Come recuperare una educazione capace di valorizzare

 

“Come recuperare una educazione capace di valorizzare”

 

AUTORE: Prof. Raffaello Rossi, Consulente coniugale e familiare, Bologna

 

 

Ricollegandomi a quello che ha detto don Danini, comincio leggendovi un brano letterario: “L’uomo oggi è pieno di insensatezza, vuoto di opere rette, puerile, spinto da desideri smodati. Gli uomini non smettono mai di accumulare, si affannano allo scopo di possedere di più, vogliono diventare padroni di grandi possedimenti e  non riescono a padroneggiare sé stessi. Scavano la terra e cercano argento, trovato l’argento vogliono altra terra, poi dilapidano le ricchezze comprando statue o altre cose, col pretesto che queste comunicano qualcosa. Desiderano ciò che affligge, perseguono ciò che non serve a nulla. Io rido degli uomini, perchè rivaleggiano tra loro in perfidia e non hanno né occhi né orecchie. Si lagnano, si fa guerra alla famiglia, oggi, ed è l’amore per il denaro che causa questa assurdità. Finché l’uomo è bambino è inutile e supplica che lo si aiuti, poi cresce e diventa presuntuoso e stolto;  nella maturità è arrogante. Poi, quando declina, è pietoso e non ha dignità”.

 

Questo brano è di duemila anni fa: è dello Pseudo Ippocrate ed insieme a questo brano si potrebbe fare riferimento al sesto libro della ‘Repubblica’ di Platone. Quando prima si diceva: oggi la famiglia è incerta, io dico: attenzione, perchè la famiglia è sempre stata in evoluzione; se voi pensate alle cose che vi ho appena letto, potremmo pensare che si riferiscono alla famiglia dei nostri giorni, al nostro stile di vita: in realtà sono stati scritti duemila anni fa.

Che cosa vuol dire questo? Proviamo a considerare i termini del tema del nostro Convegno: “La famiglia incerta” (e mi sembra che sia stata definita già molto bene in precedenza). Il sottotitolo, però, dice: “Come recuperare una educazione capace di orientare”. La prima cosa su cui riflettere è che non si tratta di recuperarla, l’educazione, si tratta piuttosto di inventarla giorno per giorno, di riuscire a farla viva e concreta nelle situazioni in cui siamo inseriti, perchè se noi dovessimo pensare ad un recupero, dovremmo credere che nel passato le cose andavano meglio, ma non è così, né storicamente né sociologicamente.

Quindi non è che la dobbiamo recuperare questa educazione, la dobbiamo proprio costruire, come ogni epoca ha cercato di costruire la propria. E poi ancora:  rispetto al fatto che una educazione sia capace di orientare, dovremmo chiederci cosa significa educare, perchè se educare deriva da ‘ex ducere’, cioè far uscire il valore che è dentro la persona, allora l’educazione ha un compito di valorizzazione, non tanto di orientare, perchè se l’educazione è fondata su dei valori, i valori li possiamo testimoniare: non si riesce a imporre un valore. Possiamo parlare finché vogliamo di un valore ai nostri figli, ai nostri studenti, ma i valori vanno testimoniati.

Tenete presente che da un punto di vista educativo i discorsi che facciamo come genitori od educatori hanno una incidenza che è poco superiore al 10-15%. Noi potremmo essere degli ottimi parlatori, ma se non viviamo le cose che diciamo, se non le testimoniamo con le nostre scelte di vita, con il nostro modo di fare, i valori di cui parliamo difficilmente passeranno. Il che non significa che bisogna essere perfetti come genitori od educatori. Ricordatevi sempre di quel libro di Bettelheim che in italiano è stato tradotto con “Un genitori quasi perfetto”, ma in realtà avrebbe dovuto essere tradotto con “Un genitore accettabile”, perché è impossibile non commettere errori e nessuno è perfetto.

