“Quando i genitori si separano: le parole che feriscono, le parole che guariscono”

“Quando i genitori si separano:

  le parole che feriscono, le parole che guariscono”

 

 

  AUTRICE:  Prof. Silvia Vegetti Finzi

 

            Grazie di questa lusinghiera presentazione, grazie al collega che ci ha aggiornato su un problema molto grave – e ancora abbastanza sconosciuto – di come realizzare le nuove separazioni. Grazie a voi di essere qui: so che il sabato è una giornata cruciale per tutti gli impegni, è molto generoso da parte vostra essere qui. Quando vengo da queste parti sono davvero commossa, perchè ho trascorso la mia infanzia a Villimpenta, e quando si torna dove si è trascorsa l’infanzia si ha l’impressione di essere giunti in porto, si ha l’impressione di rivedere quello che è stato il primo luogo della propria vita.

            Avete sentito quanti problemi desti la separazione familiare, si chiami essa separazione o divorzio da un punto di vista psicologico non ha importanza, il momento cruciale è quello della separazione. Purtroppo è un problema d’emergenza: non sappiamo bene quante siano le famiglie separate, perchè l’ultima rilevazione nazionale è del 2003. Dicono le statistiche che oggi siamo al 50% di famiglie che sono separate o in procinto di separarsi: ci stiamo allineando con i paesi industrializzati come gli Stati Uniti e l’Europa centrale. Purtroppo sarà un problema molto grave, perchè non siamo preparati, come dice Giovanni Bollea, non c’è una cultura della separazione: Gli avvenimenti ci hanno preso la mano ci siamo avvicinati a queste medie mondiali senza avere riflettuto a sufficienza.

 

            Anche perchè parlare di separazione vuol dire parlare di tante altre cose: parlare di matrimonio, parlare di genitorialità, parlare di convivenza civile, parlare di comunità, perchè non accade nel vuoto la separazione, avviene all’interno di una comunità e mette in gioco due cose che sono sempre state unite e che ora si sono separate: la coniugalità e la genitorialità, che sono diventate soltanto ultimamente due cose diverse, perchè un tempo bastava sposarsi, poi andava da sè che se ci si era sposati si sarebbe diventati genitori.

Ora voi sapete che nella maggior parte dei casi oggi ci sono molti anni di convivenza prima che si decida di diventare padre e madre, quindi sia nei tempi sia nei modi essere coppia ed essere genitori sono due cose diverse. Lo slogan della maggior parte dei centri di mediazione dice che si può cessare di essere coniugi, di essere marito e moglie, ma si è genitori per sempre conferma questa divisione questa separazione. Io ho conosciuto tanti ex mariti ed ex mogli, ma non ho mai conosciuto degli ex figli, quindi il nocciolo duro della coniugalità della famiglia è diventata la genitorialità.

            Tutto il resto dura finchè dura, dicono. “L’amore è eterno finchè dura”, dice Verdone, ma in realtà tutti hanno capito molto bene che una volta messo al mondo un figlio si è padre e madre per sempre. Questo è lo spostamento del matrimonio dalla coniugalità alla genitorialità. Una genitorialità peraltro fragile: questa legge di cui abbiamo appena parlato cerca di riequilibrare, di risistemare con molta buona volontà, ma è una legge utopica, perchè di solito le leggi fotografano la situazione esistente, prendono atto della società, prendono atto dei comportamenti dei costumi dei modi; questa invece – e sono le parole stesse dei parlamentari che l’hanno voluta -, vuole anticipare vuole andare avanti, vuole indicare una meta da raggiungere, vuole indicare un ideale, quindi è una legge che è più avanzata rispetto al paese per forzare la situazione.

Questa è la situazione: più dell’85% dei figli sono affidati alle madri, quindi fino ad ora la separazione è stata gestita dalle donne. Quest’oggi è la prima volta che vedo tanti uomini a un discorso sulla separazione familiare. Nel mio libro “Quando i genitori si dividono: le emozioni dei figli” io faccio un appello al padre. Il libro è scritto dalle donne, io ho scritto un appello sulla rivista  ‘Donna moderna’: “Se siete figli di genitori separati e avete qualcosa da dire scrivetemi!” Ho ricevuto quasi duecento lettere, ne ho utilizzate qui circa centocinquanta e sono quasi tutte scritte da donne, lettrici della rivista, però questo libro è un appello agli uomini, questo libro dice: ci è mancato il padre, avremmo voluto vicino a noi il padre, penso che sia un libro che gli uomini dovrebbero leggere per capire quanto la loro assenza  costa, in termini spesso strazianti, ai loro figli, che strazio sia per i loro figli l’assenza o l’indifferenza del padre!

            I figli devono sapere che hanno due genitori e che possono contare su entrambi. Dice un ragazzo: “Quando io non c’ero loro si amavano: restituitemi il ruolo di figlio, il diritto di amare entrambi”. Questo è quello che dicono i figli. Io ho trovato che si parla tanto dei ragazzi ma si parla poco con i ragazzi, si parla tanto di famiglie ma la voce è sempre quella degli adulti, quella del padre della madre; in caso di separazione i genitori parlano con l’avvocato, parlano con lo psicologo, con gli insegnanti, con i sociologi, con i vicini di casa… ma i ragazzi, i bambini restano da parte, lasciati in silenzio.

            Gli alibi sono molteplici: si dice “L’abbiamo fatto per il loro bene, per non metterli nel nostro conflitto”, ma i figli nel loro conflitto ci sono già, ci sono da sempre: hanno mille antenne per coglierli, si accorgono del disaccordo coniugale ancor prima dei coniugi stessi, sanno che qualcosa non va, sentono la tensione, le emozioni, le vibrazioni della loro discussione, sanno già se una discussione degenererà oppure è destinata ad appianarsi a trovare consenso. Quante volte i genitori mi dicono: “Appena alziamo la voce nelle nostre discussioni vediamo i figli impallidire” e chiederci “Avete intenzione di separarvi?”

            Ormai la separazione è nell’aria dei tempi è una minaccia che loro sentono sul loro capo, conoscono dei compagni, dei cuginetti, dei vicini di casa che hanno genitori separati e sanno che potrebbe capitare anche a loro.

            L’appello di questo libro è: “Parliamo con loro, ascoltiamoli, stabiliamo una situazione di dialogo, non lasciamoli da parte con la scusa che sono troppo piccoli, che sono troppo grandi, che hanno ben altro da fare”.

No! per tutti è essenziale la famiglia, il contenitore che tutti ci tiene è la famiglia, perchè solo nella famiglia noi siamo sempre “qualcuno per qualcuno” scrive una donna. Non c’è anonimato, non c’è impersonalità, ma è il luogo della nostra continuità, della nostra identità: rompere il contenitore famiglia è sempre un elemento traumatico, un avvenimento traumatico.

