia di lunga durata, con un Oggetto giudicato imperfetto, o handicappato, socialmente debole per esempio come un malato o come uno straniero.

A maggior ragione quando si insiste sulla solidità, sulla perennità di un legame reso forte dal carattere “sacro” del matrimonio!

Questo aspetto fondamentale della relazione “narcisizzante” -lo è qualunque relazione amorosa- permette di cogliere la difficoltà interiore di legami complessi nei quali gli atteggiamenti paradossali non sono stati sufficientemente compresi nel loro valore di messaggio. Lo si ritrova, insieme ad altri aspetti, in molte situazioni meno caratteristiche di quelle esposte in precedenza.

Anche parlando di legami ben tollerati (e quindi più facili) si possono cogliere delle difficoltà in casi di una profonda asimmetria, ovvero una grande differenza fra i partners: grande differenza di età in una società in transizione nella quale il ruolo della donna, così a lungo rimasto immobile, sta ora rapidamente evolvendo. Ma anche grande differenza di età che rende più difficile il reciproco cambiamento dei ruoli fra i partners. (Come potrà il più anziano e più ricco di esperienza, socialmente più potente, riuscire a farsi “proteggere” dal più giovane o immaturo, quando le circostanze imporranno questo cambiamento nei ruoli: per esempio una malattia, la disoccupazione, la pensione. o semplicemente stati di depressione o di affaticamento?).

La grande differenza di status sociale o di livello economico non è certamente la più problematica in un’epoca di mutamenti sociali rapidi e imprevedibili. Talvolta presentano maggiori difficoltà le differenze culturali, in quanto sono una espressione simbolica, o meglio immaginaria, correlata

con l’origine inconscia della reciproca attrazione. Tali differenze sono spesso fonte di mutuo arricchimento, ed anche favoriscono l’aumento della tolleranza reciproca, aspetto che attualmente è molto importante; ma questa “commistione” presuppone che all’interno della coppia vi siano capacità di comunicazione facile o in rapido progresso, perché in caso contrario la fissazione di ciascuno dei due partners in un ruolo rinforzato dai pregiudizi sociali o familiari di origine rende molto difficile un adattamento che comunque dovrà imporsi.

Si potrebbero ricordare qui molti esempi di asimmetrie e di differenze all’origine della coppia per mettere in evidenza la scelta inconscia di un partner che rivesta un preciso ruolo, scelta che sottende i bisogni difensivi di ognuno dei due in rapporto ai propri problemi interiori. Ogni innamorato, naturalmente, tenta sempre inconsciamente di mettere a tacere i propri problemi più o meno gravosi proprio grazie alla scelta di un partner dotato di caratteristiche specifiche, positive o negative. Questo modo di organizzarsi può mostrarsi duraturo, ma può anche essere scosso da un radicale cambiamento delle condizioni di vita, di status sociale, economico o biologico. Le coppie che vogliono durare nel tempo dovranno costantemente rinegoziare la loro relazione nel corso degli anni, sola condizione perché i desideri di ognuno da un lato, e i bisogni difensivi inconsci di ognuno dall’altro, possano nuovamente trovare la loro soddisfazione principale attraverso lo stesso partner.

Evidentemente, questo presuppone una capacità evolutiva di ciascuno dei due partners e soprattutto una attitudine a rinegoziare non soltanto l’attribuzione dei compiti o delle funzioni, ma anche dei ruoli, intendendo il ruolo come un insieme strutturato delle aspettative consce e inconsce di ogni partner (Richter). Una difficoltà che si presenta spesso è quando uno dei due partners ha raggiunto un proprio sviluppo personale affettivo e relazionale, mentre l’altro -più avanti in partenza – non ha affatto progredito.

Uno dei piani sui quali questa differenza è sensibile è quello della capacità di esprimere i propri sentimenti, i desideri e le angosce. Ora, questa capacità, spesso- presente in misura diversa al momento del primo incontro può evolvere differentemente nell’uno e nell’altro: (un caso particolare è quando un partner viene scelto come portavoce dell’altro “io non ero capace di parlare di me”, dice uno “e ho segretamente pensato che il mio futuro partner sarebbe stato capace di indovinare tutto di me, o di parlare al posto mio ” E qualche anno più tardi questa dannosa distribuzione di ruoli può aggravarsi rendendo molto difficili gli scambi e le rinegoziazioni necessarie).