In questo senso forse l’educazione oggi avrebbe bisogno di riscoprire i valori, ma per riscoprirli abbiamo bisogno di accettare di essere limitati. La prima cosa che ci permette di essere educatori è di avere fatto la pace con i nostri limiti. Se io nego di avere dei difetti, non  riuscirò a trasmettere qualcosa alle persone che mi trovo intorno, al massimo trasmetterò caparbietà, forza di volontà; ma se vogliamo che qualcosa resti, se vogliamo valorizzare la persona nelle sue risorse e nella sua identità, noi dobbiamo fare i conti con noi stessi, prima di tutto, dobbiamo capire chi siamo noi.

Il che non significa, però, che “fino a che non avrò tutto chiaro non posso avere figli, non posso guardare il futuro” – come purtroppo speso oggi succede. Tanto questa chiarezza sarebbe come far rientrare dalla finestra quello che abbiamo fatto uscire dalla porta, sarebbe ancora una volta voler fare riferimento a qualcosa di perfetto: non saremo mai perfetti: l’importante è mettersi in una condizione di ascolto, di  accoglienza e chiarirsi su quelli che sono i nostri valori. Perchè molti dicono di non avere valori o che tutto è molto relativo: anche questo è vero, però tenete presente che al di là dei valori in cui io credo e dico di credere, ci sono i valori che comunque vivo: ed è questo il nodo dell’incertezza della famiglia di oggi.

Abbiamo parlato di un trapasso epocale: oggi la famiglia vive dei tempi che sono nevrotici, assolutamente non a misura d’uomo.. Ora io posso dire che faccio tutto per il bene dei miei figli, ma se per il bene dei miei figli non abbiamo un attimo di respiro e dobbiamo per forza correre tutto il giorno, forse il valore che c’è dietro è il possesso, è il potere, perchè è questo che sto trasmettendo: che non mi posso fermare fino a che non ho un certo potere.

Provate a pensare, in questo trapasso epocale, a come la velocità sia aumentata a tutti i livelli. Oggi abbiamo paura di perdere tempo. I latini parlavano di due forme di tempo: il ‘negotium‘ e l’ ‘otium’. Il primo era il fare, ma  dicevano anche che era necessario coltivare anche l’otium.  Noi oggi “ozio” lo consideriamo un difetto, una parolaccia. In realtà sarebbe il tempo non finalizzato, il tempo che dedichiamo a noi stessi, alla meditazione ,all’ascolto; un tempo in cui non ci sentiamo di dover produrre nulla. Ci siamo perchè esistiamo e siamo contenti di essere al mondo.

Questo senso dell’ ‘otium’ si è perso.  I nostri figli – si è detto da più parti – hanno paura del vuoto. Per forza: cosa gli abbiamo testimoniato? Proviamo a prendere una situazione normale, nel senso statistico del termine: che tempi ci sono? intanto a livello di impostazione didattica rischiamo di negare l’infanzia. Io ho fatto le elementari molto tempo fa. Oggi le elementari sono molto belle per alcuni aspetti, però io ricordo che ai nostri tempi si andava a scuola dalle 8,30 alle 12,30. Rimaneva altro tempo! Oggi, per venire incontro ai problemi delle famiglie e per altre motivazioni, troviamo dei bambini che vengono considerati educativamente come dei piccoli operai: stanno a scuola otto ore, bambini dai sei ai dieci anni! Non è umano questo!. Poi diciamo: “Ah! sono in crescita i disturbi dell’ipercinesia! I bambini non sanno più stare fermi!” Ma vorrei vedere noi a quell’età lì, otto ore sui banchi! L’infanzia ha i suoi ritmi ed i suoi bisogni.

Ma poi non basta, perchè quelle volte che la scuola finisce prima, nelle città per lo meno, ci si organizza con delle cooperative, così i figli aspettano un’ora o due, quando i genitori li vengono a prendere. Quando i genitori li vengono a prendere, come a recuperare il tempo perso, hanno organizzato il tempo che resta fino a cena: nuoto, ballo, attività varie! E’ troppo! Non si ha più la dimensione del tempo. Per forza i bambini hanno paura del vuoto!

