newsUCIPEM n. 977 – 27 agosto 2023

newsUCIPEM n. 977 – 27 agosto 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

02 BIBBIA                                              “Una comune speranza di Salvezza nell’unico Dio”

05 CHIESA IN ITALIA                            Una Chiesa fuori di sé: crisi e sfide

08                                                          Non c’è Chiesa senza fraternità

09 DALLA NAVATA                              XXI domenica del tempo ordinario (anno A)

09                                                           La beatitudine di Pietro

11 FAMIGLIE NUMEROSE                  Proposte ANFN sulla riforma fiscale

16 FRANCESCO VESCOVO di ROMA Papa Francesco: “Sto scrivendo una seconda parte della Laudato Si”

17 GIOVANI                                          “L’autorità non basta, ecco perché gli adulti non intercettano più i giovani

18 MATRIMONIO                                 Il matrimonio è sacramento. Ma in che senso?

20 NATALITÀ                                         “Incentiviamo le nascite o l’Italia perderà 520 miliardi in 40 anni”

21 OMOFILIA                                        È il momento giusto per conciliare la nostra fede e il nostro mondo queer

22                                                          Perché per la “dottrina” si continua a minacciare la dignità delle persone LGBTQ+?

24 RELIGIONE                                       Francesco Cosentino “Ritorno del religioso e spiritualità cristiana”

28 RIFLESSIONI                                     Come educare i maschi

29 SINODO                                           Le norme che regolano il Sinodo volute da Paolo VI e da Papa Francesco

31 TEOLOGIA                                        La differenza di Dio e la differenza dell’ordine sociale

32                                                          Non c’è riforma della chiesa senza riforma della teologia

BIBBIA

“Una comune speranza di Salvezza nell’unico Dio”

Docente di Giudaismo, Elena Lea Bartolini (α1958)  esamina i più frequenti stereotipi tra i cristiani verso l’ebraismo. Mostra le grandi consonanze tra tradizione ebraica e insegnamento di Gesù, i Vangeli e Paolo. Comune è l’attesa della redenzione, che per gli ebrei riguarda i “tempi messianici”, mentre per i cristiani è attesa del “ritorno” di Gesù.

Nell’orizzonte del dialogo fra le Chiese cristiane e gli ebrei, che dopo la tragedia della Shoah si è sviluppato – seppur con dinamiche e tempi diversi – fra le diverse confessioni cristiane e le comunità ebraiche, si è progressivamente passati dalla riscoperta di un patrimonio di fede comune alla consapevolezza di potersi riconoscere partner nell’impegno a favore del bene di tutti, testimoniando la fede nell’unico Dio Padre dell’umanità in attesa del compimento della salvezza, come attestato nella Dichiarazione del 2016 della Conferenza dei Rabbini Europei e del Consiglio Rabbinico d’America: Tra Gerusalemme e Roma, preparata in occasione delle celebrazioni cattoliche per i 50 anni di Nostra Ætate.

www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decl_19651028_nostra-aetate_it.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Nostra_aetate

Se, soprattutto a livello accademico e nei gruppi che lavorano per il dialogo, si stanno sempre più rimettendo in discussione e superando molti antichi pregiudizi legati a una visione “sostituzionista” che contrapponeva la “novità cristiana” alla fede ebraica, non si può dire sempre altrettanto riguardo il sentire comune nell’ambito delle comunità sia cristiane che ebraiche, dove invece spesso permangono antichi pregiudizi. Il superamento quindi della distanza fra gli “esperti” del dialogo e la base continua a costituire un problema aperto, una vera e propria sfida per il futuro.

Fra gli stereotipi che più frequentemente si riscontrano in ambito cristiano c’è la convinzione che nell’ebraismo permanga una visione di Dio legata alla Legge e alla giustizia, che sarebbe stata “superata” dal Dio della misericordia e dell’amore proprio dei cristiani. Ma se ritorniamo onestamente alle Scritture bibliche rileggendo i testi cristiani alla luce del contesto ebraico nel quale Gesù di Nazareth ha vissuto e insegnato, ci accorgiamo di grandi consonanze e soprattutto di una comune speranza e attesa di un compimento sia storico che escatologico.

Il permanere di molti pregiudizi spesso è legato non solo a una esegesi dei testi biblici discutibile o scorretta, ma soprattutto alla non considerazione (e spesso non conoscenza) del fatto che nella tradizione ebraica la testimonianza biblica costituisce solo una parte della rivelazione sinaitica, alla quale si aggiunge un insegnamento orale altrettanto autorevole che, pur articolandosi nel tempo, viene tradizionalmente ricondotto al Sinai, in quanto svela progressivamente i molteplici sensi di quello scritto attraverso una continua tradizione interpretativa alla luce delle regole fissate dai maestri. Ciò vuol dire che la Torah, il Pentateuco, impropriamente definito “Legge” in molte traduzioni italiane, va considerata sia nella sua dimensione scritta che in quella orale confluita nelle fonti rabbiniche dopo la caduta del Tempio del 70 a opera dei romani. Se infatti confrontiamo tali fonti – soprattutto quelle redatte nello stesso periodo dei Vangeli – con gli insegnamenti di Gesù di Nazareth, ci accorgiamo di interessanti parallelismi fra il messaggio dei maestri della tradizione ebraica del primo secolo e quello confluito nel Nuovo Testamento: spesso ritroviamo le stesse parabole, come quella dell’abbondanza di messi in rapporto alla carenza di lavoratori che possano raccoglierle, presente sia nella Mishnah, dove è attribuita a rabbi Tarfon (’Avoth II,15-16), che nei Vangeli con attribuzione a Gesù di Nazareth (Mt 9,37; cf. 20,1ss.). Lo stesso vale per la parabola del banchetto al quale non tutti gli invitati arrivano adeguatamente preparati (Mt 22,1-14 e Lc 14,16-24), della quale c’è un accenno nella Mishnah (’Avoth II,10) e lo sviluppo nel Talmud Babilonese (Shabbath 153a).

Inoltre, spesso Gesù utilizza espressioni tipiche della tradizione farisaica fissatasi nelle fonti rabbiniche. In particolare, l’espressione: «è stato detto, ma io vi dico» (cf. Mt 5,21-48), con la quale egli propone alcuni esempi di compimento dei precetti e delle “Dieci Parole” al Sinai, che è la stessa con la quale nelle fonti rabbiniche si esprime la “siepe alla Torah”, cioè la radicalizzazione dei precetti e degli insegnamenti rivelati. Ad esempio, riguardo il divieto di adulterio, nel Talmud Palestinese si afferma: «Voi avete udito che agli antichi fu detto: Non commettere adulterio (Es 20,14). Ma io vi dico che colui il quale guarda con desiderio l’estremità del calcagno di una donna, colui è come se avesse peccato di adulterio con quella donna» (Kallah V); insegnamento molto simile a quello di Gesù confluito nel Vangelo di Matteo: «Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27).

Anche riguardo il precetto dell’amore, sia verso Dio che verso il prossimo (cf. Mt 22,34-39), c’è una significativa consonanza ebraico-cristiana. La tradizione rabbinica li ha sempre considerati un binomio inscindibile (4): non si può amare Dio se non si è capaci di amare il prossimo anche quando è nostro nemico, e il fondamento di tale insegnamento si trova in molti passi della Torah: nel Levitico si afferma l’importanza di amare sia chi appartiene al proprio popolo che lo straniero (cf. Lv 19,18 e 34), così come è importante riuscire ad amare il nemico evitando la vendetta (cf. Es 23,4-5; Dt 22,1-4; Lv 19,17-18; Talmud Babilonese, Jomah 23a) (5) , solo in questo modo si può amare Dio con tutto il cuore e le proprie forze come ribadito nello Shema‘ Jisra’el (cf. Dt 6,5 e 11,1). Per questo la tradizione ebraica insegna che Dio, compreso come Padre misericordioso, ci chiede di perdonarci reciprocamente come condizione per essere perdonati da Lui. Una parabola rabbinica, ripresa anche nei Vangeli, narra che: «Il figlio di un re [il re è Dio] aveva preso una cattiva strada. Il re gli inviò il suo precettore con questo messaggio: “Ritorna figlio mio”. Ma il figlio gli fece rispondere: “Con che faccia posso tornare? Mi vergogno a comparirti dinanzi”. Il Padre allora gli mandò a dire: “Può un figlio vergognarsi di tornare da suo Padre? E se tu torni, non torni da tuo Padre?”» (Deuteronomio Rabbah II,24; cf. Lc 15,1ss.). “Tornare”, nella tradizione ebraica significa fare teshuvah, cioè riconciliarsi sia con Dio che con il prossimo, e questo implica subordinare la riconciliazione effettiva alla richiesta di perdono a Dio. A tale proposito, gli insegnamenti della Torah orale confluiti nella Mishnah precisano: «Il giorno di Kippur [dell’espiazione/perdono] procura il perdono solo per le trasgressioni commesse tra uomo e Dio; per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo il giorno di Kippur procura il perdono solo se uno si è prima rappacificato con il suo fratello» (Jomah VIII,9); lo stesso insegnamento si ritrova nel Vangelo di Matteo: «Se dunque presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,22-24).

C’è quindi una grande consonanza fra l’immagine di Dio emergente nella tradizione ebraica e in quella cristiana: entrambe, infatti, ne sottolineano gli aspetti sia materni che paterni e l’infinita misericordia che supera la Sua giustizia. Il rapporto fra misericordia e giustizia divina è simboleggiato nel tallit, lo scialle per la preghiera che gli ebrei indossano per quella del mattino e delle feste. Si tratta di uno scialle bianco con alcune strisce più scure – azzurre o blu – che simboleggiano i due fondamentali attributi divini: il bianco, la parte più estesa, rappresenta la misericordia, mentre le sottili strisce più scure rappresentano la giustizia. Pertanto, avvolgendosi nel tallit, si sperimenta anche fisicamente l’abbondanza della misericordia divina superiore alla giustizia (cf. Es 20,5-6).

Per questo diversi Salmi celebrano l’amore di Dio definendolo chesed, che in ebraico significa “amore incondizionato”, “amore senza limiti” (cf. Sal 118 e 136), così come in molte formule di preghiera che la tradizione ebraica utilizza dai tempi antichi ci si rivolge a Dio chiamandolo ’avinu, “Padre nostro”, espressione che ricorre anche nella Bibbia ebraica (cf. Dt 32,6; Is 63,16 e 64,7; Ger 3,4.19.22), un Padre il cui Nome non si può pronunciare per rispettarne la trascendenza ma che si deve santificare per celebrarne l’amore e la grandezza. Per questo anche Gesù di Nazareth ricorda ai suoi discepoli che il modo migliore per pregare Dio è rivolgersi a lui come Padre santificando il Suo Nome (cf. Mt 6,9-12 e Lc 11,2-4), e propone loro una sintesi di formule ebraiche di preghiera ancora oggi in uso.

Per molto, e forse troppo tempo, in ambito cristiano si è sostenuto che sia stato Gesù a insegnare a rivolgersi a Dio chiamandolo Padre; oggi la ricerca biblico-teologica ha fatto grandi passi avanti al riguardo, e fra i frutti significativi del cammino percorso si colloca anche un saggio a due voci che propone un’interpretazione del Padre Nostro come preghiera comune alle due tradizioni. Così come non è un caso che molti ebrei che, in tempi recenti, hanno letto e studiato le narrazioni evangeliche concordemente riconoscono che l’insegnamento di Gesù di Nazareth è in linea con la tradizione dei maestri ebrei del tempo.

Un altro aspetto interessante degli studi che il dialogo ha favorito, è una nuova prospettiva riguardo l’interpretazione dei testi paolini, considerati spesso un “superamento della Torah” in ambito cristiano e giudicati in quello ebraico come una sorta di “tradimento” di quanto predicato da Gesù di Nazareth. Tuttavia, in tempi recenti, Gabriele Boccaccini (α1958)   che è fra gli studiosi occidentali più autorevoli riguardo il giudaismo post-esilico – ha pubblicato un interessante saggio su Paolo di Tarso alla luce del quale si rimette in discussione l’esegesi cristiana che lo ha contrapposto alla tradizione ebraica. Una ricerca analoga è in corso anche da parte di alcuni studiosi dell’Università Ebraica di Gerusalemme, fra i quali il  Dott. Serge Ruzer (α1950) ebreo russo trasferitosi in Israele alla fine degli anni ’90, attualmente Docente nel Dipartimento di Religione Comparata e Vicedirettore del Centro di Studi Ebraici dell’Università Ebraica e dell’Università Statale di Mosca. Le sue ricerche vertono sull’approfondimento del contesto ebraico del cristianesimo nascente, il quale implica uno studio dei modelli di pensiero del giudaismo medio per valutarne le influenze nel modo di testimoniare e raccontare la fede negli Scritti cristiani (Vangeli, Atti, Lettere apostoliche) . Per questo egli sta cercando di analizzare e mappare le prime tradizioni cristiane come potenziali testimonianze di alcune forme di ebraismo più ampie, talvolta marginali, ma comunque attestate e confluite nelle fonti rabbiniche, confermando così la linea di altri studiosi da tempo interessati a questo delicato e complesso periodo. Ruzer sta anche studiando le strategie del primo cristianesimo di lingua aramaica e siriaca, al fine di poter definire meglio quale possa essere stata la sua auto definizione nei confronti, da una parte, del cristianesimo di lingua greca dominante, e dall’altra dell’ebraismo babilonese con il quale condivide lo stesso linguaggio religioso.

Tutti questi studi non hanno come prospettiva quella di annullare le differenze teologiche fra ebrei e cristiani, ma cercano piuttosto di rileggere l’originalità di entrambe le tradizioni religiose superando stereotipi e pregiudizi quasi sempre generati dalla scorretta conoscenza reciproca. Se, da una parte, risulta evidente che Gesù di Nazareth sia stato un ebreo del suo tempo e abbia insegnato mantenendosi in linea con gli altri maestri della tradizione, dall’altra non si può negare che la fede della Chiesa delle origini abbia maturato una comprensione del suo mistero pasquale nella prospettiva dell’incarnazione, che non è accettabile per l’ebraismo. Ma ciò non giustifica una lettura del Nuovo Testamento in contrapposizione alle Scritture ebraiche, semmai dovrebbe spingere a mettere in luce il patrimonio di fede comune nel rispetto delle differenze. Interessante al riguardo è la recente traduzione commentata del Nuovo Testamento di due studiosi:

 Marco Cassuto Morselli (α1954).ebreo,  e Gabriella Maestri cristiana cattolica, edita da Castelvecchi. Quella che propongono è una lettura di tutti gli Scritti cristiani ricollocati nel loro contesto ebraico, sottolineando inoltre gli influssi redazionali derivati dalle tensioni fra Chiesa e Sinagoga spesso successive al periodo del Gesù storico, e mostrando come una corretta esegesi può evitare pregiudizi e luoghi comuni estranei al messaggio cristiano delle origini.

Tutto ciò costituisce un invito a guardare oltre il pregiudizio, riscoprendo la comune attesa del compimento finale, della redenzione storica, che per gli ebrei significa attesa dei “tempi messianici” secondo una duplice fase storica ed escatologica, mentre per i cristiani significa attendere il ritorno di Gesù compreso come “messia”. E non si può escludere che la realizzazione di tali attese possa avvenire ed essere riconosciuta congiuntamente.

                               Elena Lea Bartolini De Angeli                    agosto 2023  (da Esodo giugno 20239

www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/08/elena-lea-bartolini-una-comune-speranza.html#more

CHIESA IN ITALIA

Una Chiesa fuori di sé: crisi e sfide

Venerdì 18 agosto 2023  si è tenuta a Camaldoli una serata di riflessione sul tema: “La crisi del cristianesimo in occidente”, nella quale sono intervenuto insieme a Lucia Vantini e che può essere ascoltata sul canale youtube al seguente link

 Pubblico qui di seguito lo schema su cui ho costruito la mia relazione      Andrea Grillo.

“Si manifestò in altra forma (en ethèra morphé)” (Mc 16,12)

In questa “Sala del Landino”, che frequento ormai da alcuni decenni, è bello parlare sotto un soffitto ligneo solidissimo e potente e sotto lo sguardo della “testa dorata” di Giovanni XXIII, che si affaccia quasi alla finestra, poco sotto la targa che ricorda come, in questa stessa sala, “diebus canicularibus” si tenessero molti secoli fa discussioni accademiche con i migliori ingenii dell’umanesimo e del rinascimento toscano. A Camaldoli si respira una tradizione di libertà che continua.

La riflessione di questa sera muove da due libri: un grande “canto del cigno” “Un cattolicesimo diverso” di Ghislain Lafont (α1928-ω2021)  monaco benedetttino

e una bella “opera prima”  e “Dio rimane” di Debora Rienzi, laureata in filosofia e medicina.

Biograficamente stanno alla fine di una vita e all’inizio di una carriera. Sono due libri sorprendenti. Perché aprono prospettive di rilettura importanti della nostra tradizione cristiana e cattolica. E rispondono magistralmente alla crisi di cui vi dirò. Affascinano come le opere prime e le opere ultime. Come i primi minuetti di Mozart o gli ultimi quartetti di Beethoven, come le danze del giovane Bach o l’arte della fuga lasciata incompiuta.

Un terzo libro (“Era irriconoscibile” di Enrico Mazza) ci offre una sorta di “basso continuo”, come meditazione sulla identità del Risorto “in altra forma”.

1. Il cristianesimo in crisi: non è una novità. Vorrei parlare, in modo particolare, della crisi del cattolicesimo, della grande opportunità del primo papa “non europeo”, che ci permette di capire meglio la differenza tra “crisi istituzionale” e “crisi sostanziale”. Perché,, appunto, Francesco, non essendo europeo, ha uno “sguardo da fuori” che aiuta a relativizzare le nostre fisime, i nostri tic, i nostri assoluti, che non sono cattolici, ma semplicemente europei, di una cultura che è cambiata e con la quale non dobbiamo più confondere il vangelo. Se il vangelo “resta”, la cultura può e deve cambiare!

                2. Da dove iniziamo? Si potrebbe iniziare a considerare la crisi da molti punti storici di svolta: dalla traduzione imperiale romana della fede, poi dalla traduzione carolingia, poi da Gregorio VII, dalla versione scolastica, dalla scoperta dell’America, ovviamente anche da Lutero, ma io scelgo dalla “fine della tradizione” che accade con le rivoluzioni politiche e industriali tra fine 700 e primi 800. Lì accade (in Europa e diversamente in Nord America) qualcosa di enorme, che mette alla prova il piccolo mondo antico europeo e poi mondiale: cambia il modo di pensare il soggetto lavoratore e il soggetto cittadino. Cambia l’idea di libertà e di autorità. Siamo ancora tutti vittime e prodotti (attori e risultati) di questo grande evento di tecnologia economica e di tecnologia politica. Da queste rivoluzioni nasce la rilettura dei soggetti e degli oggetti, dei giovani come delle donne.

3. Cambia il “cuore” della società, che passa da “società dell’ onore” a “società della” dignità. È stato il filosofo cattolico canadese Charles Taylor (α1931)  a suggerirmi una delle chiavi di lettura per me oggi più efficaci per interpretare questa crisi, che viviamo da 200 anni. Ed è, appunto, il passaggio dalla società dell’onore alla società della dignità. Si tratta di un passaggio epocale, che inaugura le forme di vita a cui oggi siamo legati in buona parte del mondo cosiddetto “avanzato”, o, per dire meglio, nella cosiddetta “società aperta” (nella quale la identità non è prestabilita in modo assoluto). Potremmo dire così: si passa dal principio di “differenza” (di cui vive l’onore) al principio di “eguaglianza” (di cui vive la dignità).

                4. La crisi delle fedi e della forma cattolica dipende, in larga parte, da questa nuova forma di società. La società aperta non predetermina i destini, le identità, le funzioni, i mestieri, le vocazioni. Li affida alla libertà (sempre in cerca di autorità e nel dramma di un riconoscimento non più assicurato a priori). La tentazione, per tutte le chiese, e per la chiesa cattolica in modo particolare, è di sancire una alleanza difensiva con la società dell’onore, per poter dire sé stessa secondo la “tradizione” (elaborata in secoli di società dell’onore). Le differenze fondamentali, che si implicano una con l’altra, sono tre: differenza tra Dio e uomo, tra maschio e femmina, tra chierici e laici. Difendere queste differenze si identifica, purtroppo, con la difesa del vangelo. Qui sta l’errore più grave e più difficile da superare. Ci siamo convinti, da 200 anni, che la custodia del divino consista nel conservare la società ingiusta.

