UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
News UCIPEM n. 937 – 20 novembre 2022
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L ’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
CONTRIBUTI PER ESSERE IN SINTONIA CON LA VISIONE EVANGELICA
02 ABUSI L’‰ a preti pedofili, soldi dei fedeli usati per aiutare il sacerdote accusato di molestie
05 Violenza su minori a Ischia: suora arrestata. Per altre 3 divieto di dimora
06 Togliamo i fondi dell’8 per 1000 alla Chiesa cattolica se copre i preti pedofili
07 CELIBATO Celibi: una vocazione o uno stato?
09 CENTRO INT. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF -n. 42, 16 novembre 2022
11 CHIESA DI TUTTI Abusi del clero: un convegno di #ItalyChurchToo sul caso Italiano
13 CHIESA NEL MONDO L’arcivescovo emerito di Strasburgo riconosce a sua volta un’aggressione sessuale
13 La dimensione episcopale della Chiesa è in pericolo?
14 CITTÀ DEL VATICANO La lotta “sinodale” agli abusi della “nuova” Pontificia Commissione Minori
16 Il vescovo di ‘s-Hertogenbosch commenta la visita ad limina dei vescovi olandesi
16 Visita ad limina: vescovi tedeschi ricevuti in udienza da Papa Francesco
16 CONF. EPISC0PALE ITALIANA Primo Report sulle attività di tutela nelle Diocesi italiane
18 Tutela dei minori
19 Report CEI la critica dei sopravvissuti ai limiti del report, ma i dati battono la Francia
20 Pedofilia e Chiesa, la Cei ha escluso dall’indagine diocesi con preti sotto processo
21 Padre Zollner: “Oggi la prevenzione dipende dall’ammettere le realtà del passato”
23 Consiglio permanente Cei: Cammino sinodale al centro della sessione straordinaria
24 Prima stesura della “Ratio nationalis” per la formazione nei seminari
24 DALLA NAVATA 34° Domenica del tempo ordinario – Anno C
24 Commento di p. Balducci
26 FORUM ASSOC. FAMILIARI “Per puntare al quoziente familiare occorre incrementare l’assegno unico e passare
27 Quoziente Familiare. “Via l’Isee, così le famiglie risparmiano 800 euro e il Pil cresce”
28 FRANCESCO VESCOVO ROMA Il consiglio del Papa: riscoprire il libro di Rut, nella meditazione sull’amore
29 IVG Nel cuore del mistero dell’origine della vita. Quando si diventa persona
31 LITURGIA Celebrare la parola
32 MINORI Sottrazione internazionale minore: Cassazione fissa principi per accertare residenza
32 PAPI Giovanni XXIII e Papa Francesco, due “Uomini dei tempi bui”
38 PASTORALE La follia della pastorale
41 Follia pastorale
42 RIFLESSIONI La novità di Francesco per la Chiesa
43 SIN0DALITÀ La Chiesa dov’è? una collegialità da riscoprire
46 Sinodo: pare essere la parola del momento della Chiesa cattolica
47 La Chiesa che c’è e una nuova Chiesa che forse ci sarà
48 Pensare la fede. Il concilio e… gli atei
49 SINODO CONTINENTALE Bätzing: “La Chiesa in Germania vuole e deve dare risposte alle domande dei fedeli”
50 Un “custode della dottrina” a Roma vuole essere più conciliante con il sinodo tedesco
52 TEOLOGIA “Silenzio su Dio?”
ABUSI
L’8 per mille ai preti pedofili, i soldi dei fedeli usati per aiutare il sacerdote accusato di molestie
I vescovi italiani usano i fondi statali dell’8 per mille anche per tutelare i sacerdoti accusati di pedofilia, come se le denunce delle vittime e i processi che ne conseguono fossero una persecuzione contro la Chiesa cattolica. E questi pedofili protetti sono numerosi, più di quelli rilevati dalla giustizia dello stato. È l’imbarazzante realtà che sta emergendo dal processo per violenza sessuale su minori (articoli 81 e 609 bis del codice penale) a carico di don Giuseppe Rugolo (a1982), in corso al tribunale di Enna.
Processo esplosivo. Per il vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana (a1959) è durissima l’udienza fiume del 10 ottobre scorso, durante la quale ha deposto come testimone. Esita, si confonde, non ricorda: di fronte alle contestazioni degli avvocati di parte civile, che gli leggono le intercettazioni con le sue dichiarazioni, si contraddice, in evidente difficoltà, tanto che il procuratore lo richiama più volte fino ad ammonirlo «a mettersi d’accordo con sé stesso». Giuseppe Rugolo è accusato di aver abusato di tre ragazzi, e il vescovo, di fronte alle domande del procuratore capo di Enna Massimo Palmeri e dalla sostituta Stefania Leonte, è in evidente imbarazzo. È dal gennaio 2021, da quando la storia di don Giuseppe è arrivata a conoscenza dell’opinione pubblica, che monsignor Gisana si tormenta. Pensava di aver chiuso la faccenda nel 2019 con la cosiddetta “indagine previa” (il procedimento ecclesiastico che si è chiuso con un nulla di fatto) e il conseguente trasferimento di Rugolo a Ferrara, lontano dagli occhi e dai pettegolezzi dei fedeli. Invece il peggio doveva ancora venire. La denuncia alla polizia di una delle vittime, Antonio Messina, ha infatti messo in moto l’inchiesta della procura di Enna e il conseguente arresto e rinvio a giudizio del sacerdote, che abbiamo raccontato su “Domani” del 3 luglio 2022. Ora il vescovo deve rendere conto in un’aula di giustizia, seppure come testimone, di quel che ha detto e – soprattutto – di quel che non ha detto sul conto dei suoi preti. Dagli atti del processo e dal dibattimento a porte chiuse emerge un’immagine della chiesa fatta di omertà e di sacerdoti preoccupati di salvaguardare il proprio buon nome, anche a costo di compromettere la sicurezza dei bambini. Molti degli abusatori, infatti, non potrebbero continuare a commettere reati se il vescovo li segnalasse subito all’autorità giudiziaria: i preti pedofili possono continuare ad agire indisturbati perché la Chiesa li protegge con il silenzio anche di fronte alle denunce delle vittime. Durante una telefonata con lo stesso imputato, intercettata dagli inquirenti, Gisana ammette apertamente di averlo coperto: «Il problema – dice testualmente – è anche mio perché ho insabbiato questa storia». Rugolo, agli arresti domiciliari dal 27 aprile 2021, però, non è l’unica «patata calda», come la definisce lo stesso Gisana, di cui ha dovuto occuparsi. Secondo un’intercettazione prodotta in aula, ci sono altri preti pedofili tuttora attivi nelle parrocchie della diocesi di Piazza Armerina, casi delicati di cui il vescovo discute al telefono con il suo vicario don Antonino Rivoli, che si mostra al corrente dei fatti.
I silenzi del vescovo, «In aula emerge che il vescovo era a conoscenza di altri abusi – conferma a “Domani” Antonio Messina – sacerdoti che non ha denunciato ma, anzi, ha provveduto a promuovere con nuovi incarichi in diocesi». Da un’intercettazione letta in aula si apprende che uno di questi, lo chiameremo don Mario, ha abusato di un minorenne, oggi anche lui prete. Gisana nella telefonata dice espressamente che è una fortuna che la vittima non lo abbia mai denunciato perché altrimenti sarebbe stato certamente ridotto allo stato laicale. «Entrambi, l’abusatore e la sua vittima – nota Messina, l’accusatore di Rugolo – sono stati nominati dal vescovo parroci in due chiese della diocesi nelle due settimane precedenti l’udienza». La vittima, insomma, sarebbe stata premiata per il suo silenzio. In udienza, alla richiesta di spiegazioni da parte dell’avvocata di parte civile Eleanna Parasiliti, il vescovo scatta: «E questo cosa c’entra?». Non è tutto. Il vescovo, oltre a don Mario, si è “preso cura” di altri preti speciali. Alcuni nomi vengono letti in udienza; fra questi c’è quello di un sacerdote, don Vincenzo Iannì, rinviato a giudizio nel 2019 per violenza sessuale su una ragazzina minorenne. Come si legge nella relazione della Corte d’Appello di Caltanissetta che riporta il caso, qualche anno prima il prete, oggi 81enne, approfittando della situazione di indigenza della famiglia, aveva invitato l’adolescente ad andare da sola in canonica, dove aveva abusato di lei. Eppure Iannì nel 2018 è stato nominato da Gisana viceparroco della parrocchia di Santa Lucia a Gela, in uno dei quartieri più disagiati della città; risulta sempre incardinato nella diocesi ma al momento è irreperibile. «Oltre a questi – spiega Messina – io avevo segnalato sin dai miei primi colloqui con il vescovo, e anche durante l’indagine previa, un altro sacerdote che adescava ragazzini, compagno di seminario di Rugolo. Me ne aveva parlato Rugolo stesso quando frequentavo la parrocchia ad Enna».
Rugolo è accusato di aver abusato di Messina, oggi 29enne, dal 2009 al 2013. Poco tempo dopo il ragazzo ha rivelato alla diocesi tutte queste cose. «Nessuno però ha fatto nulla e oggi questo prete è parroco della diocesi con incarichi importanti a contatto con i minori», accusa. Ancora a Gela, un carabiniere, catechista della chiesa Madre, è stato rinviato a giudizio lo scorso febbraio per violenza sessuale sul figlio minore e maltrattamenti nei confronti dell’ex moglie. Nonostante questo, rimane un punto di riferimento in parrocchia, tanto che a Pasqua 2022, durante la celebrazione della settimana santa, lo si vede portare il Cristo morto in processione e compare anche sull’altare lo scorso settembre, in occasione della ricorrenza di Maria Santissima dell’Alemanna, patrona di Gela.
Sono tante, quindi, le “patate calde” che monsignor Gisana è abituato a gestire dalle stanze del palazzo vescovile, con la collaborazione del consiglio episcopale e dei sacerdoti a lui più vicini, senza mai informare le autorità civili. All’agenzia Ansa, quando è scoppiata la bomba di don Rugolo a Enna, alla richiesta di spiegazioni sul sacerdote accusato di avere abusato di un minore, il vescovo aveva risposto candidamente: «Non ho capito di chi si parli. Abbiamo tanti casi». Casi di cui però non si deve sapere, risolti spostando i preti “inquieti” di parrocchia in parrocchia (ma senza badare a tenerli lontano dai bambini) e scoraggiando le denunce che, quando raggiungono le orecchie dei sacerdoti, vengono quasi sempre opportunamente blindate dentro il segreto confessionale.
Il sacramento come arma. Il sacramento della confessione è infatti l’arma a cui il clero ricorre quando è messo alle strette: lo si vede proprio da come Gisana e il suo entourage gestiscono il caso Rugolo. Sentito come persona informata dei fatti nel gennaio 2021, il vescovo dichiara che non ha avuto nessun’altra segnalazione a carico del sacerdote sotto accusa, a parte quella già nota di Messina, e omette di rendere noto agli inquirenti che un altro ragazzo, Cesare (nome di fantasia), già nel 2015 era andato da lui a denunciare di aver subito molestie da Rugolo. Dalle intercettazioni emerge come Gisana sia preoccupato per questa sua reticenza, tanto da discutere con il fido Rivoli di come riparlarne in un secondo tempo: «E quindi, non so… per questa cosa… eventualmente gli dirò: io ho avuto delle confessioni, le confessioni non si dicono, mi dispiace!». Per chiedere consigli su come comportarsi, chiama addirittura un certo don Paolo, sia prima che dopo l’interrogatorio in procura. Don Paolo, che risponde da un’utenza del Governatorato della Città del Vaticano, prima lo invita a non andare da solo in procura ma a farsi accompagnare dall’avvocato, e poi lo rassicura dicendogli che ha fatto bene a non raccontare di Cesare, perché per la legge canonica non può riferire né il contenuto né il fatto stesso dell’avvenuta confessione. Quando a marzo viene sentito nuovamente dal procuratore, il vescovo decide comunque di correggere il tiro e ammette di aver parlato tre volte con Cesare ma, appunto, soltanto in confessione; circostanza poi smentita in udienza dal ragazzo stesso, che ha sottolineato di aver avuto con il vescovo anche un colloquio in episcopio.
Gli intrighi ad Enna, però, non si limitano al clero. Dalle intercettazioni telefoniche emerge anche un incontro privato fra il vescovo e il colonnello dei carabinieri Saverio Lombardi, poi rinviato a giudizio per tentativo di induzione indebita a dare o promettere utilità, cioè in sostanza accusato di aver abusato del suo potere a fini personali. Il colonnello, infatti, avverte il vicario Rivoli, con cui è in un rapporto di evidente confidenza, che vuole incontrare in via riservata il vescovo a proposito di Rugolo. Avvisato dal vicario, Gisana acconsente e l’ufficiale lo raggiunge di sera e in borghese.
Omertà e veleni. Qual è il motivo di tanta prudenza? Lo spiega candidamente il vescovo stesso agli inquirenti: Lombardi voleva consigliargli di cercarsi un altro avvocato, per il presunto coinvolgimento di quello scelto da Gisana (su consiglio di Rivoli) in un’indagine per associazione mafiosa. Il processo al colonnello Lombardi, trasferito a Lecce come capo ufficio del personale, è iniziato al tribunale di Enna il 5 luglio scorso.
È un altro dei tanti tasselli che non combaciano nella diocesi di Piazza Armerina e che l’azione giudiziaria nei confronti di don Rugolo sta portando a galla. Reticenze, contraddizioni e coperture tratteggiano una comunità ecclesiale divisa da un clima avvelenato, in un’intricata ramificazione di confidenze e pettegolezzi che si estende dal palazzo vescovile alle canoniche, con l’unico obiettivo di far emergere il meno possibile sui peccati e i peccatori della diocesi. Per il bene della chiesa, ovviamente, e con buona pace delle vittime dei preti pedofili. Questi sacerdoti dal doppio volto, uno per gli intrighi e il peccato e l’altro per le messe e le processioni, sembrano quasi personaggi di Leonardo Sciascia. Fra tutti, il più ambiguo è proprio il vescovo: mentre proclama di aver condotto l’indagine ecclesiastica con zelo, ascoltando tutte le parti in causa, tralascia di menzionare il fatto che ha lasciato passare anni prima di occuparsi concretamente di Rugolo, per poi trasferirlo altrove, come se fosse uno studente in trasferta e non un pedofilo recidivo. Come emerge dagli atti, nel 2015 Gisana riceve la prima segnalazione da Cesare e l’anno successivo un sacerdote, padre Fausciana, gli racconta di aver ricevuto da Antonio Messina una denuncia di abuso a carico di Rugolo, ma lui attende ancora più di tre anni prima di allontanare il prete da Enna e di instradarlo verso un periodo di “cura e riflessione” a Ferrara, sotto l’ala protettrice del vescovo della città estense Gian Carlo Perego. Periodo in cui, tra l’altro, Rugolo continua ad avere contatti con i minori e anche ad intrattenere relazioni sessuali con giovani adulti, come emerge dall’ordinanza di custodia cautelare. In tutto questo tempo, Gisana non sente mai la necessità di verificare le accuse a questo giovane prete tanto brillante, né di rivolgersi all’autorità giudiziaria per raccontare quello che sa; anzi, nel 2018, dopo che ha già ricevuto la denuncia dei genitori di Antonio Messina, lo promuove a parroco della chiesa di San Cataldo a Enna.
I soldi dell’8 per mille. Monsignor Gisana, con il suo prendere tempo e voler risolvere le cose “in famiglia”, è sordo anche ai richiami di papa Francesco, che con il motu proprio “Vox estis lux mundi”, invita il clero e la chiesa tutta alla segnalazione degli abusi. A tratti sembra trascinato dagli eventi, quasi incredulo che tutto stia capitando proprio a lui, che ha cercato di occuparsi dei suoi preti peccatori come un padre premuroso fa con i figli. Anche assistendoli economicamente con i fondi dell’8‰ per mille. Come si apprende in udienza, ha coperto ventimila euro di un debito di don Rugolo nell’ottobre 2019, a cui ha aggiunto altri quindicimila nell’estate del 2020 perché il prete lamentava di non farcela nel suo esilio ferrarese soltanto con i soldi della retta. Senza menzionare le spese legali (di Rugolo e almeno l’anticipo per l’avvocato di Gisana, altri ventimila euro), anche queste pagate con i soldi dell’otto per mille. Invece, come racconta la famiglia Messina, è dalla Caritas che Gisana aveva pensato di prelevare venticinquemila euro da dare ad Antonio: accordo che non si è concretizzato «perché – dice Messina – ho ritenuto illecita e immorale la proposta di una donazione come risarcimento per la violenza subita, soldi che in più il vescovo voleva darmi in contanti».
Prete, “buttana” e “troia”. Il vicario generale Rivoli, dal canto suo, si preoccupa solo per il vescovo, che è stato travolto dagli eventi, mentre in privato non ha certo parole di comprensione cristiana per Rugolo, definito senza mezzi termini «buttana» e «questa troia» nelle conversazioni con altri preti intercettate dagli inquirenti. Non è tenero nemmeno con la vittima, che viene definita un «bastardo». Interrogato in procura il 27 gennaio 2021, però, è imbarazzato, le parole gli mancano e a domanda esplicita dice di non sapere se Rugolo abbia adescato anche altri minori o intrattenuto rapporti consenzienti con adulti. È talmente reticente che gli inquirenti devono ricordargli che il vescovo è già stato interrogato e dunque sanno che lui, il vicario, è al corrente dei fatti. Al telefono con sacerdoti amici, però, è tutta un’altra musica: fra bestemmie e imprecazioni, don Rivoli non risparmia epiteti nemmeno per i Messina, che ritiene responsabili di aver fatto emergere la vicenda, e per don Giuseppe Fausciana, il parroco di Enna che ha incoraggiato Antonio a denunciare il suo abusatore e che, secondo il vicario, sarebbe stato spinto da gelosia nei confronti di Rugolo.
Qui la torbida vicenda assume i toni del più crudo neorealismo. Il vescovo Gisana al telefono spaccia a un altro prete, tale don Angelo, la teoria che il ragazzo abbia dichiarato di essere stato violentato per giustificare la propria omosessualità a spese di don Rugolo: «Tu li conosci questi omosessuali, non è che noialtri veniamo da Marte, sono fatti così – si sente in un’intercettazione letta in aula durante l’ultima udienza – amano o odiano in maniera viscerale, questa è una pura vendetta di una persona innamorata e che è stata respinta». «In aula sono emersi chiaramente i pregiudizi di Gisana nei confronti degli omossessuali – commenta la vittima di Rugolo – Il vescovo ha messo in dubbio l’attendibilità delle mie accuse sulla base della mia identità sessuale». Omofobia e pregiudizi vanno a inquinare ulteriormente un clima già avvelenato, pieno di segreti e gelosie. Eppure Gisana, alla fine degli anni Ottanta, quando era un giovane prete ordinato da poco, aveva un atteggiamento diverso verso le persone lgbt. Disponibile e accogliente, aveva anche supportato a Modica, la sua città natale, la fondazione dei Fratelli dell’Elpis, un gruppo di credenti gay. «Don Rosario era la mia guida spirituale e in un clima che nella chiesa e nella società era di totale chiusura sul tema, lui era l’unico a parlare dell’amore omosessuale come di una cosa normale», testimonia Carmelo Roccasalma, fondatore dell’Elpis. Dato che all’epoca Carmelo non aveva ancora fatto coming out in famiglia, don Gisana aveva messo a disposizione l’indirizzo di casa sua per la posta dell’Elpis, fino al trasferimento del gruppo nella chiesa del Santissimo Crocifisso della Buona Morte a Catania. È stata talmente determinante l’influenza di Gisana sui primi anni dell’Elpis che nel 2015 è stato chiamato a partecipare come ospite, insieme all’arcivescovo di Catania Salvatore Gristina, alla celebrazione del venticinquesimo anniversario del gruppo parrocchiale. Difficile far combaciare il ritratto del giovane sacerdote progressista dipinto da Roccasalma con il vescovo a cui oggi viene chiesto di dare conto delle dichiarazioni omofobiche nei confronti di un ragazzo vittima di abusi.
Che cosa dirà la Cei? Ancor più difficile riconoscere in questo quadro l’immagine di una chiesa che dichiara di seguire papa Francesco sulla tolleranza zero per gli abusi contro i minori e sulla conseguente trasparenza sui sacerdoti pedofili o i vescovi insabbiatori. Ne parlerà la Cei (Conferenza Episcopale italiana) il 18 novembre, in occasione della Giornata nazionale di preghiera della Chiesa italiana per le vittime e i sopravvissuti agli abusi? Interpellato da ”Domani” Domani, il vescovo Gisana si è rifiutato di rilasciare interviste. La prossima udienza del processo a Giuseppe Rugolo è fissata per il 17 gennaio 2023.
Federica Tourn –“Domani”.- 14 novembre 2022
www.editorialedomani.it/fatti/chiesa-pedofilia-abusi-tourn-piazza-armerina-g4632j71
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221114tourn.pdf
Violenza su minori a Ischia: suora arrestata. Per altre 3 divieto di dimora
Scandalo nell’Istituto religioso Santa Maria della Provvidenza a Casamicciola Terme, che però resta aperto. Il commento del vescovo. Si chiama Marie Georgette Rahasimalala, la suora 55enne nata in Madagascar, arrestata con l’accusa di maltrattamenti su minori in attesa di affidamento o adozione nell’Istituto religioso Santa Maria della Provvidenza sito a Casamicciola Terme, a Ischia: l’istituto non è stato chiuso, e al suo interno ci sono 25 minori accuditi da altre religiose.
I carabinieri della Compagnia di Ischia hanno dato esecuzione a un’ordinanza applicativa di misure cautelari personali su quattro suore, compresa la Madre superiora: è stato deciso il carcere per una delle religiose che in un filmato girato da una minorenne ospite della struttura era stata ripresa mentre schiaffeggiava e tirava i capelli a un bambino di 4 anni e poi schiaffeggiava anche il fratello di 8 anni intervenuto per difenderlo (TgCom, 17 novembre). Per la madre superiora ed altre tre suore, è scattato il divieto di dimora in Campania. Le indagini sono partite a luglio 2022.
Il vescovo di Pozzuoli e di Ischia, Gennaro Pascarella, appena venuto a conoscenza dell’arresto della suora, ha espresso “sconcerto nell’apprendere degli episodi di maltrattamento di minori ad opera di alcune religiose dell’Istituto religioso Santa Maria della Provvidenza di Casamicciola Terme”.
“Ogni luogo educativo – fa sapere con una nota della diocesi -, tanto più un luogo educativo che si ispira ai valori del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa, dovrebbe essere un luogo sicuro, in cui l’educazione, l’accoglienza e l’istruzione favoriscono la crescita sana e integrale dei minori, senza alcun tipo di violenza e maltrattamenti”.
Il vescovo, si legge ancora, “raccomandando alla Misericordia di Dio tutti coloro che sono coinvolti in questa triste vicenda, manifesta la sua piena fiducia nell’operato della magistratura, affinché facendo luce sull’accaduto possa arrivare al più presto ad esprimere un giudizio giusto e definitivo, in modo da restituire ai bambini coinvolti la serenità e l’equilibrio che i suddetti episodi hanno turbato”.
Inoltre “per favorire tale serenità, laddove fosse ritenuto opportuno dalle autorità e dalle istituzioni competenti, la Diocesi, pur non essendo diretta responsabile dell’Istituto e delle religiose coinvolte, mette a disposizione un’équipe di professionisti per il sostegno psicologico ai bambini protagonisti, loro malgrado, di questa triste vicenda” (Avvenire, 17 novembre).
Resta aperto a Casamicciola l’istituto religioso Santa Maria della Provvidenza in cui una suora è stata arrestata ed altre tre sono state allontanate dalla Campania per violenze e maltrattamenti su bimbi e ragazzi; la struttura, che ospita circa 25 minorenni in attesa di affido, adozione o per potestà sospesa dei genitori, è attualmente gestito da due suore non coinvolte nell’inchiesta e da altre arrivate ieri per sostituire le quattro destinatarie dei provvedimenti della Procura. Dopo i momenti di tensione verificatisi il 16 novembre 2022 all’esterno dell’istituto, in seguito all’arresto della suora, oggi la situazione è tranquilla ed al momento nessuno dei bambini ha lasciato la struttura che funge anche da asilo e baby parking per una trentina di altri bambini (Ansa, 17 novembre).
La posizione della Prefettura di Napoli. In mattinata anche il commissario prefettizio che regge attualmente il comune di Casamicciola – il vice prefetto Simonetta Calcaterra – ha confermato con un comunicato stampa che la struttura rimane operativa considerando che “è stata accertata la possibilità di consentire la permanenza dei minori nella struttura e quindi la operatività della stessa, in quanto la rappresentante legale della Congregazione Discepole Santa Teresa del Bambino Gesù ha inviato altre suore in sostituzione di quelle allontanate, garantendo in tal modo il giusto rapporto tra il numero di bambini ospitati e le operatrici per il funzionamento della struttura di accoglienza”.
Gelsomino Del Guercio – Aleteia 17 novembre 2022
Togliamo i fondi dell’8 per 1000 alla Chiesa cattolica se copre i preti pedofili
Resto sempre stupito dal silenzio assoluto che accoglie le puntate della nostra inchiesta sulla violenza e gli abusi nella Chiesa italiana. Da mesi Federica Tourn, grazie al prezioso contributo di lettori di “Domani” che contribuiscono a finanziare la sua inchiesta con piccole somme, ricostruisce episodi noti e inediti di pedofilia e altri abusi, sessuali e di potere, che si sono consumati nel clero italiano. Lo scopo è dimostrare che non c’è bisogno del Boston Globe e dei premi Oscar al film sul suo team investigativo Spotlight per capire che c’è un problema anche in Italia. Perfino la Conferenza episcopale ha dovuto riconoscerlo e ora il presidente, il cardinale Matteo Zuppi, si prepara a presentare un rapporto sulla gravità del fenomeno che, per quanto contestato nel metodo e nell’arco temporale coperto, è esso stesso l’ammissione di aver finora ignorato la piaga degli abusi.
L’inchiesta. Ogni lunedì Federica Tourn racconta le peggiori nefandezze compiute da preti abusatori e, soprattutto, dai loro superiori che si preoccupano assai più di silenziare, ridimensionare, tacitare gli scandali che di tutelare le vittime.
L’ultima puntata, alla quale abbiamo dedicato la copertina, oltre a indicare l’enormità del problema forse indica anche una possibile soluzione. Ricapitoliamo. A Enna è sotto processo don Giuseppe Rugolo per violenza sessuale su minori, accusato di aver abusato su tre ragazzi. Il vescovo competente, quello di Piazza Armerina, Rosario Gisana, ha fatto quello che fanno tanti vescovi: un procedimento ecclesiastico e un trasferimento a Ferrara del prete molestatore. Ma una vittima coraggiosa, Antonio Messina, ha fatto quello che il vescovo ha omesso, si è rivolto alla giustizia e don Rugolo è stato arrestato. Da intercettazioni prodotte in aula sembra di capire che il vescovo Gisana sappia di altri preti abusatori nella sua diocesi e che si preoccupi di evitare le denunce, ha anche affidato un incarico come viceparroco nel 2018 a un sacerdote, Vincenzo Iannì, rinviato a giudizio pochi mesi dopo per violenza sessuale su una minorenne.
I soldi. Ecco, fin qua c’è soltanto da indignarsi per un sistema di potere e ipocrisie che non solo contraddice ogni precetto evangelico e scredita la Chiesa tutta, ma sembra capace di sopravvivere a tutto, grazie proprio a questa impunità ostentata. Poi l’episodio che indica la soluzione: monsignor Gisana ha usato fondi dell’8 ‰ per aiutare il prete molestatore in esilio. Ventimila euro per estinguere un debito di don Rugolo nell’ottobre 2019, un altro aiuto da 15.000 nel 2020 perché il prete a Ferrara non ce la faceva col suo stipendio. E poi le spese legali per i processi. Altri soldi dovevano andare a risarcire le vittime, 25.000 euro (cifra che ritorna in vari casi, come fosse una tariffa standard), da togliere alla Caritas diocesana ma poi l’accordo non c’è stato (con la vittima, non con la Caritas che tanto non poteva ribellarsi).
Quindi c’è almeno un caso in cui i soldi dei contribuenti italiani vanno a pagare la difesa processuale e il sostentamento di preti pedofili. Un caso soltanto? Quasi certamente no. Dal 1990 c’è questa singolare forma di aiuto pubblico alla Chiesa cattolica e ad altre religioni organizzate: i contribuenti possono indicare a chi destinare una quota delle imposte sul reddito (Irpef), allo Stato o a una confessione religiosa. Chi non sceglie, lascia che i suoi soldi vengano ripartiti secondo le proporzioni fissate dagli altri. Risultato: la Chiesa cattolica ha ottenuto nel 2022 1,1 miliardi di euro riferiti all’anno fiscale 2021 . Di questi 158 milioni vanno alle diocesi “per culto e pastorale” e 13 milioni ai “tribunali ecclesiastici regionali”, poi 410 milioni per il sostentamento del clero. Dal 1999 la Corte dei conti obietta che non è appropriato che i fondi dell’‰ vadano anche ai tribunali ecclesiastici, quelli che decidono sui matrimoni, e che troppo poco va agli interventi di carità e troppo a voci opache e non sufficientemente dettagliate. Figurarsi se la magistratura contabile avesse saputo che i soldi delle tasse dei contribuenti andavano anche a pagare gli avvocati dei pedofili o il silenzio delle vittime.