            Il modo con  cui i coniugi si separano non è paritetico: c’è sempre uno che decide di separarsi e l’altro che resta separato, uno che decide – che di solito è l’uomo – ma è la donna che nella maggior parte dei casi chiede la separazione, e non perchè l’abbia voluta lei.

            Le statistiche dicono che la maggior parte delle separazioni viene chiesta dalle mogli, ma non perchè lo han voluto loro, ma perchè si sono trovate nelle condizioni di non poter più andare avanti così, ma in realtà chi di fatto ha rotto il patto matrimoniale è l’uomo. E spesso lui ha un’altra situazione alle spalle, ha un’altra attesa, c’è un’altra possibilità di rifarsi una vita, di ricominciare.           

            Quella che invece resta nella situazione stagnante di qualche cosa che è finito, ma non sa come ricominciare è la donna. Le posizioni non sono veramente paritetiche fra i due coniugi, sono molto diverse: una è passiva, ha subito la separazione, l’altra è attiva, ha chiesto la separazione, l’ha voluta, l’ha desiderata in vista di un nuovo inizio, perchè non dimentichiamo che se si rompe un legame di solito è per farne un’altro, paradossalmente si rompe un legame, ma desidera subito stabilire un’altro legame.

La situazione è tutt’altro che facile, ci sono dei conflitti manifesti, dei conflitti latenti: l’unica possibilità che noi abbiamo di risolvere è quello di dare parola. La parola deve essere una parola vera e la parola vera è quella che dà voce alle emozioni, è quella che corrisponde alle emozioni, non è la parola edulcorata, non è la parola falsa, come quando si dice “beh,  tanto ormai si separano tutti!”, non sono le parole dell’ovvietà, del pregiudizio.

            Una volta c’era il pregiudizio: ‘meglio litigare che separarsi’: questo è durato nella famiglia tradizionale, mentre adesso c’è il rovesciamento di quel pregiudizio: ‘meglio separarsi che litigare’, ma in realtà nelle famiglie si è sempre litigato; di per sè stesso il litigio non è indice di insopportabilità, bisogna vedere come ci si dispone di fronte agli inevitabili conflitti del vivere insieme, cioè quanta tolleranza, quanta possibilità ci diamo di ricominciare, di rifare i patti di prendere atto dei bisogni dell’altro: qui ci vuole una educazione, un’educazione al conflitto, una educazione alla ricomposizione, una volta che la famiglia abbia avuto delle crepe dentro di sè, anche se sono d’accordo se si dice “Quando la famiglia giunge in tribunale, la mediazione non è una mediazione per riunire, ma una mediazione per separarsi bene, nell’interesse dei figli, nell’interesse di tutti”.

            La cosa che più mi sta a cuore è questa: ascoltiamo anche i figli, non lasciamoli nell’ombra  per il cosiddetto loro bene: i figli sono sempre dentro al conflitto, anche se avessero un giorno, e  anche

– molte storie di vita raccontano – se non sono ancora nati, perchè anche il bambino non nato vive attraverso il rapporto psicologico con la madre le emozioni della separazione e nasce già segnato dal conflitto genitoriale.

            Nel mio libro emerge che se la separazione familiare non viene affrontata per quello che è, cioè un trauma, un dolore, un dispiacere, ma viene sottovalutata, viene chiusa la questione in modo affrettato, in modo superficiale, ciò che è stato buttato fuori dalla porta rientra dalla finestra, e i figli che non hanno potuto vivere il dolore, perchè glielo si è impedito continuando a dire “Tanto non c’è alcuna sofferenza, non c’è problema!”, questi figli che non hanno vissuto il loro dolore si troveranno una volta di fronte alla scelta di un partner nella condizione paradossale di rivivere quelle esperienze negative che non hanno affrontato allora: è quello che noi chiamiamo ‘coazione a ripetere’, un trauma che non sia stato accettato, elaborato, che non sia stato portato fino in fondo.   

Non si supera il dolore emarginandolo, ma affrontandolo! Pensate ad un tunnel: si può uscire da un tunnel solo se lo percorro fino in fondo, solo allora potrò vedere la luce.

            Io chiamo la separazione “l’ultima passione”: noi siamo in un’epoca spassionata, l’amore è diventato una cosa da cioccolatini Perugina, l’amicizia ha una ‘a’ molto minuscola, le grandi passioni politiche che hanno infuocato l’Europa nel secolo scorso non ci sono più, la politica è amministrazione, siamo in un’epoca spassionata e forse l’ultima passione (proprio nel senso forte del termine “pathos “, patire nel senso della tragedia classica) è rimasta la separazione.

            Tutte le separazioni: io oggi parlo della separazione coniugale, ma in tutte le separazioni, compresa la morte, la morte delle persone care, il nostro dramma principale è separarsi. Ora qui si affronta la separazione coniugale dal punto di vista dei figli e si vede che questo è un dolore, è un dolore da vivere, da accettare, da affrontare da  elaborare.

Quando questo accade, la capacità di portare fino in fondo le tensioni della separazione fa sì che le persone che hanno condotto questo itinerario siano in grado di comprendere più cose rispetto agli altri. Una volta si diceva che il dolore serve, il dolore fa bene, il dolore perfeziona… Io vorrei specificare meglio: non è il dolore in sè, ma il modo con cui si affronta il dolore, il modo con cui lo si attraversa, il modo con cui lo si vive lo si partecipa.

            Noi abbiamo bisogno per comprendere la nostra vita, abbiamo bisogno di condividerla, dice Cristha Wolf, una grande scrittrice tedesca: “Io capisco solo ciò che condivido!” Io credo che abbia ragione: se noi non condividiamo con gli altri le nostre emozioni, non le capiamo; si tratta allora di affrontare le emozioni di questo strappo, di questa  lacerazione della nostra storia di figli di separati: qui c’è un’interruzione della storia, si tratta di ammettere la lacerazione e di pensarla e di rifletterla di prendersela dentro di elaborarla di portarla direbbero gli antichi a ‘catarsi’, cioè a purificazione, bruciando le scorie dell’odio, del rancore, della vendetta. Quanta vendetta c’è nelle separazioni familiari, attraverso anche il possesso dei figli, il denaro, la casa… sono tutti pretesti di vendetta per i coniugi che si separano: no! è necessario bruciare le passioni negative dentro di sè

e giungere a una distillazione della passione in modo che diventi comprensione. Allora vediamo che questi figli, che sono riusciti a portare la passione fino in fondo, portano a un plus-valore l’anima; le persone che hanno davvero vissuto con coraggio, con determinazione, con lucidità con generosità i loro dolori sono meglio delle altre, cioè si conoscono meglio e quindi sanno comprendere il dolore degli altri, sanno ascoltare, sanno partecipare.

