Il bambino, tra rifiuto e speranza

Il bambino, tra rifiuto e speranza.

AUTORE: Giuseppe Anzani

 

 

 

1 – “Nato da donna”.

Che cos’è un figlio lo so. Non solo perché, come tutti, anch’io “sono un figlio” come ciascuno è figlio nella sua origine e consistenza di nato. Lo so, mi sembra di saperlo, perché sono un papà (e adesso anche un nonno). Chiamare un altro col mio nome, un’altra vita con la radice della mia vita. La relazione tra me padre e i figli “miei” è la vita trasmessa. Un’impronta creativa.

Ma c’è una parola, dentro la Costituzione italiana, che mi ha sempre fatto pensare, perché mi lascia fuori; perché disegna la relazione umana procreativa in un modo singolare aggiuntivo e irraggiungibile, che non mi contempla, che non mi spetta. Da maschio qual sono, sono escluso. E’ quando dice, nell’articolo 31, che “la repubblica protegge la maternità”.

Ripeto, adagio, questa parola, maternità. Vi concentro il pensiero, e cerco di razionalizzare la mia esclusione, come di fronte a una diversità che appartiene anch’essa al prodigio della vita. Così la sento, infine: e infine la parola “maternità” mi risuona dentro come un miracolo che mi trascende.

Provate a immaginare, nell’arte, un dipinto o una scultura che l’autore abbia intitolato “maternità”. Che cosa vedete? Due e Uno. Due volti e un unico insieme. Non il bambino, non la donna; la donna e il bambino insieme, come un’unica vita abbracciata che intreccia due vite, nell’unica pietra o sull’unica tela. E se si retrocede nel tempo del vero la storia raffigurata, l’intimità del figlio e della madre si racconta nella sua intimità più profonda, nel grembo dove la nuova vita prende vita e cammino.

E’ la ventura di ognuno di noi, che viene al mondo, nato da donna. . Ognuno di noi ha abitato, per un certo tempo della sua vita “dentro” un’altra persona. Non vicino a un’altra persona, o tra le sue braccia, ma “dentro”. E’ la ventura che Erich Fromm definisce come “felicità primaria”, esperienza dell’amore simbiotico che sta all’origine della nostra storia individuale, noi che dentro questo flusso d’amore siamo stati portati alla luce. Ventura che – aggiunge Fromm – si fa reciproca, e si prolunga quando la madre accoglie il bambino, lo abbraccia, lo nutre al seno, “gli dà il latte e il miele”. (Il latte è il nutrimento del corpo, il miele è il simbolo della dolcezza che rassicura che “esser nati è cosa buona”, che “è bello esserci”).

Di nuovo penso a “maternità”, e al profilo inconfondibile di amore “materno” in cui il bambino “gode di una felicità che nella vita non avrà confronto”.

All’origine di questo miracolo c’è un altro naturale abbraccio d’amore, quello che fa dell’uomo e della donna una sola carne. Il noi che diventa uno, e fiorisce nel nuovo altro della nuova vita. Contemplandolo, è l’icona della felicità promessa, sognata nell’innamorato incantesimo di una forza che muove il cosmo, realizzata nella fedeltà di un dono che non si ritratta.

Vita da vita. Com’è diverso parlare di “salute riproduttiva”. E un impoverimento dell’essere, la separazione tra la condotta sessuale come relazione a sé stante, (il commercium, persino una sorta di reciproca utenza) separata dal suo senso sponsale, e dal legame significante con la vita. Del pari, sull’opposto versante, quale innaturalezza c’è nella generazione come pura tecnica, come prodotto di laboratorio. L’aspetto unitivo e generativo “insieme”, è bellezza intera della sessualità umana.

L’annuncio della maternità è nel corpo della donna, ma anche immediatamente nella sua psiche. La donna è “madre” e si sente madre nell’istante che il test dice “sì”. E un mutamento si genera nella “sua” vita.

Torno a pensare ancora, adagio, alla parola “maternità”. E alle infinite storie che me ne hanno mostrato, o confidato, la narrazione.

Ho visto visi felici e raggianti, ma anche visi affranti, talvolta. Ho sentito racconti di gioia, ma anche racconti di ansia, persino di dolore; e talvolta dubitosi pensieri distruttivi. In un percorso meditativo vorrei cogliere lo slancio e il peso della maternità; le gioie e i drammi che costellano le storie vissute. Vorrei farlo con le parole pensose – ordinarie o drammatiche – delle madri, naturalmente, perché il bambino nel grembo non ha ancora una voce narrante al modo che le nostre orecchie percepiscono; epperò, se fosse possibile, tenendo a sfondo i suoi occhi immaginari, spalancati su “ciò che sta succedendo alla mia mamma”, dal suo angolo visuale.