La soluzione. Quindi, ecco la soluzione, trattare le convenzioni per l’8‰ come le concessioni pubbliche: al primo sgarro salta la concessione. Al prossimo episodio analogo a quello di Enna, una volta arrivato a sentenza il processo, decade l’accordo con la Chiesa cattolica che perde non i 35.000 euro dati a don Rugolo, ma 1,1 miliardi di euro. Per fare le cose per bene basta imporre a tutte le confessioni organizzate che richiedono i fondi – dai mormoni ai buddisti – l’adozione di un codice di comportamento in materia di abusi: come funzionano le denunce, come si gestiscono le segnalazioni, come si evitano le recidive, come si collabora con la giustizia ordinaria. Chi non lo accetta è fuori, chi lo viola perde tutto. Se la Chiesa non capisce le ragioni dell’umanità, dello spirito e del dolore, sicuramente capirà quelle del conto economico.
Stefano Feltri “Domani” 15 novembre 2022
www.editorialedomani.it/idee/commenti/togliamo-i-fondi-dell8-per-1000-alla-chiesa-cattolica-se-copre-i-preti-pedofili-nps50ho7
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221115feltri.pdf
CELIBATO
Celibi: una vocazione o uno stato?
Fra le rivoluzioni silenziose in atto vi è la crescita delle famiglie mononucleari o unipersonali. Un dato ormai socialmente rilevante, che pone nuove domande alla pastorale per gran parte proiettata sulle famiglie e sulle coppie. Per i celibi pare non esserci alcuna proposta e poca attenzione. Per questo è utile segnalare i primi elementi di una consapevolezza destinata a crescere, come un articolo apparso su Etudes (10,2022, pp. 81-92) a firma di Christelle Javary.
In Francia sono 12 milioni le persone che vivono da sole (non sposati, divorziati, vedovi e vedove ecc.). Ma il fenomeno non è meno rilevante in Italia. In un articolo di Roberto Volpi sulla base dei dati del censimento nazionale del 2021 (Corriere della sera, 21 agosto 2022) si afferma che, su 56 milioni di abitanti, vi sono in Italia 8,5 milioni di persone che vivono sole. Se, nel 2001, il rapporto tra famiglie composte di un solo elemento e famiglie con figli stavano in una proporzione di 58 a 100, nel 2011 di 79 a 100, nel 2022 il rapporto si è rovesciato, 102 a 100. I celibi oggi rappresentano una famiglia su tre dei 25,6 milioni di famiglie italiane. Per quanti vivono fuori della famiglia, fra i 25 e i 34 anni, 1,4 milioni di persone non sono sposate. Per gran parte sono collocate nelle aree metropolitane e al Nord. Un cambiamento che alza molte domande sul versante professionale, economico, abitativo ecc. Ma, in particolare, sul tema della famiglia e della fecondità. Secondo stime dell’ONU entro il 2100 l’Italia può perdere 22 milioni di persone.
Il dibattito sulla maternità, voluta o rifiutata, emerge anche sui media. Sono indicativi alcuni podcast de “La Stampa” dal titolo: «Da quando ho dei figli per me sono meraviglia e rottura»; «Non ho figli e non ne faccio una bandiera»; «Sono mamma per incoscienza»; «Nessuno mi chiamerà mamma»; «I figli che non voglio».
Domande, attitudini, attese. Delle domande sul versante ecclesiale vi sono scarse tracce. Fra queste: qualche riga del Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1658), un passaggio del discorso di Giovanni Paolo II il 20 settembre 1996, un cenno in Amoris lætitia (n. 196) e un numero dell’esortazione apostolica Christus vivit (n. 267). La maggioranza dei celibi cristiani si sentono emarginati in una Chiesa dove gli stati di vita riconosciuti sono quelli consacrati e quelli familiari, specchio di una certa emarginazione anche sociale. Come gente “non riuscita”.
- Le attitudini che sembrano connotare questa porzione del popolo di Dio sono: risentimenti dolorosi, bisogno di speranza, ricerca di fecondità. Fra le loro attese vi è anzitutto quella di parlare positivamente del corpo, non come nemico da piegare, ma come un dono da sviluppare. Non è necessaria una sistematica relazione sessuale per vivere appieno la propria mascolinità o femminilità.
- La seconda attitudine da sviluppare è il sentimento di vivere nell’attesa, con una certa difficoltà a prendere in mano la propria vita. Diventa difficile per loro acquistare un appartamento, cambiare lavoro, trasferirsi altrove. Il futuro non è scandito dall’attesa di figli e da una vecchiaia accudita. La prospettiva di un incontro decisivo li espone ad errori e a diventare vittime di un mercato effimero. Essi possono tuttavia mostrare che il presente è comunque prezioso e può essere vissuto in pienezza, anche davanti a Dio.
- Un terzo atteggiamento è la ricerca di fecondità. In assenza di figli, diventa grande la tentazione di sostituire il preteso fallimento affettivo con il successo professionale, che non sarà comunque mai sufficiente per dare completezza a una persona.
Va rimarcato, tuttavia, che il dono di sé vale per il matrimonio, per la consacrazione e per il celibe allo stesso titolo e che la fecondità non si misura soltanto con il numero di figli. È piuttosto una disponibilità interiore e un gesto di obbedienza a Dio. Più che sviluppare una specifica pastorale per loro, vanno riconosciuti i loro doni e carismi dentro il vissuto della vita ecclesiale.
Elementi di attenzione nei loro confronti si registrano anche in altre confessioni cristiane. Per esempio, nel volume della teologa protestante americana Christina S. Hitchcock che ha dedicato uno studio alla vita dei “singoli” (The significance of singleness) o in un passaggio di un testo conciliare ortodosso Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa ortodossa ai nn. 20 e 28.
Nel primo si dice: «Tradizionalmente l’ortodossia tendeva a riconoscere solo due stati, quello monastico e quello del matrimonio, ma sarebbe una profonda inadempienza della responsabilità pastorale della Chiesa il non riconoscere che, mentre la vita da celibe era assai rara nelle generazioni precedenti, cambiamenti culturali e sociali nell’era moderna l’hanno ora resa considerevolmente più comune».
Stato di vita (forse provvisorio). In Francia vi sono i collettivi “celibatari nella Chiesa” che funzionano dal 2017. Il collegio Bernardins vi ha dedicato due colloqui. Si può registrare un numero di Documents Episcopat («Celibi, celibe. Quali prospettive nella Chiesa?» n. 3, 2010); il volume di D. de Monleon Cabaret, Dio non mi ha dimenticato. Prospettive per celibatari, Saint Paul 2013; Io esisto. Uno sguardo diverso sui celibatari, Emmanuel 2020; il saggio di Christoph Theobald, «Quale cammino proporre alle persone che non sono chiamate al matrimonio o alla vita consacrata?», nel volume Sinodo sulla vocazione e missione della famiglia nella Chiesa, Bayard 2016).
Difficile per loro poter parlare di “vocazione” perché spesso non è una scelta voluta ma un dato di fatto. Del resto, anche per la scelta matrimoniale l’indicazione di “vocazione” è assai tardiva. Ma come il matrimonio è stato progressivamente valorizzato per quello che è in sé stesso e non in ragione della scelta celibataria ministeriale o religiosa, così per il celibe. La sua appartenenza alla Chiesa è piena grazie al battesimo e con esso è chiamato alla santità.
Usare l’espressione “stato di vita” «forse fa meno sognare ma è più prudente e realista. Se sono celibe, è il mio stato di vita, lo stato della mia vita oggi, che non impegna l’avvenire ma mi invita a prendere sul serio l’hic et nunc (qui e ora), la realtà di quello che io sono e di quanto mi viene offerto ora» (Etudes p. 86).
Il termine “stato di vita” riappare nel suo senso strumentale, utile per indicare una nascente identità cristiana, quella appunto dei celibi.
Lorenzo Prezzi . Settimananews .26 ottobre 2022 cliccare su 5 commenti
www.settimananews.it/famiglia/celibi-vocazione-o-stato
CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA
Newsletter CISF – N. 42, 16 novembre 2022
√ Into dad’s woods, potente film su salute mentale e famiglia. Un film inedito in Italia sarà proiettato online il 18 novembre, grazie all’associazione Comip, per «rompere il tabù sui giovani caregiver», soprattutto nelle grandi fatiche emerse nel post-pandemia. www.mymovies.it/ondemand/mymovieslive/movie/12879-into-dad-s-woods
L’opera, tratta da una storia vera vissuta dalla regista, racconta la salute mentale attraverso gli occhi di bambini e adolescenti e mette a fuoco cosa accade in una famiglia quando il papà o la mamma si trovano a stare male [trailer – YouTube – 1 min 46 sec]. youtu.be/Ppa-AYbF67I
√ Famiglie che passano da una crisi all’altra, come si resiste? La pandemia le ha certamente messe alla prova, ma non è la sola emergenza che si trovano ad affrontare le famiglie italiane: si parla anche di questo nel nuovo rapporto annuale del Centro Internazionale Studi Famiglia, “Famiglia&Digitale. Costi e opportunità” (Edizioni San Paolo), in libreria il prossimo 30 novembre. Per avvicinarci all’uscita del volume, che fonda la sua analisi su una ricerca su oltre 2mila famiglie con figli, Sara Nanetti, sociologa dell’Università Cattolica di Milano, illustra il suo capitolo in cui ha messo a fuoco la tenuta del “capitale sociale” interno ed esterno delle famiglie: laddove le reti, la solidarietà, la fiducia sono più forti si affrontano meglio le crisi. Il video sulla pagina YouTube del Cisf [a questo link-4 min 28 sec] www.youtube.com/watch?v=vNIpGmHX_D4
√ Perchè la riflessione sul quoziente familiare va valorizzata (e non polemizzata). La proposta di sostituire l’ISEE con il modello francese del quoziente familiare per la concessione del “Superbonus edilizia” (ormai ex 110%) ha innescato un vivace dibattito nel mondo politico, purtroppo caratterizzato, per l’ennesima volta, da una forte polarizzazione, spesso ideologica, che rende difficile capire. Francesco Belletti ha proposto una serie di riflessioni sull’importanza che il sistema fiscale del nostro Paese riconosca la famiglia (e i suoi carichi) in un articolo su Famiglia Cristiana [a questo link]. www.famigliacristiana.it/articolo/quoziente-familiare-buona-la-prima.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_16_11_2022
Per un più ampio approfondimento, si veda anche la relazione che il direttore Cisf ha tenuto la settimana scorsa a Bologna, in occasione dell’incontro organizzato da Insieme Emilia Romagna su “Politica fiscale e famiglia” [qui il link – YouTube] www.youtube.com/watch?v=2U0z8eETOBU
√ Convegno conclusivo Cisf-assistenti sociali lombardi sul tema anziani, alcol, gioco d’azzardo. Il Cisf e l’Ordine degli Assistenti Sociali Lombardi hanno ospitato, il 10 novembre a Milano, l’evento conclusivo della serie dedicata al problema della dipendenza da alcol e da gioco d’azzardo in età anziana, che nel 2022 ha offerto a interlocutori diversi occasioni di riflessione e confronto sull’argomento [ricordiamo il seminario del 20 settembre, rivolto a operatori, assistenti sociali, gruppi di auto mutuo aiuto, associazioni – qui la presentazione di Beatrice Longoni www.youtube.com/watch?v=IiafmZQKaXs&t=1s– e il webinar realizzato in primavera,
Abbiamo approfondito in un articolo i vari contributi degli specialisti che hanno animato l’evento
www.youtube.com/watch?v=l8J3wvZVMKQ&t=4s
√ Worklife balance, anche gli uomini la vogliono. Allora cosa manca per realizzarla?È la domanda che si pongono Sabina Tanquerel e Marc Grau Grau, esperti internazionali e contributor del Social Trends Institute,
www.socialtrendsinstitute.org/about-sti
in un articolo in cui sottolineano le numerose barriere (culturali e legislative) che gli uomini incontrano rispetto alle esigenze di conciliazione tra lavoro e famiglie. Nel post-Covid, scrivono, l’ambiente sta diventando più rispettoso del diritto dei lavoratori a conciliare i ruoli lavorativi e familiari. Tuttavia, la pandemia sembra aver aumentato la porosità tra lavoro e famiglia e accentuato le disuguaglianze di genere in molti paesi.
www.socialtrendsinstitute.org/news/7864
√ Iniziativa ICCFR (International Commission for Couple and family Relations).
WEBINAR -17 novembre 2022 (17.00-19:00 – orario Roma/Europa Centrale-CET)
-“La solidarietà della Polonia verso i rifugiati dall’Ucraina” per aiutare oltre 6 milioni di rifugiati ucraini che hanno attraversato il confine polacco. Speaker: Dr. Joanna Kosińska-Wiercińsk
qui per iscriversi https://iccfr.org/2022-2/webinar-poland-in-solidarity-with-ukrainian-refugees
√ “Respiro”, il podcast terre des hommes per raccontare le storie degli orfani di femminicidio. Dal 20 novembre, giornata mondiale dei diritti dell’infanzia, saranno pubblicate le prime puntate di “Respiro”, il podcast ideato da Terre des Hommes https://terredeshommes.it/e scritto da Roberta Lippi che racconta le storie degli orfani di femminicidio e delle famiglie che si sono prese cura di loro. Una testimonianza viva e potente per comprendere l’importanza del prendersi cura, subito, di chi resta [il trailer].
www.spreaker.com/show/respiro_1
√ Da nonni 2.0 un concorso scolastico nazionale dedicato alla fiducia. L’associazione NONNI 2.0,
www.nonniduepuntozero.eu in collaborazione con la rivista TEMPI, propone il Concorso scolastico nazionale (per tutti gli ordini di scuole) per l’anno scolastico 2022/2023 con questo tema: “Bisogna pur avere fiducia di qualcuno” (dal film “Manhattan” di W. Allen) Ti è capitato di avere fiducia in qualcuno? Ti sei accorto che qualcuno aveva fiducia in te? Racconta e commenta la tua esperienza”. Elaborati e componimenti dovranno pervenire all’associazione a partire dal 1° dicembre 2022 ed entro il 31 marzo 2023
√ Wojtyla lectures al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II. Tornano le Wojtyla Lectures, seminario di studio in programma dal 28 al 30 novembre, dalle 15 alle 16.30, con una conferenza pubblica conclusiva che si svolgerà il 30 novembre dalle 17.00 alle 18.30. “La visione di Giovanni Paolo II degli studi sul matrimonio e sulla famiglia” è il tema del seminario, tenuto da Stanislaw Grygiel, docente emerito di Antropologia Filosofica e primo Direttore della Cattedra Karol Wojtyła. La conferenza pubblica, tenuta dallo stesso Grygiel, ha invece per titolo “Antropologia del roveto ardente. Evento dell’amore epifania del sacrum della persona umana”.Il Seminario di studio e la Conferenza pubblica si terranno presso l’auditorium del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, in piazza San Giovanni in Laterano, a Roma. È possibile assistere alla Conferenza anche in diretta sul Canale Youtube dell’Istituto. L’iscrizione per il Seminario è gratuita e obbligatoria [per info]
www.istitutogp2.it/wp/2022/11/04/7338/
√ Save the date
- Incontri (Milano) – 23 novembre 2022 (inizio ore 21). “Dall’emergenza educativa alla passione di educare”, incontro con Liliana Segre e Mons. Mario Delpini, a cura dell’associazione I Semprevivi
www.isemprevivi.org
- Webinar (IT) – 24 novembre 2022 (inizio ore 17.30). “Una diversa fiducia. Per un nuovo rapporto nelle relazioni di cura”, incontro con Sandro Spinsanti a cura di Gruppo Solidarietà [qui per info]
www.grusol.it/apriInformazioniN.asp?id=8331
- Conferenza (Belluno) – 25 novembre 2022 (15-18). “Diritto all’oblio e diritto alle proprie origini. Luci e ombre sulla ricerca delle proprie radici”, organizzato da Aiaf Veneto
- Conferenza (Bruxelles) – 30 novembre 2022 (10-11.30 CET). “The European care strategy. Responding to challenges faced by women in times of (post)pandemic”, a cura di FAFCE e di COMECE (Commission of the Bishops’ Conferences of the European Union)
Draft-Programme-The-European-Care-Strategy-Responding-to-challenges-faced-by-women-in-times-of-post-pandemic-.pdf
- Convegno (Milano) – 2 dicembre 2022 (9-18.15). “Alla ricerca degli intrecci e dei legami nelle famiglie. L’eredità di Vittorio Cigoli”, a cura del Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia-Università Cattolica del Sacro Cuore www.unicatt.it/evt-alla-ricerca-degli-intrecci-e-dei-legami-nelle-famiglie
Iscrizione gratuita http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.asp
CHIESA DI TUTTI
Abusi del clero: un convegno di #ItalyChurchToo sul caso Italiano
«In Italia non esistono canali percorribili per la denuncia». Così Francesco Zanardi, fondatore e presidente della Rete L’Abuso,unica nel nostro Paese a occuparsi di pedocriminalità clericale, ha introdotto il primo convegno del Coordinamento #ItalyChurchToo contro gli abusi nella Chiesa cattolica, di cui Adista fa parte.Svoltosi a Milano il 3 novembre scorso con la collaborazione gratuita del Comune di Milano-Municipio 1 e il sostegno dell’organismo internazionale ECA-Ending Clergy Abuse, è stato dedicato agli «aspetti giuridico-normativi del caso italiano» nella questione degli abusi su minori, donne e persone in condizioni di vulnerabilità, con la presenza di vittime e di esperti in campo giuridico e psicologico.
www.youtube.com/watch?v=hFDMdF6cvjg
La Chiesa non tutela le vittime. «Non ci sono procedure per chi, ad esempio, è prescritto», ha spiegato Zanardi: «Il prete non viene sottoposto a indagine, contro qualsiasi principio di prevenzione. Può tornare a delinquere, e c’è solo da sperare che venga denunciato un abuso non prescritto». Insomma, in Italia il ciclo di violenza difficilmente si interrompe: «I preti pedofili hanno alle spalle una struttura di protezione» e le loro vittime, a causa dell’isolamento in cui l’abuso si consuma, «non sono aiutate nell’immediato a elaborare il trauma, ma passano decenni prima che la cosa emerga. E quando emerge, non è detto che si abbiano le possibilità e la forza di mettere tutto in discussione. Senza parlare dei tentativi riusciti o meno di suicidio». E poi la questione spinosa dei risarcimenti alle vittime, erogati di frequente con il vincolo della riservatezza, che «non consente di far emergere l’identità dello stupratore». Altro problema è che a raccogliere le denunce sono sempre più gli sportelli diocesani, che non funzionano, a giudicare dal caso di don Giuseppe Rugolo a Enna, attualmente sotto processo in tribunale, trasferito dal vescovo in un’altra diocesi: «La linea di insabbiamento sembra peggiore di prima». Spesso poi la Chiesa assolve e il tribunale civile condanna: «Vuol dire che i parametri non funzionano». «Ho incontrato Zuppi due volte – racconta Zanardi – per parlare del report annuale CEI che uscirà ora: sarà un rapporto soft. La Chiesa lascia poi fuori le vittime precedenti al 2000 e se si esamina un arco di 20 anni saranno pochissime, perché molte non hanno ancora maturato né denunciato». Se denunciano, «sono denigrate per avere parlato, hanno paura e per questo non si rivolgono alla magistratura». Oltretutto in Italia l’obbligo di denuncia di questi reati è limitato ai pubblici ufficiali, mentre bisognerebbe estenderlo a tutti i cittadini, vescovi compresi (esentati in base al Concordato).
Cambiare le regole. Sull’inerzia dello Stato italiano si è soffermato l’avvocato Mario Caligiuri, responsabile dell’osservatorio permanente per la tutela delle vittime della Rete L’Abuso. «Nel febbraio 2018 abbiamo deciso di avvalerci di uno strumento tecnico di provocazione, la diffida ad adempiere, basandoci sulla legge 241/1990, prospettando una omissione degli atti d’ufficio qualora le istituzioni destinatarie, nazionali e sovranazionali, non avessero risposto», spiega. «Si chiedeva una presa di posizione e un intervento politico-legislativo di contrasto agli abusi perpetrati da ecclesiastici, in base alla nostra Costituzione e in rapporto ai Trattati di Lanzarote e Istanbul, nella collocazione più ampia dei diritti umani». «Naturalmente» non c’è stato nessun riscontro, anche se nel 2019 l’Onu ha “rimproverato” l’Italia per il numero di abusi clericali e la scarsità di procedimenti penali. youtu.be/RAHPCnOt6MU
Nonostante il pericolo venga «dagli spazi di socialità della Chiesa cattolica, più esposti alla predazione e allo stupro, quando dovrebbero offrire la migliore protezione e sicurezza», e nonostante il fenomeno sia sistemico, si assiste a una «imperterrita ostinazione della Santa Sede – così Caligiuri – nel voler affrontare e risolvere in via esclusiva un crimine che essa stessa genera e alimenta. Non c’è niente da fare? Lo dico francamente, lo temiamo», anche se la desecretazione dei documenti vaticani sugli abusi clericali del 2019 «apre uno squarcio enorme nella cultura della Chiesa». Quanto alle istituzioni civili, «nessuno dei governi succedutisi si è interessato». C’è poi la questione della prescrizione: «Per il 95-98% dei casi che abbiamo avuto dal 2018 non si può fare nulla», è passato troppo tempo. Quanto alla CEI, la strategia annunciata a maggio non ha presentato «nessuna prospettiva utile o apprezzabile», specie se paragonata con le esperienze in altri Stati. Ma «se le regole vigenti non tutelano i diritti di bambini, donne e persone vulnerabili, tanto più in ambito ecclesiastico, bisogna cambiarle».
Al convegno ha partecipato Pietro Forno, magistrato in pensione, dal 2010 al 2016 procuratore aggiunto a Milano nel dipartimento per i soggetti deboli, che nel 2001 denunciò l’omertà della Chiesa parlando di una emergenza nazionale. Per un’intervista al Giornale del 2010, in cui imputava ai vescovi di proteggere i preti pedofili trasferendoli, suscitò le ire dell’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano, che minacciò un procedimento disciplinare; un episodio che mette in evidenza «l’atteggiamento della Chiesa e del potere politico legato a essa legato e se vogliamo anche del tribunale per i minorenni, tre autorità diverse che in qualche modo si muovono tutte nella stessa direzione». youtu.be/msnenn1FNSo
Cosa è cambiato nella Chiesa in questi vent’anni?, gli ha chiesto la giornalista indipendente Federica Tourn, autrice di inchieste sugli abusi del clero sul quotidiano Domani. «Solo una cosa: è stato eletto papa Francesco, che è un grosso bastone tra le ruote»: «Ha detto per la prima volta che l’abuso del clero è una emergenza nella Chiesa». In Italia si paga il prezzo di «una temperie culturale particolare», per cui «ci si riempie la bocca di tutti i superiori valori del rispetto del minore e della donna, ma delle donne e dei minori non importa niente a nessuno. Chi ha una secolare tradizione di copertura e di omertà ci sguazza».
Dante Ghezzi, psicologo e psicoterapeuta del Centro Tiama per i traumi dell’infanzia e dell’adolescenza, è stato anche consulente della Procura: «Non si può dire a un abusante, come fanno i vescovi, che deve “fare il bravo” e redimersi. L’abuso sessuale si ferma in un modo solo: con la denuncia. Altrimenti andrà avanti». È evidente che «la Chiesa non si occupa delle vittime, tutela se stessa senza pietà e carità; c’è una inversione di tendenza in atto ma è lenta, lacunosa, e impacciata»; «Chi informa la persona indagata dell’indagine in atto compie un atto di favoreggiamento», e dunque «tutti i vescovi che insabbiano delinquono. Sono delinquenti». Il tema del perdono, poi, è «una pietra d’inciampo», afferma Forno; «Qui c’è un errore teologico smisurato. Il perdono, l’ha detto anche papa Francesco, presuppone la giustizia. Non puoi perdonare senza prima fare giustizia».
C’è poi un discorso da fare sulle figure di garanzia (le persone che hanno un particolare obbligo di tutela del soggetto in qualche modo a loro sottoposto), che hanno l’obbligo di impedire l’evento, e se non lo fanno rispondono di concorso con l’autore del fatto (art. 40 § 2 CP). https://youtu.be/6eMfSW2davE
Con la testimonianza intensa di Antonio Messina, vittima degli abusi sessuali di don Rugolo, tutte queste tematiche hanno preso corpo. «Compresi nel tempo che la scelta di denunciare all’autorità ecclesiastica non era stata felice»; «tutto si spostò sul piano di una trattativa economica, con l’offerta di 25mila euro in contanti dai fondi Caritas». Da lì, il passaggio all’autorità giudiziaria, e una lettera al papa, scritta con la giornalista dell’Ansa Pierelisa Rizzo, che lo sostiene in questa battaglia. «Non ci ha mai risposto». https://youtu.be/sOiCKFyQN3E
Adista pubblicherà gli integrali delle relazioni in un prossimo numero.
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 39 19 novembre 2022
www.adista.it/articolo/69023
CHIESA NEL MONDO
L’arcivescovo emerito di Strasburgo riconosce a sua volta un’aggressione sessuale
Con l’aria grave di colui che pesa attentamente le parole, il presidente della Conferenza episcopale francese, Eric de Moulins Beaufort, aveva fatto un appello martedì 8 novembre: che tutti coloro che “in mezzo a noi (…) si sono resi colpevoli di atti di questo genere lo facciano conoscere loro stessi”. Con “atti di questo genere”, l’uomo di Chiesa intendeva aggressioni e violenze sessuali di ogni tipo commesse da preti sui loro fedeli. Come riconosciuto da Eric de Moulins Beaufort in occasione dell’assemblea dei vescovi francesi a Lourdes, undici vescovi emeriti sono o sono stati, in un modo o nell’altro, coinvolti in faccende di violenze sessuali. Otto di questi erano conosciuti, mentre tre nomi rimanevano segreti. Uno di questi è stato rivelato mercoledì 16 novembre. L’invito di Eric de Moulins Beaufort è evidentemente stato ascoltato da Jean-Pierre Grallet, arcivescovo emerito di Strasburgo, che, in una lettera, ha riconosciuto un’aggressione sessuale.
“Alla fine degli anni 80, mentre ero religioso francescano, ho avuto gesti inappropriati verso una giovane donna maggiorenne, comportamento di cui mi pento profondamente”, ha scritto. L’ex arcivescovo ammette che una segnalazione è stata fatta alla giustizia e che un’inchiesta canonica è in corso contro di lui, di che rimettere in dubbio l’eventuale spontaneità di tale ammissione. L’uomo spiega infatti, a qualche mese di distanza, di aver voluto “contribuire al percorso di verità” e “assumere” le proprie “responsabilità”. Aggiungendo: “Ho sbagliato e ho ferito una persona. Il perdono che le ho chiesto lo esprimo anche a tutte le persone a lei vicine, e a tutti coloro che, oggi, sono colpiti e rattristati per lo choc di questa rivelazione”. In un comunicato pubblicato sulla scia della dichiarazione, l’attuale arcivescovo di Strasburgo, Luc Ravel, ha espresso la “vera pena” e la “grande tristezza” con cui questa ammissione è stata ricevuta nella diocesi. Per lui si tratta di “fatti gravi” che gli sono stati riferiti dalla vittima stessa nel dicembre 2021. In seguito, una segnalazione è stata fatta presso il procuratore della Repubblica di Strasburgo nel gennaio scorso. Mercoledì pomeriggio il procuratore ha annunciato l’apertura di un’inchiesta penale. Eric de Moulins Beaufort ha espresso la sua “compassione alla persona che è stata vittima di quel comportamento grave da parte di un religioso in seguito diventato vescovo”.
Questo caso arriva quindi a rendere ancora più buio un quadro particolarmente oscuro nella Chiesa francese in materia di violenze sessuali. Un anno dopo le conclusioni della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa, che aveva censito un numero vertiginoso di vittime, i fedeli e il grande pubblico scoprono che gli stupri e le altre aggressioni possono anche essere stati commessi da preti che hanno in seguito fatto carriera nell’istituzione. Jean-Pierre Grallet, arcivescovo emerito, si autodenuncia quindi alcuni giorni dopo Jean-Pierre Ricard, cardinale.
Nei commenti in reazione a questo nuovo caso, alcuni deplorano il carattere sempre criptico di queste ammissioni, di cui non è mai possibile conoscere l’esatto contenuto. Ad esempio, per Cécile Berne, membro dell’associazione di difesa delle vittime Comme une mère aimante [come una madre amorevole- L’associazione Comme Une Mère Aimante è stata creata il 2 marzo 2019 da 7 madri di Versailles, dopo diversi mesi di gestazione, per ascoltare, sostenere e accompagnare le persone vittime di abusi sessuali nella Chiesa.], le parole usate da Jean-Pierre Grallet rientrano ancora in “una semantica che non chiama mai le cose con il loro nome. E che di conseguenza si traduce in una minimizzazione dei fatti”. Su Twitter, Marie-Hélène Lafarge, persona conosciuta nel mondo cattolico, ha anch’essa lanciato un appello: “Buongiorno, cari fratelli vescovi, ricominciamo insieme: non si dice ‘ho avuto un gesto inappropriato’, ma ‘ho commesso una violenza sessuale’. Smettiamola con i pudori da arcivescovi”.
Sarah Belouazzane “Le Monde” 17 novembre 2022
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221117belouazzane.pdf
La dimensione episcopale della Chiesa è in pericolo?
