Notizie sulla separazione e sul divorzio

 

 

 

Il diritto di visita.

 

Il nostro ordinamento tutela l’interesse del figlio e del genitore non collocatario a mantenere rapporti equilibrati e significativi. A partire dalla riforma che ha interessato nel 2006 il diritto di famiglia, il nostro ordinamento pone come regola generale in caso di separazione dei coniugi con prole quella dell’affidamento condiviso. Al diritto alla bigenitorialità dei figli, infatti, viene oggi riconosciuto un rilievo preminente e l’esercizio in comune della responsabilità genitoriale è considerato lo strumento migliore per garantire ai minori una crescita e un’educazione serene e adeguate.

 

Affidamento condiviso. L’affidamento condiviso, nella pratica, comporta che i figli, anche dopo la rottura del legame matrimoniale dei propri genitori, siano affidati sia alla madre che al padre e mantengano con entrambi dei rapporti equilibrati e significativi. A stabilirlo, più in particolare, è l’articolo 337-ter del codice civile, il quale al primo comma sancisce che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

 

A tal fine, in sede di separazione, le parti o, in caso di mancato accordo, il giudice, dopo aver determinato il genitore con il quale i minori continueranno a convivere, stabiliscono anche i tempi e le modalità di presenza dei figli presso l’altro.

 

Il diritto di visita. Proprio in ciò risiede il diritto di visita: nel diritto del genitore non convivente (il collocatario) di continuare a mantenere dei rapporti significativi con i figli, al quale fa da specchio il diritto di questi ultimi di continuare a mantenere dei rapporti significativi con il primo. A tal fine, come accennato, vengono generalmente stabiliti sia i giorni, che le ore, che gli eventuali periodi di tempo prolungati che i minori potranno trascorrere con il genitore non collocatario. Generalmente, più il calendario è dettagliato, più è probabile che lo stesso venga effettivamente rispettato.

 

Frazionamento delle visite. Sebbene la legge non detti criteri precisi dei quali avvalersi nella concreta determinazione delle modalità con le quali il diritto di visita deve estrinsecarsi, è chiaro che esso deve ispirarsi a principi di coerenza e buon senso allo scopo di tutelare il più possibile il minore. In tal senso, quindi, è in linea di massima opportuno evitare l’eccessivo frazionamento delle visite costringendo il figlio a spostamenti continui da un luogo ad un altro con tutte le conseguenze che ne derivano, specie nel corso dell’anno scolastico.

 

La prassi è pertanto quella di garantire la presenza del minore presso il genitore non convivente magari un solo giorno durante la settimana e privilegiare il prolungamento nei fine settimana o nei periodi di vacanza da scuola. Abitualmente, seppure ciò non costituisca una regola, si prevede che i figli restino con il genitore con il quale non convivano, un pomeriggio durante la settimana ed il fine settimana o due pomeriggi durante la settimana e non il fine settimana, alternativamente.

 

Si dà poi diritto al genitore non collocatario di tenere con sé i minori per periodi prolungati, anche di più settimane, durante le vacanze estive e/o natalizie.

 

In casi molto rari, del tutto eccezionali e che hanno come presupposto imprescindibile la residenza dei genitori nella medesima città, si prevede l’affidamento alternato, con presenza del minore per periodi più lunghi ed analoghi (una settimana, due settimane, un mese e così via) in successione presso il padre e presso la madre.

 

Il mancato esercizio del diritto. Se il genitore non esercita il proprio diritto di visita ripetutamente, il giudice può far discendere da tale suo comportamento l’applicazione eccezionale dell’affidamento esclusivo in capo all’altro. Pur non essendo il diritto in parola un diritto coercibile, infatti, ciò non vuol dire che il suo mancato esercizio non dia luogo ad alcuna conseguenza. Anzi: in casi estremi l’assenteismo del genitore non collocatario può comportare conseguenze anche più pesanti, ovverosia sia la decadenza della responsabilità genitoriale ai sensi dell’articolo 350 del codice di procedura civile, che la responsabilità penale per il reato di cui all’articolo 570 del codice penale, che, infine, l’obbligo al risarcimento del danno.

 

Il diritto in esame, infatti, rappresenta non solo un diritto ma anche un vero e proprio dovere nei confronti dei figli e dell’altro genitore. Ai figli, più in particolare, deve essere garantito il diritto alla bigenitorialità, mentre all’altro genitore la solidarietà negli oneri verso i figli.