            Non solo io ho l’impressione che sia possibile ricomporre la propria storia, ma anche che sia possibile ottenere un ‘plus’ di valore. La propria storia che è la cosa che ci dà la nostra identità. Alla domanda ‘Chi sono io?’ posso rispondere soltanto: ‘Io sono la mia storia!’: questo è quello che ci insegna la psicoanalisi, con tutta l’anamnesi che essa comporta.

            Io sono la mia storia, e la storia di questi ragazzi di solito è stata interrotta da un flash abbacinante, da una luce accecante che è il  momento in cui i genitori hanno detto: “Noi ci separiamo!”; magari lo si sospettava anche prima, ma quello è il momento che nella tragedia si chiama la “scena madre” e fa da spartiacque nella vita: un prima e un poi, e diventa un punto cieco della propria identità, che va elaborato, che va recuperato, perchè la vita deve avere un senso.

Noi abbiamo bisogno che la nostra vita abbia un senso al di là delle incombenze quotidiane: allora il fare quotidiano acquisisce valore soltanto di riflesso, dal senso che noi diamo, dal senso alto della nostra vita. Ridare ai ragazzi che hanno vissuto la lacerazione della separazione dei genitori un senso alla loro vita, che comunque aveva un senso e che può essere raccontata, in modo che la nostra vita diventa narrazione.

            Io parlo di romanzo della famiglia: per la famiglia c’è un romanzo: è innanzitutto la narrazione dei vissuti familiari, che di per sè stessi si frammentano, si spezzettano nella quotidianità… abbiamo invece il recupero del senso nella narrazione quando noi diamo a questi ragazzi la possibilità di narrarsi, li aiutiamo non solo a ricomporre, ma a ricominciare.

Il mio libro sostiene che gli adulti parlano di sè, ma i figli parlano ben poco, per cui mi sembra coerente dare la parola a due giovani lettori, che leggeranno alcuni brani di queste lettere, in modo da dare la parola a chi la separazione dei genitori la patita sulla propria pelle.

Cominciamo coi vari punti di vista: questo per farvi vedere come non ci sia un unico modo di vivere la separazione dei genitori, ma ogni figlio la vive a modo suo.

 

Laura             “Divorzi. Da dove ha inizio tutto ciò? Del cuore dei miei genitori ne so poco. Perciò che posso dire? E’ difficile trovare un punto di partenza o una fine, forse proprio non c’è. Come un cerchio. Peggio di un cerchio (almeno è più regolare) E’ un groviglio di curve e di scale che difettano di qualche gradino. Negli ultimi anni, però, ha imparato  ad aprirmi di più, a guardare, a capire senza voler cambiare le cose. Forse sarò un po’ più difficile rispetto ad altri, ma ce la farò! (Ce l’ho fatta)”.

 

Irene               Se dovessi pensare a una similitudine che mi ha fatto e mi fa sentire la separazione dei miei genitori, mi verrebbe in mente quella di una seppur banale ferita che si sta cicatrizzando, ma dove c’è ancora quel punto che fece infezione e che in momenti particolari fa riaffiorare un piccolo dolore che riporta a quello precedente più grande.

 

Grazia            E’ ora di finirla di pensare che i figli di genitori separati siano alla deriva… Conosco figli di genitori (per così dire) uniti, drogati, emarginati, soli, ecc. ecc. Nel mio caso, separata da vent’anni ho cresciuto da sola due figli splendidi, pieni di valori, educati e rispettosi con tutti. Il figlio laureato in giurisprudenza, la figlia brava in tutto. Vorrei tanto che questa testimonianza fosse pubblica. Grazia, una mamma orgogliosa e felice di essere separata.

 

Nicola             Quando ho letto sulla rivista della mia ragazza il suo invito a scrivere la nostra storia di figli di separati, non avrei mai pensato che mi sarei seduto davanti al computer e avrei cominciato a battere i tasti. Invece è accaduto. Ma non so se iniziare dal passato o dal futuro, se riordinare i ricordi o analizzare le conseguenze di quei fatti lontani sulla vita di oggi e sui progetti di domani. Mi sento confuso tra sentimenti contrastanti: ho paura di ripetere gli errori dei miei genitori e ho voglia di mettermi alla prova, di dimostrare a me, prima ancora che agli altri, che i miei figli non soffriranno tutto quello che da piccolo ho sofferto io.

 

            Vedete come collassino nella separazione il passato e il futuro, come non siano separati. .L’ombra del passato si proietta sul futuro come paura, come timore, ma anche come voglia di farcela, come determinazione ad avere rapporti migliori, rapporti più validi. Di fatto i figli di genitori separati, dalla mia esperienza, si mettono in coppia presto, hanno voglia di riprovare di ricominciare, di dimostrare ai loro genitori che si può fare, ma tante volte non sanno come si fa, non hanno avuto esperienza, soprattutto quando i genitori si sono separati che loro erano molto piccoli, non hanno appreso quelle modalità di vivere insieme che passa da una generazione all’altra per vicinanza, per consonanza. Non si può tenere una lezione su come si vive in famiglia, ma lo si vede,  lo si prova, si capiscono tante strategie: magari per litigare e fare la pace, per dire o non dire, per sorvolare, per dire con un gesto. Per esempio ci sono tanti modi di parlare, non sono solo le parole: quando dico parlare voglio dire anche  il gesto, il dono, il comportamento, l’attenzione, il silenzio…: anche, il silenzio è parola.

            Se tutto questo non è stato ereditato (perchè nella separazione si sta spezzando un canale tradizionale) tutto deve essere inventato, reinventato: è senz’altro entusiasmante il vivere la propria vita dall’inizio, senza tradizioni, senza condizionamenti, senza fare i conti col passato, senza stereotipi, ma è anche molto difficile: il rischio è quello che di fronte alla famiglia ideale che non hanno conosciuto, questi ragazzi trovino sempre insufficiente il rapporto di coppia, non è mai quello che devrebbe essere, perchè sappiamo che l’ideale è  per definizione irraggiungibile.

Allora  si confrontano continuamente con vissuti di scontentezza e con la voglia di ricominciare, questo da luogo a quella catena di relazioni che si formano e si dividono, che si aprono e si chiudono, che è proprio la modalità dei più giovani: si mettono in coppia, come loro dicono “Ci siamo messi insieme”, magari alle scuole medie inferiori, e poi si lasciano e poi ne trovano un’altra e poi si lasciano, perchè non è mai all’altezza, non all’altezza della realtà, perchè non l’hanno vissuta, ma dell’ideale e gli ideali possono diventare persecutori proprio in quanto irraggiungibili.