         Un piano ancora più importante accanto alla capacità di esprimere le emozioni e gli affetti, è quello relati vo alla capacità verbale di analiz_

z are la relazione:

                   un caso frequente oggi è quello di un uomo attivo e istruito, ben inserito socialmente, che, per la sua formazione intellettuale e per la sua riuscita sociale,  abbia disimparato a parlare di sé stesso e dei propri bisogni affettivi, mentre invece sua moglie, scelta più giovane, meno istruita e meno preoccupata della efficienza economica e di razionalizzazioni intellettuali, ha avuto modo di imparare ad analizzare i giochi di rapporti, per esempio attraverso le letture, gli incontri professionali o la partecipazione a gruppi di donne o di amiche.

Essa acquisisce quindi a poco a poco nella coppia un potere specifico grazie a questa capacità di analisi, che fa lentamente capovolgere i rapporti di forza in suo favore. Naturalmente, questa nuova forza può essere utilizzata in favore della coppia, ma può anche andare a suo discapito per esempio tramite una dequalificazione progressiva del partner. L’uso quasi perverso delle intuizioni acquisite  può addirittura arrivare a una disconferma narcisistica di sé stesso da parte dell’uomo e spingerlo o alla rottura del legame o al suicidio morale o fisico. Ricorderemo qui questi

fenomeni primari che segnano così profondamente la vita inconscia della coppia, facendo un breve  richiamo a ciò che caratterizza la relazione amorosa.          

      In effetti, la vita amorosa è dilaniata, dal principio e senza posa, da due potenti impulsi in apparenza contraddittori. L’equilibrio, dialettico, si organizza in modo diverso secondo le coppie, ed anche secondo i momenti evolutivi di ogni coppia; ma queste due spinte sono costantemente presenti e osservabili.

La prima di queste due pulsioni è    rappresentata da una aspirazione “fusionale”, che talvolta viene confusa con l’ amore stesso. Può essere spiegata come nostalgia di una originaria unione del lattante alla madre, in quel periodo primario nel quale il piccolo essere ignora tutto, anche la propria  esistenza e i propri limiti, perfino ciò che lo distingue dalla propria m adre; è il periodo in cui la separazione fra Sé e l’ Altro  non è ancora stata  recuperata. Il senso di onnipotenza (concetto del quale si    abusa nel linguaggio contemporaneo) è perfettamente rispecchiato nella percezione del bambino per la quale appena compare il desiderio immediatamente esso è soddisfatto: il mondo degli oggetti è a sua disposizione e soddisfa i desideri dell’onnipotente. Ma, sappiamo, il lattante fa ben presto la dolorosa esperienza della propria separazione del profondo abbandono e cerca, naturalmente senza saperlo, di ritrovare quel tipo di unione fusionale iniziale così soddisfacente. Ed effettivamente la diade madre-lattante evolve: “la preoccupazione m1aterna primaria” si modifica, la madre osa ormai non soddisfare più tutti

I

 i desideri del piccolo; grazie a questa lenta separazione, si forma nel bambino la percezione del proprio fallimento, dei propri limiti, quindi del suo essere specifico, ed è più corretto ormai parlare di “insieme simbiotico” che non di “unità fusionale”.

Non ritornerò su concetti già espressi altrove per insistere sul fatto chela relazione

I

 amorosa riproduce, nella sua strategia, i moti di questa primarelazione che il futuro Soggetto  comincia a stabilire con suoi futuri Oggetti. Stessa strategia.    ma elaborazione evolutiva di mano in mano che   le pulsioni libidinali si sviluppano appoggiandosi sulle pulsioni di autoconservazione; e di mano in mano che non è   più  in causa la sola soddisfazione dei “bisogni biologici” e si fa strada la problematica dei desideri. La iniziale aspirazione fusionale assume progressivamente una forma più evoluta, in quanto la conquista dell’altro si costruisce attraverso   la seduzione: conquista psichica ed affettiva.

   Tuttavia le prime relazioni con l’ Oggetto sono segnate da questa relativa non distinzione fra Soggetto e Oggetto, non distinzione a cui corrispondono i meccanismi anch’essi primari del funzionamento psichico umano: meccanismi di separazione, di idealizzazione, di proiezione e di identificazione proiettiva messa in evidenza da molto tempo dalla scuola  Kleniana.