 

Conflittualità tra genitore e figlio. In alcuni casi può accadere che tra il figlio e il genitore non convivente sussistano dei rapporti conflittuali. Tale circostanza non è di per sé sufficiente a legittimare l’altro genitore a negare l’esercizio del diritto di visita (v. a tal proposito Cass. n. 50072/2016). Se la situazione è gravemente compromessa, casomai, è possibile affidarsi a uno psicologo che aiuti nella corretta gestione della dinamica familiare.

 

Il diritto di visita dei nonni. A partire dall’entrata in vigore del decreto legislativo numero 154/2013, anche i nonni hanno un diritto rispetto ai nipoti, che, seppure non può essere paragonato al vero e proprio diritto di visita, conosce una tutela effettiva nel nostro ordinamento. Tale provvedimento ha infatti modificato l’articolo 317-bis del codice civile, il quale regolamenta i rapporti dei nipoti con gli ascendenti sancendo che anche i nonni hanno il diritto di mantenere con i minori dei rapporti significativi. A presidio di tale diritto, poi, il predetto articolo afferma che se esso è impedito è possibile ricorrere al giudice di residenza abituale del minore affinché adotti i provvedimenti che, nell’esclusivo interesse del minore, risultino i più idonei.

 

Insomma: mentre in passato ai nonni non era attribuito alcun diritto autonomo rispetto ai nipoti e la giurisprudenza non riconosceva loro alcuna possibilità di intervento nel giudizio di separazione (né principale né ad adiuvandum), oggi è invece riconosciuta ufficialmente la piena importanza che anche gli ascendenti hanno nella crescita e nell’educazione dei minori.

 

Giurisprudenza. Ecco alcune interessanti massime in materia di diritto di visita.

 

Le norme sul diritto dei minori di conservare rapporti significativi con gli ascendenti non attribuiscono a questi ultimi un autonomo diritto di visita, ma introducono un elemento ulteriore di indagine e di valutazione nella scelta e nell’articolazione dei provvedimenti da adottare nella prospettiva di una rafforzata tutela del diritto del minore ad una crescita serena ed equilibrata (Cass. n. 752/2015).

 

L’assolutamente occasionale inosservanza delle modalità – temporali, logistiche, o afferenti altro aspetto del genere – indicate nei provvedimenti giudiziari afferenti la disciplina di affidamento dei figli minori non è idonea, per sé, a concretizzare l’elusione del provvedimento, salvo che si tratti di inosservanza che, per le specifiche peculiari ed invasive sue caratteristiche concrete – oggetto di specifica e non illogica motivazione -, sia ritenuta per sé idonea a determinare l’alterazione di quell’equilibrio e frustrare le legittime pretese del genitore non affidatario (Cass. n. 10701/2010).

 

Il trasferimento di residenza del coniuge separato in una località distante da quella ove risiede l’ex non è circostanza idonea a privarlo dell’idoneità ad avere in affidamento i figli minori. Dinanzi a tale evenienza, pur incidente in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario, il giudice deve quindi valutare solo se è più funzionale all’interesse della prole il collocamento presso la madre o il padre (Cass. n. 9633/2015).

 

Guida Gennaio 2017 Newsletter Giuridica – studiocataldi.it 16 gennaio 2017

 

www.studiocataldi.it/guide_legali/affidamento_dei_figli/il-diritto-di-visita.asp

 

 

 

AFFIDAMENTO CONDIVISO

Due fratellini separati dal T. di Ragusa. La Corte d’Appello di Catania li fa ritornare insieme.

Corte d’appello di Catania sentenza n. 1404, 7 novembre 2014.

Con ordinanza emesse all’udienza del 25 marzo 2014, il Presidente del Tribunale di Ragusa, pronunziando nel giudizio di separazione tra S.A. e S.S., all’esito della comparizione delle parti, ha affidato i due figli minori ad entrambi i genitori, disponendo il collocamento del figlio minore G.S., presso il padre S.S. ed il collocamento del figlio minore E.S., presso la madre S.A.; ha disposto l’obbligo di ciascun genitore di provvedere al mantenimento del figlio collocato presso di sé; ha disposto la ripartizione delle spese straordinarie tra i genitori nella misura del 50% ciascuno; ha disposto che la casa coniugale restasse assegnato allo S.S., il quale ne era proprietario ed in quanto collocatario del figlio G.S.