            Vediamo che questa è una epoca di ideali forti, perentori, lo vediamo anche nel corpo: devi avere un corpo bello, devi essere sempre giovane, sempre prestante: se non lo sei, sei un fallito! La bellezza sta diventando persecutoria, allo stesso modo la famiglia ideale, che è la famiglia che non c’è, sta diventando un ideale persecutorio, perchè impedisce alle persone di vivere poi nella famiglia reale. Sentiamo ora dalle lettere la scena madre.

 

Lorena                       Un fulmine a ciel sereno. Fino al giorno prima vita tranquilla e stabilità, e una bella domenica mattina alle sette scoppia la bomba. Lui dice che ama da anni un’altra donna e se ne va. Io dormivo,  e mi sono svegliata sentendo mia madre urlare e sono corsa giù dalle scale. Vedevo mia madre trasfigurata dal dolore. Nessuno mi ha detto nulla, ma ci ho messo un secondo a capire: è come la lama che ti trapassa, togliendoti per un attimo il respiro e in quell’attimo la mente si apre scoprendo che tutta la vita che avevi davanti era solo un’illusione, una sporca bugia. Lei  piangeva, io ero inebetita, guardavo fuori e pensavo: e adesso? Adesso mi sveglio, è stato solo un incubo, passa tutto e tutto torna normale. In una domenica mattina mi è crollato il mondo addosso mentre dalla finestra guardavo il mondo girare come sempre: il vicino che taglia l’erba, il profumo dei fuori e tutto il resto.

 

Marco             Mentre mio padre, agitandosi e imprecando, raccoglieva alla rinfusa le sue ultime cose, ho avuto l’impulso di aprire la porta e di scappare dai nonni che stavano dall’altra parte della città. Ho corso all’impazzata lungo strade che avevo percorso solo in macchina e, col fiato in gola, ho premuto il loro campanello finchè non sono scesi ad aprirmi. Mi sono gettato ansimante tra le loro braccia: avevo un’altra famiglia, un’altra possibilità.

 

Donata                       Ricordo con incredibile precisione l’attimo in cui la mia vita cambiò per sempre. Ero seduta a tavola e aspettavo con la mamma che il papà tornasse a casa. Squillò il telefono e mia madre andò a rispondere; appena finito di parlare mi disse: “Tuo padre non tornerà mai più a casa”. Non so cosa provai, ero solo una bimbetta di tre anni, ma in quel momento mi sembrava di vivere la vita di un’altra persona. Rimasi per anni con la speranza che lui tornasse a casa e che si pentisse; non ho mai esternato a mia madre tutto il dolore che era chiuso nel mio cuore. Era come se qualcosa o qualcuno m’impedisse di parlarne, di gridare al mondo intero che soffrivo e volevo il mio papà… Sono debole e fragile come allora e non credo affatto che i figli dei divorziati siano uguali agli altri.

 

Francesco       Ricorderò sempre il momento in cui mia madre se n’è andata. Un bacio secco sulla fronte, una raccomandazione: “Fa’ il bravo!”, e via col suo uomo che l’aspettava giù, in macchina. In quel momento non ho detto niente ma ho stretto i pugni dalla rabbia e quei pugni non si sono ancora aperti. Sono passati anni, ma non sono più riuscito a essere quello di prima. Ero, mi dicono, un bambino solare, sempre pronto a ridere e a scherzare, ora sono un adolescente chiuso, taciturno, le labbra strette, che deve fare uno sforzo per stare con gli altri, anche se gli amici mi trovano simpatico e mi cercano sempre.

 

Patrizia           Il mio incubo ricorrente è una lite tra mio papà e mia mamma (come mai era tornata?). Era di sera, avrò avuto sei, sette anni… Loro litigavano sui binari morti del treno. Papà mi tirava di qua, lei mi tirava dalla sua parte, io avevo la mia bella borsettina nuova, di paglia, con il coperchio di pelle blu e il bottone per chiuderla (la mamma mi portava sempre tanti regali), e loro nel tirarmi mi avevano rotto la borsa. Io piangevo, loro urlavano e io non avevo più la mia borsa. Che dispiacere!

 

Lorena                       La prima reazione che ho avuto? (non molto da figlia, lo ammetto solo ora): gli ho fatto un occhio nero e la cosa che mi ha ferito di più:  lui non ha reagito. Cercavo lo scontro fisico e invece mi sono trovata davanti una persona che non conoscevo per nulla… Piangevo,  ero inebetita, lui non parlava e stava lì seduto sul divano col volto tra le mani, in silenzio.

 

            Vedere come il “lui” sia sempre il padre e come questa figlia cerchi lo scontro fisico per avere delle emozioni. La cosa che i figli vogliono è sentire che anche i genitori sono emozionati come loro, è assurdo che i genitori magari si facciano sostituire da altri.

Due genitori mi scrivevano tempo fa sulla rivista dove io rispondo: chiedevano se non era bene se non fosse la baby-sitter ad avvertirli della loro separazione. La comunicazione della separazione è una cosa che devono fare i genitori insieme: il modo va pensato, il momento va ricercato.

            Qui si parla molto di come si comunica con i figli, di come si dice loro ”Ci stiamo separando” garantendo che loro sono una cosa importante che i genitori li hanno desiderati, li hanno voluti, che sono stati attesi, che sono stati amati e che li ameranno ancora . E’ molto importante dire che “Se abbiamo fatto qualcosa di buono nella nostra vita insieme, sei qui tu a dimostrarlo con la tua presenza!”, avvertirli che i genitori ci saranno sempre, ma anche concretamente, perchè il figlio in quel momento si chiede: “Ma che ne sarà di me?”

            Tante volte i genitori cominciano a dire: ”Non è colpa mia, è colpa dell’altro!”, a  giustificarsi a raccontare le loro vicende, ma in quel momento i bambini, i figli, sono sanamente egoistici  e vogliono sapere di sè. Non so se ricordate il film Kramer contro Kramer: la prima volta che il bambino, quello grande, va a passare la notte col padre, il padre non sa più cosa fargli: gli prepara da mangiare, scherza, ma ad un certo punto il bambino gli dice: ”Papà, ma stanotte dove sarà il mio lettino?” Ecco questo i bambini vogliono sapere: quale sarà a breve scadenza la mia giornata, quali saranno i punti fermi. Importante è dire quello che si fa e poi fare quello che si dice, perchè la coerenza è molto difficile in questi casi.