Lo storico Massimo Faggioli, docente universitario negli Stati Uniti, spiega che la Chiesa cattolica sta diventando “post-episcopale”. “La situazione deriva dal crollo precipitoso delle vocazioni. Abbiamo ancora vescovi, sacerdoti e diaconi, ovviamente, ma non c’è modo di immaginare una Chiesa in cui ci sia un sacerdote per ogni parrocchia”, spiega, notando un considerevole calo nel livello di fiducia che i sacerdoti ripongono nei propri vescovi. “La crisi post-conciliare del sacerdozio e degli ordini religiosi non sorprende, considerando il trattamento superficiale che il Vaticano II e i suoi documenti finali hanno riservato a quei ministeri e al loro ruolo nella Chiesa”, spiega Faggioli. La crisi dell’episcopato è tuttavia più complessa da analizzare. La rivalutazione del corpo episcopale da parte del Concilio, soprattutto attraverso la promozione della collegialità episcopale, non ha avuto l’effetto desiderato. L’accademico evidenzia il disagio palpabile dell’“alto numero di sacerdoti che vengono scelti per diventare vescovi ma rifiutano la nomina, il numero di vescovi che si dimettono a causa del burnout” [spegnersi. Il burnout indica una condizione di stress lavorativo protratto e intenso che determina un logorio psicofisico, associato a demotivazione e disinteresse.] e i “casi di vescovi rimossi silenziosamente (e senza alcuna trasparenza, specialmente per le vittime) dal Vaticano a seguito di accuse o per essere stati giudicati colpevoli di abusi o insabbiamenti”. In questo contesto, la sinodalità riconosce la progressiva cancellazione del vescovo come perno del governo della Chiesa. Il Sinodo dei Vescovi, istituito da Paolo VI nel 1965, sta cambiando nome diventando semplicemente “Sinodo” (non “dei vescovi”), e la sinodalità è chiamata a diventare un modello di governo condiviso negli organismi ecclesiali, coinvolgendo soprattutto i laici e le donne. “Ha l’obiettivo di colmare il vuoto lasciato dai vescovi, un vuoto in cui si sono gettate altre voci ed entità – nei media, negli affari, nella politica -, e così facendo hanno messo a rischio la cattolicità della Chiesa”, spiega Faggioli.
Media per Alateia 16 novembre 2022
CITTÀDEL VATICANO
La lotta “sinodale” agli abusi della “nuova” Pontificia Commissione Minori
Molte novità, sulla carta, nella lotta vaticana agli abusi perpetrati dal clero sono stati annunciati nelle ultime settimane: un primo rapporto annuale della Pontificia Commissione vaticana per la Tutela dei Minori (PCTM), presieduta dal card. Sean O’Malley, vedrà la luce nel 2023, anche se i primi dati utili – secondo il segretario ad interim p. Andrew Small, che ha illustrato le iniziative ai giornalisti il 28 ottobre – saranno a disposizione solo nel 2024; un accordo, siglato tra la Commissione stessa e la Conferenza episcopale italiana, per informazioni e di competenze per creare una rete globale di Centri per l’accoglienza, l’ascolto e la guarigione delle vittime.
La Commissione vaticana si allarga. Nel frattempo, il 30 settembre scorso, papa Francesco ha ampliato la PCTM nominando dieci nuovi membri, che si aggiungono ai dieci già operativi. Una storia tormentata, quella di questo organismo, soprattutto per i rapporti con il Dicastero per la Dottrina della Fede, e per diversità di vedute all’interno, ma anche per la sua non chiarissima identità, per la lentezza e le resistenze alle proposte della Commissione come quella, approvata dal papa – ma mai realizzata – di creare un tribunale separato per i vescovi che agiscono in modo inappropriato nei casi di abuso sessuale. Il card. O’Malley annunciò la nascita del tribunale nel giugno 2015, ma esso, di fatto non vide mai la luce; al suo posto papa Francesco, l’anno dopo, emanò una nuova legge (il motu proprio Come una madre amorevole) che stabiliva la rimozione dei vescovi negligenti. In che misura sia stato applicato, finora, non è chiaro.
Con la Costituzione Apostolica sulla Curia Romana, Prædicate Evangelium, nel marzo di quest’anno il papa ha posto la Commissione all’interno della sezione disciplinare del Dicastero per la Dottrina della Fede, lasciandole, nelle intenzioni almeno, una autonomia, con la nomina diretta pontificia del Presidente, che riferisce direttamente al papa e con l’indipendenza dal Dicastero per ciò che riguarda decisioni su membri e personale e sulle proposte avanzate.
Per i molti nomi dei membri, sia i nuovi che i riconfermati, rimandiamo a una nostra notizia (www.adista.it/articolo/68958), limitandoci qui a osservare che nella Commissione è una sola – per quanto è noto (nel 2018 la Commissione aveva affermato che l’identità delle vittime di abuso sessuale presenti tra i membri non sarebbe stata resa pubblica) – è la presenza in rappresentanza dei sopravvissuti: nel marzo 2021 si era aggiunto al gruppo il giornalista cileno Juan Carlos Cruz – vittima da adolescente delle violenze sessuali del prete poi dimesso dallo stato clericale Fernando Karadima – cofondatore nel 2010 della “Fundación para la Confianza”, dedicata al sostegno dei sopravvissuti e alla prevenzione degli abusi, e nel 2018 del “Centro CUIDA”, il primo centro di ricerca per lo studio e l’indagine sugli abusi nella società presso la Pontificia Università Cattolica del Cile. Ufficialmente, dunque, Cruz sarebbe l’unico sopravvissuto ad abusi presente in Commissione. Una presenza tormentata, quella delle vittime: il britannico Peter Saunders, fondatore ed ex responsabile dell’associazione di vittime di pedofilia Napac e l’irlandese Marie Collins, entrambi nominati nel 2014, se ne andarono delusi, arrendendosi a lentezze, ostacoli e persino boicottaggi della Curia nei confronti del lavoro del gruppo; la neuropsichiatra infantile francese Catherine Bonnet, specializzata in violenze sessuali su minori, lasciò nel 2018: aveva invano insistito sulla necessità di ascoltare le vittime, «singolarmente o nel quadro di associazioni come l’Ending Clerical Abuse (ECA)».
La “nuova” agenda della Commissione. Se la Commissione sembra dunque limitare fortemente la presenza di sopravvissuti al suo interno (lasciando il beneficio del dubbio sul una loro presenza “riservata”) afferma peraltro di volere che la voce delle vittime sia ascoltata, e a questo fine ha promosso dei Survivors Advisory Panels (SAP), con l’intento di individuare contenuti e modalità per includere le esperienze delle vittime e dei sopravvissuti all’interno delle politiche di tutela e di cura delle Chiese. La Commissione – che non si occupa di casi individuali – dovrà anche supervisionare l’applicazione delle linee guida delle Conferenze episcopali, in base a Prædicate Evangelium; a questo scopo essa è stata incaricata di collaborare con le Conferenze episcopali (per quella italiana, v. notizia seguente), le Diocesi e gli Ordini religiosi per garantire l’applicazione e l’efficacia delle linee guida, che oltretutto non sono ancora state elaborate da tutte le 114 Conferenze episcopali del mondo.
Vengono inoltre istituiti meccanismi di segnalazione di abusi in tutta la Chiesa, in ottemperanza all’articolo 2 del motu proprio Vos Estis Lux Mundi del 2019, e la redazione di un Rapporto Annuale.
www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190507_vos-estis-lux-mundi.html
Poiché vi è una grande disparità nella formazione e nella prevenzione degli abusi sessuali sui minori tra il Nord e il Sud del mondo, la Chiesa, ha spiegato p. Small, è chiamata a intervenire: a questo scopo la CEI – che, lo ricordiamo, continua a rifiutare una ricerca indipendente che dia un quadro dell’abuso in Italia, dove omertà ecclesiastica e vuoti giuridici lasciano il fenomeno ancora largamente sommerso e, dunque, non affrontabile – ha previsto uno stanziamento, per un periodo di tre anni, di fondi dell’8‰, per supportare la Commissione nella sua lotta agli abusi nel Sud del mondo.
Quanto al Rapporto annuale, si tratterà di un documento descrittivo sull’applicazione e l’efficacia delle politiche e delle procedure di salvaguardia nella Chiesa, fornendo un feedback sulle misure di cura e accompagnamento delle vittime e indicazioni sulle best practices da attuare. Tra gli auspici formulati da p. Small, quello che il Rapporto annuale «fornisca un grado di trasparenza e responsabilità così urgente in tema di protezione e di gestione degli abusi: il Rapporto Annuale può costituire un importante punto di incontro e di dialogo con tutti i Dicasteri che compartecipano in qualche modo all’attuazione del safeguarding e nella protezione dei minori». Si tratterebbe, insomma, ha detto p. Small, di un approccio «inquadrato in termini di sinodalità ».
È da sottolineare, però – e lo ammette lo stesso segretario ad interim della PCTM – che proprio alla luce del processo sinodale manca un “pezzo” importante: «il peso e il significato effettivamente attribuito alle esperienze delle vittime/sopravvissuti agli abusi sessuali da parte del clero nel processo sinodale sono ancora dolorosamente poco chiari e le testimonianze delle vittime/sopravvissuti sono state finora limitate, e l’impatto delle loro esperienze e intuizioni è difficile da discernere».
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 39 19 novembre 2022
Il vescovo di ‘s-Hertogenbosch commenta la visita ad limina dei vescovi olandesi
“La Curia Romana, la serie di dipartimenti che assistono il Papa nell’amministrazione della Chiesa, è al servizio dei vescovi, non al di sopra di noi”, ha detto il vescovo Gerard de Korte, della diocesi di ‘s-Hertogenbosch, al quotidiano cristiano Nederlands Dagblad. Il vescovo, appena tornato dalla visita ad limina di una settimana, lo considera un “chiaro segno di una crescente sinodalità” guidata dal Pontefice. Il Papa, che ha incontrato tutti i vescovi olandesi, ha sottolineato l’importanza dell’accompagnamento pastorale nel loro ministero e di portare avanti il Sinodo. Quest’ultimo, ha affermato è un processo spirituale con una “dimensione parlamentare”, ma non un parlamento. Il Pontefice ha invitato i presuli ad ascoltarsi l’un l’altro, ma anche a prendersi del tempo per il silenzio durante le sessioni sinodali. De Korte ha anche parlato del fatto che l’università di Radboud, nella diocesi di Nimega, verrà nuovamente considerata cattolica, dopo una disputa con i vescovi olandesi. Questa riconciliazione, promossa dalla Santa Sede, implicherà la creazione di un istituto Laudato si’.
Visita ad limina: vescovi tedeschi ricevuti in udienza da Papa Francesco
È durato due ore lo scambio che questa mattina i vescovi tedeschi hanno avuto con Papa Francesco, che li ha ricevuti in udienza in occasione della loro visita ad Limina in corso questa settimana. A dare un generale resoconto dell’incontro, un comunicato della Conferenza episcopale tedesca che riferisce di “uno scambio aperto, in cui i vescovi hanno potuto porre le loro domande e sollevare le loro questioni”. Il Papa ha risposto a ciascun elemento posto nel dialogo.
I contenuti dello scambio hanno riguardato, riferisce sempre la nota, “riflessioni sulla pastorale in tempi che sono cambiati, l’autocomprensione del ministero sacerdotale ed episcopale, l’impegno dei laici nella Chiesa e la sfida di come l’evangelizzazione possa funzionare nel contesto di un mondo secolarizzato”. I vescovi hanno potuto anche raccontare le proprie esperienze nelle diocesi e arcidiocesi, così come parlare dell’impegno della Chiesa tedesca su scala globale. Un altro tema che ha segnato l’incontro è stato quello della “responsabilità politica, della coesione sociale e di una prospettiva per la pace nel contesto dei conflitti globali e regionali”. La nota dice infine che i vescovi tedeschi si sono confrontati con il Papa anche su “aspetti del cammino sinodale della Chiesa in Germania e sul processo sinodale mondiale”.
AgenziaSIR 17 novembre 2022
www.agensir.it/quotidiano/2022/11/17/visita-ad-limina-vescovi-tedeschi-ricevuti-in-udienza-da-papa-francesco-dialogo-di-due-ore-fra-i-temi-ministero-sacerdotale-ruolo-dei-laici-sinodo/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Primo Report sulle attività di tutela nelle Diocesi italiane
Pubblichiamo la Sintesi del Primo Report nazionale sulle attività di tutela nelle Diocesi italiane realizzato dalla CEI. In allegato il testo integrale.
Gli obiettivi e la metodologia della rilevazione. L’obiettivo della rilevazione è quello di verificare, nel biennio 2020-2021, lo stato dell’arte in merito all’attivazione del Servizio Diocesano o Inter-diocesano per la tutela dei minori (SDTM/SITM), del Centro di ascolto e del Servizio Regionale per la tutela dei minori (SRTM) nelle Diocesi italiane. Il presente report intende offrire uno strumento conoscitivo alla Conferenza Episcopale Italiana per implementare le azioni di tutela dei minori e delle persone vulnerabili nelle Diocesi italiane. A tale scopo, la metodologia del lavoro ha previsto la definizione e la somministrazione online di tre strumenti di rilevazione,
- uno destinato ai referenti diocesani per analizzare la struttura e le attività del SDTM/SITM,
- il secondo destinato ai referenti delle Regioni ecclesiastiche,
- il terzo indirizzato ai referenti dei Centri di ascolto. I dati raccolti sono stati elaborati differenziando le diverse situazioni a livello territoriale e dimensionale.
- I Servizi Diocesani e Inter-diocesani per la tutela dei minori. I Servizi sono presenti in tutte le 226 Diocesi italiane. Le elaborazioni effettuate fanno riferimento a 158 risposte su 166 Diocesi coinvolte: 8 Servizi sono infatti a carattere Inter-diocesano. La rappresentatività statistica del campione di indagine è pari al 73,4% (166 Diocesi sulle 226 totali in Italia e, ad oggi, sono in corso ulteriori accorpamenti). La distribuzione geografica del campione evidenzia una relativa omogeneità nella presenza di Diocesi collocate nelle diverse aree del nostro Paese (seppure al Centro Italia corrisponda una percentuale di poco inferiore a quella di Sud e Nord). Dal punto di vista dimensionale, le Diocesi del campione sono soprattutto di medie dimensioni (tra 100 e 250mila abitanti), seguite dalle Diocesi di grandi (oltre 250mila) e piccole dimensioni (fino a 100mila).
- Ad avere l’incarico di referente nella maggior parte dei casi è un sacerdote (51,3%), seguito da laico o laica (42,4%) e solo raramente un religioso o una religiosa (6,3%).
- Le Diocesi di piccole dimensioni invece si distinguono in quanto a ricoprire il ruolo di referente, in oltre la metà dei casi, è un laico/a (56, 0%), mentre negli altri casi un sacerdote.
- Il 77,2% delle Diocesi censite ha una équipe di esperti a sostegno del SDTM.
- Le principali attività svolte dal SDTM consistono in incontri e corsi formativi.
- Il numero di incontri formativi proposti nel biennio in esame (2020-2021) è cresciuto notevolmente, passando dai 272 incontri del 2020 ai 428 del 2021.
- Il numero di partecipanti conferma il trend di crescita: da 7.706 nel 2020 a 12.211 nel 2021, con l’aumento più alto per gli operatori pastorali, passati da 3.268 a 5.760.
- Le relazioni tra SDTM e altri organismi ecclesiali, quali Ordinari religiosi e Superiori di istituti femminili, risultano scarse: solo il 4,7% dichiara di aver promosso iniziative comuni.
- Anche le iniziative o le collaborazioni con altri enti, associazioni, istituzioni non ecclesiali, risultano limitate (12,2%); solo nell’11,4% dei casi il SDTM partecipa a tavoli istituzionali civili.
- Gli Uffici diocesani con i quali sono state avviate collaborazioni sono soprattutto l’Ufficio per la pastorale giovanile (53,3%), l’Ufficio per la pastorale familiare (47,4%), l’Ufficio scuola (35,6%).
- La maggior parte delle Diocesi ha attivato un Centro di ascolto (70,8%), in particolare nelle Diocesi di grandi dimensioni (84,8%).
- Le modalità con cui vengono pubblicizzate le attività del SDTM si avvalgono soprattutto del sito web (67,7%), in secondo luogo si utilizzano presentazioni o comunicazioni ordinarie alla stampa (42,4%).
- I referenti dei SDTM sono stati chiamati a fornire un parere in merito ai punti di forza e di debolezza del sistema sinora costituito a livello diocesano. Tra i punti di forza vengono indicati in via prioritaria la sensibilità di educatori e catechisti nei confronti del tema degli abusi sui minori (il punteggio medio da 1 a 10 è 7,3) e la gestione delle relazioni con gli Uffici pastorali diocesani (7,1), con il Seminario diocesano (6,5) e con educatori e catechisti (6,4).
- I punti negativi risultano invece: la capacità di gestire relazioni con Istituti e Congregazioni religiose (5,1), con le associazioni non ecclesiali (4,9), con gli enti locali (4,8); infine, il giudizio più negativo è riservato all’attività di comunicazione realizzata sui media locali (4,1) circa le iniziative proposte dai Servizi.
- I Centri di ascolto
- Sono stati rilevati dati relativi a 90 Centri di ascolto: di questi 21 attivati nel 2019 o prima, 30 nel 2020, 29 nel 2021 e 10 nel 2022. L’attivazione dei Centri di ascolto è strettamente correlata alla dimensione delle Diocesi, con 38 Centri costituiti in Diocesi di grandi dimensioni o Diocesi che si sono aggregate.
- La sede del Centro di ascolto differisce dalla sede della Curia diocesana nel 74,4% dei casi.
- Il responsabile del Centro, in oltre due terzi dei casi, è un laico o una laica (77,8%). Meno frequente è la scelta di un sacerdote (15,5%), oppure un religioso o una religiosa (6,7%). Tra i laici prevalgono nettamente le donne, che quindi rappresentano i due terzi dei responsabili.
- Nella maggior parte dei casi (83,3%), i Centri di ascolto sono supportati da una équipe di esperti.
- Nel biennio in esame il totale dei contatti registrati da 30 Centri di ascolto è stato pari a 86, di cui 38 contatti nel 2020 e 48 nel 2021.
- Il genere delle persone che hanno contattato il Centro rivela una maggiore rappresentazione delle donne (54,7%).
- I contatti sono avvenuti principalmente via telefono (55,2%) o, in misura inferiore, tramite corrispondenza online (28,1%).
- Il motivo del contatto è rappresentato dalla volontà di segnalare il fatto all’Autorità ecclesiastica (53,1%), dalla richiesta di informazioni (20,8%), da una consulenza specialistica (15,6%).
- I casi segnalati, anche per fatti riferiti al passato, riguardano 89 persone, di cui 61 nella fascia di età 10-18 anni, 16 over 18 anni (adulto vulnerabile) e 12 under 10 anni.
- Circa la tipologia dei casi segnalati, è emersa la prevalenza di “comportamenti e linguaggi inappropriati” (24), seguiti da “toccamenti” (21); “molestie sessuali” (13); “rapporti sessuali” (9); “esibizione di pornografia” (4); “adescamento online” (3); “atti di esibizionismo” (2).
- Le segnalazioni fanno riferimento a casi recenti e/o attuali (52,8%) e a casi del passato (47,2%).
- Il profilo dei 68 presunti autori di reato evidenzia soggetti di età compresa tra i 40 e i 60 anni all’epoca dei fatti, in oltre la metà dei casi. Il ruolo ecclesiale ricoperto al momento dei fatti è quello di chierici (30), a seguire di laici (23), infine di religiosi (15). Tra i laici emergono i ruoli di insegnante di religione; sagrestano; animatore di oratorio o grest; catechista; responsabile di associazione.
- Il contesto nel quale i presunti reati sono avvenuti è quasi esclusivamente un luogo fisico (94,4%), in prevalenza in ambito parrocchiale (33,3%) o nella sede di un movimento o di una associazione (21,4%) o in una casa di formazione o seminario (11,9%).
- A seguito della trasmissione della segnalazione all’Autorità ecclesiastica da parte dei Centri di ascolto, tra le azioni poste in essere sono risultati prevalenti i “provvedimenti disciplinari”, seguiti da “indagine previa” e “trasmissione al Dicastero per la Dottrina della Fede”.
- Tra le azioni di accompagnamento delle presunte vittime, i Centri forniscono informazioni e aggiornamenti sull’iter della pratica (43,9%), organizzano incontri con l’Ordinario (24,6%), offrono un percorso di sostegno psicoterapeutico (14,0%) e di accompagnamento spirituale (12,3%).
- Ai presunti autori degli abusi vengono proposti percorsi di riparazione, responsabilizzazione e conversione, compresi l’inserimento in “comunità di accoglienza specializzata” (un terzo dei casi rilevati) e percorsi di “accompagnamento psicoterapeutico” (circa un quarto dei casi).
- I Servizi regionali per la tutela dei minori
I Servizi regionali (SRTM) attivati sono 16 e comprendono la totalità delle Regioni ecclesiastiche (le Regioni politiche Piemonte e Valle D’Aosta; Abruzzo e Molise; Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia costituiscono rispettivamente la Conferenza Episcopale Piemontese, la Conferenza Episcopale Abruzzese-Molisana e la Conferenza Episcopale Triveneta). Rappresentano il luogo di coordinamento tra i Servizi diocesani e organizzano iniziative di formazione dei membri degli stessi Servizi. Le attività del SRTM sono state quasi esclusivamente iniziative di carattere formativo, con 36 incontri nel 2020 e 62 nel 2021 (per un totale di 9 incontri con 2.746 partecipanti).
www.chiesacattolica.it/primo-report-nazionale-sulle-attivita-di-tutela-nelle-diocesi-italiane
TESTO integrale www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2022/11/17/PrimoReport.pdf
TESTO sintesi www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2022/11/17/PrimoReport_Sintesi.pdf
SPOTLIGHT ITALIA è un’iniziativa del settimanale Left
Sono documentati 122 casi denunciati – 385 vittime
Tutela dei minori passim
“Negli ultimi vent’anni sono pervenuti al Dicastero per la Dottrina della Fede 613 fascicoli dalle diocesi” ha reso noto inoltre mons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, rispondendo alle domande dei giornalisti. “Su questi dati – ha annunciato Baturi riferendosi alle cosiddette ‘ponenze’ [questioni poste] relative alle denunce di presunti abusi che giacciono sul tavolo dell’ex Sant’Uffizio – la Chiesa italiana farà un’indagine che sarà la prima al mondo di questo genere”.
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“È ora che i panni sporchi non si lavino più in famiglia. Noi dobbiamo farlo come Chiesa, ma in tutti gli ambiti della società civile deve crescere questa consapevolezza. Bisogna imparare a dire e a denunciare, non bisogna passarci sopra”. È l’appello di mons. Lorenzo Ghizzoni, responsabile del Servizio nazionale della Cei per la Tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Rispondendo alle domande dei giornalisti, Ghizzoni ha ricordato che “il 93% dei casi di abusi avvengono in famiglia, o in ambito familiare o nel ‘circolo della fiducia’ che si crea negli ambienti che frequentano i minori”. Negli ultimi anni, ha fatto notare l’esperto, è cambiata in positivo la percezione della gravità degli abusi: “C’è una coscienza diversa riguardo alle vittime: il vero cambiamento, come Chiesa, è avvenuto proprio quando noi abbiamo cominciata a metterci nei panni delle vittime”. Secondo Ghizzoni, “questo è avvenuto anche a livello sociale e culturale: del resto, il reato di pedofilia è entrato nel diritto italiano alla fine degli Anni Novanta. C’è una presa di coscienza specifica – ma non è ancora abbastanza – del problema degli abusi. Stiamo uscendo dall’idea che i panni sporchi si lavano in famiglia”.
M. Michela Nicolais AgenziaSIR 17 novembre 2022
www.agensir.it/chiesa/2022/11/17/tutela-dei-minori-servizi-in-tutte-le-diocesi-segnalati-89-casi-di-presunti-abusi-in-due-anni
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Italia: 600 casi di abusi sessuali inviati al Vaticano
In risposta alla domanda di un giornalista durante una conferenza stampa sul rapporto, l’arcivescovo Giuseppe Betori, segretario generale della CEI, ha rivelato che sono 613 i casi inviati al Dicastero vaticano della Dottrina della Fede dal 2001, quando il Vaticano ha chiesto alle diocesi di tutto il mondo di inviare tutti i rapporti credibili di abusi all’organismo perché potessero essere processati a livello centrale. L’Associated Press nota che “la rivelazione quasi casuale ha sottolineato che il rapporto iniziale della Conferenza Episcopale non mirava a fornire un approccio accurato o storico sul problema degli abusi del clero in Italia”. Mentre altri Paesi, tra cui Francia, Spagna e Portogallo, hanno cercato di offrire un “resoconto completo” di questo problema, il rapporto dell’episcopato italiano si limita a valutare il lavoro dei “centri di ascolto” istituiti in alcune diocesi dal 2019 per ricevere le denunce delle vittime. Le cifre sono quindi molto ridotte rispetto al numero di casi noti al principale gruppo delle vittime italiane, “Rete L’Abuso”, che stima in circa 1 milione le vittime italiane. Il gruppo ha identificato circa 178 sacerdoti accusati. Quando il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha annunciato il progetto di relazione a maggio, poco dopo la sua elezione, ha insistito sul fatto che l’obiettivo dello studio e il termine di sei mesi per la sua pubblicazione avrebbero permesso ai ricercatori di fornire dati “accurati e responsabili”. Questo approccio limitato preoccupa però le associazioni delle vittime, che accusano l’episcopato italiano di voler “minimizzare” il problema.
Alateia plus 18 novembre 2022
.Report CEI la critica dei sopravvissuti ai limiti del report, ma i dati battono la Francia
Prima di analizzare il report la critica ad un “report sulla pedofilia del clero” che inizialmente era già parziale nel raccogliere i soli dati dal 2000 a oggi (come fatto notare a maggio al Presidente Zuppi) provenienti all’epoca dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e dagli sportelli diocesani. Invece troviamo un report parecchio più limitato, al limite del ridicolo. Solo due anni, dal 2020 al 2022, con solo i dati degli sportelli Diocesani.
Sono esclusi dal report tutti i casi (sempre di sacerdoti italiani) denunciati alla magistratura o all’associazione o direttamente alla CDF. Nessun accenno a indennizzi e nessun supporto per le vittime, solo il 14% delle diocesi risulta dal report, avere almeno quello psicologico. Per i sacerdoti invece 23 strutture sul territorio che li assistono e spesso li sottraggono anche al carcere. Nessun accenno di collaborazione con l’Autorità Giudiziaria, tranne ovviamente quando vengono indagati e sono costretti a farlo per ordine di un pubblico ministero o un giudice. Non si sa chi o almeno dove siano i preti e laici citati, se e quali provvedimenti sono stati effettivamente presi, facendo presente che per i laici che nel report risultano più dei preti, la chiesa non può imporre controllo ed il tutto si riduce a mera omertà.
Si parla di collaborazione con associazioni esterne, ma non con quella italiana delle vittime. Nemmeno con il Coordinamento Italy Church Too che più volte ha scritto alla CEI senza mai ottenere risposte.
Anche in difetto i dati sono comunque allarmanti. Se contiamo che sono stati raccolti nei due anni durante i quali l’ accesso agli sportelli è stato limitato per via del COVID e mancano i casi denunciati alla magistratura e alle associazioni, qui si parla di 89 casi segnalati tra il 2020 e il 2021 (manca il 2022). Come sottolinea il report (Primo Report_Sintesi) “Le segnalazioni fanno riferimento a casi recenti e/o attuali (52,8%) e a casi del passato (47,2%)”. Possiamo quindi dire che almeno 45 casi siano quelli recenti (2020 – 2021), circa 2 casi al mese, che a noi non sembrano pochi. Inoltre, secondo il report CEI, l’effetto della mancanza del certificato antipedofilia dal quale l’Italia ha sollevato il volontariato e che da anni denunciamo la pericolosità di quel vuoto – in quanto incentiva i predatori ad inserirsi in quegli ambienti, ancor più nella chiesa che per via della paura dello scandalo se succede qualcosa non querela – parrebbe sempre secondo il report darci ragione, il dato batte i laici della Francia e in Italia supera i preti. Si legge; “Il profilo dei 68 presunti autori di reato evidenzia soggetti di età compresa tra i 40 e i 60 anni all’epoca dei fatti, in oltre la metà dei casi. Il ruolo ecclesiale ricoperto al momento dei fatti è quello di chierici (30), a seguire di laici (23), infine di religiosi (15). Tra i laici emergono i ruoli di insegnante di religione; sagrestano; animatore di oratorio o grest; catechista; responsabile di associazione.”.
Forse non è così casuale che la CEI voglia introdurre sotto forma di corsi anche nelle scuole cattoliche questo sistema di monitoraggio. In sintesi si conferma quanto le vittime avevano già potuto apprendere nella scorsa estate attraverso gli incontri avuti con il presidente della CEI Matteo Zuppi e che già all’epoca avevano interrotto per l’assenza di spazi di dialogo da parte della chiesa italiana.
Il report conferma una mera propaganda degli sportelli diocesani, utili alla chiesa, ma pericolosissimi per le vittime (oltre che inutili), come abbiamo già dettagliato in passato.
Il vero responsabile resta in Italia lo Stato, l’unico in Europa a non essersi mai pronunciato, lasciando vittime i più piccoli.
Francesco Zanardi Rete L’ABUSO 17 novembre 2022
Pedofilia e Chiesa, la Cei ha escluso dall’indagine diocesi con preti sotto processo
È arrivato, dunque, l’atteso primo report nazionale della Cei sugli abusi sui minori ed è ancora più fumoso e carente di quanto ci si potesse aspettare. A essere presa in esame è stata infatti soltanto l’attività dei Servizi diocesani e le segnalazioni arrivate ai centri di ascolto delle diocesi nel 2020 e 2021. Dati scarni e confusi, che riguardano solo 158 diocesi su 226: fra quelle che non hanno risposto, quasi un quarto del totale, c’è anche la diocesi di Piazza Armerina, che vede uno dei suoi sacerdoti, don Giuseppe Rugolo, sotto processo per violenza sessuale su minori. Quale può essere la credibilità di un dossier che non prende nemmeno in esame le diocesi con casi noti?
