Notizie sulla separazione e sul divorzio

DIVORZIO: Quando è possibile ottenere il Tfr.

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Secondo l’art. 12-bis legge n. 898 del 1970: “Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”. Esaminiamo questa problematica partendo dalla definizione di trattamento di fine rapporto.
Il trattamento di fine rapporto (TFR) possiamo definirlo come una somma accantonata dal datore di lavoro e che viene corrisposta al lavoratore dipendente nel momento in cui il rapporto di lavoro venga a cessare per qualsiasi motivo. 
Se il lavoratore è un divorziato che versa già all’ex coniuge un assegno divorzile periodico e quest’ultimo coniuge non è convolato a nuove nozze, il Legislatore stabilisce che il lavoratore a cui spetta il TFR è tenuto a corrispondere all’altro coniuge anche una quota di detto TFR. 
Quali i presupposti per ottenere la quota di TFR? I presupposti sono due:
Il coniuge divorziato deve già percepire dall’ex coniuge ex lavoratore un assegno divorzile versato con cadenza periodica. Più precisamente, se il coniuge non ha diritto all’assegno divorzile o lo ha ricevuto in un’unica soluzione, non avrà diritto alla quota del TFR.
Il coniuge interessato alla quota del TFR non deve essere convolato a nuove nozze.
Quando è possibile proporre la domanda di riconoscimento di una quota di TFR? Occorre fare una distinzione:
TFR maturato prima della pronuncia della sentenza di divorzio: in questo caso il diritto a percepire la quota di TFR viene dichiarato in sentenza; 
TFR maturato dopo la sentenza di divorzio: in questo caso, invece, il coniuge interessato alla quota dovrà proporre un’istanza al Tribunale affinché il suo diritto sia accertato e riconosciuto. In tal caso il Tribunale valuterà se, al momento della richiesta, l’ex coniuge richiedente è in possesso dei due presupposti richiesti dalla Legge sul Divorzio, ovvero:
Se percepisce un assegno divorzile con cadenza periodica dall’ex coniuge;
Se non è convolato a nuove nozze. 
Se il diritto alla quota di TFR è maturato prima che venga proposta la domanda di divorzio? In questa ipotesi il diritto a percepire la quota di TFR non spetta in quanto sorto prima che sia stata proposta la domanda di divorzio. Chi scrive ritiene necessario precisare che l’indennità riscossa prima della domanda di divorzio incide esclusivamente sulla situazione economica – reddituale del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno o meglio legittima la proposizione della domanda di modifica delle condizioni di separazione.
Qual è la percentuale della quota di TFR dovuta? La percentuale di quota dovuta è individuata dalla Legge sul Divorzio e corrisponde al 40% dell’indennità totale “riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.
In caso di decesso del coniuge tenuto alla prestazione, l’altro coniuge ha diritto a percepire la quota di TFR? La risposta al quesito è positiva. I giudici di Piazza Cavour hanno stabilito che “l’obbligo dell’ex coniuge […] ha natura patrimoniale, con la conseguenza che, in caso di decesso del coniuge tenuto alla prestazione, esso, se rimasto inadempiuto, rientra nell’asse ereditario, gravando sugli eredi del de cuius” (cfr. sent. n. 4867/2006).
Avv. Luisa Camboni newsletter studio Cataldi 12 settembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/23265-divorzio-quando-e-possibile-ottenere-il-tfr.asp

Mantenimento: l’ex moglie può far sequestrare la casa del marito.

Tribunale di Torino, Ottava Sezione civile, 22 giugno 2016
Separazione e divorzio: sì alla richiesta di sequestro dell’immobile come garanzia del pagamento dell’assegno di mantenimento. In attesa che esca la sentenza di divorzio a stabilire l’importo dell’assegno di mantenimento che l’uomo dovrà versare all’ex moglie, quest’ultima può chiedere il sequestro dei suoi beni immobili a garanzia del futuro pagamento. Ma ciò solo se riesce a dimostrare il serio pericolo che, nel frattempo, i beni del marito possano sparire da un momento all’altro. È quanto ricorda il Tribunale di Torino.
Una crisi economica, un momento di difficoltà lavorativa, la riduzione dello stipendio o l’improvvisa disoccupazione possono mettere in ginocchio un uomo. Ma è proprio questo il campanellino d’allarme che può far rizzare le antenne dell’ex moglie che accampa il diritto a essere mantenuta: e poiché prevenire è meglio che curare, quest’ultima può attivarsi immediatamente affinché il tribunale metta subito sotto sequestro i suoi beni. Ciò onde evitare che la casa, un terreno, ecc. possano essere venduti e, successivamente, i soldi occultati alla donna. Ma attenzione: perché si possa agire in questo senso non c’è bisogno che il giudice abbia già determinato l’ammontare dell’assegno di mantenimento; poiché la sentenza di divorzio potrebbe arrivare anche dopo qualche anno, si può agire anche subito, in corso di processo.
La vicenda. Momento di difficoltà per il marito che perde il lavoro e ammette di avere i conti in rosso. Lui lo dice per spingere al ribasso l’importo del mantenimento che il giudice gli imporrà di versare all’ex moglie. E invece, così facendo, si tira una zappata sui piedi. Possibile? Sì, perché la moglie intravede in ciò il rischio di rimanere senza pagamento del mantenimento e, per questo motivo, è comprensibile e legittima – secondo i giudici – la sua richiesta di sequestro conservativo relativamente ad alcuni immobili di proprietà dell’uomo.
Tutte le volte in cui è fortemente ed obbiettivamente a rischio il pagamento del mantenimento, il soggetto beneficiario di tali somme può richiedere al tribunale il «sequestro conservativo» di uno o più beni immobili del coniuge obbligato al versamento. Ovviamente, i timori (manifestati in questo caso dalla donna) devono avere un concreto fondamento e non devono essere solo il frutto di una paura personale, seppur dettata dall’esperienza e dalla conoscenza del carattere dell’ex. In questo, però, si può sfruttare l’errore processuale della controparte che, per non vedersi condannato al pagamento del mantenimento o per ottenere un importo minimo, piange miseria davanti al giudice, autodenunciando la propria misera situazione economica. Ed è proprio questa ammissione che può servire al precedente consorte per dimostrare il fondato pericolo di perdere il mantenimento.
Nel caso di specie, infatti, l’uomo aveva spiegato di aver subito «una riduzione del lavoro» e quindi «del reddito», tanto da essere stato costretto ad «attivarsi per la riduzione delle spese di locazione», mettendo anche «in vendita la ex casa coniugale». Legittimo, quindi, parlare di «indigenza». Per questo, appare comprensibile il timore della donna per l’eventualità che «possa essere dispersa ogni garanzia patrimoniale a presidio del regolare adempimento futuro dell’obbligo di mantenimento».
Redazione Lpt 18 settembre 2016 0rdinanza
www.laleggepertutti.it/133152_mantenimento-lex-moglie-puo-far-sequestrare-la-casa-del-marito

Mantenimento ridotto se la moglie prende la pensione sociale.
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 18092, 14 settembre 2016
Per la Cassazione il giudice deve tenere conto nella determinazione dell’assegno dell’importo percepito, seppur modesto, Deve essere valutata la richiesta di riduzione dell’assegno del mantenimento chiesta dall’ex marito se costui dimostra la percezione di altre fonti di reddito da parte della donna, ad esempio la pensione sociale. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione.
La Corte d’Appello di Bologna aveva determinato in € 250 mensili l’assegno dovuto dal marito alla ex moglie a seguito della cessazione degli effetti civili del matrimonio dagli stessi contratto. L’uomo ha, tuttavia, impugnato il provvedimento con ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, lamentando la violazione dell’art. 384, 2° comma c.p.c., nonché vizio di motivazione, per avere la corte del merito ignorato la statuizione contenuta nella sentenza rescindente, che le imponeva di tener conto nella determinazione della misura dell’assegno divorzile, del reddito pensionistico percepito dalla donna.
La Cassazione aveva, infatti, cassato già una volta la prima sentenza d’appello che aveva fissato la misura dell’assegno divorzile sempre in € 250 mensili, rilevando che il giudice del merito, nel pervenire a tale determinazione, aveva erroneamente ritenuto di non dare rilevanza alla titolarità in capo alla ex della pensione sociale, che, costituendo fonte idonea a sopperire in qualche misura alle esigenze di vita di chi la percepisce, rappresenta un elemento valutabile ai finì dell’accertamento della condizione economica del richiedente l’assegno di divorzio. A seguito del rinvio, tuttavia, con cui si richiedeva alla Corte territoriale di valutare l’incidenza di tale elemento, in precedenza totalmente trascurato, sulla misura dell’assegno, il Collegio si dilungava a riaffermare la ricorrenza dei presupposti di diritto che legittimavano la domanda della donna e a riesaminare tutte le altre circostanze di fatto che, nella specie, dovevano essere considerate ai fini della sua determinazione,
Il giudice ha sostanzialmente ignorato il dictum della Cassazione, limitandosi in conclusione a rilevare che la fissazione della misura dell’assegno in € 250 mensili trovava giustificazione nella valorizzazione degli elementi di cui il primo giudice d’appello aveva già tenuto conto e “non era inficiata” dalla titolarità della pensione sociale. La sentenza ha dunque confermato la decisione cassata sulla scorta del medesimo percorso motivazionale, senza chiarire perché la percezione da parte della richiedente di un reddito mensile fisso (sia pure modesto) non influiva in alcun modo sulla determinazione del quantum dovuto dal marito.
Per questo il ricorso deve essere accolto e la causa va rinviata, per un nuovo esame, alla Corte d’appello in diversa composizione, che regolerà anche le spese.
Lucia Izzo studio Cataldi 17 settembre 2016 Sentenza
www.studiocataldi.it/articoli/23406-mantenimento-ridotto-se-la-moglie-prende-la-pensione-sociale.asp