5. Excursus: sul “clericalismo” e i suoi significati dimenticati. Identità ecclesiale di fronte al mondo laico. Il clericalismo era “la” forma della apertura al mondo. La chiesa era “clericale” per poter istituire una relazione di “uscita”. Solo a partire dalla fine del 700 la logica clericale è diventata, progressivamente, chiusura e diffidenza verso il mondo.

                6. Una lenta elaborazione della crisi. I segni dei tempi di 60 anni fa: lavoratori, donne, popoli in una nuova lettura. La posizione cattolica ha reagito alla “società aperta” in modo frontale. Fino al 1870, per un secolo, compilando elenchi sterminati di errori moderni. Tra fine 800 e prima metà del 900 la cosa si è trasformata nella “lotta contro il modernismo”, le cui radici sono nel Sillabo di Pio IX e arrivano fino al 1950. Bisogna attendere Giovanni XXIII per trovare, inaspettatamente, un approccio veramente nuovo, fino alla scoperta di “segni dei tempi”, ossia di elementi della storia comune, segnati dalla novità della società aperta, che la Chiesa inizia a valutare positivamente. Nei “segni” che la storia offre la Chiesa diventa “discente”.[discepola].

7. Tre nuovi segni dei tempi: generare custodire comunicare. Potremmo, 60 anni dopo, identificare altri “segni dei tempi”, che si aggiungono a quelli ancora disattesi di 60 anni fa. La forma moderna del “generare”, la forma moderna del “custodire” e la forma moderna del “comunicare” ci insegnano qualcosa. Lo fanno uscendo una volta per tutte dalle tentazioni nostalgiche delle modalità tradizionali del generare, del custodire e del comunicare, che incidono pesantemente sul modo di ascoltare la Parola e di annunciarne il messaggio di fede e di libertà.

  1. Come generiamo oggi alla vita, alla fede, alla carità?
  2. Come custodiamo l’uomo, il creato e Dio stesso?
  3. Come comunichiamo la Parola e la sua forza di amore?.

8. Superare l’antimodernismo come “destino cattolico” . Gli abiti ottocenteschi, che abbiamo conservato gelosamente fino agli anni 50 e che sono tornati prepotentemente in auge dopo gli anni 80 del 900, con il sorgere di un vero e proprio “dispositivo di blocco” messo in atto dal magistero cattolico contro ogni novità, percepita come minaccia. Due esempi:

  1. la nostalgia della liturgia riformata dal Concilio Vaticano II e
  2. il tentativo di “dogmatizzazione” della riserva maschile sul ministero ordinato:

due fenomeni recentissimi (degli ultimi 30 anni) che mostrano bene la tentazione di pensare il vangelo nella “società della differenza”, anche se non sappiamo più darne argomentazioni credibili e plausibili.

9. Il cattolicesimo come “promotore di cultura” (non di musei). Riconoscere il risorto significa diventare corpo di Cristo, entrare nella logica della morte e risurrezione, e così scoprire il Signore che è “irriconoscibile” e che si presenta “in altra forma”. Il Signore risorto è signore della storia, ma non è immediatamente riconoscibile, oggettivabile, esigibile! Si presenta sempre “in altra forma”. Per questo ha bisogno di “altre categorie” con cui dire il medesimo evento di morte e risurrezione.

                Precisare il concetto di “dottrina” (a partire dalla “natura della dottrina” di

George Lindbeck α1923-ω2018) è uno dei compiti sistematici più urgenti: due casi, entrambi legati alla dimensione sessuale.

  1. La teologia del matrimonio e
  2. la teologia dell’ordine,

che devono essere ricostruite sulla base di una nuova comprensione del rapporto tra sesso, identità e genere (le connotazioni biologiche, personali e sociali stanno oggi su un piano diverso da prima). La parità matrimoniale, assunta da meno di 50 anni anche ritualmente, fatica ad essere raggiunta dalla parità ministeriale, che resta pensata in una forma arcaica, lacerata e lacerante. E da qui scaturisce una sorta di “dipendenza” (tossica) del cattolicesimo dalla “società dell’onore”. La identificazione del cattolicesimo con l’ancien régime accade quasi nella comune distrazione.

10. Conclusioni letterarie e cinematografiche e le tre “i” necessarie per reagire. Vorrei finire con due opere d’arte assai utili per meditare sulla crisi del cristianesimo oggi. Si tratta di due “rappresentazioni” di ciò che accadeva in Europa nel 1850 e nel 1950, circa 170 anni fa e 70 anni fa. Il romanzo “Hard Times di Charles Dickens  e il film “Philomena” di Stephen Frears ci presentano un mondo “in altra forma”. Ossia nella forma di una società dell’onore che si sta trasformando in società della dignità. Questo implica la crisi dei modelli familiari, educativi, religiosi, assistenziali, ministeriali. Ciò che era stato fondato sulla “differenza” e sull’”onore” aveva bisogno di essere ricompreso sulla base della “eguaglianza” e della “dignità”.

                Essere “fuori di sé” (che è anche il titolo di un bel libro di Marcello Neri) è un modo con cui diciamo la “perdita della identità statica”. Dicendo “era fuori di sé” di solito ci esprimiamo in un modo che per lo più ci serve a qualificare negativamente il comportamento di una persona. Per il Signore Gesù e per la Chiesa che da lui deriva, nascendo dall’acqua e dal sangue che scaturiscono dal suo costato, essere “fuori di sé” è la cifra sorprendente di una identità non compiuta, ma affidata e sorprendente. Una chiesa “in uscita” può davvero essere sé stessa nella coscienza che il Signore è sempre “in uscita”. Perciò la inquietudine, la incompletezza e la immaginazione, di cui la Chiesa deve dotarsi per essere fedele, sono il nutrimento essenziale di ogni buona teologia. La teologia deve rendere conto di una Chiesa chiamata dal suo Signore ad essere “fuori di sé”. Il Signore si lascia vedere solo “nella fede” e perciò sta sempre “in altra forma”. Questo “fondamento” implica una trascendenza a sé stessa e una trasgressione di sé che la Chiesa si vede posta come “condizione di fedeltà”.

Andrea Grillo    blog: Come se non          21 agosto 2023

www.cittadellaeditrice.com/munera/una-chiesa-fuori-di-se-crisi-e-sfide

Non c’è Chiesa senza fraternità

Ancora una volta sono stati pubblicati dati aggiornati sulla pratica religiosa (cattolica!) nel nostro paese. Le ricerche sono state essenzialmente due e significativamente la lettura dei risultati risente dell’ideologia di chi ha condotto l’indagine. Anche se è meno attestata l’interpretazione dei sociologi di corte, si coglie una certa volontà di rassicurazione sulle condizioni della fede in Italia, oppure, al contrario, si mette in evidenza la catastrofe che incombe sul futuro della chiesa.

                In ogni caso si registra un vertiginoso calo della frequenza dei cattolici alla messa domenicale: secondo le inchieste per campione tra il quindici e il diciannove % degli intervistati dichiara di partecipare con una certa continuità, ma a sentire alcuni vescovi che hanno fatto una vera “conta” dei fedeli la percentuale sarebbe molto più bassa e nel centro-nord dell’Italia non si raggiungerebbe il dieci %.

                Ciò che stupisce è che in questi vent’anni del terzo millennio il numero dei praticanti assidui si sia dimezzato e quindi sia raddoppiato il numero di quelli che non partecipano mai alla liturgia cattolica.

                Molti, con fin troppa superficialità, hanno intravisto nella chiusura delle chiese avvenuta nel lungo periodo di loockdown (per il Covid) la causa di tale crollo, ma in realtà altre e più profonde sono le cause e vengono dal passato.

 Armando Matteo, teologo attento non solo al dato sociologico ma anche al vissuto della chiesa, già dieci anni fa osservava che i giovani sono “la chiesa che manca” e oggi è ovunque attestato l’abbandono della vita sacramentale dopo aver ricevuto il sacramento della cresima, perché neppure il 10% continua a frequentare la messa. Perché tale disaffezione tra i giovani? Perché questa interruzione nella trasmissione della vita cristiana? Più volte ho risposto a queste domande, con una posizione a dire il vero scarsamente condivisa, ma a mio parere la causa è duplice:

  1. da un lato il venir meno della fede (non della religiosità, né della spiritualità), la fede in Cristo Signore che ci libera dalla morte e dà senso oggi alle nostre vite,
  2.  e dall’altro lato il fatto che nelle assemblee cristiane non si fa un’esperienza di fraternità. Le liturgie sono sovente anonime, sciatte, non lasciano spazio né alla preghiera né al riconoscersi fratelli e sorelle. Giustamente i giovani affermano: “Ma che cosa di vitale mi offre la partecipazione alla messa? Quando esco dalla chiesa cosa porto con me in termini di fiducia, speranza e comunione con gli altri?”.

Purtroppo la chiesa ha dimenticato che uno dei suoi primi nomi (esistenziale e non istituzionale) era adelphótes, fraternità: è così che l’apostolo Pietro chiama la chiesa, quasi a ricordare che se non è fraternità è non-chiesa, è scena religiosa, è rito umano venerabile, ma non è comunione con gli altri e con Dio. Nell’attuale crisi, il rettore de Notre-Dame di Parigi ha denunciato la crescita di una tendenza identitaria tra i giovani cattolici francesi, ma questo esito appare difficilmente possibile in Italia, dove invece ci sarà solo il progressivo abbandono della chiesa e il deserto della fede.

                L’idea della necessità della partecipazione al culto comunitario regge soltanto se tale partecipazione è sotto il segno della fraternità. E non si abbia nostalgia della cosiddetta “pietà popolare”, che aggrega per celebrare feste all’insegna del folclore, non in vista della comunione tra i credenti e con Dio!

                Enzo Bianchi      La Repubblica                  21 agosto            2023

www.repubblica.it/rubriche/2023/08/21/news/chiese_vuote_giovani_fraternita_crisi_fede-411756834

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DALLA NAVATA

XX Domenica del tempo ordinario – Anno A

Isaìa                        22,22. Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire.

Salmo                   137,06. Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile; il superbo invece lo riconosce da lontano.

Paolo ai Romani 11,34. Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere?

Matteo                16,20. Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

La beatitudine di Pietro

Nella nostra lettura contemplativa del vangelo secondo Matteo, siamo giunti a una svolta nella vita di Gesù: ormai i discepoli, dopo averlo seguito, ascoltato e osservato come maestro e venerato come profeta, giungono a comprendere per grazia che la sua identità va al di là della loro comprensione e della loro esperienza umana. Gesù, infatti, ha un legame unico con Dio, che lo ha inviato nel mondo: è il Figlio di Dio. Proprio da quel momento Gesù rivela ai discepoli la necessità della sua passione, morte e resurrezione, e lo fa in modo continuo nel viaggio che ha come meta Gerusalemme (cf. Mt 16,21; 17,22; 20,17-19), la città santa che uccide i profeti (cf. Mt 23,37).

                Il racconto è denso, frutto della testimonianza sull’evento, ma anche della meditazione della chiesa di Matteo, che approfondisce sempre di più il mistero di Cristo. Gesù va con i discepoli nei territori di Cesarea, la città fondata trent’anni prima dal tetrarca Filippo, figlio di Erode il grande, ai piedi del monte Hermon. E proprio là dove Cesare è venerato come divino, proprio in una città edificata in un suo onore, ecco l’occasione per la domanda su Gesù: chi è veramente Gesù? È lui stesso a porre questa domanda ai suoi discepoli: “Gi uomini chi dicono che sia il Figlio dell’uomo?”. Gesù amava chiamare sé stesso “Figlio dell’uomo”, espressione oscura e forse anche ambigua agli orecchi dei giudei, espressione che indicava un uomo terrestre, figlio d’uomo, e nello stesso tempo un veniente da Dio.

I discepoli riferiscono che la gente pensa che Gesù sia un profeta, uno dei grandi profeti presenti nella memoria collettiva d’Israele: forse Elia che era atteso, forse il Battista, ucciso da Erode ma tornato in vita (cf. Mt 14,1-12), o forse Geremia, visto che, come lui (cf. Ger 7), Gesù pronunciava parole contro il tempio di Gerusalemme. Allora Gesù interroga direttamente i discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?”. In realtà, poco prima, alla fine della traversata notturna e tempestosa del lago di Galilea, quando Gesù era andato verso di loro camminando sulle acque, i discepoli avevano confessato: “Veramente tu sei il Figlio di Dio!” (Mt 14,33). Ma ora la risposta viene da Simon Pietro, il discepolo chiamato per primo (cf. Mt 4,18-19).

La domanda di Gesù non mirava affatto a ottenere in risposta una formula dottrinale, tanto meno dogmatica, ma chiedeva ai discepoli di manifestare il loro rapporto con Gesù, il loro coinvolgimento con la sua vita, la fiducia che riponevano nel loro rabbi. Sì, chi è Gesù? È una domanda che dobbiamo farci e rifarci nel passare dei giorni. Perché la nostra adesione a Gesù dipende proprio da ciò che viviamo nella conoscenza o sovraconoscenza (epígnosis) della sua persona. Chi è Gesù per me?, è la domanda incessante del cristiano, che cerca di non fare di Gesù il prodotto dei suoi desideri o delle sue proiezioni, ma di accogliere la conoscenza di lui da Dio stesso, contemplando il Vangelo e ascoltando lo Spirito santo. La nostra fede sarà sempre parziale e fragile, ma se è “fede” che “nasce dall’ascolto” (Rm 10,17), è fede vera, non illusione né ideologia.

Secondo Matteo qui i discepoli restano muti, ed è solo Pietro che proclama, con una risposta personale: “Tu sei il Cristo, il Messia, il Figlio del Dio vivente”. Egli dice che Gesù non solo un maestro, non è solo un profeta, ma è il Figlio di Dio, in un rapporto intensissimo con Dio, che possiamo esprimere con la metafora padre-figlio. In Gesù c’è ben più di un uomo chiamato da Dio come un profeta: c’è il mistero di colui che la chiesa, approfondendo la propria fede, chiamerà Signore (Kýrios), chiamerà Dio (Theós). È vero che in ebraico l’espressione figlio di Dio (ben Elohim) era un titolo applicato al Messia, l’Unto del Signore (cf. 2Sam 7,14; Sal 2,7; 89,27-28), applicato al popolo di Israele (cf. Es 4,22), ma qui Pietro confessa chiaramente in Gesù l’unicità del Figlio di Dio vivente. E si noti che, se in Marco e in Luca Pietro esprime la fede dell’intero gruppo dei discepoli (cf. Mc 8,29; Lc 9,20), qui invece parla a nome proprio, e per questo la risposta di Gesù è rivolta a lui solo: “Beato sei tu, Simone, figlio di Jonà, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”.

                Colui che si chiamava Simone, il pescatore di Galilea figlio di Jonà, è definito da Gesù “beato”, non per sé stesso, ma per la rivelazione gratuita che il Padre gli ha fatto. Se Simone proclama questa confessione di fede, è per rivelazione di Dio, non come frutto di ragionamenti ed esperienze umane (carne e sangue). Per volontà amorosa di Dio, Pietro ha avuto accesso a tale rivelazione, e per questo Gesù, constatando l’azione del Padre, lo definisce beato. Del resto Gesù lo aveva detto: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (cf Mt 11,27), e qui non fa che ribadirlo, discernendo che attraverso Pietro è il Padre stesso che ha parlato.

                Proprio in obbedienza a tale rivelazione, Gesù continua, dichiarando a Simone: “Tu sei Pietro (Pétros) e su questa pietra (pétra) edificherò la mia chiesa”. Gesù sta costruendo la chiesa, e certo sarà lui “la pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1Pt 2,4), ma di questa costruzione Pietro è la prima pietra. Per fare una costruzione occorre che ci sia qualcuno capace di essere la prima pietra, e Pietro mostra di essere tale, perciò Gesù gli cambia il nome da Simone in Kefâs, Pietro (cf. Gv 1,42). Così egli parteciperà per grazia alla saldezza della Roccia che è Dio (cf. Sal 18,3.32; 19,15; 28,1, ecc.), saldezza nel confessare la fede, anche se soggettivamente potrà venire meno nella sua sequela, cadere in peccato, manifestandosi con le sue debolezze e i suoi comportamenti contraddittori. La beatitudine di Gesù non costituisce Pietro nella santità morale ma nella saldezza della fede confessata. E non saranno forse proprio la fragilità e la debolezza nella sua sequela di Gesù che permetteranno a Pietro, autorità suprema tra i Dodici, di essere esperto della misericordia del Signore?

Pietro sa di aver conosciuto su di sé la misericordia del Signore, di aver conosciuto veramente il Signore, e perciò può annunciarlo e testimoniarlo in modo credibile. Pietro ha avuto per grazia il dono del discernimento, ha visto bene chi era Gesù, e per questo può essere la prima pietra, quella che segna la saldezza di tutta la costruzione, un uomo capace di rafforzare e confermare i fratelli, anche perché a sua volta sostenuto e confermato dalla preghiera di Gesù (cf. Lc 22,32).

In questo passo appare la parola “chiesa”, che ritornerà solo un’altra volta in tutti i vangeli, ancora in Matteo (cf. Mt 18,17). Chiesa, ekklesía, significa assemblea dei chiamati-da (ek-kletoí): questo è il nome dato dagli elleno-cristiani alle loro comunità, anche per differenziarsi dalla sinagoga (assemblea) degli ebrei non cristiani. Ebbene, la chiesa ha Gesù come costruttore – “Io edificherò la mia chiesa” – ed essa gli appartiene per sempre: non sarà mai né di Pietro, né di altri, ma di proprietà del Signore (Kýrios). In questa costruzione di Cristo, Pietro sulla terra sarà l’intendente, colui che apre e chiude con le chiavi affidategli da Cristo stesso: si tratta di immagini semitiche, di cui troviamo traccia nell’Antico Testamento (cf. per esempio Is 22,22), che significano che Pietro sarà abilitato interpretare la Legge e i Profeti, quale testimone e servo di Gesù Cristo.

                Ecco dunque un grande dono di Gesù ai discepoli: Pietro, l’umile pescatore di Galilea, che ha ricevuto una rivelazione da parte di Dio e l’ha confessata. È innegabile che qui Pietro riceva un primato, quello dell’uomo dell’inizio, il primo chiamato, il “primo” nella comunità (cf. Mt 10,2), l’uomo capace di essere la prima pietra nell’edificazione della comunità cristiana (cf. Is 28,14-18). Potremmo dire che in quel giorno a Cesarea è abbozzata la chiesa, è posta la sua prima pietra. Poi nella storia farà la sua corsa, conoscendo contraddizioni, inimicizie e persecuzioni; ma pur nella sua povertà e nella fragilità dei suoi membri, deboli e peccatori, compirà il suo cammino verso il Regno, perché la volontà del Signore e la sua promessa non verranno mai  meno, e anche la potenza della morte non riuscirà a vincerla, ad annientare il “piccolo gregge” (Lc 12,32) del Signore. Un gregge che è piccolo, sì, ma che ha come pastore Gesù risorto e come recinto una chiesa la cui prima pietra, per volontà del Signore, resta salda.

p. Enzo Bianchi, monaco ad Albiano d’Ivrea – centro della madia

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FAMIGLIE NUMEROSE

Proposte ANFN sulla riforma fiscale

Quanto sono state efficaci in Italia le politiche familiari negli ultimi anni? Possiamo avere una risposta dalla analisi sulle famiglie numerose (intendendo quelle con tre o più figli), in quanto rappresentano la cartina di tornasole delle politiche familiari del nostro Paese. Ce lo indicano in maniera eloquente due dati:

  1. le famiglie con almeno 5 componenti sono le più povere in Italia. Dal 2006 al 2021 la povertà assoluta per questi nuclei familiari è passata dal 5,4% del 2008 al 22,6% del 2021. L’aumento è stato pressoché costante, con due soli eccezioni: nel 2010, grazie all’introduzione della detrazione di 1.200 euro per le famiglie con 4 e più figli, e nel 2019, grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza. Non abbiamo dati aggiornati sulla povertà assoluta del 2022, ma le indicazioni sul sito Istat ci mostrano un calo rispetto al picco del 2021, grazie all’introduzione dell’Assegno Unico Universale. Si evince che, quando vengono introdotti aiuti concreti per le famiglie, questi danno effetti immediati positivi rispetto al rischio di povertà. Nonostante l’AUU, tuttavia, oggi le famiglie con figli, in particolare quelle numerose, e i giovani, rappresentano le fasce più povere della popolazione in Italia. E ricordiamoci che la nascita di un figlio rappresenta la seconda causa di povertà in Italia, dopo la perdita del posto di lavoro del capofamiglia;
  2. le famiglie con tre e più figli si sono drasticamente ridotte negli ultimi anni, e rappresentano una delle principali cause del crollo demografico in Italia. Se andiamo ad analizzare le singole coorti delle donne in età fertile, la percentuale di donne con 1 o due figli è rimasta sostanzialmente stabile, con un lieve calo. È invece drasticamente calato il numero delle donne con tre o più figli.