E’ caratteristico dell’essere umano essere già capace di fare la distinzione tra ciò che è per lui buono o cattivo, quando ancora non è capace di distinguere tra Sé stesso e l’Altro. Questa ultima distinzione rimane a lungo imperfetta, aleatoria, instabile, anche se progressiva; a questo proposito l’apprendimento è lento, e nel corso della vita, tale distinzione si accompagna a movimenti regressivi, nei quali nuovamente i confini si confondono, specialmente in occasione di grandi crisi emotive, o meglio passionali.

    La passione amorosa è  precisamente l’espressione di uno di questi grandi movimenti regressivi.

Ritorniamo ora alla seconda delle grandi spinte che stanno al di sotto di qualunque relazione di coppia: la grande spinta che tende a proteggere l’individuo da questa aspirazione fusionale che rischia di assorbirlo completamente in un grande “tutto” e di

annullare la sua esistenza.

In effetti l’amore, pur essendo una fondamentale pulsione della vita, costituisce un immenso pericolo per il funzionamento psichico dell’individuo e per il suo equilibrio effettivo: bisogna ben che l’individuo si difenda. Ora, nei confronti di questo slancio, che nasce da lui per andare verso l’Altro, la sua capacità di difesa è limitata e molto instabile. I poeti ci hanno lasciato numerose descrizioni di questa lotta fra le due pulsioni interiori di ogni innamorato: “Tu sei mio, io sono tuo, per sempre uniti, mi perdo in te, io sono te, tu sei me più di me stesso… ecc.”. Sono frasi che rispecchiano bene la potenza dell’aspirazione fusionale. La letteratura romantica descrive i pensieri e gli atti a cui alcuni individui sono stati spinti per salvaguardare la propria esistenza individuale fino a sacrificare con il delitto l’Oggetto d’amore e le sue esigenze. Se quest’ultimo viene per sempre immolato in sacrificio per la difesa individuale dell’ altro, è ben chiaro che il legame, difficile, fra i due è   violentemente attaccato.

Il terapeuta di coppia è ben allenato a osservare le diverse tattiche utilizzate; bisogna anche che egli colga la legittimità di questa difesa individuale e lo scopo di questa lotta, per poter rendere possibile la sua progressiva elaborazione. I due partners potranno così trovare una nuova forma di equilibrio, o trovare una giusta reciproca distanza, condizioni necessarie perché il loro amore, ambivalente, possa essere vissuto nella gioia, anche nella passione, senza che per questo si distruggano a vicenda. Bisogna considerare questo moto difensivo individuale come fondamentale, inerente alle successive riorganizzazioni di qualunque relazione amorosa durevole. E’ dunque in questo quadro che si realizzano questi “legami difficili” dei quali oggi mi viene chiesto di parlare.

Approfondire questi concetti porta a formulare una critica dei modi di esprimersi e degli atteggiamenti più globali della società contemporanea, che tende a catalogare gli adulti come esseri completamente statici, senza passato, senza alcuna alea evolutiva, come i Soggetti del “cogito, ergo sum“. Se l’essere umano raggiunge talvolta questa elevatezza di pensiero, non la· raggiunge all’improvviso. E’ comunque nell’ambito della vita amorosa efamiliare che ricompaiono le tracce di questi arcaici funzionamenti.

 Ma è necessario soffermarci oggi sugli apporti di alcuni autori relativi a questo nuovo campo di osservazione costituito dalla psicopatologia del neonato.  Questi coraggiosi terapeuti passano la loro vita se non a guarire, almeno a tentare di trattare -e quindi di comprendere– questa straordinaria sindrome che è l’autismo. Qualunque siano i fattori organici e genetici in causa, questi autori ci forniscono elementi che possono farci cogliere alcuni aspetti utili al nostro    campo specifico, in apparenza ben  lontano dal loro. Da questi diversi lavori, nati sia da precise osservazioni comportamentali, sia da una    interpretazione psicoanalitica, si  può oggi ricavare l’idea generale che    il neonato all’inizio della vita, e più tardi il lattante o  il bambino nei suoi momenti  di regressione o di crisi, non è ancora capace di integrare le proprie diverse parti in una totalità, in una unità: le sue diverse percezioni sensoriali non sono ancora unificate, e nemmeno riunite sotto uno stesso “mantello” (Metzger), sotto una stessa “pelle” (Anzieu). Non è capace di riconoscere la totalità e l’interezza di sé stesso.