Assistenza familiare: dall’obbligo coniugale al reato.
Nei casi di separazione/divorzio sono frequenti le denunce o le querele per violazione degli obblighi di assistenza familiare (articolo 570 del codice penale, richiamato anche dall’articolo 3 della legge 8 febbraio 2006 n. 54 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”) per il mancato versamento dell’assegno di mantenimento oppure, nei casi di inadempimento dei compiti familiari, è ricorrente la presenza degli assistenti sociali. L’assistenza familiare, però, non è e non può essere circoscritta solo ad un assegno di mantenimento o a posteriori in caso di mancanza di essa; è molto più ampia e significativa e per delinearla ci si può far aiutare da esperti in varie materie.
Nell’articolo 143 del codice civile “Doveri reciproci dei coniugi”, nella stesura del 1942, si leggeva: “Il matrimonio impone ai coniugi l’obbligo reciproco della coabitazione, della fedeltà e dell’assistenza”. Dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975, l’articolo 143 del codice civile “Diritti e doveri reciproci dei coniugi” al comma 2 prevede: “Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”. Non si tratta solo di un’innovazione terminologica ma sostanziale. Innanzitutto il matrimonio non impone uno stile di vita preconfezionata come una camicia di forza, ma dal matrimonio deriva (letteralmente “derivare” significa “far defluire le acque”, quindi simboleggia bene la vita matrimoniale) la costruzione della vita comune in cui diritti e doveri reciproci rappresentano anche degli step in divenire; questa altresì la ratio del fortemente innovativo articolo 144 del codice civile “Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia”, in luogo del vecchio art. 144 “potestà maritale”. L’assistenza coniugale è stata qualificata come “morale” prima e “materiale” dopo. Mentre nella disciplina previgente occupava l’ultimo posto, in quella attuale è stata posta tra la fedeltà e la collaborazione perché è il collante della coppia (assistenza da intendersi comprensiva della sfera sessuale, ovvero come volontà bilaterale o mutuo consenso alla prestazione sessuale o soddisfazione sessuale; aspetto controverso in parte della dottrina e della giurisprudenza).
La locuzione “assistenza morale e materiale” richiama un’altra, “comunione spirituale e materiale” (articolo 1 n. 898/1970 cosiddetta legge sul divorzio): il matrimonio è basato sulla comunione interpersonale e intrapersonale, di cui il rapporto sessuale rappresenta solo un aspetto da intendersi più come intesa sessuale (comunicare e comprendersi su tempi, modalità, desideri e necessità di ognuno e della coppia) e non meramente come consumazione dell’atto sessuale. Solo se si riesce a cogliere la dimensione personale, interpersonale e intrapersonale del matrimonio, ci si impegna a portarlo avanti e comunque, tranne i casi estremi in cui è intollerabile la prosecuzione della convivenza o si reca grave pregiudizio all’educazione della prole (articolo 151 del codice civile).
“Un buon matrimonio è quello in cui ciascuno dei due nomina l’altro custode della sua solitudine” (il poeta Rainer Maria Rilke). Il matrimonio non è l’unione di due solitudini ma l’unione nella consolazione. Anche raggiungere ciò è farsi reciproca assistenza morale e materiale.
“[…] stare insieme per tanti anni dovrebbe eliminare dal rapporto il superfluo, quindi anche le parole inutili. Alla ricerca del silenzio: tacere, una conquista” (lo scrittore Antonio Petrocelli). Una delle più belle forme di complicità e intimità è ascoltarsi e immedesimarsi nel reciproco silenzio: finanche questo può essere uno degli aspetti dell’obbligo reciproco all’assistenza morale dei coniugi.
“Due amanti silenziosi somigliano a due arpe con lo stesso diapason e pronte a confondere le voci in una divina armonia” (lo scrittore francese Jean Baptiste Alphonse Karr). La coppia è un progetto di vita, un progetto in salita: si dovrebbe dare pure questo significato all’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale. Si noti che il riformatore del 1975, a differenza del codificatore del 1942, ha scritto “obbligo a” e non “obbligo di”, perché è una continua tensione e propensione.
Assistenza nei confronti dei figli. Ben più rilevanti sono i doveri e i diritti verso i figli tanto che sono previsti nella Costituzione. I genitori (e non uno solo) hanno il diritto e dovere (nonché obbligo) di mantenere, istruire e educare i figli (articolo 29 della Costituzione). Sono necessari tutti e tre gli aspetti e non solo “mantenere”, che non è semplicemente “tenere” con beni materiali né “tenere per sé” i figli in maniera morbosa o altro, come spesso accade. “Mantenere” significa “tenere per mano”, come si fa fin quando i bambini non imparano a camminare da soli e così deve essere nell’accompagnarli verso la loro vita che è l’unica cui loro appartengono. Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, si chiede e interroga: “Come sarà possibile per l’individuo porsi problemi etici o sviluppare progetti creativi, se sarà immerso in ambienti economicamente e culturalmente degradati, o se non avrà beneficiato delle cure, dell’affetto e dell’assistenza cui ogni bambino ha diritto?”. È la stessa sottolineatura fatta dal pedagogista e sociologo Pino Pellegrino: “Oggi, è un dramma! Perché? Perché oggi va di moda la pedagogia dolce e morbida. Si cerca di evitare al figlio ogni sofferenza, ogni dolore, ogni difficoltà. Ebbene – non ci stanchiamo di sottolinearlo – non c’è decisione più folle! Non c’è tradimento più folle”. Ecco perché la legge 10 dicembre 2012, n. 219 “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”, inserendo l’art. 315 bis nel codice civile, ha precisato per i genitori il “dovere di assistenza morale” nei confronti dei figli: assistenza è dare presenza, principi e non dare tutto ai figli o sostituirsi a loro.
Già il poeta latino Decimo Giunio Giovenale scriveva: “Il bambino ha diritto al più grande rispetto”. “Rispetto” significa etimologicamente “guardare indietro, guardare di nuovo” e comporta, pertanto, attenzione (da “ad tendere”, porre mente, porre cura) e assistenza (da “ad sistere”, stare presso qualcuno per aiutarlo, soccorrerlo o altrimenti giovargli). Dando rispetto si educa al rispetto, quel rispetto di cui si parla nell’articolo 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e che conclude l’enucleazione degli obiettivi educativi disponendo di “inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale”. Solo se il bambino avrà ricevuto rispetto potrà, poi, portarlo verso gli altri e tutto quello che lo circonda, altrimenti coverà e riverserà aggressività, fenomeno purtroppo crescente. L’aggressività è un lato della natura animale che serve anche ad “aggredire” gli ostacoli, ma se non ben convogliata diventa violenza, prepotenza o autolesionismo. L’amore è sempre la migliore cura di ogni cosa.
Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro afferma: “Benché iperprotetti, molti bambini e ragazzi vivono in un ambiente allarmato, sospettoso, impaurito, tutti sentimenti che, talvolta, sono in buona parte trasmessi proprio dalle persone più care. Dovrebbe essere ben noto, ma forse non lo è, che paura e odio sono incompatibili con l’educazione e che non meno dannose sono la volgarità, la superficialità e l’indifferenza diffuse nei nostri ambienti di vita in forma endemica quando nelle relazioni non virtuali con gli uomini e le cose mancano fiducia e amore. Se fossimo davvero convinti di questo, dovremmo trarre la conclusione che i migliori risultati educativi si ottengono con la fiducia e con l’amore, se queste due parole non fossero così generiche e abusate. Se proviamo a dare a «fiducia» e «amore» qualche contenuto, potremmo forse ricavare qualche utile suggerimento per la pratica educativa”. Amore e fiducia devono far parte del contenuto positivo dell’obbligo di assistenza morale dei genitori nei confronti dei figli, obbligo introdotto nell’articolo 147 del codice civile dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219” (estendendo quanto previsto nell’articolo 315 bis).
Ada Fonzi precisa: “Se, per esempio, si tratta di comunicare che il papà e la mamma si separano, è molto importante sottolineare non soltanto che l’amore dei genitori nei loro confronti è e resterà immutato, ma che resterà tale anche il bene che c’è stato tra gli stessi genitori. Si può desiderare di staccarsi, magari provvisoriamente, l’uno dall’altro e avere maturato idee e progetti diversi, ma si può e si deve non cancellare il patrimonio accumulato e continuare ad avere affetto, stima e considerazione reciproci. L’amore, certo, è un’altra cosa, ma il volersi bene è altrettanto importante ed educativo. I bambini queste cose le capiscono più di quello che noi pensiamo. Ciò vuol dire bandire i rancori e accordarsi con semplicità e larghezza di vedute circa gli obblighi che competono all’uno e all’altro genitore, offrendo senza riserve a chi si è allontanato da casa l’opportunità di trascorrere il maggior tempo possibile con i figli. Genitori non si nasce, ma quando lo si diventa lo si è per sempre”. L’obbligo di assistenza morale dei genitori nei confronti dei figli deve essere anche e soprattutto rispettato durante le fasi di separazione/divorzio dei coniugi accompagnando i figli a comprendere e vivere la metamorfosi della rete familiare. Se i genitori non sono in grado di farlo da soli devono farsi accompagnare da esperti in relazioni di aiuto, come la mediazione familiare.
Fulvio Scaparro aggiunge: “L’amore non è debolezza né permissivismo. L’amore è anche dire «no» quando un «sì» potrebbe esporre a pericolo l’oggetto stesso del nostro amore. E il «no» va, nei limiti del possibile, spiegato: non è un segno di potere, bensì di responsabilità. Ammettiamo che, in determinate circostanze, non ci sia tempo per spiegare i nostri «no» e che si debba andare per le spicce e purtroppo, eccezionalmente, anche con un minimo di costrizione fisica. Appena superata l’emergenza, il «no» però andrà sempre spiegato. E le ragioni dei figli dovranno essere ascoltate con la massima attenzione”. Saper dire no e saper spiegare il no ai propri figli dovrebbe essere uno dei contenuti del dovere di assistenza morale dei genitori nei confronti dei figli.
Ancora dalle parole di Ada Fonzi si ricava che: “Interessanti ricerche condotte dall’università di Yale [2014] ci dicono che a meno di un anno i bambini sono in grado di distinguere un comportamento giusto da uno ingiusto, dimostrando addirittura empatia per chi soffre e disapprovazione per chi si comporta male. Pare che i bambini siano «morali» per natura e che sia la cultura che in qualche modo s’incarichi di mettere a tacere questa loro capacità. Cosa succede nel corso della vita se molto spesso l’empatia, la socialità, che sembravano qualità innate, scompaiono sconfitte dall’indifferenza, dal pregiudizio, dall’ostilità nei confronti di chi è diverso da noi o appartiene a un gruppo che non è il nostro? Possibile che la civiltà, la cultura, anziché promuovere le «buone» capacità innate, siano riuscite a soffocarle?”. Naturalezza, uno degli elementi che i genitori devono salvaguardare e coltivare nei figli, anche alla luce dell’articolo 147 del codice civile: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315-bis” (come novellato dal decreto legislativo 154/2013). Diversamente dalla formulazione previgente dell’art. 147, nel testo attuale si parla solo di “figli” e non più di “prole” e di “inclinazioni naturali” al plurale: i genitori devono riflettere su questo.
Assistenza verso tutta la famiglia. “Il semplice, innocente e insospettabile «mi dispiace» che, se detto a sproposito, fa imbestialire come poche altre cose. L’espressione indica che provi dispiacere per la condizione triste o disagiata in cui mi trovo. Mi sei al fianco, forse mi aiuterai. Ma io mi aspettavo altro. Mi aspettavo che tu dicessi «Scusami». Il che è tutt’altra minestra. «Scusami» significa che tu sai di essere la causa vera del mio malessere. Eri di fronte a un bivio: potevi fare l’azione buona e hai preferito quella cattiva. Ne ho patito io. «Scusami», dunque, presuppone un’assunzione di responsabilità; «mi dispiace», un nascondersi dietro quella che qualcuno definisce un’«etica delle intenzioni» (che tradotto banalmente significa: «Ciò che ho fatto l’ho fatto in modo in modo inconsapevole, quindi, se tu ne hai sofferto è “colpa” tua non mia…»)” (dal pensiero del bioeticista Paolo Marino Cattorini). Curare la comunicazione familiare è, inoltre, uno dei contenuti concreti dell’astratto dovere di assistenza morale. Perché, come ha affermato il sociologo Zygmunt Bauman, “il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione”. Occorre un impegno quotidiano nel trovare un equilibrio nella comunicazione familiare, nel non dire una parola di troppo o nel non fare un passo in meno.
La storica e saggista Lucetta Scaraffia scrive: “Le famiglie sono piene di imperfezioni. La vita in comune è difficile, e sempre ogni vita umana ha bisogno di uno sguardo misericordioso”. Etimologicamente “misericordia” significa “avere pietà del cuore” e giuridicamente si traduce nel dovere di assistenza. Se si tornasse all’origine di ogni cosa, all’origine della vita si riscoprirebbe la comune origine di ognuno vivendo in una maniera più civile e senza dover ricorrere frequentemente alla tutela penalistica. E per questo occorre fermarsi di più, sedersi l’uno accanto all’altro (proprio come si ricava di assistere, dal latino “adsistere”, composto da “ad” e “sistere”, stare, fermarsi presso, essere presente) e ascoltarsi: tornare a fare famiglia, essere l’uno al seguito dell’altro, l’uno al servizio dell’altro.
Un anziano uomo cammina un passo avanti alla moglie portando la busta del pane: un’immagine concreta del farsi assistenza. Guida e fonte d’amore e di vita: ciò che dovrebbe essere un uomo per la propria compagna lungo la stessa strada. Il matrimonio non è sancire una formalità, ma stabilire un impegno nella quotidianità per il tempo che verrà e in quel che sarà.
Margherita Marzario Diritto civile e commerciale 13 settembre 2016 –
http://dirittodifamiglia.diritto.it/docs/38597-assistenza-familiare-dall-obbligo-coniugale-al-reato

