UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
“Per stare bene insieme:
disagi e gioie nella comunicazione di coppia”
AUTORE : Luciano Viana, psicoterapeuta
L’esperienza ci suggerisce che nella vita non è sufficiente sapere, bisogna poi “saper fare” ed infine trasfigurarlo in ‘saper “essere”. Faccio degli esempi: sappiamo tutti che esiste la bontà (sapere), ma “saper fare” il buono è più difficoltoso, “saper essere” buono e quindi calarlo dentro di noi e diventare buoni, come Papa Giovanni che è uno dei simboli della bontà universalmente conosciuto, è molto difficile. E’ difficile trasformare il sapere in sapienza, ma è la strada da intraprendere.
Per trattare il tema della comunicazione si può partire da tanti punti di vista.
Inizierò con tre esempi, tre flash che faranno da preambolo a quello che dirò successivamente.
1° flash. Sono contento di essere qui perché il moderatore mi ha presentato bene, io sono compiaciuto di questo e verrò ancora qui, se mi inviterete: verrò volentieri, perché le persone che ci presentano bene, che parlano bene di noi, che mettono in evidenza le nostre qualità, si fanno avvicinare suscitando in noi il desiderio di rivederle.
Le persone invece che ci criticano, che ci prendono in giro, che usano l’ironia, si fanno allontanare da noi, desideriamo evitarle per non ripetere la spiacevole esperienza. Adesso vi lascio dieci secondi di tempo per riflettere se il vostro partner si fa avvicinare o allontanare e se voi stessi vi fate avvicinare od allontanare da lui/lei.
Mi raccomando di interrompere subito la ricerca. Prenderne coscienza può essere pericoloso, per il prosieguo della convivenza nella coppia.
In sintesi: dobbiamo abituarci ad usare le parole del bene, le parole della speranza, dell’incoraggiamento, per far sì che l’altro desideri la nostra vicinanza.
2° flash. Due o tre mesi fa sono andato a casa di una famiglia che mi aveva invitato. Mi avevano preparato una torta molto buona. Dopo averla assaggiata decisi di descriverla, annotando su un foglio le sue caratteristiche. Scrissi due pagine con l’intenzione di prepararla a casa con mia moglie. La descrissi in modo accuratissimo: gusto dolciastro con rimandi lievemente asprigni di limone, retrogusto di fiore di rosa e frutto di mandorlo, sensazione di piacere vellutato nella masticazione in cui si avvertiva…
Tornato a casa ho cercato con la collaborazione di mia moglie di riprodurre quella torta attraverso quella descrizione. Non riuscimmo. Andai allora da alcuni amici con lo stesso intento e con la stessa descrizione, ma anch’essi non riuscirono.
Tornai dalla prima famiglia, quella che mi aveva preparato la torta, e chiesi come l’avessero realizzata, qual era il trucco. Loro furono molto sintetici, mi misero in mano la ricetta e mi dissero di fare come questa suggeriva. Tutto qui. Con quella ricetta, mia moglie ed io riuscimmo a cucinare la torta.
Significato di tutto questo: il linguaggio della descrizione serve per esprimere sensazioni, per raccontare noi stessi, per comunicare generalizzazioni, esso diventa a volte, poesia. Ma difficilmente riesce a produrre cambiamenti in noi e nell’altro.
Per produrre cambiamenti è meglio utilizzare il linguaggio semplice, che dice come comportarsi praticamente. Le richieste devono seguire la legge delle quattro “P”, e cioè essere pratiche, piccole, percorribili e possibili.
Es: se noi formuliamo al nostro partner che è arrivato in ritardo, la descrizione del nostro stato d’animo, con queste parole “Mi ricordo che ti ho amato infinitamente quella sera al mare e tu dovresti amarmi nello stesso modo come quando, passando le stelle in cielo, si illuminava il tuo viso e si rispecchiava nei miei occhi… ora non mi capita più… in quanto…”: questo è il linguaggio della descrizione, il linguaggio della poesia, che è meraviglioso e che serve in certi momenti della vita per ristorarci, per tirarci su di morale, per commuoverci o per sorridere.
Ma quando vogliamo ottenere qualche cosa, dobbiamo stare sul pragmatico, cioè dobbiamo usare un linguaggio “prescrittivo” diverso da quello descrittivo. Utilizzare semplicemente il linguaggio della ricetta: “ Senti: quando arrivi più tardi del dovuto, io sono molto seccato/a, potresti venire in orario, per cortesia”?