Ma non vi è     né continuità temporale, né continuità spaziale in queste  esperienze emotive successive: diremo per esempio che il neonato percepisce per un momento qualche cosa della madre, o del seno che gli fornisce nutrimento e pace; se si addormenta e poi è svegliato da un dolore, non è capace ancora di localizzarlo nello stomaco, né in qualche altra parte del corpo: ma in quel momento non ritrova, e non è capace di ricercare sua madre. Non possiede ancora quella unità che permette un sufficiente coordinamento momento in cui un dolore o una emozione lo agitano; sembra che egli non possa riconoscere i fenomeni né rassicurarsi tramite una percezione visiva, di cui è invece capace quando non soffre o non è agitato.

Nessuna continuità, nessun permanere in lui di quello che diventerà più tardi (se progredisce) il suo futuro Oggetto d’amore. Senza dubbio non è stata completamente riconosciuta tutta l’importanza dei fenomeni primari di non-integrazione, di non-continuità, di non-unificazione stabili dei campi percettivi, fenomeni sui quali le psicopatologie del lattante attirano oggi la nostra attenzione.

I ragionamenti introspettivi degli adulti sono vani per capire un periodo della vita nel quale precisamente manca la continuità dell’esperienza psichica e la permanenza dell’Oggetto interiorizzato. Non c’è permanenza, non c’è durata, né tempo, né Oggetto sicuro, né sicurezza dal momento in cui se ne è   separati. Non avendo conoscenze, né la sicurezza di queste, il piccolo essere umano sembra doversi accontentare -dal momento in cui fa questa fondamentale esperienza di carenza- di costruirsi una immagineprogressivamente più stabile e più precisa dell’Oggetto a poco a poco unificato del suo desiderio. Per molto tempo non può che immaginarlo e, prima ancora di immaginarlo, non può che attenderlo. La sua attesa e la sua speranza probabilmente sono potenti prima che egli sia capace di riconoscere l’Oggetto fonte delle soddisfazioni attese. Sperare è una parola già troppo vaga, in quanto come sperare, come attendere, dato che non è ancora stata acquisita la nozione di tempo, di durata, di una successione temporale di momenti, di una successione temporale di sensazioni, di percezioni sensoriali isolate, di emozioni non ancora pensate?

Bisognerebbe aver già memorizzato una successione, una serie finita di sensazioni anch’esse precedenti di gran lunga una conoscenza e una certezza, nonché la percezione organizzata di una supposta realtà. All’inizio, e nel migliore dei casi, quando una figura materna lo rende possibile, si comincia solamente ad aspettare, ad immaginare, a sperare e diciamo pure a credere, privando però questi termini di qualunque concetto di organizzazione, di pensiero, di esperienza, di conoscen.za.

Ciò che soltanto si può ritenere è che le cose accadono come se, dopo la perdita della fusione iniziale, dopo la nascita, vi fosse una sorta di vaga aspettativa, di speranza: l’amore non può nascere che come fede. L’amore non risponde affatto ad una conoscenza del proprio Oggetto; non è soltanto puro affetto, ma si accompagna ad una dimensione di attesa che permette di realizzare una specie di fede. Tutto questo potrebbe condurci più lontano, su un piano filosofico, per comprendere il ruolo fondamentale della fede in generale nel funzionamento psichico abituale dell’uomo adulto razionale. Una certa concezione razionalistica piuttosto ristretta del XIX secolo, una corrente scientista ci hanno confuso le idee idealizzando una Ragione creata per gli adulti e dagli adulti, Ragione che dimenticava le proprie origini confuse e mitiche, Ragione che ci ha fatto percepire assai male i fondamenti più arcaici del funzionamento psichico umano, e mal percepire soprattutto il ripetuto ripresentarsi di queste origini nella vita psichica e affettiva del soggetto normale, e in particolare dell’innamorato.

Per contro, una precisa osservazione dei funzionamenti psichici iniziali del neonato, fortemente accentuata ma non deformata nei casi di psicopatologia, ci permette oggi di capire che l’attività razionale e cognitiva è largamente secondaria e tributaria di questa primaattività psichica. Qualche cosa di simile ad una fede precede la conoscenza e spesso la supplisce.