Questo dato viene ulteriormente confermato se facciamo un raffronto con l’Europa. In Italia, le famiglie con 3 o più figli rappresentano il 7,4% del totale delle famiglie con figli, in Europa il 12,6% e in Francia il 15,1%. Le famiglie con due figli in Italia sono in linea con quelle europee, mentre le famiglie con un solo figlio in Italia sono superiori a quelle Europee di ben 5 punti percentuali.

                Se poi andiamo a vedere quanto incidono i figli nati nelle famiglie numerose rispetto al totale, vediamo che in Italia rappresentano poco più del 15% contro il 30% della Francia

                Famiglie numerose a rischio povertà e numericamente in drastica riduzione, con effetti diretti sulla natalità e sul futuro del Paese: questa è la cartina di tornasole che ci indica l’inefficacia delle politiche familiari in Italia in tutti questi anni.

                Questi dati però ci danno una prima chiave di lettura. Poiché le famiglie con 3 e più figli sono numericamente limitate (rappresentano poco meno del 3% sul totale delle famiglie in Italia), un deciso intervento a loro favore apporterebbe questi effetti:

  1. drastico abbattimento del rischio di povertà per queste famiglie;
  2. cambio di ‘status’ per famiglie numerose, da ‘cenerentole’ di Italia a ‘Principessa’, ossia a condizione a cui ambire, in particolare per le famiglie con 1 o 2 figli;
  3. effetti a breve termine sulla natalità;
  4. costi contenuti con maggiore efficacia dell’intervento. Se le risorse a disposizione sono limitate, una distribuzione mirata a pochi ha effetti più incisivi rispetto a piccoli benefici rivolti a tanti.

Questa è una prima importante interpretazione con cui affrontare il tema della riforma fiscale con una visione rivolta alle famiglie e alla natalità.

Dalla politica del figlio unico alla politica del terzo figlio

L’Italia deve arrivare al più presto alla politica del terzo figlio, come tanti altri paesi hanno già adottato (Francia, Ungheria) o stanno iniziando ad adottare. La Cina ha da poco dichiarato la politica del terzo figlio, per far fronte alla emergenza demografica conseguente alla politica del figlio unico adottata fino a pochi anni fa. Politica del figlio unico adottata finora anche in Italia non attraverso strumenti legislativi, ma con politiche culturali, lavorative ed economiche che hanno di fatto indirizzato la maggior parte delle coppie ad avere un solo figlio.

                Tra i primi passaggi per arrivare all’adozione della politica del terzo figlio, c’è l’eliminazione delle piccole e grandi discriminazioni che oggi in Italia vivono le famiglie numerose. In particolare, numerose leggi prevedono dei tetti rispetto al numero dei figli, assegnando agli ultimi figli un valore pari a zero. Ecco alcuni esempi:

  • L’accesso alla pensione di vecchiaia prevede il riconoscimento alle mamme lavoratrici di uno sconto di età pensionabile di 4 mesi per ogni figlio avuto per un massimo di 12 mesi. Perchè il 4’ figlio e i successivi non vengono considerati?
  • Per il superbonus 90% villette, recentemente introdotto, viene positivamente introdotto il principio del quoziente familiare, con scale di equivalenza che prevedono tuttavia un tetto di 2 per la presenza di 3 o più familiari a carico. In Francia le scale di equivalenza del quoziente familiare applicato al fisco, riconosce per ogni figlio successivo al secondo un valore pari ad uno, senza alcun tetto;
  • Tra le detrazioni previste nel mod. 730, quelle relative agli abbonamenti ai mezzi pubblici prevedono un limite massimo di 250 euro indipendentemente dal numero dei figli. Ottima misura per le famiglie con 1 figlio, ma con effetti pressoché nulli per le famiglie con più figli.

Potremmo andare avanti con tanti altri esempi, non solo a livello nazionale, ma anche a livello locale, che di fatto non hanno una giustificazione oggettiva, in quanto, come già ripetutamente segnalato, le famiglie numerose sono numericamente marginali, e questi tetti danno vantaggi economici trascurabili, tendenti alla nullità. La loro eliminazione sarebbe un primo importante segnale verso la politica del terzo figlio.

Una riforma fiscale a misura di famiglia

L’introduzione dell’Assegno Unico Universale ha comportato due grosse novità:

  • da un lato, l’eliminazione delle detrazioni per i figli a carico, togliendo l’unico strumento che garantiva un minimo di equità orizzontale al nostro sistema fiscale, che considera quante persone vivono sul reddito che viene tassato;
  • dall’altro, l’introduzione dell’ISEE nel calcolo del beneficio.

Questi tre strumenti (Fisco, AUU, ISEE) sono quindi interconnessi tra di loro, ma soprattutto presentano delle criticità che devono essere necessariamente sanate per un sistema che sia efficace e a misura di famiglia.

                Vediamo quali sono queste criticità, e i possibili interventi a supporto:

  • Fisco: come precedentemente indicato, l’assenza di detrazioni per i figli a carico fa sì che il nostro paese  a legge 1 aprile 2021 n. 46, istitutiva dell’AUU, dispone “il graduale superamento o soppressione, nel quadro di una più ampia riforma del sistema fiscale, delle … detrazioni fiscali” e prevede inoltre che “il superamento graduale delle detrazioni fiscali per i figli a carico puntualizza però la gradualità dello stesso in attesa di una ampia riforma fiscale, indicando inoltre nel contempo la possibilità di supportare e sostenere le famiglie nell’accrescimento dei figli a carico anche attraverso lo strumento fiscale”. La soluzione, che va incontro proprio a queste sollecitazioni, può essere rappresentata dalla introduzione di un quoziente familiare che assegni, per ogni figlio a carico, una no-tax area legata al costo di mantenimento dei figli, stabilita annualmente dall’ISTAT. Questa no-tax area va a incidere anche sul calcolo delle addizionali regionali e comunali, che oggi presentano una iniquità di fondo: a parità di reddito, un contribuente single paga le stesse addizionali di un contribuente con coniuge o figli a carico. In caso di incapienza, andrà previsto il rimborso dell’imposta negativa.
  • Per una maggiore sostenibilità economica, l’intervento può essere alternativo ad un AUU rivisitato, così come avviene in Germania, dove le famiglie possono scegliere tra detrazioni fiscali per figli, oppure Assegno Unico;
  • Assegno Unico Universale: i recenti dati forniti dall’INPS evidenziano che questo strumento non ha sfondato, tanto che nei primi 6 mesi del 2023 è stato speso 1 miliardo in meno rispetto a quanto preventivato. Su 13,5 mln. di famiglie aventi diritto, 1,3 mln. di famiglie, pari al 10%, non ha richiesto l’assegno. Per il 18% dei figli non è stato presentato l’ISEE. Questi dati parlano delle difficoltà di una misura che trova nella applicazione dell’ISEE (e nelle criticità che rappresenta, come evidenziato più avanti) la principale limitazione. Gli effetti dell’AUU per le famiglie nel 2022 sono stati i seguenti:
  • il 24,3% ha migliorato la propria situazione rispetto al precedente (detrazioni + assegni familiari);
  • il 66,4% la situazione reddituale risulta sostanzialmente inalterata;
  • il 9,3% delle famiglie registra un peggioramento.

La causa del peggioramento è dovuta, per la maggior parte, alla ‘colpa’ di avere una prima casa di proprietà. Ma i problemi dell’AUU non si limitano solo all’utilizzo dell’ISEE. Quando un figlio diventa maggiorenne, ed è a carico perché, ad esempio, inizia a seguire un corso di studi all’Università, le famiglie sanno bene che i costi di accrescimento aumentano sensibilmente. Questo però non viene riconosciuto dall’AUU, che anzi riduce drasticamente l’importo del 50% al compimento del 18’ anno, e lo fa sparire al compimento del 21’ anno! Risulta evidente che questa impostazione è stata dettata unicamente da motivazioni di sostenibilità economica, ma ciò non toglie il fatto che per tante famiglie l’entrata in maggiore età dei figli rappresenta automaticamente il venir meno di un beneficio. Le proposte dell’Associazione Nazionale Famiglie Numerose per rendere più efficace lo strumento sono:

  • Variazione del riferimento all’indicatore ISEE escludendo la componente patrimoniale, o comunque limitandola (ad esempio, escludendo la prima casa e prevedendo franchigie patrimoniali proporzionali al numero dei figli). Ricordiamo che la legge delega dell’AUU prevede la possibilità di utilizzo di un ISEE modificato, attraverso “l’esclusione del riferimento a componenti del sistema ISEE”;
  • Cancellazione della riduzione prevista dal 18’ anno;
  • Estensione fino al 26’ anno del figlio in caso di studi accademici o formazione professionale
  • Incremento sensibile della componente universale.

Sarà inoltre importante precisare che l’AUU è uno strumento di politica familiare e per la natalità, e NON, come ha precisato l’INPS nella relazione semestrale ottobre 22 – aprile 23, “una prestazione di natura assistenziale”.

  • ISEE: sin dal 2005 l’Associazione Nazionale Famiglie Numerose, nonché il Forum delle Associazioni Familiari, ha evidenziato l’errato utilizzo dell’ISEE per le politiche familiari. l’ISEE non è uno strumento di politica familiare, bensì di politica assistenziale. Questo è il grosso equivoco che ha caratterizzato questi anni di continuo calo delle nascite: le politiche familiari in Italia si sono limitate alle sole politiche assistenziali. Figli considerati scelta privata, non come bene pubblico da tutelare. Al contrario di come invece è stata considerata la casa. Perchè per usufruire delle detrazioni per la ristrutturazione di un immobile non viene richiesto l’ISEE, mentre per un beneficio che riguarda i figli sì? A questa domanda, ripetutamente posta, non ci è stata ancora data una risposta esauriente. Evidentemente, la casa è considerata un bene comune, i figli no. Peccato che tante di quelle case che oggi sono state ristrutturate con le generose elargizioni del superbonus 110%, tra qualche anno saranno vuote per l’inevitabile riduzione della popolazione già prevista dai demografi.

Le criticità dell’ISEE non si limitano tuttavia al suo errato utilizzo. Se, come dicono gli ultimi difensori dell’ISEE (quelli che continuano a proporlo ogni volta che si parla di interventi a favore delle famiglie), questo è uno strumento di equità, ci si è mai posta la domanda del perchè l’Italia è l’unico paese al mondo che utilizza l’ISEE? Anche qui proviamo noi a dare una risposta. A differenza di tanti altri paesi, non ha una imposta patrimoniale, ma tante piccole patrimoniali (IMU, bolli sui depositi). l’ISEE è l’unico intervento che considera il patrimonio in Italia. Peccato che venga usato solo quando si parla di famiglia! In tutti i paesi europei gli interventi che riguardano i figli sono universali (uguali per tutti), oppure legati al reddito. Nessun paese li lega a parametri patrimoniali. Solo l’Italia lo fa.

                Proseguendo sulle numerose criticità dell’ISEE, segnaliamo di seguito quelle principali:

  • Lo scopo dell’ISEE è quello di misurare la ricchezza di una famiglia. Peccato che riconosca come una ‘ricchezza’ le tasse pagate!!! Ai fini dell’ISEE vengono infatti considerati i redditi lordi, e non quelli netti, effettivamente a disposizione delle famiglie! Questa è una grande discriminazione per tutti coloro che pagano regolarmente le tasse;
  • Le scale di equivalenza attribuiscono valori decrescenti ai figli. In una famiglia con entrambi i genitori, al primo figlio viene considerato un valore pari a 0,47, al secondo 0,42, al terzo 0,39, dal quarto in poi 0,35. Le scale di equivalenza utilizzate in Francia per il Quoziente Familiare attribuiscono invece ai figli un valore crescente: 0,50 al primo e secondo figlio, 1 dal terzo figlio in poi. La Francia adotta un approccio da politiche familiari, l’Italia ha invece un approccio da politiche assistenziali. Le sale di equivalenza italiane, infatti, sono state costruite sulla base dei soli costi di mantenimento dei figli, quelli necessari per ‘sopravvivere’: cibo, alloggio, vestiario, sanità. Non vengono invece considerati i costi di accrescimento, ben superiori, che comprendono anche: istruzione, trasporto, spese per l’infanzia, attività ricreative, culture, viaggi, corsi di formazione, sport, etc. Queste scale di equivalenza possono avere un senso per le politiche di contrasto alla povertà, ma non per le politiche familiari.

Le principali proposte di modifica dell’ISEE riguardano quindi:

  • utilizzo dell’ISEE solo per politiche assistenziali e di contrasto alla povertà;
  • per la definizione dell’ISEE, impiego dei redditi netti anziché lordi;
  • impiego di scale di equivalenza costruite sui costi di accrescimento, come quelle in essere per il Fattore Famiglia proposto dal Forum delle Associazioni Familiari è già utilizzato in diversi comuni italiani;
  • eliminazione della prima casa dalla componente patrimoniale;
  • incremento sostanziale delle franchigie patrimoniali, crescenti rispetto al numero dei figli.

Dall’analisi di Fisco, AUU e ISEE risultano evidenti i legami e le interconnessioni di questi tre strumenti, da cui se ne deduce la necessità di una loro revisione congiunta e contestuale, e non separata.

                Auspichiamo che, con l’introduzione dei decreti delegati collegati alla riforma fiscale, vengano contestualmente introdotte le revisioni di AUU e ISEE.

                Concludiamo segnalando questi ulteriori interventi, proposti dalla Unità Politica della nostra Associazione, che potranno essere approfonditi nell’allegato 1:

Altre misure

  • Revisione sistema pensionistico in condivisione intra/extra
  • Applicazione concreta della “conciliazione lavoro/famiglia”
  • Condizioni lavorative precarie, specialmente dei giovani
  • Aumento prezzi del carrello alimentare che non accenna a regredire
  • Aumento dei tassi di interesse BCE
  • Considerazioni sul Debito Pubblico

Alfredo Caltabiano, Presidente Associazione Nazionale Famiglie Numerose – 24 agosto 2023

Allegato 1: considerazioni sulla delega fiscale. Miglioramento AUU

Dalla relazione semestrale emergono dati interessanti – vedi allegato effetti AUU su famiglie – ovvero situazione reddituale invariata nel 66% dei casi, migliorativa 24% peggiorativa 10% il tutto collegato ad una complessa strutturazione normativa ed applicativa. Pertanto, ai fini del miglioramento, abbiamo segnalato e occorre insistere su 4 linee fondamentali:

  1. Variare il riferimento all’indicatore ISEE escludendo almeno la componente patrimoniale; la Legge Delega lo permette – cancellare del tutto ISEE sarebbe magnifico …ma poco attuabile.
  2. Cancellare la riduzione del 50% (circa) dal 18° al 21° anno.
  3. Estendere almeno ai 26 anni del figlio in caso di studi accademici o formazione professionale.
  4.  Incrementare sensibilmente la componente universale.

Quoziente Familiare

                Per l’equità fiscale occorre passare ad un quoziente familiare assimilato al Fattore Famiglia, ossia con applicazione di una no-tax area corrispondente alle spese di accrescimento di ciascun figlio e con rimborso dell’imposta negativa in caso di incapienza.

Altre Misure

  • Revisione sistema pensionistico in condivisione intra/extra
  • Applicazione concreta della “conciliazione lavoro/famiglia”
  • Condizioni lavorative precarie, specialmente dei giovani
  • Aumento prezzi del carrello alimentare che non accenna a regredire
  • Aumento dei tassi di interesse BCE

Considerazioni sul Debito Pubblico

  1. Circa 8 anni addietro dal solito “bilancio sociale INPS” estraemmo una tabella molto interessante sulla spesa pensionistica (dati rilevato anno 2014. Poi dopo le vicende su ANF con il miliardo annuo non speso e quanto altro, non fu mai più pubblicato il bilancio sociale in quanto “fatto bene e troppo chiaro” … meglio le oltre 3.000 pagine del rendiconto) rilevando come i 4,6% delle prestazioni pensionistiche più ricche, ovvero circa 700.000 pensioni, percepisse quanto il 40% delle prestazioni pensionistiche più povere, ovvero 6.000.000 di pensionati. La valutazione di allora riguardava la riduzione delle prestazioni sulla parte più ricca (€ 16.miliardi) destinando 8 miliardi in riparto alle pensioni più povere e 8 miliardi al sistema Assegni Familiari. Nulla sarebbe cambiato in termini di qualità di vita ai percettori delle prestazioni pensionistiche ricche, ma molto ne avrebbero beneficiato i nuclei familiari più deboli – ovvero famiglie con figli. Oggi i numeri sono sicuramente di gran lunga superiori.

Stessa proposta: limite di condivisione sulle pensioni più ricche a beneficio figli e pensioni più povere.

  • La conciliazione dei tempi di lavoro/famiglia può essere bene applicata nella Pubblica Amministrazione e nelle aziende di grandi e medie dimensioni. Più difficile è l’attuazione nelle piccole aziende e in particolar modo nelle microaziende, cioè in quelle realtà maggiormente diffuse nel nostro sistema economico. E questo proprio per le ridotte dimensioni in termini di addetti, che richiedono una costante presenza nel luogo di lavoro da parte delle stesse persone …. Non esistono margini per rendere economicamente sostenibile il costo del lavoro

Il 95% delle imprese attive italiane sono microimprese che occupano in totale 7.592.000 di addetti. Solo lo 0,09 % delle imprese attive, in termini numerici n. 4.292, occupano oltre 250 addetti ovvero in termini numerici 4.096.000 di addetti. Nel mezzo le PMI

                Oltre il problema dato dalle piccole dimensioni delle aziende italiane esiste, possiamo dire anche concatenato, il problema delle condizioni lavorative e precarie dei giovani

  • Lo sfruttamento riguarda sia la condizione contrattualistica – vedi i contratti a tempo determinato – sia il conteggio della retribuzione. Esiste lo “sfruttamento” voluto e ritenuto necessario per far quadrare i conti, il che vuol dire che qualcosa non funziona. Esempio – concreto, visto personalmente – di un cedolino paga “alterato”.

Classificato lavoro part time ma le ore lavorate sono FULL-TIME + straordinari ovvero dichiarate lavorate 105 nel mese, ma effettive lavorate con giornata tipo di 12 ore.

Sono liquidati i ratei di XIII^ e XIV^ mensilità e di conseguenza quindi nei mesi di luglio e dicembre la mensilità aggiuntiva non esiste in quanto già erogata nei mesi con il solo fine di accrescere il netto mensile corrisposto.  È imputata una ingente voce di rimborso trasferte esenti da tasse e contribuzione INPS. Aumenta il netto ma in termini reddituali abbiamo una componente bassissima che fa scattare l’incapienza fiscale con la conseguenza che eventuali detrazioni di imposta per oneri quali spese mediche o altro vanno perduti. Inoltre, con una Certificazione Unica stimata nell’ordine di 8/9.000 euro annui, risulta impossibile l’accesso al credito.