Provate pensare anche a come organizziamo le nostre ferie: sono sempre più diffuse le ferie a pacchetto. Si va nei villaggi turistici, dove si deve prima sapere che ci sarà un animatore che ci riempirà tutto il tempo! Non abbiamo più un rapporto sano con il tempo, perchè è tutto inquadrato, nevrotizzato, di corsa, fino ad arrivare ad un allontanamento esponenziale dell’autonomia: i nostri figli fanno molte più richieste, ma paradossalmente sono meno autonomi dei ragazzini di solo dieci o quindici anni fa. Come mai? Avete mai preso in considerazione la pubblicità del CEPU? Abbiamo l’insegnante di sostegno, il tutor, fino alla laurea! E quando imparano a studiare da soli? Pensiamo a cosa significa ciò in un processo di autonomia!

Quindi il trapasso epocale ha portato ad una velocità incredibile: trent’anni fa quello che uno imparava a scuola se non gli bastava fino alla pensione poco ci mancava. Oggi quello che si impara a scuola fra qualche nonno forse non servirà più, se non le cose metodologiche. Tanto vero che anche le aziende preferiscono che nelle scuole specializzate non si faccia troppo informatica se non nelle importazioni, perchè preferiscono poi farseli loro i corsi specializzati a quelli che assumono. Quindi provate a pensare come venga tutto bruciato molto più velocemente.

Non abbiamo più punti fermi: ecco l’incertezza da dove viene. D’altra parte chi oggi volesse negare questa velocità avrebbe perso in partenza: possiamo certo contrapporci ad essa, ma in modo educativo e con tempi abbastanza lunghi. Sarebbe come se oggi una persona dicesse di rifiutare il trattore e di voler utilizzare l’aratro spinto dai buoi, perchè suo nonno faceva così e andava bene. Se lo  fa per sè e a tempo perso è un conto; diversamente, se ha una azienda, ha fallito, perchè sono cambiati i ritmi e le modalità.

Allora io parlerei di ‘valorizzare’, termine che mi piace di più del verbo ‘orientare’, perchè io non credo che nessuno di noi se accetta il suo limite, possa arrogarsi il diritto di orientare i propri figli o studenti: può testimoniare loro le cose in cui crede, e questo sarebbe già molto bello. Ma noi possiamo intendere l’educazione come un processo di valorizzazione delle risorse del bambino o del ragazzo, un processo che deve – se funziona – incrementare l’autonomia. In che modo?

C’è qualcuno che conosce l’aneddoto del cammelliere? C’era un cammelliere che aveva quattro figli e possedeva 39 cammelli. Ad un certo punto sentì che si avvicinava il momento della morte e chiamò a sè i figli, che non andavano per niente d’accordo tra di loro, e disse: “Quando io morirò, vi lascio in eredità i miei cammelli e divideteli così: al figlio più grande la metà, al secondo un quarto dei cammelli, al terzo un ottavo, al quarto un decimo. Fate così alla lettera e imparerete qualcosa di importate sull’educazione”. E poi morì. E i quattro figli incominciarono a litigare dicendo che il padre ormai era vecchio, non si ricordava che non si può dividere 39 per due… Meglio venderli e dividersi il guadagno! Non, non si può, ribadiva un altro. Ci pensano un pezzo, ma non ne vengono a capo. Ad un certo punto passa per il paese il solito vecchio saggio (e questo è un altro elemento su cui dovremmo riflettere per una educazione che valorizzi e porti all’autonomia. Oggi, se tutto va così di fretta e al centro di tutto c’è l’efficienza, nel senso competitivo del termine, l’anziano non ha più tanto senso, e di fatto non lo consideriamo, in molte famiglie è considerato un peso. Nelle culture più a misura d’uomo, l’anziano è un punto di riferimento, perchè non produce più, ma ha accumulato un bagaglio di esperienza che comunque può trasmettere e testimoniare. Allora anche la figura il  ruolo dell’anziano andrebbero recuperate, questo si è un ‘recupero’! A Bologna abbiamo fatto un progetto intitolato “Un nonno per amico!” perchè in molte situazioni i genitori vanno di corsa, devono tornare a lavorare, hanno un rapporto veloce con il tempo e le giornate.  Abbiamo visto che mettendo in una ludoteca, in una sorta di doposcuola,  non degli educatori di professione, ma degli anziani, i bambini hanno recuperato delle cose bellissime, sul fare con le mani, il riparare la bici, l’aggiustare, il raccontare…

Nel nostro racconto arriva il vecchio saggio e gli dicono di dar loro una mano. Il vecchio li guarda e dice: che problema c’è? a te questi, a te questi altri, poi questi a te e questi all’ultimo.. Poi risale sul suo cammello e se ne va.