 

 

Minori affidati sempre alla madre

 


Corte di Cassazione, prima Sezione civile, Sentenza n. 18087, 14 settembre 2016.
I minori in età scolare, oltre che prescolare, devono essere collocati in via prevalente presso la madre dopo la separazione anche se l’ex marito ha mostrato ottime doti genitoriali. E ciò anche se la donna a un certo punto si trasferisce a centinaia di chilometri dall’ex casa familiare: il criterio che privilegia la mamma, infatti, può essere superato soltanto se l’interessata si rivela sfornita di adeguate capacità per accudire i figli. Così la Cassazione. Niente da fare per il padre, che pure aveva ottenuto dal tribunale il collocamento presso di sé dei minori. 
L’ex moglie vince un concorso e ottiene una sede in Friuli Venezia Giulia, lontanissima dalla casa abruzzese dell’ex coppia. Non è in discussione l’affido condiviso né conta chi fra i coniugi abbia violato di più o per primo gli accordi raggiunti in sede di consensuale: la priorità è garantire il futuro benessere dei minori, morale e materiale. La scelta della sede di lavoro non può di per sé essere attribuita alla mera volontà di allontanare i bambini dall’ex partner: è espressione di un diritto garantito dalla Costituzione, anche se incide in modo negativo sulla quotidianità dei rapporti dei figli con il genitore non collocatario. 
Dario Ferrara Italia Oggi 15 settembre 2016
www.italiaoggi.it/giornali/preview_giornali.asp?id=2115306&codiciTestate=&sez=hgiornali
www.oua.it/cassazione-minori-affidati-sempre-alla-madre-italia-oggi

Carcere e 60mila euro di provvisionale al padre che si disinteressa totalmente del figlio
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 50075, 25 novembre 2016
Per la Cassazione la sanzione monstre è giustificata dal persistente mancato versamento del mantenimento e dalla minore età del figlio. Carcere e non pena pecuniaria per il padre che si è disinteressato completamente del figlio senza mai versare l’assegno in favore del minore. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un padre confermando la condanna comminatagli dalla Corte d’Appello a sette mesi di reclusione, 600 euro di multa e risarcimento del danno in favore della parte civile, con provvisionale di 60mila euro.
Il ricorrente, imputato del reato di cui all’art. 570 (Violazione degli obblighi di assistenza familiare), è accusato di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore, non avendo mai corrisposto la somma mensile stabilite per il suo mantenimento, né l’importo a titolo di contributo per le spese sostenute dalla madre del ragazzo, così privando lo stesso anche della dovuta assistenza morale “non essendosi mai interessato a lui e avendolo visto solo due volte nel corso del primo anno di vita”.
Il ricorso, tuttavia, è solo una pedissequa ripetizione delle identiche doglianze poste a base dell’impugnazione formalizzata innanzi alla Corte territoriale e dalla stessa motivatamente disattese. Conferma l’attendibilità della parola della teste (la ex) costituitasi parte civile, i giudici di Cassazione precisano che essendo stato il reato ascritto in danno di soggetto minorenne, lo stato di bisogno di quest’ultimo è in re ipsa, salva la sussistenza di elementi concreti idonei a consentire il superamento della relativa presunzione. 
Ne discende che la deposizione della madre del minore, circa il ricorso all’aiuto di terzi per far fronte alle esigenze del figlio, lungi dall’essere insufficiente, come sostiene il ricorrente, altro non fa che corroborare ulteriormente la presunzione anzidetta.
Quanto alla mancata sostituzione della pena detentiva inflitta con la corrispondente pena pecuniaria, si precisa che, ai fini della sostituzione, “il giudice ricorre ai criteri previsti dall’art. 133 c.p.; tuttavia, ciò non implica che egli debba prendere in esame tutti i parametri contemplati nella suddetta previsione, potendo la sia discrezionalità essere esercitata motivando sugli aspetti ritenuti decisivi in proposito, quali l’inefficacia della sanzione”. Neppure trova spazio la censura relativa alla quantificazione della provvisionale, poiché la giurisprudenza di Cassazione rammenta che “il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva, non è impugnabile per Cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento”. 
Lucia Izzo News studio Cataldi 28 novembre 2016
Sentenza www.studiocataldi.it/articoli/24161-carcere-e-60mila-euro-di-provvisionale-al-padre-che-si-disinteressa-totalmente-del-figlio.asp

 

Separazioni meno conflittuali, bambini più garantiti
Una riflessione sul diritto alla co-genitorialità in caso di divorzio che rilancia la strada dell’affido materialmente condiviso. Anche i dati Istat mostrano l’inefficacia della legge n. 54/2006.
Perdere i genitori. Una tra le prospettive peggiori che possano toccare a bambini e ragazzi. Sempre più spesso non è solo la morte che allontana le madri e, soprattutto, i padri dai loro figli. Divorzi e separazioni conflittuali hanno frequentemente l’effetto di determinare una conflagrazione a catena che rende impossibile il diritto-dovere della genitorialità. Non si tratta di casi eccezionali. Soltanto in Europa ci sono dieci milioni di minori che vivono la tragedia di una separazione non “dei” genitori, ma “dai” genitore, o almeno da uno di loro.
In Italia, i figli coinvolti nelle disgregazione familiari sono oltre un milione, solo nell’ultimo decennio. Un evento doloroso, che si incide profondamente nel cuore di bambini e ragazzi. Una svolta esistenziale che anche dopo 10, 20 o 30 anni dall’episodio determina danni psico-biologici gravi. Le ricerche sul tema sono numerose. Negli Usa la correlazione tra divorzio conflittuale e salute dei bambini coinvolti è accertata fin dagli anni Ottanta. Anche in Europa tanti studi, dopo gli anni Novanta, sono giunti alla medesima conclusione.
Non era mai stata realizzata però una ricerca che prendesse in esame le conseguenze sui figli in base alla “qualità” della separazione. Tanto più lacerante risulta l’addio, tanto più la sofferenza dei figli sfocia in situazione patologiche. L’autore dello studio, pubblicato qualche giorno fa sulla rivista Health Psicology Open, è il pediatra italiano Vittorio Vezzetti, presidente dell’associazione di genitori separati “Figli per sempre” e membro del Comitato Scientifico dell’International Council on Shared Parenting che si batte per l’introduzione dell’affido “materialmente” condiviso.
Una differenza sostanziale rispetto all’affido “nominalmente” condiviso come esiste in Italia. Proprio l’inefficacia della nostra legge, la n. 54 del 2006, rende particolarmente urgente riflettere sui risultati a cui è approdato Vezzetti. Sia per valutare possibili interventi preventivi sul piano sociale e culturale che possano contribuire a contenere la crescita delle separazioni. Sia per sollecitare modifiche a una legge che, come confermato dall’Istat nell’ultimo dossier sul tema, ha lasciato di fatto invariati, o addirittura ha finito per peggiorare, gli indicatori determinati dalla scelta dell’affido condiviso all’italiana. Quello cioè che non modifica i comportamenti educativi dei genitori e non stabilisce accordi preventivi sulle modalità con cui occuparsi in modo congiunto e condiviso dei figli. L’affido “materialmente” condiviso, definito appunto shared parenting, prevede infatti che in sede giudiziaria venga stabilito e sottoscritto un protocollo dettagliato su come andranno gestiti tempi e scelte, spese e altri dettagli riguardanti la giornata del minore che vive la separazione dei genitori.
La differenza tra le due impostazioni è sostanziale. Nei Paesi europei dove l’affido “materialmente” condiviso è entrato nella legislazione – esemplare il caso svedese – la condizioni di salute dei figli sono nettamente migliori.
Lo studio di Vezzetti è partito da questa constatazione. «La premessa d’obbligo – spiega – è che fino a pochi anni fa la ricerca in questa area si è concentrata sugli effetti del divorzio “tout court”, considerando i figli del divorzio come un gruppo omogeneo e senza valutare la coesistenza di altre situazioni avverse». L’errore collegato è stato di attribuire alla semplice separazione conseguenze legate invece alla perdita genitoriale o al conflitto familiare di lunga durata. «Tutte quelle situazioni – prosegue l’esperto – sono assai meno frequenti in caso di affido materialmente condiviso». La ricerca elenca nel dettaglio le conseguenze che possono verificarsi nei minori in caso di conflitto familiare persistente. «Inimmaginabili fino a poco tempo fa e assai gravi. Si sono accertati – osserva Vezzetti – disturbi ormonali, del sistema immunitario, danni a livello cromosomico per usura della parte protettiva terminale, aumento di fattori come le citochine che hanno influenza negativa sullo sviluppo di tumori e malattie infiammatorie croniche. Si è poi constatata una influenza negativa sulla statura: nelle femmine solo per causa della morte paterna, nei maschi sia in caso di morte che di perdita susseguente a rottura familiare».
Al contrario, quando l’affido è “materialmente” condiviso e si sono stabiliti tempi pari o equipollenti per quanto riguarda la presenza dei genitori con i figli, non solo si riduce il conflitto ma si apre la strada ad un maggior benessere generale dei minori. «Certo – ammette Vezzetti – al momento si tratta di dati statistici e non si riesce a definire scientificamente un rapporto causale diretto». Ma il principio di precauzione dovrebbe indurre a prendere in esame questi risultati con tutta l’attenzione dovuta al futuro dei nostri figli.