            Quanti padri si impegnano a vedere i figli tutte le settimane, ma poi sono in viaggio per lavoro, ma poi devono andare a trovare la madre che sta male, ma poi hanno il torneo di calcio… Tra il dire e il fare, in questi casi, c’è di mezzo il mare, ma il bambino aspetta coerenza. La difficoltà non è solo nello stabilire degli impegni, ma nel mantenerli! .Questa è la difficoltà! Certe volte si crede che tutto sia finito con la separazione: ci siamo separati, lo abbiamo detto ai figli, ci siamo organizzati, ormai basta: ma poi le difficoltà cominciano solo allora.

            Ecco perchè i figli, che una volta erano “figli invisibili”, ad un certo punto diventano i figli dei loro genitori.

            Allora sentiamo questi “figli invisibili” nel momento del conflitto i genitori: sono assolutamente centrati su sè stessi, centrati sui loro rapporti, sono loro che contano! Sentiamo cosa dicono…

 

Marco             A casa erano così presi a litigare che non si ricordavano più di me: persino il mio compleanno, sedici anni, è passato inosservato. Solo mio nonno mi ha telefonato da Pescara per farmi gli auguri. Se non ci fosse stato lui….

 

Mirka             Meno male che si sono separati: prima tornavo da scuola e non trovavo nemmeno la tavola pronta: loro (i genitori) avevano ben altro da fare: parlare, parlare, piangere, gridare, persino i vicini se n’erano accorti e gli facevo pena. Le assicuro che non è bello sentirsi commiserati, guardati come poveri Cristi.

 

Michele           Tutto è come sospeso, come quando sta per scoppiare un temporale. Si aspetta di sapere chi e quando uno dei due se ne andrà. Apparentemente non sta succedendo niente ma quel niente mi pesa. Ieri ero tornato a casa felice (mi sono messo con Ludovica, bellissima). Mi sentivo raggiante, leggero, avevo voglia di urlarlo al mondo, ma a casa nessuno se n’è accorto. Certo, hanno ben altro da pensare.

 

Marco             Quando i miei hanno incominciato a litigare stavo facendo il ginnasio e già avevo poca voglia di studiare;  quella poca mi è poi passata del tutto quando è scoppiata la guerra in famiglia. Allora al mattino mi preparavo di tutto punto e poi, invece di andare a scuola, salivo in soffitta, mi sdraiavo su un vecchio divano e aspettavo l’ora di scendere dormicchiando, mangiando, bevendo coca-cola, ascoltando musica. Quando la scuola ha fatto scoppiare lo scandalo delle assenze ingiustificate, pensavano che andassi chissà dove, invece ero semplicemente sopra le loro teste.

 

Filippo            Credevano che andassi al parco a farmi le canne, invece salivo in terrazza e mi esercitavo con lo skateboard…

 

            Questa è la situazione in cui si sentono molti ragazzi, certo non tutti, quando i genitori sono impegnati con tutte le loro forze nella separazione nella determinazione delle condizioni della separazione. Ma tutto comincia, anzi il peggio comincia da allora: comunque io approvo l’affido condiviso, approvo che vi siano figure paritetiche, ma in realtà c’è una figura che è dominante, è quella con cui il bambino convive, è quella che tutti i giorni gli sta accanto, che coglie il suo respiro, che è più vicino quando il figlio si ammala, gli prepara da mangiare, lo ascolta quando torna da scuola, accoglie la sua disperazione, la sua stanchezza, la sua noia i suoi silenzi…

            La figura principale di solito è la madre. La madre è la figura principale, ma ingiustamente si consuma, si consuma nell’attrito della quotidianità: “fa’ i compiti”, “sta dritto”, “dove hai messo i soldi?”, “vai a dormire, spegni la musica, spegni la televisione…” C’è questo consumo della quotidianità. Mentre il padre, che comunque si vede poco, si vede meno, rimane una figura idealizzata: quando viene, di solito la domenica, è per far festa, per portare il bambino se è piccolo al parco, per garantirgli il divertimento quindi: il palloncino, il gelato, la giostra, il circo, quindi tutte cose gradevolissime, anche troppe magari, mentre poi al ritorno a casa c’è la mamma che dice di lavarsi le orecchie, fare la doccia mettere il pigiama telefonare ai nonni e così via.

            Quindi le due figure sono sicuramente dissimmetriche, mentre anche la legge vuole spronare ad essere paritetici tra i due genitori, ma in realtà non sarà mai così.

            Sentiamo il parere dei ragazzi che vivono, forse troppo, con la loro mamma.

XXX 79          Come posso iniziare questa storia? dicendo che ho avuto traumi, un’infanzia infelice…genitori assenti? No, preferisco iniziare invece parlando di una donna meravigliosa e dell’amore e della stima che provo per lei. Abbiamo esattamente trent’anni di differenza (io ne ho ventiquattro) e la scelta di sposare l’uomo sbagliato l’ha pagata per tutta la vita. Quando ha deciso di separarsi da mio padre, io e mia sorella avevamo tre e quattro anni… non aveva lavoro e tutti i parenti se ne sono lavati le mani. Abbiamo abitato in una casa in cui al posto dei mobili c’erano degli scatoloni… portavamo abiti usati ,ma nello stesso tempo non ci è mai mancato nulla… avevamo sempre un sorriso, un abbraccio, una carezza, un dono, mentre lei rinunciava a tutto:  mai un vestito, mai una seduta dal parrucchiere, mai niente, niente, niente!

 

Michele           Appena rimasta sola, mia madre, che era molto giovane, mi presentò il suo “fidanzato”: un fantino che mi portò subito a San Siro, non solo a seguire le corse, ma anche a visitare le scuderie e conoscere i cavalli. Fu per me un’esperienza entusiasmante e poiché mio padre non si era fatto più vivo, lo considerai subito il mio nuovo papà. E’ vero che quando mi sfuggì di chiamarlo “papà” precisò: “basta che mi chiami Enzo”, ma non avrei mai creduto che dopo sei mesi si volatilizzasse.

Aspettavo con ansia il suo ritorno e, ogni volta che squillava il telefono o suonava il campanello di casa, speravo fosse lui. Mia mamma non diceva niente e io non osavo chiederle niente. Per me, che avevo solo cinque anni, fu una grande delusione e quando più tardi mia mamma si sposò con un

altro,  non volevo più credere che avrei trovato un padre. Invece fu così e, nonostante la mia diffidenza, mi affezionai moltissimo a lui e ancora oggi, che ho ventitrè anni e sono sposato e padre di una bambina, per me è mio padre e il nonno di mia figlia. Ciò nonostante vorrei raccomandare ai genitori che si separano di andarci piano a presentare ai figli il loro nuovo partner, di farlo quando sono proprio sicuri che il loro rapporto è solido, perchè i bambini patiscono la fine della loro storia come un nuovo abbandono.