Avverso detta ordinanza ha proposto reclamo la S.A., lamentando l’erroneità della statuizione relativa sia all’affido condiviso che alla collocazione dei figli, rilevando che la diversa collocazione dei due minori, uno presso la madre e l’altro presso il padre, rendeva ancora più difficile una situazione grave per la serenità degli stessi, quale la separazione dei genitori; inoltre, a detta della reclamante, il figlio minore G.S., collocato presso il padre, si trovava in una situazione di grave pregiudizio per il suo equilibrio psico-fisico, in quanto da un lato era costretto a subire le pressioni del reclamato, dall’altro si vedeva privato della possibilità di vivere con il fratellino e di ricevere le cure della madre. La S.A. ha aggiunto che la situazione era aggravata dal carattere irascibile del reclamato, il quale aveva sempre posto in essere violenze verbali nei confronti della moglie, anche alla presenza dei minori, come emergeva dalla querela contro lo stesso proposto dall’esponente.

Ciò posto, la reclamante ha chiesto che, in riforma dell’ordinanza impugnata, venisse disposto l’affido esclusivo dei minori alla madre, e quindi il collocamento anche del minore G.S. presso di sé, con l’obbligo per lo S.S. di contribuire al mantenimento di entrambi i figli mediante l’erogazione di un assegno mensile.

All’udienza del 23 ottobre 2014, la Corte, acquisito il parere del P.G. che ha concluso per l’accoglimento del reclamo, ha posto la causa in decisione osservando quanto segue.

L’ordinanza reclamata è invece errata in relazione alle statuizioni relative al collocamento dei figli.

Osserva la Corte che la decisione di collocare il figlio più grande presso lo S.S. e quello più piccolo presso la madre sia, senza dubbio, contraria all’interesse dei due minori, i quali, in tal modo, sono stati separati e privati del diritto di ciascuno di coltivare e mantenere il rapporto con il proprio fratellino. Tale pregiudizio appare ancor più grave se si tiene conto del difficile contesto attualmente vissuto dai due bambini, che è quello di una separazione dei genitori connotata, come già detto, da aspra conflittualità tra le parti. Pertanto, in parziale riforma dell’ordinanza impugnata, va disposto che i due figli minori delle parti siano collocati presso la madre, alla quale va in conseguenza assegnata la casa familiare, e ciò al fine di consentire ai minori di preservare e continuare a vivere nel proprio habitat domestico, inteso come centro di affetti e luogo in cui si svolge la vita familiare.

avv. Sugamele            30 dicembre 2014      sentenza          http://www.divorzista.org/sentenza.php?i

 

DIVORZIO: Quando è possibile ottenere il Tfr.

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Secondo l’art. 12-bis legge n. 898 del 1970: “Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”. Esaminiamo questa problematica partendo dalla definizione di trattamento di fine rapporto.
Il trattamento di fine rapporto (TFR) possiamo definirlo come una somma accantonata dal datore di lavoro e che viene corrisposta al lavoratore dipendente nel momento in cui il rapporto di lavoro venga a cessare per qualsiasi motivo. 
Se il lavoratore è un divorziato che versa già all’ex coniuge un assegno divorzile periodico e quest’ultimo coniuge non è convolato a nuove nozze, il Legislatore stabilisce che il lavoratore a cui spetta il TFR è tenuto a corrispondere all’altro coniuge anche una quota di detto TFR. 
Quali i presupposti per ottenere la quota di TFR? I presupposti sono due:
Il coniuge divorziato deve già percepire dall’ex coniuge ex lavoratore un assegno divorzile versato con cadenza periodica. Più precisamente, se il coniuge non ha diritto all’assegno divorzile o lo ha ricevuto in un’unica soluzione, non avrà diritto alla quota del TFR.
Il coniuge interessato alla quota del TFR non deve essere convolato a nuove nozze.
Quando è possibile proporre la domanda di riconoscimento di una quota di TFR? Occorre fare una distinzione:
TFR maturato prima della pronuncia della sentenza di divorzio: in questo caso il diritto a percepire la quota di TFR viene dichiarato in sentenza; 
TFR maturato dopo la sentenza di divorzio: in questo caso, invece, il coniuge interessato alla quota dovrà proporre un’istanza al Tribunale affinché il suo diritto sia accertato e riconosciuto. In tal caso il Tribunale valuterà se, al momento della richiesta, l’ex coniuge richiedente è in possesso dei due presupposti richiesti dalla Legge sul Divorzio, ovvero:
Se percepisce un assegno divorzile con cadenza periodica dall’ex coniuge;
Se non è convolato a nuove nozze. 
Se il diritto alla quota di TFR è maturato prima che venga proposta la domanda di divorzio? In questa ipotesi il diritto a percepire la quota di TFR non spetta in quanto sorto prima che sia stata proposta la domanda di divorzio. Chi scrive ritiene necessario precisare che l’indennità riscossa prima della domanda di divorzio incide esclusivamente sulla situazione economica – reddituale del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno o meglio legittima la proposizione della domanda di modifica delle condizioni di separazione.
Qual è la percentuale della quota di TFR dovuta? La percentuale di quota dovuta è individuata dalla Legge sul Divorzio e corrisponde al 40% dell’indennità totale “riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.
In caso di decesso del coniuge tenuto alla prestazione, l’altro coniuge ha diritto a percepire la quota di TFR? La risposta al quesito è positiva. I giudici di Piazza Cavour hanno stabilito che “l’obbligo dell’ex coniuge […] ha natura patrimoniale, con la conseguenza che, in caso di decesso del coniuge tenuto alla prestazione, esso, se rimasto inadempiuto, rientra nell’asse ereditario, gravando sugli eredi del de cuius” (cfr. sent. n. 4867/2006).
Avv. Luisa Camboni newsletter studio Cataldi 12 settembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/23265-divorzio-quando-e-possibile-ottenere-il-tfr.asp