Alla fine di tutto l’importo orario percepito si colloca in poco più di 5€/ora e con una quantità di ore dedicate al lavoro a dir poco esagerata, che lasciano poco spazio alla vita privata familiare. Eppure, chi ci lavora, è contento perché … ha un lavoro, ma tutto questo meccanismo genera “sfiducia” nel futuro e di conseguenza anche nei progetti di formare famiglia.

Questo anche per chi crede che in Italia la tariffa oraria minima possa essere la soluzione dei problemi. Si, applicheranno la tariffa oraria minima, ma con part time mascherati e i soliti giochetti contabili/fiscali. Occorre che le Istituzioni preposti al controllo ovvero: Ispettorato del Lavoro, INPS, INAIL, CASSE EDILI, Guardia di Finanza, Agenzia Entrate, in primo luogo, controllino i dati che arrivano nei loro uffici, ma poi escano in controlli per far allineare il corretto funzionamento dei contratti.

  • Il carrello della spesa risulta fortemente aumentato rispetto agli inizi dello scorso anno, in corrispondenza della crisi economica derivante principalmente dal conflitto Russia/Ucraina ecc. A parte gli interventi a sostegno delle bollette, schizzate al rialzo nel giro di breve tempo, in termini reali il carrello della spesa ci sembra aumentato bel oltre il dato ufficiale dell’inflazione (circa il 10%).

A campione si riporta un piccolo monitoraggio dei prezzi di prodotti alimentari acquistati nel medesimo punto vendita e senza promozioni specifiche. L’aumento registrato risulta almeno del 40%. Ora, poiché non siamo agenzia           di controllo prezzi, possiamo credere che altri prodotti abbiano subito un incremento minore però, verificando gli addebiti del bancomat / carta di credito, in termini reali spendiamo mediamente il 30% in più rispetto al periodo precrisi. Il fatto è che per le famiglie la spesa alimentare/casa rappresenta la maggiore uscita in termini complessivi e questo aumento medio è tutto “a carico” delle famiglie in quanto gli stipendi, al contrario delle pensioni che hanno avuto un minimo di adeguamento (e vabbè anche l’Assegno Unico Universale è aumentato del 8,1%…) sono rimasti praticamente invariati.                I prezzi poi una volta aumentati non risultano ad oggi minimamente regrediti seppure possano essere presenti le appropriate circostanze.

  • L’inflazione in corso è scattata da una motivazione seria ma poi sembra che si sia trasformata in motivazione speculativa (vedremo allora degli extra profitti per le imprese?).

Se così stanno le cose quale è il senso di aumentare di continuo i tassi di interesse deprimendo ulteriormente i mercati, la spesa delle famiglie per nuovi mutui, specie per i giovani?

A questo è poi collegato l’aumento del debito pubblico nel quale, notoriamente, la spesa per interessi rappresenta una parte di notevole consistenza e dato che si torna a parlare – ovviamente – di patto di stabilità.

Considerazioni SUL DEBITO PUBBLICO

Non può aumentare all’infinito ed anche il RAPPORTO DEBITO / PIL sarà peggiorativo se non nascono più figli e le famiglie si impoveriscono sempre più.

                Sarà necessario su questo punto un confronto con il massimo coinvolgimento delle rappresentanze sociali, economiche e dell’associazionismo familiare del nostro Paese.

                Paolo Moroni    Unità Politica A.N.F.N.

Vogliamo promuovere e salvaguardare i diritti delle famiglie numerose, sostenere la partecipazione attiva e responsabile delle famiglie alla vita culturale, sociale, politica alle iniziative di promozione umana e dei servizi alla persona.

Alfio Spitalieri                  ANFN                   22 agosto 2023

www.famiglienumerose.org/proposte-anfn-sulla-riforma-fiscale

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Papa Francesco: “Sto scrivendo una seconda parte della Laudato Si

Ricevendo una delegazione di avvocati dei Paesi membri del Consiglio d’Europa, il Papa mette in guardia dall’apertura ai totalitarismi che può creare una manipolazione dei diritti umani

                È in lavorazione una seconda parte della “Laudato Si”, per aggiornare sui problemi attuali. Papa Francesco lo annuncia agli avvocati dei Paesi membri del Consiglio d’Europa firmatari dell’Appello di Vienna, mettendo in luce che, con la manipolazione dei diritti umani, “lo Stato di diritto non sarebbe più al servizio che di una persona umana falsificata e manipolata secondo interessi economici e ideologici”.

                L’annuncio è una piccola nota a margine, che non ha ulteriori specificazioni da parte del Papa, e  arriva alla fine di un discorso denso, che guarda al futuro dei diritti umani e alla loro manipolazione, ne mette in luce in rischi, e ribadisce la centralità dell’essere umano e della sua trascendenza in ogni Stato di diritto. Ci si deve dunque aspettare presto una Laudato Si parte II, un “aggiornamento” dice Papa Francesco, in cui si inseriscono anche i problemi attuali, e forse anche la questione della guerra (Papa Francesco rimarca l’aggettivo “insensata” quando parla della guerra in Ucraina).

                Nel suo discorso, il Papa ricorda che l’appello di Vienna invita gli Stati membri del Consiglio a impegnarsi in favore dello Stato di diritto e dell’indipendenza della giustizia. Un appello, dice il Papa, che “si colloca nel contesto europeo attuale, difficile sotto molti aspetti, a motivo, tra l’altro, della guerra insensata in Ucraina”.

Papa Francesco ha detto che questi tempi di crisi sociale “sfidano le democrazie occidentali a rispondervi efficacemente”, ma rimanendo fedeli ai loro principi che vanno “riconquistati continuamente” e difesi.

                Infatti, “la paura di disordini e violenze, la prospettiva di rivolgimenti degli equilibri stabiliti, la necessità di agire con efficacia davanti alle urgenze possono indurre nella tentazione di fare eccezioni, di limitare – almeno provvisoriamente – lo Stato di diritto nella ricerca di soluzioni facili e immediate”.

La dichiarazione di Vienna chiede che “lo Stato di diritto non sia fatto mai oggetto delle minima eccezione anche in tempo di crisi”, e la ragione è che – chiosa Papa Francesco – “lo Stato di diritto è al servizio della persona umana e mira a tutelarne la dignità, e ciò non ammette alcuna eccezione”.

                Ma non sono le crisi a originare le minacce. Piuttosto, c’è un sempre più diffusa “concezione erronea della natura umana e della persona umana”, che ne indebolisce la protezione stessa e che apre a poco a poco a gravi abusi sotto apparenza di bene.

Papa Francesco ricorda che “il fondamento della dignità della persona umana risiede nella sua origine trascendente, che ne vieta, di conseguenza, ogni violazione; e tale trascendenza esige che, in ogni attività umana, la persona sia messa al centro e non si ritrovi in balia delle mode e dei poteri del momento”.

Per questo, dice il Papa, “il rispetto dei diritti umani può essere assicurato e uno Stato di diritto può trovare solidità solo nella misura in cui i popoli restano fedeli alle loro radici che si nutrono della verità, la quale costituisce la linfa vitale di qualsiasi società che aspiri ad essere veramente libera, umana e solidale”, dato che “senza questa ricerca della verità sull’uomo, secondo il progetto di Dio, ognuno diventa la misura di sé stesso e del proprio agire”.

                Papa Francesco sottolinea che oggi vi è “una tendenza a rivendicare sempre più diritti individuali non tenendo conto del fatto che ogni essere umano è legato a un contesto sociale in cui i suoi diritti e doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa”.

                Ma – mette in guardia il Papa-  “un malinteso sul concetto di diritti umani e il loro paradossale abuso” consegnano a quelli che il Papa nella Evangelii Gaudium chiama “purismi angelicati, totalitarismi del relativo, fondamentalismi antistorici, eticismi senza bontà”, e in quel caso “lo Stato di diritto non sarebbe più al servizio che di una persona umana falsificata e manipolata secondo interessi economici e ideologici”.

Andrea Gagliarducci      ACI Stampa.       21 agosto 2023

www.acistampa.com/story/papa-francesco-sto-scrivendo-una-seconda-parte-della-laudato-si

GIOVANI

 “L’autorità non basta, ecco perché gli adulti non intercettano più i giovani

“Crescere, una questione di incontri”. Il Meeting il 23 agosto mette a tema così il disagio di bambini e giovani, in un appuntamento moderato da Elisabetta Soglio del Corriere della Sera cui parteciperanno Paolo Lattanzio, di Save The Children, Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta e scrittore e Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano.

Proprio a quest’ultimo abbiamo chiesto di anticipare alcune delle riflessioni della serata alla luce della sua esperienza nell’istituto penale per i minorenni. I ragazzi sono in preda a un’ansia di prestazione, si sentono pressati da una cultura che chiede risultati a tutti i costi. E quando non riescono ad adeguarsi a queste aspettative cedono anche alla violenza. Sono diffidenti di fronte al mondo adulto, per fare breccia bisogna riuscire a entrare in dialogo, cercando di capire il loro linguaggio, il loro modo di essere, la loro musica.

Chi sono i ragazzi di oggi?

Sono figli di questa cultura della prestazione, dei risultati a tutti i costi. Ragazzi che se la giocano in tutti i modi per essere visti, per essere qualcuno, che confondono il ben-essere con il ben-avere. E quando si accorgono di non riuscire a ottenere i risultati sperati cadono in una depressione che a volte sconfina in malattia psichica, disagio e anche violenza. Hanno l’idea di farsi da soli, di poter contare solo sulle proprie forze. Per loro l’adulto non esiste, è irrilevante, pretende prestazioni sempre all’altezza, per questo si ribellano.

                Sono soli? Rifiutano l’adulto a prescindere o lo fanno perché non li capisce?

Certamente entrambe le cose. Da una parte c’è un adulto che pensa di riuscire a comprendere ma che in realtà è molto lontano dal vissuto dei figli, poi c’è anche il ragazzo che a un certo punto si autopercepisce come una solitudine. A un certo punto, annullando questi padri, questi adulti assenti, fa di testa sua. Si concepisce in maniera autarchica.

                Gli adulti sono assenti o, se ci sono, non li ascoltano?

Sì. Da una parte l’adulto non conosce il loro mondo, i loro linguaggi, vedi quello musicale, ma tende anche a portare i ragazzi dove vuole lui, a indicare quale l’orientamento di vita: “Ti dico io cosa è giusto e cosa è sbagliato”. Un adulto che, certo per amore, per ansia di protezione, però non lascia liberi questi ragazzi di decidere il loro destino.

                Le loro reazioni, quindi, sono un tentativo di uscire da questa “gabbia”?

                Sì, si può anche intendere così. Al Beccaria non arrivano solo ragazzi con genitori assenti ma anche molti che hanno famiglie troppo presenti. L’adulto quando è presente ossessivamente genera questi vissuti di ansia da prestazione.

Al di là della famiglia hanno altri punti di riferimento?

Anche la scuola, che potrebbe essere una seconda famiglia per le ore che un ragazzo ci passa, spesso vive nell’astrattezza. Si affrontano problematiche e discorsi che sono lontani dal vissuto dei ragazzi. Molti di loro a un certo punto rinunciano anche perché genera ancora una volta una sorta di ansia da prestazione. Fino a che tutto ruota intorno al voto, al risultato, quelli che sanno rimanere all’altezza della situazione si lasciano includere, altri abbandonano la scuola. Il fenomeno della dispersione scolastica in Italia si sta allargando: ci sono regioni come la Sicilia dove il tasso di dispersione è altissimo.

                È una questione di programmi o di approccio degli insegnanti? O di tutt’e due le cose?

                Senza colpevolizzare nessuno, e tanto meno gli insegnanti, spesso è una questione di approccio. C’è ancora l’idea che nel ruolo adulto l’insegnante debba essere rispettato, ascoltato. Ma il vero problema è che non basta l’autorità. È un adulto molto distante che sta dentro al ruolo, porta avanti il programma, ma di fatto non intercetta la vita di questi ragazzi.

Da dove bisognerebbe iniziare per cambiare questa situazione?

Certamente bisognerebbe inaugurare una cultura che non sia fondata esclusivamente sulle eccellenze, sulla prestazione, sul risultato, dove non ci sia la dittatura del profitto, del successo a tutti i costi. Occorre che l’adulto si riposizioni di fronte a questa realtà. Un obiettivo ambizioso ma indispensabile: i ragazzi ci stanno dicendo in tutti i modi che questa cultura porta solo al caos, alla solitudine.

Ma quando capiscono che c’è un adulto che si interessa veramente a loro i giovani cambiano atteggiamento? Con i ragazzi del Beccaria cosa succede?

                Rispetto a un decennio fa è complicato. Sono ragazzi che non sono abituati a parlare con l’adulto. Essendo molto chiusi, molto isolati rispetto al mondo adulto, non è facile entrare in un rapporto di fiducia. E la prima cosa da fare è proprio restituire loro la fiducia e delle figure credibili. Figure che partono dagli interessi dei ragazzi e non solo dalle proprie aspettative. Per esempio si può partire, come è successo nelle nostre comunità, dalla musica trap. Sembra qualcosa che non abbia a che fare con il bravo ragazzo che si rimette in pista eppure a volte è stata uno strumento importante per entrare in discorsi più profondi. Non bisogna demonizzare nulla ma guardare al loro linguaggio e alle loro mode e saperci entrare in dialogo.

Alla fine bisogna interessarsi a loro.

                Non bisogna scandalizzarsi del loro modo di pensare, del loro modo di vivere, occorre cercare nuovi significati insieme a loro, non sopra di loro.

Il Sussidiario                     23 agosto 2023

www.ilsussidiario.net/news/educazione-lautorita-non-basta-ecco-perche-gli-adulti-non-intercettano-piu-i-giovani/2579247

MATRIMONIO

Il matrimonio è sacramento. Ma in che senso?

Il matrimonio è una istituzione in crisi: le coppie si sposano sempre meno e sempre più tardi, mentre i coniugi dello stesso sesso farebbero carte false per potersi sposare come gli etero sessuali

                Ovviamente il matrimonio cristiano è ancora più problematico, perché ai numeri in caduta libera, si aggiungono le difficili questioni della pastorale per i divorziati. La grande fortuna della Chiesa istituzione sta nella bravura dei suoi preti che, vivendo ogni giorno a fianco degli uomini e delle donne immersi nelle difficoltà della vita, spesso sono costretti a inventarsi soluzioni piene di misericordia e comprensione, ma non del tutto ortodosse. E poi ogni tanto succede che la “scure” della legislazione farisaica si abbatta proprio su di loro.

Tanto per ricordare. Un po’ di storia. Il matrimonio è un sacramento dalla storia assai breve, la sua codificazione definitiva si deve al solito Concilio di Trento (1545-1563), stabilito così più per marcare il distacco con i Protestanti che altro. Ma i contrasti ricominciarono molto presto con la legislazione napoleonica, laica, estesa a tutto l’Impero.

                Il matrimonio è una delle più antiche istituzioni umane, codificata in modo sistematico dai Romani, che lo consideravano un libero contratto, basato sulla volontà dei coniugi, e pertanto rescindibile. Il Cristianesimo, Paolo in primis, lo vide come un rimedio al bruciare della carne, inferiore al dedicarsi completamente alla edificazione del Regno per il ritorno di Cristo.  Ben presto però il matrimonio riprese vigore e la Chiesa offrì il suo contributo allo Stato presenziando spesso ai contratti, benedicendo gli sposi all’entrata della chiesa, dove poi entrambi assistevano alla messa. Con l’arrivo dei Barbari si dovette fare i conti con il loro diritto, che vedeva i matrimoni come alleanze tra clan, tanto che erano ufficiali anche unioni pre o post contratto, rese valide dall’amore tra i due soggetti.

                Per i Romani era un contratto, per i Barbari un’alleanza tra clan. La Chiesa costretta, in vari modi, a barcamenarsi. Solo leggendo le cronache del tempo si può capire la difficoltà della Chiesa nel cercare di limitare questa girandola, distinguendo i tipi di matrimonio e le gerarchie trai figli. Carlo Magno, pur considerandosi un nuovo Mosè, procreò fino a poco prima della morte con innumerevoli donne e parecchie mogli.

                La Chiesa si barcamenò nei secoli, sia accontentando i sovrani con annullamenti per questioni di lana caprina, sia cercando di imporre divieti sempre più restrittivi (come l’incesto anche tra cugini) per scongiurare abusi e violenze derivate da scambi di feudi, terre e reami. Intanto la gente comune gradiva sempre di più ogni tipo di benedizione, di interventi religiosi dalla culla alla tomba per assicurarsi un posticino in Paradiso. E ahimè la Chiesa si accorse di che grande business fosse tutto ciò. L’invenzione dei tariffari per ogni sacramento, benedizione, giubileo, costruzione o festa fece da innesco per la rivolta luterana.

Patrimonio e matrimonio. La donna. Ma mettendo da parte la storia, altre questioni più di sostanza rimangono anche oggi. Cominciamo dalle parole: patrimonio e matrimonio.

                I beni sono amministrati e posseduti dal pater familias, cioè l’uomo. Il matrimonio, destina la donna a essere madre, altrimenti non serve a niente. La procreazione è l’unico scopo, per rendere così lecito anche il sesso. Il vero problema è che, prima del DNA, mater semper certa, pater… come recita sconsolato il diritto romano.

                La libertà per il maschio il regime di sorveglianza per la donna Le donne devono essere scelte, sorvegliate, maritate dai 12 anni (diritto canonico), devono partorire, se nobili, davanti a un sacco di gente che controlla, sono alla mercé dei loro confessori. Gli uomini potevano fare ciò che a loro garbava. Avete presente il delitto d’onore?

Per avvalorare la tesi dell’unico matrimonio valido, che conferiva un grande potere a una Chiesa sempre meno potente, che si aggrappava (aggrappa?) al potere morale sulla società e le anime/coscienze, grande rilievo prese la motivazione teologica: come Dio ama la Chiesa, così il marito ama la moglie. Che ne dite della metafora? È di origine paolina, ma fa qualche problema.

                Sono grandezze non commensurabili. Come potrà mai la moglie essere parte paragonabile al marito, figura di un Dio padre, che invece che “vento leggero” è un anziano spesso collerico e geloso in barba bianca?

Matrimonio “indissolubile”. E veniamo alla parte della formula sponsale che riguarda l’indissolubilità del matrimonio. Annullamenti a parte, non è stato certo un problema fino a un secolo fa. Le donne morivano di parto e la metà dei figli non sopravviveva. Un marito che arrivasse alla bella età di sessant’anni, poteva aver “consumato” in media tre mogli. Ancora oggi si dice “nato con la camicia”. Si riferisce al fatto che i bimbi nati “con la camicia” erano bimbi fortunati, perché avevano buona possibilità di avere una mamma, sopravvissuta al parto grazie all’espulsione naturale della placenta.

                Ma oggi? Grazie a Dio e alla conoscenza messa al servizio del bene, morire di parto in occidente è raro. La vita si è allungata parecchio, vedovi e vedove si trovano subito un sostituto, le donne studiano e lavorano, talebani nostrani permettendo.

                E parole come indissolubile e per sempre hanno meno significato. Oggi ci si sposa di meno e si ammazzano molto le mogli o le compagne. Come i pubblicani che interrogavano Gesù sul permesso di ripudio dato da Mosè, verrebbe da dire: “Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” Mt. 19, 3-12).

                Infatti ci si sposa poco e si ammazzano molto le mogli o le compagne. La Chiesa dovrebbe ripensare questo sacramento, sia venendo in contro ai tanti divorziati o risposati che cercano Dio con cuore sincero, e non svilire il matrimonio riammettendo ai sacramenti solo quelli che rinunciamo al “nuovo talamo”, sia permettendo uno scioglimento guidato, che non sia percepito così truffaldino come la Sacra Rota.

                Anche ai sacerdoti è permesso, con tanta sofferenza, di sciogliere un patto, perché agli esseri comuni no?