 

            Meglio non si potrebbe dire: c’è la tendenza nell’entusiasmo dell’amore allo stato nascente di una coppia che si riforma, a portarlo a casa a farlo conoscere ai figli, fare una vacanza, ma questo gioco dell’illusione-delusione è devastante per i ragazzi, quindi è bene che il partner o la partner venga presentata al figlio solo quando è una storia sicura Certo di storie sicure al cento per cento non esistono, ma diciamo relativamente sicura, ragionevolmente sicura. Sentiamo ancora qualche testimonianza.

 

Claudio           Chi ha voluto che mio padre se ne andasse è stata mia madre, che non lo sopportava più,  ma poi non è riuscita ad accettare la nuova situazione: si sente abbandonata, frustrata. Rimasti in casa, abbiamo trovato in modo diverso la stessa soluzione: lei sta sempre fuori per lavoro, io mi immergo nei libri per dieci ore al giorno. Sono il migliore della classe (III liceo scientifico), anzi della scuola, e la sera parliamo esclusivamente di interrogazioni e di voti. Ci comportiamo come un campione sportivo col suo allenatore perchè lei fissa i traguardi, tiene d’occhio gli avversari, va a parlare ai professori, mi sostiene e mi sprona nei momenti di stanchezza; ci incazziamo quando ci sembra che i professori siano stati ingiusti. Si parla sempre della stessa cosa, ma almeno c’è dialogo. Con mio padre, che voleva che io facessi sport, andassi con gli amici, mi trovassi una ragazza, non c’è più niente da dire, è come se parlassimo lingue diverse. Quando esco con lui, andiamo al cinema e mangiamo un trancio di pizza. Tutto qui.

 

Trilli               Avevo quattro anni e la legge sul divorzio era nata cinque anni prima di me; mia madre, sessantottina e grande idealista, fece valere i suoi diritti davanti al giudice, mio padre, contumace in ogni evenienza e in ogni momento della mia vita, si sentì crollare il mondo addosso e assunse per sempre il ruolo di vittima. Ricordo perfettamente il giorno in cui mia madre venne a prendermi per portarmi con lei. Quello che poi seguì fu un uragano di eventi e sentimenti che travolse la vita di mia madre e insieme la mia infanzia e la mia adolescenza. Perchè il rischio di una simile scelta è proprio questo: trascinare i propri figli nel baratro delle difficoltà che ci si trova ad affrontare. In un certo senso ho vissuto e subito la vita di mia madre: se lei litigava con mia nonna, io non potevo più vederla;  se lei frequentava un altro uomo io mi affezionavo e quando questo se ne andava io soffrivo. La sensazione di solitudine e la paura dell’abbandono è enorme. Ho cambiato quattro case, mia madre cinque lavori e io non sono mai riuscita ad avere una certezza che rimanesse tale… Non posso dire che il divorzio sia sbagliato, ma è molto rischioso e bisognerebbe fare bene i conti prima;  non posso neppure dire che la scelta di mia madre fosse sbagliata… Ma io ho subito le sue scelte e le conseguenze di queste ed ero completamente indifesa. Da tutto questo si è creato, e c’è il rischio che si crei per ciascuno che affronta una simile scelta, un legame troppo intenso tra me e mia madre, a volte malsano. La critico per questo, per non avermi dato alternativa, per avermi fatto vedere e vivere tutto troppo da vicino, perchè io ero e sono l’unica a esserle accanto. E tutto questo a volte è una prigione. Un giorno un medico mi ha detto che le madri, perchè ci hanno dato la vita, credono di poter prendere ogni cosa dai figli, di coinvolgerli nella loro vita come se facessero ancora parte di loro. E che sono io figlia che non devo farmi coinvolgere, perchè lei tenderà sempre a farlo.

 

 

Sebastiano      Quando mio padre se n’è andato io avevo nove anni e, accanto, una donna distrutta, mia madre. Ogni volta che doveva prendere una decisione lei mi chiedeva: “Sebi, cosa mangiamo stasera?” ” Sebi, dove andiamo in vacanza?” Alla fine ero io che sceglievo, io che guardavo l’orologio, io che organizzavo le nostre giornate.  Lei mi seguiva come una bambina viziata (lo era sempre stata), dimenticando che non sono suo marito e che quella responsabilità mi pesava, tanto che ero diventato scontroso e violento. Odiavo il compagno di banco che il papà veniva a prendere davanti alla scuola con un bellissimo scooter e, il giorno che mi ha rubato il panino, gli ho fatto sanguinare il naso con un pugno. In dieci anni di analisi ho capito poi tante cose, ma mia madre no, è rimasta quella di  un tempo e ancora oggi, che ho trent’anni, si aspetta che mi prenda cura di lei come di una figlia.     

 

            Fino ad ora abbiamo visto il rapporto con la madre e la tentazione che ha la donna separata di mettere il figlio al posto del marito e di ricomporre la diade coniugale, elevando il figlio al ruolo del padre: ma questo è sbagliato, perchè lo priva della sua identità, della sua stagione della vita, gli fa occupare un posto che non è il suo e lo immobilizza, per cui questi ragazzi, così come accadeva una volta con le vedove, si trovano a svolgere il ruolo di figlio-marito, per cui non riescono più a crescere a evolvere: è qualche cosa che ferma il tempo, è una freccia ferma.

            Parliamo ora del rapporto con i padri: sentiamo figli che parlano di loro, di come sia una presenza molto forte, soprattutto forte quando è una presenza assente: paradossalmente la più forte presenza in una famiglia è quella assente.

 

Tommaso       “Sto con mia mamma, ma mi diverto con mio padre. Con lui gioco a tennis, vado allo stadio, mi insegna a condurre la barca, tra poco mi darà lezioni di guida, è un patito delle macchine! E poi si trova bene anche con i miei amici”.

 

Dario              Non ricordo bene cosa accadde a quel tempo, ma, ripensandoci, penso che i miei potevano stare insieme. Evidentemente vi erano dei contrasti, ma chi non ne ha? Avrei preferito che mio padre restasse con noi, vorrei che fosse qui con me, ma si è rifatto una famiglia e mio fratello, nato da poco, mi ricorda che non tornerà più in questa casa, che era la sua. Ogni sera passa da noi in bicicletta, senza suonare mette la testa dentro, magari dalla finestra che dà sulla strada e chiede “Come va?”,  poi riparte. Questo “spizzico” basterà a lui, a me no di certo. Vorrei urlargli: “Papà, basta: sono orfano!.