Diritto al co-genitorialità. Italia fanalino di coda. Bambini più garantiti in Svezia, Belgio e Danimarca
In Svezia oltre il 30% dei bambini possono contare sul diritto alla co-genitorialità in caso di divorzio. Questo diritto, nella ricerca realizzata dal pediatra Vittorio Vezzetti “Nuovi approcci al divorzio con i bambini: un problema di salute pubblica”, viene misurato sulla base del tempo effettivamente trascorso con i genitori. Più la suddivisione è equa, sulla base di un protocollo educativo condiviso da papà e mamma e sottoscritto davanti al giudice, più il punteggio è elevato. Al secondo posto, nella classifica che tutela questi diritti, c’è il Belgio (oltre 20%). Al terzo Francia, Danimarca e Spagna, con differenze tra il meno 20% e il più 8%. Sotto al 3% – fanalino di coda – troviamo l’Italia in compagnia di Grecia, Portogallo, Romania, Slovacchia e Austria. I dati sono in stretta correlazione alla presenza nei vari Paesi di leggi sull’affido “materialmente” condiviso. Dove esistono buone leggi (Svezia, Belgio, Danimarca), meno conflittuale è il divorzio e meno conseguenze si registrano sui figli.
Affido condiviso, legge da rivedere. La legge 54 del 2006 sull’affido condiviso? Un fallimento. Lo spiega il rapporto “Matrimoni, separazioni e divorzi 2015” che l’Istat ha diffuso lo scorso 14 novembre 2016. 
www.istat.it/it/files/2016/11/matrimoni-separazioni-divorzi-2015.pdf?title=Matrimoni%2C+separazioni+e+divorzi+-+14%2Fnov%2F2016+-+Testo+integrale.pdf
«A distanza di dieci anni dall’entrata in vigore della legge è possibile verificare in che misura la sua introduzione abbia modificato alcune caratteristiche delle sentenze emesse dai tribunali». Il dossier prende in esame alcuni parametri. Nel 2005 (prima cioè dell’introduzione della legge) i figli affidati esclusivamente alla madre erano l’80,7%. Nel 2015 sono diventati solo 8,9%. Un successo, sembrerebbe, se non si dicesse che la nostra legge prevede il cosiddetto “genitore collocatario”, quello cioè dove il minore stabilisce la sua residenza. Ebbene, in quasi il 90% dei casi, questo genitore è sempre la madre. Nel 2005 la casa coniugale veniva assegnata alle moglie nel 57,4% dei casi.
Nel 2015 la percentuale è addirittura aumentata, toccando il 60% dei casi. Pressoché identica anche la quota di separazioni con assegno ai figli corrisposto dal padre. Erano il 95,4% nel 2005. E il 94,1% nel 2015. Non è cambiata neppure la quota media dell’assegno. Ammontava a 483 euro dieci anni fa e – probabilmente complice la crisi e il progressivo impoverimento dei padri separati – 485,43 euro nel 2015. Numeri significativi da cui si evince che «ad accezione della drastica riduzione della proporzione di figli minori affidati in modo esclusivo alle madri, tutti gli altri indicatori non hanno subito modificazioni di rilievo». Inutile sottolineare che questa situazione dipende in larga parte da un’applicazione discrezionale della legge. I giudici, in altri termini, hanno continuato a comportarsi come se la legge non esistesse.
«Ci si attendeva – osserva ancora il dossier Istat – una diminuzione della quota di separazioni in cui la casa coniugale è assegnata alle mogli e invece si registra un lieve aumento». Va anche detto che, con il Decreto legge 132 del 2014 sugli accordi extragiudiziali, una parte della procedura amministrativa, relativa soprattutto alle separazioni consensuali, vede coinvolti direttamente o indirettamente anche gli ufficiali di Stato civile. Le osservazioni sulla sostanziale inefficacia della legge n. 54 del 2006 rimangono comunque inalterate. Si tratta di una norma che non ha inciso né sull’atteggiamento culturale dei magistrati, né sul benessere dei figli coinvolti nella separazione. E non ha ridotto in alcun modo neppure il tasso di conflittualità tra gli ex coniugi che, come più volte ribadito, è determinato in buona parte dalle divergenze legate all’assegno di mantenimento
Luciano Moia Avvenire 10 dicembre 2016
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/separazione-famiglia

Le conseguenze dell’addebito nella separazione tra coniugi

Una breve analisi dei principali risvolti patrimoniali della pronuncia di addebito in sede giudiziale.
Nel giudizio di separazione tra coniugi l’addebito in capo ad uno di essi richiede un’apposita domanda di parte tendente a dimostrare che la moglie o il marito, avendo assunto una condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimonio, abbia determinato la crisi della coppia.
Giova sinteticamente ricordare che, per fondare una dichiarazione di addebito occorre la prova di un effettivo collegamento tra la trasgressione ai doveri matrimoniali da parte del coniuge e la intollerabile prosecuzione della convivenza. In assenza di tale nesso causale il giudice non potrà pronunciarsi sull’addebito e sarà altresì irrilevante ogni condotta assunta dal coniuge successivamente al verificarsi della crisi coniugale.
La Cassazione, infatti, nel ribadire detto criterio di connessione, esclude l’addebito della separazione addirittura in casi di acclarata infedeltà coniugale, qualora si accerti che quest’ultima non rappresenti la causa diretta della crisi matrimoniale. Pertanto, malgrado l’addebito della separazione possa apparire una conseguenza quasi naturale nelle ipotesi di tradimento, per la giurisprudenza ciò non è sempre così scontato.
Nello specifico, infatti, per la declaratoria di addebito nel giudizio di separazione, il giudice conduce un’indagine sull’intollerabilità della convivenza effettuando una valutazione di carattere globale e comparando le condotte assunte da entrambi i coniugi. In altri termini, ogni opportuno riscontro o valutazione giudiziaria non potrà fondarsi esclusivamente sul comportamento adottato dal coniuge “trasgressore”, poiché soltanto dalla predetta complessiva valutazione potrà evincersi la rilevanza ed il peso reale che le rispettive condotte hanno avuto nella crisi coniugale. In ragione di quanto sopra, il presunto tradimento non assume alcuna rilevanza ai fini dell’addebito della separazione, laddove il coniuge “colpevole” dimostri in giudizio che la propria infedeltà sia intervenuta in realtà quando la situazione di coppia si palesava già del tutto compromessa.
Senza pretesa di esaustività si osserva, inoltre, che le conseguenze di una pronuncia di addebito coinvolgono in particolar modo l’ambito patrimoniale del coniuge tacciato di “colpevolezza”. L’effetto primario dell’addebito infatti è certamente rinvenibile nella perdita, da parte del coniuge che lo subisce, del diritto all’assegno di mantenimento eventualmente riconosciutogli in sede di separazione. In altri termini, quand’anche il coniuge responsabile della crisi coniugale manifesti una condizione economica tale da giustificare il riconoscimento dell’assegno soprindicato, esso non ne avrà comunque diritto. Ne deriva pertanto che il riconoscimento all’assistenza materiale scaturente dal matrimonio si conserverà soltanto in favore del coniuge cui non è addebitabile la separazione. Quest’ultimo infatti, a seguito di un accertamento sulla propria situazione reddituale, potrà giovarsi dell’assegno di mantenimento garantendosi lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.
Ciononostante è importante chiarire che l’eventuale declaratoria di addebito in capo al coniuge trasgressore non impedirà a quest’ultimo, ricorrendone i presupposti di legge, di godere del diritto agli “alimenti” nei confronti dell’altro coniuge. Vale a dire che l’assegno “alimentare” dovrà comunque essere versato a prescindere dalla responsabilità in ordine alla separazione, stante la differente funzione degli “alimenti” rispetto a quella dell’assegno di “mantenimento”. Giova infatti ricordare che, mentre l’assegno di mantenimento persegue lo scopo di garantire, al coniuge che ne beneficia, il godimento e la conservazione delle medesime condizioni economiche esistenti durante il corso del matrimonio, l’assegno alimentare viene riconosciuto invece al fine di consentire al coniuge economicamente più debole i mezzi necessari e sufficienti per far fronte alle esigenze economiche legate al soddisfacimento dei propri bisogni primari.
È di palmare evidenza quindi come il diritto agli alimenti abbia quale suo imprescindibile presupposto l’acclarata impossibilità, da parte del coniuge interessato, di poter provvedere autonomamente al proprio sostentamento economico in quando sprovvisto di un reddito personale. La prestazione alimentare potrà poi essere adempiuta mediante un assegno da corrispondersi periodicamente o finanche accogliendo e mantenendo nella propria abitazione colui che ne beneficia. Ad ogni modo l’autorità giudiziaria potrà, a seconda delle circostanze, determinare modalità e tempi della somministrazione.
Di notevole rilevanza sono poi gli effetti della pronuncia di addebito della separazione in ambito successorio. Il coniuge separato con addebito perde infatti i diritti di successione inerenti allo stato coniugale, conservando tuttavia soltanto il diritto ad un assegno vitalizio qualora, all’apertura della successione dell’altro coniuge, egli già godeva dell’assegno alimentare a carico di quest’ultimo. Preme al riguardo aggiungere che pur in assenza di un formale provvedimento di riconoscimento del diritto agli alimenti, l’assegno indicato potrebbe essere giudizialmente disposto in favore del coniuge bisognoso qualora, all’apertura della successione, egli palesi un oggettivo stato di bisogno.
Benché non pacificamente si sostenga in dottrina e giurisprudenza la sua natura alimentare, il descritto vitalizio di cui gode il coniuge superstite con addebito ha chiaramente natura assistenziale e successoria. Esso costituisce in particolare un legato ex lege da commisurarsi sia in relazione alle sostanze ereditarie sia al numero degli eredi ed il cui adempimento grava su questi ultimi in proporzione alle rispettive quote ereditarie. Infine preme ricordare che il suo ammontare non potrà eccedere l’importo dell’assegno alimentare percepito prima della morte del coniuge alimentante.
Ulteriore effetto dell’addebito della separazione lo si rinviene in tema di prestazioni previdenziali riconosciute al coniuge defunto, quali ad esempio il diritto alla pensione di reversibilità ed altre indennità previste dalla legge. Mentre infatti al coniuge separato “senza addebito” spetterà certamente il diritto a tali prestazioni previdenziali, il coniuge separato “con addebito” conserverà ugualmente il diritto a percepire dette corresponsioni soltanto sul presupposto dell’effettivo godimento, in vita dell’altro coniuge, dell’assegno alimentare.
Infine, preme sottolineare che l’eventuale pronuncia di addebito non condiziona in alcun modo l’adozione di provvedimenti da parte dell’autorità giudiziaria sull’affidamento dei figli. L’interesse morale e materiale di questi ultimi è infatti del tutto disancorato dall’accertamento sulla responsabilità in ordine alla separazione e alla consequenziale declaratoria di addebito. Tuttavia qualora si dimostri che l’atteggiamento del coniuge colpevole possa esercitare una qualche influenza negativa sull’educazione e sulla morale dei figli, la pronuncia di addebito non sarebbe sgombra da interferenze rispetto ai provvedimenti di affidamento dei figli stessi. Per approfondimenti vai alla guida legale “L’addebito della separazione”
www.studiocataldi.it/guide_legali/separazione/addebito-separazione.asp
Avv. Pino Cupito Newsletter giuridica studio Cataldi.it 9 dicembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/24262-le-conseguenze-dell-addebito-nella-separazione-tra-coniugi.asp