Carlotta Testoni

Testoni La barca e il mare                                           25 agosto 2023

NATALITÀ

“Incentiviamo le nascite o l’Italia perderà 520 miliardi in 40 anni”

Preso atto che con i 393 mila nati del 2022 si è migliorato al ribasso, per la decima volta consecutiva a partire dal 2013, il minimo storico di nascite registrate in Italia dai tempi dell’Unità nazionale, non si può neanche credere che il resoconto dei primi cinque mesi di quest’anno induca a immaginare un’inversione di tendenza. Rispetto allo stesso periodo del 2022 siamo infatti in presenza di un calo dell’1,37%: un dato che, se mantenuto, porterebbe anche quest’anno a stabilire un ulteriore record di minimo.

Siamo dunque di fronte a una denatalità che non accenna a fermarsi. Un fenomeno che si è certamente accentuato nel corso dell’ultimo quindicennio, ma che viene ben più da lontano: ha radici nelle profonde trasformazioni sociali ed economiche maturate nel secolo scorso, affiancate e favorite da alcune importanti novità sul piano delle norme e del costume. Non a caso, è da oltre quarant’anni – sin dal lontano 1977 – che il numero medio di figli per donna – espressione sintetica della capacità riproduttiva di una popolazione – è sceso in Italia sotto la soglia delle due unità che assicurerebbero il ricambio generazionale. Oggi siamo a 1,25 con punte regionali che scendono persino sotto l’unità.

Al tempo stesso, nel corso degli anni i continui guadagni in termini di durata della sopravvivenza – peraltro applicati a generazioni che derivano da coorti di nati all’origine particolarmente numerose – sono andati producendo uno straordinario aumento della popolazione nelle età senili e molto anziane. Al 1° gennaio 2023 la percentuale di residenti oltre la soglia dell’età pensionistica (i 67 anni) ha raggiunto in Italia il 21,6% (era l’11,8% quarant’anni fa). Si tratta di 12 milioni 683 mila residenti di cui 842 mila ultranovantenni e, tra di essi, ben 22 mila ultracentenari.

Con questa base di partenza non è difficile immaginare quali effetti vadano profilandosi tanto sul piano degli equilibri di welfare (in primis pensioni e sanità), quanto su quelli del sistema economico, degli orientamenti culturali, e delle stesse scelte politiche e programmatiche. Anche perché c’è sullo sfondo uno scenario fosco – come delineato dalla più recenti previsioni Istat – che ipotizza entro il 2070 un calo di oltre 11 milioni di residenti, quasi del tutto concentrati nella fascia di età attiva (20-66enni), associato a una crescita di 2-3 milioni di potenziali pensionati (67 anni e più) e a un’analoga contrazione delle leve giovanili (0-19 anni). Nello stesso arco temporale, la componente dei “grandi vecchi” (in età 90 e più) dovrebbe salire a 2,2 milioni, di cui 146 mila ultracentenari.

                Muovendo da queste premesse, un semplice esercizio di scenario, volto a simulare gli effetti economici “del prevedibile calo della popolazione e della riduzione della quota di residenti in età lavorativa”, mette in luce per il 2042 un’ipotetica contrazione del Prodotto interno lordo (rispetto ai 1.909 miliardi di euro del 2022) pari al 18%. E la variazione negativa raggiungerebbe il 27% allorché si dovesse spingere la valutazione sino al 2062. Di fatto, si giungerebbe a perdere nei prossimi quarant’anni ben 520 miliardi di euro sul piano delle risorse, laddove viceversa, per l’intenso e inarrestabile processo di invecchiamento della popolazione, ne sarebbero necessarie molte di più. Al fine di garantire qualità della vita, soprattutto sul fronte dell’assistenza e della cura, in un contesto in cui la stessa rete del welfare familiare, fondamentale supporto nel rispondere ai bisogni delle persone, sarà sempre più fragile per via del progressivo assottigliarsi dei legami parentali.

Poiché è innegabile che l’auspicata svolta per arginare la corrente impetuosa del declino demografico nel nostro Paese richieda, in via prioritaria, un efficace e tempestivo intervento sul terreno delle nascite, sono indispensabili iniziative capaci di risolvere gli ostacoli che condizionano le scelte familiari nei percorsi riproduttivi, come il costo dei figli, i problemi di cura, le difficoltà nel conciliare genitorialità e lavoro. E occorre farlo in fretta, senza illudersi che esistano aiuti esterni e magiche soluzioni, come il contributo – pur importante ma non risolutivo e sempre meno consistente – della popolazione straniera, il cui tasso di natalità è sceso dai 23,8 nati per mille abitanti di vent’anni fa agli 11 per mille del 2022.

                Per affrontare seriamente il problema dell’insufficiente ricambio generazionale è dunque assolutamente necessario saper combinare gli strumenti della politica e della cultura con un approccio innovativo e diverso dal passato. Occorrono risorse nuove e dedicate, ma servono anche capacità (e fantasia) per immaginare soluzioni organizzative e normative originali che possono avviare la cura di questa nostra demografia afflitta da un brutto male che auspichiamo con fiducia essere ancora adeguatamente “curabile”.

 Gian Carlo Blangiardo, (α1948)                Il sussidiario      22 agosto 2023

www.ilsussidiario.net/news/scenario-italia-incentiviamo-le-nascite-o-litalia-perdera-520-miliardi-in-4-anni/2579972

OMOFILIA

È il momento giusto per conciliare la nostra fede e il nostro mondo queer

Riflessioni di padre Brian G. Murphy, co-fondatore del sito queertheology.com e accompagnatore spirituale americano, tradotto con Google traduttore, revisione di Innocenzo Pontillo

 Vuoi che la tua identità queer o trans e la tua fede s’incastrino perfettamente come una mano in un guanto. Vuoi sentirti a tuo agio in entrambe. Vuoi condividere entrambe con il mondo.

Alla fine, la maggior parte di noi si sente ancora parte del mondo della spiritualità queer perché vogliamo una connessione con il divino e vogliamo vivere (e costruire!) un mondo migliore. Crediamo nel regno di Dio, come in cielo così in terra.

Allo stesso tempo, so che in fondo hai paura che possa essere già troppo tardi. Che sei troppo ormai vecchio. Che vivi in ​​una zona rurale. Che sei troppo queer per i cristiani o troppo cristiano per i queer. Che la tua chiesa non cambierà nel corso del tempo. Che non hai vicino a te una fiorente comunità queer spirituale di cui sentirti parte. Ti poni la domanda: è forse troppo tardi per iniziare a vivere la tua fede queer?

La mia convinzione è che ora è il momento MIGLIORE per iniziare a integrare spiritualità e vita queer in un modo concreto. Ecco perché sono convinto che questo sia il momento migliore che ci sia mai stato, per coltivare la propria spiritualità queer nei giorni che viviamo perchè:

  1. Ora ci sono più riflessioni cristiane LGBTQ, piu che mai.

 Quando padre Shay Cullen (α 1943) e io abbiamo aperto il nostro sito Web, quasi tutte le risorse cristiane LGBTQ erano incentrate sulla domanda se “essere gay è un peccato?”. Abbiamo deciso di superare questa domanda e, 10 anni dopo, c’è un tesoro di risorse che esplorano le tante connessioni tra la le persone queer e la loro spiritualità. Se hai Internet, puoi scoprire tutto ciò di cui hai bisogno!

2. Abbiamo passato gli ultimi 10 anni a metterci in rete con i cristiani LGBTQ in ogni angolo del globo, e ora è possibile metterci in ​​contatto tra tutti noi! Abbiamo capito che, anche se sempre più persone fanno coming out, non è sempre facile trovare altre persone queer che condividano la nostra fede. Abbiamo fatto il duro lavoro di metterci in rete con i cristiani LGBTQ in tutto il mondo e ora ti sollecitiamo a metterti in contatto con loro.

3. Puoi iniziare subito a raccogliere i vantaggi dell’integrazione tra la tua fede e la tua vita queer. Non è più necessario attendere tempi migliori. Mentre i grandi cambiamenti richiedono tempo, ci sono tanti piccoli cambiamenti che puoi fare subito e la cosa bella è che inizi a vedere e sentire i risultati già da ora.

Non farai scomparire la vergogna o guarirai una relazione difficile dall’oggi al domani, ma POTRESTI iniziare a sentirti un po’ più a tuo agio nel tuo corpo. POTRESTI avere un piano su cosa fare quando quel parente (omofobo) ti chiamerà. Potresti avere qualche soffio dello spirito queer. E tutto ciò ti cambia col tempo, in un modo completamente nuovo! So che sei tentato di rimandare perché è già abbastanza difficile affrontare il fatto di non essere accettati, il fatto di sentirsi soli o di vivere nascosti (in un armadio) di superare ogni giorno. Ma impegnarsi davvero per coltivare una connessione tra ciò che sei e la tua fede queer potrebbe essere l’inizio di alcuni grandi cambiamenti. Potresti iniziare:

1. Cominciando a vedere le connessioni tra la vita queer e la fede ovunque. Se hai sentito storie su Davide e Gionata o Ruth e Naemi che potrebbero essere stati amanti, e questo ti ha fatto desiderare di saperne di più… voglio che tu sappia che ci sono tante altre stranezze in ogni pagina della Bibbia perché ogni piccola vita che sembra differente è piena di spiritualità. Non è presente solo in una manciata di storie. Non è presente solo in una chiesa o nello studio della Bibbia fatta da una persona gay. Immagina se ovunque andassi trovassi stranezza e divino mescolati insieme.

2. Conosci gli altri cristiani LGBTQ e i loro accompagnatori spirituali. Ci sono molti di noi là fuori e sarebbe importante presentartene alcuni. … Vieni a imparare come crescere insieme a noi.

3. Allevia parte della tua preoccupazione, paura o solitudine riguardo all’essere un cristiano LGBTQ o che afferma di essere LGBTQ. Lo capiamo, non importa quanto ami te stesso, a volte può essere difficile essere circondati da persone che non ti sostengono – o lo fanno, ma non sembrano preoccuparsi abbastanza di apportare i cambiamenti necessari per supportarti e proteggerti effettivamente e per aiutarti a prosperare.

Non c’è mai stato un momento migliore come ora per iniziare, motivo per cui siamo così entusiasti …

Connettersi al potere dello Spirito di un Dio queer è il biglietto per sentirsi liberi dalla paura, incoraggiati a diffondere la buona notizia della nostra vita e riuscire a cambiare le nostre vite, famiglie e comunità, ma non è necessario farlo da soli. Facciamolo insieme.

A cura di Innocenzo · 20 agosto 2023

www.gionata.org/e-il-momento-giusto-per-conciliare-la-nostra-fede-e-il-nostro-mondo-queer/

Perché Santità nel nome della dottrina si continua a minacciare la dignità delle persone LGBTQ+?

Caro papa Francesco, con il massimo amore, rispetto e ammirazione, come persone e comunità LGBTQ+ cattoliche che fanno parte della Rete globale di persone cattoliche arcobaleno (GNRC, Global Network of Rainbow Catholics) nella regione iberoamericana, ci rivolgiamo a Lei.

                Cogliamo l’occasione per salutarLa ed esprimerLe la nostra sincera gratitudine per la Sua dedizione e leadership, soprattutto per aprire poco a poco le porte della Chiesa così da renderla più vicina al Cuore compassionevole e misericordioso di Gesù. Sappiamo degli incontri che ha svolto con persone sessualmente non conformi e le persone che le accompagnano, come padre James Martin, S.J. e l’associazione La Tenda di Gionata. Questi confronti ci sembrano momenti di speranza e pieni di dialogo, che costruiscono il Regno di Dio.

                Conosciamo anche il processo di ascolto realizzato in occasione del Sinodo della Sinodalità, di cui abbiamo fatto parte nelle sue diverse tappe, e sappiamo che la Chiesa si sta ponendo domande sulla nostra attenzione pastorale, come riflette l’epistola Instrumentum laboris della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

Ispirati da questi atti di avvicinamento e per via dell’urgente necessità di riflessione e dialogo sulla nostra realtà, desideriamo condividere con Lei l’esistenza di 60 comunità di persone cattoliche LGBTQ+ nella regione iberoamericana. Dal 2015 abbiamo organizzato una rete stabile e funzionante, presente nei cinque continenti, la quale ci permette di accompagnarci e mantenere il senso di universalità proprio della comunità ecclesiale.

                Le nostre comunità sono formate da persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, transgender, intersessuali, non binarie, con altre differenze sessuali, da eterosessuali che ci accompagnano e da padri e madri di persone LGBTQ+, che desiderano vivere la loro Fede a imitazione delle prime comunità e la cui presenza e i cui doni arricchiscono le singole chiese.

                Ѐ un fatto innegabile l’esistenza di discorsi e azioni inclusive verso la nostra popolazione in gran parte degli spazi ufficiali della Chiesa Cattolica nell’America Latina, nei Caraibi e nella penisola iberica.

                Molte persone LGBTQ+ soffrono in silenzio il disprezzo delle loro famiglie e comunità di riferimento, altre si vedono obbligate a migrare e molte ancora si vedono negati i propri diritti civili, politici, educativi, lavorativi, sanitari, abitativi e famigliari; queste azioni escludenti e discriminatorie hanno fondamento, nella maggior parte dei casi, nelle posizioni moraliste tradizionali, conservatrici e fondamentaliste animate dalle parole di leader dei nostri ambienti ecclesiali. Queste persone hanno bisogno che la Chiesa le ascolti, anche quando non possono gridare.

Nelle nostre diverse comunità accogliamo molte persone che precedentemente vivevano il processo di discernimento della vita religiosa e sacerdotale. Per questo, abbiamo imparato che lo Spirito Santo fa sorgere buone, floride e abbondanti vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa nelle persone LGBTQ+.

Senza dubbio, sono allontanate costantemente perché oneste in merito a proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere nel dialogo di indirizzamento spirituale o di accompagnamento con i propri formatori o superiori. La persecuzione delle persone LGBTQ+ nei seminari e nelle case di formazione genera disonestà e doppi standard di fronte ai propri meccanismi per paura dell’allontanamento.

                Costantemente constatiamo la necessità di sensibilizzare e formare sacerdoti e vescovi sui temi legati a genere, diversità, omolesbobitrasfobia perché in molteplici occasioni i loro discorsi pongono in dubbio la nostra esistenza, giudicando le nostre realtà, sentimenti, corporeità, relazioni, espressioni di fede e anche la nostra dignità umana e filiale. Con contenuti esplicitamente escludenti o ambigui, sono fonte di ispirazione affinché le famiglie e le società costruiscano discorsi d’odio ed esclusione. Perciò riteniamo che le dottrine morali non dovrebbero mai porre in pericolo la vita, la dignità, la stabilità emotiva delle persone LGBTQ+.

                Santo Padre, crediamo che sia urgente rivedere la formazione dei seminari, delle case di formazione e delle parrocchie sui temi dell’affettività e della sessualità, così come i termini utilizzati nei documenti della Chiesa sulle persone LGBTQ+, in modo che si favorisca un approccio basato sull’accoglienza, la cultura dell’incontro, l’ecclesiologia, la scienza moderna e le scienze umane.

                Crediamo fermamente che la diversità sia un dono di Dio che porta benefici all’umanità e si esprime nella Chiesa. Riconoscendoci come persone amate da Dio, ci riconosciamo anche come parte del Popolo di Dio e quindi riteniamo fondamentale renderci visibili con totale libertà, soprattutto quando storicamente ci è stato imposto di mantenere le nostre identità nel silenzio. Sogniamo una Chiesa che legittimi e difenda la nostra esistenza, quella delle nostre famiglie e delle nostre relazioni.

                Ci rendono felici notizie come l’invito di persone che ci accompagnano ad assistere al Sinodo. Tuttavia sentiamo di essere “oggetti di studio” del dibattito pastorale. Nell’ottica di una vera conversione pastorale suggeriamo un cambio di paradigma in modo che l’approccio alla diversità passi da “oggetto” a “soggetto”. Chiediamo una rappresentazione diretta nelle istanze di dialogo, desideriamo partecipare attivamente agli spazi ufficiali, soprattutto nel futuro Sinodo dei Vescovi, dove le nostre voci possono essere ascoltate e le nostre esperienze condivise.

                Permettendo la nostra partecipazione, si farebbe un passo cruciale verso l’inclusione e la riconciliazione dentro la comunità cattolica, dimostrando al mondo che la Fede e la Diversità possono coesistere in armonia. Crediamo nell’importanza di un dialogo rispettoso, caritatevole e delicato dentro la Chiesa, nel quale tutte le voci possano essere considerate. Per questo ci impegniamo a favorire spazi disponibili a un incontro rispettoso con chi guida Chiesa.

A Sua volta, sollecitiamo l’apertura nelle diocesi e nelle conferenze episcopali a generare e partecipare a questo tipo di spazi, apertura che in varie occasioni non abbiamo percepito.

Inoltre riconosciamo e ringraziamo che alcuni vescovi delle nostre regioni si sono già avvicinati con attitudine di ascolto e grande apertura per intavolare un dialogo cordiale con le nostre comunità. Queste attitudini hanno portato con sé la costruzione di ponti e ci hanno dimostrato che questa via è possibile.

I nostri gruppi si appoggiano con gioia al sostegno di sacerdoti e persone religiose consacrate alleate che, molte volte dalla clandestinità, hanno condiviso con noi la loro vita, guida e tempo.

Le assicuriamo le nostre preghiere e impegno affinché, sotto la Sua guida e saggezza, la Chiesa continui ad avanzare verso una maggiore inclusione e comprensione.

                Confidiamo che, con la sua leadership, potremo fare dei passi significativi verso una Chiesa che abbracci le persone senza eccezioni. Ringraziamo del tempo dedicato a leggere questa lettera e Le chiediamo la Sua benedizione per le nostre comunità e per tutte le persone sessualmente non conformi, le loro famiglie e amicizie.

                Con la speranza dell’intervento dello Spirito Santo che costruisce, anima e santifica la Chiesa.

                Le comunità che fanno parte della sezione iberoamericana del GNRC:

                segue l’elenco  di 60 gruppi nel sito web

a cura di Innocenzo        11agosto 2023

www.gionata.org/perche-santita-nel-nome-della-dottrina-si-continua-a-minacciare-la-dignita-delle-persone-lgbtq

RELIGIONE

Francesco Cosentino “Ritorno del religioso e spiritualità cristiana”

                 Quando nel 1965 il teologo Harvery Cox (α192’) pubblicò il suo testo “La città secolare”, furono in molti a riconoscersi nella tesi proposta e ad avvertire che, effettivamente, la crescente secolarizzazione in molti ambiti della società, in particolare dovuta agli sviluppi tecnico-scientifici della modernità e alle nuove visioni del mondo inaugurate dalle ideologie, avessero in qualche modo segnato per sempre il destino della religione. La chiave di lettura sembrava essere inesorabilmente questa: all’avanzare della secolarizzazione diminuiscono presenza ed esperienza religiosa, mentre ci si avvia in modo più o meno definitivo verso una completa scristianizzazione della cultura occidentale.

                I decenni successivi, come lo stesso Cox affermerà in altre sue opere postume, hanno smentito questo assunto e hanno mostrato tutta la complessità e anche l’ambiguità del concetto di secolarizzazione. L’osservazione della vita reale dei nostri contemporanei, nel frattempo entrati nell’era postmoderna, ha di fatto mostrato come il collegamento automatico tra progresso della modernità e declino della religione fosse quantomeno troppo semplicista, anche per il fatto che il fenomeno religioso – con i suoi alti e bassi – comprende diverse dimensioni e risponde a molteplici fattori. Di certo, la religione – e non solo quella cristiana – non è morta. Per certi versi, c’è stato anche un singolare “risveglio del sacro” e un ritorno di spiritualità che, tuttavia, è proprio ciò che deve suscitare la nostra attenta riflessione teologica, per evitare sia di cedere ai facili entusiasmi di chi canta un nuovo trionfo della religione e sia al disfattismo di chi non riesce a cogliere le opportunità che si celano in questo momento storico.