Zuppi non si presenta. Clamorosa anche l’assenza del cardinale Matteo Zuppi, che non ha presenziato alla presentazione del report preferendo partecipare a una riunione con i suoi vicari episcopali a Bologna. Un’assenza che suona ancora più pesante perché era stato proprio Zuppi, appena eletto presidente della Cei, a promettere un’interlocuzione con le vittime.
Un dialogo che con Italy Church Too, il coordinamento di associazioni cattoliche e laiche a sostegno delle vittime, non è mai nemmeno iniziato. Con Francesco Zanardi, presidente della Rete L’Abuso, il cardinale ha avuto due incontri durante l’estate che lo stesso Zanardi giudica «una completa delusione». Ecco dunque la cronaca di un fallimento annunciato, viste le premesse poste dalla Cei a maggio, quando ha presentato l’inchiesta italiana come tutta interna alla Chiesa, rifiutandosi di affidarla a soggetti terzi e indipendenti.
I numeri: nel biennio in esame, sono 86 le persone che hanno contattato 30 dei 90 centri di ascolto presenti sul territorio, mentre gli altri 60 sportelli non hanno mai ricevuto una segnalazione: non sarà un segno che le vittime non si fidano della Chiesa? I casi di abuso riportati sono 89, nel 52,8% riguardano l’oggi e nel 47,2% per cento il passato; si sono riscontrati 61 casi nella fascia d’età fra i 10 e i 18 anni e 12 sotto i 10 anni, 16 invece riguardano adulti vulnerabili. Per quanto riguarda la tipologia degli abusi in 9 casi si parla di rapporti sessuali, in 13 di molestie e per il resto di pornografia, esibizionismo o adescamento online.
Che cosa fa la Chiesa per queste vittime? Offre «percorsi di sostegno psicoterapeutico e di accompagnamento spirituale».
Di risarcimenti, invece, nemmeno a parlarne: «come Conferenza episcopale non abbiamo articolato forme più precise di aiuto», dichiara monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei.
I casi. Clamorosa, poi, la rivelazione che i fascicoli riguardanti casi di abuso depositati dal 2000 presso il Dicastero per la dottrina della fede sono 613: fino ad oggi la Cei aveva parlato soltanto genericamente di “un centinaio” di faldoni. Solo aprendo gli incartamenti si scoprirà se fanno riferimenti alla reiterazione di reato (quindi con più vittime) oppure se sono casi archiviati. Quale sarà la reale portata di questi documenti lo si saprà in un non meglio precisato futuro, quando verranno esaminati da ancora più vaghi «centri di ricerca indipendenti».
I “presunti autori degli abusi”, fra preti e laici, sono secondo il report 68: a loro vengono proposti «percorsi di riparazione e conversione» e psicoterapia ma non vengono segnalati all’autorità giudiziaria. «Non vogliamo sostituirci alle forze dell’ordine o alla magistratura – dice monsignor Lorenzo Ghizzoni, presidente del Servizio Nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della Cei – i reati noi li ascoltiamo e se riguardano persone della Chiesa provvediamo che sia fatto un giusto processo canonico. Fino alla sentenza, però, le persone sono considerate innocenti e hanno diritto alla buona fama».
Impuniti. Anche in caso di condanna ecclesiastica, il peggio che può capitare a un sacerdote pedofilo è la riduzione allo stato laicale: nel frattempo, per garantire la sua “buona fama”, può essere soggetto a generiche sanzioni disciplinari da parte del vescovo oppure lasciato libero di continuare il sacerdozio, anche vicino ai minori. «Noi però incoraggiamo le denunce delle vittime alle autorità civili – precisa Ghizzoni – e a chi non vuole farlo chiediamo che firmi un documento in cui dichiara che si oppone alla denuncia». Una sorta di liberatoria per mettere le mani avanti in caso di future contestazioni, se non addirittura un possibile strumento di ricatto.
Sulle responsabilità dei vescovi nell’insabbiare i casi di pedofilia, monsignor Ghizzoni assicura poi che «verranno presi provvedimenti nei confronti degli inadempienti», ma non sa dire se questo sia già successo o se si tratta soltanto di un auspicio per il futuro.
Federica Tourn “Domani” 18 novembre 2022
www.editorialedomani.it/politica/italia/pedofilia-e-chiesa-la-cei-ha-escluso-dallindagine-diocesi-con-preti-sotto-processo-xu9wqdfl
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221118tourn.pdf
Parla padre Zollner: “Oggi la prevenzione dipende dall’ammettere le realtà del passato”
L’intervista al teologo e professore della pontificia università lateranense.
Teologo, psicologo e professore presso la Pontificia università Gregoriana, padre Hans Zollner è considerato uno dei maggiori esperti a livello mondiale nel campo della salvaguardia e della prevenzione degli abusi sessuali. Lo abbiamo sentito per parlare della pedofilia all’interno della Chiesa e del report che a breve sarà pubblicato dalla Cei.
Padre Zollner, il report in fase di redazione della Cei porta con sé alcune ombre. La prima è che si tratta di un’indagine interna e non indipendente. La seconda è che farà riferimento agli abusi avvenuti solamente negli ultimi 20 anni basandosi sui dati dei centri fragilità delle diocesi entrati in funzione appena due anni fa. Lei cosa ne pensa?
“Dobbiamo agire con onestà, anche quando si tratta di ammettere non solo errori ma anche abusi commessi da parte del clero. Io sono da sempre un avvocato per l’onestà e per la verità. Anche se ci costa ammettere che ci sono persone che hanno ferito la vita di coloro che gli sono stati affidati, soprattutto se si tratta di persone vulnerabili come i minori. Non aiuta rifugiarsi nel silenzio o nella negazione perché prima o poi verranno a galla la verità, i dati, i fatti. A quel punto seguirà una pesante perdita di credibilità della Chiesa, che è costruita sulla testimonianza di coerenza, misericordia e amore per l’altro. Questo fatto lo vediamo in tante parti del mondo, dove si discute molto di più degli abusi della Chiesa. Io mi aspetto che se ne cominci a parlare anche in Italia. Non vedo possibilità e opportunità di negare ciò che è successo in passato. Soprattutto perché dobbiamo fare di tutto perché i minori e i vulnerabili siano difesi. Oggi la prevenzione dipende anche dall’ammettere la realtà del passato”.
In Sicilia sono 28 i preti pedofili che sono stati condannati, che hanno patteggiato o che sono indagati. Un dato che rappresenta oltre l’8% dei preti condannati a livello nazionale. Tutti numeri che dovrebbero essere rivisti al rialzo, date le peculiarità del trauma. Secondo lei questa indagine interna porterà alla luce un dato reale o uno molto a ribasso?
“Io non conosco né la metodologia né lo scopo preciso di questa indagine. In ricerca, su questi campi, e in particolare nella ricerca sul fenomeno di abuso in alcuni Paesi, si distinguono due concetti: il campo chiaro e il campo oscuro. Io suppongo che, come in molti altri studi condotti in Usa o in Germania, si parlerà del campo chiaro, ovvero di quei casi che possono essere verificati, calcolati e contati attraverso quello che si trova nei documenti, negli archivi, nella corrispondenza tra uffici. Queste cose si trovano nelle denunce presso la magistratura, in quelle nell’ambito della Chiesa stessa o testimonianze dirette da parte delle vittime o da parte di un reo. L’unica ricerca fatta sul campo oscuro, cioè sulla stima secondo un metodo utilizzato in medicina per l’epidemiologia, è quella francese. Loro hanno chiesto a sociologi di fare una tale stima seguendo un metodo riconosciuto e utilizzato dall’Oms. Ovviamente non è la stessa cosa avere da un lato numeri precisi, verificati e comprovati dalla documentazione in essere e dall’altro una stima che anche se scientificamente valida sempre una stima rimane. Si deve stare attenti a non aspettarsi che questo metodo produca numeri esatti sulle vittime di abuso in Sicilia o altrove. Da quello che capisco io, in Italia si concentreranno sui dati verificabili in un senso forense. Non è che è un’eccezione l’Italia, l’eccezione era la Francia”.
Ci sono diversi studi che confermano che il periodo di accettazione di questo tipo di traumi supera i 20-25 anni. Come mai in Italia, secondo lei, si è individuato proprio l’intervallo di tempo di venti anni?
“Generalmente i tempi, in tutti i rapporti che abbiamo visto ultimamente, andavano dalla fine della Seconda guerra mondiale ai nostri giorni. Quando parliamo del consumarsi dei casi di abuso non ha senso andare più in là. In Spagna, per esempio, i gesuiti hanno cominciato a parlare di vittime degli anni 1920. Ma anche questa era una eccezione. Normalmente negli ultimi anni si prendevano i decenni dopo la guerra. Io non so perché la Cei ha deciso di guardare solo agli ultimi 20 anni, non conosco le spiegazioni. In quasi tutti i rapporti che ho visto però si prendevano fino a 70 anni indietro”.
Questa differenza dell’intervallo di tempo pensa che possa avere una conseguenza negativa sull’esito del rapporto?
“Io credo che se faranno bene il lavoro per gli ultimi vent’anni produrranno i numeri reali degli ultimi vent’anni. Ma sarà solo una parte della realtà perché prima degli ultimi 20 anni ci sono state altre vittime e quindi si dovrà andare indietro prima o poi. Non è che non siano giusti questi impegni ma saranno sempre parziali. Se si concentrano negli ultimi vent’anni con la cresciuta attenzione verso il tema tipica di questi anni, le vittime possono essere aiutate a denunciare con più libertà. Sappiamo che tantissimi hanno tardato molto a parlare di queste ferite. Ma non vale per tutti. Sembra che dove c’è più attenzione, sensibilità e possibilità mediatica di far conoscere i fatti le persone si sentono più invitate a parlarne pubblicamente. Comunque quello che è successo negli ultimi venti anni è una cosa, ciò che è stato denunciato negli ultimi 20 anni è un’altra cosa e sappiamo che non sono numeri indifferenti, anche in Italia”.
Una tendenza che è stata rilevata in alcuni dei casi di abuso è quella dei vescovi di “insabbiare” i reati dei loro preti. Questa tendenza a cosa è dovuta e come può essere superata dalla Chiesa?
“Come il Papa ha detto alcuni giorni fa alla Cnn in Portogallo per un sacerdote abusatore non ci dovrebbe essere spazio nel ministero sacerdotale e quindi dovrebbe essere dimesso. Purtroppo per tanto tempo nella Chiesa universale il primo impulso era sempre la difesa delle istituzioni e dei sacerdoti ad oltranza anche se i superiori erano consapevoli dei crimini commessi. Volevano salvare il sacerdote anziché ascoltare la vittima. Volevano credere nelle confessioni dei rei che promettevano di migliorare e di non commettere di nuovo abuso e così sono caduti spesso nella trappola della falsa benevolenza. In molte parti del mondo la situazione è sempre a stessa: i sacerdoti vengono spostati da una diocesi all’altra, da un continente all’altro. Così alcuni vescovi hanno collaborato con il male dando la possibilità ad un abusatore di continuare ad abusare. Il Papa ha detto mille volte che non dovrebbe accadere”.
Una condanna che spesso, quando c’è, viene scontata dai carnefici nelle cosiddette case di recupero. Cosa accade dentro queste strutture?
“Da secoli ci sono case di recupero per sacerdoti con malattie psichiche o alcolismo o altre cose simili. Io non ho mai visitato una di queste strutture in Italia ma penso che abbiano livelli molto diversi in termini di professionalità. Probabilmente alcune esistono solo per contenere le persone, sia nello spazio sia nelle loro attività. Altre sono molto più attrezzate in termini di terapia e di supervisione. In ogni caso queste strutture esistono perché anche nel clero cattolico ci sono persone con grosse difficoltà sia a livello fisiologico che psicologico, inclusa una patologia come la pedofilia. C’è una cosa che voglio sottolineare: non tutti i sacerdoti che abusano minori sono pedofili secondo la definizione psichiatrica che dice che i pedofili sono le persone che sono attratte dai minori prima dell’inizio della pubertà. La maggior parte degli abusatori del clero cattolico, da quello che possiamo sapere, abusano non bambini ma adolescenti”.
Quindi non sono pedofili ma pederasti? In ogni caso il risultato della loro devianza non è lo stesso?
“Beh, no. Anche di fronte alla legge italiana l’abuso di un minore prima che compia 14 anni viene trattato diversamente. C’è un riconoscimento sia della medicina che dal punto di vista legale di una differenza. Che per la persona questo abuso possa avere lo stesso effetto è un altro discorso, ma oggettivamente ci sono considerazioni diverse. Inoltre, le chiederei di evitare la parola pederastia perché viene male intesa e non corrisponde al concetto scientificamente valido. A mio parere l’utilizzo di questa parola non aiuta neanche sulla discussione seria di queste materie. Sia davanti alla legge che davanti al medico ci sono criteri per valutare questi casi uno per uno”.
La pedofilia è una malattia per cui è possibile una guarigione? E nelle case di recupero è questo l’obiettivo?
“Se uno è pedofilo sessualmente attratto da bambini prima dell’adolescenza, nella psichiatria di oggi questa attrazione non può essere cambiata. Il che non vuol dire che non ci sia la possibilità di lavorare con queste persone affinché non agiscano secondo le loro attrazioni. Ma questi casi coincidono con una percentuale piccola di tutti gli abusatori di minori perché la stragrande maggioranza degli abusatori non sono pedofili né nella Chiesa né nella società”.
Redazione Web Rete L’abuso 17 novembre 2022
Consiglio permanente Cei: Cammino sinodale al centro della sessione straordinaria
Il Cammino sinodale, entrato nel vivo del secondo anno della “fase narrativa”, è stato al centro della sessione straordinaria del Consiglio episcopale permanente, che si è svolta il 16 novembre a Roma, sotto la guida del card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. Nel comunicato finale si legge che il card. Zuppi, in apertura dei lavori, ha sottolineato che “il percorso che le Chiese in Italia stanno vivendo è un momento importante di ascolto, anche per capire perché tanti non si sentono ascoltati da noi; per non parlare sopra; per farci toccare il cuore; per comprendere le urgenze; per sentire le sofferenze; per farci ferire dalle attese; per parlare a tutti”. Secondo il cardinale, “una delle novità più grandi, uno dei segnali più positivi è la rete dei referenti diocesani: circa 400 che in questi mesi si sono spesi nelle diocesi, promuovendo iniziative, producendo sussidi e inventando strade nuove per realizzare l’ascolto”. “Sono stati i primi – ha osservato – a mettersi in gioco, ad accettare la sfida del cambiamento, a sperimentare un modo diverso di lavorare insieme”. Il presidente non ha mancato di esprimere “preoccupazione” per le sofferenze della gente e per le “pesantissime ricadute di una guerra folle, che auspichiamo e preghiamo sia fermata subito per il bene di tutti”, condividendo le parole pronunciate da Papa Francesco all’Udienza generale di ieri: “Preghiamo affinché il Signore converta i cuori di chi ancora punta sulla guerra e faccia prevalere per la martoriata Ucraina il desiderio di pace, per evitare ogni escalation e aprire la strada al cessate-il-fuoco e al dialogo”.
Il Consiglio permanente ha ribadito la validità dei gruppi sinodali, soffermandosi sulla proposta dei tre “cantieri sinodali” (della strada e del villaggio; dell’ospitalità e della casa; delle diaconie e della formazione spirituale) comuni a tutte le diocesi italiane, secondo il documento “I cantieri di Betania” e il successivo Vademecum metodologico “Continuiamo a camminare”. I cantieri, hanno sottolineato i vescovi, “possono aiutare nell’esercizio di apertura ai mondi che non ci appartengono, quelli con cui pensiamo di non aver nulla da spartire perché sono lontani dall’esperienza cristiana o perché fanno paura”. Con l’invito a osare sempre di più, con grande creatività. Il Consiglio ha poi approvato il testo dell’organigramma del Cammino sinodale delle Chiese in Italia. In premessa viene ricordato che “agli organi statutari della Cei (in particolare Assemblea generale, Consiglio episcopale permanente, Presidenza) spetta la responsabilità di accompagnare i lavori del Cammino sinodale e di compiere le scelte di fondo, in base alle specifiche competenze”. Per sostenere il percorso a livello nazionale, viene costituito un servizio di coordinamento composto dall’Assemblea dei referenti diocesani, dal Comitato nazionale del Cammino sinodale, dalla Presidenza del Comitato nazionale. Ora si procederà a designare i membri del Comitato e della Presidenza.
R. B. Agenzia SIR 17 novembre 2022
Consiglio permanente Cei: prima stesura della “Ratio nationalis” per la formazione nei seminari d’Italia
Un “ampio confronto” ha accompagnato la presentazione della prima stesura della Ratio nationalis per la formazione nei seminari d’Italia che intende aggiornare “La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana. Orientamenti e norme per i seminari” del 2006, testo già allineato con le indicazioni di “Pastores dabo vobis” (1992) e ancora punto di riferimento essenziale per tutti i formatori in Italia. Lo rende noto il comunicato finale del Consiglio episcopale permanente, che si è tenuto il 16 novembre a Roma. Gli aggiornamenti più significativi riguardano i capitoli relativi alla “Tappa propedeutica” e all’“Itinerario formativo” del Seminario maggiore. L’obiettivo finale è quello di elaborare un testo puntuale, ma aperto ad ulteriori sviluppi, in linea cioè con i grandi cambiamenti epocali, con il Sinodo della Chiesa universale e con il Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia. L’esame del testo proseguirà nei prossimi mesi, coinvolgendo le Conferenze episcopali regionali, per presentare alla sessione primaverile del Consiglio permanente la versione definitiva che verrà poi portata all’Assemblea generale del maggio 2023.
(R.B.) Agenzia SIR 17 novembre 2022
www.agensir.it/quotidiano/2022/11/17/consiglio-permanente-cei-ratio-nationalis-per-la-formazione-nei-seminari-ditalia
DALLA NAVATA
XXXIV domenica del tempo ordinario (anno C)
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo
2Samuele 05,03. Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele.
Salmo 121, 01. Quale gioia, quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore!».
Paolo ai Colossési 01, 13. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili.
Luca ..23,42. E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Commento
Per guardare in modo radicale il mondo non lo guardo dalla piattaforma di privilegio in cui pur sono, mi sforzo di vederlo con l’occhio di colui che ne è fuori. Il Calvario è, simbolicamente parlando, quel luogo geo-politico in cui si crocifiggono i giusti. Nel mondo ce ne sono tantissimi di calvari! È lì che mi pongo.
Gesù è venuto a inaugurare un regno in cui la legge è il servizio per gli altri, il capovolgimento del dominio. Noi diciamo «amore» ma la parola è troppo vaporosa: con essa si deve intendere un esistere per gli altri. Gesù è, in assoluto, l’uomo che è vissuto per gli altri, senza niente per sé, nemmeno una tenda dove rifugiarsi. Questa esistenza per gli altri, oblativa, è il mistero di Gesù ed è la rivelazione del suo regno. È singolare il fatto che il primo cittadino di questo regno sia un ladrone. La parola ladrone, a quanto dicono gli esegeti, è una perfida traduzione. In realtà si trattava, come diciamo noi col linguaggio attuale, di un terrorista, di un oppositore che aveva usato le armi e quindi era stato condannato a morte. Io accetto questa esegesi perché molto plausibile. Accanto a Gesù egli si trova in qualche modo affratellato perché anche il terrorista non vuole questo mondo. In realtà lo vuole perché usa l’arma di questo mondo, cioè la violenza. Si rimane in questo mondo quando si usa la violenza: sia dall’alto che dal basso, anche dal basso in alto. Non se ne esce. Il ladrone però non voleva questo mondo. Ecco dov’ era il legame di fraternità con Gesù che non voleva questo mondo, che lo ha condannato, per proporre l’altro mondo, quello dell’amore. Il buon ladrone – come diciamo noi con linguaggio ormai logoro dall’uso – intuisce questo e si pente. Non si pente però davanti ad un tribunale, perché il tribunale non è degno di ricevere questo pentimento in quanto i tribunali di questo mondo sono strumenti di potere. Gesù a questo delinquente apre lo spazio del regno suo. Come facciamo noi a dare concretezza a questa verità, a questi misteri? Utilizziamo pure il linguaggio che ci è più consueto: noi aspiriamo a un mondo in cui ci sia la riconciliazione fra tutti gli esseri umani, perciò tutti gli eventi che si succedono nella nostra cronaca, ristretta o ampia, che portano il segno della riconciliazione e del crollo del dominio sono in questo raggio di luce. Questo regno non sarà mai compiuto se non nell’evento ultimo, ma noi ci muoviamo verso questo evento ultimo anticipandone le realizzazioni, certo molto labili. Quello che abbiamo vissuto politicamente in queste settimane è un grande fatto, rientra in questo crollo dei poteri e in questa riconciliazione fra gli uomini che erano dominati dalla paura. E un fatto bello, grande. Tuttavia sappiamo bene come dobbiamo tenere gli occhi ben aperti – ecco perché la distanza dell’occhio profetico è importante – e non lasciarci catturare da queste feste. Io devo sempre guardare a che cosa significano questi fatti per coloro che sono, in assoluto, emarginati, reietti. Ben poco, credo. Queste sono feste fra ricchi, sono feste fra gente che è esente da quella minaccia primordiale che è la fame. Sono molti quelli che stanno morendo di fame e che non vedono i nostri televisori, non leggono i nostri giornali, non si curano delle nostre cronache. Io sono con loro, devo stare dalla loro parte. Per guardare in modo radicale il mondo non lo guardo dalla piattaforma di privilegio in cui pur sono, mi sforzo di vederlo con l’occhio di colui che ne è fuori. Il Calvario è, simbolicamente parlando, quel luogo geo-politico in cui si crocifiggono i giusti. Nel mondo ce ne sono tantissimi di calvari! È lì che mi pongo. Allora, mentre mi rallegro per quel che avviene, attendo ancora che questa riconciliazione ci sia ma abbia come misura i reietti e non coloro che in un perimetro di relativo privilegio mettono a posto le loro antiche questioni. Certo ogni atto di riconciliazione mi dà gioia ma io aspetto una piena riconciliazione. È significativo anche questo linguaggio: « …per riconciliare tutte le cose». Non solo gli uomini, tutte le cose, la realtà intera. Allora il nostro sguardo si dilata, abbraccia anche la riconciliazione fra l’uomo e la natura; sappiamo che il mondo ci sta morendo sotto gli occhi in quanto non abbiamo riconciliato le cose ma le abbiamo manipolate, snaturate. Perfino nelle viscere della terra, nelle foreste, nei mari abbiamo esteso questa potenza delle tenebre. Liberiamo il concetto dal linguaggio sacrale; la potenza delle tenebre è la potenza che dove arriva produce morte sotto parvenza di vita. Aspirare alla regalità di Gesù Cristo vuol dire aspirare a un mondo condotto alla sua condizione di piena pace. Quindi ad un mondo di giustizia, perché la sperequazione economica non può mai essere a base della pace. Il nostro è un mondo ingiusto, progressivamente ingiusto. Non si sta liberando dalle ingiustizie, le sta aumentando. Chiunque legge la storia dell’uomo non nell’ottica ristretta e privilegiata della nostra posizione geo-politica ma a dimensione planetaria sa che è così. E così la violenza dell’uomo sta rovinando i cieli, la terra ed il mare. Allora ogni impegno che si muove verso rapporti di pace tra l’uomo e le cose, tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e la donna … va nel senso di questa regalità. Se così è, voi capite che essa è una regalità universale, non come quella dell’imperatore romano che arrivava e dominava. Non è l’universalità del dominio. Quante volte, ahimè, i cristiani l’hanno intesa così. In nome della regalità di Cristo abbiamo portato, insieme, spada e croce. I Papi davano ai re di Spagna e del Portogallo il permesso di conquistare tutte le terre perché erano loro proprietà. Noi dobbiamo conquistare ma nel segno della pace, per cui quando si arriva – come Gesù sull’asinello – i poveri fanno festa. Come voi capite, il mistero di Cristo Re non suggerisce in noi immagini sacre di dominio, forme nuove di teocrazia: all’opposto, suggerisce immagini di armonia con tutti. Questa è una festa che affratella tutti nel segno della predilezione per coloro che nel regno di questo mondo portano il peso delle nostre iniquità.
P. Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 3
www.fondazionebalducci.com/20-novembre-2022-festa-di-cristo-re-anno-c
FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI
“Per puntare al quoziente familiare occorre incrementare l’assegno unico e passare per politiche concrete”
In un periodo difficile segnato, anche nel nostro Paese, dal caro bollette e dall’aumento dell’inflazione, oltre che dal grave inverno demografico, quali sono le attese delle famiglie? Ne parliamo con Gigi De Palo, presidente del Forum delle associazioni familiari e della Fondazione per la natalità
Un sostegno alla famiglia, “nucleo primario delle nostre società, culla degli affetti e luogo nel quale si forma l’identità di ognuno di noi”, e alla natalità con “un piano imponente, economico ma anche culturale, per riscoprire la bellezza della genitorialità e rimettere la famiglia al centro della società”. Lo ha detto il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nelle sue dichiarazioni programmatiche in Parlamento, assicurando l’impegno “di aumentare gli importi dell’assegno unico universale e aiutare le giovani coppie a ottenere un mutuo per la prima casa, lavorando progressivamente anche per l’introduzione del quoziente familiare”. A Gigi De Palo, presidente del Forum nazionale delle associazioni familiari e della Fondazione per la natalità, chiediamo quali sono le aspettative concrete nei confronti del nuovo Governo rispetto a temi centrali come la famiglia e la natalità.
Quali sono le richieste del Forum al nuovo Governo?
La prima occasione di intervento c’è subito: c’è già una legge di bilancio che non andrebbe persa, cioè che andrebbe seguita con attenzione, perché già si possono fare delle cose belle e buone. Infatti, già in questa legge di bilancio si possono mettere più risorse a vantaggio dell’assegno unico, si possono ricalibrare le cifre avanzate per l’assegno unico – avanzate semplicemente perché molte persone non ne hanno usufruito -, dunque si potrebbe fare una rivisitazione dell’assegno unico anche tenendo conto delle difficoltà a cui le famiglie stanno andando incontro per colpa del forte aumento dell’inflazione. Non so se si possa fare già in questa legge di bilancio, ma sarebbe interessante avviare una riflessione molto seria sull’Isee, prevedendo già da subito di un Isee che tenga conto dei carichi familiari. L’Inps parlava di Isee di prestazione, cioè di una sorta di Isee che ci permetta di valutare le famiglie con figli il giusto e magari dare un peso minore alla casa di proprietà. Comprendiamo che i tempi sono risicati, ma avanziamo questa richiesta se fosse possibile già intervenire su questo problema.
Ulteriori passi necessari per migliorare la condizione delle famiglie italiane?
Per gli anni a venire il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in maniera molto chiara ha parlato di un’introduzione graduale del quoziente familiare. Quello che noi auspichiamo è che nei prossimi cinque anni si adotti il quoziente familiare alla francese, un provvedimento che tutti i governi hanno indicato come un modello da seguire; infatti, la Francia dal punto di vista della natalità è un esempio. Potrebbe essere un bellissimo segnale, molto chiaro per quanto riguarda le politiche familiari. È chiaro che per arrivare al quoziente familiare alla francese è bene mettere, anno dopo anno, più risorse a disposizione per l’assegno unico, cioè per arrivare al quoziente familiare occorre passare attraverso politiche familiari concrete, che non possono non toccare l’assegno unico, migliorandolo, e mettere dei parametri differenti per quanto riguarda l’Isee, che oggettivamente non è equo. Le famiglie non vengono considerate per il reale peso che hanno. L’Isee non offre una fotografia buona, tutte le famiglie sono contrarie, per arrivare a un’universalità dell’assegno unico, che è quello che noi auspichiamo da tempo. Se l’assegno unico dovesse, come nel modello tedesco, diventare una cifra elevata indipendentemente dal reddito delle famiglie, questo aiuterebbe.
E per invertire il calo demografico che da anni sta sempre più colpendo l’Italia?
L’assegno unico non fa ripartire la natalità, per essa è necessario un piano ad hoc. Inoltre, occorre prevedere delle risorse già nel Pnrr, dove non c’è nulla per quanto riguarda la natalità e ciò è molto negativo perché la natalità è un tema centrale. L’auspicio è che anche nel Pnrr ci possa essere una voce sulle politiche che facciano ripartire la natalità. Stiamo facendo discorsi bellissimi sull’aumento dell’assegno unico, sul quoziente familiare, ma se non aumentano le nascite restano intenzioni. Il rischio è commettere l’errore del Pnrr: investiamo negli asili nido, ma se non nascono bambini a cosa servono? L’importante è che ci sia una visione di insieme.
Sperate di vedere accolte le vostre richieste?
Tutti gli auspici che facciamo sono assolutamente bipartisan. Abbiamo fiducia perché ad esempio l’assegno unico è passato all’unanimità, mettendo d’accordo maggioranza e opposizione, nel precedente governo. L’auspicio è che si riesca a fare squadra anche questa volta. Famiglia e natalità non sono un tema divisivo, sono una questione cruciale per il bene del Paese.
Gigliola Alfaro AgenziaSIR 14 novembre 2022
www.agensir.it/italia/2022/11/14/nuovo-governo-de-palo-per-puntare-al-quoziente-familiare-occorre-incrementare-lassegno-unico-e-passare-per-politiche-concrete
Quoziente Familiare. “Via l’Isee, così le famiglie risparmiano 800 euro e il Pil cresce”
Il governo Meloni intende rivedere il sistema di tassazione delle famiglie, basandosi non più sul meccanismo dell’Isee, ma introducendo il quoziente familiare.