Mantenimento: l’ex moglie può far sequestrare la casa del marito.

Tribunale di Torino, Ottava Sezione civile, 22 giugno 2016
Separazione e divorzio: sì alla richiesta di sequestro dell’immobile come garanzia del pagamento dell’assegno di mantenimento. In attesa che esca la sentenza di divorzio a stabilire l’importo dell’assegno di mantenimento che l’uomo dovrà versare all’ex moglie, quest’ultima può chiedere il sequestro dei suoi beni immobili a garanzia del futuro pagamento. Ma ciò solo se riesce a dimostrare il serio pericolo che, nel frattempo, i beni del marito possano sparire da un momento all’altro. È quanto ricorda il Tribunale di Torino.
Una crisi economica, un momento di difficoltà lavorativa, la riduzione dello stipendio o l’improvvisa disoccupazione possono mettere in ginocchio un uomo. Ma è proprio questo il campanellino d’allarme che può far rizzare le antenne dell’ex moglie che accampa il diritto a essere mantenuta: e poiché prevenire è meglio che curare, quest’ultima può attivarsi immediatamente affinché il tribunale metta subito sotto sequestro i suoi beni. Ciò onde evitare che la casa, un terreno, ecc. possano essere venduti e, successivamente, i soldi occultati alla donna. Ma attenzione: perché si possa agire in questo senso non c’è bisogno che il giudice abbia già determinato l’ammontare dell’assegno di mantenimento; poiché la sentenza di divorzio potrebbe arrivare anche dopo qualche anno, si può agire anche subito, in corso di processo.
La vicenda. Momento di difficoltà per il marito che perde il lavoro e ammette di avere i conti in rosso. Lui lo dice per spingere al ribasso l’importo del mantenimento che il giudice gli imporrà di versare all’ex moglie. E invece, così facendo, si tira una zappata sui piedi. Possibile? Sì, perché la moglie intravede in ciò il rischio di rimanere senza pagamento del mantenimento e, per questo motivo, è comprensibile e legittima – secondo i giudici – la sua richiesta di sequestro conservativo relativamente ad alcuni immobili di proprietà dell’uomo.
Tutte le volte in cui è fortemente ed obbiettivamente a rischio il pagamento del mantenimento, il soggetto beneficiario di tali somme può richiedere al tribunale il «sequestro conservativo» di uno o più beni immobili del coniuge obbligato al versamento. Ovviamente, i timori (manifestati in questo caso dalla donna) devono avere un concreto fondamento e non devono essere solo il frutto di una paura personale, seppur dettata dall’esperienza e dalla conoscenza del carattere dell’ex. In questo, però, si può sfruttare l’errore processuale della controparte che, per non vedersi condannato al pagamento del mantenimento o per ottenere un importo minimo, piange miseria davanti al giudice, autodenunciando la propria misera situazione economica. Ed è proprio questa ammissione che può servire al precedente consorte per dimostrare il fondato pericolo di perdere il mantenimento.
Nel caso di specie, infatti, l’uomo aveva spiegato di aver subito «una riduzione del lavoro» e quindi «del reddito», tanto da essere stato costretto ad «attivarsi per la riduzione delle spese di locazione», mettendo anche «in vendita la ex casa coniugale». Legittimo, quindi, parlare di «indigenza». Per questo, appare comprensibile il timore della donna per l’eventualità che «possa essere dispersa ogni garanzia patrimoniale a presidio del regolare adempimento futuro dell’obbligo di mantenimento».
Redazione Lpt 18 settembre 2016 0rdinanza
www.laleggepertutti.it/133152_mantenimento-lex-moglie-puo-far-sequestrare-la-casa-del-marito