 

 

Se l’ex moglie convive devo versare il mantenimento?

La convivenza stabile con un nuovo compagno fa cessare il diritto al mantenimento anche se quest’ultimo è disoccupato o se l’unione dovesse interrompersi. Se l’ex moglie, destinataria dell’assegno di mantenimento, versatole mensilmente dal marito, va a convivere con un’altra persona e questa convivenza diventa stabile e duratura, perde il diritto a ricevere detto mantenimento. È quanto ricorda la Cassazione in una recente sentenza [Cass. Ord. n. 25528/16, 13.12.2016]. La nascita di una nuova famiglia di fatto implica onòri e òneri, e tra questi ultimi c’è anche l’obbligo di reciproca assistenza materiale e morale: conseguentemente non possono ricadere sull’ex coniuge le spese per sostenere il nuovo nucleo familiare. Il «rischio economico» che la nascita di una nuova famiglia – anche se di fatto, basata cioè sulla convivenza e non sul matrimonio – grava sulla coppia e non su terzi estranei, anche se uniti da precedenti rapporti.

L’ex moglie perde l’assegno di mantenimento anche se il nuovo compagno è disoccupato o non ha le risorse economiche sufficienti a mantenerla. Inoltre – al contrario di quanto un tempo riteneva la giurisprudenza della Suprema Corte – una volta venuto meno il diritto al mantenimento dell’ex moglie, se la convivenza tra i due viene meno, il diritto all’assegno di mantenimento non “resuscita”: in altre parole, cessata l’unione di fatto, l’ex moglie non può più rivolgersi al precedente marito e obbligarlo a versarle nuovamente l’assegno.

Assegno di mantenimento e assegno divorzile: che differenza c’è? Benché la prassi comune usi la parola «assegno di mantenimento» in modo generico e onnicomprensivo, in verità bisogna distinguere tra due diverse situazioni:

  • Se la coppia è solo separata, si parla di assegno di mantenimento;

  • Se la coppia è, invece, anche divorziata, si parla di assegno divorzile.

Come noto, l’assegno di mantenimento o divorzile non è una sanzione, né una forma di risarcimento. Si tratta solo del dovere, che grava sul coniuge con reddito superiore, di consentire all’altro di mantenere (almeno tendenzialmente) lo stesso tenore di vita di cui godeva quando ancora era sposata. Quindi, in buona sostanza, si tratta di una redistribuzione delle ricchezze all’interno della coppia, anche dopo la cessazione dell’unione, al fine di garantire una sostanziale uguaglianza tra i due.

Quando si perde il diritto al mantenimento? Il diritto al mantenimento (o all’assegno divorzile si perde quando):

  • Cessa o si riduce notevolmente la disparità di reddito tra i due ex coniugi; il che può ad esempio avvenire quando:

  1. Il coniuge che versa l’assegno perde il lavoro o vede ridurre drasticamente i propri guadagni;

  2. Il coniuge che versa l’assegno deve affrontare spese rilevanti per la propria salute, con diminuzione della capacità lavorativa;

  3. Il coniuge che riceve il mantenimento inizia a lavorare o riceve un aumento di stipendio tale da elidere la disparità economica con l’ex;

  • Il coniuge beneficiario del mantenimento inizia una nuova convivenza stabile: come detto in apertura, l’instaurazione, da parte del coniuge divorziato, di una nuova famiglia, anche se «di fatto», cancella ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, pertanto, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno di mantenimento o divorzile a carico dell’altro coniuge.

Affinché la nuova convivenza faccia perdere il diritto all’assegno divorzile o di mantenimento è necessario che essa sia stabile e duratura, non occasionale o dettata da necessità differenti rispetto a quella di costituire una nuova famiglia di fatto (è il caso, ad esempio, del compagno che ospiti, a casa propria, la compagna solo per dividere le spese di affitto). Si deve, insomma, verificare una comunione materiale e spirituale, dove i conviventi si occupino l’uno dell’altro, al pari di marito e moglie. La famiglia infatti – al di là se fondata sul matrimonio o sulla convivenza – è una relazione stabile e duratura, basata su una reciproca assistenza morale e materiale, su doveri di fedeltà, coabitazione, sostegno, contribuzione e solidarietà. Doveri che, nei fatti, si manifestano ad esempio nel pagare indistintamente le spese per il ménage domestico, la spesa, le utenze e l’affitto, prendersi cura dell’appartamento e della sua manutenzione, aiutare il compagno/la compagna e crescere l’eventuale prole. Insomma, tutto ciò che comunemente fanno – o dovrebbero fare – marito e moglie.

Poiché la decisione di formare una nuova famiglia, anche se solo «di fatto» è una scelta esistenziale, libera e consapevole, tale scelta implica anche l’assunzione del rischio economico che da ciò deriva se i due conviventi non hanno le disponibilità per mantenersi. Il che fa cessare ogni precedente rapporto con l’altro coniuge, il quale non è più tenuto a versare l’assegno di mantenimento o, se già divorziato, l’assegno divorzile. Tale diritto all’assegno non va in stand-by (o, per usare un’espressione usata dagli avvocati, «non entra in stato di quiescenza», né si può considerare semplicemente «sospeso», ma) si perde per sempre, anche qualora il nuovo nucleo familiare dovesse sfaldarsi e l’ex beneficiario del mantenimento dovesse tornare a vivere da solo. In quel caso non potrebbe tornare alla carica, nei confronti del precedente coniuge, e chiedergli di mettere nuovamente mano al portafogli.

Del resto chi avvia una nuova convivenza trae dei notevoli benefici economici dalla separazione, potendo condividere con il nuovo convivente le spese di ordinaria amministrazione (vitto, alloggio, e relativi oneri), cosa che invece non può fare il precedente coniuge rimasto solo, il quale deve affrontare, oltre alle spese di ordinaria amministrazione, anche le spese relative al mantenimento del coniuge separato (e convivente) e degli eventuali figli comuni.

Addio mantenimento se si va a convivere. Questo principio è ormai stabile nella giurisprudenza della Cassazione che ha ormai consolidato la sua interpretazione a favore della cessazione definitiva dell’assegno di mantenimento o divorzile in caso di costituzione di nuova famiglia di fatto [Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 19345, 29 settembre2016;

www.sentenze-cassazione.com/wp-content/uploads/2016/09/Cassazione-Civile-VI-Sezione-1-Sentenza-n.-19345-2016.pdf

n. 2466/2016; n. 17856/2015; n. 6855/2015]: un’interpretazione che costituisce il superamento (da lunghi lustri da più parti auspicato) di una interpretazione della normativa sul divorzio in chiave chiaramente antimaschile.

Come detto, in passato, la giurisprudenza era invece orientata nel senso di ritenere che la famiglia di fatto comportasse solo la provvisoria sospensione, e non la definitiva estinzione, del diritto al mantenimento, che tornava pertanto a rivivere una volta cessata la convivenza [Cass. Sent. n. 4539/2014; n. 25845/2913; n. 17195/2011 che evidenzia che in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto; la conseguente cessazione del diritto all’assegno divorzile, a carico dell’altro coniuge, non è però definitiva, potendo la nuova convivenza – nella specie, uno stabile modello di vita in comune, con la nascita di due figli ed il trasferimento del nuovo nucleo in una abitazione messa a disposizione dal convivente – anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all’assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza].

Se sono presenti dei figli. Se la coppia ha avuto anche figli, la cessazione dell’obbligo di mantenimento riguarda solo l’ex coniugi ma non i minori o maggiorenni non autosufficienti, che manterranno il diritto ad essere ugualmente mantenuti, anche se ad essi provvede il/la nuovo/a compagno/a del genitore con cui convivono.

Come fare a cancellare l’assegno di mantenimento? Ma cosa deve fare, materialmente, l’uomo che, sapendo che l’ex moglie è andata a convivere con un’altra persona, non voglia più versarle il mantenimento? Innanzitutto deve procurarsi le prove di ciò che afferma, eventualmente con testimoni o con documenti che attestino il cambio di residenza, il pagamento delle utenze o altri elementi anche sintomatici di una vita in comunione. In secondo luogo deve, con un avvocato, recarsi in tribunale e instaurare una causa per la revisione delle condizioni di separazione o divorzio; non può, infatti, decidere autonomamente di sospendere il versamento, diversamente rischiando un decreto ingiuntivo ed, eventualmente, gli estremi del procedimento penale per violazione degli obblighi di mantenimento.