“Il quoziente familiare è per sua natura una misura di equità fiscale e ha un impatto, documentabile dai lavori dell’Ocse, ma non solo, che di per sé porta ad aumentare di almeno un punto percentuale di Pil la spinta ai consumi interni”. Così Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, commenta la notizia secondo cui il governo Meloni vuole rivedere il sistema di tassazione e di calcolo delle agevolazioni dell’assegno unico universale, introducendo il meccanismo del quoziente familiare al posto dell’Isee, l’indicatore della situazione socio-economica, favorendo in tal modo il contrasto alla denatalità.
In pratica, il quoziente familiare è un sistema che stabilisce le aliquote d’imposta in base al numero e alla condizione (disabilità, età, grado di parentela) dei componenti del nucleo familiare. Nel caso del sistema di quoziente familiare alla francese a ogni componente del nucleo viene attribuito un valore. Il reddito complessivo viene diviso per questo coefficiente e viene poi applicata l’aliquota corrispondente in base alle quote. Secondo una ricerca Eurispes, questo sistema comporterebbe un risparmio annuo in media di 800 euro per famiglia, favorendo soprattutto le famiglie più numerose.
Professore, il governo Meloni intende applicare il quoziente familiare al posto dell’Isee. Previsto già per il Superbonus 110%, il nuovo meccanismo dovrebbe diventare la base per i nuovi calcoli dell’Irpef. È una scelta opportuna?
L’Isee è stato finora un meccanismo attraverso cui si è individuata un’asticella per non, e sottolineo non, erogare delle prestazioni sociali. L’Isee tiene conto non solo del reddito, ma anche della proprietà dell’abitazione, e questo pone dei problemi, perché nel nostro paese il possesso della casa è pagato a caro prezzo da molte famiglie. La proprietà dell’abitazione diventa un’imposta sui sacrifici di tutte le coppie, che hanno nel tempo pagato il mutuo. È una logica che non aiuta la natalità.
Contanti/ Il limite aumenterà a 5000 euro da gennaio 2023. E il quoziente familiare?
Il quoziente familiare ha un impatto, documentabile dai lavori dell’Ocse, ma non solo, che di per sé porta ad aumentare di almeno un punto percentuale di Pil la spinta ai consumi interni.
È solo una stima o ci sono già casi in cui è visibile questo effetto?
Rispetto alla Francia, che usa il quoziente familiare da tanto tempo in modo sistematico, abbiamo questo gap di un punto di Pil, che sarebbe in questo momento ancora più benvenuto. Non è la panacea, ma un punto di Pil in più ha il suo peso.
In Italia è stato introdotto l’assegno unico. Non ha sortito la stessa spinta?
L’assegno unico è stato all’origine motivo di speranza e di apprezzamenti positivi, e lo è ancora, ma di fatto non funziona: le prestazioni sono state disapplicate perché il meccanismo è tale per cui si è creato un avanzo rispetto alle spese che era possibile erogare.
Il motivo?
Dipende dal fatto che sono le famiglie, per l’appunto con l’Isee in mano, a dover chiedere le prestazioni.
Torniamo al quoziente familiare. Dove sta la sua convenienza?
Il reddito disponibile di una famiglia viene diviso per il numero dei componenti e per ogni componente “si “decide”, su basi oggettive e quantitative, qual è la loro ponderazione. Non solo: si può anche decidere, ma questa è una scelta politica, di aumentare il denominatore per le situazioni di particolare esigenza, come le disabilità. Il quoziente familiare è un meccanismo semplice.
C’è però chi obietta che rispetto all’Isee “penalizza le famiglie povere rispetto a quelle ricche”, perché prevede “uno sconto più forte per chi è benestante”. È un rischio che si corre?
È un’obiezione facilmente superabile: per evitare che lo Stato fornisca servizi a chi non ne ha bisogno è sufficiente porre un tetto al reddito, oltre il quale i benefici del quoziente familiare si riducono e dopo una certa soglia potrebbero anche annullarsi.
E c’è chi dice che applicandolo ai redditi “scoraggerebbe anche l’occupazione femminile”. È davvero così?
No. Il problema dell’occupazione femminile è che manca il lavoro
Come andrebbe predisposto un quoziente familiare davvero equo? Bisogna intervenire sui coefficienti, sulle deduzioni, sulle detrazioni?
Chiariamo subito un punto fondamentale: il quoziente familiare è per sua natura una misura di equità fiscale, perché mette sullo stesso piano in termini di capacità contributiva famiglie di diversa composizione, e può essere modulato in particolare, ed è una sottolineatura molto importante, a favore di quelle numerose. E dico questo pensando al nostro inverno demografico.
Perché?
Si parla tanto di denatalità, ma si dimentica che i parametri demografici sono parametri medi. In Italia il tasso di fecondità è bassissimo, per di più grazie all’apporto degli immigrati, ma è una media, per cui esistono famiglie e coppie che “scelgono”, liberamente in alcuni casi e per obbligo in altri, di fermarsi dopo il primo figlio, magari per questioni legate al reddito insufficiente. Così tutta la politica economica a favore della famiglia in Italia, nonostante gli allarmi, è alquanto debole.
Esistono due modelli di calcolo: lo splitting e il quoziente familiare. Quale dei due sarebbe più adatto al nostro paese? E perché?
Decisamente meglio il quoziente familiare, perché, ripeto, se ben articolato, è più vantaggioso dello splitting. Lo splitting è legato a coloro che lavorano, mentre il quoziente familiare riguarda soprattutto le coppie in cui qualcuno non lavora. Attenzione, però: non deve essere pensato per non incentivare il lavoro, ma per poter usufruire di servizi di cui altrimenti non potrebbe godere, per esempio avere una baby sitter nel caso entrambi i genitori debbano lavorare e non ci siano i nonni disponibili ad accudire i loro nipoti.
In Italia la detrazione delle spese per l’educazione dei figli viene calcolata su importi a volte risibili. Non sarebbe il caso di renderla piena su quanto una famiglia spende dalla prima infanzia all’università?
In Francia a tutte le famiglie, con un ragionevolissimo tetto, danno un rimborso generalizzato delle spese che si ritiene debbano sostenere per mandare a scuola i propri figli. È una misura che fa parte di una politica famigliare che sia “friendly”, amichevole, come si usa dire oggi.
Che ne pensa dell’ipotesi di non tassare le spese indispensabili per il mantenimento e l’accrescimento della famiglia?
Abbiamo bisogno di un meccanismo semplice che consenta di aumentare il reddito familiare disponibile. Sa come veniva definito e misurato il salario dagli economisti classici a inizio Ottocento? Quella somma che consentiva a chi lavorava, alla moglie e ai figli di vivere dignitosamente. Ciò consentiva di avere una popolazione almeno stazionaria, non in calo, e quindi di poter mantenere la forza di lavoro del futuro.
Molti si oppongono al quoziente familiare perché ritengono che sia troppo costoso per le casse pubbliche. Dal punto di vista dei fondamentali, sarebbe una scelta che non possiamo permetterci?
Basterebbe ricordare quanto dicevo all’inizio, riferendomi a quel punto percentuale in più di consumi delle famiglie a beneficio del Pil. Famiglie che, tra l’altro, affrontano molti sacrifici se hanno più di due figli. Quello che noi non paghiamo oggi alle famiglie in termini di salario e potere d’acquisto, finiremo col pagarlo in futuro in termini di rallentamento della crescita dell’intero paese.
Marco Biscella – intervista a Luigi Campiglio 18 novembre 2022
www.ilsussidiario.net/news/quoziente-familiare-via-lisee-cosi-le-famiglie-risparmiano-800-euro-e-il-pil-cresce/2440643
FRANCESCO VESCOVO ROMA
Il consiglio del Papa: riscoprire il libro di Rut, nella meditazione sull’amore
Il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla Vecchiaia, incentra la sua riflessione sul tema: “Noemi, l’alleanza fra le generazioni che apre il futuro“. “Oggi continuiamo a riflettere sui nonni, sulla vecchiaia, i nonni sono belli. Oggi ci lasceremo ispirare dallo splendido libro di Rut, un gioiello della Bibbia. La parabola di Rut illumina la bellezza dei legami famigliari: generati dal rapporto di coppia, ma che vanno al di là del legame di coppia”, dice il Papa da Piazza San Pietro.
“Rispetto al Cantico dei Cantici, il libro di Rut è come l’altra tavola del dittico dell’amore nuziale. Altrettanto importante, altrettanto essenziale, esso celebra infatti la potenza e la poesia che devono abitare i legami di generazione, di parentela, di dedizione, di fedeltà che avvolgono l’intera costellazione famigliare. E che diventano persino capaci, nelle congiunture drammatiche della vita di coppia, di portare una forza d’amore inimmaginabile, in grado di rilanciarne la speranza e il futuro”, commenta Francesco.
“Sappiamo che i luoghi comuni sui legami di parentela creati dal matrimonio, soprattutto quello fra suocera e nuora, parlano contro questa prospettiva. Ma, appunto per questo, la parola di Dio diventa preziosa – commenta il Pontefice – L’ispirazione della fede sa aprire un orizzonte di testimonianza in controtendenza rispetto ai pregiudizi più comuni, un orizzonte prezioso per l’intera comunità umana. Vi invito a riscoprire il libro di Rut! Specialmente nella meditazione sull’amore e nella catechesi sulla famiglia”.
Il libro di Rut è l’unico libro della Bibbia dedicato interamente ed esclusivamente alla storia di una donna. È composto di soli quattro capitoli e racconta una vicenda svoltasi in un periodo di circa dodici anni. Il libro di Rut contiene anche “un prezioso insegnamento sull’alleanza delle generazioni: dove la giovinezza si rivela capace di ridare entusiasmo all’età matura, la vecchiaia s scopre capace di riaprire il futuro per la giovinezza ferita”. E tutto perché Rut “si è ostinata ad essere fedele a un legame esposto al pregiudizio etnico e religioso. Ripeto quello che ho detto, la suocera è un personaggio mitico, si pensa come una brutta figura, ma è la mamma di tuo marito. Pensiamo oggi a questo sentimento che la suocera è madre, è anziana, è una delle cose più belle di queste donne è vedere i nipotini. Guardate bene il rapporto con le vostre suocere. Ti hanno dato tutto. Almeno farle felici, si se hanno qualche difetto che si correggano, state attente alla lingua! Tutto perché l’anziana Noemi assume l’iniziativa di riaprire il futuro per Rut, invece di limitarsi a goderne il sostegno. Se i giovani si aprono alla gratitudine per ciò che hanno ricevuto e i vecchi prendono l’iniziativa di rilanciare il loro futuro, niente potrà fermare la fioritura delle benedizioni di Dio fra i popoli!”, sottolinea il Pontefice. “Mi raccomando che i giovani parlino con i vecchi e i vecchi con i giovani, c’è lì una corrente di salvezza e felicità”, conclude a braccio il Papa.
“Vorrei dirvi una cosa. Vi chiedo scusa se vi saluterò stando seduto, perché questo ginocchio non guarisce ancora e non posso stare in piedi tanto tempo. Scusatemi per questo. Grazie.”, il Papa si congeda così dai fedeli.
Veronica Giacometti ACIstampa 27 aprile 16 novembre 2022
www.acistampa.com/story/il-consiglio-del-papa-riscoprire-il-libro-di-rut-nella-meditazione-sullamore-19706
INTERRUZIONE VOLONTARIA DI GRAVIDANZA
Nel cuore del mistero dell’origine della vita. Quando si diventa persona
L’intervento del vescovo Bettazzi apparso in queste pagine sul tema dell’inizio della vita umana personale – intervento come sempre lucidissimo – apre il dibattito a una riflessione che va oltre le consuete (e convenzionali) analisi proposte dalla ricerca scientifica e dalla stessa tradizione ecclesiale. Il titolo suggestivo e significativo Posterius allude all’ipotesi che viene nell’articolo avanzata e sviluppata con rigorose argomentazioni: quella della posticipazione dell’inizio della vita umana personale rispetto alle tesi abitualmente ricorrenti. Rocca n.15-15settembre 2022 newsUcipem n. 924, 21 agosto 2022, pag.2
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202211/221111bettazzi.pdf
Per questo merita di essere fatta oggetto di una attenta considerazione e di un ulteriore approfondimento. È quanto ci si propone di fare con questo articolo che, assumendo l’ipotesi del vescovo emerito di Ivrea, si apre – come lui stesso nel finale del suo intervento sollecita a fare – a ulteriori approfondimenti, affrontando la delicata questione dell’aborto a partire da nuovi presupposti e da una nuova prospettiva interpretativa.
Un atteggiamento ispirato al senso del mistero. Va detto anzitutto, a titolo di premessa, che il momento dell’origine della vita umana personale non è mai del tutto circoscrivibile, essendo radicato nel cuore del mistero. Ha ragione, a tale proposito il vescovo Bettazzi, nel denunciare i limiti di una scienza che ha la pretesa di «tutto spiegare» e i cui risultati vengono talora considerati come assoluti. Il tema qui in esame conferma questi limiti. Le ipotesi avanzate sono più di una e si propongono ciascuna come scientificamente fondata. Si va da chi ritiene che la vita personale abbia inizio all’atto stesso della fecondazione; a chi sostiene che tale evento vada spostato in avanti di 13/14 giorni quando l’ovocellula fecondata si impianta nella cavità uterina e ha luogo un rapporto simbiotico con la figura materna; fino a chi lo fa coincidere con il formarsi del processo di cerebralizzazione (e così di seguito).
Ma Bettazzi non si accontenta della denuncia del limite. Si preoccupa soprattutto della motivazione, introducendo, al riguardo, la distinzione tra una forma di conoscenza razionale di stampo intellettualistico e calcolante – quella cartesiana cui egli stesso direttamente allude – che ha come riferimento il mondo dell’«io», e una forma di conoscenza intuitiva che ha carattere esistenziale e relazionale, e che fa riferimento il mondo del «noi». Si propone qui, sotto una veste diversa, la distinzione introdotta dall’ermeneutica tra lo «spiegare» e il «comprendere»: nel primo caso – lo spiegare – la presunzione è che tutto possa essere oggettivato e circoscritto con precisione nei suoi contorni; nel secondo – il comprendere – si fa invece strada la convinzione che la conoscenza dei processi umani a partire da quello in cui si diventa persona avviene attraverso un ampio scambio relazionale in cui si fondono orizzonti di senso differenti e che si presenta come permanentemente aperto. È qui in gioco – direbbe Gabriel Marcel – la opposizione tra «problema» e «mistero»: il primo circoscrivibile e risolvibile; il secondo mai del tutto esauribile.
Alla donna la decisione. Si ritorna così al tema iniziale, al mistero cioè delle origini della vita. Con l’aggiunta che, nell’ottica di una conoscenza intuitiva, dove la «comprensione» implica l’adesione a un modello di ragione che comporta la relazione con il «noi», acquista un ruolo del tutto particolare la donna, colei che vive in prima persona la maternità e la sua interruzione, e che è pertanto portatrice di un’esperienza singolare e irripetibile, contrassegnata da un coinvolgimento esistenziale unico che le consente di percepire in profondità il significato che la vita nascente riveste e di «sentire» (da «sentimento»), perciò non solo di «sapere», il valore che essa possiede e che non è in alcun caso racchiudibile entro schemi predefiniti.
Si apre a questo punto la riflessione sull’aborto, con un immediato risvolto di ordine etico. Se è vero quanto fin qui detto appare allora chiaro che il soggetto chiamato ultimamente a decidere della interruzione di gravidanza deve essere la donna, la quale non può peraltro che assumere tale decisione al di dentro di una rete di relazioni, che vanno dal rapporto con il marito o con il compagno laddove è possibile, fino al coinvolgimento responsabile dell’intera società. Non sono forse questi, del resto, i due pilastri sui quali si regge la legge 194\1978? La netta affermazione del principio di autodeterminazione della donna si accompagna al dovere di dare ad essa sostegno da parte della società – il passaggio attraverso il consultorio è stato voluto con questa funzione – che non può (e non deve) lasciarla sola di fronte a un evento così traumatico come l’interruzione della gravidanza.
Il discorso non si arresta tuttavia a questo punto. La questione che, a questo punto, ritorna è quella del momento a partire dal quale si può parlare di aborto. Torna qui il problema dell’inizio della vita umana personale che Bettazzi ritiene vada collocato non prima del quarto mese, dal momento cioè in cui l’individuo si stacca come corpo autonomo con la capacità di vivere e respirare autonomamente [tramite il cordone ombelicale con il sangue ossigenato che proviene dalla madre]: prima – egli osserva – si tratterebbe di sostanza destinata a divenire persona senza esserlo. Il che comporta che la soppressione della vita che si verifica nei primi mesi della gravidanza, per quanto grave, non possa essere qualificata come «omicidio».
Alcune riflessioni conclusive. Si può essere più o meno d’accordo con l’ipotesi del vescovo emerito di Ivrea (ipotesi che personalmente condivido), ma è certo che il momento di inizio della vita personale vada spostato ben in avanti rispetto all’atto della fecondazione, e che questo implichi che non si possa parlare in senso stretto di aborto se non a considerevole distanza da quell’evento. Questo comporta che nella valutazione del ricorso all’interruzione di gravidanza si debbano anzitutto privilegiare le motivazioni soggettive senza per questo venire meno all’esigenza di considerare il peso morale oggettivo dell’azione – non vi è atto umano che sia del tutto «neutrale» – che, come si è accennato, presenta sempre una certa gravità. Diverso è infatti ricorrere all’interruzione di gravidanza per superficialità o per egoismo piuttosto che ricorrervi perché si è state vittime di violenza o di stupro e si è nella condizione psicologica (qualche volta anche fisica) di rifiuto di quella maternità con ricadute talora negative anche per lo sviluppo della personalità del figlio. Il giudizio etico deve dunque essere differenziato a seconda dei casi.
Un’ultima considerazione. Tutto questo contrasta – si domanda il vescovo Bettazzi – con la dottrina tradizionale della Chiesa? La risposta non può che essere affermativa. Ma non si può (e non si deve) dimenticare che tale dottrina ha sempre risentito dei condizionamenti socioculturali e delle conoscenze scientifiche del tempo: il che spiega le diversità delle posizioni assunte nelle diverse epoche storiche a partire dalla patristica fino a quelle della Scolastica, in particolare di Tommaso D’Aquino. Perché non si dovrebbe oggi, in presenza di conoscenze scientifiche più precise e di una maggiore possibilità della rilevazione di esperienze esistenziali femminili, rivederne e ripensarne i contenuti? L’autentica tradizione cristiana non può (e non deve) essere pensata come un blocco monolitico, da trasmettere in maniera mummificata e ripetitiva; è una tradizione aperta e innovativa, costantemente in crescita, che ha (e non può che avere) come faro la fedeltà alla logica dell’incarnazione. Il coraggio di cambiare, nel pieno rispetto della sostanza evangelica, è la via da percorrere per renderla credibile e universalizzabile.
Giannino Piana “Rocca” n. 22 15 novembre 2022
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LITURGIA
Celebrare la Parola
Nelle sintesi della fase diocesana dell’itinerario sinodale ricorre con insistenza l’invito a proporre e promuovere le celebrazioni della Parola.
Dalle maggiori Chiese europee proviene una chiara affermazione della centralità della parola di Dio: «Ogni volta che ci si riunisce attorno alla parola di Dio e che si cerca insieme di comprendere, questo crea una comunità di Chiesa, anche se sono persone che non vengono mai a messa.[…] Probabilmente una base della Chiesa è la gente che si riunisce per leggere la parola di Dio» (Francia). «La parola di Dio è riconosciuta come chiave per tornare a essere credibili ed è forte il desiderio di una sua conoscenza più approfondita attraverso modalità quali Lectio divina, Liturgia della Parola, formazione biblica» (Italia).
All’affermazione della centralità della parola di Dio ne deriva, come naturale conseguenza, la domanda di una maggiore «diversificazione delle liturgie a vantaggio di celebrazioni della Parola, di tempi di preghiera che accordino un posto centrale alla meditazione delle Scritture» (Francia). Medesima richiesta si legge nella sintesi delle diocesi del Belgio: «C’è un reale auspicio per liturgie adattate, viventi, accoglienti, meglio preparate, meglio presiedute, dove ciascuno trova il suo posto e si sente coinvolto. […] Non si tratta solo di liturgie eucaristiche ma bisogna aver il coraggio di aprirsi a diverse forme di celebrazioni e di momenti comunitari».
Le chiese in Svizzera affermano: «La diversità delle celebrazioni liturgiche e di forme spirituali dev’essere incoraggiata allo scopo di raggiungere persone diverse». Ancora nella sintesi francese si legge: «Le celebrazioni della Parola potrebbero essere proposte più spesso in parrocchia. In effetti, esse permettono di riunire più ampiamente tutte le persone, indipendentemente dall’accesso al sacramento dell’eucaristia: esse sono realmente un luogo di unità. A ben guardare offrono ai laici — uomini e donne — di commentare le Scritture e la forma della preghiera può essere più libera e più spontanea».
La proposta di una maggiore diversificazione delle forme celebrative è la chiara richiesta di uscire dal monopolio della celebrazione eucaristica. Nelle sintesi, la richiesta di un ampliamento delle celebrazioni della Parola porta con sé la proposta della predicazione da parte dei laici, uomini e donne. Le Chiese in Germania così si esprimono: «Queste forme di servizio consentono una partecipazione più attiva (rispetto all’eucaristia percepita come centrata sul sacerdote). Inoltre, permettono di portare il carisma delle donne, ad esempio, nella proclamazione e nell’interpretazione delle Sacre Scritture. Queste celebrazioni liturgiche devono essere ampliate perché mantengono viva la vita di culto in luoghi dove non è più possibile la presenza di un sacerdote».
Dalle principali Chiese europee ecco l’indicazione di alcune vie da percorrere per un rinnovamento della liturgia e una sua reale efficacia nella vita dei credenti.
Goffredo Boselli “Vita Pastorale” novembre 2022
www.c3dem.it/wp-content/uploads/2022/11/celebrare-la-parola-goffredo-boselli-vita-past.pdf
MINORI
Sottrazione internazionale del minore: la Cassazione fissa i principi per accertare la residenza abituale
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 17474, 2 novembre 2022
www.marinacastellaneta.it/blog/wp-content/uploads/2022/11/sottrazione-internazionale.pdf
Ambiente sociale e familiare, rapporti con i parenti, condizioni e motivi del soggiorno di un genitore in altro Stato membro, presenza stabile sul territorio di uno Stato e soggiorno in grado di indicare “una apprezzabile integrazione del genitore in questione in un ambiente sociale” condiviso con il minore. Tenendo conto, però, della necessità di contatti regolari tra il minore e l’altro genitore.
Sono i criteri fissati dalla Corte di Cassazione, con la quale sono stati stabiliti i principi di diritto per risolvere un caso di sottrazione internazionale nello spazio Ue. La madre di un bambino aveva impugnato la decisione del Tribunale di Sassari che aveva disposto il ritorno immediato del minore, nato in Spagna da una relazione della donna con un cittadino spagnolo, dal padre. La donna, a pochi mesi dalla nascita del bimbo si era allontanata dalla Spagna, con il consenso del compagno, ed era rientrata in Italia.
Tuttavia, il Tribunale per i minorenni, su richiesta dell’Autorità centrale competente in base alla Convenzione dell’Aja del 1980, aveva disposto il ritorno del minore in Spagna dove il bimbo era nato e dove aveva vissuto per qualche mese. Una conclusione non condivisa dalla Cassazione secondo la quale i giudici di merito non avevano valutato attentamente la residenza abituale del minore tanto più che il bimbo aveva vissuto in Spagna per pochi mesi, ancor prima di aver compiuto un anno. Inoltre, per la Suprema Corte, non era stata prestata la dovuta attenzione alla circostanza che la madre aveva avuto con la Spagna un legame molto debole e che la donna era rientrata in Italia con il bambino poco dopo la sua nascita.
La Corte di merito aveva valutato elementi che, per la Cassazione, sono da considerare “neutri” poiché “conseguenti al luogo dove il minore, nei primi mesi di vita, si è trovato senza instaurare rapporti particolarmente significativi” con soggetti diversi dai genitori. La Suprema Corte ha così accolto il ricorso della donna fondato sulla violazione della Convenzione dell’Aja del 1980 e sulla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che ha interpretato la nozione di residenza abituale nell’applicazione del regolamento Ue n. 2201/2003 sulla competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e sulla responsabilità genitoriale (Bruxelles II bis, sostituito dal n. 2019/1111, applicabile alle azioni proposte dopo il 1° agosto 2022), rimettendo la questione ai giudici di merito in nuova composizione.
Castellaneta Università di Bari 4 novembre 2022
www.marinacastellaneta.it/blog/sottrazione-internazionale-del-minore-la-cassazione-fissa-i-principi-per-accertare-la-residenza-abituale.html
PAPI
Giovanni XXIII e Papa Francesco, due “Uomini dei tempi bui” Dalle principali Chiese europee ecco
Pubblicato nel 1968, il libro Men in Dark Times [1968] ha ancora qualcosa da dire ai nostri giorni. Hannah Arendt lo ha scritto molto tempo fa, è vero, e l’opera consiste in una raccolta di saggi dedicati a personaggi che hanno vissuto la maggior parte della loro vita durante la prima metà del secolo scorso, ad eccezione di Lessing.
Eppure, una luce risplende nella vita di queste persone che ci hanno preceduto: il fatto che alcuni di loro non abbiano mai perso la loro integrità nel difficile contesto in cui hanno vissuto. Questo è per noi oggi non solo un promemoria dei pericoli ideologici che ancora ci minacciano, ma anche un lievito di speranza in un’umanità che, sebbene spesso nascosta, ci incoraggia per il futuro.
Infatti, il mondo in cui Arendt ha vissuto con i personaggi la cui vita è per lei un leitmotiv della sua riflessione, si è lasciato avvelenare dalle ideologie totalitarie che hanno segnato il secolo scorso. Nel contesto che ci ha portato a due grandi guerre e a una crescente polarizzazione ideologica che è proseguita, in una certa misura, nel dopoguerra, alcuni non si sono lasciati ridurre a essere puri figli del loro tempo. Queste sono le persone che Arendt chiama «uomini dei tempi bui».
Una di queste figure è Angelo Giuseppe Roncalli (1881-1963), il semplice sacerdote il cui destino ha misteriosamente condotto alla cattedra di Pietro. Il saggio di Arendt porta come titolo l’implicita affermazione dell’autenticità cristiana del personaggio: «Angelo Giuseppe Roncalli: un cristiano sul trono di San Pietro dal 1958 al 1963». Assumendo, senza lasciarsi corrompere, il ruolo e anche il potere della sede petrina, che è proprio del peso delle istituzioni, Roncalli ha sempre conservato la sua fede e il suo stile di vita autenticamente cristiano. A questo proposito, Arendt esordisce rievocando ciò che si sentiva dire dalla gente semplice di Roma che lo aveva incontrato: «Questo Papa era veramente un cristiano. Come è possibile?».
Quando leggiamo la riflessione di Arendt su Roncalli, anche se si tratta di un protagonista degli anni Sessanta del secolo scorso, le storie, le sue parole, così come i suoi gesti, ci fanno facilmente pensare all’attuale pontificato di Francesco. Lo testimonia il fatto che neanche i violenti appelli alle dimissioni da parte di settori ultraconservatori siano riusciti a distruggere l’immagine di questo nuovo «papa buono». In questo senso, partendo dal testo di Arendt, cercheremo ora di stabilire un parallelismo tra Giovanni XXIII e papa Francesco, sia per quanto riguarda le loro persone sia per i rispettivi pontificati.
Autenticità e semplicità di vita. Dall’inizio del suo pontificato nel 1958, tutti – e non solo i cattolici, come sottolinea Arendt – sono stati piacevolmente sorpresi e toccati dai gesti e dalle parole di Giovanni XXXIII. Così pure, il documentario di Wim Wenders, Papa Francesco, un uomo di parola, mostra la stessa ammirazione per papa Francesco da parte di vari settori della società. Si tratta di due persone trasparenti, il cui stile di vita rivela una semplicità e un’autenticità che precedono, o meglio determinano, la strategia che essi potrebbero usare nel loro modo di governare. Arendt si meraviglia della disinvoltura di un papa che sa ridere e che lo fa senza pudore, così come Austen Ive-reigh descrive la vicinanza tra l’allora arcivescovo Bergoglio e la sua gente.
Lo stesso vale per il buon rapporto che i due pontefici hanno con persone di tutti gli strati sociali. Infatti, come Giovanni XXIII sviluppò un rapporto molto familiare con gli operai e i contadini del Vaticano, così sono note le immagini di papa Francesco che pranza in piena convivialità con i lavoratori dello Stato Pontificio. Pertanto, la descrizione del pontificato di Roncalli fatta da Arendt riporta prontamente la nostra immaginazione a Francesco. Stare a contatto con tutti – carcerati, peccatori, operai, giardinieri del Vaticano –, trattare tutti alla pari, compresi la figlia di Krusciov e suo marito, che Giovanni XXIIII accolse in Vaticano, non senza critiche da parte di coloro che ne furono scandalizzati: tutto ciò è molto simile al modo di essere di papa Francesco, che ha tanto colpito Wenders. Questa prossimità, questa familiarità sono in rapporto con quanto dice papa Francesco dei pastori che hanno «l’odore delle pecore». Certo, da un punto di vista cristiano, è necessaria l’intima vicinanza, la compassione del cuore per le persone. Questo è quanto ci mostra il samaritano nella parabola che Gesù racconta nel Vangelo di Luca (cfr Lc 10,25-37). Senza questa prossimità, senza questo amore, la fraternità e la solidarietà saranno vuote, perché il «servizio», come dice Francesco, «guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello».