Mantenimento ridotto se la moglie prende la pensione sociale.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 18092, 14 settembre 2016
Per la Cassazione il giudice deve tenere conto nella determinazione dell’assegno dell’importo percepito, seppur modesto, Deve essere valutata la richiesta di riduzione dell’assegno del mantenimento chiesta dall’ex marito se costui dimostra la percezione di altre fonti di reddito da parte della donna, ad esempio la pensione sociale. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione.
La Corte d’Appello di Bologna aveva determinato in € 250 mensili l’assegno dovuto dal marito alla ex moglie a seguito della cessazione degli effetti civili del matrimonio dagli stessi contratto. L’uomo ha, tuttavia, impugnato il provvedimento con ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, lamentando la violazione dell’art. 384, 2° comma c.p.c., nonché vizio di motivazione, per avere la corte del merito ignorato la statuizione contenuta nella sentenza rescindente, che le imponeva di tener conto nella determinazione della misura dell’assegno divorzile, del reddito pensionistico percepito dalla donna.
La Cassazione aveva, infatti, cassato già una volta la prima sentenza d’appello che aveva fissato la misura dell’assegno divorzile sempre in € 250 mensili, rilevando che il giudice del merito, nel pervenire a tale determinazione, aveva erroneamente ritenuto di non dare rilevanza alla titolarità in capo alla ex della pensione sociale, che, costituendo fonte idonea a sopperire in qualche misura alle esigenze di vita di chi la percepisce, rappresenta un elemento valutabile ai finì dell’accertamento della condizione economica del richiedente l’assegno di divorzio. A seguito del rinvio, tuttavia, con cui si richiedeva alla Corte territoriale di valutare l’incidenza di tale elemento, in precedenza totalmente trascurato, sulla misura dell’assegno, il Collegio si dilungava a riaffermare la ricorrenza dei presupposti di diritto che legittimavano la domanda della donna e a riesaminare tutte le altre circostanze di fatto che, nella specie, dovevano essere considerate ai fini della sua determinazione,
Il giudice ha sostanzialmente ignorato il dictum della Cassazione, limitandosi in conclusione a rilevare che la fissazione della misura dell’assegno in € 250 mensili trovava giustificazione nella valorizzazione degli elementi di cui il primo giudice d’appello aveva già tenuto conto e “non era inficiata” dalla titolarità della pensione sociale. La sentenza ha dunque confermato la decisione cassata sulla scorta del medesimo percorso motivazionale, senza chiarire perché la percezione da parte della richiedente di un reddito mensile fisso (sia pure modesto) non influiva in alcun modo sulla determinazione del quantum dovuto dal marito.
Per questo il ricorso deve essere accolto e la causa va rinviata, per un nuovo esame, alla Corte d’appello in diversa composizione, che regolerà anche le spese.
Lucia Izzo studio Cataldi 17 settembre 2016 Sentenza
www.studiocataldi.it/articoli/23406-mantenimento-ridotto-se-la-moglie-prende-la-pensione-sociale.asp

Assistenza familiare: dall’obbligo coniugale al reato.