Redazione Lpt 6 gennaio 2017

13 sentenzewww.laleggepertutti.it/145330_se-lex-moglie-convive-devo-versare-il-mantenimento

 

Affido esclusivo dei figli: solo se nell’interesse del minore

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 27, 3 gennaio 2017

La Cassazione ritorna su un tema molto dibattuto riaffermando la regola dell’affidamento condiviso e i limiti di quello esclusivo ai casi di estrema necessità. La Corte pone nuovamente l’attenzione su un argomento molto dibattuto negli ultimi anni. Come ormai noto la normativa in vigore in materia di minori prevede la regola dell’affidamento condiviso, limitando i casi di affidamento esclusivo solo in casi di estrema necessità.

Il ricorso per il quale è intervenuta la sentenza oggetto di considerazione riguarda l’impugnazione di pronuncia della Corte di Appello di Brescia del 2015 con la quale veniva rigettato l’Appello avverso sentenza del Tribunale di Bergamo che, giudicando in materia di separazione, aveva affidato in via esclusiva al padre i due figli minori della coppia, fondando l’esigenza di tale tipologia di affido sulla circostanza che la particolare conflittualità esistente nel rapporto tra i coniugi avrebbe ostacolato la loro capacità di assumere scelte comuni e, quindi, un affidamento condiviso avrebbe creato una situazione di stallo nelle decisioni riguardanti i figli.

La Corte di Cassazione ha ritenuto assolutamente inconsistente la motivazione argomentata dal Giudice di primo di grado ed avallata dalla Corte di Appello che aveva rigettato l’impugnazione. Ritiene, difatti la Corte di Cassazione che l’affidamento esclusivo non garantisce assolutamente una minore litigiosità tra i genitori, né tutela l’interesse del figlio. E’ necessario, invece, procedere ad una valutazione esclusivamente diretta a verifica l’idoneità del genitore a svolgere le sue funzioni al fine di poter, eventualmente, prevedere un affidamento esclusivo, solo ed esclusivamente quando questa manchi del tutto.

Gli Ermellini confermano l’ormai consolidata giurisprudenza secondo la quale l’affidamento condiviso dei figli minori ad entrambi i genitori costituisce il regime ordinario di affidamento e, tale regime, non è impedito dalla conflittualità dei genitori, a meno che tale regime non sia pregiudizievole negli interessi dei figli, alterando e ponendo in serio pericolo il loro equilibrio e il loro sviluppo psico-fisico. Nel caso di specie, invece, alcun pregiudizio era potenzialmente arrecato e nessuna indagine diretta a verificarlo era stata effettuata, limitandosi il Giudice di Primo Grado a valutare semplicemente la conflittualità dei coniugi nell’ambito del giudizio di separazione e giustificando la tipologia di affido in ragione della necessità di assicurazione una rapidità di decisione riguardanti la prole, che sarebbe venuta meno a causa della stessa (nello stesso senso anche Cassazione n.1777 e n. 5108 del 2012, n.24526 del 2010 e 16593 del 2008).

Avv. Concetta Spatola Studio Cataldi 5 gennaio 2017 Sentenza

www.studiocataldi.it/articoli/24610-affido-esclusivo-dei-figli-solo-se-nell-interesse-del-minore.asp

L’ex marito lo chiede alla moglie e critica la valutazione basata sulla durata del matrimonio

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 275, 10 gennaio 2017

Presupposto per il riconoscimento dell’assegno di divorzio è che il richiedente non abbia redditi adeguati e non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive. Il criterio relativo alla durata del matrimonio attiene al momento successivo della quantificazione. E ciò, sia che l’inadeguatezza dei redditi venga correlata al tenore di vita goduto durante la convivenza o più in generale in costanza di matrimonio (criterio considerato, da larga parte della dottrina e da una parte della giurisprudenza, inadeguato e astratto – in quanto, in genere, la separazione e il successivo divorzio incidono negativamente sul tenore di vita di entrambi i coniugi – ed eccessivamente sanzionatorio per l’obbligato) sia che vengano in considerazioni altri criteri (ad es. un assegno che permetta una autosufficienza economica all’avente diritto, magari con alcune variabili collegate alla sua posizione economico-sociale, oltre che alle possibilità dell’obbligato): com’è noto, l’art. 5 L. Divorzio non fornisce definizione alcuna dell”‘inadeguatezza” dei redditi, attribuendone il contenuto all’opera della giurisprudenza.

Il criterio della durata del matrimonio appartiene al momento successivo della quantificazione dell’assegno, dopo che sia stata accertata l’inadeguatezza dei redditi del richiedente.

Nel caso di specie ha errato – secondo la Suprema Corte – la Corte di merito nell’escludere il diritto del ricorrente all’assegno divorzile, fondando esclusivamente la propria argomentazione sulla durata del matrimonio – poco più di due anni dalla celebrazione alla separazione di fatto con l’uscita dalla casa coniugale della moglie – non considerando peraltro il periodo di separazione assai più lungo. Né si potrebbero richiamare alcune sentenze di questa Corte (tra le altre Cass. N. 6164 del 2015) che ammettono l’esclusione dell’assegno in casi eccezionali di divorzio brevissimo (pochi giorni o pochi mesi di convivenza), ma ribadiscono sempre che il criterio della durata del matrimonio non attiene al diritto all’assegno, ma alla sua quantificazione.

Avv. Renato D’Isa 12 gennaio 2017

https://renatodisa.com/2017/01/12/corte-di-cassazione-sezione-i-civile-sentenza-10-gennaio-2017-n-275

 

Se la moglie resta contumace in sede di divorzio, può poi chiedere l’assegno?

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 683, 12 gennaio 2017

La richiesta di assegno divorzile è ammissibile anche dopo l’avvenuta statuizione sulle condizioni del divorzio. La Cassazione ribadisce le condizioni per le quali può essere concesso.

L’assegno divorzile è riconoscibile anche quando non sia stato chiesto nel giudizio che ha deciso il divorzio per la contumacia dell’attrice.

Ma è necessario dedurre e dimostrare le circostanze sopravvenute rispetto alla statuizione resa dal giudice di merito e concernenti l’indisponibilità di mezzi adeguati al proprio sostentamento e l’impossibilità oggettiva di procurarseli.

avv. Sugamele 13 gennaio 2017 www.divorzista.org/sentenza.php?id=13149

Arriva anche in Italia il coordinatore genitoriale

Tribunale di Milano 29 luglio 2016

Famiglia disgregata – Affidamento condiviso – Difficoltà insuperabili dei genitori nell’adottare scelte nell’interesse dei figli – Inserimento di un coordinatore genitoriale – Sussiste

L’inserimento della figura di un coordinatore genitoriale risponde all’esigenza di individuare un terzo nella famiglia disgregata che possa svolgere un ruolo vicario e di supporto dei genitori sia nella gestione della genitorialità condivisa sia nella individuazioni di soluzioni che, in attuazione del quadro genitoriale configurato dagli accordi o dal tribunale, possa coadiuvare aggiustamenti nelle tempistiche di frequentazione della minore con il genitore non collocatario, oltre che nella attuazione delle scelte, sia di carattere medico sia di carattere scolastico ed educativo- che i genitori dovranno in futuro assumere. Il coordinatore genitoriale, figura nuova nel panorama giuridico italiano ma ben nota in altri ordinamenti (popolare negli USA e species del più ampio genus di ADR – Alternative Dispute Resolution) – è soggetto qualificato, cui viene dunque demandato il compito di prevenire il ricorso a provvedimenti giudiziali in punto di responsabilità genitoriale. È una figura che viene individuata con lo specifico compito di facilitare la risoluzione delle dispute tra genitori altamente conflittuali e con lo scopo di ridurre l’eccessivo ricorso ad azioni giudiziarie. Il coordinatore genitoriale non ha poteri processuali poiché suo scopo è quello di risolvere il conflitto al di fuori del processo: in altri termini a ridurre al massimo il conflitto stesso.

Dott. Giuseppe Buffone il Caso 12 gennaio 2017 testo integrale

www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fmi.php?id_cont=16504.php

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Accertamento giudiziale della paternità: l’obbligo di mantenimento scatta dalla nascita

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 25735, 14 dicembre 2016.

L’obbligo del mantenimento del figlio sorge – in caso di accertamento giudiziale della paternità – dalla nascita e non dalla domanda. Correttamente, pertanto, in esito al giudizio promosso dalla madre nella qualità di genitrice del minore per l’accertamento della paternità e a seguito di espressa domanda in tale senso, il giudice condanna il convenuto, soccombente, non solo al pagamento di un assegno mensile di mantenimento, con decorrenza dalla domanda, oltre interessi legali e rivalutazione annuale, ma anche al pagamento di una ulteriore somma pari all’ammontare degli assegni dovuti per il periodo intercorso tra la nascita e la proposizione della domanda (nella specie: otto mesi), senza che il convenuto possa opporre che tale ultimo importo gli è stato addebitato a titolo di rimborso alla attrice, in proprio, delle spese anticipate per il mantenimento del minore.

Renato D’Isa 10 gennaio 2017

 

https://renatodisa.com/2017/01/10/corte-di-cassazione-sezione-i-civile-sentenza-14-dicembre-2016-n-25735

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Accertamento giudiziale della paternità: l’obbligo di mantenimento scatta dalla nascita

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 25735, 14 dicembre 2016.

L’obbligo del mantenimento del figlio sorge – in caso di accertamento giudiziale della paternità – dalla nascita e non dalla domanda. Correttamente, pertanto, in esito al giudizio promosso dalla madre nella qualità di genitrice del minore per l’accertamento della paternità e a seguito di espressa domanda in tale senso, il giudice condanna il convenuto, soccombente, non solo al pagamento di un assegno mensile di mantenimento, con decorrenza dalla domanda, oltre interessi legali e rivalutazione annuale, ma anche al pagamento di una ulteriore somma pari all’ammontare degli assegni dovuti per il periodo intercorso tra la nascita e la proposizione della domanda (nella specie: otto mesi), senza che il convenuto possa opporre che tale ultimo importo gli è stato addebitato a titolo di rimborso alla attrice, in proprio, delle spese anticipate per il mantenimento del minore.

Renato D’Isa 10 gennaio 2017

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Accertamento giudiziale della paternità: l’obbligo di mantenimento scatta dalla nascita

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 25735, 14 dicembre 2016.