Come ha fatto il vecchio saggio a dividere i cammelli? Ha fatto quello che facciamo sempre in un rapporto educativo: ha provvisoriamente unito ai trentanove cammelli il suo: quindi diventavano quaranta. Fate voi le divisioni, e troverete che aggiungendone provvisoriamente uno i problemi si risolvono perfettamente, e alla fine, quando il cammello non serve più, il vecchio se lo porta via. Questo è l’approccio educativo.

In maniera molto semplice, ma molto concreta, questo aneddoto ci insegna che in fondo educare significa mettere a disposizione dei figli, degli studenti, dei ragazzi il nostro cammello, intendendo per esso la nostra esperienza, la nostra competenza, i valori in cui crediamo, ma sapendo che non li dobbiamo pilotare: glielo prestiamo, li aiutiamo a fare chiarezza e a dividere quello che è già loro, i loro 39 cammelli. Dopo di che il nostro non serve più a loro, e noi ce lo riprendiamo e riprendiamo la nostra strada.

Qual è il problema: che molto spesso i genitori e gli educatori o fanno fatica a dare il loro cammello o non lo vogliono più indietro! Provate a pensare come nell’insegnamento sia alta la deformazione professionale. Ci sono insegnanti che non riescono a smettere di insegnare neanche a casa loro, per cui di fronte al bimbo che espone le sue emozioni: “guarda, mamma, se ero lì facevo…”. “No, si dice ‘avrei fatto!'” Così lo smorzate immediatamente, e si perde il rapporto di ascolto…

Stare attenti a quelle che sono le condivisioni dei nostri cammelli, ma tenendo presente che ogni bambino ha una sua realtà. E se è così, non possiamo prescindere da essa.

Questo è il primo grosso nodo educativo: ascoltarsi ed accogliere la realtà dell’altro. Il secondo nodo educativo è che noi trasmettiamo cose senza accorgercene: allora dobbiamo riappropriarci dei nostri messaggi anche con buon senso di umorismo.

I genitori oggi sono troppo spesso preoccupati: è vero che vengono in Consultorio e chiedono: ‘dove ho sbagliato?’ o ‘cosa devo fare?’. Ma non è che tu abbia sbagliato per forza o che tu debba fare, perchè non esistono ricette fisse. Però in un’epoca in cui è tutto un fast-food, l’idea di fermarsi a riflettere, ad ascoltare, ad osservarsi è faticosa. I genitori hanno spesso il fiato corto!

Provare a riprendere un ritmo, un respiro diverso. In che modo? Il modo ce lo insegnano spesso i nostri figli. Proviamo a metterci nei panni dei figli, a vedere per un momento il mondo come lo vedono loro, per capire che cosa trasmettiamo loro. Vi faccio vedere alcune vignette. Che messaggio mandiamo attraverso l‘imbroglio, quando promettiamo una cosa per averne un’altra? e attraverso la sostituzione, come quando si va dal dottore e non si lascia parlare il figlio? Ci sono stati casi in cui dei ragazzini preadolescenti, venuti al Centro di consulenza con i genitori, ad un certo punto non riuscivano ad esprimere parola, e ho dovuto chiedere la cortesia di aspettare fuori per sentire la voce dei ragazzi: il genitore parlava sopra la voce del figlio, con la convinzione che il figlio non si sapesse esprimere. Ma pensate che messaggio di sfiducia che passa! Un altro meccanismo da tenere presente nell’ambito educativo è quello della proiezione del nostro mondo: “Sento freddo, copriti bene!”. Ci saranno degli indici per capire se il bimbo ha freddo! No! Io ho freddo, tu ti copri! Ricordo che io avevo il terrore della canottiera di lana che mi pizzicava la schiena!

