Per una cultura della separazione

    “Per una cultura della separazione”

                              

da uno scritto di Silvia Vegetti Finzi

 

 

Se vogliamo produrre, come auspica il grande neuropsichiatra Giovanni Bollea, una “cultura della separazione”, dobbiamo iniziare proprio da chi quella esperienza l’ha vissuta sulla propria pelle ed è ora in grado di raccontarla.

            Tuttavia, più che la testimonianza dei fatti, ci interessa la loro organizzazione in una narrazione, sorretta dalla ricerca di senso, perchè abbiamo sempre bisogno di pensare che c’è una ragione per vivere. Non intendo il significato della vita in generale, un credo metafisico o religioso; mi riferisco piuttosto alla sensazione che esiste, come insegna James Hillman, un motivo per cui la mia persona, unica ed irripetibile, è al mondo, e che ci sono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere; la sensazione che il mondo in qualche modo vuole che io esista, la sensazione che ciascuno è responsabile di fronte a una immagine, i cui contorni va riempiendo con la propria biografia.

 

            La tradizione filosofica insegna che la nostra inquieta ricerca è alimentata da un quesito fondamentale: “Chi sono io?”. E la risposta, che la psicoanalisi trasforma in terapia, è: “Tu sei la tua storia!”. Di qui l’importanza dell’autobiografia nella costruzione dell’identità e nell’orientamento della propria vita. Ma perchè l’anamnesi abbia corso, bisogna che vi sia un ambiente capace di valorizzarla, darle parola e condividere le emozioni che induce.

            Nel caso di bambini e ragazzi coinvolti nella crisi della loro famiglia questo compito è particolarmente urgente, perchè l’identità ricevuta dai genitori si è incrinata e ora devono ricomporla o delinearne un’altra. Ma, dato che nessuno si identifica da sè, occorrono nuove relazioni, una genitorialità diffusa, che siamo ben lontani dal garantire ai nostri figli in quanto cittadini.

            Nell’epoca dell’anonimia e della indifferenza, la separazione familiare diviene piuttosto una questione privata, da risolvere il più presto possibile, con discrezione.

Iscritta nello svolgersi delle vicende biografiche, nelle trame del destino, la divisione dei genitori si è rivelata, oltre che una emergenza temporanea, un tema di fondo, che permea, nel bene e nel male, l’intero percorso esistenziale dei figli.

Con l’urgenza delle loro emozioni i miei corrispondenti hanno sovvertito le posizioni: da oggetto sono diventati soggetto del discorso, da parlati parlanti, sino a far risuonare una polifonia di voci che, seppur difformi, convergono nella consonanza di una comune sentire.

            Al di là dei contenuti, nelle crepe del discorso, ho udito palpitare una sofferenza che, per intero, non si potrà mai dire. Tuttavia raggiungere l’inesprimibile tenendosi per mano, sentendosi compresi, consente di riconoscere un trauma rimosso che diviene accettabile e vivibile nela consonanza che si stabilisce con l’altro, con gli altri.

Chi è immerso nella sofferenza, solo inabissandosi sino a scorgere le ombre sul fondo può trovare la forza di risalire, non per galleggiare, ma per nuotare ancora.

            Il dolore non è un bene in sè, ma coagula energie che, sottratte alla disperazione,

possono essere riconsegnate alla speranza, recuperate alla creatività di una vita che continua, non semplicemente nel segno della riparazione, bensì nella ri-creazione. Quelle risorse andrebbero invece dissipate se venissero abbandonate alla rimozione e all’oblio, la grande tentazione di chi non sa o non vuole soffrire.

            Tutto però, nella nostra società, congiura per anestetizzare le esperienze, perchè si passi indenni attraverso le prove che la vita ci pone. L’estremo addomesticamento dell’uomo comporta non solo che egli non soffra, ma che neghi perfino l’esistenza della sofferenza.

            I mali dell’anima vengono pertanto medicalizzati e curati con una farmacologia che, eludendo la domanda, mira a cancellare rapidamente il sintomo, lasciando inalterate le cause. Eppure l’inconscio ci avverte che la vita negata permane come energia inutilizzata, determinando una tensione che implode nella mente e nel corpo di chi si sottrae all’esistenza. Non a casi i ricordi più indelebili riguardano le esperienze mancate e gli effetti più nocivi quelle dimenticate.

            E proprio per recuperare la separazione familiare all’espressione delle emozioni, alla consapevolezza del dolore, alla ricerca del senso e alla condivisione del significato, l’ho iscritta nel plurisecolare catalogo delle passioni. Forse l’ultima, in un’epoca contraddistinta dal disincanto e dalla razionalità calcolante.

            Quando la famiglia si frantuma, solo accogliendo la sfida della passione senza indietreggiare, affrontando l’angoscia dei legami spezzati e il timore della solitudine, è possibile realizzare le proprie potenzialità: sentirsi vivi, veri e vitali, capaci di mutare l’esistente e di ricominciare una nuova narrazione di sè. Portato sino in fondo, il mandato passionale rivela la forza e la debolezza, l’autonomia e la dipendenza che contraddistinguono la condizione umana, per cui nessuno può mai prescindere dagli altri e dal rischio che il vivere stesso comporta.

            Dopo, quando la perturbazione generata dalla divisione della famiglia ha compiuto il suo corso, nulla è più come prima, e il passato, divenuto storia, prefigura il futuro e apre alla speranza.

            Mi rendo conto che evocare le passioni è quanto mai inattuale in una cultura dove dominano la fretta, l’efficienza, la superficialità, l’autarchia individualistica degli affetti. Sospetto però che molti stati depressivi altro non siano che passioni negate, cronicizzazioni di tensioni mai giunte a crisi, per cui riaprire il teatro della società e della mente alla loro rappresentazione potrebbe produrre effetti catartici…

            Entrando nelle storie degli altri chi legge è portato a evocare la propria, rilevando convergenze e divergenze, recuperando sensazioni ed emozioni che ritenere perdute, capacità di dialogo ormai sopite. Nel lento procedere della conversazione corale il pensiero si obiettiva, il dolore si distende e le passioni, come il mare cessata la tempesta, lentamente si placano…

            Ma se non si accetta il dolore mentale, se non si rispettano i tempi della sua elaborazione interiore, si ottiene solo un effetto anestetico che non aiuta a guarire, a crescere, a far tesoro dell’esperienza e a trarre dai traumi della vita un plusvalore di sensibilità e di amore, quel piccolo, ma prezioso “supplemento d’anima” che ci fa diversi, che ci cambia in meglio.

 

(Da: Silvia Vegetti Finzi, Quando i genitori si dividono, introduzione. Milano, 2005)

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