L’obbligo del mantenimento del figlio sorge – in caso di accertamento giudiziale della paternità – dalla nascita e non dalla domanda. Correttamente, pertanto, in esito al giudizio promosso dalla madre nella qualità di genitrice del minore per l’accertamento della paternità e a seguito di espressa domanda in tale senso, il giudice condanna il convenuto, soccombente, non solo al pagamento di un assegno mensile di mantenimento, con decorrenza dalla domanda, oltre interessi legali e rivalutazione annuale, ma anche al pagamento di una ulteriore somma pari all’ammontare degli assegni dovuti per il periodo intercorso tra la nascita e la proposizione della domanda (nella specie: otto mesi), senza che il convenuto possa opporre che tale ultimo importo gli è stato addebitato a titolo di rimborso alla attrice, in proprio, delle spese anticipate per il mantenimento del minore.

Renato D’Isa 10 gennaio 2017

https://renatodisa.com/2017/01/10/corte-di-cassazione-sezione-i-civile-sentenza-14-dicembre-2016-n-25735ffidi di lunga durata, quattro raccomandazioni per fare buoni progetti

Quasi il 60% degli affidi dura più dei 24 mesi previsti dalla legge. Il fatto è che nei casi in cui siano necessari affidi prevedibilmente lunghi, il progetto di affido deve tenerne conto, fin dall’inizio: il Tavolo Nazionale Affido ci invia un contributo sul tema, con alcuni consigli. L’affidamento familiare ha come caratteristica fondamentale la temporaneità: 24 mesi eventualmente prorogabili. Nella pratica però accade spesso che non si realizzino le condizioni per il rientro nella famiglia di origine e di conseguenza l’affidamento familiare si protrae nel tempo, nel superiore interesse del minore. La “durata lunga” degli affidamenti ha però un’importante rilevanza nella definizione del progetto di affidamento familiare. Il Tavolo Nazionale Affido ci invia un contributo sul tema, anche in vista di un prossimo primo bilancio della legge 173/2015 sulla continuità degli affetti. (sdc)

 

Per inquadrare correttamente la riflessione, è necessario fornire alcuni dati quantitativi relativi agli affidi di lunga durata. Purtroppo gli ultimi dati utilizzabili al livello nazionale sono quelli contenuti nel Rapporto 2012 del Centro nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. L’assenza di dati periodicamente aggiornati sui minori in affidamento familiare e in strutture, sulle cause degli allontanamenti, sugli esiti dell’affido, sui rapporti con la famiglia di origine, sui percorsi per l’autonomia, ecc. rende difficile comprendere appieno l’ampiezza e le caratteristiche di questo fenomeno. Si riportano qui di seguito alcune tabelle con i dati di base contenuti nel già citato Rapporto 2012. Nella tabella 1 si riportano i numeri di bambini e ragazzi da 0 a 17 anni fuori dalla famiglia al 31 dicembre 2012.

Sia gli affidi presso famiglie affidatarie sia gli inserimenti in strutture collettive possono essere di lunga durata. La tabella che segue riporta i dati relativi alla durata degli affidi presso famiglie affidatarie e degli inserimenti presso strutture. Quasi il 60% dei minori in affidamento lo è da più di due anni, confermando dunque che la pratica dell’affido “a lungo termine” è realtà concreta su cui è importante riflettere. Inoltre, il rapporto 2012 riporta che circa il 74% degli affidi sono di tipo giudiziale, non è tuttavia possibile evincere il dato di quanti di essi siano affidamenti consensuali diventati giudiziari dopo i due anni, come previsto dalla normativa vigente.

Come già rilevato nel documento del 2012 del Tavolo Nazionale Affido sul tema della continuità degli affetti dei minori affidati, anche se l’esito dell’affido dovrebbe essere il rientro del bambino nella sua famiglia d’origine, tuttavia, «un affidamento non può essere giudicato riuscito o meno solo in base alla sua durata e all’effettivo rientro del bambino nella sua famiglia d’origine […] L’attuale normativa non pregiudica, positivamente, la possibilità di affidi a lungo termine se questo corrisponde all’interesse del minore: sono molti i casi in cui i genitori al di là dei sostegni non sono in grado di provvedere da soli alla crescita del minore, pur non ricorrendo gli estremi per la dichiarazione di adottabilità. È tuttavia da stigmatizzare il fatto che in molti casi l’affidamento si prolunghi per l’inerzia delle istituzioni a sostenere con interventi adeguati la famiglia d’origine e a causa della mancata messa a disposizione delle famiglie in difficoltà di aiuti non solo economici e assistenziali, ma anche di quelli che afferiscono alla casa, al lavoro, all’affiancamento amicale. In tal senso il realizzarsi di affidamenti di lunga durata, anche se adeguati e necessari in taluni specifici casi, non può essere considerato la normalità e deve essere sempre sostenuto da specifici progetti monitorati con regolarità».

Ci sono infatti situazioni in cui la famiglia di origine – a volte composta da un solo genitore – non è in grado di rispondere da sola e in maniera adeguata alle necessità educative e formative dei propri figli (né si prevede che possa divenirlo), con i quali ha però legami affettivi significativi che vanno salvaguardati. Nei confronti di questi minori che per la gravità e complessità della loro situazione familiare non possono tornare a casa dopo due anni di affidamento ed al tempo stesso non sono adottabili, l’intervento privilegiato è l’affidamento familiare, che quando è disposto dal Tribunale per i minorenni, può avere una durata anche superiore ai due anni. Anche la legge 173/2015 sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare, che ha novellato l’art. 4 della 184/83, precisa che la lunga durata dell’affido non determina, di per se, l’adottabilità del minore. Anche in questi casi gli affidatari continuano a svolgere una funzione complementare e non sostitutiva della famiglia d’origine, a differenza di quanto avviene con l’adozione.

Questi affidamenti possono prolungarsi per anni e, se necessario, anche fino alla maggior età se non oltre, ma assicurano al minore il diritto di crescere in famiglia, coerentemente a quanto enunciato dalla legge n. 184/1983 e successive modifiche e integrazioni e – salvo controindicazioni – garantiscono il mantenimento delle relazioni tra il bambino/ragazzo e la sua famiglia di origine. Gli affidamenti di lunga durata presuppongono comunque l’esistenza di un legame affettivo significativo fra il bambino e la sua famiglia d’origine o, almeno, con alcuni componenti della sua famiglia. Legame affettivo che si deve sostanziare anche con la possibilità di incontri periodici del minore con i familiari.

L’affido familiare ha come caratteristica principale quella di offrire ad un minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo una famiglia, preferibilmente con figli minori, o una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno fino a quando non sia venuta meno la situazione di difficoltà temporanea della famiglia d’origine che lo ha determinato, ovvero nel caso in cui la prosecuzione di esso rechi pregiudizio al minore. La durata dell’affido nella casistica rilevata negli anni anche dagli organismi appartenenti al Tavolo si traduce in una pluralità di situazioni riassumibili in due gruppi (della possibilità di immaginare fin dall’inizio due percorsi distinti aveva parlato a Vita un anno fa anche Giuseppe Spadaro, presidente del tribunale dei minorenni di Bologna):

  1. Affidi di durata prevedibilmente medio-breve. Rappresentano gli affidi in cui la famiglia di origine presenta fragilità transitorie e recuperabili in maniera sufficiente attraverso percorsi mirati. Ci si augura rappresentino il filone principale degli affidamenti familiari e richiedono progettazione, abbinamento, monitoraggio e accompagnamento adeguati alle ridotte prospettive temporali;

  2. Affidi di durata prevedibilmente lunga. Sono gli affidamenti realizzati in quelle situazioni nelle quali, a volte fin da subito, si arriva a ipotizzare che vi sia la realistica impossibilità di prevedere un rientro del minore a casa, pur permanendo e valorizzando la relazione con la famiglia di origine. Sono finalizzati al sostegno a quelle famiglie di origine che presentano delle fragilità parzialmente superabili, ma che al contempo mantengono delle competenze genitoriali di cui è ritenuto opportuno che il minore continuino a beneficiare, e ci siano le premesse per una buona interazione tra le due famiglie (affidataria e affidante). Sono da considerarsi affidi di durata presumibilmente lunga anche quelli relativi alle situazioni – non rare – nelle quali non è possibile prevedere fin dall’inizio quali saranno le possibilità o i tempi di superamento della situazione di difficoltà familiare che rendono necessario l’affidamento. Tali situazioni sovente richiedono tempi di valutazione, nonché progetti, medio-lunghi. È a queste situazioni che si rivolge il presente documento.

Diversi da quanto sopra descritto sono gli affidamenti a rischio giuridico, connessi fin da subito all’apertura della procedura di adottabilità.

Le organizzazioni del Tavolo Nazionale Affido ritengono corretto parlare di “affidamenti di lunga durata” per sottolineare che essi debbono rispondere a specifiche e pensate progettualità che nel corso del tempo assumono caratteristiche, contenuti e obiettivi che inducono responsabilmente a continuare il progetto e il percorso in atto di affidamento familiare nel superiore interesse del minorenne accolto. Meno opportune paiono le diciture quali “affido sine die” o “affidi fino alla maggiore età” o “affidi senza termine”, per definire questa tipologia di affido.

Raccomandazioni per un buon affidamento familiare di lunga durata. Di seguito si individuano alcuni elementi e caratteristiche, che riteniamo facilitino un buon affidamento familiare di lunga durata:

  • Il progetto. L’affidamento di lunga durata occorre sia pensato, progettato ed assunto come una forma specifica di affido. La lunga durata inciderà sulla definizione degli obiettivi, delle modalità di svolgimento dell’affido, dei criteri di verifica della disponibilità degli affidatari e del conseguente abbinamento con il minorenne e sulla definizione dell’articolazione del ruolo dei vari soggetti coinvolti. Nell’elaborazione del progetto specifico è pertanto necessaria la definizione di una prevedibile durata dell’affidamento, che presuppone una valutazione tempestiva, approfondita e realistica da parte delle istituzioni competenti della situazione personale e familiare del minore, compresa quella delle capacità genitoriali e del loro recupero, anche parziale, in relazione alle sue esigenze di crescita, tenuto conto degli interventi che realisticamente possono essere attivati dai Servizi competenti e della capacità dei genitori/parenti del minore di poterne fruire in base alle loro condizioni.