Una “rivincita” di Dio? Il ritorno alla religione, almeno come dato sociologico, smentisce il paradigma della secolarizzazione e attesta la complessità del fenomeno religioso, ma anche dei cambiamenti che attraversano la nostra epoca. Se però, accogliendo peraltro l’approccio al tema che ci viene offerto dal filosofo canadese  Charles Taylor (α1931)– si supera la lettura esclusivamente sociologica sia del fenomeno religioso che del processo di secolarizzazione, per andare più in profondità e analizzare i movimenti e i percorsi di ricerca esistenziale e spirituale dei nostri contemporanei, ci si accorge che il ritorno alla religione esprime anche un altro sentire che si sta facendo strada nelle persone del nostro tempo e che potremmo sintetizzare così: la proposta illuminista, scientifica, tecnologica della modernità, per quanto importante, non è sufficiente per offrire quelle rispose di senso che rimangono vive nel cuore di ogni uomo. La sete spirituale che ci abita, il bisogno di significati capaci di parlare anche alla sfera delle nostre emozioni oltre che a quella razionale, la necessità di nutrimento interiore rispetto alle domande, ai dubbi, al desiderio di una vita buona e riuscita, nonché l’urgenza di trovare un orientamento per la propria vita al di là dell’immediato e della semplice conquista di beni materiali o successi personali, non trova risposte adeguate nella visione secolarizzata della modernità, che spesso eliminando il problema di Dio ha anche finto per impoverire la visione dell’umano.

                Fatto sta che le previsioni sull’irrilevanza delle fedi religiose nella sfera pubblica e politica, che avrebbero relegato il fenomeno solo nell’ambito privato, sono state ampiamente smentite; in questi ultimi decenni, infatti, le religioni sono tornate inaspettatamente alla ribalta, anche grazie a molteplici fattori come le rivolte islamiche in alcuni Paesi Arabi, il movimento di Solidarnosc in Polonia, il ruolo del cattolicesimo in alcuni conflitti dell’America Latina. Nonché il risveglio della “religione civile” e di un certo fondamentalismo operante negli Stati Uniti soprattutto in ambito protestante.

                Anche nell’ambito personale, per i molteplici motivi di fondo già citati, il bisogno di spiritualità ha in qualche modo prodotto un ritorno del senso religioso, fino a suscitare alcune euforiche analisi che – a nostro modesto parere un po’ troppo frettolosamente – hanno parlato di una “rivincita” o di un “ritorno di Dio”.

                Certamente ci troviamo oggi in un clima nuovamente disponibile e aperto verso il fenomeno religioso, mentre si moltiplicano le esperienze spirituali di vario genere e si va componendo un vero e proprio mosaico delle fede e delle religioni, spesso incarnato in una religiosità «di facile impiego e di pronto uso»  con il relativo risveglio spirituale contro l’irrilevanza e il grigiore dell’esistenza.

Tuttavia, proprio andando oltre la superficie e quindi oltre i semplici dati sociologici e statistici e oltre l’esperienza sensibile ed epidermica di molte proposte religiose odierne, occorre porsi dinanzi al fenomeno con un attento sguardo teologico, per attuare un vero e proprio discernimento spirituale: si tratta davvero di un ritorno di Dio? Davvero il “ritorno del sacro” e una certa inflazione di spiritualità che vediamo emergere dalle molteplici proposte religiose, spesso incarnate in movimenti dal tratto carismatico e ideologico e, altrettanto spesso, infarcite di sincretismo e di percorsi “orientaleggianti”, significa la presa di coscienza da parte del singolo della presenza di un Dio personale come quello che il cristianesimo presenta, un Dio che invita a una relazione reale e impegnativa, un Dio che non desidera vagheggiamenti mistici ma chiama alla responsabilità dinanzi alla propria vita e alla sorte del prossimo? Il ritorno della spiritualità, insomma, ha qualcosa a che fare con la spiritualità cristiana?

                Ritorno della religione e discernimento. A un attento discernimento, che tenga conto della profonda crisi che il cristianesimo sta attraversando in Occidente su molteplici fronti e, al contempo, degli studi e delle riflessioni teologiche sul tema, non si può procedere con una lettura ingenua. Il revival delle religioni e un certo “ritorno del sacro”, cioè, benché rappresentino una profonda insoddisfazione rispetto ai paradigmi della società odierna e segnalino una certa apertura all’incontro con il divino, si presenta con un volto del tutto particolare, marcatamente emotivo, propenso a percorsi strettamente individuali, sganciato dall’istituzione e da ogni tradizione religiosa del passato, incarnato in forme poco dogmatiche, molto sacrali, piuttosto disinteressate alla sfera sociale. Si tratta cioè di un sacro inventato su misura, che propina «una spiritualità più flessibile, ariosa, slegata da qualsiasi riferimento a principi e norme».

                Il ritorno del sacro, insomma, non significa immediatamente un vero ed effettivo ritorno della relazione di fede con Dio e, quindi, la possibilità di una fede personale che diventi mappa di orientamento delle scelte, dei principi, dei valori e delle attività quotidiane della persona; né tantomeno significa il ritorno alla dimensione comunitaria ed ecclesiale della fede, alla condivisione del cammino con gli altri e agli aspetti sociali e politici della fede, la quale ci chiede di assumere determinati criteri per agire in ogni ambito della società e ci invita a essere costruttori del Regno di Dio attraverso le pratiche della giustizia e della solidarietà.

                Il ritorno della religione, insomma, appare alquanto ambivalente. L’attuale “eccesso di religione” sembra infatti derivare dal disorientamento attuale, dalle insicurezze crescenti nelle nostre società consumiste, globalizzate e per nulla al riparo da fenomeni di violenza, dal disagio emergente nel clima postmoderno in cui viviamo che, dopo aver frantumato e frammentato le “grandi verità” che fungevano da guida per l’interpretazione della vita e della realtà, ha consegnato alla coscienza di ciascuno e alla sua storia quotidiana il compito faticoso di dover cercare significati e di orientarsi in mezzo a molteplici proposte di senso, scelte e valori. Dunque, la via della spiritualità e il ritorno del sacro sono spesso dettati dal bisogno psicosomatico di alleggerire il peso della vita e, in tal senso, sarebbero «solo un sintomo dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo». Questo è il motivo per cui nella odierna molteplice proposta religiosa vi ritroviamo mescolati elementi diversi di tipo psichico, emozionale, filosofico e spirituale, insieme a tecniche psicosomatiche e a elementi culturali del lontano Oriente. Il rischio – come ben annota Dotolo, è che ci si trovi dinanzi a una religione cercata solo per il proprio bisogno: «Cosa intendiamo noi oggi per “ritorno del religioso”, per “revival del religioso”? […]

L’esperienza religiosa in questo ultimi decenni sembra aver caratterizzato un bisogno di tranquillità psicosociale; è un’esperienza nella quale l’uomo, ma oserei dire tutta la società occidentale, vuole evitare che la routine e lo stress dell’esistenza possano in qualche modo interrompere il gusto della vita o possano appesantirlo […] Questo è un aspetto che noi dobbiamo assumere con una certa attenzione e anche con una positività, se letta come bisogno antropologico. Ciò non toglie comunque, lo sconfinamento in religiosità ibride, alla “Disneyland”; l’esperienza religiosa deve consolare, tacitare, coccolare, non deve ulteriormente richiedere al soggetto una scelta, non deve stressare la responsabilità […] Ecco, una religione che ti fa sognare un mondo possibile ma che ancora una volta non è il mondo nel quale tu vivi».

                Dunque, una religione e un contatto con il sacro che in parte alleggeriscono il peso della vita e, d’altra parte, rappresentano anche una fuga-relax dinanzi alla complessità e all’incertezza odierne: si tratta di un’esperienza religiosa usata quasi sempre come terapia psicologica o come un farmaco per le proprie repressioni, aperta a forme inedite di spiritualità su sfondo magico-superstizioso e sincretista. Dunque, una nuova forma di neopaganesimo in cui, come giustamente osservato, la religione è forte ma la fede è debole.

                Spiritualità cristiana, spiritualità del quotidiano. Da quanto detto fino ad ora, nelle nostre complesse società contemporanee resiste una certa religiosità esteriore e un bisogno di spiritualità, ma il tutto rimane confinato all’esperienza del singolo e al brivido emozionale del momento, senza che le parole, i simboli e i valori della religione riescano poi a incidere davvero nell’interpretazione della vita, nel modo di essere e di vivere le relazioni interpersonali e nelle scelte della quotidianità. Da questo punto di vista, appare marcata la differenza sostanziale con la spiritualità cristiana, la quale non si risolve nel gioco autoreferenziale di un percorso intimistico e nel sogno di una pacifica meditazione personale, bensì implica una relazione viva e “bruciante” con il Dio di Gesù Cristo, la cui conseguenza fondamentale è una trasformazione del modo di essere, di pensare e di agire – ciò che intendiamo per conversione – fino a diventare persone nuove, abitate da una vita nuova, che si propongono di rinnovare la storia e la società seguendo le orme di Cristo stesso, quindi vivendo la sua stessa compassione, misericordia e prossimità.

                La spiritualità cristiana, dunque, lungi dall’essere un insieme di pratiche ascetiche fini a sé stessa, ha il suo specifico nella persona stessa di Gesù Cristo. Il suo scopo è principalmente svuotarsi, cioè fare quello spazio necessari per essere permeabili alla presenza di Cristo e all’azione del Suo Spirito, che rinnova la vita e ci rende segni dell’agire stesso di Dio – che è l’agire nella carità – nella vita di tutti i giorni, nelle relazioni, nei luoghi che frequentiamo, nelle scelte che compiamo. Essenza della spiritualità cristiana è l’incontro con Gesù Cristo e l’accoglienza del Suo Vangelo, mentre lo scopo finale della vita spirituale non è il benessere personale, ma la sequela di Gesù che ci rende pienamente uniti a Lui e, in comunione con Lui, ci fa diventare segni viventi del Suo regno in tutte le situazioni della nostra vita. Va da sé che un tale processo significa lasciare che Cristo viva in noi come il centro della nostra vita e, dunque, rinnegare noi stessi e prendere anche noi il criterio della Croce – amare, e amare gratuitamente fino al dono di sé – come criterio fondante di tutte le nostre azioni (cfr. Mt 16,24). E va da sé che si tratta di una spiritualità generata da un annuncio non meramente consolatorio o moralistico, ma di una proposta radicale, esigente, appassionata, che ha la pretesa di trasformarci e di affidarci la missione di trasformare il mondo attorno a noi. Una spiritualità viva, incarnata, realmente visibile nella misura in cui vincendo gli egoismi personali assumiamo come criterio-guida della nostra vita la relazione con Dio e la cura dell’altro e della realtà che ci circonda.

                Imperniata sull’incarnazione di Dio in Cristo Gesù, dunque, la spiritualità cristiana non solo non incoraggia e non genera nessuna fuga dalla realtà e dalla storia, ma anzi rimanda il credente alla propria quotidianità, invitandolo ad assumersene le sfide e le fatiche e chiamandolo a sentirci attivamente partecipe del destino della realtà in cui vive. La spiritualità cristiana, perciò, è in stretta connessione con il quotidiano, con la storia reale, con la vita di tutti i giorni. Si tratta di un legame profondamente teologico e cioè non derivato da un’esigenza esterna, bensì radicato nel fatto straordinario del Dio che si è fatto carne. Tra fede cristiana e quotidiano c’è una intima connessione in duplice senso: da una parte, la vita quotidiana, pur con la sua monotonia o la sua apparente assenza di elementi trascendenti, è un vero spazio sacro perché è il luogo in cui Dio è presente, parla e agisce; dall’altra parte, il quotidiano, con le attività che portiamo avanti ogni giorno, le domande, le battaglie, le fatiche, i sogni, è lo spazio in cui la nostra fede prende corpo e si realizza. Come afferma Karl Rahner, la vita quotidiana è «lo spazio della fede, la scuola della sobrietà, l’esercizio della pazienza», che anche in modo impercettibile «nasconde il miracolo eterno e il mistero silenzioso che chiamiamo Dio».

Certamente, l’attuale ritorno del sacro e della spiritualità, rappresenta uno spazio interessante che riapre la questione della relazione con ciò che ci trascende, indicando una sete di risposte che vadano oltre l’immediato e il finito. Si tratta però di un luogo da evangelizzare, di una realtà che deve essere ascoltata e accompagnata attraverso un discernimento evangelico, perché essa possa aprirsi sempre più a quella spiritualità cristiana più precisamente radicata in una relazione con Dio che investe la quotidianità.

                Al contempo, il cristianesimo dovrà cercare di percorrere vie nuove per vivere in modo nuovo la spiritualità cristiana, coniugando la proposta spirituale della fede cristiana con i sentieri, spesso interrotti e travagliati, della vita quotidiana, con le domande, le paure, le angosce e le speranze dell’uomo di tutti i giorni. Si tratta di una spiritualità che può essere declinata almeno in tre grandi aspetti, i quali a loro volta andrebbero poi incarnati nella prassi pastorale e nel cammino del singolo credente:

1 Una spiritualità che è accoglienza della vita: si tratta di assumere una spiritualità che, in virtù dell’incarnazione, ci aiuta a credere nella presenza di Dio in mezzo alle fatiche quotidiane. A credere che quando c’è un’apertura incondizionata e radicale della propria vita a Dio, allora si può essere “nella preghiera” anche se le giornate sono trafficate e le cose da fare sono tante. La preghiera ha sempre bisogno di spazi e tempi suoi, ma, tuttavia, la spiritualità di un laico che vive nel mondo di oggi, deve includere tutti gli aspetti della vita: può essere un’azione spirituale anche la capacità di vivere bene il proprio tempo, di abitare con qualità lo spazio della propria casa, di assaporare le piccole gioie della giornata, di fare spazio a un po’ di silenzio, di vivere relazioni sane e umane. C’è una ferialità dell’incontro con Dio, che avanza senza fare rumore, nelle occasioni silenziose e anonime del vivere di ogni giorno, in luoghi che non sono templi, in parole che non sono preghiere e in situazioni che non sono eventi religiosi. Dio si rivela e ci parla e noi possiamo incontrarlo non nei grandi ideali religiosi, ma nei frammenti delle nostre giornate e della nostra povera carne. Si tratta di una vera e propria “Teologia del quotidiano”, che ci aiuta a scoprire Dio «come un parente» e a scoprire che «si vive la vita divina, vivendo con pienezza e nudità la vita umana»;

                2 Una spiritualità domestica: Si tratta di riscoprire e valorizzare il dono del Battesimo, perché anche la celebrazione della fede non si limiti ai suoi aspetti comunitari e “sociologi”, ma sia vissuta nella propria storia e nella propria casa, quindi nello spazio feriale abituale, laddove si vivono le fatiche e i travagli dei giorni. Durante la pandemia si è potuto assistere a una certa rinascita della Chiesa domestica; la fede è stata celebrata spesso in famiglia e ne sono nate Liturgie della Parola, celebrazioni comunitarie dalle Liturgia delle Ore, semplici letture condivise del Vangelo e tanto altro. Questa dimensione, ben al di là dell’emergenza pandemica, andrebbe più strutturalmente inserita nella proposta pastorale di una Comunità parrocchiale, così da suscitare una fede vissuta non solo nell’edificio ecclesiale ma nei luoghi della vita, nelle case, nei condomini, nei quartieri, cioè nei luoghi della vita quotidiana.

                3 Una spiritualità della strada: infine, se facciamo in modo che il Vangelo esca dal Tempio per percorrere le strade della vita quotidiana, impariamo a vivere la fede attraverso la testimonianza della carità. Oggi più che mai c’è bisogno di cristiani attenti, non indifferenti, che mettano al centro della loro esperienza spirituale l’amore di Cristo per ogni uomo e lo ripropongano nei loro gesti e nelle loro scelte. Ogni strada, ogni luogo della vita, ogni incontro diventa una via attraverso cui Dio si affianca a noi, spesso nelle vesti di chi ci sta vicino e ha bisogno di ascolto, di attenzione, di una parola buona, o si presenta a noi nelle vesti del forestiero, dello sconosciuto, del povero. A volte basta un sorriso, un gesto di cura.

                               Dunque, una spiritualità del quotidiano è una spiritualità incarnata nella vita reale e feriale; non una mistica separata dalla polvere della storia per essere andata dietro qualche lontano richiamo filosofico, psichico o emotivo, ma una spiritualità che permette a Dio di scrivere la sua e la nostra storia dentro alle giornate che viviamo, nelle attività che svolgiamo, relazioni che portiamo avanti, nei volti che incontriamo.

Francesco Cosentino, (1979), docente di teologia fondamentale

RIFLESSIONI

Come educare i maschi

L’accavallarsi di femminicidi, stupri o tentati stupri, molestie sessuali più o meno pesanti, ma anche ritardi negli interventi giudiziari, sottovalutazione delle denunce e richieste di aiuto, sentenze di assoluzione con argomentazioni sorprendenti, mostra che siamo di fronte ad un enorme problema culturale.

Riguarda trasversalmente tutti i ceti sociali e tutte le istituzioni, in particolare di quelle — polizia, carabinieri e magistratura — che avrebbero il compito non solo di evitare che accada il peggio e di proteggere le vittime, ma anche di ribadire l’inviolabilità del corpo femminile. “Il corpo è mio e lo gestisco io” cantavano le femministe negli anni Settanta, per denunciare il divieto di contraccezione e aborto, la doppia morale che consentiva agli uomini ogni libertà sessuale ma divideva le donne in “perbene” e “puttane” solo in base al loro comportamento sessuale.

A cinquant’anni di distanza, non solo la cultura che il femminismo denunciava continua a lavorare sotterraneamente, ma quel canto liberatorio da troppi uomini viene rovesciato in “la donna è mia e ne faccio quello che voglio io”. Sono gli uomini che uccidono le proprie compagne o ex compagne perché non ne accettano comportamenti e decisioni, come se la ferita narcisistica di una separazione o dell’essere sostituiti con qualcun altro potesse essere solo sanata con il sangue — con il buon vecchio delitto d’onore. Sono gli uomini che ubriacano le proprie amiche o chi incontrano per caso una sera al bar o in discoteca, o aspettano che lo facciano da sole, per poi stuprarle. Sono gli uomini che aggrediscono e violentano, anche in pieno giorno, una donna che passeggia, va al lavoro, corre in un parco. Sono gli uomini che mettono le mani addosso, palpeggiano, si strusciano, sui mezzi pubblici, al lavoro, persino sulle scale di una scuola. Purtroppo questi uomini talvolta trovano responsabili della sicurezza che non ascoltano con abbastanza attenzione le denunce e richieste di aiuto delle donne, come è avvenuto da ultimo ad Anna Scala, uccisa dall’ex marito nonostante mesi di denunce che non sono bastate a far scattare il codice rosso e relativo protocollo di messa in sicurezza. Talvolta trovano giudici che giustificano il femminicidio con l’attenuante della provocazione da parte della vittima, non perché questa avesse iniziato per prima ad aggredire chi poi la ha uccisa, ma perché con il suo comportamento (rapporti con altri uomini) lo aveva offeso, una riedizione del delitto d’onore.

Oppure lo giustificano, come è avvenuto di recente al tribunale di Roma in un caso di stupro di gruppo, perché gli autori “condizionati da un’inammissibile concezione pornografica delle loro relazioni con il genere femminile hanno errato nel ritenere sussistente il consenso”. Analogamente significativa è stata la sentenza che ha mandato assolto il bidello che aveva messo le mani nelle mutandine di una ragazza che saliva le scale, sollevandola poi di peso. La brevità dell’atto, il fatto che sia avvenuto in luogo pubblico, ha indotto la giudice a valutarlo come gesto scherzoso. Poi ci si stupisce che le donne facciano così fatica a denunciare.

Minacciare la castrazione chimica, come periodicamente propone Salvini, non serve. Il timore della pena non è mai stato un deterrente efficace per i delinquenti, non si vede come possa esserlo per chi non è capace culturalmente di accettare l’autonomia delle donne e l’inviolabilità dei loro corpi.

Occorre certo rafforzare gli strumenti che rendono operativo il codice rosso. Ma occorre anche un lavoro culturale diffuso che aiuti a costruire un modello di maschilità che non dipenda da un malinteso senso di superiorità e possesso nei confronti delle donne, ed anche che sia meno animalesco — “Faceva un po’ schifo — ha scritto in una chat uno dei sette stupratori di una ragazza di Palermo — eravamo come cento cani sopra una gatta, ma la carne è carne”. Un lavoro che deve iniziare dai bambini e dai loro educatori/educatrici, rafforzare il processo già iniziato nelle Forze dell’ordine, investire sistematicamente la magistratura. Anche il sistema di comunicazione deve fare la sua parte e le sue auto-critiche.