Questo è un linguaggio che richiede comportamenti pratici e non utilizza la descrizione degli atteggiamenti e degli stati d’animo. L’importante è capire che il linguaggio della descrizione è un linguaggio che deve essere utilizzato solo in certi contesti. Se vogliamo richiedere qualcosa all’altro, se vogliamo che l’altro ci consegni una determinata torta che noi privilegiamo e desideriamo, meglio utilizzare l’altro linguaggio: quello della ricetta. Essere pratici e chiedere piccole cose, queste piccole cose poi daranno dei fruttuosi risultati se sono praticabili e percorribili e quindi appartengono alla pragmatica della comunicazione.
3° flash. Prima di addentrarmi nel discorso, voglio precisare che il matrimonio non è assolutamente in crisi, a dispetto di ciò che viene scritto e detto. Il matrimonio non è in crisi, anzi è addirittura amatissimo, è amato a tal punto che molte persone si sposano anche due o tre volte! Questo per confermare l’amore che c’è nei confronti del matrimonio. La crisi è di durata del singolo matrimonio.
Le fasi del ciclo di vita della coppia spiegano bene l’andamento del matrimonio.
Nella fase dell’innamoramento l’altra persona viene messa su un piedistallo, mitizzata. Nelle fasi successive emergono i difetti dell’altro e l’ambivalenza riduce l’originario investimento affettivo. Come far durare un rapporto? Utilizzo una metafora.
Vorrei paragonare l’amore iniziale ad una bellissima cattedrale. Noi riceviamo in dono, dal Signore, una cattedrale gratuita, bella, con le guglie che si alzano nel cielo, marmi, pitture, arazzi, tappeti, dorature lucenti, tutto bellissimo. Ma prima o poi arriva il momento in cui per mantenere la cattedrale (l’amore) bisogna fare la manutenzione quotidiana, e la manutenzione è molto semplice da descrivere: occorre spolverare (a chi tocca?), togliere le ragnatele, lavare i pavimenti, scopare per terra…ecc. Per mantenere la cattedrale occorre fare molta fatica quotidianamente. Dalla gratuità del dono iniziale si arriva, per mantenerlo inalterato, alla fatica quotidiana. Solo così l’amore si manterrà lindo, immutato e genuino.
Ora tratterò della pragmatica della comunicazione, quindi non utilizzerò la sintassi o la semantica (quest’ultima studia il significato delle nostre parole e della nostra comunicazione). Tratterò, tra i tanti, di un assioma della pragmatica della comunicazione.
Questo primo assioma è definito così: “Non si può non comunicare”.
Significa che la comunicazione avviene sempre, è sufficiente la presenza di altre persone e la comunicazione avviene anche se si sta in silenzio.
Per comprenderlo meglio vi faccio un esempio: “Sono sul treno in uno scompartimento per fumatori. Di fronte a me c’è un signore, che sta leggendo il giornale aperto, tenuto in posizione verticale che impedisce di vederci. Io ho voglia di fumare, metto in bocca la sigaretta e mi accorgo che mi mancano i fiammiferi. Chiedo a questo signore, con molta cortesia, se mi può dare un fiammifero. Supponiamo che costui imperterrito continui a leggere il giornale. Siamo di fronte ad una comunicazione non verbale, perché quel signore comunica che non vuole comunicare, che non vuole essere disturbato, magari comunica che è sordo (occorre precisare che la comunicazione umana è sempre ambigua).
Per ridurre i malintesi e le attribuzioni improprie di significato occorre imparare a giocare al ping-pong comunicativo. Cosa vuole dire: l’altro mi manda una comunicazione che è la pallina, io gliela rimando dicendo.”Volevi dire cosi?” L’altro mi dirà: ”Non proprio così, volevo significare cosà”. Finalmente il punto è fatto. Il punto per la coppia è capirsi, Altrimenti crescono i malintesi, il “Roma per Toma”.
“Non si può non comunicare” è un assioma. Si spiega col fatto che la comunicazione avviene a due livelli: il livello verbale, con la parola, ed il livello non verbale, che è la comunicazione non verbalizzata e che non udiamo. Il verbale è ciò che trasmetto con la parola, ciò che dico, e riguarda normalmente il contenuto, la descrizione della realtà. La comunicazione non verbale viene trasmessa con tanti canali, uno di questi è il corpo, (per es. se uno dorme, segnala che non è attento, lo segnala senza dire nulla). Un altro modo non verbale è la gestualità. Un altro ancora è la mimica facciale. Il viso trasmette dei significati emblematici, significativi, soprattutto nella coppia. (Es. alcuni di voi attribuiscono un significato al fatto che il marito o la moglie sollevi il sopracciglio sinistro, lo attribuiscono perché conoscono da tempo la persona e sanno come reagisce, che tipo di sentimenti ed emozioni sta sentendo dentro di sé…).