                                                                      

 

Gaia                Eravamo per qualche giorno nella grande casa che nostro padre aveva acquistato in Toscana e, mentre ci mostrava i progetti del giardino, d’improvviso papà chiese a Daniele, che allora aveva nove anni, di arrampicarsi sulla cima altissima di un albero per dimostrare di essere “un uomo”. Credevamo scherzasse,  ma il suo tono si fece sempre più duro finchè Daniele, pallido e tremante, fu costretto con minacce e sarcasmi (sei una donnetta, una checca!) a raggiungere il punto più alto e poi, cosa particolarmente difficile, a scendere a terra. Fu una “cerimonia” orribile, che non posso dimenticare, anche perchè nostro padre girava nel frattempo un filmino che qualche volta, con nostra grande imbarazzo, si compiace ancora di mostrarci.

 

Rachele           Mio padre, ora purtroppo morto, era uno psicologo quanto mai attento al mio sviluppo fisico e intellettuale, per cui ogni fine settimana mi sottoponeva a un gioioso tour de force: gite in montagna, sui laghi, nei musei, mostre floreali, percorsi in bicicletta, maratone e poi castagnate, fiere, mercatini. Spesso più cose insieme, per cui ero stanchissima e invidiavo le mie compagne che, dopo il pranzo domenicale, guardavano la televisione o andavano a dormire.

 

Gianluca         Mio padre era stato un liceale indisciplinato, scavezzacollo e burlone, ma i preti del suo Istituto lo adoravano e tutti lo ricordano ancora come un ragazzo simpaticissimo. Per tutta l’infanzia aveva raccontato a me e a mio fratello le sue gesta, ma non avrei mai creduto che, a un certo punto, avrebbe girato indietro le lancette del tempo ripresentandosi come il Piergiorgio di allora. Tutto è cominciato con la moto, cui ha fatto seguito la barca a vela e, di conseguenza, un nuovo abbigliamento sportivo, i capelli più lunghi sul collo, i Ray-ban, e persino le creme antirughe e abbronzanti nell’armadietto del bagno. Invece di essere noi ragazzi a “rubargli” i maglioni, era lui che si prendeva i nostri. Il mondo alla rovescia! Finchè abbiamo capito il motivo di questa metamorfosi: Mara, una “fidanzata”che ha poco più dei nostri anni.

 

Lorena            Ricordo che il giorno del mio matrimonio l’ho aspettato per venti minuti all’uscita della chiesa. E lui non è venuto. Poi mi sono  guardata intorno e mi sono detta: ”Ci sono ottanta persone che mi vogliono bene e che stanno aspettando che io sia felice”. Ricordo che ho fatto la navata della chiesa piangendo, con mio zio che mi accompagnava e che sapeva che non era commozione la mia, ma dolore. Ricordo che il giorno che è nata mia figlia, mia madre gli ha fatto sapere per vie traverse che era diventato nonno. Ho lasciato detto alla nursery di fargliela vedere la mia bimba (ho pensato: OK, per lui sono morta, ma almeno la mia bimba…) Invece nulla. Il cambiamento è arrivato lì, in quel momento. Avevo sempre detto a mio marito: Il figlio è qualcosa che ti vuol bene incondizionatamente, senza giudicarti”. Invece quando ho avuto tra le braccia la mia bambina, ho scoperto che era il contrario:  ero io che l’avrei amata incondizionatamente, senza giudicarla”. Per questo ancora mi chiedo:  perchè? come si fa a essere così? Mia madre mi risponde: “Madri si nasce, padri si diventa”, ma non sono d’accordo, perchè mio marito è “padre nell’animo”. Ed è per questo che quando vado a casa di amici e lo incontro con la sua nuova donna e la sua figlia nuova di zecca, lui si volta verso il muro mentre io dico alla mia bimba: “Vedi, amore, quello è tuo nonno!”. Come mi sento? Non so se riesco a definirlo. So solo che quando sento le mie amiche che dicono: “Sai, mio padre impazzisce per sua nipote”, mi manca. Anche se ho trent’anni, mi pesa non dire più “papà”. Crudelmente penso sarebbe meglio se fosse morto…

 

            Avete visto come  ogni lettera sia attraversata dal bisogno del padre, da questo appello al padre: quanto più il padre si fa desiderare tanto più apre un vuoto. Una domanda “ma perchè?”     Per  i figli è naturale, è giusto, è indiscutibile che i genitori ci siano. Il genitore che non c’è apre un quesito non solo sul padre, ma anche su di sè: questo perchè i genitori sono dentro di noi, sono presenze interne, non sono solo parenti che stanno fuori, ma dentro: sono parte della nostra identità, per cui la cancellazione di un genitore vuole dire perdita di una parte di sé. Come ho già detto tanti vivono ancora con la ferita aperta, cercano ancora di risanare questa ferita, questa lacerazione (si usano metafore di tipo chirurgico!). Vediamo chi attende e poi vediamo chi ce l’ha fatta.

 

Francesca       Per quanto riguarda il rapporto con gli uomini ho sempre preferito quelli più grandi di me,  perchè erano più indipendenti, più responsabili,  perchè mi davano un senso di protezione, di guida di cui ho sempre sentito l’esigenza, il bisogno. Anche se non mi sono mai impegnata nei miei rapporti: ero del parere che nulla dura nella vita e che a me certe cose non fossero concesse, quindi perchè applicarsi? Ho sempre sofferto della sindrome dell’abbandono e sono troppo abituata alle delusioni.

                                                            

Maria             “Mi chiamo Maria, ma mi piacerebbe che mi chiamaste speranza, perchè? Spero sempre in qualcosa e adesso ancora di più: sto per sposarmi e spero che sia la persona giusta, e che se il buon Dio ci regalerà dei figli, non soffrano come me. Speriamo che vada tutto bene”.

 

Abril               Ho solo voglia che tutta questa storia finisca, che ognuno riceva ciò che merita, avente o no diritti legali ed etici. Perchè noi figli, oppressi da questi lunghi anni, si possa vivere con la speranza di un futuro più sereno, per quelle che saranno le nostre famiglie, i compagni, i figli… Con questa lettera vorrei mandare un appello a giudici, tribunali e avvocati con la richiesta di valutare bene i sentimenti di ogni componente di quella che era una famiglia, senza prolungare per anni (anche a fini di lucro) sentenze e ricorsi che influiranno psicologicamente su persone già sradicate dal significato della parola famiglia.

 

            Questi sono quelli che si trovano ancora nel guado, ce l’hanno fatta un po’ si e un po’ no. Ora vediamo chi considera chiusa la questione, chi dice: ce l’ho fatta!

 

Irene               La cosa più importante, forse la prima vittoria, la prima conquista importante della mia vita: in un momento di totale relax, in un bagno caldo, musica rilassante e tante, tante lacrime, ho detto a voce alta: “Non è colpa mia!”, non è stata una mia sconfitta, mi sono gravata di una responsabilità enorme, sproporzionata alla mia età, che nessuno mi aveva chiesto. Di solito, quando si attua un cambiamento in noi, c’è un momento particolare che fa scattare questo desiderio ed è solo da quell’istante che può iniziare tutto.