Io so che ciò che accade alla madre, ciò che accade al figlio, è tutt’uno: accade alla “maternità”.

 

 2) – Culle vuote

Ci sta sotto gli occhi, a detta delle statistiche, un “inverno demografico”.

L’Europa ha il tasso di natalità più basso nel mondo (1,47 figli per donna), e l’Italia è  il fanalino di coda, con un minor tasso ancora più inquietante. Non è questione di esser natalisti, il primo dato d’impatto è la segnalazione di un declino umano. Le culle vuote sono l’immagine di una fuga dalla maternità. I demografi ne indagano le cause, ne analizzano le prospettive. A me fa impressione il profilo culturale, la scelta che adduce “ragioni” di rifiuto di generare la vita, paragonata al concetto positivo di generazione “responsabile”. A volte vi traspare persino una vena rivendicativa di libertà dalla vita, che tiene a norma di vita (propria) l’esser “liberi da figli” (associazioni di childfree sono presenti anche in Italia, ormai).

Un figlio cambia la vita; e un figlio in più o in meno può far cambiare il tenore di vita, se le condizioni sociali sono sfavorevoli e il welfare familiare è assente. (Secondo i dati Cisf – Centro internazionale Studi Famiglia – , un figlio “costa” 317,00 euro al mese da 0 a 5 anni, e la crescita dall’infanzia alla giovinezza “pesa” 798,00 euro al mese).

Ma l’inverno demografico non è un mero risvolto di economia sociale, né un fenomeno decifrabile con le sole categorie degli economisti. E’ il sintomo di una vela senza soffio di vento (spirito e anima), che perde la vitalità del presente perché smarrisce la fiducia nel futuro, e perde la fiducia nel futuro perché deprime la vitalità del presente. Scrive lo psicanalista Claudio Risé: “Chi lavora con l’inconscio sa che la comparsa dei bambini nei sogni annuncia sempre l’arrivo di nuove energie, la possibilità di reagire alle spinte depressive, a stanchezze e pessimismo. Il perché non è poi difficile da capire: il bambino significa nuova vita, nuova forza vitale, e così è visto in tutte le culture”

Ci possiamo dunque rappresentare come immersi in un cultura povera di speranza, priva di sogni. O persino a volte irritata verso i sogni che distraggono dal duro e prosaico realismo, che fa dei figli un peso, un problema, una fatica, un’intrusione, una pretesa di vita che si annida nella vita adulta e ne sconvolge i programmi.

Sull’analisi di questo territorio che accumula le ragioni di rifiuto della vita dovremo tornare, per scandagliare più in profondo che cosa ci accade, dove sono le derive di civiltà verso cui siamo condotti.

 

 3) – Maternità infranta

Si affaccia ora, invece, l’immagine di un fenomeno che nega accoglienza alla vita già accesa nel grembo della madre; un fenomeno di maternità spezzata, l’aborto.

Ogni anno, nel mondo, ci sono 40 milioni di aborti, secondo le stime dell’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità).

E pensare che per ogni essere umano (“everyone” dice la Dichiarazione universale dei diritti umani – 1948; “every human being” dice la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici – 1966) la prima parola che il diritto, la natura e la civiltà umana pronunciano, è il diritto alla vita. Un diritto che viene chiamato espressamente “inerente”, non derivato o attribuito.

Il dato brutale di quaranta milioni, ogni anno, di vite umane soppresse, può essere contemplato, ancor prima di ogni giudizio, come una catastrofe umana, in sè. Essa si incornicia in una paurosa coltre di morte che raccoglie le fallite promesse, o le promesse tradite, di protezione della vita di tutti questi “everyone”, di questi figli respinti.

Cerco per un attimo di figurarmene le sembianze, e subito i volti che vedo si includono e affiancano al volto materno, in modo indissociabile; e fanno più largo dolore, più larga tragedia, perché vedo che l’aborto – come evento, come accadimento storico – è la sconfitta della maternità, dentro la quale è affidata la vita, è la sconfitta della vita, del figlio e della madre. E bisogna dire che resta una ferita aperta nella storia umana, per quanto gli ordinamenti giuridici cerchino a volte di occultarne i labbri sanguinanti, ragionando di vita contro vita e sdoppiando (dunque spezzando) la maternità lungo due fronti “conflittuali”.