C’è poi il meccanismo contrario, non la proiezione, ma la completa separazione dei mondi. “Stringiti bene la sciarpa, perchè stasera fa freddo!” Lui che sembra Babbo Natale e la mamma tutta scollata! Che messaggio passa?

Un’altra situazione, che si verifica quando i bambini sono molto attivi: “Te l’avevo detto che cascavi! che ti sporcavi! che lo rompevi” A che conclusione arriva il bimbo: che la mamma porti iella?

Pensate poi ad una scena molto comune se fra di voi c’è chi ha bambini in età scolare: il momento della sera.: stanchezza, non se ne può più ed esplode la situazione delle domande a mitraglia: mettiti il pigiama, lavati i denti, controlla la borsa e poi dimmi che cosa hai da fare. Il bambino farà la prima cosa, poi basta! “Non mi ascolta mai!” e il genitori insiste ancora di più. Provare a mettervi al suo posto. Se io sono al lavoro ed un collega mi fa una raffica di sei, sette domande, io come reagisco? Non credo in maniera molto diversa! M con i nostri figli abbiamo l’urgenza di dir loro tutto e subito, e di aspettarci che lo recepiscano. Magari con dei modi di fare che a volte innescano delle visioni più generali. “Lascia stare che è cacca!, sputa che è cacca!”: la conclusione del bimbo ve la lascio immaginare.

Nel quotidiano sono le cose ripetute che lasciano un segno! Capita ancora che diciamo: “Sei un bimbo bravo, devi dormire da solo!” Giustissimo! Ma mettiamoci nei panni del bimbo: voi siete in due, siete grandi, non avete paura e dormite insieme; io sono solo, piccolo e ho paura e devo dormire da solo!

Dicevamo prima che passano non tanto i discorsi, ma gli stili di vita e le testimonianze. Possiamo fare qualche esempio: noi diciamo che bisogna avere fiducia negli altri, e poi viviamo in case che sembrano delle prigioni o dei Fort Knox. Diciamo che bisogna essere onesti, e poi a tavola ti scappa la frase che quest’anno ti sei stufato di pagare tante tasse e adesso hai trovato il modo per fregare il fisco…

Che cosa passa? Il discorso astratto sull’onestà o ciò che io faccio in concreto? In verità passano gli stili, non i discorsi! Quando poi i bambini non sono ancora più confusi perchè si trovano in situazioni in cui una agenzia educativa gli dice delle cose e un’altra l’opposto. A scuola si fa l’educazione alimentare per mangiare piano, a casa c’è fretta di finire e si dà un mandarino a chi finisce prima! Il bimbo è sempre lo stesso!

La cosa a cui dovremmo pensare sono proprio questi messaggi. Un’ultima cosa che riguarda la scuola: oggi, purtroppo le leggi sulla tutela dei minori, che sono sacrosante, ci hanno complicato notevolmente la possibilità di far fare delle esperienze ai nostri ragazzi. Gli insegnanti mi dicono: “Se io li porto fuori in uscita didattica ho talmente tante e tali responsabilità che preferisco lasciar perdere”. Allora succede che si esce nel quartiere in fila per due, mano nella mano, senza distrarsi, senza scendere dal marciapiede, e poi si torna in classe e ognuno disegnerà quello che gli è rimasto più impresso! Disegneranno la testa del compagno davanti! La nostra preoccupazione diventa una limitazione.

Proviamo pensare adesso: tutto questo cosa può significare a livello educativo. Se passano di più i vissuti del quotidiano più che i grandi discorsi astratti, che cos’è che possiamo fare e che cosa può disturbare la comunicazione educativa?

Possiamo segnalare questi altri due elementi che spesso ci sono nelle nostre famiglie e che sono segno del nostro tempo: uno è la raccolta dei bollini,  un meccanismo che usiamo anche in famiglia. Avviene quando io dico: “Il bimbo è insofferente, non fa i compiti, mi fa tribolare…, ma io non mi devo arrabbiare!” In realtà non sono convintissimo, mi comprimo, ma lo faccio come senso del dovere. Se succede questa compressione, io comincio una raccolta di bollini. E’ come se facessi un patto inconscio con me stesso: per dieci volte non mi arrabbio, ma l’undicesima…!