Chiara Saraceno                              “la Repubblica”                                21 agosto 2023

www.repubblica.it/commenti/2023/08/21/news/educare_i_maschi_per_tutelare_le_donne-411768537

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202308/230821saraceno.pdf

SINODO

Le norme che regolano il Sinodo volute da Paolo VI e da Papa Francesco

Da “Apostolica Sollicitudo” a “Episcopalis Communio”

Il Sinodo dei Vescovi è una intuizione di Papa Paolo VI.  (α1897-ω1978)

 Prima della conclusione del Concilio Vaticano II, nel dicembre 1965, il Pontefice decise di istituirlo per proseguire l’esperienza conciliare. Il 15 settembre 1965 Paolo VI firmò la lettera apostolica in forma di motu proprio Apostolica Sollicitudo che disponeva l’istituzione del Sinodo dei Vescovi.

www.vatican.va/content/paul-vi/it/motu_proprio/documents/hf_p-vi_motu-proprio_19650915_apostolica-sollicitudo.html

“La sollecitudine apostolica – scriveva il Papa – ci induce a rafforzare con più stretti vincoli la Nostra unione con i Vescovi che lo Spirito Santo ha costituito per governare la Chiesa di Dio”. “Il Concilio Ecumenico – proseguiva – è stato anche la causa che Ci ha fatto concepire l’idea di costituire uno speciale consiglio permanente di sacri Pastori, e ciò affinché anche dopo il Concilio continuasse a giungere al popolo cristiano quella larga abbondanza di benefici, che durante il Concilio felicemente si ebbe dalla viva unione Nostra con i Vescovi”.

                “Dopo aver maturamente considerato ogni cosa – specificava il Papa – per la Nostra stima ed il Nostro rispetto nei riguardi di tutti i Vescovi cattolici, e per dare ai medesimi la possibilità di prendere parte in maniera più evidente e più efficace alla Nostra sollecitudine per la Chiesa universale, di nostra iniziativa e con la Nostra autorità apostolica erigiamo e costituiamo in questa alma Città un consiglio permanente di Vescovi per la Chiesa universale, soggetto direttamente ed immediatamente alla Nostra potestà e che con nome proprio chiamiamo Sinodo dei Vescovi. Questo Sinodo, che, come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato, è retto dalle seguenti norme generali”.

                Il Sinodo dei Vescovi – precisava ancora Paolo VI – “viene costituito in maniera tale che sia una istituzione ecclesiastica centrale; rappresentante tutto l’Episcopato cattolico; perpetua per sua natura; quanto alla sua struttura, svolgente i suoi compiti in modo temporaneo ed occasionale. Al Sinodo dei Vescovi spetta per sua natura il compito di dare informazioni e consigli. Potrà anche godere di potestà deliberativa, quando questa gli sia stata conferita dal Romano Pontefice al quale spetta in tal caso ratificare le decisioni del Sinodo”.

Il Sinodo secondo Paolo VI aveva il compito di “favorire una stretta unione e collaborazione fra il Sommo Pontefice ed i Vescovi di tutto il mondo; procurare una informazione diretta ed esatta circa i problemi e le situazioni che riguardano la vita interna della Chiesa e l’azione che essa deve condurre nel mondo attuale; rendere più facile l’accordo delle opinioni almeno circa i punti essenziali della dottrina e circa il modo d’agire nella vita della Chiesa”.

Il Sinodo è “sottomesso direttamente ed immediatamente all’autorità del Romano Pontefice, al quale inoltre spetterà 1. convocare il Sinodo, ogni volta che gli parrà opportuno, e fissare il luogo delle riunioni; ratificare l’elezione dei membri; fissare l’oggetto delle questioni da trattare; stabilire l’ordine del giorno e  presiedere il Sinodo di persona o per mezzo di altri”.

Papa Francesco (α1936)  nel settembre 2018 ha promulgato la Costituzione Apostolica Episcopalis communio, sulla struttura del Sinodo dei Vescovi. La decisione del Pontefice arriva a pochi giorni dalla apertura della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

                Il Papa – sulla scia del Codice di Diritto Canonico, della Costituzione Apostolica Sollicitudo di Paolo VI e delle modifiche di Benedetto XVI all’Ordo Synodi – ha modificato alcuni elementi del Sinodo.

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2018/09/18/0653/01389.html

La Costituzione Apostolica si compone di 27 articoli. La prima parte è dedicata alle Assemblee del Sinodo. E già all’articolo 2 il Papa specifica che “secondo il tema e le circostanze, possono essere chiamati all’Assemblea del Sinodo anche alcuni altri, che non siano insigniti del munus episcopale, il ruolo dei quali viene determinato di volta in volta dal Romano Pontefice“.

                Nel testo il Papa istituzionalizza poi la fase preparatoria dell’Assemblea sinodale. Tale periodo “ha come scopo la consultazione del Popolo di Dio sul tema dell’Assemblea del Sinodo. La consultazione del Popolo di Dio si svolge nelle Chiese particolari, per mezzo dei Sinodi dei Vescovi delle Chiese patriarcali e arcivescovili maggiori, dei Consigli dei Gerarchi e delle Assemblee dei Gerarchi delle Chiese sui iuris e delle Conferenze Episcopali. In ciascuna Chiesa particolare i Vescovi svolgono la consultazione del Popolo di Dio avvalendosi degli Organismi di partecipazione previsti dal diritto, senza escludere ogni altra modalità che essi giudichino opportuna”. Segue la trasmissione dei contributi preparatori alla Segreteria Generale del Sinodo, la convocazione di una Riunione presinodale e la costituzione di una Commissione preparatoria nominata e presieduta dal Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi.

Papa Francesco dettaglia poi la fase celebrativa dell’Assemblea del Sinodo le cui conclusioni sono raccolte in un Documento finale, redatto da una apposita Commissione, “composta dal Relatore Generale, che la presiede, dal Segretario Generale, dal Segretario Speciale e da alcuni Membri eletti dall’Assemblea del Sinodo“. Una volta approvato, il Documento viene consegnato al Papa. “Ricevuta l’approvazione dei Membri, il Documento finale dell’Assemblea è offerto al Romano Pontefice, che decide della sua pubblicazione. Se approvato espressamente dal Romano Pontefice, il Documento finale partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro”.

L’ultima parte della Costituzione Apostolica riguarda la fase attuativa. “La Segreteria Generale del Sinodo può avvalersi di una Commissione per l’attuazione, formata da esperti“, sottoposta direttamente al Papa.

Marco Mancini                 ACI Stampa                        21 agosto, 2023.

www.acistampa.com/story/il-sinodo-da-apostolica-sollicitudo-a-episcopalis-communio?utm_campaign=ACI%20Stampa&utm_medium=email&_hsmi=271082871&_hsenc=p2ANqtz-_nHXTfmRoHL579vIoctXaMfgt6n-qcaJJ4KiaRdpy3tXYK-AsH4nThS5CD1fZLSbAAhBTiaF1_njtZd4dVTCjqXW5lAw&utm_content=271082871&utm_source=hs_email

TEOLOGIA

La differenza di Dio e la differenza dell’ordine sociale

Una questione decisiva, per ogni teologia, sta nel garantire a Dio il suo posto autorevole. Se Dio non è “altro”, se ne perde la traccia. La “immanenza” sembra la negazione di Dio. D’altra parte una “totale alterità di Dio” a sua volta minaccia ogni teologia, ridotta così al silenzio dalla trascendenza inarrivabile del divino.

Lo spazio stretto tra una immanenza di trascendenza e una trascendenza capace di immanenza si compie, irreversibilmente, nella logica trinitaria del Dio che per amore diventa uomo. Padre, Figlio e Spirito Santo sono garanzia di trascendenza, di immanenza, e di relazione per sempre e per tutti con questo amore, ad un tempo altro e medesimo.

Un Dio solo “diverso” implica una cultura e una società in cui la gerarchia è il principio indiscutibile: gerarchia naturale e gerarchia sociale si corrispondono nel garantire la trascendenza di Dio. Così una gerarchia dei sessi e una differenza essenziale tra maschi della gerarchia e maschi senza gerarchia diventa la forma di visibilità della autorità di Dio.

Questo modo di pensare è stato largamente presente nella cultura tradizionale europea, fino all’avvento della tarda modernità, quando la “società dell’onore” ha identificato nella “differenza gerarchica” la forma sociale e culturale per comprendere il mondo, l’uomo e Dio stesso. Ma con il sorgere della società liberale, che possiamo chiamare società della “dignità”, questo modo di pensare è entrato in crisi. Se resta la esigenza di pensare e di sperimentare la “differenza di Dio”, questo avviene in relazione ad una “principio di immanenza” che concepisce il mondo, l’uomo e Dio stesso in modo diverso.

È la dignità di ogni creatura a costituire il punto di partenza, che così appare, agli occhi del sapere classico, una “caduta nell’immanenza senza Dio”. Tutto viene ripensato in questa ottica, e tutto viene sospettato di “perdere ogni trascendenza”. Anche i “diritti dell’uomo” sono stati catturati in questa rilettura ateistica, che li fa derivare, colpevolmente, dalla negazione di Dio.

Questo modo di reagire al pensiero tardo-moderno non è scomparso dal pensiero teologico. A costo di produrre “dualismi a catena”, il pensiero legato alla “differenza di Dio” esige una “differenza ontologica” che attraversa la società e non sopporta la “eguaglianza” e la “libertà”, ma afferma continuamente la “gerarchia” e la “autorità”. I due punti di resistenza maggiore restano due:

  1. la non ammissione del principio di “divisione del potere” nel corpo ecclesiale,
  2. la resistenza alla “eguaglianza di autorità” tra maschio e femmina.

Il principio di concentrazione del vescovo (in ogni vescovo e nel Vescovo di Roma) di ogni potere e il principio della “riserva maschile” per l’accesso al ministero ordinato vengono pensati, assai frequentemente, come parti costitutive della “divina costituzione della Chiesa”. Qui opera una sovrapposizione tra modelli di “differenza teologica” e di “differenza sociale” che non riusciamo ancora a pensare con il dovuto discernimento.

                Molto utile è considerare che cosa produce l’impatto tra queste “formæ mentis” del mondo tradizionale e l’annuncio del vangelo nel mondo tardo-moderno. La inconcepibilità di uno “strumento sinodale” che mette in questione il primo principio, e il timore dell’accesso delle donne al ministero ordinato, come crisi del secondo principio, vengono vissute come una questione non di carattere disciplinare, ma di qualità dottrinale e addirittura dogmatica. Qui lo scarso dialogo tra la teologia e la cultura contemporanea diventa, allo stesso tempo, drammatico e comico. Proietta allo stesso tempo fantasmi sulla cultura come sulla teologia. E genera mostri.

                Le società ad alta differenziazione, come quelle sorte dalle grandi rivoluzioni tardo-moderne, non sono “meno differenziate”, ma “più differenziate” delle società tradizionali. L’idea che la “eguaglianza” e la “libertà” abbiano impoverito il corpo sociale è il frutto di un abbaglio assai frequente. Piuttosto sono le società tradizionali a considerare “aberranti” le trasgressioni della norma sociale, che costringe i laici e i chierici in ruoli gerarchici immutabili, così come i maschi e le femmine, nella famiglia come nella società. La uscita da queste norme stringenti non è la negazione del vangelo, ma la sua riformulazione in una cultura nuova.

                Se ad una “società dell’onore” si sostituisce una “società della dignità”, nasce non solo il rischio di una “identità non riconosciuta”, che è certo un problema non piccolo, ma anche una “alta differenziazione” che istituisce nuove forme di identità, prima impossibili e inconcepibili. Anche la Chiesa si arricchisce di questa nuova dinamica. Certo, nella Chiesa cattolica, proprio la dimensione universale costringe a tener conto di un mondo complesso, nel quale continuano a convivere, spesso anche a stretta vicinanza, logiche di onore e logiche di dignità, che hanno bisogno di una lenta maturazione. Per questo una differenziazione condivisa della dottrina, almeno per ambiti continentali, sarà una evoluzione inevitabile.

Il Dio “differente” si mostra molto più nella “brezza leggera” che nel “fuoco” o nel “terremoto”. Così l’amore, che è una definizione di Dio, non si lascia comprendere semplicemente come il “totalmente altro” per l’uomo, ma come ciò di cui l’uomo e la donna, ogni uomo e ogni donna, originariamente partecipano. La “alta differenziazione”, che caratterizza le nostre società e le nostre chiese, chiede il superamento delle logiche soltanto gerarchiche della società dell’onore, insieme alla correzione fraterna della società della dignità, fondata su libertà e uguaglianza. La trascendenza di Dio è in quella immanenza trasfigurata e trasfigurante che si chiama amore. Questo amore non sopporta più, in larga parte del mondo, una impostazione in cui la “differenza di Dio” si imponga, necessariamente, come “gerarchia naturale e sociale”.

Andrea Grillo    blog: Come se non         22 agosto 2023

www.cittadellaeditrice.com/munera/la-differenza-di-dio-e-la-differenza-dellordine-sociale

Non c’è riforma della chiesa senza riforma della teologia

intervista a Piero Coda (α1955),

Piero Coda, teologo nato a Cafasse in provincia di Torino, 68 anni, è segretario generale della Commissione teologica internazionale (cti). Presbitero della diocesi di Frascati, ha insegnato per lunghi anni alla Lateranense ed ora è professore presso l’Istituto universitario Sophia di Loppiano, di cui è stato preside dalla fondazione nel 2008 sino al 2020. È stato presidente dell’Associazione Teologica Italiana dal 2003 al 2011 e attualmente è Direttore del Centro Studi Scuola Abbà dell’Opera di Maria/Movimento dei Focolari. Papa Francesco lo ha chiamato a coordinare la cti nel settembre del 2021.

I suoi studi, che lo hanno distinto nel panorama teologico, sono rivolti da anni al tema dell’Ontologia Trinitaria: per l’editrice Città Nuova ne cura un Dizionario Dinamico giunto già al quinto volume. Con monsignor Coda, «L’Osservatore Romano» prosegue la sua carrellata di interviste sulla necessità di una rifondazione teologica del pensiero.

vedi news UCIPEM n. 974 pag.25    commento di Andrea Gillo

Potremmo intanto iniziare chiedendole un parere sullo stato attuale della teologia. C’è la sensazione che la teologia spesso stenti a tenere il passo con gli spunti innovatori proposti da Papa Francesco. Permane una certa autoreferenzialità della riflessione teologica, tanto in quella “conservatrice” che in quella “progressista”, che non sembra aver accolto quell’indicazione alla “missionarietà” della teologia richiesta da Papa Francesco in «Veritatis gaudium».

www.vatican.va/content/francesco/it/apost_constitutions/documents/papa-francesco_costituzione-ap_20171208_veritatis-gaudium.html

Penso che l’impressione sia vera: c’è una certa inerzia, poca creatività e l’impasse causata dal rifiuto di liberarsi dal fardello di posizioni preconcette. Osservando le cose dalla postazione della Commissione teologica internazionale, istituita da Paolo VI sulla scia del Vaticano II , direi così: nei primi decenni dopo il Concilio, l’impegno teologico si è concentrato nel declinare le grandi direttrici di marcia emerse con nettezza e profezia dall’assise conciliare. Questo fatto ha comportato un complessivo riposizionamento: la teologia ha mutato volto, rinnovandosi nei contenuti e nella metodologia. Ora ci troviamo in una fase nuova, che è propiziata dal ministero di Papa Francesco ma risponde in senso più largo a ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa e opera — non senza contrasti — nella storia. È una fase in cui la teologia sta cercando, con fatica, d’intercettare la lunghezza d’onda dello Spirito Santo. Spesso si rischia però di fare due passi avanti e uno indietro…

Si tratta di accogliere e implementare con creatività le linee proposte dalla Costituzione apostolica Veritatis gaudium. È uno spirito che anima molti giovani teologi, che sono preparati, sinceramente ecclesiali, aperti, capaci d’istruire un dialogo su diverse frontiere. E ciò nell’ambito delle Chiese locali, in presa diretta coi diversi contesti culturali ma al contempo con sguardo alla “cosmopoli” — direbbe Bernard Lonergan — in faticosa gestazione. Così ad esempio in Italia, dove la teologia ha cominciato appunto a parlare con incisività in lingua italiana. Per questo, la prima volta che incontrai Papa Francesco gli dissi: «Lo sappia: la teologia italiana è con lei». Penso al dialogo, vivace, con la filosofia di matrice laica, una caratteristica della teologia italiana da almeno 30 anni. Intellettuali di rilievo come Severino, Cacciari, Galimberti, Vitiello hanno interloquito e interloquiscono con serietà e sincero interesse con il mondo teologico. Lo stesso accade in rapporto al mondo scientifico, anche se in forma incipiente: nelle scienze pecchiamo in genere di una preparazione approssimativa. E poi in rapporto al mondo dell’arte e dei nuovi linguaggi. Detto ciò, sarei insincero se non dicessi che il modo di fare teologia nelle facoltà e nei seminari è spesso vetusto. Una contraddizione che si rileva del resto nella stessa Veritatis gaudium: a un Proemio che apre a praterie sconfinate, segue una parte normativa di impianto quasi casistico, che non corrisponde agli intenti.

Forse potremmo indicare anche un altro elemento che contraddistingue questa tendenza dei nuovi teologi: il partire dall’esperienza umana, più che dalla concettualizzazione metafisica. Alcuni criticano dicendo che è una teologia sociologica. Ma il ripartire dall’uomo, che è “gloria di Dio”, è segno precipuo della religione dell’Incarnazione. Sì, questa sensibilità e questo stile mettono in soffitta una teologia astratta e remota dalla vita. Ma siamo solo a metà del guado. Dobbiamo ripartire dall’evento di Gesù, la Parola, il Figlio di Dio/Abbà che si fa carne nella storia, aprendoci senza remore al Soffio (lo Spirito Santo!) di questa decisiva novità che pulsa nell’esperienza umana e la ispira. Solo così si ritrova il nerbo ontologico dell’intelligenza della realtà donata in Gesù: il senso dell’essere che in Lui si dischiude nel “sempre più” e nel “sempre oltre”. Non è qualcosa di sovrapposto e accidentale rispetto all’umano: è ciò che — direbbe San Tommaso — lo porta a inaspettata eppure da sempre desiderata pienezza. Un limite nella teologia contemporanea è spesso la mancanza di audacia e vigore teoretico: e cioè di visione e performatività. Il pensiero teologico è radicato nel novum dell’evento cristologico, e per questo deve avere la parresia e il coraggio della testimonianza convinta e persuasiva della verità sempre maior. Come diceva    il cardinale Michele Pellegrino (α1903-ω1986): non essere uomo o cristiano ma uomo e cristiano, uomo in quanto cristiano. La teologia, oggi come sempre, ha da offrire il suo contributo insostituibile alla definizione di un nuovo umanesimo. Non più, solo, nella forma dell’”umanesimo integrale” immaginato da   Jaques Maritain,(α1882- ω1973) ma di quell’umanesimo che il Vaticano ii ha propiziato: l’umanesimo della relazione e dell’alterità, l’umanesimo di quella reciprocità che mi piace chiamare reciprocante, perché fa incontrare per andare fuori e oltre, insieme, in Cristo. Non basta declamare la novità del Vangelo, occorre pensarla e incarnarla in paradigmi di pensiero, di azione e di gestione della realtà che siano all’altezza della grazia di Cristo e della coscienza di oggi.

Ripartire dall’uomo implica però un problema. L’incarnazione ha determinato nella teologia una certa fissità dell’umano nelle sembianze di Gesù di Nazareth. Ma l’uomo cambia. È sottoposto ad un processo evolutivo che solo in parte può influenzare. Cambia fisicamente, ma anche mentalmente e psicologicamente. Il cambiamento antropologico è evidente ad uno sguardo minimamente attento. Ed è anzi divenuto molto rapido. Pensi ad esempio alle relazioni tra i generi, oppure all’esternalizzazione della memoria — che, ricordiamolo produce l’identità — nelle intelligenze artificiali. E noi rischiamo, per dirla col cardinale Hollerich di parlare ad un uomo e una donna che non esistono più. Allora forse un rinnovamento della teologia, dovrebbe iniziare con una rivisitazione del pensiero antropologico.

