Il mondo del bambino

Atti XIII Congresso Nazionale UCIPEM

“Il mondo del bambino”

AUTORI: Mario Fulcheri*- Danilo Carrozzino**

 

 

 

L’incoraggiamento è l’aspetto più importante nella pratica di educazione del bambino; è tanto importante, che la mancanza di esso si può considerare quale causa fondamentale di certe anomalie del comportamento: un bambino che si comporta male è un bambino scoraggiato. L’essenza dell’incoraggiamento consiste, essenzialmente,  nell’accrescere la fiducia del bambino in se stesso, suggerendogli il messaggio implicito che egli vale per quello che è, e non semplicemente per quello che potrebbe essere.

 

 

 

Il coraggio invincibile è quello di sapere di essere imperfetti. Troppi bambini e anche troppi adulti compromettono, invece, il proprio rendimento nel vano tentativo di essere perfetti, e nella considerazione delle proprie qualità o della propria inadeguatezza, sia che li aspetti il successo sia il fallimento. Il desiderio di essere perfetti rende quasi impossibili la spontaneità e la creatività, perché non contempla la possibilità di uno sbaglio. È fondamentale, pertanto, che il genitore persegua consapevolmente e con compartecipazione emotivo-affettiva tali atteggiamenti e comportamenti incoraggianti, come ad esempio: cercare di ottenere il miglioramento, non la perfezione; approvare l’impegno (l’impegno è più significativo dei risultati ottenuti); separare l’atto da chi agisce (si possono disapprovare le azioni del bambino, senza disapprovare il bambino stesso); costruire sulla forza, non sui punti deboli; dimostrare al bambino genuina, sincera ed autentica fiducia; gli errori non devono essere considerati come insuccessi (il valore di una persona non va misurato dal suo successo); ricordarsi che la vera felicità del bambino nasce dalla autosufficienza (i bambini devono imparare a badare a se stessi); integrare il bambino nel gruppo; promuovere un sano ottimismo (l’ottimismo è contagioso, perché non incoraggia soltanto noi, ma tutti coloro che ci circondano). Quando un bambino compie un errore  o non riesce a raggiungere un certo traguardo, è opportuno che il genitore impari a evitare qualunque parola o azione che implichi un giudizio di fallimento nei suoi confronti; in questo senso è sempre necessario distinguere l’azione da colui che la compie, avendo ben chiaro in mente che ogni insuccesso indica soltanto una mancata acquisizione di abilità e, in nessun caso, influenza il valore di una persona.

 

 

 