Non mi lancerò qui in un ampio dibattito filosofico che richiederebbe molte sfumature; limito le mie riflessioni al campo della vita amorosa, supporto naturale della coppia umana. L’amore appare come un ideale, all’inizio vago e indifferenziato che               viene progressivamente elaborato fino a costituire una sorta di fede nell’altro, fede che lega il Soggetto innamorato al proprio Oggetto idealizzato. La grande aspirazione fusionale si ripristina ma viene anche sempre               più elaborata nello psichismo, si trasforma a poco a poco in nostalgia dolorosa e nello stesso tempo nella convinzione sempre più precisata, che l’amore per questo Oggetto debba permettere di riconoscerlo sempre di più come essere autonomo: con, naturalmente, tutti i passi indietro, le ricerche, le illusioni ripetitive che conosciamo e che alimentano il nostro lavoro quotidiano con le coppie in trattamento. La descrizione dei fenomeni psichici che abbiamo qui definito come fondamento della vita amorosa inconscia, non avrebbe interesse se non ci permettesse, nella situazione terapeutica, di capire e di conferire un senso               ai fenomeni che osserviamo nei nostri consultanti, apparentemente adulti.

Quando si studia da vicino il funzionamento di alcuni soggetti nella loro vita amorosa, e di alcune coppie nel loro mutuo scambio, si è obbligati a riconoscere che in questo settore specifico gli individui non sono per nulla definiti totalmente, che godono di una identità né di limiti rigidi, che   non sempre possono usufruire della loro totale integrità e della loro assoluta unicità.

Nei momenti difficili della vita coniugale compaiono cosi delle ambiguità che talvolta i bambini mettono in evidenza in occasione di una terapia familiare: incertezze di identità, per esempio, negli scambiintimi. Chi sono io? chi è l’altro? L’identificazione con l’Altro può diventare così intensa che talvolta il Soggetto rischia di ingannarsi su sé stesso.

Sto parlando qui di situazioni di coppie formate da soggetti che non possono per nulla essere considerate patologiche. Il clinico percepisce molto bene che questi soggetti non hanno difficoltà a definire nettamente la propria identità nella vita sociale; tuttavia all’interno della coppia essi perdono i loro contorni precisi e vivono continui slittamenti (dentro i confini dell’altro).

Bisogna perciò essere molto critici nei riguardi di alcune teorie, sociologiche o psicosociologiche, che per comprendere la coppia si rifanno al funzionamento dei gruppi e dei sistemi sociali o che, viceversa, pretenderebbero di capire il funzionamento dei gruppi sociali sulla base di ciò che avviene all’interno della coppia. Le persone, nella loro coppia, hanno effettivamente un modo di funzionare molto specifico, che al di fuori della coppia sarebbe giudicato bizzarro. Sarebbe pertanto eccessivo definire patologiche queste modalità di funzionamento in coppia, funzionamento meno differenziato, più fusionale, più simbiotico, più parcellare, con identificazioni mischiate, quando coloro che vivono tutto questo se ne dichiarano felici e non hanno alcuna altra forma di patologia. In nome di che cosa, e secondo quale arbitrio definirli patologici se la loro indifferenziazione reciproca resta controllata?

Sebbene anche nei rapporti familiari esistano questi giochi complessi, essi sono molto più pronunciati all’interno della coppia. Gli adulti che vivono la coppia con queste modalità (reciproca indifferenziazione) non sono necessariamente genitori che vivono il loro rapporto con i figli nello stesso modo indefinito e indefinibile. In una parola, essi non sono né psicotici e nemmeno necessariamente genitori disfunzionali o patogeni.

Attualmente è moralmente del tutto “proibito” e senza dubbio pericoloso per un soggetto adulto il mostrarsi dipendente, mentre negli intimi processi di coppia si osservano giuochi di dipendenza assai complessi, che spesso costituiscono la base dei giuochi amorosi e del mutuo erotismo.

Certo non tutte le coppie funzionano con gli stessi giuochi di dipendenza. Alcune hanno modalità più organizzate o rigide ed è difficile affermare che questo sia positivo o negativo. Queste forse tenderanno a coinvolgere nella loro vita di coppia una parte minore delle proprie zone fluttuanti e incomplete.

Tuttavia la cosa più sconvolgente per il terapeuta di coppia, che scaturisce dalla interpretazione psicoanalitica, si riconduce a questo: la strutturazione della coppia si compie attorno alle zone meno definite del Sé, se non dell’Io. Dire “del Sé” sarebbe più esatto: questo termine designa il soggetto nei suoi motidi strutturazione, di organizzazione, nel momento in cui si libera dal suo magma avvolgente, dalla sua matrice psico-culturale e nel quale si definisce grazie alla propria differenza. Ma se l’individuo raggiunge questo scopo in alcuni campi, non lo raggiunge mai in tutti. Ed è proprio per questo che il soggetto costituisce una attrattiva maggiore per un altro soggetto che, nelle stesse zone psichiche, presenta una relativa “porosità” dei propri confini. E fra queste due superfici porose si stabiliscono scambi molto intimi nei quali qualche cosa dell’Io dell’uno e qualche cosa dell’Io dell’altro si compenetrano.

