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Da “accidente biologico” ad educatore moderno
Il ruolo del padre
Da “accidente biologico” ad educatore moderno
Autore: Giuseppe Cesa
Parlare del ruolo del padre significa avventurarsi in un campo molto ampio e controverso in cui si intrecciano strettamente aspetti biologici, psicologici e culturali.
Questi ultimi, gli aspetti culturali, hanno avuto ed hanno un peso grandissimo, ma non sempre riconosciuto ed esplicitato nella declinazione di tale ruolo. Si pensi ad esempio che mentre la dimensione materna, che di per sé è più definita biologicamente, è stata ed è tutt’ora oggetto di attenzione di dipartimenti materno-infantili sia a livello accademico che di servizi socio-sanitari, per la dimensione paterna, meno definita biologicamente e più influenzata dalla cultura, i dipartimenti paterno-filiali non esistono.
A parlare del padre, quindi, si finisce inevitabilmente per incontrare diverse culture, sensibilità e valori; ognuna delle quali, ovviamente, tende a vivere la propria impostazione come quella giusta e spesso fatica ad accettare un confronto con modalità diverse. Parlare di ruoli paterni, inoltre, implica anche rendersi conto che nella storia dell’essere umano, volenti o nolenti, non sempre il ruolo paterno e la figura del maschio hanno coinciso pienamente. Anche senza andare troppo lontano, non è difficile per noi ricordare di aver conosciuto situazioni in cui, ad esempio, una vedova aiutata da una sorella riusciva a crescere ottimi figli.
Punto di vista evolutivo
Un’espressione attribuita all’antropologa Margareth Mead accenna al fatto che inizialmente il maschio era un “accidente biologico”, necessario solo per la riproduzione sessuata, a migliorare cioè le caratteristiche genetiche della prole. In pratica la femmina mescolando il proprio corredo cromosomico col miglior maschio in circolazione, possibilmente diverso (vedi il fascino dell’esotico) realizza incroci che portano a generazioni di figli più sani e forti. Le caratteristiche fisiche in questo caso sono fondamentali ed ancora oggi hanno un peso nella scelta del partner, in quanto il padre trasmetterebbe alla prole soltanto le proprie potenzialità genetiche.
Molti animali, poco evoluti, basano la sopravvivenza della specie soltanto su questo meccanismo, facendo moltissimi figli e lasciando che sopravviva il migliore che poi a sua volta contribuirà alla riproduzione. Procedendo con l’evoluzione, troviamo che nel maschio di alcuni animali compaiono atteggiamenti di collaborazione più o meno rudimentali. In alcuni pesci sono i maschi a proteggere le uova fecondate, alcuni uccelli maschi aiutano la femmina ad imbeccare i piccoli o a preparare il nido, mentre in alcuni insetti come ragni e mantide religiosa capita che dopo aver fornito il seme, il maschio venga mangiato dalla femmina fornendole nutrienti.
Con l’avvento dei mammiferi, invece, quasi tutto passa in mano alla femmina (la mamma) ed il maschio fa prevalentemente il capo branco. Quest’ultimo ha quasi l’esclusiva degli accoppiamenti e difende semplicemente harem e territorio, non madri e figli. Le figlie cresciute potranno far parte del suo harem e potrà accoppiarsi anche con loro, mentre i maschi cresciuti si allontaneranno e saranno considerati potenziali rivali usurpatori. Sostanzialmente non c’è nulla di quella che si definisce dimensione paterna.
Procedendo ancora nell’evoluzione osserviamo che il numero dei figli è sempre più ridotto e l’impegno per la loro crescita sempre maggiore. Probabilmente, è proprio il maggior investimento richiesto per crescere la prole, che ha portato allo strutturarsi di quel gioco di squadra che oggi chiamiamo famiglia. Gioco di squadra che presenta forme rudimentali già negli animali ma che solo nell’uomo si definisce in forma elaborata e variamente strutturata.