Ogni volta, invece, che un genitore tende a sostenere il proprio bambino in un’opinione di sé che implichi intraprendenza e fiducia, offre lui incoraggiamento. Per i genitori risulta fondamentale osservare il risultato del programma educativo e chiedersi di continuo: “Che influenza ha questo metodo sull’opinione che mio figlio ha di sé?”  In mille modi indefinibili, con il tono della voce e con l’azione, accade invece spesso che i genitori scoraggino i loro figli: non coltivando la fiducia nella capacità del bambino di funzionare al presente; considerando irrazionalmente i bambini esseri deboli e inferiori, imperfetti e incapaci e che, pertanto, solo quando diventeranno più grandi saranno in grado di compiere determinate “cose e azioni”. Fare per un bambino quel che potrebbe fare da sé è  sia mancanza di rispetto sia quanto di più “scoraggiante”, in quanto lo si priva dell’occasione di mettere alla prova la propria forza; dimostra implicitamente la completa mancanza di fiducia del genitore nelle attitudini, potenzialità e capacità di adeguarsi del proprio figlio. Ogni qualvolta facciamo una cosa che un bambino può fare da solo, il genitore dimostra di essere più grande di lui, di essere migliore, più capace, abile ed esperto. È come se il genitore volesse dimostrare al bambino la sua presunta superiorità. Sin dalla prima infanzia, i bambini dimostrano di voler fare da sé: il bambino piccolo allunga la mano per prendere il cucchiaio, perché vuol cercare di mangiare da solo. Troppo spesso accade, invece, che i genitori scoraggino questi primi tentativi, per evitare il disordine e la confusione, determinando così nel bambino lo scoraggiamento e un’errata opinione di sé, dimenticando che è molto più facile pulire il bambino, che ristabilirne il coraggio perduto. Non appena un bambino riveli il desiderio di fare le cose senza aiuto il genitore dovrebbe approfittarne, nel senso di lasciarlo procedere fin dove è possibile, promuovendone il senso di autonomia e autosufficienza. Man mano che cresce, il bambino è portato, per inclinazione naturale, a fare un numero crescente di cose per sé e per gli altri; tale inclinazione, però, può essere soffocata dall’ansia, dalla paura, dall’insicurezza, dall’asservimento e soprattutto dall’iperprotezione dei genitori. L’incoraggiamento, pertanto, è un processo continuo, tendente a dare al bambino un senso di rispetto per se stesso e di completezza; fin dalla prima infanzia egli ha bisogno di aiuto per trovare il proprio posto, mediante l’acquisizione di sicurezza. L’affetto dei genitori trova la massima espressione nell’incoraggiamento continuo all’indipendenza, che va comunicata al bambino a partire dalla nascita e da mantenersi durante l’infanzia; è una condizione mentale che deve guidare il genitore in tutte le situazioni e i problemi quotidianamente presenti nell’età infantile. Il comportamento del bambino offre al genitore la chiave per comprendere in che modo egli si valuti: se dubita della propria capacità e del proprio valore, lo rivelerà con le sue deficienze, rinunciando a cercare un’integrazione sociale mediante la partecipazione e il contributo; se scoraggiato, assumerà un comportamento rinunciatario e provocatorio; convinto di essere inadeguato e di non riuscire a cooperare, adotterà comportamenti di protesta, attraverso i quali ricercherà negli altri attenzione, oltre che manifestare sentimenti di rivendicazione. A proposito di attenzione indebita e movimenti contro costrittivi di rivendicazione Rudolf Dreikurs (1969) ha teorizzato quattro linee finalistiche che orientano gli scopi della vita di gran parte dei bambini. Sono stati individuati, infatti, quattro “falsi scopi” che un bambino può perseguire e che è necessario comprendere se il genitore intende indirizzare il proprio figlio verso l’integrazione sociale. La domanda di attenzione indebita è il primo falso scopo utilizzato dai bambini scoraggiati quale mezzo per considerarsi inseriti. Influenzato dalla supposizione erronea di avere un significato solo in quanto sia centro dell’interesse, il bambino rivela una grande abilità ad attirare l’attenzione, scoprendo tutti i sistemi per tenere gli altri occupati con lui: può essere incantevole e spiritoso, dolce e riservato. Ma, per quanto riesca gradevole, egli mira più ad attrarre l’attenzione che a partecipare. Se i genitori non si servono di metodi corretti per bloccare o quanto meno arginare la richiesta di attenzione indebita, il bambino diventa assetato di potere. La lotta per il potere (la sfida come meccanismo principale) costituisce il secondo falso scopo e in genere sopravviene dopo che il genitore ha tentato di bloccare decisamente, per un certo periodo, la domanda di attenzione da parte del bambino; quest’ultimo allora ha deciso di impiegare la forza per sconfiggere il genitore, provando un gran senso di soddisfazione dal rifiuto a obbedire.  