Sembra essere questa la base del funzionamento di coppia. Alcune persone coinvolgono una zona di sé stessi più circoscritta, altri una parte molto più vasta. D’altra parte, non è certo più patologico interessare nella vita di coppia una zona molto vasta di sé stessi, in quanto ciò può anche rivelare una sicurezza sufficiente da permettere un grande spazio poroso. Parallelamente altri che non raggiungono una sufficiente unità di sé, saranno sempre attratti da persone con fragili confini dell’io. Queste, ad esempio, sono le coppie “border-li ne”. Nella terapia familiare si ha spesso a che fare con famiglie che si sono costituite intorno a coppie di questo tipo, famiglie le cui regole sono molto complicate. In effetti, queste persone debbono finire di strutturarsi, finire di costruire qualche cosa che non è stato completato, e cioé un Sé maggiormente organizzato: ma, per fare questo, hanno un intenso bisogno di difendersi e di proteggersi dall’altro. E nello stesso tempo hanno una grande porosità e un immenso bisogno di questo altro come contenitore. Si trovano dunque contemporaneamente in uno stato di vitale dipendenza dall’altro e con un più forte bisogno di difendersi da lui. Nasce da qui un cifrario estremamente difficile dei loro bisogni. In queste coppie i rapporti sono spesso assai conflittuali, poiché i soggetti non riescono più a trovare sé stessi. Tracce meno accentuate della stessa condizione si notano in persone più sicure, dotate di una maggiore fiducia nella propria unità e di una maggiore coscienza della propria unicità, ma che facilmente scoprono al loro partner gli aspetti più porosi dei loro confini.

 Così, le tracce dei funzionamenti psichici arcaici sono presenti in tutte le relazioni di coppia, in quanto l’amore è   in gran parte da tali tracce costituito. Bisogna ora sottolineare che gli individui conquistano una maggiore o minore libertà in rapporto a questo materiale arcaico: alcuni dispongono di un alto grado di libertà e possono utilizzare queste energie primitive per il loro benessere e per la loro sicurezza. Ma altri, più rigidi, non possono o non sanno ancora godere di questa fortuna. Per esempio, alcune carenze affettive precoci, o alcuni deficit o rigidità strutturali rendono alcune persone incapaci di sopportare in sé stesse questo moto fusionale, questa dipendenza e addirittura questo legame. Gli ostacoli nella loro storia affettiva hanno portato alcune persone con carenze a erigere una corazza contro i propri slanci amorosi per i quali hanno troppo sofferto, dai quali hanno dovuto proteggersi e che hanno imparato a scacciare o a trattenere.

Le  capacità di difendersi dalla aspirazione amorosa sono assai inegualmente distribuite e molti dei nostri consultanti sono spinti, malgrado la loro volontà, ad adottare misure estreme per evitare l’approfondimento di una relazione amorosa che, ·in qualche parte dell’inconscio, è vissuta come troppo pericolosa, assorbente, annientante. Come diceva Laing nell’opera “L’Io diviso” e “L’insicurezza ontologica” si può  essere spinti a temere maggiormente l’amore che l’odio:   temere di più l’affetto, la tenerezza, la comprensione, il penetrare in sé dello sguardo altrui, che non l’odio, il disinteresse o l’incomprensione. Con questo possiamo meglio comprendere sintomi   che esprimono queste angosce e che limitano la relazione. E possiamo imparare a rispettarli; talvolta a farli rispettare e capire dal   partner; altre volte, dopo averli fatti comprendere e riconoscere nel loro significato, potremo facilitare la loro evoluzione, la loro trasformazione. Penso qui specialmente alle numerose disfunzioni sessuali. Sovente permetteremo che la coppia possa “giocare”, attribuendo a questo termine il doppio significato di ludico e meccanico. Faremo in modo che un nuovo spazio transizionale (nel preciso senso che gli è dato da Winnicott) renda possibile un minimo di comunicazione, ludica, fra le parti transizionali (Io /non-Io) di ognuno dei partners.  Ciò diventerà possibile quando avremo assicurato una maggiore stabilità dell’Io di ciascuno. Si tratta infatti proprio di questi confini. Forse non avremo guarito i due individui, ma avremo permesso uno spostamento: spostamento del sintomo precisamente. La chiusura dei confini del Sé sarà assicurata in campi diversi dal piano genitale, evitando l’orgasmo, evitando la relazione sessuale. Ma il confine si consoliderà in maniera diversa, per esempio tramite una maggiore distanza psichica (per esempio una maggiore autonomia) forse al prezzo di una più accentuata reciproca aggressività, come capita spesso nel trattamento di queste anorgasmie o di queste sindromi di non-consumazione sessuale.