L’antropologia teologica così come spesso la rappresentiamo — non ho timore di affermarlo — è in gran parte da archiviare: non certo nella sostanza, ma nell’interpretazione che ne è data. Perché è astratta e idealistica. Presenta una visione del mondo e dell’uomo da esculturazione. Occorre riviverla e ripensarla ]e riproporla: nella fedeltà certo all’ispirazione evangelica e alla tradizione, ma proprio in virtù di ciò capace di farsi appassionante e storicamente incidente. E cioè di dire ciò che è perenne e imperdibile nel modo in cui oggi è chiamato a prendere forma. Non promette Gesù: «lo Spirito vi guiderà nella verità tutta intera» (Gv 16, 13)? La ragione del ritardo è che non abbiamo recepito nel discorso teologico (malgrado le sollecitazioni di Papa Francesco che ci ricorda che il tempo è superiore allo spazio) la percezione della realtà in quanto segnata oggi dalla scoperta della “quarta dimensione”, per cui lo spazio prende senso nella misura in cui è dinamizzato dal tempo: quello che è stato definito il “cronotopo”. Uno spazio senza tempo, alla fine, implode su stesso. La percezione della “quarta dimensione” aiuta a intuire come l’evento di Gesù ha trasfigurato in toto la situazione del nostro essere. Dire che la dimensione del tempo è introiettata nella dimensione dello spazio, significa ad esempio recuperare il significato della memoria collegandola al kairós [momento opportuno] che viviamo e aprendoci all’avvento di ciò che ci raggiunge dal compimento cui siamo destinati, e che ci è dato «una volta per sempre» (Eb 9, 12) nella pasqua di Gesù asceso al Seno del Padre per «attirare tutti a Sé» (cfr. Gv 12, 32). Fossilizzare la figura di Gesù è una contraddizione in termini. È in relazione all’avvento sempre nuovo del Regno di Dio che Gesù era, è, e sarà. Non dobbiamo avere paura della costatazione incontrovertibile e perciò interpellante che il cristianesimo oggi, dopo 2000 anni, sta entrando in una fase nuova. L’uscita dalla cristianità non è l’uscita dalla comunione col Padre grazie allo Spirito Santo nel Figlio fatto carne. Memoria, presenza e profezia riconfigurano il tempo introiettandolo nello spazio e dandogli forma. È l’avvento di Dio in Gesù che si realizza nella relazione con il prossimo, l’altro, colui che invoca la mia cura, chi in qualunque modo è ai margini della vita.

Questo discorso sul “cronotopo” come condizione per la realizzazione del Regno ci porta a un altro ambito ‘debole’ della teologia, quello dell’escatologia. Paolo in «Atti» 17 nel discorso all’Areopago lega i due aspetti. Con il segno della profezia dice che Dio ha creato lo spazio e il tempo perché potessimo cercarlo, seppure a tentoni. E non a caso nel discorso lega questa constatazione (che incredibilmente anticipa di due millenni le scoperte del secolo scorso) alla Resurrezione di Gesù. Allora, nella logica di un ripensamento anche della escatologia, viene da chiederle: visto che la scienza è concorde nell’affermare l’esistenza di più dimensioni spazio-temporali, è immaginabile che l’“oltre”, quello che chiamiamo il Regno, sia configurabile in un’altra dimensione spazio-temporale?

Penso di sì. È un’ipotesi di ricerca che dobbiamo prendere in considerazione e che non contrasta con il deposito della fede ma lo dischiude a un senso più realistico e coinvolgente: perché l’oltre mi raggiunge qui ed ora, nel rapporto e nell’apertura a di più.

 Abbiamo la necessità di uscire da una narrazione favolistica tanto del momento creativo che di quello escatologico. Questo sicuramente darebbe nuova credibilità alla fede per l’uomo moderno.

È un impegno su cui siamo indietro e su cui dobbiamo lavorare: ma prima occorre sperimentarlo. È così che si mette in gioco la valenza missionaria della teologia che Papa Francesco chiede, per ridare orizzonte e speranza a chi è confuso e sfiduciato davanti alle sfide, davvero epocali, che c’interpellano. Occorre dischiudere — per dirla con Antonio Rosmini impiegando un lemma pregnante — l’ontologia e cioè la verità e la bellezza della realtà che è partorita dalle viscere della Rivelazione. Gesù ha inaugurato quel nuovo modo d’essere in cui siamo tutti — tutti! — inseriti per dono. Come insegna il Concilio nella dia a tutti la possibilità, nel modo che Dio conosce, di venire associati al mistero pasquale di Cristo», che è il centro della storia. C’è un “cronotopo” cristico, pneumatico, pancosmico (come si è ingegnato a illustrarlo Theillard de Chardin α1881- ω1953) che è lo spazio/tempo in cui viviamo, crediamo, amiamo, pensiamo, agiamo. Entrare in questa dimensione di vita e di pensiero — e dimorarvi in fraternità e convivialità con l’universo creato — è oggi un imperativo per la teologia: non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia.

È un compito immane, che necessita una buona dose di coraggio. Perché occorre ricominciare il pensiero fin dal suo inizio. Per esempio la teologia del peccato originale.

Una realtà trasversale. Anni addietro la Congregazione per la Dottrina della Fede lavorò a un documento sul peccato originale. Ma non se ne fece niente. La meditazione responsabile e aperta sulla realtà della tentazione, della caduta e della redenzione è senz’altro centrale — come mostrano il racconto della Genesi e il compimento della sua promessa in Gesù— e va rimessa in circolo con un’ermeneutica adeguata, partendo dall’affermazione della Lettera ai Romani di Paolo: «dove è abbondato il peccato è sovrabbondata la grazia» (cfr. Rom 5, 20). La chiave di tutto è la grazia di Dio, che è amore ed è misericordia. Il dato — che è dono — della libertà della creatura umana, della sua vulnerabilità e della serietà del male, va decifrato in questa luce. Che è quella di Gesù crocifisso, sino a patire la notte dell’abbandono, e di lì per sempre risorto, primogenito tra i molti fratelli e sorelle, primizia di cieli nuovi e terra nuova.

È messa in relazione anche al passo sempre paolino sulle “doglie del parto”, cioè a quella fragilità dell’umano che è integrata alla creazione, all’uomo essere perfettibile. Una fragilità che l’uomo moderno vede oggi, alla luce dell’evoluzionismo darwiniano, con un occhio diverso.

Non possiamo più accodarci a una lettura semplificata della questione dell’evoluzione del cosmo e della crisi ecologica che — con l’avvento dell’antropocene — assume oggi proporzioni tali da mettere in pericolo la sopravvivenza dell’umanità e della casa comune che la ospita ed è confidata alla sua cura. Fa difetto una riflessione approfondita sulla connessione tra la coscienza della vocazione umana, e quindi dello sviluppo del cosmo in cui essa si dà, e la sfida della libertà.

 È il tema fondamentale della modernità. La libertà è condizionata non solo da quell’ignoranza che può essere persino invincibile, ma anche dalla cattiva coscienza: e cioè da quel peccato contro lo Spirito che — attesta Gesùè l’unico a non essere perdonabile. Occorre pensare e gestire la fragilità e la vulnerabilità della condizione umana prendendo sul serio la tentazione della cattiva coscienza: e cioè la forza tragica del male che scaturisce da una libertà esercitata contro la verità dell’uomo, del creato, di Dio. È il mistero della libertà. E il mistero della grazia.

La psicanalisi nel secolo scorso, e le scoperte delle neuroscienze in questo secolo, sembrano aver inficiato la concezione di libertà alla base del pensiero cristiano. Nel senso che l’uomo sarebbe assai meno libero di quanto siamo abituati a credere. Ciò che consente di penetrare la relazione tra la libertà e la grazia è il tempo ed è la relazione.

Abbiamo pagato un prezzo alto a una certa oggettivizzazione e cosificazione della grazia. Come se si trattasse di un contenuto o di uno stato che viene assegnato a priori, e la libertà fosse semplicemente la facoltà di accettarlo o rifiutarlo. La verità è più profonda. Si tratta di aprirsi, accogliere e lasciarsi plasmare da una relazione viva e personale: con Dio, in Cristo e, in Lui, con gli altri. La grazia si dà negli incontri che ci occorrono lungo l’esistenza. Per rispondere alla sua domanda: bisogna mettere allo scoperto il nucleo profondo della libertà che attraversa certo, nel suo esercizio, una serie di condizionamenti culturali e storici, senza però esser estinta nella sorgente da cui sprizza: che tale è perché vive del contatto vivo con la grazia, e cioè nella relazione con quel Qualcuno che la vuole, la fa essere, la libera, la introduce – per dirla con la Dei Verbum — alla comunione di vita con Sé nell’abisso della sua Vita che è Luce e Amore. Un Qualcuno (con la maiuscola) che s’esprime sempre attraverso un qualcuno (con la minuscola). Se perdiamo questo senso della libertà, perdiamo l’umano. E il creato.

Psicoanalisi e neuroscienze sono benedette nel darci conto della nostra condizionatezza, ma — come insegna un maestro della filosofia come Luigi Pareyson — la condizionatezza propria dell’umano è un’antenna che permette d’interpretare nella libertà la Verità e di plasmare alla sua Luce l’esistenza. La condizione e condizionatezza storica e culturale non è mai lo schiacciamento o persino l’annichilimento della libertà. Un Dio che non consegnasse alla libertà la sua creatura produrrebbe degli automi. Egli stesso sarebbe un automa. Non il Dio vivente come lo percepiamo a tentoni ma con incoercibile sentire. E come Si è rivelato e a noi donato sino alla fine in Gesù.

Il tema dei condizionamenti ci porta inevitabilmente alle considerazioni etiche e morali. Tra queste ad esempio occorrerebbe accendere una luce sul tema dell’influenza del sociale sui comportamenti dell’individuo, in primis l’imprinting che la famiglia, come primo nucleo sociale, esercita sul nostro agire . Ma anche questo, in progressione coi cambiamenti antropologici di cui parlavamo prima, va cambiando. La famiglia (quando c’è) non è più quella che idealizziamo ancora nella nostra pastorale. Pensi per esempio alla mobilità delle famiglie di oggi. O agli enormi cambiamenti intervenuti nel rapporto uomo-donna.

Anche la sociologia induce a un ripensamento di alcuni assiomi che davamo per immutabili, e che interferiscono con la dottrina etica insegnata dalla Chiesa. Il tema della relazione uomo-donna è paradigmatico. Per dirla un po’ provocatoriamente, penso che oggi più che una “questione femminile” ci troviamo ad affrontare una “questione maschile”! Mi riferisco alla perdita d’identità dell’uomo maschio, che non riesce ad adeguarsi all’emancipazione irreversibile — e benedetta! — del femminile. Il maschio era abituato a idealizzare — e imprigionare — la donna: nei ruoli della madre, della sorella, della sposa o… dell’amante, e in tutti i casi, troppo spesso, della serva. E lui gestiva questi ruoli. Ma non si relazionava con la donna come amica. La straordinaria bellezza della categoria dell’amicizia, meravigliosamente evocata nel Cantico dei cantici, non rientrava nello schema dei rapporti tra i sessi. Oggi la donna finalmente si rifiuta d’essere ingabbiata dentro questo schema riduttivo e persino distorto, approntato dai soli maschi. E l’uomo non sa più che pesci prendere. Occorre ritrovare e implementare la dimensione originaria della reciprocità. Che è più e altro dalla complementarietà.

È uno stato di crisi, quello attuale, che influisce sull’opacità e indeterminatezza dell’identità sessuale. Recuperare la freschezza e gioia della reciprocità da ambedue i sessi, dunque, per recuperare la pienezza della persona nel vivere affetti, libertà e solidarietà. La nostra arretratezza nel leggere questo fenomeno viene erroneamente attribuita alla fissità anacronistica di una idealizzazione della “sacra famiglia”. Che in verità rappresenta piuttosto un modello che, liberato dalle incrostazioni devozionali che gli abbiamo ritagliato addosso, riluce come lo scrigno delle relazioni umane fondate sull’affettività, la libertà e solidarietà. Non scordiamo che Gesù non solo assume la sua umanità da Maria ma la matura anche dalla relazione con Giuseppe. Queste considerazioni valgono non solo per la famiglia, ma anche per le comunità di vita religiosa: che non sono meno in crisi delle famiglie. La famiglia di Nazareth è modello per tutti, chi è sposato e chi vive la verginità, entrambi nella logica dell’avvento del Regno. L’evanescenza del ruolo paterno che registriamo è oggi spesso penetrata anche tra i chierici, che non sanno più essere padri, essendo figli e fratelli. Uno dei meriti di Papa Francesco è quello di suggerire uno sguardo nuovo sulla presenza della figura di Giuseppe padre e di Maria madre nella nostra vita di discepoli. Ma c’è molto cammino da fare.

Alla luce di un ripensamento sui connotati della grazia occorrerebbe trattare anche degli strumenti principali di sua espressione: i Sacramenti. In una recente intervista al nostro giornale Elmar Salmann ha detto che più ancora dei numeri dei fedeli lo preoccupa il declino della prassi sacramentale.

Il linguaggio sacramentale, così come lo proponiamo, risulta sempre più ostico e indecifrabile per le nuove generazioni: che pure — e forse come mai — sono assetate dell’acqua viva che ne scaturisce. Anche i teologi che dichiarano di voler innovare rimangono spesso prigionieri di un’autoreferenzialità sconcertante. Occorre una rivisitazione, nello spazio di quella ri-semantizzazione dell’esperienza viva dell’avvento del Regno che si realizza in Gesù e che, appunto, si verifica grazie alla mistagogia sacramentale.[rendere operante] Dovremmo semplicemente ripartire sperimentando con stupore e gioia che l’evento della Pasqua del Cristo si fa attuale attraverso questi gesti santi di prossimità che ne mostrano e agiscono la grazia nella nostra vita. Come scriveva Dietrich Bonhoeffer, dal campo di concentramento, nei suoi pensieri per il giorno del battesimo riportati postumi in Resistenza e Resa: «L’antico spirito, dopo il tempo del suo misconoscimento e della sua effettiva debolezza e dopo un periodo di ritiro, di ripensamento interiore, di prova e di guarigione, saprà creare a se stesso forme nuove … non dobbiamo aver fretta, dobbiamo saper aspettare …nelle parole e nei gesti della tradizione intuiamo qualcosa di totalmente nuovo e di sconvolgente, senza tuttavia riuscire ad afferrarlo e a esprimerlo».

Riarrotolando il nastro di questa conversazione: siamo partiti dal peccato originale: da ripensare; poi la grazia: da ripensare; poi la libertà: da ripensare; poi i sacramenti: da ripensare. Fossimo nei suoi panni monsignor Coda, pensando al lavoro che c’è da fare — nell’assunto che non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia —, ci tremerebbero i polsi…In verità, il compito cui sono stato chiamato da Papa Francesco a servizio della CTI , e ora anche nella Commissione teologica del Sinodo, lo vivo con serenità e passione, e non mi sembra poi così gravoso o drammatico. Che anzi mi entusiasma. Perché — dal punto di vista personale — è in linea con la chiamata che mi è stata fatta ormai molto tempo fa: vivere e imparare insieme con gli altri a camminare nella sequela di Gesù, oggi, guardando con occhi di amore al mondo che siamo. La missionarietà della teologia invocata da Papa Francesco mi è di conferma in quanto ho cercato di vivere, nel piccolo, nell’esercizio del ministero teologico. Due gli elementi che mi hanno sempre ispirato, perché li vedevo troppo poco presenti e attivi: la relazione e il tempo, e cioè la fraternità e la storia. Amare Dio con l’intelligenza per amare con intelligenza l’uomo e il creato, che sono il suo amore. Amore che chiede oggi un surplus d’intelligenza e discernimento. Questa la sfida per la

teologia.

Una ricerca senz’altro attraente e oggi, diciamo, avventurosa per il suo carico innovativo pur nel solco della tradizione. Però alla fine c’è il magistero….

La spinta innovativa di Papa Francesco è sotto gli occhi di tutti, anche se in modo non scontato. Perché chiede di vivere in uno stato di perenne conversione. Come del resto chiede il Vangelo. Ma c’è da ricordare che la Dei Verbum al n. 8 mette il magistero al terzo posto tra i fattori che dinamizzano quel cammino del Popolo di Dio che felicemente sperimentiamo oggi come cammino sinodale: il primo è lo studio della Parola di Dio, e cioè la sua intelligenza nella fede e nella pratica dell’agape; il secondo è l’esperienza della vita di fede attraverso il sensus fidei e i doni dello Spirito Santo; il terzo appunto è il magistero. Perché il magistero non fa altro che recepire, con il carisma di verità e di guida di cui è dotato per servire, i frutti portati dalla Parola vissuta nello Spirito dal Popolo di Dio.

A proposito del percorso sinodale, voglio aggiungere una cosa: la teologia non si limita a studiare la sinodalità, la teologia si fa sinodalmente. Sono convinto che il Sinodo sulla sinodalità sarà fra 50 anni guardato come oggi guardiamo al Vaticano ii . Un passaggio epocale nella storia della Chiesa. Nella Commissione Teologica Internazionale — fin dalla sua istituzione — si cerca di assumere questo stile di lavoro sinodale che crea condivisione e genera fecondità.

Stiamo lavorando proprio sui temi del cambiamento antropologico di cui dicevamo; e poi, nella ricorrenza dei 1700 anni dal Concilio di Nicea, abbiamo avviato una riflessione sul significato permanente e profetico della confessione di fede nicena; stiamo infine studiando la teologia della creazione nella chiave di un’ecologia integrale alla luce della Laudato si’.

Monsignor Coda, lei ha dedicato gran parte dei suoi studi all’Ontologia Trinitaria. Perché?

L’Ontologia Trinitaria è vivere, pensare e gestire il senso della nostra esistenza e della realtà in cui viviamo alla luce di Dio che in Gesù si dice Amore e ci dona il soffio del suo Spirito «senza misura». La preghiera di Gesù al Padre non è forse stata: «Padre, che tutti siano uno come Io e Te: Io in Te e Tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21)? Dunque, camminare sotto lo sguardo di Dio Trinità e vedere ogni cosa in questa luce.

Immediatamente dopo il Concilio, Jean Daniélou – in quel gioiello che è il suo “La Trinità e il mistero dell’esistenza — scriveva che il fondo dell’essere è la comunione. «Una rivelazione prodigiosa — esclamava —. Pare inverosimile che i cristiani, in possesso di questo segreto ultimo delle cose, capaci di penetrare con lo sguardo di Cristo nell’abisso del mistero nascosto in cui tutto è immerso, non siano maggiormente coscienti dell’importanza fondamentale del messaggio che devono trasmettere… La pienezza dell’esistenza personale coincide, nella Trinità, con la pienezza del dono dell’uno all’altro». Di qui una spinta, penso discriminante, a leggere con occhi nuovi ciò che è in gestazione nel parto di proporzioni Pan umane e cosmiche che investe il nostro tempo.

Un’avventura appassionante e bella, concreta e tempestiva. Basti guardare — ripeto — al processo sinodale in cui oggi è impegnata la Chiesa cattolica, ma con l’abbraccio universale, gratuito e invitante, proposto dal Vaticano II , rilanciato da Papa Francesco e intrapreso con speranza dal Popolo di Dio. C’è bisogno di un nuovo pensare perché la Chiesa, Popolo di Dio e Corpo di Cristo in quanto segno e strumento di unione con Dio e di unità del genere umano (cfr. Lumen gentium, 1), diventi ciò che è per grazia. Come intuisce Papa Francesco: «La Chiesa è “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG 4). Per questo, nella realtà che denominiamo “sinodalità” possiamo localizzare il punto in cui converge in modo misterioso ma reale la Trinità nella storia».

a cura di Andrea Monda e Roberto Cetera   in “L’Osservatore Romano27 luglio 2023

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