Un bambino del genere sente che, qualora soddisfacesse alle richieste, si sottometterebbe a un potere più forte, perdendo così il senso del valore personale. Tale paura di essere sopraffatto dall’autorità superiore è, per alcuni bambini, una realtà deleteria che li conduce a tentativi disperati per dimostrare la propria forza. In questo particolare caso è grave errore cercare di sopraffare un bambino ebbro di potere, ed è anche inutile. Nella battaglia che ne deriva e che diventa cronica, il bambino non fa che rivelare una maggiore capacità di usare la forza e si ritiene inadeguato se non può dimostrarla. Questo processo crescente può arrivare a fargli trovare, quale unica soddisfazione, la prepotenza dello spaccone e del tiranno. Nel caso in cui, tuttavia, il bambino viene troppo represso non tenta più di vincere la lotta per il potere, ma cerca di rifarsi attraverso il terzo scopo: la vendetta. Il bambino vendicativo è quello così scoraggiato da sentire che, soltanto offendendo e danneggiando gli altri, allo stesso modo di come si sente da loro ferito e offeso, egli stesso può trovare la propria collocazione; per lui la vita e il suo prossimo sono profondamente ingiusti e, convinto com’è di suscitare un’irrimediabile antipatia, vuole ripagare l’offesa con l’offesa. Il bambino, pertanto, nel suo scoraggiamento, può ricorrere alla vendetta quale unico sistema per accertarsi del proprio significato e della propria importanza (convinto com’è di non poter essere amato e di non avere nessuna possibilità di affermarsi). Tentando inutilmente attraverso forme distruttive passive di attirare l’attenzione quasi come unica possibilità per integrarsi, può giungere alla fine a uno stato tale di demoralizzazione da rinunciare a qualunque speranza di trovare la propria identità e, pertanto, aspettandosi soltanto fallimento e sconfitta. Può talora giungere addirittura o alla disperazione o alla sofferta accettazione della situazione per evitarne qualunque altra che possa metterlo in imbarazzo, o umiliarlo. Con la scarsa stima che ha di sé sente di dover difendere strenuamente quel poco che ha; così si serve della sua incapacità come di uno schermo protettivo per apparire disarmato, inadeguato, incapace o per evitare qualunque situazione in cui “percepisce il rischio di perdere” (rivelando a volte un complesso d’inferiorità). Tale bambino partecipa di rado e, con la sua estrema inettitudine, fa in modo che non gli si chieda niente, né che ci si aspetti niente da lui. L’evitamento della “soggettiva umiliazione”  configura il quarto scopo utilizzato dal bambino insicuro e scoraggiato, che addirittura costruisce il proprio stile sull’inadeguatezza. Diventa privo di risorse e si serve di questa sua impotenza per esagerare qualsiasi debolezza o carenza, sia reale sia costruita nella fantasia, per evitare qualunque impegno in cui il suo previsto fallimento possa essere anche più imbarazzante. Quando un genitore è conscio dei quattro  falsi scopi che possono celarsi dietro il comportamento scoraggiato del bambino, si è nella posizione adatta per chiarirne lo scopo reale e la linea finalistica.  Quel che appariva come un comportamento insensato e assurdo, può cominciare ad acquistare un senso: se i genitori eliminano i risultati cui il bambino tendeva, il suo cattivo comportamento diventa inutile, fino al punto di arrivare a riconsiderare egli stesso il proprio atteggiamento, optando per un’altra linea d’azione. Molti problemi presentati potranno, pertanto, essere risolti mediante un procedimento graduale, volta per volta; in questo contesto, il così detto “consiglio di famiglia”, sembra rappresentare uno degli strumenti più efficaci a disposizione dei genitori per trattare, in maniera democratica, le problematiche che emergono. Il consiglio di famiglia costituisce esattamente quel che dice il nome: una riunione di tutti i membri della famiglia in cui vengono discussi i vari problemi e si prospettano delle soluzioni. Ogni componente del nucleo familiare ha il diritto di sollevare un problema, di essere ascoltato; insieme, tutti quanti concorrono alla ricerca di una soluzione ai problemi, adottando il criterio che prevale l’opinione della maggioranza (le voci dei genitori non devono risultare più importanti o più forti di quelle di ognuno dei figli, compresi i più piccoli e nessuno deve “spadroneggiare”). “Vivere insieme” significa moltiplicare i rapporti d’interdipendenza in un approccio che crea “rispetto reciproco”, mutua responsabilità, promuovendo le condizioni di “parità”.

 

*Professore Ordinario di Psicologia Clinica, Dipartimento di Scienze Psicologiche, Umanistiche e del Territorio (DISPUTer), Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara.

**Dottorando di Ricerca in Clinica Psicologica, Dipartimento di Scienze Cliniche e Sperimentali, Università “G. D’ Annunzio” di Chieti-Pescara.

 

 

Bibliografia

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Fulcheri M., Barzega G., Il periodo dell’adolescenza: tempi e modalità d’intervento in psicoterapia. In Furlan P.M. (a cura di): “Tempo e Psicoterapia”, Torino: Centro Scientifico Editore, 1996.

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