Nell’essere umano
Nell’essere umano, a differenza degli altri animali, il tempo di maturazione biologica di un individuo è molto più lungo; anche dal punto di vista psichico e sociale le cose da imparare sono veramente tante. Ciò comporta che non basta solo la madre, serve qualcuno che l’affianchi, il padre.
In passato, i figli seguivano tendenzialmente le orme dei genitori. Il figlio del fornaio avrebbe fatto il fornaio, il figlio dell’agricoltore avrebbe fatto l’agricoltore e così via. In questo contesto, interagendo con il padre ed osservandolo, il figlio imparava il suo posto nel mondo, mestiere e regole sociali,” arte e parte”.
Oggi, però, non è più così. Già qualche decennio fa si diceva che l’adolescenza finisce a 30 anni. I cambiamenti culturali e tecnologici, l’incontro con altre culture e la mobilità sociale hanno comportato una graduale e sempre più massiccia complessificazione e sono diventate sempre più rilevanti altre figure educative a fianco del padre. Inoltre, c’è da fare i conti con l’inevitabile confronto con le altre culture, il che può mettere a dura prova i pilastri della struttura psichica e sociale e del senso di identità. Non è più sufficiente interagire con i genitori ed osservarli per strutturarsi adeguatamente nel mondo, la strada è molto più complessa.
“Tutto suo padre” si diceva un tempo
La spinta a mantenere la linea di identità psichica culturale e valoriale, oltre a mantenere quella biologica, è inevitabilmente presente in ogni genitore e società: la stirpe, la dinastia millenaria, la cultura tramandata, i figli come prosecuzione di sé.
In un mondo che cambia rapidamente le competenze richieste cambiano e cambiano soprattutto alcuni assetti di base che regolano l’interagire sociale. Oggi non è più possibile nemmeno per un adulto strutturato immaginare che il proprio modo di essere e di fare sia quello giusto, il migliore, sempre valido ed eterno. Anche l’adulto deve sapersi adattare e probabilmente la qualità migliore che può trasmettere alla prole è la capacità di muoversi in un terreno variabile.
La realtà attuale
La realtà attuale, quindi, richiede dalle figure genitoriali la capacità di andare oltre la cura. Saper trasmettere alla prole la capacità di muoversi in un mondo in rapida trasformazione. Riuscire ad integrare il più armonicamente possibile le diverse competenze cognitive, affettive, le diverse soluzioni adattive esistenti e la pressione delle forti aspettative oggi attive, senza perdere il senso di identità psichica.
Ciò riguarda anche le altre figure educative che sempre più vengono coinvolte nel processo educativo, al di là delle loro competenze specifiche. Si pensi al poco tempo che i figli trascorrono con i genitori, spesso impegnati nel lavoro tutto il giorno. Non è improbabile che un bambino passi più tempo ed interagisca di più con gli insegnanti che con i genitori fin dai tempi del nido. Lo stesso dicasi per le relazioni amicali. Non è improbabile che un bambino passi più tempo ed interagisca di più con i compagni di classe che con fratelli o cugini.
Ciò comporta inevitabilmente una grande ricchezza di esperienze relazionali che devono venir metabolizzate sia dal bambino che dal genitore.
Questo ovviamente non significa dover rinnegare tutto quanto deriva dalla propria cultura per tuffarsi in qualcosa di nuovo e sconosciuto. Significa invece la quotidiana fatica di chi accetta di fare il padre a realizzare un continuo aggiornamento con la rielaborazione delle proprie competenze. Se ci pensiamo bene, ad esempio, oggi nessun lavoratore può pensare di lavorare come faceva il proprio padre o come faceva lui stesso 10 o 20 anni prima. Deve aggiornare competenze e modalità operative continuamente oppure è out.
Il padre moderno deve a tutt’oggi avere il coraggio di offrirsi come modello, come in passato, ma deve anche saper coltivare e possedere la capacità di aggiornarsi e soprattutto la capacità di collaborare con le altre figure e culture indispensabili ed inevitabili nel nostro ambito sociale.
Giuseppe Cesa
psicologo – psicoterapeuta