Ed è in questa priorità della prossimità del cuore che possiamo comprendere i gesti e le parole di papa Francesco, che non possono scandalizzare di più di quelli del suo predecessore, san Giovanni XXIII. A tale proposito, vale la pena notare quanto dice Arendt di Roncalli: il suo pontificato è compreso sulla base dello stile di vita che ha assunto in quanto autentico cristiano; e dunque il mandato divino «Vieni e seguimi» precede il mantenimento delle strutture e delle regole dell’istituzione ecclesiastica, come pure la proclamazione e la fredda difesa apologetica dei dogmi. In definitiva, l’essenzialità di Roncalli si manifesta nel pontificato di Giovanni XXIII, nel senso che i suoi gesti e le sue parole rivelano più l’uomo di fede che i princìpi e le strutture di un’istituzione.
È naturale che l’imprevedibilità caratterizzi parimenti i gesti e le parole di chi è autentico. Ci sono molte storie divertenti su Giovanni XXIII. Forse non tutte si sono svolte esattamente come le si raccontano. Tuttavia, esse rivelano lo spirito di questo personaggio. Arendt ci riferisce alcuni di questi aneddoti, in particolare quello di Giovanni XXIII che passeggia nei giardini vaticani anche durante l’orario di visita a essi. E quando gli viene suggerito di non farlo, dice spontaneamente: «Ma perché non possono vedermi? Vi giuro che non mi comporterò male». Francesco ha diritto di riconoscere in Giovanni XXIII un sacerdote che esce per strada, dove incontra la gente comune di questo mondo; per lui è l’esempio di un vero pastore. Ciò che lega Francesco a Giovanni XXIII è il fatto che entrambi conservano la consapevolezza della loro umanità condivisa con i comuni mortali, anche nell’esercizio del ministero loro affidato. Così facendo, questi due papi vengono percepiti dalla gente come uomini come noi. Qui sta l’umiltà che ci tocca e che permette loro di avvicinarsi alle persone e di sensibilizzarle alle questioni di giustizia sociale e ai gesti di pietà popolare.
Roncalli e Bergoglio nei «tempi bui». Finora abbiamo considerato l’umanità di questi due personaggi. Ora è il momento di descrivere i loro «tempi bui». Nel suo libro, Arendt è interessata alle persone concrete, al modo in cui hanno vissuto in questo mondo e a come sono state influenzate dal contesto storico. L’espressione «tempi bui» è stata presa in prestito da Bertold Brecht, sebbene Arendt le dia un significato molto più ampio. Infatti, mentre per il poeta tedesco essa si riferisce a un tempo di carestia, a un’epoca di eccessiva violenza e ingiustizia, di spaventosi massacri e di catastrofi estreme, per Arendt questi «tempi bui» non si riducono alle mostruosità del XX secolo. Questi tempi, che non sono né rari né inediti nella storia umana, sono periodi bui in cui tuttavia brilla la luce, non di belle teorie e di bei concetti, ma della vita di alcuni uomini e donne, generalmente pochi, che non si sono lasciati assorbire dallo spirito del loro tempo che ha condotto l’umanità alla catastrofe. In questo senso è interessante notare un parallelismo non solo tra le personalità dei due papi in questione, ma anche dei rispettivi contesti storici. Si tratta dei tempi bui di cui essi sono la luce? La verità è che Roncalli ha vissuto l’Olocausto, la Seconda guerra mondiale e la crisi dei missili di Cuba, mentre Francesco gli succede adesso come primo papa del dopoguerra che assiste a una nuova invasione militare di un Paese sul suolo europeo.
Pertanto, ora vogliamo esaminare come entrambi abbiano affrontato le difficoltà del loro tempo. Da parte sua, Roncalli, in qualità di nunzio apostolico in Turchia, si dimostrò franco con l’ambasciatore tedesco, Franz von Papen, rifiutando di collaborare con il corpo diplomatico vaticano per sostenere il Reich. Agendo per salvare il maggior numero possibile di vite di ebrei minacciati, era aperto al dialogo (da non confondere con le concessioni) con tutti. In seguito, come pontefice di Roma, egli accolse, durante una breve udienza, rappresentanti della Russia comunista e impartì loro anche una benedizione. L’indicazione di questa udienza come «molto polemica» ci rimanda a molti episodi dell’attuale pontificato. Pensiamo, ad esempio, all’incontro tra Francesco e Nancy Pelosi, una politica statunitense che difende il diritto all’aborto. Per papa Francesco, come per Giovanni XXIII, non si tratta di cambiare idea sui princìpi della morale cristiana, ma semplicemente di compiere gesti di misericordia, capaci di mettere in moto processi di cui non sta a noi determinare la conclusione. L’espressione utilizzata da p. Antonio Spadaro di una «diplomazia della misericordia» è pertinente per comprendere non solo l’attuale pontificato, ma anche lo stile del riformatore che ha convocato l’ultimo Concilio ecumenico.
Il magistero di Giovanni XXIII e quello di Francesco. A questo riguardo, possiamo stabilire un parallelismo tra due encicliche che sono simbolo dei due pontificati: Pacem in terris (PT, 1963) e Fratelli tutti (FT, 2020). Entrambi i testi sono stati scritti in un mondo minacciato da crisi di varia natura, compresa la possibilità di una guerra tra blocchi ideologicamente separati in una polarità crescente. I due autori vengono criticati, da alcuni settori della Chiesa stessa, per non aver esplicitato in esse la necessità del battesimo e della conversione per la salvezza delle anime. Ora, è vero che in queste due encicliche non sembra esserci tale preoccupazione per la salvezza finale, ma si tratta piuttosto di determinare come debbano vivere e agire, hic et nunc, coloro che hanno adottato il cristianesimo come stile di vita. In questo modo si promuove la cultura del dialogo e dell’incontro a scapito della cultura della violenza e della frammentazione. Così le due encicliche papali convergono in questo umanesimo cristiano. Anche se le preoccupazioni ambientali ed ecologiche non erano ancora presenti nel magistero di Giovanni XXIII, è impossibile non rimanere sorpresi dai molti punti in comune che ci sono tra i due documenti. Se Giovanni XXIII considera «con profonda amarezza il fenomeno dei profughi politici», difendendo i loro diritti e la loro dignità di persone umane, mentre fa appello ai princìpi della «solidarietà umana e dell’amore cristiano», l’enciclica di Francesco potrebbe perfettamente utilizzare queste stesse espressioni. In effetti, le parole di Giovanni XXIII sono riaffermate dalle proposte che Francesco elenca in FT, ovvero: «incrementare e semplificare la concessione di visti; adottare programmi di patrocinio privato e comunitario; aprire corridoi umanitari per i rifugiati più vulnerabili; offrire un alloggio adeguato e decoroso; garantire la sicurezza personale e l’accesso ai servizi essenziali; assicurare un’adeguata assistenza consolare, il diritto ad avere sempre con sé i documenti personali di identità, un accesso imparziale alla giustizia, la possibilità di aprire conti bancari e la garanzia del necessario per la sussistenza vitale; dare loro libertà di movimento e possibilità di lavorare; proteggere i minorenni e assicurare ad essi l’accesso regolare all’educazione; prevedere programmi di custodia temporanea o di accoglienza; garantire la libertà religiosa; promuovere il loro inserimento sociale; favorire il ricongiungimento familiare e preparare le comunità locali ai processi di integrazione» (FT 130).
Le espressioni di «fraternità universale» e «amicizia sociale» di Francesco fanno eco alla «solidarietà umana» di cui parlava papa Giovanni e al sogno di una «vera comunità fraterna», capace di riunire «tutti i popoli della terra», a cui egli aspirava. A tale proposito, è opportuno ricordare le parole del suo predecessore Pio XII, per il quale «non nella rivoluzione, ma in una evoluzione concordata sta la salvezza e la giustizia. La violenza non ha mai fatto altro che abbattere, non innalzare; accendere le passioni, non calmarle; accumulare odio e rovine, non affratellare i contendenti; e ha precipitato gli uomini e i partiti nella dura necessità di ricostruire lentamente, dopo prove dolorose, sopra i ruderi della discordia».
Queste parole erano chiaramente pertinenti nel contesto di un mondo segnato dal blocco sovietico e dall’orizzonte marxista. In ogni caso, il principio che opera nella logica di Giovanni XXIII è molto simile a quello di Francesco. Si tratta di iniziare con gesti di misericordia il cammino verso la fraternità universale: un cammino difficile e progressivo, che non abbandoniamo grazie alla speranza insita alla nostra fede cristiana. Per questo le proposte di Giovanni XXIII, così come quelle di papa Francesco, non si riducono affatto a sogni ingenui o a slogan velleitari di adolescenti. In quanto emergono dall’autentica vita cristiana, sono le proposte di chi si sente misticamente legato a tutti gli esseri umani, anzi a tutte le creature attraverso la relazione con il nostro Padre comune. Infatti, la promozione della pace e della collaborazione di tutti per il bene comune, a cui Francesco e Giovanni XXIII fanno esplicito riferimento, non si riducono a una semplice strategia politica che diluisce l’essenziale della dottrina cristiana. Si tratta di una mistica cristiana, secondo cui ci si prende cura del prossimo e del creato non per puro dovere etico. Attraverso la fraternità che scaturisce dal cuore, la cura del fratello o della sorella va ben oltre la morale: si traduce in un’azione che rispecchia i nostri desideri più profondi e ci consente di realizzarci come persone che vivono autenticamente il cristianesimo.
Il dialogo sincero appare dunque come un processo in cui si concretizza la cultura dell’incontro. In tale processo, il desiderio di incontrare gli altri, nelle loro differenze, va ben oltre il semplice fatto di rispettarli con tolleranza. Finché sarà possibile tollerare l’altro nell’indifferenza pietrificante, nel suo modo di vivere e nelle sue convinzioni, l’incontro fraterno non avrà mai luogo in questo mondo, perché la fraternità esiste solo quando si prova «stima» per l’altro che si rivela davanti a noi come figlio di Dio. Per questo la «fraternità universale» ha bisogno dell’«amicizia sociale». Altrimenti rischierebbe di essere ridotta a un ideale astratto, freddamente perseguito sulla base dei princìpi di sistemi impersonali, dove l’affetto della vicinanza non potrebbe mai diventare un evento concreto. Anche quando il contesto della pandemia ci ha costretti a stabilire una distanza fisica per proteggere i più vulnerabili, papa Francesco ha tenuto a sottolineare che questa necessità dimostra quanto siamo legati agli altri: le mie scelte influenzano la vita degli altri. Ecco perché una morale individualista non può mai essere fondata: perché siamo intrinsecamente legati gli uni agli altri, siamo nati in relazione e per rimanere in «contatto» con gli altri. Papa Francesco condivide quindi con Giovanni XXIII questo realismo umano della prossimità affettiva e dell’autenticità di vita. È sulla base di tale realismo che possiamo comprendere ciò che entrambi dicono sulla guerra e sul disarmo. Non si tratta affatto di un idealismo astratto e inefficace, ma di una continuazione concreta dell’esempio di Gesù.
A questo proposito, si noti come Giovanni XXIII abbia invocato il disarmo durante la «guerra fredda», subito dopo la difficile crisi dei missili di Cuba, mentre Francesco ha criticato la nozione di «guerra giusta» in un mondo le cui tensioni ci hanno condotto a una nuova guerra sul suolo europeo. Papa Giovanni non solo fa appello all’«effettiva riduzione degli armamenti», ma si azzarda perfino a chiedere «la loro eliminazione». La sua logica, o meglio la cristologia che egli segue, è semplice: nella misura in cui tale eliminazione rimane per sempre irrealizzabile finché non si raggiungono «gli spiriti», è consigliabile «dissolvere la psicosi bellica». Così, invece di cercare di stabilire una sorta di pax romana, basata «sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia». Questo è ciò che riappare nel magistero di Francesco, in esplicito riferimento al Papa che ha convocato il Concilio Vaticano II: «Come diceva san Giovanni XXIII, “riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”. Lo affermava in un periodo di forte tensione internazionale, e così diede voce al grande anelito alla pace che si diffondeva ai tempi della guerra fredda. Rafforzò la convinzione che le ragioni della pace sono più forti di ogni calcolo di interessi particolari e di ogni fiducia posta nell’uso delle armi. Però non si colsero pienamente le occasioni offerte dalla fine della guerra fredda, per la mancanza di una visione del futuro e di una consapevolezza condivisa circa il nostro destino comune. Invece si cedette alla ricerca di interessi particolari senza farsi carico del bene comune universale. Così si è fatto di nuovo strada l’ingannevole fantasma della guerra» (FT 260).
Queste parole, come i gesti di papa Francesco che a volte ci sorprendono o scandalizzano, possono essere comprese solo come l’ispirazione di un vero discepolo di Cristo. Questo è ciò che Arendt riconosce in relazione a Roncalli: voleva solo che fosse fatta la volontà di Dio suo Padre, in terra come in cielo .Non si tratta in prima istanza di una semplice strategia politica, ma di una politica che nasce da una mistica cristiana.
La conversione come liberazione dalle ideologie. Solo questa mistica rende intelligibili i gesti e le parole di Giovanni XXIII e di papa Francesco. Come fa notare Arendt a proposito di Giovanni XXIII, questo pontefice si è sempre preoccupato di seguire l’esempio di Gesù. In ogni circostanza egli incarnava il Vangelo nella sua vita, andando al di là delle convenzioni e dei costumi, a volte mettendo da parte i protocolli e le regole istituzionali. È quanto è successo quando ha incontrato un entourage di comunisti russi, che ha benedetto nel contesto degli anni Sessanta del XX secolo. Lo stesso vale per le persone al di fuori della Chiesa con cui si incontra Francesco. Se, nel contesto della «guerra fredda», papa Giovanni ha saputo accogliere e dialogare con i comunisti sovietici senza rinnegare la sua fede cristiana, oggi Francesco cerca di costruire ponti con diverse persone che, in linea di principio, sembrano essere al di fuori, perfino contrasto con la Chiesa. Consideriamo, ad esempio, l’incontro con il grande Imam Ahmad al-Tayyeb nel 2019. In un mondo, come quello di oggi, in cui un incontro pacifico e dialogico a volte sembra impossibile a causa della crescente polarizzazione ideologica, il documento che Francesco ha firmato con il leader musulmano, così come il gesto di abbraccio amichevole che essi hanno compiuto, possono sorprendere, persino scioccare, soprattutto i fedeli delle due religioni. Perché l’incontro armonioso tra persone di fedi o opinioni diverse appartiene oggi a una controcultura. Questo è dunque l’atteggiamento del Papa che si differenzia dall’aggressività presente nei dibattiti attuali estremamente polarizzati.
Ora, fedele alla più pura tradizione cristiana, papa Francesco ha abbracciato Ahmad al-Tayyeb, che lo ha accolto ad Abu Dhabi 800 anni dopo che il Poverello di Assisi aveva scelto, in un mondo segnato da crociate e guerre di religione, di incontrarsi pacificamente con il sultano Malik Al Kamil. Invece della violenza, san Francesco ha scelto il dialogo. Invece del potere e della forza del mondo, il Poverello ha scelto la povertà del Vangelo. Invece di cercare una vittoria mondana, ha abbracciato la croce e la sua logica. Certo, agli occhi del mondo, la sua missione è stata probabilmente un fallimento. Perché, in definitiva, anche dopo aver ricevuto la proclamazione autentica di uno dei più grandi santi ed evangelizzatori che la Chiesa abbia mai conosciuto, il sultano è rimasto musulmano. Secondo il Papa, questo episodio non fa che rispecchiare, nel concreto della vita, le parole che il santo d’Assisi ha lasciato per iscritto. Ha affermato Francesco: «Mi piace citare san Francesco, quando dà istruzioni ai frati su come avvicinarsi a saraceni e non cristiani. Ha scritto: “Che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani” (Regola non bollata, XVI)»[31]. San Francesco non è preoccupato di conquistare il mondo o di preservare la fede del suo gruppo. Più che cercare di convincere gli altri, il suo atteggiamento nasce da una visione soprannaturale del Vangelo, l’unica che ci permette di comprendere e vivere la croce.
Invece di iniziare dal voler convertire i diversi, Francesco ha vissuto l’esperienza di un Dio accogliente, un Dio che ama fino a offrire la propria vita. Chi sperimenta questo Dio accoglie l’altro e fa del diverso il suo prossimo. Si tratta di vivere a partire dall’incontro con Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Chi diventa discepolo desidera un incontro libero con gli altri. Solo così possiamo comprendere l’atteggiamento di papa Francesco. Si tratta, molto semplicemente, di evangelizzare alla maniera di Gesù e dei grandi santi che lo hanno seguito. Per quanto paradossale possa sembrare, qui non c’è strategia, anche se è questo atteggiamento che trasforma o converte veramente il mondo, l’altro e ciascuno di noi a Dio. Più che una strategia, Francesco cerca di vivere le beatitudini del Vangelo, che proclamano «beati i miti» (Mt 5,5). Il papa commenta questo passo di Matteo affermando che «non è beato chi aggredisce o sopraffà, ma chi mantiene il comportamento di Gesù che ci ha salvato: mite anche di fronte ai suoi accusatori».
È un modo di essere che riconcilia con sé stessi, con la propria vita e, naturalmente, con Dio, con il mondo e con gli altri. Quale libertà è dunque necessaria per compiere tali gesti? Arendt, commentando le parole che Giovanni XXIII ha lasciato nel suo diario spirituale, individua in questo papa un uomo profondamente libero, fino al punto di essere disponibile a distaccarsi da tutte le cose di questo mondo, siano esse i beni materiali o il potere, il prestigio dei titoli o la buona reputazione. Pertanto, siamo di fronte a un profeta, non di quelli che predicono aspettative, il futuro secondo le proprie aspettative, ma di quelli che si trovano disponibili a compiere la volontà di Colui che dà loro la vita. È questa libertà che permette a papa Francesco, nel bel mezzo della guerra in Ucraina, di criticare il patriarca Kirill per il suo sostegno a Putin, pur prendendo le distanze dal crescente bellicismo della Nato. È la stessa libertà interiore che gli permette di dialogare, con un approccio pastorale, con i politici che promuovono il diritto legale all’aborto, pur condannandolo fermamente. Con questa libertà, egli è in grado di vedere e denunciare i problemi del nostro mondo: dalla questione dei migranti e dei rifugiati alle crisi ambientali, senza dimenticare il crescente disinteresse e abbandono degli anziani. Quanto a Giovanni XXIII, constatiamo la stessa libertà di parola, per la quale egli ha avuto innumerevoli difficoltà, secondo l’espressione di Arendt, «con Roma»[38], cioè con l’istituzione.
Fondamentalmente si tratta di distaccarsi dalle ideologie, a favore di un dialogo fruttuoso con tutte le persone. Crediamo che, come la Chiesa ha sempre bisogno di essere riformata–Ecclesia semper reformanda –, così la conversione a cui siamo chiamati, oggi più che mai, consista in una conversione del cuore, per renderlo mite e libero dal fondamentalismo ideologico che ci polarizza e ci allontana gli uni dagli altri, frammentando sempre più la società in diverse barricate o cittadelle.
Questo è stato l’approccio di Giovanni XXIII, e lo è anche di papa Francesco. A tale proposito, è interessante notare quanto Arendt osserva ne Il giornale dell’anima di Giovanni XXIII, le cui pagine testimoniano la sua fede: l’idea di convocare un nuovo Concilio gli è venuta nel contesto della preghiera; egli non aveva nulla di premeditato o pianificato, e quindi non poteva prevedere quale sarebbe stato il risultato di un evento del genere. Anche sotto questo aspetto, egli era libero.
In sostanza, la riforma inizia innescando un processo in cui persone diverse si uniscono in una cultura del dialogo. È quello che ha fatto Giovanni XXIII con il Concilio ecumenico, con il Sinodo diocesano da lui convocato, e con la sua dichiarazione di voler rivedere il Codice di diritto canonico. Non è forse quello che sta facendo anche papa Francesco con il Sinodo sulla sinodalità (2021-23)? Infatti, nell’omelia di apertura di questo processo sinodale, Francesco, commentando l’episodio evangelico del giovane ricco (cfr Mc 10,17-22), ha descritto le caratteristiche dell’approccio di Gesù. In primo luogo, c’è l’incontro libero, in cui Gesù lascia parlare l’altro: si tratta di ascoltare. Poi viene il processo di discernimento, come un cammino che si fa insieme con gli altri. Il Papa afferma che «fare Sinodo significa camminare sulla stessa strada, camminare insieme. Guardiamo a Gesù, che sulla strada dapprima incontra l’uomo ricco, poi ascolta le sue domande e infine lo aiuta a discernere che cosa fare per avere la vita eterna. Incontrare, ascoltare, discernere: tre verbi del Sinodo su cui vorrei soffermarmi».
Per tornare al testo di Arendt su Roncalli, mettiamo in risalto l’affermazione lapidaria che il «papa buono» non era mosso né da teorie, né da protocolli, né da convenzioni, ma solo da una fede concretamente vissuta. E alla sua libertà si unisce la sua umiltà, dice Arendt. Potremmo dire la stessa cosa nel contesto attuale riguardo a Francesco? Sì, a patto che la chiamata alla conversione venga intesa come distacco da teorie chiuse e cristallizzate nel tempo, per meglio incarnare lo stile di Gesù che invita sempre all’accoglienza e all’ascolto. In questo senso, sia Giovanni XXIII sia papa Francesco non solo si allontanano dalla tendenza che caratterizza molti uomini e donne del nostro tempo: quella di un fanatismo ideologico che, nella sua isteria e violenza, impedisce l’incontro pacifico tra persone diverse, così come il bene comune. Inoltre, i due papi sono agli antipodi di un Eichmann, il quale, secondo Arendt, ha agito senza convinzione, senza riflessione, aderendo passivamente al sistema perverso e banalizzando così il male.
Conclusione. In questo articolo abbiamo cercato di mostrare come molto di ciò che Arendt dice di Roncalli ci rimanda facilmente a papa Francesco. Che si tratti della loro spontaneità, della loro maniera informale di rivolgersi a tutti allo stesso modo, della loro determinazione per la pace o della loro libertà di pensiero, che hanno suscitato critiche da diversi schieramenti politici, questi due personaggi si assomigliano per molti aspetti. In occasione della canonizzazione dei beati Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, Francesco ha detto che papa Giovanni «nella convocazione del Concilio ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo», si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guida-guidata, guidata dallo Spirito». Così ha reso un «grande servizio» alla Chiesa.
Si tratta della docilità dei beati che ricevono la grazia della pace, di essere strumenti di pace. La grazia che Francesco d’Assisi ha ricevuto e che l’attuale papa chiede costantemente: «Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace», perché vengono proclamati «beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). La grazia richiesta in questa preghiera di san Francesco contrasta con molte posizioni intransigenti che tendono a caratterizzare i dibattiti nelle nostre società moderne (e anche all’interno delle stesse comunità ecclesiali), sempre più frammentate.
Giovanni XXIII e papa Francesco ci mostrano la strada che si apre quando permettiamo al Vangelo di plasmare la nostra vita. Il loro esempio rivela il paradosso per cui dobbiamo rimanere moderati per seguire Gesù in modo radicale. Nel mondo polarizzato di oggi, questa moderazione è tanto radicale quanto necessaria.
Andreas Gonçalves Lind La civiltà cattolica Quaderno 4136, pag. 154 – 169, 15 ottobre 2022
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PASTORALE
La “follia” della pastorale
Si attribuisce ad Albert Einstein un’osservazione tanto elementare quanto illuminante circa il ritmo delle cose del mondo, che ben si adatta a delineare sinteticamente lo scenario della Chiesa attuale; in particolare, quello legato al contesto occidentale. L’osservazione è la seguente: «Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare sempre le stesse cose». A pensarci bene è proprio così: sperare di ottenere risultati diversi, mettendo all’opera sempre i medesimi meccanismi, alla fine dei conti, altro non è se non una pura pretesa o, per essere ancora più precisi, un’autentica forma di follia. Unicamente chi è afferrato da una sorta di follia può, in verità, immaginare di annunciare per la successiva stagione la vendita di fagioli (i risultati nuovi), mentre getta nella terra del suo campo la sementa dei piselli (le azioni di sempre)’.
Eppure, a malincuore certo, non possiamo non riconoscere in atto una vera e propria “follia” da parte di numerosi operatori pastorali. Il caso più clamoroso riguarda l’amministrazione dei sacramenti, autentici autogol del sistema ecclesiale contemporaneo. Più che rappresentare il compimento di un cammino di crescita all’interno dell’esperienza credente, sono diventati da troppo tempo, nella stragrande maggioranza dei casi, la celebrazione pubblica dell’avvio di un cammino al di fuori della vita ecclesiale, sino a quel punto in qualche misura frequentata da coloro che si preparavano al sacramento, fosse anche solo per partecipare agli incontri preparatori. Tutti sanno, per esempio, ciò che capita con l’amministrazione della cresima, e cioè che è proprio con essa che viene sancita ufficialmente la rottura tra le nuove generazioni e la Chiesa, eppure niente di sostanziale è cambiato negli ultimi anni al riguardo, tranne forse la convinzione sempre più affievolitasi nel tempo con cui si annunciava ed ancora si annuncia di volere cambiare qualcosa. Nel frattempo, si continua ad amministrare questo sistema fallimentare, sperando sempre in risultati diversi: che cioè con la cresima si possa celebrare l’ingresso dei ragazzi nel mondo dei credenti adulti.
Qualcosa di analogo lo si potrebbe dire, e lo si dice ancora più amaramente, del modo in cui viene celebrata l’eucaristia domenicale: coloro che la frequentano sono sempre di meno e in genere sempre più vecchi, così come sempre di meno sono le attenzioni che la comunità rivolge verso questo momento centrale della vita credente (si pensi che, in alcuni luoghi, si continuano a prevedere sino a quattro eucaristie domenicali, mentre i partecipanti per ogni Messa continuano a diminuire vistosamente) e sempre più vecchi sono i canti che vengono eseguiti, quando pure vengono eseguiti. Si ripete certo e con corretta convinzione che l’eucaristia della domenica è il cuore della vita di fede e che tutto deve avere in essa il suo inizio e il suo compimento; si desidererebbe pure che a queste parole corrispondesse almeno qualcosa nella realtà, eppure ciò che si compie perché le parole diventino realtà è quasi sempre e solo ripetere ciò che ha portato a fare in modo che la realtà si allontanasse sempre di più dalle convinzioni di fede a riguardo dell’eucaristia domenicale: stessi orari, stessi canti (quando ci sono), stessa preparazione, stesso stile omiletico; insomma, stessa inaudita pretesa che le cose vadano diversamente, pur facendo le cose di cinquanta o sessant’anni fa.
Gli esempi di una tale “follia” della pastorale, nel senso prima richiamato di sperare in risultati differenti con il mettere in atto i medesimi meccanismi, potrebbero ovviamente moltiplicarsi. Il punto delicato della questione è ora che, sotto queste condizioni, non si annuncia certo un buon futuro per la Chiesa. Il fossato sempre più largo, che la comunità dei credenti deve registrare tra il suo universo e quello delle nuove generazioni, da una parte, e quello non meno ampio delle donne che transitano verso la maturità dall’altra (giusto per citare i “casi seri” della pastorale degli ultimi decenni), dovrebbe pur costituire, per gli operatori pastorali, quella pietra d’inciampo in grado di far aprire gli occhi sulla strana follia che sembra dominare il loro agire. E dovrebbe portarli ad un’irrecusabile evidenza: la “mentalità pastorale” che governa la vita spicciola delle parrocchie non è più all’altezza della situazione. Per risultati diversi, occorrono azioni diverse; per azioni diverse, occorre una mentalità diversa. Ma le cose non sempre procedono così. Basti pensare, per un momento, alla timidezza con cui la questione dell’irrilevanza della fede per le nuove generazioni è stata affrontata nel Sinodo dei Vescovi celebrato nell’ottobre del 2018.
In ogni caso, è proprio nella direzione del necessario rinnovamento della mentalità pastorale che, sin dai suoi primi passi, si muove coraggiosamente il magistero di papa Francesco. Intervenendo autorevolmente al Congresso Internazionale della pastorale delle grandi città, nel novembre del 2014, egli ha affermato che la prima e forse più difficile sfida che oggi ha davanti a sé la comunità cristiana è quella di «attuare un cambiamento di mentalità pastorale». E con forza ha esclamato: «Si deve cambiare!» . Si tratta, del resto, di un atteggiamento del tutto coerente con il suo sguardo sulla realtà. Da tempo, in verità, egli invita i credenti a prendere atto che essi non si trovano davanti ad un’epoca di cambiamento quanto ad un vero e radicale cambiamento d’epoca; al quale non può che corrispondere un altrettanto vero e radicale cambiamento di mentalità pastorale. Insomma, non solo dal basso della realtà delle cose, ma anche dall’alto del magistero petrino giunge un chiaro segnale ai responsabili locali della pastorale. Devono prendere atto che, il nostro, è tempo di smettere di credere nell’assurdo di poter ottenere risultati differenti – pensiamo qui solo ad una rinnovata presenza e ad un rinnovato protagonismo ecclesiale delle nuove generazioni oppure ad eucaristie domenicali capaci di segnare il tempo e lo spazio delle comunità che le celebrano – portando avanti le cose che si sono sempre fatte. Per un futuro possibile della Chiesa, almeno in Occidente, vi è dunque in gioco un necessario mutamento della mentalità pastorale, del modo cioè con cui si organizza complessivamente la sua vita e il suo operato in un tempo e in un luogo: e dunque in questo tempo e in questo luogo. Al riguardo non c’è che da ripetere le parole del pontefice: si deve cambiare.