Questo percorso è noto ai sociologi del diritto, e si presta a riflessioni che investono i quesiti sulla civiltà umana e le sue derive. Una cosa tuttavia deve restare ancorata alla tragica verità di ciò che accade: cioè che ontologicamente l’aborto è una sventura. Nel mondo occidentale quasi tutti gli Stati hanno configurato protocolli di condotta abortiva, secondo tempi e ragioni e circostanze, variamente articolate nei vari sistemi. Da qualunque sponda si guardino, con favore o con raccapriccio, hanno formulato regole comunque sulla sventura. Al di là di ogni dibattito, sta questa verità radicalmente “descrittiva”, ricognitiva, che incrocia la realtà della  morte, non falsificabile.

Ora queste condotte vengono assunte dentro percorsi regolati/tollerati/predisposti in base a elaborate “ragioni”. Resta, per chi è ragionatore onesto, che le asserite ragioni abitato i territori della morte.

In Italia, la prima tappa storica che disegnò la scissura della maternità fu una sentenza del 1975 della Corte costituzionale. Essa teorizzò il “conflitto” tra figlio e madre. Disse che il figlio ha diritto alla vita, e che la madre ha diritto alla salute; e che però se vengono a conflitto, non si può vietare di interrompere la gravidanza quando “l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre”. Si escogitava così una specie di variante analogica dello “stato di necessità”; ma si introduceva una singolare differenza fra esseri umani – la madre “già persona” e l’embrione “che persona deve ancora diventare”, così si diceva – senza spiegazione, senza definizione, senza fondamento. Un obiter assertivo e apodittico, fatto perno della comparazione fra diritto alla vita del figlio (ribadito con qualche solennità) e diritto alla salute della madre, a invertirne il rango in  ragione della diversa figurazione umana. Una giustizia posata su una bilancia sbilanciata.

La seconda tappa è la legge sull’aborto del 1978. Essa proclamava in apertura la tutela della vita umana dal suo inizio; ma poi dilatava il pertugio abortivo aperto tre anni prima, facendolo diventare una breccia larga a volontà. Autodeterminazione, così fu detta la scelta nei primi 90 giorni, in sostanziale indifferenza di ragioni verificabili. E in pochi vi seppero per tempo ravvisare la tragica rottura dell’alleanza di vita custodita nella “maternità”, quando la gestione del “conflitto” asserito o segreto scaricava sul figlio perdente la colpa, cioè la suprema sconvenienza del suo esistere, per giudizio di chi lo aveva fatto esistere.

 

 4) L’aiuto alla vita, per due.

Di lì in poi, il dibattito sull’aborto ha per lungo tempo battuto sentieri non comunicanti. Da un lato si è venuta diffondendo nell’opinione corrente una vulgata che vede nella scelta abortiva l’espressione di un diritto, sopprimendo l’autocoscienza del suo “male”  (pretesa fuorviante, quando la legge ritaglia la vicenda abortiva come eccezione rispetto a norme primarie, a guisa di esimente, fuori dai cui limiti conserva il profilo antigiuridico penalmente represso, cfr. art. 19). Dall’altro, una reazione di ripristino delle pene anteriori non ha realistica probabilità. Io penso che quanti hanno a cuore la difesa della vita (intesa come amore ai viventi, a every human being, tutti, a partire dal concepimento e fino alla morte) devono disinnescare e rimontare il “conflitto”, rifiutando la trappola dell’antagonismo tra madre e figlio e i suoi fantasmi di morte.

Gli slogan della “lotta pro-aborto” vanno meditati, perché svelano il substrato ideologico, il viluppo di intenzioni, di desideri, di opzioni, di investimenti emozionali, di proselitismo. Ci sono radici lontane, di triste lume; “La disgrazia delle donne – scriveva Simone de Beauvoir nel 1961 – è che sono biologicamente destinate a riprodurre la vita”.Tipica, ad esempio, è stata la teoria della “conquista femminile”, della liberazione che consente di gestire la c.d. “salute sessuale e riproduttiva” di cui farebbe parte la libera scelta di quando abortire; della “dignità” in questa scelta; della insofferenza verso i pro-life che si intromettono, del rifiuto anche del soccorso offerto, giudicato intrusivo perché “la donna non è una incubatrice ambulante di feti”. Questi slogan, che traggo dai siti femministi su Internet, fanno pensare. Ci vuole infinita pazienza di dialogo per smontarne l’inganno, come raccontano le storie vissute di tante vite salvate,  – dopo le strettoie di angosce, solitudini, paure, speranze e disperazioni – da un incontro di “aiuto alla vita”.  E’ infatti al vissuto della “maternità difficile” che si rivolge lo sguardo della vicinanza e del  soccorso, non l’antagonismo a colpi di slogan. Nell’aiuto non abita l’ostilità, non lo sguardo di chi giudica, ma le braccia protese al soccorso. Col linguaggio positivo della bellezza della vita, il dialogo, l’accoglienza, e la conversione delle strutture pubbliche d’aiuto, il volontariato solidale. L’aiuto alla vita è relazione d’amore, e al pari della “maternità” abita il cuore.