Nei casi di separazione/divorzio sono frequenti le denunce o le querele per violazione degli obblighi di assistenza familiare (articolo 570 del codice penale, richiamato anche dall’articolo 3 della legge 8 febbraio 2006 n. 54 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”) per il mancato versamento dell’assegno di mantenimento oppure, nei casi di inadempimento dei compiti familiari, è ricorrente la presenza degli assistenti sociali. L’assistenza familiare, però, non è e non può essere circoscritta solo ad un assegno di mantenimento o a posteriori in caso di mancanza di essa; è molto più ampia e significativa e per delinearla ci si può far aiutare da esperti in varie materie.
Nell’articolo 143 del codice civile “Doveri reciproci dei coniugi”, nella stesura del 1942, si leggeva: “Il matrimonio impone ai coniugi l’obbligo reciproco della coabitazione, della fedeltà e dell’assistenza”. Dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975, l’articolo 143 del codice civile “Diritti e doveri reciproci dei coniugi” al comma 2 prevede: “Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”. Non si tratta solo di un’innovazione terminologica ma sostanziale. Innanzitutto il matrimonio non impone uno stile di vita preconfezionata come una camicia di forza, ma dal matrimonio deriva (letteralmente “derivare” significa “far defluire le acque”, quindi simboleggia bene la vita matrimoniale) la costruzione della vita comune in cui diritti e doveri reciproci rappresentano anche degli step in divenire; questa altresì la ratio del fortemente innovativo articolo 144 del codice civile “Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia”, in luogo del vecchio art. 144 “potestà maritale”. L’assistenza coniugale è stata qualificata come “morale” prima e “materiale” dopo. Mentre nella disciplina previgente occupava l’ultimo posto, in quella attuale è stata posta tra la fedeltà e la collaborazione perché è il collante della coppia (assistenza da intendersi comprensiva della sfera sessuale, ovvero come volontà bilaterale o mutuo consenso alla prestazione sessuale o soddisfazione sessuale; aspetto controverso in parte della dottrina e della giurisprudenza).
La locuzione “assistenza morale e materiale” richiama un’altra, “comunione spirituale e materiale” (articolo 1 n. 898/1970 cosiddetta legge sul divorzio): il matrimonio è basato sulla comunione interpersonale e intrapersonale, di cui il rapporto sessuale rappresenta solo un aspetto da intendersi più come intesa sessuale (comunicare e comprendersi su tempi, modalità, desideri e necessità di ognuno e della coppia) e non meramente come consumazione dell’atto sessuale. Solo se si riesce a cogliere la dimensione personale, interpersonale e intrapersonale del matrimonio, ci si impegna a portarlo avanti e comunque, tranne i casi estremi in cui è intollerabile la prosecuzione della convivenza o si reca grave pregiudizio all’educazione della prole (articolo 151 del codice civile).
“Un buon matrimonio è quello in cui ciascuno dei due nomina l’altro custode della sua solitudine” (il poeta Rainer Maria Rilke). Il matrimonio non è l’unione di due solitudini ma l’unione nella consolazione. Anche raggiungere ciò è farsi reciproca assistenza morale e materiale.
“[…] stare insieme per tanti anni dovrebbe eliminare dal rapporto il superfluo, quindi anche le parole inutili. Alla ricerca del silenzio: tacere, una conquista” (lo scrittore Antonio Petrocelli). Una delle più belle forme di complicità e intimità è ascoltarsi e immedesimarsi nel reciproco silenzio: finanche questo può essere uno degli aspetti dell’obbligo reciproco all’assistenza morale dei coniugi.
“Due amanti silenziosi somigliano a due arpe con lo stesso diapason e pronte a confondere le voci in una divina armonia” (lo scrittore francese Jean Baptiste Alphonse Karr). La coppia è un progetto di vita, un progetto in salita: si dovrebbe dare pure questo significato all’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale. Si noti che il riformatore del 1975, a differenza del codificatore del 1942, ha scritto “obbligo a” e non “obbligo di”, perché è una continua tensione e propensione.
Assistenza nei confronti dei figli. Ben più rilevanti sono i doveri e i diritti verso i figli tanto che sono previsti nella Costituzione. I genitori (e non uno solo) hanno il diritto e dovere (nonché obbligo) di mantenere, istruire e educare i figli (articolo 29 della Costituzione). Sono necessari tutti e tre gli aspetti e non solo “mantenere”, che non è semplicemente “tenere” con beni materiali né “tenere per sé” i figli in maniera morbosa o altro, come spesso accade. “Mantenere” significa “tenere per mano”, come si fa fin quando i bambini non imparano a camminare da soli e così deve essere nell’accompagnarli verso la loro vita che è l’unica cui loro appartengono. Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, si chiede e interroga: “Come sarà possibile per l’individuo porsi problemi etici o sviluppare progetti creativi, se sarà immerso in ambienti economicamente e culturalmente degradati, o se non avrà beneficiato delle cure, dell’affetto e dell’assistenza cui ogni bambino ha diritto?”. È la stessa sottolineatura fatta dal pedagogista e sociologo Pino Pellegrino: “Oggi, è un dramma! Perché? Perché oggi va di moda la pedagogia dolce e morbida. Si cerca di evitare al figlio ogni sofferenza, ogni dolore, ogni difficoltà. Ebbene – non ci stanchiamo di sottolinearlo – non c’è decisione più folle! Non c’è tradimento più folle”. Ecco perché la legge 10 dicembre 2012, n. 219 “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”, inserendo l’art. 315 bis nel codice civile, ha precisato per i genitori il “dovere di assistenza morale” nei confronti dei figli: assistenza è dare presenza, principi e non dare tutto ai figli o sostituirsi a loro.
Già il poeta latino Decimo Giunio Giovenale scriveva: “Il bambino ha diritto al più grande rispetto”. “Rispetto” significa etimologicamente “guardare indietro, guardare di nuovo” e comporta, pertanto, attenzione (da “ad tendere”, porre mente, porre cura) e assistenza (da “ad sistere”, stare presso qualcuno per aiutarlo, soccorrerlo o altrimenti giovargli). Dando rispetto si educa al rispetto, quel rispetto di cui si parla nell’articolo 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e che conclude l’enucleazione degli obiettivi educativi disponendo di “inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale”. Solo se il bambino avrà ricevuto rispetto potrà, poi, portarlo verso gli altri e tutto quello che lo circonda, altrimenti coverà e riverserà aggressività, fenomeno purtroppo crescente. L’aggressività è un lato della natura animale che serve anche ad “aggredire” gli ostacoli, ma se non ben convogliata diventa violenza, prepotenza o autolesionismo. L’amore è sempre la migliore cura di ogni cosa.
Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro afferma: “Benché iperprotetti, molti bambini e ragazzi vivono in un ambiente allarmato, sospettoso, impaurito, tutti sentimenti che, talvolta, sono in buona parte trasmessi proprio dalle persone più care. Dovrebbe essere ben noto, ma forse non lo è, che paura e odio sono incompatibili con l’educazione e che non meno dannose sono la volgarità, la superficialità e l’indifferenza diffuse nei nostri ambienti di vita in forma endemica quando nelle relazioni non virtuali con gli uomini e le cose mancano fiducia e amore. Se fossimo davvero convinti di questo, dovremmo trarre la conclusione che i migliori risultati educativi si ottengono con la fiducia e con l’amore, se queste due parole non fossero così generiche e abusate. Se proviamo a dare a «fiducia» e «amore» qualche contenuto, potremmo forse ricavare qualche utile suggerimento per la pratica educativa”. Amore e fiducia devono far parte del contenuto positivo dell’obbligo di assistenza morale dei genitori nei confronti dei figli, obbligo introdotto nell’articolo 147 del codice civile dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219” (estendendo quanto previsto nell’articolo 315 bis).
Ada Fonzi precisa: “Se, per esempio, si tratta di comunicare che il papà e la mamma si separano, è molto importante sottolineare non soltanto che l’amore dei genitori nei loro confronti è e resterà immutato, ma che resterà tale anche il bene che c’è stato tra gli stessi genitori. Si può desiderare di staccarsi, magari provvisoriamente, l’uno dall’altro e avere maturato idee e progetti diversi, ma si può e si deve non cancellare il patrimonio accumulato e continuare ad avere affetto, stima e considerazione reciproci. L’amore, certo, è un’altra cosa, ma il volersi bene è altrettanto importante ed educativo. I bambini queste cose le capiscono più di quello che noi pensiamo. Ciò vuol dire bandire i rancori e accordarsi con semplicità e larghezza di vedute circa gli obblighi che competono all’uno e all’altro genitore, offrendo senza riserve a chi si è allontanato da casa l’opportunità di trascorrere il maggior tempo possibile con i figli. Genitori non si nasce, ma quando lo si diventa lo si è per sempre”. L’obbligo di assistenza morale dei genitori nei confronti dei figli deve essere anche e soprattutto rispettato durante le fasi di separazione/divorzio dei coniugi accompagnando i figli a comprendere e vivere la metamorfosi della rete familiare. Se i genitori non sono in grado di farlo da soli devono farsi accompagnare da esperti in relazioni di aiuto, come la mediazione familiare.
