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La capacità empatica: ciò che ci rende umani
Nel crescente interesse e dibattito che si sta sviluppando sull’intelligenza artificiale, viene spesso posta la domanda, talvolta accompagnata da preoccupazione, di quali funzioni verranno progressivamente svolte dalle macchine e quindi di conseguenza cosa resterà di esclusiva competenza dell’essere umano.
Questa riflessione investe anche il mondo del lavoro psicologico che accanto a quello medico potrà usufruire di notevoli applicazioni di questi programmi di gestione di dati sempre più complessi ed estesi. L’intelligenza artificiale costituisce una forma particolare di software in cui il programma apprende, sulla base di una mole vastissima di dati, quali configurazioni sono più probabili e quindi pertinenti. Questa sorta di “intelligenza statistica” permette di disporre di risposte che in una certa misura sono sempre meno distinguibili da quelle prodotte da un essere umano. L’intelligenza artificiale quindi diviene una sorta di processo di elaborazione e di raccolta dei dati che vengono forniti progressivamente al computer per arrivare ad offrire delle risposte sempre più simili a quelle proprie del pensiero umano. Ciò non significa che i processi implicati nell’analisi delle informazioni dalla macchina siano gli stessi degli esseri umani, gli algoritmi che guidano i computer non hanno nulla a che fare con i processi di pensiero umano, pur tuttavia i risultati di questi processi possono divenire sempre più simili e indistinguibili
I computer grazie all’intelligenza artificiale potranno ad esempio comporre un testo, mantenere una conversazione, formulare una diagnosi o creare un prodotto artisticamente interessante, rispondere in modo appropriato ad una situazione sociale, insegnare ad un ragazzo come risolvere un problema di matematica, tutte funzioni che fino a qualche tempo fa si riteneva fossero appannaggio esclusivo di noi esseri umani.
Anche in ambito psicologico potremmo ipotizzare che questa forma di intelligenza potrebbe essere utilizzata per formulare dei profili diagnostici o per sviluppare dei piani riabilitativi coerenti con alcuni fattori di contesto e di personalità. Il computer potrebbe divenire una sorta di io ausiliario che aiuta un paziente a sviluppare certe competenze o potrebbe monitorare il suo stato di salute psicofisica. Immaginiamo addirittura che il potenziale di questi strumenti informatici possa spingersi fino a sviluppare una sorta di colloquio clinico talmente realistico e pertinente da simulare in modo molto convincente quello che farebbe uno psicologo in carne ed ossa.
Queste forme di imitazione o di assistenza online prodotte da un programma informatico sono già presenti in diversi contesti molto elementari, ne facciamo esperienza quando ci troviamo su una certa piattaforma e cominciamo a dialogare con un’assistente da remoto che in realtà è un semplice avatar. Attualmente queste forme di assistenti virtuali sono molto rudimentale ma ben presto o forse già ora il livello di performance e di capacità di questi programmi nel gestire informazioni complesse potrà divenire così alto da poter realizzare dei buoni simulatori anche di un colloquio clinico in campo medico o psicologico.
Si impone a questo punto la domanda cruciale: che cosa non sarà sostituibile da una macchina nel lavoro che impegna un operatore in una relazione d’aiuto che comporta aspetti potentemente psicologici? C’è qualcosa che non sarà riducibile ed imitabile da un programma pur se estremamente sofisticato e reso “esperto” da migliaia di casi simili depositati nella sua memoria? E ancora, che tipo di efficacia potrebbe avere un possibile colloquio con uno psicologo virtuale costituito da una software di intelligenza artificiale? Sembrano interrogativi avveniristici ma credo che siano molto più vicini alla realtà di quanto pensiamo e soprattutto ci costringono ad analizzare in modo radicale che cosa è veramente esclusivo dell’essere umano nell’ambito delle funzioni relazionali e in particolare in un contesto d’aiuto. Per cercare di rispondere a questa ardua domanda possiamo iniziare ad esaminare in che cosa consiste il nucleo del processo empatico nell’essere umano. L’aspetto empatico rappresenta infatti una condizione essenziale di qualsiasi relazione d’aiuto efficace; non esiste probabilmente nessun atto clinico in ambito psicologico che possa essere terapeutico se non è contenuto in una relazione di tipo empatico. Cosa intendiamo quindi per empatia e in che modo si presenta.