Ci sono peraltro, dentro le stesse leggi, promesse d’aiuto. Chiederne con forza l’attuazione è esercizio di cittadinanza attiva, insofferente di pubbliche ipocrisie. C’è per esempio nella stessa legge 194 la promessa che i consultori aiutino la donna, anche promuovendo speciali interventi, a superare le cause che possono indurla a interrompere la gravidanza. Tra le leggi successive possiamo ricordare il  Decreto Legislativo 151/2001 (Testo Unico delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), e alcune disposizione diffuse in leggi eterogenee (citiamo ad esempio la Legge 28 giugno 2012 n. 92, in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). Il nocciolo resta l’aiuto. “L’aiuto alla donna in gravidanza  – si legge nel parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 16 dicembre 2005 esige profili di intervento diversi e complementari, che coinvolgono dimensioni educative, psicologiche, sanitarie e sociali. La relegazione di una donna nella solitudine, sia essa materiale o morale, dinanzi all’impegno della maternità costituisce infatti violazione radicale della dignità umana della donna medesima e del figlio, e nel contempo rappresenta il fallimento dei vincoli solidaristici fondamentali per la convivenza civile».

Esiste anche il problema di guarire la ferita della maternità infranta, per quanto resta di rimediabile. C’è infatti una sofferenza interiore post-aborto che la società misconosce, nascosta com’è nelle pieghe della vita, ma che la scienza documenta. Scriveva nel 2005 Dacia Maraini, nota per le sue posizioni vetero-femministe: «l’aborto non è una bandiera, né un diritto, né una conquista. E’ una sconfitta storica bruciante e terribile che si esprime in un gesto brutale contro se stesse e il figlio che è stato concepito».  L’essenza della femminilità è il genio della relazione, e l’aborto va ad agire sull’identità relazionale materna, procurando una ferita profonda. Guarirla è un percorso che ha bisogno di riconciliazione, non di rimozione; ha bisogno di incontrare un “perdono”.

 

 5) Il figlio della provetta

In simmetria opposta con il figlio rifiutato, l’epoca attuale registra la storia del figlio fabbricato. Ancora di maternità dobbiamo parlare, ricominciando però dal desiderio d’un figlio e dal dolore che l’infertilità procura (il pianto di Sara, l’invocazione di Elisabetta). E’ un lutto, qualcosa di simile a un lutto.

In Italia è problema diffuso, secondo le stime riguarda una coppia su cinque di quelle in età fertile. Accanto alle terapie vere e proprie per rimontare o guarire l’infertilità, compare in anni relativamente recenti la fecondazione in vitro e l’embryo-transfert (come è noto, Louise Brown, la prima bimba generata in provetta, è nata nel 1978).

Ci sono peculiari aspetti biologici e aspetti psicologici in queste vicende di procreazione artificiale, o “assistita” (così la chiama la legge), oltre naturalmente agli aspetti etici. Se concentriamo l’attenzione sulla “maternità”, che è il focus della nostra riflessione complessiva, ci accorgiamo che la relazione è in qualche misura rovesciata, quando  il “figlio ad ogni costo” è inteso come ciò che dà vita alla madre, colma un vuoto, ripara una ferita, adempie a una funzione, satura un desiderio.

Questo è il primo nodo, sullo sfondo:  l’aver separato radicalmente la funzione procreativa dal significato della relazione di coppia, consapevolmente o no, ha finito per costruire l’idea di un “diritto al figlio” che fa del desiderio di generare un assoluto e mette in ombra drasticamente la rilevanza della società familiare. In questo senso la PMA sminuisce inesorabilmente la stessa sessualità generativa nella coppia, sostituendo l’inconfondibile abbraccio con un processo meccanico. E funge così da  medicina “del desiderio”, come avverte Hans Jonas.