Va a finire che ho passato per buone cose anche più gravi per dieci volte e poi, all’undicesima, ho finito la mia raccolta di bollini e anche per una sciocchezza ho uno scatto di nervi enorme e dò una grande punizione al bimbo. E questo mi guarda e mi dice: “Sei sclerato?”. Ho fatto passare tante cose grosse, e poi per una sciocchezza mi arrabbio! Ho finito i bollini! Fa sempre parte della fretta con cui viviamo, non abbiamo il tempo e la voglia di chiarirci quando accumuliamo delusione. Rimandiamo e ci comprimiamo, fino a quando ci sono le esplosioni, e questo vale per noi e vale per i bambini.

Ancora: provate a pensare a quelle che sono le finte domande. Chi di voi noi è mai caduto nel tranello di dire al figlio, gentilmente: “Avresti voglia di buttare vai il pattume?”. Ma come fa a dire “O sì, che bello, adesso ci vado!” E’ chiaro che se è sincero dice: no! e rimane lì! Invece, se noi l’abbiamo vissuta come una finta domanda, ci aspettiamo che lui dica di sì e se non lo fa ci offendiamo. “Ecco, con tutto quello che faccio per te, una volta che ti chiedo qualcosa mi dici di no!”. Allora la famiglia incerta va bene, ma se io voglio dargli un ordine, me ne prendo la responsabilità: mentre io cucino, tu vai a buttare il pattume! Se glielo metto come domanda, devo accettare che mi possa rispondere anche di no, altrimenti creo confusione in ambito educativo, oltre al fatto di delegare da un mio ruolo.

La più grossa differenza della famiglia d’oggi con quella di cinquant’anni fa, oltre la velocizzazione, è che la famiglia di cinquant’anni fa era incentrata sul ruolo, ed aveva come obiettivo di insegnare ai figli un lavoro, un mestiere, a vivere, insomma. Oggi la famiglia nucleare non è più importante perchè insegna un ruolo, un compito, ma perchè è relazione: in famiglia è importante stare bene. Infatti stanno così bene che non se ne vanno più. Abbiamo una adolescenza che è interminabile oggi. Se voi pensate che in una famiglia di pastori a sei anni un bambino era già responsabile di quattro o cinque pecore, oggi, a diciotto anni, non sono responsabili di niente; le uniche cose che hanno sono le chiavi di casa, non è che abbiamo un grosso ruolo!.

In questo senso la raccolta dei bollini, le finte domande sono elementi di disturbo, insieme ad un terzo elemento, le simbiosi. Troppo spesso c’è un cordone ombelicale tra genitori e figli che non si stacca più, e si creano situazioni in cui c’è una forte indipendenza a livello sociale (sembra che il figlio possa fare quello che vuole) ma una scarsissima autonomia affettiva ed emotiva, per cui questi ragazzini non sanno più riconoscere le loro emozioni,  non le sanno ascoltare, e vanno in crisi  e si crea un legame quasi di dipendenza con uno dei due genitori.

Se queste sono le cose che ci possono creare problema, che cosa possiamo fare per valorizzare il processo educativo? Valorizzare cosa significa?

Come prima cosa significa riaprirsi all’ascolto: abbiamo talmente poco tempo che non ci ascoltiamo mai. E ascoltarsi vuol dire prima di tutto conoscere sè stessi.

Quali sono, secondo voi, oggi gli stili educativi più frequenti? Ci sono delle inchieste piuttosto serie, che hanno posto in evidenza non tanto degli stili educativi (il che presupporrebbe un lavoro cosciente), ma delle maschere sociali, cioè degli atteggiamenti ripetuti nel tempo.