L’empatia trova i suoi primi presupposti evolutivi fin dalla primissima infanzia e precisamente nelle relazioni che il bambino sviluppa con i suoi caregivers. Lo psicologo Daniel Stern ha studiato a lungo a partire dagli anni ottanta questi processi analizzando le interazioni presenti tra un bambino di pochi mesi e un adulto e ha scoperto il fenomeno delle sintonizzazioni. Con questo termine egli ha indicato quei momenti in cui si crea tra la madre e il bambino una sincronia di risposte comportamentali tali che ognuno si muove in sintonia con l’altro. Questa interazione del tutto preverbale e preriflessiva si basa su processi di rispecchiamento e di imitazione che non sono meccanicistici e rigidi ma utilizzano canali amodali di imitazione. Con il termine amodale si intende un processo di rispecchiamento e di imitazione che è indipendente dalla singola modalità percettiva (motoria, vocale, facciale) ma va a cogliere la struttura interna dell’esperienza che viene rispecchiata. Si può osservare infatti ad esempio che la madre non risponde ad un gesto del bambino con una semplice imitazione del gesto stesso ma può utilizzare un canale vocale per imitare la forma e la tensione presente nel gesto del bambino.
Oppure la madre può scegliere di muovere un’altra parte del corpo che non corrisponde a quella mossa dal bimbo mantenendo tuttavia la stessa struttura di attivazione. Si crea così una sorta di danza in cui entrambi i partner (madre e bambino) rispondono all’altro in una forma molto simile ma nello stesso tempo diversa perché agita su piani diversi del registro comportamentale (gesti, voce, espressioni facciali, posture, contatti oculari). Attraverso questi meccanismi i due soggetti condividono un’esperienza di reciproca “comprensione” perché condividono quello che Stern identifica come affetto vitale ovvero una sequenza di attivazioni e di modulazioni nel tempo. Un esempio molto semplice di questa danza lo troviamo nel gioco molto comune del fare paura, o fare il solletico, quando la madre gioca a produrre, dopo un crescendo di attesa e di tensione nel bambino, lo scoppio di un’espressione buffa o di un gesto di solletico, per poi tornare ad uno stato di quiete.
Queste interazioni e giochi sono i presupposti preverbali dell’empatia in quanto comportano le due condizioni essenziali proprie di una relazione empatica: entrambi i soggetti sentono di comprendere ciò che è dentro la mente dell’altro e sentono che l’altro sta comprendendo ciò che è nella propria mente.
Queste esperienze precoci restano il nucleo invariato che permette a tutti noi di sentirci in contatto profondo e autentico con qualcuno o al contrario sentire che con quella persona non vi è una vera comprensione e intesa o addirittura che vi è un forma di sottile falsità e inautenticità.
Il primo gradino dell’empatia è quindi basato su una comunicazione sostanzialmente preverbale consistente in gesti, suoni, espressioni facciali che si sviluppano in una sintonia di attivazione tra i due soggetti coinvolti e che permettono di poter vivere l’esperienza dell’essere con”.
Questo livello non dipende da funzioni intellettive particolarmente evolute, noi lo viviamo anche nel rapporto con i bambini piccoli o con gli animali perché anche con loro possiamo sperimentare in sostanza questo tipo di sintonia. E’ evidente tuttavia che questa esperienza necessita di un corpo perché si basa su processi che hanno a che fare con movimenti, suoni, espressioni facciali, gesti che richiedono la presenza di un corpo.
Quando nella fase della pandemia ci siamo trovati tutti a passare molto tempo guardandoci attraverso uno schermo, ci siamo resi conto di come fosse impoverita e rallentata la relazione empatica. Di fatto se è vero che è possibile mantenere relazioni anche profonde attraverso contatti “da remoto” attraverso uno schermo, tutti noi possiamo constatare che in queste situazioni sembra mancare qualcosa nella comunicazione e l’effetto sul nostro sentirci in sintonia con l’altro può essere diminuito.
Possiamo chiederci a questo punto in che misura sarà possibile vivere un’esperienza di empatia con un computer che ci parla attraverso un avatar da uno schermo?
Attualmente esistono già programmi che sono in grado di costruire dei dialoghi tra uomo e computer che siano sensibili e coerenti sul piano emotivo; sono già presenti inoltre delle applicazione attraverso le quali il computer può leggere le emozioni dell’essere umano attraverso il tono della voce o le sue espressioni facciali. Il progresso di queste tecnologie potrebbe portarci quindi in futuro a vivere delle conversazioni con un computer che capisce i nostri stati d’animo e che reagisca coerentemente ad essi.