A proposito della mimica facciale, tutti sappiamo che bisognerebbe allenarsi al sorriso. Io raccomando sempre. Quando abbiamo difficoltà a sorridere occorrerebbe allenarci a farlo. La prassi è la seguente: tutte le mattine, quando ci alziamo dal letto ed andiamo davanti allo specchio, osserviamo il nostro volto, poi, nonostante il viso che ci vediamo, impariamo a sorridere e mantenere il sorriso che significa apertura, comunicazione. Dice:”Come è bello stare con te”. I grugni ed i musi invece intralciano la comunicazione.
Sapete perché il Signore ci ha fatto la testa tonda: per far circolare le idee. perché se fosse quadrata le idee rimbalzerebbero dentro di noi creando confusione.
Anche il vestito parla: se un marito giovane torna a casa e vede la moglie con il vestito con due spaccature ascellari, questo ha un certo significato, se lo riceve scafandrata ha un altro significato. Anche il colore del vestito comunica. Anche la pettinatura, il pircing, il tatuaggio.
Anche il tono ed il volume della voce comunicano e danno significato al contenuto verbale.
La domanda che faccio a me stesso ed a voi è: cosa prevale nella comunicazione, il verbale o il non verbale? Il significato delle mie parole lo comunica normalmente il non verbale (ma non sempre è così perché anche col verbale posso dare un interpretazione al contenuto, per es. con la frase:”Sto scherzando!” ).
Facciamo un esempio. Io vado in stazione a ricevere una persona che torna dall’Argentina, da vent’anni questo mio carissimo amico fa il missionario e torna questa sera in Italia. Non lo sento dai tempi della sua partenza, lui era informato che sarei andato ad aspettarlo per rinsaldare la nostra amicizia, questo profondo sentimento umano che c’è tra noi due. Immaginate che lui scenda dal treno e corra verso di me, gioioso e felice. Io gli vado incontro con aria mesta e seria, le braccia chiuse sul corpo, sguardo assente e gli dico “Sono molto felice di vederti, scoppio di gioia”. Secondo voi si ferma il Italia o ritorna in Argentina? Eppure gli ho detto a livello verbale delle parole meravigliose. Se ritorna in Argentina vuol dire che il non verbale ha la supremazia nella comunicazione. Se una ragazza chiede al suo fidanzato: ”Ma tu mi ami?” e lui rispondesse “Sì, ti amo!” verbalmente, ma sbuffando, passa l’interpretazione opposta a quanto detto perché con il modo con cui lo dice, con il tono, il volume utilizzati, modalità fondamentali della comunicazione, smentisce quello che lui ha detto verbalmente. Come vedete il non verbale comanda. A dire il vero, per gli studiosi presenti, non è sempre così, ma insomma diciamo che il novanta per cento corrisponde a questo. Questo lo dico perché ognuno di noi dovrà applicarsi molto di più al non verbale e non solo al contenuto (il verbale). Certo, dobbiamo saper cosa dire, ma dobbiamo pensare soprattutto a come trasmetterlo.
“Non si può non comunicare” è una legge! Come ci sono le leggi della fisica e della chimica, così ci sono le leggi della comunicazione. Provate a contrapporvi alle leggi: vi danneggerete. Per es., provate a contrapporvi alla legge della gravità: se metto un sasso da trenta chili verticalmente sopra il mio piede ed affermo: “Non esiste la legge di gravità” e lascio andare il sasso, mi romperò il piede! Chi va contro ad una legge produce danno.
Anche nel campo della comunicazione succede così. C’è una legge che dice “E’ impossibile non comunicare”. Chi si sforza di non comunicare, contrapponendosi alla legge, produce disagio, dramma, incomprensione, provoca la sofferenza nell’ambito della relazione. Produce una patologia nella coppia, una specie di malattia.
Come fa l’uomo a sforzarsi di non comunicare? Tra i diversi mezzi a sua disposizione ne tratto tre.