Questi esempi mostrano assai bene che non bisogna confondere i “legami difficili” nella coppia con i “legami conflittuali”, perché quelle disfunzioni o queste inibizioni sessuali si notano soprattutto in coppie nelle quali aveva regnato fino a quel momento un buon accordo, tenerezza e comprensione. E la guarigione sessuale si accompagna talvolta alla scoperta di una possibile aggressività nella realtà o nell’immaginario.

Alcune persone trovano il proprio equilibrio non senza difficoltà grazie a un partner e nella collusione rendono un poco più ampio il confine del loro Io per costituire un “Noi”-talvolta solamente un “Si”- che li aiuterà a vivere. Altri per contro avranno bisogno di separarsi, o addirittura di mai impegnarsi in una relazione troppo intensa della quale hanno paura: non possono sopravvivere che a condizione di mantenere la più grande distanza possibile con un eventuale oggetto, tanto forte è  la loro angoscia di perdersi nell’altro e di annientarsi in Lui. Nell’uno e nell’altro caso, non può essere escluso il riferimento alle aspirazioni fusionali.

Ogni individuo si libera con maggiore o minore difficoltà dalla propria matrice originale, e soltanto a poco a poco diventa un soggetto, un Io. In alcuni casi non vi giungerà mai né mai avrà la percezione della propria interezza e della propria identità .In altri casi vi giunge, ma soltanto parzialmente o temporaneamente. Vi saranno dunque nella sua vita momenti in cui potrà vivere una qualche autonomia, ma a prezzo di altri momenti nei quali dovrà vivere i propri aspetti meno autonomi. Ed è spesso la coppia che offre questa specie di “cambiamento di scena”.

Prima di diventare un”Io”, ognuno è stato una parte di un “Noi”

Ritornando dunque al nostro soggetto-tipo, oggetto della riflessione dei  filosofi, credo che non venga ben mostrato correttamente fra l’Io ed il Noi quando si pone 1’IO come primario e si presenta, in molti testi, il Noi come l’unione di due Io ben delimitati che  mettono qualche cosa  in comune.  Bisogna invertire le cose:  non si raggiunge un Io se non dopo essere passati attraverso un Noi. La condizione umanafondamentale è quella di un essere che si affaccia alla vita soltanto liberandosi moltolentamente da una simbiosi, in maniera ineguale, fluttuante o intermittente, punteggiata da passi indietro episodici o periodici: e questo essere arriva a un Io soltanto partendo da un Noi, che è primario.

A questo proposito alcuni modelli culturali, più ancora forse di quelli del passato, infastidiscono la nostra interpretazione. In particolare i modelli della biologia costituiscono una fonte di equivoci, in quanto essa impone rappresentazioni culturali limitate al corpo. Dal punto di vista biologico un individuo è definito il giorno della sua nascita, nel quale il suo corpo è diviso da quello della madre e il cordone ombelicale è tagliato. Ma questa spiegazione disturba la comprensione psicologica dell’identità e dell’unità del soggetto. Sul piano psicologico, il bambino non è mai completamente uscito dalla madre: ogni cosa di lui non è completamente uscita.

Di conseguenza, egli ritrova periodicamente nel corso della vita la traccia di un passato che, nella specie umana, non si è risolto come nelle altre specie. Vi sono situazioni nelle quali qualche cosa dell’esistenza di questo “noi primitivo” persistente è abbastanza tollerato: nella relazione di coppia, nei legami familiari, in qualche amicizia e in alcuni gruppi. Per contro, in altre situazioni, il soggetto si troverebbe in grande pericolo se manifestasse qualche cosa della propria intimità porosa avrebbe soltanto inconvenienti sociali piuttosto gravi perché gli altri avrebbero presa su di lui.

E’ questa senza dubbio la ragione per la quale la nostra società, così individualista erazionale, propone relazioni di coppia nelle quali l’amore è fondamentale.