Ma questo tipo di dialogo potremmo veramente considerarlo empatico? L’esperienza di una macchina che risponde coerentemente alle nostre emozioni potrebbe davvero farci sperimentare la sensazione che la macchina ci capisca?
Il sentimento del sentirsi capiti proprio dell’esperienza empatica, implica un doppio processo di riconoscimento: da un lato io devo sentire che le mie emozioni sono state riconosciute dall’altro, ma parallelamente io devo sentire che l’altro non solo le ha riconosciute ma le ha anche sperimentate dentro se stesso. Questo secondo aspetto è fondamentale: per sentirci capiti dobbiamo credere e sperimentare che un po’ del mio vissuto è stato provato anche dall’altra persona, non solo che è stato riconosciuto freddamente ma che il soggetto ha sperimentato in sé ciò che noi gli stiamo trasmettendo.
In effetti se pensiamo alla nostra comune esperienza vediamo che talvolta il semplice fatto che l’altro ha compreso le nostre emozioni, non produce un senso di vicinanza e di reale empatia se non ci accorgiamo che egli le ha “sentite” dentro di sé.
Nel caso estremo troviamo infatti situazioni in cui l’altro capisce il nostro malessere ma lo usa per punirci o per umiliarci come succede nelle situazioni di maltrattamento o prevaricazione.
Questo secondo livello presente nel processo empatico credo sia un elemento che strutturalmente non possa essere riprodotto in una macchina, in quanto essa non potrà provare emozioni: per quanto i suoi processi periferici possano essere sovrapponibili a quelli umani e quindi per certi aspetti non distinguibili, resta il fatto che il soggetto-computer non potrà essere di per sé un soggetto capace di vissuti, desideri, affetti, paure, gioie, intenzioni ecc. Questo limite strutturale fa sì che anche le interazioni con il computer restino nella fascia dei processi che assomigliano a quelli umani, e per molti aspetti possano essere estremamente utili e funzionali, ma che non avranno la qualità essenziale di quelli umani ovvero il percepire attraverso la comunicazione empatica che quello che provo io lo sta provando anche l’altra persona. Paradossalmente questa esperienza noi la proviamo con gli animali o con i bambini piccoli che pure hanno una capacità cognitiva per certi aspetti limitata rispetto a quella di un computer, con loro infatti è possibile sentire che stiamo ad esempio avendo paura insieme, gioendo insieme o che siamo tristi insieme e vivere un fluire continuo e sintonico di queste diverse esperienze emotive.
Se pensiamo quindi concretamente alle applicazioni dell’intelligenza artificiale in ambito psicologico, credo che possano venire in mente numerosissimi esempi molto utili in ambito diagnostico, riabilitativo, addestrativo, tuttavia nessuna di queste funzioni che possiamo immaginare potrà sostituire quella semplice frase che un buon operatore deve sentirsi dire dal proprio paziente: “dottore sento che lei mi ha capito”. Questa sensazione che ha implicazioni terapeutiche enormi non può prescindere dal fatto che in parte il vissuto di quel paziente è stato riprodotto nella mente dell’operatore e che le emozioni del paziente hanno risuonato anche se in parte nel suo animo, e tutto ciò anche il più sofisticato automa non lo potrà generare.
Resta quindi meravigliosamente profetica la frase della Genesi quando Dio creando la donna dice ad Adamo “ti darò un aiuto che ti sarà simile”; forse gli algoritmi dei computer riusciranno anche a superare la nostra creatività, la nostra capacità di vincere a scacchi o di risolvere problemi, ma non riusciranno a darci quel senso di vicinanza e di “essere come te e con te” che solo un incontro umano può donarci.
Concludo queste riflessioni con questa breve citazione di Daniel Stern, posta al termine del suo libro Le forme vitali (Raffaello Cortina editore 2011)
“E’ fondamentale tener presente che l’aspetto più trasformativo e curativo della psicoterapia è l’esperienza della relazione terapeutica, non l’orientamento teorico o tecnico. Sono molti gli indizi che portano a questa conclusione. Ho cercato di mostrare che il fulcro della relazione terapeutica è costituito in parte da forme vitali in interazione. Esse rappresentano un aspetto essenziale della psicoterapia, che le riconosciamo o no.”
Paolo Breviglieri
Psicologo psicoterapeuta