Il presente saggio intende lavorare esplicitamente lungo tale fronte. Il suo punto di forza e di luce sta nell’individuazione del radicale mutamento della condizione ordinaria di vita degli adulti – e dunque della metamorfosi cui è stato sottoposto l’immaginario stesso dell’essere adulto: saranno questi i luoghi di elaborazione di una nuova mentalità pastorale all’altezza del tempo che ci è dato vivere, in quanto sono questi i luoghi che mettono fuori corso la mentalità pastorale sin qui praticata. Il contesto nel quale i cristiani si trovano a testimoniare la loro fede, infatti, non presta più alcuna fiducia ad un’antropologia della crescita, della maturazione, del diventare grandi e adulti. Le nuove coordinate economiche, i progressi della medicina e della farmaceutica, l’emancipazione e le numerose conquiste culturali e sociali delle donne, degli omosessuali e di tutti i gruppi emarginati, senza dimenticare l’incredibile longevità maschile, rendono le attuali generazioni adulte le prime veramente innamorate di questa terra. Per loro la Salve Regina, con le sue lacrime, il suo esilio, i suoi gemiti [orsù]è forse ormai solo una pia citazione; ed un certo cristianesimo, tutto legato all’angoscia di morte, all’imitazione della pazienza del Cristo sofferente e della Vergine sempre obbediente, alla necessità del contenimento della frustrazione e al ricorso permanente al senso di colpa, per suscitare sentimenti di responsabilità e di debito nei confronti di Dio, della Chiesa e della società, è d’un colpo diventato semplicemente irreale.
Il punto è che davvero si è davanti ad una totale trasvalutazione dei valori fondanti e fondamentali dell’esistenza umana. Al posto di un’antropologia che assegnava all’adulto il pieno compimento dell’umano, si è imposta ciò che in modo pertinente papa Francesco ha chiamato “adorazione della giovinezza”. L’umano giovane è oggi l’unico modello e il modello unico di ogni vita pienamente desiderabile. Viene così alla luce un’antropologia giovane, “anti-age”, leggera, potente, innocente, facilmente e costantemente riscrivibile, che è sempre più esaltante e che giorno dopo giorno conquista il cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Certamente, come ogni cosa umana, tale antropologia della giovinezza non è priva di effetti collaterali e di costi, che incidono particolarmente sulle nuove generazioni. Lì dove, infatti, tutti desiderano restare giovani per sempre, i giovani veri – cioè i ventenni e i trentenni – sono letteralmente fatti fuori. Così come non è priva di effetti discutibili per gli stessi adulti: si pensi solo alla forza di persuasione che presso di loro possiede la pubblicità, che li spinge a credere per esempio nell’esistenza di prodotti in grado di fermare la perdita dei capelli e di conseguenza a spendere imbecillemente una notevole quantità di denaro, quando è a tutti noto che l’unica realtà davvero in grado di arrestare la caduta dei capelli è il pavimento! E ciò è solo un piccolo sintomo di quella economia dell’imbecillità che oggi governa parecchie cose nell’esistenza di colui che pure fu homo sapiens sapiens prima di diventare homo iuvenis iuvenis!
In ogni caso è questo il cambiamento d’epoca con il quale si debbono fare i conti: gli adulti non vogliono crescere e i giovani non possono crescere; gli adulti si rimbecilliscono e i giovani si deprimono. Per corrispondere ad esso, questo saggio propone ai credenti una “rivoluzione copernicana” della mentalità pastorale: dall’impegno indirizzato ad accompagnare le nuove generazioni ad entrare in quella che fu la “porta stretta” della condizione adulta, cui proprio la religione cristiana offriva parole di incoraggiamento e di consolazione, ad un lavoro in cui accompagnare tutti (bambini, giovani, adulti ed anche qualche anziano) ad incrociarsi con Gesù – l’uomo della gioia e la gioia dell’uomo. La proposta è dunque, in estrema sintesi, quella di passare da un cristianesimo della consolazione ad un cristianesimo dell’innamoramento: grazie al quale cioè ci si possa innamorare di Gesù e diventare cristiani.
Un tale passaggio si raccomanda, inoltre, anche al fine di riscoprire l’avventura e la pienezza che possono scaturire solo da un’esistenza pienamente donata alla felicità altrui; e dunque allo scopo di dare nuovo credito al processo di umanizzazione legato all’accesso alla condizione adulta dell’esistenza, pur sotto le mutate condizioni socioeconomiche prima citate. C’è, infatti, una segreta bellezza dell’essere adulto che deve essere “salvata” ad ogni costo, per non perdere l’umanità dell’umano. L’adulto è uno che conosce le fatiche del vivere e pure non smette di credere nelle risorse della vita e di testimoniare tale fiducia alle generazioni che vengono al mondo. Ed una tale bellezza necessaria dell’essere adulto viene proprio da Gesù pienamente disvelata e portata a compimento: nessuno è stato più umano di lui, perché nessuno è stato più adulto di lui. Cioè più donato alla felicità altrui e più credente nella vita fin dentro la morte.
Si tratta, allora, di prendere atto della necessità di passare da una Chiesa che, tramite i suoi riti e le sue promesse, dà luce alla vita (ancora supposta dura) degli adulti ad una Chiesa che dà alla luce gli adulti che oggi servono grazie all’incontro con Cristo; quegli adulti che oggi servono alla vita buona delle nuove generazioni e più in generale del mondo intero.
È finito, perciò, il tempo di riflettere sul futuro della Chiesa, è tempo di mettere mano alla Chiesa del futuro.
Armando Matteo introduzione a
PASTORALE 4.0 – Eclissi dell’adulto e trasmissione della fede alle nuove generazioni (Ancora 2020)
www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=15814:la-follia-della-pastorale&catid=477&Itemid=1129
La follia pastorale
Vi è una frase attribuita a Einstein che può felicemente illuminare un passaggio centrale dell’Opzione Francesco. La frase è la seguente: «È follia immaginare di ottenere risultati differenti, mettendo all’opera sempre le stesse cose».
Ecco, a me pare di dover dolorosamente registrare una sorta di «follia pastorale» in atto nelle nostre comunità. Pur essendo, ad esempio, perfettamente consapevoli dei risultati fallimentari di un certo modo di organizzare l’iniziazione cristiana dei nostri piccoli, tantissimi parroci e tantissime catechiste continuano a portare avanti esattamente quel modo di organizzare le cose. Non è, forse, vero che tutti sanno cosa succede con i bambini della prima comunione la domenica successiva alla celebrazione di quel sacramento? Semplicemente scompaiono.
Non è altresì vero che tutti ancora sanno cosa succede con i ragazzi e le ragazze della cresima la domenica successiva al giorno della loro confermazione? Semplicemente dimenticano l’indirizzo della parrocchia. Eppure, nulla viene cambiato in riferimento alla preparazione offerta per la prima comunione e per la cresima. E questo è ciò che io chiamo «follia pastorale».
Si tratta ora di una «follia» rispetto alla quale proprio l’Opzione Francesco ci mette in guardia e ci invita a prendere le distanze. Chissà quante volte, infatti, ciascuno di noi avrà sentito ripetere dalla viva voce di papa Francesco che non possiamo più avvalerci della sicurezza che ci offre l’idea del «si è sempre fatto così». Nell’ambito dell’evangelizzazione non ci si può mai rifare a quel tipo di ragionamento. Oggi in modo particolare.
Desiderio. L’evangelizzazione di cui c’è bisogno consiste, infatti, proprio nel far sorgere un desiderio di Gesù nel cuore degli uomini e delle donne a noi contemporanei, i quali sono assai differenti dai loro genitori ed ancora di più dai loro nonni. In particolare pesa poi, nel considerare la disponibilità dei nostri contemporanei alla possibilità di un far nascere in loro un desiderio di Vangelo, proprio quel cambiamento d’epoca già analizzato (qui) che ha portato l’Occidente dalla valle di lacrime dei secoli passati alle terre del benessere del nostro tempo.
Fare ora nostra l’Opzione Francesco implica recuperare tutta la plasticità propria dell’agire pastorale. «Pastorale», del resto, ha a che fare con il pasto e, dunque, con l’appetito. Mettere in moto un agire pastorale efficace significa lavorare affinché la testimonianza dei credenti mostri «l’appetibilità» del Vangelo per una vita riuscita e compiuta esattamente agli uomini e alle donne di oggi. I quali esprimono una presenza al mondo milioni di volte differente rispetto a quella che ha contraddistinto i loro genitori e i loro nonni.
Francesco ci esorta, allora, a non avere paura di cambiare: a non avere paura di cambiare la nostra azione pastorale, a non fissarci follemente su quella che risultò efficacissima per le generazioni passate, a trovare gesti e stile di una presenza cristiana che dica ai nostri contemporanei – adulti o giovani che siano – che non c’è nulla di più desiderabile che incontrarsi con Gesù e innamorarsi di lui
Armando Matteo, teologo SettimanaNews 4 novembre 2022
www.settimananews.it/papa/la-follia-pastorale-9
RIFLESSIONI
La novità di Francesco per la Chiesa
Mai c’era stato nella storia della Chiesa un ascolto del popolo di Dio così come l’ha voluto il Papa. Abbiamo finora seguito puntualmente con diversi contributi lo svolgersi del cammino sinodale voluto da Papa Francesco e recepito dalla chiesa universale. Iniziato un anno fa, il 9 ottobre 2021, come anno di ascolto ha sostato sui temi della comunione accogliendo intuizioni diverse, interrogativi provocatori e urgenze sentite in modo condiviso dal popolo di Dio. Con un certo comprensibile ritardo da parte delle diverse chiese nazionali sono giunti a Roma i risultati di questo dibattito-dialogo, che ha visto la partecipazione dei cristiani battezzati. Attraverso il lavoro della segreteria generale del sinodo sono stati letti, esaminati e valutati a Frascati (21 settembre-2 ottobre 2022) e ne è scaturita una sintesi – non un riassunto – che sarà pubblicata in questi giorni e inviata alle conferenze nazionali dei diversi paesi; in tal modo queste potranno ancora esaminare il documento con sguardo critico, arricchirlo dove è necessario con un dibattito da rinnovarsi con alcuni rappresentanti del popolo di Dio, e quindi consegnarlo al segretario del sinodo in vista della stesura dell’Instrumentum laboris per il sinodo dei vescovi che si celebrerà a ottobre 2023 e anche in una sezione ulteriore prevista da Papa Francesco nell’ottobre 2020.
Ero in attesa di questa sintesi che purtroppo non è giunta e quindi ne forniremo una valutazione nel prossimo fascicolo. Questa è dunque l’occasione per fare alcune precisazioni in quanto a mio giudizio regna molta ignoranza e confusione sulla parola “sinodo”, e non solo da parte dei cristiani quotidiani. Forzatamente il lettore assiduo dei miei articoli troverà qualche ripetizione, ma saprà eventualmente contestualizzarla e ricomprenderla meglio grazie alle nuove osservazioni che propongo.
Innanzitutto occorre ricordare che il sinodo come istituzione è frutto del concilio Vaticano II. Fu Paolo VI che, proprio in considerazione della collegialità episcopale vissuta in concilio e nell’intento anche di ripensare la forma dell’esercizio del ministero petrino, volle istituire con la costituzione Apostolica sollicitudo il sinodo dei vescovi “richiamandosi all’antichissima disciplina in base alla quale i vescovi di tutto il mondo vivevano la comunione tra loro e con il vescovo di Roma … anche nella convocazione dei concili”. E Paolo VI arrivò ad esprimersi con queste parole: “Di nostra iniziativa e con la nostra autorità apostolica erigiamo e costituiamo in questa alma città un consiglio permanente di vescovi per la chiesa universale … che con nome proprio chiamiamo Sinodo dei Vescovi” (il corsivo è nostro).
In verità questo consiglio “permanente” di vescovi non è mai stato istituito perché fu istituito un sinodo da celebrarsi per alcune settimane e ogni tre anni come sinodo ordinario, quindi non permanente!
Dunque il sinodo dei vescovi è stato celebrato più volte e questo che si celebrerà nel 2023 sarà il sedicesimo celebrato a Roma, cui si devono accostare i sinodi continentali, regionali. Ma se il termine è sempre “sinodo”, la forma, gli obiettivi e l’autorità sono ben diversi, e non vanno assolutamente confusi. In ogni caso si tratta di sinodi convocati per un certo tempo, cui partecipano di diritto alcuni vescovi eletti e nominati, alcuni superiori maggiori chierici e alcuni esperti senza diritto di voto ma con funzione di consultori. Altra cosa ancora sono i sinodi diocesani, celebrati anche più volte nella stessa chiesa locale dopo il concilio, che seguono una prassi da sempre presente nella chiesa: questi sono organi di consultazione del vescovo e niente più!
Indubbiamente con Papa Francesco dobbiamo riconoscere la comparsa di una novità per tutta la chiesa: neanche le chiese ortodosse hanno mai conosciuto un cammino sinodale con l’ascolto del popolo di Dio come l’ha voluto lui, con determinazione e con perseveranti ammonizioni. La novità è che il Papa in sinodo non ascolta solo i vescovi ma il popolo di Dio nella prospettiva di una chiesa a immagine di una piramide rovesciata, dove quelli che presiedono, quelli che sono prima, quelli che hanno autorità sono a servizio degli altri, dunque all’ultimo posto, in basso! Immagine ardita proposta dal Papa durante il discorso solenne per la memoria dell’istituzione del sinodo, il 15 ottobre 2017. Qui risuona l’adagio forgiato nel primo millennio dai cristiani, vera garanzia di partecipazione e di comunione per l’edificazione della chiesa: Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet! [quello che riguarda tutti, deve essere approvato da tutti] Il riconoscimento del sensus fidei presente come dono dello Spirito nel popolo di Dio lo abilita a questa capacità profetica di discernere ciò che è buono per il cammino della chiesa nella storia (Evangelii Gaudium 119).
Far partecipare i battezzati/cresimati alla vita ecclesiale facendo appello alla coscienza della comune appartenenza al corpo di Cristo, risvegliando in loro l’esercizio della soggettività, richiamandoli alla responsabilità di testimoni del Signore è una novità assoluta nella storia della chiesa. È vero che nella fase del sinodo appena conclusa questo ascolto è stato poco praticato (0,01% negli USA; 2% in Francia); è vero che non ha coinvolto i cattolici tradizionalisti; e neppure gran parte dei giovani; è vero che non c’è stato ascolto dei cristiani delle altre confessioni e tanto meno di “quelli di fuori”, come aveva invitato a fare Papa Francesco, ma un ascolto c’è stato… un processo è iniziato!!!
E se andiamo ai problemi che più appaiono a noi evidenti, certamente dobbiamo anche registrare con tristezza la polemica, la contrapposizione tra fratelli che si verifica in questo cammino sinodale. Le dure critiche cariche di accuse gravi che non riconoscono la qualità di “cattolico” al cammino sinodale tedesco, lanciate da episcopati interi come quello polacco o da vescovi come il cardinal Muller feriscono e non sono comprensibili. Perché accendere queste dure conflittualità tra fratelli?
I cammini di questo sinodo sono percorsi da cattolici molto differenti soprattutto per cultura, e questo non deve spaventarci, ma anzi farci leggere il dono possibile della comunione, che è da sempre plurale e policroma come lo è la sapienza di Dio. L’ascolto va praticato con attenzione e pazienza, senza pregiudizi, occorre non perseguire le vie del giudizio e della condanna perché la pace ecclesiale è il primo dono da custodire. Nessun idealismo: i conflitti ci saranno sempre, le incomprensioni pure, come nella chiesa apostolica, ma come allora incontriamoci, ascoltiamoci, preghiamo, discerniamo insieme senza atteggiarci a profeti chiamati a esercitare un ministero di condanna. Fa impressione che il segretario del sinodo, il cardinal Mario Grech, e il relatore generale al sinodo, il cardinal Jean-Claude Hollerich, siano così criticati e stigmatizzati come eretici. Purtroppo nelle comunità cristiane si è attestata una lotta anti sinodo, c’è un chiacchiericcio clericale condotto da minuziosi ricercatori di eresie, ci sono tanti aguzzini che spiano le parole dei fratelli: vero scandalo e inciampo per i credenti quotidiani.
Perché il sinodo sia autorevole tutti devono cercare di partecipare a questo cammino anche discernendone i limiti e le insufficienze, ma mai ponendosi contro, mai con spirito di diffidenza o distruzione, sempre convinti che con questa partecipazione convinta al sinodo “cercano la verità nella dolcezza del camminare insieme” (quærere veritatem in dulcedine societatis).
Se questo sinodo darà i suoi frutti nella pace potrà anche essere una preparazione a un nuovo concilio di cui alcuni pensano possibile e anche urgente la convocazione come già chiedeva il cardinale Martini verso la fine del suo episcopato. Perché solo un concilio, con la sua autorità suprema potrà decidere sui cambiamenti delle strutture e della pastorale che oggi molte chiese nazionali richiedono. Anche un teologo molto attento all’oggi di Dio nella chiesa come Francesco Cosentino si è di recente chiesto dalle pagine dell’Osservatore Romano se non è urgente un nuovo concilio. In ogni caso, questo cammino sinodale così come l’ha voluto Papa Francesco ne è la necessaria preparazione.
p. Enzo Bianchi Vita Pastorale 10 novembre 2022
www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/173741/la-novit%C3%A0-di-francesco-per-la-chiesa
SIN0DALITÀ
La Chiesa dov’è? Una collegialità da riscoprire
Riflessione del Card. Fernando Filoni Gran Maestro dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme
α 1946
Oggi, mentre si ha la sensazione di un ripensamento strategico internazionale da parte dei grandi Paesi o aree geografiche con tattiche o che si rafforzano, o cercano soluzioni per le crisi che li coinvolgono – ad esempio la Cina di Xi Jinping rafforza il proprio potere collocandosi al centro dello scacchiere, la questione di Taiwan in primis, la Russia di Putin tra effetti disastrosi non sa come uscire dalla guerra in Ucraina, Europa e USA rafforzano l’Alleanza Atlantica per la difesa dei tradizionali valori democratici, l’Africa è quasi abbandonata ai suoi grandi mali (divisioni tribali, corruzione, miopie politiche, conflitti) benché ora oggetto di mire per le sue riserve energetiche, e il mondo arabo continua condizionato dalla millenaria controversia tra sunniti e sciiti-iraniani – la Chiesa dov’è? È veramente irrilevante, come qualcuno pensa e scrive?
C’è in verità un «Popolo di Dio» nelle municipalità, nelle città, nei villaggi che percepisce tutte le drammatiche crisi sociali e morali (la fenomenologia è amplissima: povertà, droga, omicidi, sfruttamento del lavoro, disoccupazione, violenze domestiche, ecc.) e che pure si domanda: La Chiesa dov’è? Le parrocchie, i movimenti ecclesiali, le opere socio-caritative, l’azione con le famiglie, l’educazione, certo tutto è là, ma la domanda non è oziosa.
In un mondo che cambia rapidamente, è naturale domandarsi se la Chiesa, in questa realtà camaleontica e convulsa della geopolitica, compreso finanziaria, abbia un compito. È pertanto fondamentale poter leggere gli avvenimenti nella loro macro-evidenza, senza la pretesa di scomodare qui la natura misterica e trascendente di essa, evitando al tempo stesso di cadere sia in una lettura semplicemente sociologica, sia nella seduzione di un certo fatalismo; ma pure di barcamenarsi tra gli scogli di realtà pragmaticamente e apparentemente indifferenti.
Certamente la missione della Chiesa non è una missione di competizione, benché il soggetto verso cui essa manifesta il proprio interesse è il medesimo a cui è orientata la geopolitica internazionale: quegli stessi uomini e donne, quei popoli ai quali tutti dichiarano di voler bene e di volerne favorire il progresso. La missione della Chiesa non è competitiva e non andrebbe mai letta come si trattasse di un agonismo elettorale con percentuali che i media spesso si contendono per esigenze giornalistiche, se non ideologiche. Gli amanti delle statistiche, delle scommesse e delle previsioni lo fanno, e di quando in quando sciorinano i loro dati sulla frequenza religiosa dei fedeli, sulla vita sacramentale o delle liturgie, sulle vocazioni, ecc. La sua, quella della Chiesa, è una missione morale, spirituale, ma non avulsa da questo mondo, cioè profondamente umana e che vive nelle e con le crisi dell’umanità. E il Papa non è a capo di una «potenza», sebbene gli sia riconosciuta una rilevanza anche internazionale; neppure la vita della Chiesa è traducibile in soldoni.
Da oltre un secolo, l’interazione della Chiesa con il mondo è molto cambiata. A livello istituzionale non c’è più un papato che tratti con gli imperi (francese, austro-ungarico, britannico, russo, cinese, ottomano) e con neo-nazioni emergenti; nemmeno c’è un episcopato che si occupi semplicemente della vita religiosa e umanitaria (già tanto benemerita) delle proprie popolazioni. Il 16 aprile 1966 fu una data significativa; è una data post-conciliare, legata a quell’evento che era appena terminato; ma con la data conviene citarne anche il luogo, il Campidoglio, dove Paolo VI, con una storica visita, metteva definitivamente termine all’idea di una «supremazia» in derivazione dal temporalismo della Chiesa, già interrotto un secolo prima; egli amava pensarsi servus servorum Dei (un titolo oggi relegato nell’Annuario Pontificio a titolo storico!) e, in ottemperanza alla Costituzione pastorale Gaudium et Spes (un documento nato veramente in assemblea conciliare), propugnava la vocazione e la missione in proiezione universale. Non solo il papato, ma tutta la Chiesa, vescovi, religiosi, fedeli battezzati, insieme riacquistavano consapevolezza di sé e della propria vocazione cristologica. In Concilio si era completato uno sviluppo più comprensivo di tutte le realtà a partire dalla dignità, legata alla persona e alle sue libertà, le istituzioni non erano più al primo posto; le relazioni con il mondo, con le religioni non cristiane, con il mondo ebraico, l’ecumenismo stesso perdevano la ruggine depositata dalle negatività e, al tempo stesso, la missionarietà si apriva di prospettiva e veniva riformulata con una proposta rispettosa del mondo contemporaneo, luogo dell’inquietudine in ricerca di risposte; in modo splendido teologicamente parlando, il «Mistero di Dio» veniva proposto in termini di conoscibilità, di «Evento» e di «Parola» nella persona di Gesù – essendo Cristo la luce delle genti (Lumen gentium cum sit Christus) – al quale la Chiesa ora si accostava con una liturgia di prossimità.
Effettivamente il ruolo morale e spirituale del Papa ne era uscito enormemente accresciuto, contando ancor più sull’esistenza capillare di una Chiesa ormai presente in tutti i continenti, con i lineamenti delle loro genti e con gerarchie e lingue autoctone; la stessa diplomazia pontificia, atipica (priva di interessi commerciali, finanziari, consolari, militari, ecc.), ne sarà più ecclesialmente orientata, propugnando l’alto insegnamento morale e spirituale della Chiesa (Sollicitudo omnium ecclesiarum, Lettera Apostolica del 24 giugno 1969).
Benedetto XVI ha recentemente scritto che – giovane ecclesiastico al Concilio, mentre allora si percepiva la necessità di riformulare la questione della natura e della missione della Chiesa, divenuta gradualmente sempre più evidente – si avvertiva con gioia la più ampia dimensione spirituale del concetto di Chiesa (cfr. Lettera per il Simposio dell’Università francescana di Steubenville/USA del 7 ottobre 2022); una valutazione che condivido in pieno. Paolo VI aveva sviluppato il senso di quella identità, già da quando interrogava nel 1963 i Padri conciliari: Chiesa cosa dici di te stessa? Giovanni Paolo II avrebbe mostrato poi ovunque la prossimità della Chiesa a tutte le genti, Benedetto XVI la sua relazione teologica con il mondo e Francesco la solidarietà missionaria.
La Chiesa inoltre usciva dalla tradizionale impostazione papa-vescovi, Chiesa universale-Chiesa diocesana, sviluppando forme intermedie di interazione ecclesiale, assai necessarie per accostarsi e conoscere il mondo e partecipare alle sue attese. Accanto al «Sinodo dei vescovi», come luogo di esercizio della collegialità, istituito da Paolo VI il 15 settembre 1965 (una istituzione che “manifesta la sollecitudine del collegio episcopale per le necessità e per la comunione tra le Chiese” – Papa Francesco), presero definitivamente forma anche le «Conferenze episcopali» (nazionali, regionali e internazionali), che sebbene giuridicamente non si configurassero come strutture di potere intermedio tra il papa e i vescovi, per la loro agilità assumevano un ruolo rilevante da un punto di vista pastorale, di moderazione sociale e di riferimento nelle società odierne, tanto democratiche, quanto diverse. La tentazione in alcuni casi di impedirne la voce o di controllarla, mostrava l’autorevolezza con cui è stata guardata questa moderna istituzione di comunione ecclesiale. Negli antichi come nei nuovi ‘imperi’ il tentativo di addomesticare le Conferenze episcopali è sempre all’opera. Le Conferenze episcopali comunque, come strumenti di comunione e di sostegno reciproco tra i vescovi e con il papa, rappresentano un’evoluzione storicamente tra le più rilevanti della presenza della Chiesa nel mondo, essendosi poste tra le forme di giurisdizione personale (papa-vescovo) e quelle collegiali (concili-sinodi). Le Conferenze di per sé, per l’afflatus collegialis che sviluppano ed esprimono, sono utilissime nell’affrontare tematiche complesse e non riducibili ad opinioni personali, soprattutto quando si tratta di questioni pastorali e morali di ampio raggio, con implicanze serie e profonde relative a scelte e programmi di interesse per la collettività di cui sono parte. Una democrazia non esclude il loro operare, ma gli ‘imperialismi’ cercano di limitarne la parola o l’azione. Una Conferenza episcopale, in verità, rispetto al singolo vescovo, è sempre maggiormente in grado di difendere i valori ecclesiali e umani a livello regionale o nazionale rispetto all’agire di un singolo vescovo; ma anche a volte rispetto alla Sede Apostolica stessa, trattandosi spesso di questioni interne ai singoli paesi e in aderenza al principio della sussidiarietà, secondo cui l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenere l’azione. La sussidiarietà è stato uno degli elementi caratterizzanti la visione della Chiesa sulla società e fu il Papa Giovanni Paolo II a farvi riferimento e ad esplicitarne l’importanza. Non a caso anche la costituzione apostolica Prædicate Evangelium (2022), sulla Curia romana e il suo servizio alla Chiesa nel mondo, chiede che mai si proceda senza avvalersi del consiglio e della valutazione delle istituzioni conferenziali.
C’è chi pensa già ad un Concilio Vaticano III; e le opinioni sono rispettabili. Ma il Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo ha già esaurito la propria funzione?
ACI stampa 9 novembre 2022
www.acistampa.com/story/la-chiesa-dove-una-collegialita-da-riscoprire-21083
Sinodo: pare essere la parola del momento della Chiesa cattolica
Non c’è documento o intervento ecclesiale che non lo richiami. Con un’insistenza un po’ sospetta che fa intendere la scarsa consuetudine ad assumere lo stile proprio di un percorso sinodale. E mostra la fatica di trovare forme e modi, oltre le parole e gli slogan, per renderlo davvero percorribile.
La Chiesa fa fatica a “camminare insieme” Nonostante le insistenze di papa Francesco che in un primo momento ha scosso diverse chiese nazionali, italiana inclusa, la Chiesa cattolica, per tante ragioni, non sempre è stata in grado di assumere la postura sinodale che potremmo riassumere in alcune scelte di fondo: ascolto, dialogo, partecipazione, comunione nelle differenze. È una ricerca di una “sinfonia” nella varietà dei carismi e dei ruoli: né fughe solitarie, né ricatto dell’immobilismo.
Mette in gioco l’autorità e l’esercizio del potere, la capacità di camminare insieme. Toglie fiato al clericalismo, dà spazio alle laiche e ai laici, impedisce che qualcuno decida per tutti, facendo proprio un principio caro alla Chiesa del primo millennio: “ciò che riguarda tutti, da tutti deve essere trattato e approvato”. Insomma, davvero un processo piuttosto che un evento. Su questa strada da tempo camminano molte Chiese cristiane e diverse fedi.
Non tutti ci credono: vescovi, preti e laici. Occorre però riconoscerlo con molta franchezza: a fronte di tante parole sono pochi i processi sinodali realmente avviati nella Chiesa cattolica. Qualcuno sostiene che non ci credono i Vescovi che intendono il Sinodo come uno dei tanti contenuti che, a ciclo continuo, sono chiamati ad attivare e promuovere. Una “fissazione” di papa Francesco subita dai Vescovi italiani alle prese con un disorientamento inedito e profondo che nasce dalla progressiva consapevolezza di un radicale cambiamento dentro la vita delle persone e delle comunità sempre più distanti dalla vicenda cristiana formulata dalla Chiesa.
Altri sostengono che non ci credono i preti, certo non formati né abituati a pensare e a realizzare, nella prassi non solo nelle parole, una corresponsabilità che permetta di far crescere donne e uomini adulti nella fede. È indubbio a molti che troppe volte nella chiesa pare valere il principio della “piramide sospesa” (cosi la chiama un teologo), in cui tutto (di)pende dal vertice, gestore e dispensatore del sacro.
L’aver parte della comunità ecclesiale è posto perciò sotto il sigillo dell’appartenenza e i fedeli sono considerati, in pratica, dei sudditi la cui virtù prima sta nell’obbedienza: attiva, collaborativa, consapevole ma pur sempre obbedienza. Una visione che, a dispetto delle molte parole, sviluppa un sottile e nuovo tipo di clericalismo (su cui si è scagliato più volte papa Francesco) e permette il germoglio di laici più clericali dei preti.
Altri ancora dicono che non ci credono i laici. Non si cancella presto una tradizione secolare che li ha voluti subalterni. Ho scritto spesso che la questione dei laici sta al centro delle sfide pastorali che si trovano ad affrontare le nostre comunità parrocchiali. La loro innegabile valorizzazione è avvenuta soprattutto nei termini della loro attiva partecipazione al ministero della Chiesa in qualità di catechisti, di animatori liturgici, di operatori nel campo dell’assistenza. Il rischio è che questo loro impegno dentro la Chiesa – che è comunque indispensabile ed esige anzi un lavoro formativo ancora più preciso – sia visto ancora prevalentemente in termini di collaborazione e di supplenza all’azione del prete. Questa prospettiva non permette di costruire la parrocchia come una comunità di battezzati, di cristiani.
