Sulla funzione materna

Sulla funzione materna

 

 Autore: Giuseppe Cesa

 

Secondo moltissimi degli studiosi che hanno dedicato la loro attività all’analisi del rapporto materno – infantile, questo rapporto costituisce la base, la fondamenta della futura vita psichica dell’individuo.

Per molto tempo, all’inizio della vita, invece, la figura del padre rimane sullo sfondo, in secondo piano, un importantissimo supporto logistico ed affettivo. La protagonista è la madre. Già durante la gravidanza, secondo molti studiosi, il futuro bambino comincia a conoscere la madre, ne sente il battito cardiaco, ne percepisce i movimenti, gli stati d’animo, il ritmo veglia sonno e, soprattutto attraverso ciò che gli giunge attraverso il cordone ombelicale, godrà o soffrirà dei comportamenti materni. Molte delle sostanze che la madre ingerisce, respira o si inietta, infatti, entrano in circolo anche nel feto.

 

 

Fin da subito, infatti, la donna si considera ed è considerata in stato interessante e nasce il pensiero di prendersi cura del bambino aumentando la cura ed il rispetto di sé. Con la nascita di questo pensiero nasce anche il prototipo di quello che sarà un legame sempre più forte, coinvolgente ed esclusivo.

Con l’avvicinarsi del momento della nascita, questo pensiero si fa sempre più presente, il pancione è sempre più evidente e la madre si appresta a preparare un nido accogliente e protettivo. Tra non molto ciò che aveva solo una rappresentazione fantasmatica ed enterocettiva diventerà

una realtà esterna. Tutto finora funzionava automaticamente, e poi? La madre sarà in grado di continuare a proteggere, nutrire, curare e, ancora, sarà normale?

 

 

Questo, lentamente, ma inesorabilmente, porta la madre a concentrare la propria attenzione in un legame profondissimo, preverbale, esclusivo e continuo col neonato. Alcuni lo chiamano “fusionale” proprio per quel senso di con-fusione di due menti, di due sentire in uno solo.

La madre, infatti, può non sentire un fortissimo rumore in strada ma svegliarsi al più lieve movimento del

neonato. Oppure, può riuscire a capire se quell’intonazione di pianto o quel vagito sono segnali di fame, sonno, dolore o quant’altro. Il rapporto empatico è detto preverbale proprio perché non si basa su una comunicazione verbale affinché le comunicazioni vengano correttamente intese. Questo livello di comunicazione fortemente empatica e preverbale costituirà il prototipo del modello di intesa e sincronia nelle future relazioni affettive, ad esempio, con la persona amata. Su questa esperienza empatica e preverbale si costituisce la capacità di amare, di essere amati, di fidarsi ed essere affidabili.

Proprio nell’intensità e nella profondità di questo coinvolgimento, che non ama interferenze esterne, la madre “dona” al figlio il significato del sentire fisico, degli atti e degli stati d’animo, seppur rudimentali. È quella che gli psicoanalisti anglosassoni chiamano “reverie materna” o, anche, “funzione alfa”. Cosa succede in pratica? Se, ad esempio, io neonato sento malessere e urlo, la mamma mi nutre amorevolmente, il malessere passa e sto bene. Nella mia mente di neonato registro la seguente sequenza: malessere, urlo, poppata, amore, caldo, benessere.

 

 

 

Il ripetersi di questa sequenza positiva consentita dalla presenza attenta e premurosa della madre, permette al neonato di costruire un primo significato: piango perché ho fame e sto bene perché vengo amorevolmente nutrito. Anche l’amorevolmente è fondamentale. Notissimi esperimenti, fatti con i primati (scimmie), hanno dimostrato quanto sia importante il contatto materno piacevole ed affettuoso per lo sviluppo psico-fisico dell’individuo. A questo proposito esiste un noto e drammatico esperimento voluto da Federico II°; questi voleva sapere quale lingua avrebbero parlato gli uomini se nessuno gli insegnava a parlare. Accolse allora dei neonati e li affidò a brave balie con l’ordine di trattarli con la massima cura ma assolutamente non parlare loro. Sembra che siano tutti morti di “fame di parole”.

All’inizio della vita, quindi, la madre ha l’importantissima funzione di prendersi cura del bimbo e farlo sopravvivere ma, anche, di permettere la nascita del pensiero e del significato del sentire in relazione. Si pensi ad esempio, al di là delle conseguenze fisiche, a quali conseguenze mentali può portare un comportamento materno insofferente verso il neonato che piange affamato. Riformulando la sequenza di prima otterremo: malessere, urlo, sgridata, freddo, cibo, abbandono. Il significato che può nascere è: se piango perché ho fame allontano l’affetto ed il cibo è cattivo. Ovviamente non è l’inevitabile distrazione o la stanchezza di qualche volta a creare dei danni allo sviluppo psichico, ma un disinteresse o un’insofferenza continui e sistematici.

Questo legame molto stretto dura fino allo svezzamento, quando il padre da buon rompiscatole dovrebbe cominciare a stimolare un allentamento di quel legame richiamando la madre e invitandola a riemergere

anche nel mondo adulto.

Solo un buon supporto del padre e della famiglia consente alla madre di immergersi serenamente a quelle profondità senza perdersi e con la fiducia che qualcuno l’aspetta e richiamerà. La situazione è simile a quella di un palombaro che può immergersi in sicurezza solo se a bordo c’è qualcuno che lo tiene agganciato, gli fornisce aria e lo fa emergere a tempo debito.

Nella nostra cultura, in cui anche la donna lavora, lo svezzamento viene stimolato anche da eventi esterni come la fine del periodo di maternità. In questo contesto, pertanto, vengono presto ad inserirsi figure sostitutive come baby-sitter, nonne o asili nido. Tutte persone che vengono ad assumere alcune funzioni materne e che avranno un peso relativo nello sviluppo dell’individuo.

Se con la profondità del legame fusionale la madre dona il significato del sentire, con lo svezzamento consente l’individuazione della persona. Cioè, da quel rapporto estremamente intenso e con-fuso in cui, appunto, tutto era confuso senza distinzione tra sé e altro da sé, si passa – attraverso l’esperienza graduale di piccoli ritardi e distacchi – all’esperienza di sé distinto dall’altro da sé.

Questa può venire definita la graduale nascita psicologica dell’individuo che diviene un io.

La madre, pertanto, assolve le sue funzioni rendendosi disponibile in modo totale, corporeo e psichico, per poi lasciar andare. Deve essere disponibile a coinvolgersi tutta, anche a rischio della propria vita psichica e fisica, per poi consentire – prima fisicamente e poi psichicamente – i distacchi, le nascite, consegnando il figlio al padre e al mondo. È un impegno notevole che richiede grande capacità di amare e darsi senza riserve, oltre alla capacità di vivere i vuoti delle nascite. Richiede, inoltre, una buona dose di fiducia nel compagno e nel mondo a cui viene consegnato il figlio.

 

 

 

Lentamente, col passare degli anni, la funzione materna regredirà in secondo piano e sarà, invece la funzione paterna ad assumere il ruolo di ponte verso il mondo, con le sue regole, i suoi divieti, le sue possibilità e i suoi rischi.

Giuseppe Cesa,

psicologo – psicoterapeuta

 

 

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