Peraltro, la donna che si sottopone alla Fivet affronta un duro cammino, che può avere risonanze psicologiche profonde e dolorose per gli insuccessi ripetuti. L’evento del “bambino in braccio” è una speranza che si realizza per un numero relativamente basso di casi, rispetto agli embrioni prodotti. I dati del Ministero della salute dicono, per l’anno 2011 cui da ultimo si riferiscono, che sono nati 11.933 bambini, mentre sono stati formati 118.049 embrioni. L’enorme numero di vite umane generate senza speranza di poter vivere, e dunque in un vestibolo di morte, e la sorte incerta (ma praticamente di morte differita) degli embrioni crioconservati ci dà l’immagine che sì, la PMA ha dato a molti la gioia del figlio in braccio, ma ha anche cagionato e continua a presentare il conto dei suoi spinosi grovigli.

 

6) – Umano a rischio

Trascuro di rammentare il contesto che nel periodo della c.d. “provetta selvagga” ha mostrato profili inquietanti, per talune aberrazioni che la legge n. 40 del 2004 ha poi messo al bando. Nel suo contenuto saliente e generale, questa legge tiene per caposaldo che il “prodotto” della provetta, il “concepito”, è un soggetto umano. Non può dunque fabbricarsi per altro scopo o per altra destinazione che non sia il grembo materno; tre embrioni al massimo, per un unico e simultaneo impianto, perché non accada di congelare i “superflui” fabbricati in più; e la fecondazione non può avvenire con gameti estranei alla coppia genitoriale.

Riduco di proposito a questi profili il cenno alla legge italiana, perché sono quelli che patiscono dissensi in modo talvolta aggressivo: in particolare, la Corte costituzionale ha soppresso il limite dei tre embrioni e il precetto dell’unico e simultaneo impianto, subordinandolo alla salute della donna. Non ha formalmente toccato il divieto di crioconservazione, ma questo ha ceduto ovviamente da sé per tutte le volte che si è deciso di rinviare l’impianto di embrioni.

Un altro punto di dibattito mai spento riguarda la fecondazione “eterologa” (con gameti di estranei), questione già rimessa alla Corte Costituzionale da alcuni tribunali italiani, senza esito perchè la Corte ha restituito gli atti invitando a considerare la sentenza della Grande Chambre della Corte europea di Strasburgo (che ha affermato la facoltà di ogni Stato membro di legiferare liberamente in proposito). Ma ancora qualcuno, fra questi tribunali, insiste nella sua istanza alla Consulta, e la questione è pendente.

 

Infine, un capitolo che ci sembra cruciale, soprattutto nella prospettiva di “maternità” che abbiamo contemplato, è quello della “diagnosi preimpianto” degli embrioni, finalizzata alla scoperta di eventuali difetti genetici o malattie, (e seguita – come è facile intuire – dalla accettazione o dallo scarto). E’ questo, ci sembra, il passaggio più stretto e diretto di verifica del senso della maternità – quando ciò avvenga, e il figlio sperato e voluto a tutti i costi sia rifiutato perché imperfetto, come un prodotto di scarto – per intendere che cosa sia la vita che trabocca in un dono, o la vita che s’impossessa d’altra vita per la propria autoreealizzazione.

Abituarsi alla eliminazione della vita imperfetta, della vita “inutile”, dalla vita “avanzata” (ricordiamo quando giunse notizia – estate 1996, Inghilterra – delle migliaia di embrioni “non reclamati” passati dal gelo al rogo dell’inceneritore, per legge) è mettere in gioco la civiltà.

 

7) – Il mistero nuovo

Un figlio, ogni madre lo sa, è un mistero. Frutto delle sue viscere, resta “altro”. Il mistero dell’altro è il mistero stesso della vita, che si trasmette ma che non si possiede. Il figlio è “figlio della sete che la vita ha di se stessa” (Gibran) . Lo educhi, e sai che il traguardo educativo è raggiunto quando non ha più bisogno di te, si stacca dalla tua mano, segue la sua strada, il suo destino. Non si è chiamati ad avere un figlio, ma a donare un figlio. Sono le dimensioni di ogni vocazione autenticamente umana, amore e dono, distacco e servizio.

Mi piace chiudere rammentando un vecchio proverbio: “Due cose i genitori possono dare al figlio: le radici e le ali”. Dove “radici” sono l’alimento che nutre l’amore alla vita, dà certezza di famiglia, identità, sostegno; e “ali” sono il coraggio del proprio destino, della propria autonomia, della propria creatività. “ La grandezza e il vigore delle ali dipende dalla profondità e robustezza delle radici” conclude il proverbio.

Così i figli non volano via, quasi palloncini sfuggiti di mano; volano verso la loro vita, verso la Vita. Capaci di farne dono, avendo sperimentato di averla avuta in dono.

 

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