Il problema delle indicazioni per una terapia di coppia.

Le circostanze storiche nelle quali si sono sviluppate le prime consulenze di coppia hanno probabilmente introdotto la questione della indicazione ad una terapia in maniera piuttosto indiretta. L’accento fu posto su problemi di conflitto. E questa resta una delle indicazioni importanti, ma bisogna guardare le cose più da vicino. Vi sono pure indicazioni per una terapia di coppia in soggetti che non si trovano in una situazione conflittuale. Per esempio, sappiamo che disfunzioni sessuali sovente sopravvengono in coppie la cui relazione non è conflittuale. Perciò l’espressione del sintomo può essere variabile, e la nozione di conflitto non è criterio necessario né sufficiente.

Se si tenta di riunire in gruppi l’insieme dei casi per cui è indicata la terapia di coppia, si constata che le indicazioni più valide riguardano certi tipi di funzionamento di coppia nei quali i codici di comunicazione sono divenuti troppo complessi, fra soggetti che o funzionano con modalità simbiotica o fusionale, o al contrario si difendono accanitamente da tutto ciò che potrebbe costituire una minaccia di funzionamento simbiotico o fusionale. Questo porta alcune persone ad azzuffarsi e a diventare follemente aggressive, nel momento in cui provano un po’ di tenerezza o qualche desiderio di felicità fusionale o regressiva. Per esse, sarebbe perdere il senno. Alcuni di questi soggetti hanno un’immensa aspirazione fusionale, contro la quale si difendono moltissimo.

Scegliere fra terapia individuale e terapia di coppia non è sempre così facile.

Per prima cosa, bisogna riflettere sul caso di coloro che chiedono una consultazione in coppia per evitare di mettersi in discussione personalmente. Bisogna dunque che il terapeuta distingua bene, e, se il caso lo richiede, sappia rinviare gli interessati verso indicazioni individuali psicoanalitiche.

Invece, troppi terapeuti ignorano ancora il cammino clinico che precede la terapia di coppia per il trattamento di alcuni soggetti non ben definibili. Di fronte a disfunzioni individuali che sentono legate a un clima simbiotico fra i coniugi, hanno il torto di limitarsi a un ragionamento semplicistico che consiste nel dire: “Sono già fin troppo miti, separiamoli, e proponiamo loro delle    terapie    individuali distinte”. Questo ragionamento di “buon senso” è l’espressione di ciò che un clinico non dovrebbe più fare, oggi, cioè supporre che il problema sia risolto e confondere il proprio desiderio con  le indicazioni terapeutiche. Ed è anche capire assai maleil senso del compromesso o della collusione inconscia che ha favorito lo strutturarsi spontaneo di quella coppia. Questo disconoscimento è frequente. E cosi assistiamo a terapie e ad analisi individuali prematuramente interrotte in seguito a tali indicazioni date con leggerezza.

E’ infatti soltanto nella coppia che alcuni soggetti riescono a metabolizzare un buon numero delle loro tendenze arcaiche e regressive che senza la coppia resterebbero sotto il moggio, e potrebbero esprimersi soltanto con modalità patologiche o asociali. Proprio attraverso la coppia il clinico ha la possibilità di accedere, con uno straordinario privilegio, ad una mobilizzazione psichica individuale alla quale, altrimenti, non si avrebbe accesso. Nella nostra società moderna, evoluta, democratica, la coppia costituisce forse per eccellenza una specie di “ruolo del folle” (nel senso di una follia non patologica). Nella vita sociale ciascuno deve potersi presentare come individuo

completo, distinto, e si esige che ognuno sia un individuo in ogni momento. Però, la parte arcaica di sè, che non è utile a una società moderna, bisogna bene che ognuno la viva da qualche parte, in un giardino segreto. Spesso sono le relazioni amorose, non solo eterosessuali ma anche omosessuali, ad offrire questo luogo. Lo sviluppo dell’omosessualità ha forse qui una delle sue chiavi.

Nella terapia di coppia, non si tratta dunque di curare la coppia, ma di servirsi della coppia per aiutare gli individui. Bisogna essere molto chiari. La coppia non è un fine terapeutico, è un mezzo. E’ dunque essenziale che il terapeuta di coppia sia totalmente indipendente dal divenire della coppia, ed è soltanto a questa condizione che può lavorare aiutandosi con i processi  di  coppia per una mediazione  terapeutica, e non considerando la coppia come fine terapeutico.


Condividi, se ti va!