Senza lo spirito del sinodo “la Chiesa si corrompe”. Eppure la strada è tracciata. Piaccia o meno, da qui – da un Sinodo che non ha un argomento specifico perché il suo oggetto, la sinodalità, è anche il suo metodo – non si torna indietro. Acutamente lo osservava mons. Sequeri: “Senza la sinodalità la Chiesa non è semplicemente meno simpatica: si corrompe”. E chissà che strada facendo vescovi, preti e laici capiscano che solo insieme sarà possibile tracciare strade di Vangelo. In una diversità di carismi, ma su un piano di parità e complementarietà, uscendo dalle relazioni di potere che troppo spesso hanno prevalso, e prevalgono tutt’ora, nella Chiesa. Cominciando a sperimentare oggi quello che, probabilmente, saremo obbligati, per ragioni evidenti, a fare domani. Un domani sempre più vicino. Altrimenti, schiacciati dal peso della tradizione e dal poco coraggio, rischiamo di stare, da risentiti, impantanati in paludi stagnanti. Se invece così dovesse accadere, evitiamo almeno la retorica delle parole.
Daniele Rocchetti La barca e il mare 17 novembre 2022
La Chiesa che c’è e una nuova Chiesa che forse ci sarà
Nella Chiesa chi deve governare – i vescovi governano poco. Intanto si fatica ad immaginare la Chiesa del futuro. Nella mia vita religiosa e di servizio mi confronto continuamente con sacerdoti di vari luoghi d’Italia e a volte emergono considerazioni rispetto alla gestione delle diocesi. In questo breve articolo desidero sottolineare alcuni aspetti problematici, tralasciando i tanti esempi positivi. Vorrei contribuire, nel mio piccolo, a far nascere coscienze critiche e riflessioni che possano dare vita a ulteriori proposte.
Vescovi che non decidono. Riconosco l’importanza del ruolo del Vescovo, quale figura che può traghettare il vecchio modo di concepire la chiesa con il nuovo che man mano si rivela, alla luce dell’umanità di oggi, della diminuzione di vocazioni religiose e della “fame e sete di Dio” presente in ogni uomo e donna. Mi soffermo su alcuni nodi, che considero problematici e che riporto in ordine sparso.
- Innanzitutto desidero porre l’attenzione verso quei vescovi che approssimandosi all’età della pensione abdicano nel prendere decisioni significative per la Diocesi (atteggiamento che a volte avviene anche 4/5 anni prima che si lasci l’incarico…un’enormità di tempo tenuto conto i cambiamenti). Alla base sta un malinteso (e funesto negli esiti) rispetto per le decisioni che prenderà il successore. O peggio per non complicarsi troppo la vita sul finire del proprio mandato.
- Vi sono poi Vescovi che, seppur delle valide persone spirituali, non hanno la capacità di governance (che non è dono dato dall’ordinazione). Questo crea non pochi problemi, data la complessità intrinseca della guida di una Diocesi.
- Un’altra fattispecie è quella di Vescovi che per non rimettere in discussione i propri schemi mentali circa l’organizzazione di una Diocesi e le proprie convinzioni ecclesiali-teologiche-pastorali continuano secondo schemi vecchi e inefficaci. E questo malgrado le trasformazioni epocali degli ultimi decenni.
- Un esempio su tutti: man mano che un parroco viene meno (morte, malattia, esaurimento, abbandono). La soluzione è nominare parroco un altro che è già parroco in una o due o tre parrocchie…e così via… Così che lo schema mentale che ogni parrocchia abbia un parroco è confermato. La realtà, invece, è che ciò causa un impoverimento dell’azione stessa e la qualità del servizio che si offre.
La fatica di assumersi responsabilità. In generale mi sembra di cogliere una mancanza di coraggio ad assumersi delle responsabilità nel pensare e mettere in pratica organizzazioni ecclesiali nuove e prassi nuove. Il mandato principale del Vescovo consiste nel “trasmettere l’annuncio dell’unico Vangelo e dell’unica fede, nell’integra fedeltà all’insegnamento degli Apostoli” (cfr. Introduzione del Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi “Apostolorum Successores”). Ma, senza una coraggiosa assunzione di responsabilità, questa trasmissione dell’annuncio non funziona molto!
Si abdica anche alla responsabilità di elaborare una teologia a partire da una lettura sapienziale e illuminata dallo Spirito del territorio e dei tempi esercitando quella “autonomia dottrinale” a servizio della riflessione della Chiesa universale a cui Papa Francesco continuamente sollecita (cfr. Evangelii gaudium, 32) in continuità con il Concilio Vaticano II.
Alcune ipotesi per un nuovo Natale della Chiesa. Mi chiedo perché non osare nel fare qualcosa “ad experimentum”? Cioè dedicarsi, per alcuni anni, a mettere in opera iniziative nuove, per verificarle nel tempo. Di seguito propongo alcune proposte:
- Parrocchie in cui tutti i beni siano dati in gestione ad un’associazione, costituita dai parrocchiani, senza diritto di firma del Parroco, affinché questi sia alleggerito dalle impellenze amministrativo-gestionali, e perché la Comunità (la vera titolare dei beni) sia responsabilizzata. Il Parroco rinuncerebbe così a una fetta di potere che non gli compete.
- Un percorso di iniziazione cristiana alla luce delle recenti riflessioni teologiche-liturgiche nonché sociologiche e antropologiche (sulla scia dell’articolo di don Armando Matteo, “Riportare i giovani a messa, la trasmissione della fede in una società senza adulti”). Per tentare tempi, orari, giorni e luoghi che tengano conto della vita frammentata delle famiglie e quindi dei ragazzi che intraprendano il cammino d’iniziazione e della loro struttura antropologica per offrire un’adeguata pedagogia.
- Comunità parrocchiali affidate alla cura di una famiglia “consacrata diacona” (marito e moglie insieme) o a una comunità di suore (con funzioni diaconali) che possano celebrare i sacramenti (senza la consacrazione sacerdotale, che sarebbe cosa buona e giusta ma forse troppo ardita per la chiesa di oggi).
- Altro tema audace, affidare la parrocchia ad un sacerdote sposato che possa essere riabilitato nelle sue funzioni con una speciale dispensa (come i nostri fratelli greco-cattolici che si sposano).
- Promuovere la nascita di varie piccole comunità (per omogeneità di territorio? Di età? Di orari di vita?, ecc.) in cui vivere la meditazione della Parola, la condivisione, l’accoglienza, la carità così che la Parrocchia sia una Comunità plurale formata da varie comunità vive.
- Ripensare radicalmente la formazione dei futuri sacerdoti e religiosi (modalità, contenuti, fini) e la selezione. Ad esempio formare ad essere moderatori e animatori di equipe piuttosto che leader autoreferenziali. Formare all’inculturazione, all’ascolto e all’annuncio del Vangelo tenuto conto delle categorie del post-moderno. Affrontare in modo più profondo le problematiche affettivo-psicologiche. Con scelte coraggiose e concrete!
Per concludere, mi rendo conto che quanto esposto possa apparire ardito, spero solo che sia di stimolo ad ulteriori riflessioni e a dar voce ad altre iniziative gestionali-organizzative e pastorali che lo Spirito suggerirà a quei Vescovi che proveranno ad essere un po’ più coraggiosi, alla luce della loro vita di meditazione della Parola, di ascolto del Signore e dell’umano insito nel proprio territorio
Francesco Cavallini La barca e il mare 17 novembre 2022
Pensare la fede. Il concilio e… gli atei
Anche su questo tema così delicato e profondo, la posizione del Concilio deve essere rivista. “L’ateismo va annoverato fra le cose più gravi del nostro tempo”. Così si esprime Gaudium et Spes 19. E spiega che con la parola “ateismo” si devono intendere più cose, diverse tra loro. Intanto l’ateismo esplicito, cioè il rifiuto dichiarato e consapevole dell’esistenza di Dio; poi l’agnosticismo, cioè l’impossibilità di dire qualcosa di sensato sulla sua esistenza; poi ancora il relativismo della verità, cioè l’impossibilità di ammettere una realtà assoluta e/o di poterla attingere; inoltre la costruzione di idee su Dio non compatibili col vangelo; infine il fatto di non porsi nemmeno più il problema della sua esistenza.
Ora, come si può ben vedere, qui il concilio usa la parola ateismo per designare qualsiasi forma di approccio o pensiero religioso che non collimi con quello determinato nei secoli dalla tradizione della Chiesa. Come se l’ateo puro, l’agnostico, lo scettico, lo spiritualista “fai da te” e l’indifferente fossero la stessa cosa, avessero la stessa causa e andassero approcciati nella stessa e unica maniera. Maniera poi descritta al n. 21, che parte dal non poter “fare a meno di rimproverare, come ha fatto nel passato, con fermezza e con dolore, tali perniciose dottrine e azioni”, senza individuare atteggiamenti specifici diversificati per ognuna di queste “posizioni” religiose.
Da allora ad oggi sono state fatte molte ricerche statistiche e sociologiche su questo fenomeno (in particolare quelle del Pew Research Center, del Gallup inc., di Eurobarometro, ed in Italia di Eurispes e Ispos) e tutte hanno evidenziato come, all’interno di questo grande calderone che il concilio chiama “ateismo”, ci siano stati notevoli cambiamenti. Si va dal quasi azzeramento degli atei puri, quelli dichiarati e consapevoli, al notevole restringimento di coloro che non si fanno più domande religiose; dall’incremento esponenziale e ancora in forte aumento delle “spiritualità fai da te”, alla trasformazione di molta parte degli agnostici in persone che credono nel “mistero” della vita. Fino ad un’amplissima gamma di ricostruzioni dell’immagine di Dio, estremamente variegate, che mescolano tranquillamente elementi di teologie incompatibili tra di loro, ma che nel complesso hanno visto crescere del 8%, a livello mondiale, il numero globale dei credenti.
Innegabile, perciò che, anche su questo tema così delicato e profondo, la posizione del Concilio debba essere rivista. Non tanto immaginando che queste posizioni possano assumere verità, ma piuttosto riconoscendo che lo sforzo di comprendere tali fenomeni può raggiungere un obiettivo sensato se ne riconosciamo la specifica diversità, le specifiche cause, in modo da trovare atteggiamenti più adeguati, capaci di non partire dal “rimprovero”, ma dall’ascolto che vuole comprendere, ben prima di voler giudicare.
Oggi, infatti la questione di fondo non è più se Dio esista o no, e nemmeno se abbia a che fare con me o se ne stia beato nei cieli, ma molto di più come fare a rapportarsi al mistero della vita, perché sempre più si riconosce che le pretese dello scientismo radicale di poter comprendere tutto, non solo è vanità, ma sta arrecando danno alla credibilità della scienza stessa e ad un sano sviluppo umano. Oggi, perciò non serve molto saper portare ragionamenti più o meno fondati e coerenti per convincere razionalmente l’uomo post moderno dell’esistenza di Dio e del suo amore per noi, ma piuttosto declinare il vangelo in termini di mistero di amore che, ben più grande dell’uomo e della sua capacità di comprensione, continua a muovere l’uomo verso la vita.
Come scrive il sociologo Alessandro Castegnaro oggi “non è una ottusa incredulità a guadagnare terreno, né l’insensibilità alle faccende dello spirito. Ma non è nemmeno il permanere nella tranquilla certezza religiosa che si poteva possedere in un mondo in cui Dio era dato per scontato. (…) In altri termini le esperienze vitali attraggono assai più dei catechismi, e si coglie la tendenza al passare dal credere in Dio al credere al mistero di Dio, dalla dogmatica alla mistica, dalla teologia alla poesia”.
Gilberto Borghi VinoNuovo 10 novembre 2022
www.vinonuovo.it/teologia/pensare-la-fede/il-concilio-e-gli-atei
SINODO CONTINENTALE
Bätzing: “La Chiesa in Germania vuole e deve dare risposte alle domande dei fedeli”
Conferenza stampa a Roma del Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca al termine della visita ad limina (apostolorum visitatio) [alle tombe]. Stamane Monsignor Georg Bätzing, Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, ha sottolineato che i partecipanti al cammino sinodale in corso in Germania vogliono rimanere cattolici, “ma noi vogliamo essere cattolici in modo diverso”. Lo riporta CNA Deutsch, agenzia in lingua tedesca del Gruppo ACI.
“Posso dire con cuore onesto e sollevato: sì, è stata una visita ad limina impegnativa“, ha detto Bätzing,” e sì, tutti, davvero tutti gli argomenti sono stati messi sul tavolo – e in luoghi molto diversi, sia con il Papa, sia nei dicasteri o all’incontro interdicasteriale di ieri su alcune questioni del cammino sinodale della Chiesa in Germania. “
“La Chiesa in Germania – ha aggiunto – non sta andando per la propria strada ma vuole e deve dare risposte alle domande che i fedeli si pongono”. Per quanto riguarda l’ordinazione delle donne prevista dal cammino sinodale, per Roma “la prospettiva è molto chiara, questa questione è chiusa. Nel caso del cammino sinodale, tuttavia, non si dice che questa questione sia chiusa, ma che continua”. La conversazione con il Papa – ha detto ancora – “ci ha incoraggiato Anche qui le diverse posizioni sono state portate avanti nella nostra conferenza episcopale. Il Santo Padre ci ha fatto capire che le tensioni sono necessarie e che la risoluzione richiede coraggio e pazienza”.
“Torno a casa – ha concluso il presidente dei vescovi tedeschi – con un certo senso di sollievo, perché abbiamo sollevato argomenti e nessuno può dire di non aver sentito nulla su questi argomenti o di non aver avuto l’opportunità di dire qualcosa. Torno a casa anche con un certo grado di preoccupazione perché non posso ancora dire che tipo di dinamica svilupperanno i processi sinodali. Ma forse questa tensione è buona: sollievo e preoccupazione”
Redazione ACI stampa 19 novembre, 2022
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Un “custode della dottrina” a Roma vuole essere più conciliante con il sinodo tedesco
Mentre i vescovi tedeschi iniziano la loro visita ad limina lunedì 14 novembre, il sito web spagnolo Alfa y Omega ha interpellato il vescovo Armando Matteo, Segretario della Sezione Dottrinale del Dicastero per la Dottrina della Fede, sulle questioni che potrebbero emergere in questi incontri. Negli ultimi anni, i vescovi tedeschi hanno sostenuto con vigore le richieste di riforma derivate dalla via sinodale tedesca, soprattutto in termini di moralità sessuale, celibato sacerdotale e diaconato femminile nella Chiesa.
Di recente, il Dicastero per la Dottrina della Fede ha messo ripetutamente in guardia la Germania contro una possibile “deriva dottrinale”. Di fronte all’aumento delle preoccupazioni circa le richieste tedesche, il teologo italiano, nominato da Papa Francesco l’8 novembre 2022 alla guida della Sezione Dottrinale del Dicastero, ritiene che gli scambi possano essere “positivi” e riconosce che la Chiesa in Germania affronta “molte sfide”, soprattutto relativamente ai casi di abusi e alla mancanza di vocazioni, ma invita a non temere questa nuova esperienza di sinodalità, che può portare a “cammini inesplorati”.
In un saggio recente intitolato “La Chiesa che verrà” (pubblicato solo in italiano), il vescovo Matteo esprime di fatto le stesse preoccupazioni dei vescovi tedeschi per una certa forma di cristianesimo e di mentalità pastorale “che ha servito la gente vissuta fino agli anni Ottanta”. A suo avviso, la resistenza al cambiamento nella Chiesa “la sta distruggendo”. “Il compito è enorme”, ha osservato, difendendo la visione di una Chiesa in grado di trasformare tutto attraverso l’evangelizzazione, che implica necessariamente un “dialogo con il mondo”.
Alateia plus 14 novembre 2022
TEOLOGIA
“Silenzio su Dio?”
È difficile entrare anche con molta cautela e indispensabile umiltà nel dibattito attuale sul post-teismo, e anche comprenderlo nella giusta luce. Corrente teologica o anti-teologica tra le altre, o uno dei segnali della crisi del nostro tempo? Crisi della fede, del suo venir meno, o solo del modo di declinarla, anzi di metterla in parole? Al centro della crisi e del dibattito si trova la parola-idea «Dio». Quella dell’idea «Dio», scrive il teologo argentino José María Vigil, è «una lunga storia, ma non eterna». Dagli studi antropologici emerge l’idea che il primate antropomorfo cominciò a essere ‘umano’ quando giunse ad aver bisogno di un senso per vivere, arrivando con ciò a percepire una dimensione spirituale, sacra, misteriosa. A lungo si è creduto che quella dimensione religiosa indicasse una relazione necessaria e indiscutibile con «Dio». Ma forse quel Dio non era Dio nel senso che si dà oggi al suo nome. «Adesso abbiamo dati che indicano che durante tutto il Paleolitico (70.000-10.000 a.C.) i nostri antenati adoravano la Grande Dea Madre, che non era un «Dio» femminile, ma la «Divinità», confusamente e profusamente identificata con la Natura. L’idea concreta di «dio» come poi è giunta a noi è di molto posteriore, solo dell’epoca della rivoluzione agricola (10.000 anni fa). Il dio personale, maschile, guerriero, che abita nel cielo e si allea con la tribù per difenderla e lottare contro i suoi nemici…» (corsivi nostri). Siamo in pieno antropomorfismo degli dei. E in qualche modo avverrà lo stesso anche con il ben più evoluto Dio del giudeocristianesimo.
«Dio ama, crea, decide, si offende, reagisce, interviene, si pente, perdona, redime, salva, ha un progetto, si allea (…) come noi, che del resto siamo fatti a sua immagine e somiglianza. Quel Dio onnipotente, Creatore, Causa prima, Signore, Giudice… rimase infine al centro della cosmovisione religiosa occidentale (…). Di Dio non si poteva neanche dubitare: già il dubbio era un peccato, contro la fede. Credere o non credere in Dio: questa era la questione decisiva». Anche il Concilio Vaticano II ha riconosciuto questo: «noi cristiani abbiamo velato più che rivelato il volto di Dio» (GS 19), abbiamo spesso difeso, predicato e sostenuto immagini di Dio inadeguate, se non controproducenti per parlare agli uomini e alle donne del nostro tempo.
Anche muovendosi su un piano molto più generale e apparentemente più indolore, vi è ormai un largo consenso tra i cristiani sulla centralità del problema del linguaggio ai fini dell’annuncio di fede; ma sarebbe ingenuo pensare che il linguaggio sia solo un problema di parole, risolvibile a comando con uno sforzo di buona volontà. Così nessuno può credere che l’istanza del post-teismo possa influire – con azione distruttiva o salvifica, secondo i punti di vista – unicamente sul modo di parlare. Il linguaggio influisce profondamente anche sul modo di pensare: basti considerare quanto si è verificato con il linguaggio sessista, del cui potenziale di manipolazione siamo diventati consapevoli, e certo non tutti, solo da pochi decenni. Finora il post-teismo è rimasto un tema di nicchia: i segnali della crisi del discorso su Dio si confondono con la generale crisi del credere, e le chiese ufficiali non assumono una posizione precisa al riguardo, meno di tutte la chiesa cattolica romana; forse questo partecipa del generale silenzio su Dio, forse sarà anche una scelta buona e saggia, purché nel frattempo la riflessione proceda, il più possibile seria e condivisa.
Un libro che molti dovrebbero leggere. Il problema riguarda tutte le chiese cristiane senza eccezione, anche se possiamo supporre che a riguardo del post-teismo non tutte assumeranno lo stesso atteggiamento. Di recente una spinta molto significativa al dibattito è venuta dal teologo e pastore valdese Paolo Ricca. Considerato il maggiore teologo protestante italiano vivente, non è certo un esponente del post-teismo (anzi, pur con grande rispetto, è piuttosto critico al riguardo), ma ne conosce bene il contesto e la grande varietà delle argomentazioni, nonché le cause: prossime e remote. Nel suo libro intitolato Dio. Apologia (sul perché di questo titolo si dovrà tornare) riflette profondamente sulla situazione paradossale delle chiese cristiane storiche, che oggi «parlano molto di migranti da accogliere, di diritti umani, di habitat naturale da proteggere, di fraternità umana da praticare – tutte cose sacrosante – ma ormai pochissimo di Dio, quasi come non sapessero più che cosa dire». Parlare di Dio viene percepito dai credenti come «qualcosa di bizzarro, di sconveniente, di troppo intimo». Imputa il silenzio delle Chiese, di tutte le Chiese, non soltanto a imbarazzo, insicurezza psicologica, eccesso di pudore, paura di non essere ascoltate, ma a qualcosa di più sostanziale. Se le Chiese parlano più volentieri di temi sociali che permettono un largo consenso, migranti, diritti, ambiente, libertà religiosa, è piuttosto per «una sostanziale carenza di fede», per «un livello insufficiente di certezze interiori».
Così, ai cristiani che non sanno che cosa dire di Dio, il teologo valdese dischiude tesori di risorse, materiali conoscitivi e materiali per pensare. Prende le mosse dalle critiche della modernità verso un Dio ‘inventato’ o ‘assente’ (parte I), continua con il Dio della Bibbia (parte II) e il Dio della fede (parte III), concludendo con l’idea di Dio riscontrabile in indù, buddhisti, ebrei e musulmani (parte IV). La questione della fede rimane sempre al centro. Precisa che di Dio si può parlare anche senza credere in lui; tuttavia «a un certo punto, il discorso su Dio da generale deve diventare personale», diventare un discorso sulla propria maniera di credere, anzi sulla propria fede. E il libro assume impreviste risonanze autobiografiche. Dopo aver rilevato come spesso chi crede non sia in grado di dire perché, l’autore confessa di essere egli stesso uno di questi. Ha raggiunto l’età di 86 anni: stagione di sintesi, che gli consente e gli chiede di dire che cosa crede di Dio: «…cioè quali sono le principali caratteristiche di Dio che nutrono la sua fede, e quindi che cosa sente lui, in coscienza, di dire di Dio».
La nostra epoca ha assolutamente bisogno di cristiani adulti, di testimoni. Per Ricca, ma anche per i cattolici, Dietrich Bonhoeffer, pastore e teologo luterano e martire nella resistenza al Nazismo, è «un modello di cristianesimo adulto», tanto più importante oggi che sembra non esserci più la sicurezza del proprio credere, e «la fede è diventata insicura. Più che di silenzio di Dio, si potrebbe parlare di silenzio su Dio». Il fatto è che ci sono molti tipi di silenzio. C’è un silenzio di rinuncia, depresso e scoraggiato, ma anche un silenzio di attesa e preparazione. C’è anche un silenzio di pienezza. Ma chi ha il senso forte della presenza e dell’agire di Dio avverte l’esigenza di parlarne.
Materiali per pensare. In un’intervista rivoltagli in occasione dell’uscita del libro, alla domanda «Che cos’è per lei la resurrezione?», risponde «È il fondamento della vita. Un evento che viene prima della vita». Aggiungendo poi: «non basta tutta la vita per apprendere che è l’invisibile a fondare il visibile e non viceversa». Che cosa dunque dovremmo apprendere? chiede l’intervistatore. La risposta giunge con la libertà luminosa dell’età avanzata: «A vedere ciò che non si vede. Non è un gioco di prestigio o di parole quello che le dico. Ma un modo di stare al mondo. Si parla tanto di verità. Ma qualcuno l’ha mai vista? Io no. Come non ho mai visto la Libertà, l’Amore. La Resurrezione, appunto. Ma ne vedo i segni e i frutti».
La Bibbia non è filosofico-speculativa (se non, a tratti, in certi testi paolini), anzi sembra importante che Israele in epoca biblica non abbia mai conosciuto una filosofia propria; più tardi si verificherà un incontro arricchente e rischioso tra il cristianesimo agli inizi e alcune correnti della filosofia greca. «A proposito dell’esistenza di Dio, è interessante osservare che la Bibbia non spende una parola per dimostrarla. Quasi come se la cosa non la interessasse. In effetti non è l’esistenza di Dio che interessa alla Bibbia, ma la sua opera, la sua storia con e per Israele, con e per l’umanità. La pura esistenza di Dio non è un tema della Bibbia. (…) Un Dio la cui essenza sarebbe l’esistenza, nella Bibbia non c’è, perché non c’è nella realtà. Dio, potremmo dire, non si accontenta di esserci, non è per questo che c’è, non esiste per esistere, ma per amare, per parlare, per creare e ricreare, per chiamare e stabilire alleanze».
Per trovare una parola profonda e autentica su Dio in questa epoca post-teista, uomini e donne di oggi devono avventurarsi tra i due rischi opposti e legati:
1) che sia la nostra fede a creare un Dio inesistente,
2) che Dio esista e ci manchi la fede.
Un libro che si intitola Dio. Apologia è chiaramente ‘scritto per difendere’; ma chi o che cosa vuole difendere l’autore? Non certo Dio (sarebbe il massimo dell’antropomorfismo!), che non ha bisogno di essere difeso e anzi, come Spirito Paràclito, agisce da difensore degli esseri umani; la difesa riguarda la fede cristiana espressa e trasmessa, presente nella storia e anche segnata dalla storia. Nel libro, che non è breve (411 pagine), una parte notevole, la prima, verte sulle critiche mosse a Dio e alla religione cristiana, soprattutto oggi – cioè, dal secolo XIX in poi. Secondo l’autore, sono critiche «di cui tenere conto, che devono poter essere espresse e che sono il prezzo della libertà», ma che in moltissimi casi derivano dalla non conoscenza di Dio. L’autore si sofferma poi su ciò che la Bibbia dice su Dio (cap. 11. Un Dio non cercato; 12. Un Dio non dimostrabile; 13. Un Dio contraddetto; 14. Un Dio rivelato), convinto che molti abbandonino Dio perché non lo conoscono; per i cristiani, Dio si conosce attraverso la Scrittura (ma quanti cristiani possono dire di conoscere la Scrittura?). La terza parte verte sul Dio della fede: 15. come realtà, 16. come prossimità, 17. come umanità, 18. come relazione. La quarta sull’idea di Dio che si incontra nelle principali religioni.
incontrare Dio. A questi materiali per pensare e per dire Dio i cattolici aggiungerebbero anche il riferimento alla tradizione della Chiesa. Ma è necessario riconoscere e ricordare – apertis verbis e non solo implicitamente – come la tradizione non è un monolite, non può e non vuole paralizzare l’esperienza della Chiesa che conosce una continua evoluzione e dunque vive anch’essa nel cambiamento. Per un credente cristiano la principale difficoltà nell’aprirsi alle ragioni del post-teismo, anche se riuscisse ad appagarsi della preghiera diffusa e inafferrabile coincidente in ultima analisi con la vita stessa, è sentire che richiederebbe inevitabilmente – non forse come condizione ma certo come conseguenza – di mettere da parte la Scrittura e la liturgia e tutto ciò che consente una storicizzazione, una condivisione della fede.
Ci sembra che il silenzio, sia pure abitato dallo Spirito e vivificato da una ricca interiorità, rischierebbe di diventare un’attitudine stabile per quanto riguarda la dimensione della fede, rendendola più evanescente e meno comunicabile di quanto lo sia oggi. Di nuovo il rischio del «cristianesimo muto» e forse di un silenzio vuoto.
Crediamo che la Scrittura aiuta a conoscere Dio, ma anche qui occorre attenzione: anche la Scrittura, soprattutto certe parti di essa, accostate nella loro materialità letterale e letteraria che, nonostante ogni generoso tentativo di attualizzazione, è tessuta di cultura e mentalità e forme espressive e problemi tanto lontani dai nostri, possono generare freddezza e perplessità in chi legge – questa è anzi l’ipotesi migliore. Anche se molti credenti guardano con sufficienza e sospetto un approccio ‘colto’ all’esperienza di fede e tendono senz’altro a bollarlo come intellettualismo (dimenticando che tutti sentono il bisogno di crescere anche sotto l’aspetto conoscitivo negli ambiti che li interessano e appassionano, fossero pure ambiti assolutamente terrestri), la Bibbia non parla agli uomini e alle donne di oggi finché rimane un testo in lingua straniera, fosse pure scritto in italiano.
Il discorso su Dio è fondamentale, se ci sforziamo incessantemente di rinunciare a ogni antropomorfismo. Ciò non significa rifiutare le ‘figure’, le immagini (in quanto esseri umani ne abbiamo bisogno, la fede è anche esperienza estetica e anche emotiva), ma rapportarci con le immagini come immagini, senza sacralizzarle indebitamente e senza metterle al posto della realtà ineffabile che dovrebbero servire: questo riproporrebbe l’antico peccato biblico dell’idolatria, figura di ogni altro peccato.
Dinanzi alla sfida del post-teismo, senza doverne necessariamente accogliere tutte le istanze, sentiamo però di poter sottoscrivere quanto si leggeva su Adista già tre anni fa, cioè quando nessuno – ricordiamolo – poteva ancora immaginare né la pandemia di Covid né la guerra in Ucraina: «… Di fronte allo tsunami che sta travolgendo l’umanità – una sorta di mutazione genetica spirituale, una metamorfosi culturale dagli esiti imprevedibili – l’unico cammino percorribile è quello di trovare con urgenza la chiave per costruire una nuova visione che ci permetta di andare incontro nel modo migliore – più compassionevole, più inclusivo, più umano – al futuro che sta arrivando» (Adista Documenti n. 41 del 30-11-2019; presentazione del libro AA.VV., Una spiritualità oltre il mito. Dal frutto proibito alla rivoluzione della conoscenza, Gabrielli ed., 2019.) www.adista.it/articolo/62416
Lilia Sebastiani Rocca n. 22, 15 novembre 2022
www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/11/lilia-sebastiani-silenzio-su-dio.html
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