Qual è lo stile educativo più frequente oggi in Italia? Nella famiglia patriarcale era lo stile autoritario. Al  primo posto c’è la maschera sociale iperprotettiva, con quasi il 28% dei genitori italiani. Essere iperprotettivi significa proteggere troppo i nostri figli, il che significa anche di impedir loro di fare quelle esperienze che permettono di diventare autonomi. Ma è tutta la società che è diventata congelante ed iperprotettiva, perchè da un lato si trasformano i figli in piccoli operai, dall’altro li si comprime nell’adolescenza, e ci restano fino ai 35 anni. Io ricordo tutte le esperienze di lavoro che ho fatto da piccolo, dalla raccolta degli ortaggi all’aiuto al benzinaio del paese… Oggi queste esperienze sono negate ai minori! Questo significa che i ragazzi fanno fatica ad avere quelle esperienze che una volta permettevano di entrare gradualmente nel mondo degli adulti per avere autonomia.

Guardate nella scuola: è giustissimo non umiliare un ragazzino, ma è anche vero che i nostri ragazzi devono avere il senso della realtà (ora i cartelloni con i voti sappiamo come sono fatti!) Molto spesso i nostri ragazzi hanno introiettato che ciò che vale è il principio di economia: ‘devo fare il furbo ed ottenere il massimo con il minimo sforzo’. Uno degli interventi che ci viene richiesto più spesso con le scuole è per lavorare con i ragazzini sulla motivazione e sul metodo di studio. Ma dovremmo riflettere su questo, perchè ha un significato profondo!

Al secondo posto c’è la maschera sociale che potremmo definire sacrificante. Sembrerebbe impossibile, ma quasi il 20% dei genitori italiani sentono che avere dei figli quasi automaticamente significa subire fortissime limitazioni alla loro vita di coppia e personale. Se ho voglia di uscire, il bimbo soffre, e allora lo portiamo con noi! 

La famiglia è un triangolo rovesciato: essa funziona se sotto funziona la coppia. Se  io ho l’idea che una volta avuto i figli i momenti di coppia non esistono più, in realtà porto la  famiglia ad una incertezza ancora maggiore. E la coppia, a sua volta, funziona se a livello individuale ognuno di noi ha delle sue aree. Una delle prime cose che chiedo ai genitori quando li vedo intristirsi nella loro situazione familiare, è se hanno del tempo libero per loro e se hanno delle passioni, degli interessi loro. Non avere passioni significa rinunciare a sognare. C’è un proverbio molto bello che dice che ‘un uomo non diventa vecchio fino a quando nel suo cuore i rimpianti non sostituiscono i sogni’.

Spessi oggi abbiamo degli adolescenti vecchi e dei genitori sacrificanti.

Al terzo posto, col 17%, c’è il genitore autoritario, con una inversione di ruoli, nel senso che fino agli anni ’60 e ’70 l’autoritario era il papà, mentre la mamma era quella accomodante, o quella che era in certo modo complice dei figli; oggi è un po’ il contrario: il papà è stanco e gioca coi figli, la mamma sta dietro a tutto il resto, almeno a livello statistico!

Al quarto posto, con il 15%, c’è il genitore falso democratico, che è quello che ha rinunciato a fare il genitore ed è diventato l’amico del figlio, o addirittura ha invertito i ruoli, ed è lui che chiede consiglio al figlio.  Bisogna considerare che i figli hanno tanti amici fuori, di genitori ne hanno solo due, e se questi abdicano al loro  ruolo, che potrà succedere? Parlare con i figli è importante, ma io, genitore, ho un mio ruolo, e non posso entrare in competizione con gli amici perchè con gli amici parla di più: c’è un ruolo diverso, io devo recuperare il mio ruolo di genitore.

Al quinto posto, con la stessa percentuale del 10% abbiamo il genitore delegante e quello intermittente o incostante, quello che non ha uno stile suo, ma che cambia a seconda dei momenti e degli umori in maniera anche vistosa. Il delegante è quello che dà una amplissima delega spesso alla sua stessa famiglia o alla agenzie educative, alla scuola, allo sport.

Queste ‘maschere’ sono quelle che oggi caratterizzano più spesso, a livello statistico, il nostro approccio con i ragazzi. Ovviamente la risposta più consona per l’etichetta sarebbe un educatore autorevole, però dovremo capire di che cosa hanno bisogno i ragazzi e cosa può significare oggi essere un educatore autorevole.

 

 

Condividi, se ti va!