  • L’accompagnamento. L’affido di lunga durata occorre sia accompagnato da interventi specifici ed individualizzati e sostenuto anche economicamente dall’ente affidatario. È importante evidenziare la necessità di una periodica revisione dell’andamento dell’affidamento da parte del Tribunale per i minorenni, sulla base della relazione semestrale del servizio sociale referente e dell’audizione-ascolto degli stessi servizi sociali e sanitari, degli affidatari, della famiglia di origine e, quando nel suo interesse, del minorenne stesso. La lunga durata può rendere inoltre particolarmente utile l’affiancamento degli affidatari da parte di altri operatori e/o volontari che possano nel tempo offrire supporti relativi a specifici aspetti (sostegno scolastico pomeridiano, accompagnamenti a scuola, attività sportive …) o anche effettuare – in accordo con i servizi – brevi ospitalità del minorenne a fronte di particolari esigenze degli affidatari.

  • L’ascolto e la partecipazione del minore e dei suoi genitori. Nell’attuazione del progetto di affido di lunga durata, va richiamato il diritto alla partecipazione e all’ascolto del minore «che ha compiuto dodici anni o anche di età inferiore se capace di discernimento», ovviamente secondo modalità adeguate all’età e alla condizione personale. Importante è anche l’ascolto e la partecipazione dei genitori del minorenne, affinché siano messi nella condizioni di comprendere e contribuire alla definizione del progetto di affido e alla sua realizzazione e verifica periodica. L’ascolto e la partecipazione del minorenne al proprio percorso progettuale non possono però essere confusi con l’attribuzione della responsabilità ultima delle decisioni al minorenne stesso rinunciando all’esercizio dovuto della responsabilità da parte delle Istituzioni preposte, servizi e giudici, sentiti anche gli affidatari, in base a quanto disposto dalla legge 173/2015.

  • Maggiore riconoscimento del ruolo della famiglia affidataria. Significativo nell’esperienza di affidamento familiare di lunga durata di un minore è che la famiglia affidataria sia ascoltata dall’Autorità Giudiziaria per contribuire alla realizzazione del progetto e alla verifica periodica. La durata prolungata del periodo di affidamento deve coniugarsi pienamente non solo con i compiti della famiglia affidataria ma anche con la piena attuazione di tutte le prescrizioni previste dalla legge 184/83 in merito ai rapporti con la scuola e con la sanità. È quindi necessario che sia prevista una certa maggiore autonomia decisionale da parte della famiglia affidataria. È opportuno che, nei casi di decadenza della responsabilità genitoriale disposta dal tribunale per i minorenni, venga valutata la possibilità degli affidatari di essere nominati come tutori. Occorre altresì ricordare che spesso i ragazzi in affido raggiungono la maggiore età e rimangono in famiglia affidataria. Anche in questi casi è necessario garantire concrete e durature misure di avvio all’autonomia per i neomaggiorenni (tirocini, stage, ecc.) e misure di sostegno anche economico a favore delle famiglie affidatarie. Rendere possibile che una famiglia si impegni in affidi di lunga durata passa, infine, attraverso la necessità di riconoscere che essa possa essere accompagnata e sostenuta nel percorso dalle Associazioni o Reti di famiglie da lei eventualmente indicate alle quali deve esser riconosciuto il compito di accompagnamento nei rapporti con i servizi sociali e gli organi giudiziari in tutte le fasi dell’affido.

Marco Giordano, presidente di Progetto Famiglia e portavoce del Tavolo Nazionale Affido 09 gennaio 2017

www.vita.it/it/article/2017/01/09/affidi-di-lunga-durata-quattro-raccomandazioni-per-fare-buoni-progetti/142077

Le conseguenze dell’addebito nella separazione tra coniugi
Una breve analisi dei principali risvolti patrimoniali della pronuncia di addebito in sede giudiziale.
Nel giudizio di separazione tra coniugi l’addebito in capo ad uno di essi richiede un’apposita domanda di parte tendente a dimostrare che la moglie o il marito, avendo assunto una condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimonio, abbia determinato la crisi della coppia.
Giova sinteticamente ricordare che, per fondare una dichiarazione di addebito occorre la prova di un effettivo collegamento tra la trasgressione ai doveri matrimoniali da parte del coniuge e la intollerabile prosecuzione della convivenza. In assenza di tale nesso causale il giudice non potrà pronunciarsi sull’addebito e sarà altresì irrilevante ogni condotta assunta dal coniuge successivamente al verificarsi della crisi coniugale.
La Cassazione, infatti, nel ribadire detto criterio di connessione, esclude l’addebito della separazione addirittura in casi di acclarata infedeltà coniugale, qualora si accerti che quest’ultima non rappresenti la causa diretta della crisi matrimoniale. Pertanto, malgrado l’addebito della separazione possa apparire una conseguenza quasi naturale nelle ipotesi di tradimento, per la giurisprudenza ciò non è sempre così scontato.
Nello specifico, infatti, per la declaratoria di addebito nel giudizio di separazione, il giudice conduce un’indagine sull’intollerabilità della convivenza effettuando una valutazione di carattere globale e comparando le condotte assunte da entrambi i coniugi. In altri termini, ogni opportuno riscontro o valutazione giudiziaria non potrà fondarsi esclusivamente sul comportamento adottato dal coniuge “trasgressore”, poiché soltanto dalla predetta complessiva valutazione potrà evincersi la rilevanza ed il peso reale che le rispettive condotte hanno avuto nella crisi coniugale. In ragione di quanto sopra, il presunto tradimento non assume alcuna rilevanza ai fini dell’addebito della separazione, laddove il coniuge “colpevole” dimostri in giudizio che la propria infedeltà sia intervenuta in realtà quando la situazione di coppia si palesava già del tutto compromessa.
Senza pretesa di esaustività si osserva, inoltre, che le conseguenze di una pronuncia di addebito coinvolgono in particolar modo l’ambito patrimoniale del coniuge tacciato di “colpevolezza”. L’effetto primario dell’addebito infatti è certamente rinvenibile nella perdita, da parte del coniuge che lo subisce, del diritto all’assegno di mantenimento eventualmente riconosciutogli in sede di separazione. In altri termini, quand’anche il coniuge responsabile della crisi coniugale manifesti una condizione economica tale da giustificare il riconoscimento dell’assegno soprindicato, esso non ne avrà comunque diritto. Ne deriva pertanto che il riconoscimento all’assistenza materiale scaturente dal matrimonio si conserverà soltanto in favore del coniuge cui non è addebitabile la separazione. Quest’ultimo infatti, a seguito di un accertamento sulla propria situazione reddituale, potrà giovarsi dell’assegno di mantenimento garantendosi lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.
Ciononostante è importante chiarire che l’eventuale declaratoria di addebito in capo al coniuge trasgressore non impedirà a quest’ultimo, ricorrendone i presupposti di legge, di godere del diritto agli “alimenti” nei confronti dell’altro coniuge. Vale a dire che l’assegno “alimentare” dovrà comunque essere versato a prescindere dalla responsabilità in ordine alla separazione, stante la differente funzione degli “alimenti” rispetto a quella dell’assegno di “mantenimento”. Giova infatti ricordare che, mentre l’assegno di mantenimento persegue lo scopo di garantire, al coniuge che ne beneficia, il godimento e la conservazione delle medesime condizioni economiche esistenti durante il corso del matrimonio, l’assegno alimentare viene riconosciuto invece al fine di consentire al coniuge economicamente più debole i mezzi necessari e sufficienti per far fronte alle esigenze economiche legate al soddisfacimento dei propri bisogni primari.
È di palmare evidenza quindi come il diritto agli alimenti abbia quale suo imprescindibile presupposto l’acclarata impossibilità, da parte del coniuge interessato, di poter provvedere autonomamente al proprio sostentamento economico in quando sprovvisto di un reddito personale. La prestazione alimentare potrà poi essere adempiuta mediante un assegno da corrispondersi periodicamente o finanche accogliendo e mantenendo nella propria abitazione colui che ne beneficia. Ad ogni modo l’autorità giudiziaria potrà, a seconda delle circostanze, determinare modalità e tempi della somministrazione.
Di notevole rilevanza sono poi gli effetti della pronuncia di addebito della separazione in ambito successorio. Il coniuge separato con addebito perde infatti i diritti di successione inerenti allo stato coniugale, conservando tuttavia soltanto il diritto ad un assegno vitalizio qualora, all’apertura della successione dell’altro coniuge, egli già godeva dell’assegno alimentare a carico di quest’ultimo. Preme al riguardo aggiungere che pur in assenza di un formale provvedimento di riconoscimento del diritto agli alimenti, l’assegno indicato potrebbe essere giudizialmente disposto in favore del coniuge bisognoso qualora, all’apertura della successione, egli palesi un oggettivo stato di bisogno.
Benché non pacificamente si sostenga in dottrina e giurisprudenza la sua natura alimentare, il descritto vitalizio di cui gode il coniuge superstite con addebito ha chiaramente natura assistenziale e successoria. Esso costituisce in particolare un legato ex lege da commisurarsi sia in relazione alle sostanze ereditarie sia al numero degli eredi ed il cui adempimento grava su questi ultimi in proporzione alle rispettive quote ereditarie. Infine preme ricordare che il suo ammontare non potrà eccedere l’importo dell’assegno alimentare percepito prima della morte del coniuge alimentante.
Ulteriore effetto dell’addebito della separazione lo si rinviene in tema di prestazioni previdenziali riconosciute al coniuge defunto, quali ad esempio il diritto alla pensione di reversibilità ed altre indennità previste dalla legge. Mentre infatti al coniuge separato “senza addebito” spetterà certamente il diritto a tali prestazioni previdenziali, il coniuge separato “con addebito” conserverà ugualmente il diritto a percepire dette corresponsioni soltanto sul presupposto dell’effettivo godimento, in vita dell’altro coniuge, dell’assegno alimentare.
Infine, preme sottolineare che l’eventuale pronuncia di addebito non condiziona in alcun modo l’adozione di provvedimenti da parte dell’autorità giudiziaria sull’affidamento dei figli. L’interesse morale e materiale di questi ultimi è infatti del tutto disancorato dall’accertamento sulla responsabilità in ordine alla separazione e alla consequenziale declaratoria di addebito. Tuttavia qualora si dimostri che l’atteggiamento del coniuge colpevole possa esercitare una qualche influenza negativa sull’educazione e sulla morale dei figli, la pronuncia di addebito non sarebbe sgombra da interferenze rispetto ai provvedimenti di affidamento dei figli stessi. Per approfondimenti vai alla guida legale “L’addebito della separazione”
www.studiocataldi.it/guide_legali/separazione/addebito-separazione.asp
Avv. Pino Cupito Newsletter giuridica studio Cataldi.it 9 dicembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/24262-le-conseguenze-dell-addebito-nella-separazione-tra-coniugi.asp

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