 

Anonimo quindicenne            Ora mi accorgo di non aver avuto nell’educazione un’impostazione maschile, infatti sono una persona introversa e talora insicura. Se da una parte questa esperienza è negativa, dall’altra mi renderà più forte, perchè da solo dovrò formarmi un’identità maschile (non che non l’abbia, ma è ancora in formazione). Nonostante sia introverso, riesco a socializzare con i coetanei e spesso divento un punto di riferimento per loro, perchè so ascoltare. Ma non saprò mai come sarei stato se avessi avuto una impostazione maschile. Ciao!

 

Barbara          Spesso mi sento debole e insicura, e questo anche mi fa rabbia, d’altra parte bisogna essere capaci di buttarsi il passato alle spalle per poter guardare avanti con serenità. Sarà così il giorno che mi sposerò. Ho un fidanzato da sei anni, ora conviviamo. Lui vorrebbe sposarmi e io, nonostante abbia dei forti valori morali, ancora non riesco a seguire il mio cuore. Ho anche un gran desiderio di maternità, ma troppa paura. Vorrei essere un po’ più sicura di me stessa per poter trasmettere questa sicurezza al mio bambino, per fargli da guida, per dargli dei valori veri, in questo mondo così difficile. Credo nell’amore eterno, ma so anche che le cose buone e la felicità richiedono costanza, impegno e fatica. Mi piacerebbe avere una bella famiglia, semplice e serena. L’importante nella vita è non perdere di vista il proprio obiettivo. Pian piano anch’io avrò una vita completamente mia.

 

Roberta          Ho visto scene terribili… ho avuto paura, ho passato ore a chiedermi: perchè proprio a me? Ma ora, a ventiquattro anni, grazie all’uomo che diventerà mio marito, grazie a mia madre, allo splendido rapporto che c’è tra noi, alla confidenza e alla stima reciproca, che ci ha permesso di essere amiche e confidenti, ho superato quasi tutto. Ho imparato a contare solo su me stessa, a vivere ogni esperienza con gli occhi della bambina spensierata che non sono mai riuscita

a essere, con l’entusiasmo e la felicità di chi vive, giorno dopo giorno, con la certezza di essere comunque stata fortunata… perchè non sarei mai la persona che sono, con la sensibilità, la capacità introspettiva e la voglia di vivere che possiedo ora, se non avessi avuto determinate esperienze.

 

            E’ la vita, con la sua ricchezza, che parla molto meglio di qualsiasi teoria di qualsiasi modello di riferimento: la vita si cura vivendo. E’ data a tutti una seconda volta, una possibilità di ricominciare: è un partner, è un figlio, è un viaggio, è un’esperienza magari inattesa come quella che si trova in un bagno caldo, dopo di cui si dice: “Non sono stata io!”

            Effettivamente c’è un grumo di responsabilità, di colpa che spesso i figli si portano addosso, soprattutto quando la separazione dei genitori avviene nell’età della ragione. Un tempo si riteneva che il periodo migliore per separarsi fosse quando i figli erano nella scuola elementare, perchè è il periodo più tranquillo di latenza, tra l’infanzia e l’adolescenza;  ma poi si è scoperto che è tutt’altro che così! E’un periodo molto difficile, perchè i ragazzi, proprio perchè sono nell’età della ragione, pretendono di capire tutto: si chiedono perchè, si vogliono dare una spiegazione e molte volte per il grande egocentrismo infantile, poichè hanno un io enorme, finiscono per dare a se stessi la colpa: “i miei genitori si sono separati per colpa mia!” E’ proprio un grumo che è molto difficile da superare.         Le reazioni sono diverse in base all’età dei figli: quando avviene la scena Madre, cioè “quel trauma quella ferita”. Per i bambini molto piccoli la soluzione più frequente è la somatizzazione: ci sono bambini che hanno crisi di asma, che hanno delle forme intestinali, che hanno delle allergie, improvvisamente fanno dire al corpo ciò che la parola, il pensiero non può dire.

Per l’adolescenza è il sentirsi sostituiti, l’adolescente vuole essere lui al centro della vita familiare, è lui il protagonista, è provocatorio il loro atteggiamento se non ci si occupa di loro: si mettono a rischio. Vogliono che i genitori si occupino e si preoccupino di loro. Se i genitori hanno preso il loro posto e sono loro i nuovi adolescenti della famiglia, il figlio si sente emarginato, si sente solo e reagisce alzando il tiro della provocazione, e quindi comincerà ad andare male a scuola, comincerà ad avere degli incidenti col motorino, comincerà a scappare di casa, a non tornare all’ora opportuna e così via.

            Sono tutti modi di chiedere aiuto. La grande capacità del terapeuta, ma anche del genitore e dell’educatore, è quella di leggere nelle espressioni nelle parole, nei comportamenti, negli atteggiamenti una richiesta di aiuto e tradurla in ascolto. I figli non  vogliono una risposta: “si fa così!”, ma vogliono essere ascoltati. Nè noi possiamo conoscerli fino in fondo, non si conosce mai l’altro fino in fondo, è sempre un mistero per noi, e la tendenza dei genitori di sapere tutto dei figli è sentita come minacciosa, come persecutoria: ci vuole rispetto per aree di intimità, di segreto dei nostri figli, ma, attenzione, ci vuole disponibilità nel dire: “Sono qui!” e ci vuole anche la capacità, quando le parole vengono meno, di rispondere con un abbraccio. Comunque non deve mai venire meno, nè dai genitori nè dai figli, la volontà di dire, di parlare.

            Io vorrei concludere questa presentazione con una poesia di Mario Luzi, morto da poco: è il più grande poeta italiano, dopo Montale ci ha lasciato un’ode, che dice molto bene quello che dobbiamo continuare a fare, nella nostra testa e insieme agli altri.

 

 

 

Nominazione

 

Rimani tesa, volontà di dire:

tua resti sempre forte la nominazione delle cose,

delle cose e degli eventi.

Non cedere umiltà e potenza;

muto sotto la specie di grida e vaniloquio

è l’assedio che ti stringe;

muta la subdola intrusione

dell’ insignificanza, dell’indifferenza.

 

Procombono, nella loro nullità umiliante,

non toccate dal desiderio umano muoiono

l’una dopo l’altra, molto proliferando,

le cose, gli avvenimenti:

ma tutti la vita li contiene, tutti!

e procede imperiosamente:

tu sei questo, e questo ti conviene!

 

(Mario Luzi)

 

Condividi, se ti va!