Primo: “fare il muso”, sforzarsi quindi di non comunicare. Se fare il muso è così semplice, qualcuno potrebbe essere tentato di provarlo a casa. Però fare dei musi da dilettanti è una cosa, fare quelli professionali, quelli costruiti sulla base di una lunghissima preparazione (i migliori che ho trovato erano tutti figli d’arte, cioè addestrati dai genitori che già lo utilizzavano tra loro), è più difficile. Il muso tende a far cedere “l’avversario”, è una mossa relazionale che tende a far cedere l’altro, a fare sì che strisci ai nostri piedi in modo che noi, dall’alto del nostro muso, possiamo dettare le condizioni di pace, che sono le regole cui vogliamo che l’altro si adegui. Il muso è un tentativo di non comunicare che produce danno e quindi è da escludere.
Il secondo tentativo di non comunicare si chiama “squalifica”. In cosa consiste? Quando una persona dice qualcosa, io la prendo, la getto per terra, e la tratto come uno zerbino: questa è uno squalificare il suo messaggio. Facciamo un esempio: quando si racconta una barzelletta abbiamo molti modi di squalificare chi la racconta (rimanere impassibili, deridere, ecc.)
Anche il primo della classe tende ad essere squalificato coi famosi “epitteti” di secchione, violino, ecc. Viene abbassato lui prende sempre dieci ed io cinque. La regola fondemntale per le squalifiche è che devono essere fatte solo con un gruppo di consenso. Infatti se la si fa da soli potrebbero emergere dei sensi di colpa, insieme è bello, perché mi sento esonerato dalla responsabilità.
Sappiate che oggi pomeriggio uscendo uno dica all’altro: hai sentito il Dottor Viana cosa ha detto ma quello ti conosce, ti ha descritto dalla a alla z , questa è una squalifica. Sapete l’altro cosa è obbligato a dire: ma cosa vuoi che capista Viana!. Supponiamo che la signora sia mia moglie da dieci anni e da dieci anni continuiamo a litigare non ce la facciamo più andiamo dal moderatore che è una persona per bene, gli spieghiamo la nostra situazione e vediamo chi ha ragione e chi ha torto. Adesso moderatore chi ha ragione dopo aver sentito tutto questo? Lei. Sono obbligato a squalificarlo perché è stato alleato suo. Cosa accade al di la delle nostre sensazioni epidermiche quanto distruggiamo la nostra famiglia attraverso anche le etichette che forniamo alle altre persone: “capito figlio mio tu guarda non capisci niente, sei ignorante, tutto tuo padre”. Squalifiche genetiche.
Il terzo tentativo è l’utilizzo del sintomo, l’utilizzo della malattia diplomatica.
Vi faccio un esempio. Immaginiamo che due siano sposati da tre mesi. Lui è ancora a lavorare ed è il suo compleanno. Lei torna a casa tre ore prima per preparare la cena. L’accoglienza è entusiasmante. Cenano rapidamente e alla fine lei si alza, si mette il grembiule e comincia a lavare i piatti. Nella coppia ci vuole assolutamente la divisione del lavoro: non si possono fare le cose il due, per cui la coppia dovrebbe strutturarsi uno fa una cosa l’altro ne fa un’altra. In questo caso uno si industria per lavare stirare mettere a posto i panni, scopare, togliere le ragnatele, e l’altra persona invece che dovrebbe così adattarsi anche se pur faticosamente a fare altre cose cioè interessarsi a cose un po’ più elevate, la politica internazionale della Cina, cosa accade in India, per questo motivo deve stare davanti al televisore magari due o tre telegiornali. Costa fatica: bisogna prestare attenzione a quello che viene detto,
memorizzare e poi dirlo a lei perché altrimenti diventa ignorante sui problemi internazionale e quindi la divisione del lavoro:
Mentre li lava si gira incautamente e gli dice: ”Tesoro, per cortesia, verresti a sciacquarmi questo piatto?“ Lui non era preparato a questa richiesta, la mamma non aveva mai osato tanto, non sa come rispondere ed inventa creativamente questa frase: “Tesoro, verrei molto volentieri, purtroppo ho l’artrite a questo dito”. Come vedete si utilizza un sintomo per evitare un impegno senza dare spiegazioni.
Il sintomo, la malattia diplomatica, è l’utilizzazione di un disagio per tentare di non spiegare, per sfuggire ad una richiesta che l’altra persona ci rivolge. Ultimo esempio: lei torna a casa la sera e dice: “Ti ho preparato una serata coi fiocchi, ti porto a trovare la mia mammina” . Lascio a tutti immaginare i sintomi che utilizzerà, ne riporto solo alcuni possibili: “Ho mal di testa, di piedi, mi fa male la schiena, sono stanco morto…”.
In sintesi: meno patologie comunicative utilizzeremo e meglio staremo.