Fulvio Scaparro aggiunge: “L’amore non è debolezza né permissivismo. L’amore è anche dire «no» quando un «sì» potrebbe esporre a pericolo l’oggetto stesso del nostro amore. E il «no» va, nei limiti del possibile, spiegato: non è un segno di potere, bensì di responsabilità. Ammettiamo che, in determinate circostanze, non ci sia tempo per spiegare i nostri «no» e che si debba andare per le spicce e purtroppo, eccezionalmente, anche con un minimo di costrizione fisica. Appena superata l’emergenza, il «no» però andrà sempre spiegato. E le ragioni dei figli dovranno essere ascoltate con la massima attenzione”. Saper dire no e saper spiegare il no ai propri figli dovrebbe essere uno dei contenuti del dovere di assistenza morale dei genitori nei confronti dei figli.
Ancora dalle parole di Ada Fonzi si ricava che: “Interessanti ricerche condotte dall’università di Yale [2014] ci dicono che a meno di un anno i bambini sono in grado di distinguere un comportamento giusto da uno ingiusto, dimostrando addirittura empatia per chi soffre e disapprovazione per chi si comporta male. Pare che i bambini siano «morali» per natura e che sia la cultura che in qualche modo s’incarichi di mettere a tacere questa loro capacità. Cosa succede nel corso della vita se molto spesso l’empatia, la socialità, che sembravano qualità innate, scompaiono sconfitte dall’indifferenza, dal pregiudizio, dall’ostilità nei confronti di chi è diverso da noi o appartiene a un gruppo che non è il nostro? Possibile che la civiltà, la cultura, anziché promuovere le «buone» capacità innate, siano riuscite a soffocarle?”. Naturalezza, uno degli elementi che i genitori devono salvaguardare e coltivare nei figli, anche alla luce dell’articolo 147 del codice civile: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315-bis” (come novellato dal decreto legislativo 154/2013). Diversamente dalla formulazione previgente dell’art. 147, nel testo attuale si parla solo di “figli” e non più di “prole” e di “inclinazioni naturali” al plurale: i genitori devono riflettere su questo.
Assistenza verso tutta la famiglia. “Il semplice, innocente e insospettabile «mi dispiace» che, se detto a sproposito, fa imbestialire come poche altre cose. L’espressione indica che provi dispiacere per la condizione triste o disagiata in cui mi trovo. Mi sei al fianco, forse mi aiuterai. Ma io mi aspettavo altro. Mi aspettavo che tu dicessi «Scusami». Il che è tutt’altra minestra. «Scusami» significa che tu sai di essere la causa vera del mio malessere. Eri di fronte a un bivio: potevi fare l’azione buona e hai preferito quella cattiva. Ne ho patito io. «Scusami», dunque, presuppone un’assunzione di responsabilità; «mi dispiace», un nascondersi dietro quella che qualcuno definisce un’«etica delle intenzioni» (che tradotto banalmente significa: «Ciò che ho fatto l’ho fatto in modo in modo inconsapevole, quindi, se tu ne hai sofferto è “colpa” tua non mia…»)” (dal pensiero del bioeticista Paolo Marino Cattorini). Curare la comunicazione familiare è, inoltre, uno dei contenuti concreti dell’astratto dovere di assistenza morale. Perché, come ha affermato il sociologo Zygmunt Bauman, “il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione”. Occorre un impegno quotidiano nel trovare un equilibrio nella comunicazione familiare, nel non dire una parola di troppo o nel non fare un passo in meno.
La storica e saggista Lucetta Scaraffia scrive: “Le famiglie sono piene di imperfezioni. La vita in comune è difficile, e sempre ogni vita umana ha bisogno di uno sguardo misericordioso”. Etimologicamente “misericordia” significa “avere pietà del cuore” e giuridicamente si traduce nel dovere di assistenza. Se si tornasse all’origine di ogni cosa, all’origine della vita si riscoprirebbe la comune origine di ognuno vivendo in una maniera più civile e senza dover ricorrere frequentemente alla tutela penalistica. E per questo occorre fermarsi di più, sedersi l’uno accanto all’altro (proprio come si ricava di assistere, dal latino “adsistere”, composto da “ad” e “sistere”, stare, fermarsi presso, essere presente) e ascoltarsi: tornare a fare famiglia, essere l’uno al seguito dell’altro, l’uno al servizio dell’altro.
Un anziano uomo cammina un passo avanti alla moglie portando la busta del pane: un’immagine concreta del farsi assistenza. Guida e fonte d’amore e di vita: ciò che dovrebbe essere un uomo per la propria compagna lungo la stessa strada. Il matrimonio non è sancire una formalità, ma stabilire un impegno nella quotidianità per il tempo che verrà e in quel che sarà.
Margherita Marzario Diritto civile e commerciale 13 settembre 2016 –
http://dirittodifamiglia.diritto.it/docs/38597-assistenza-familiare-dall-obbligo-coniugale-al-reato

 

 

Minori affidati sempre alla madre

 

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, Sentenza n. 18087, 14 settembre 2016.
I minori in età scolare, oltre che prescolare, devono essere collocati in via prevalente presso la madre dopo la separazione anche se l’ex marito ha mostrato ottime doti genitoriali. E ciò anche se la donna a un certo punto si trasferisce a centinaia di chilometri dall’ex casa familiare: il criterio che privilegia la mamma, infatti, può essere superato soltanto se l’interessata si rivela sfornita di adeguate capacità per accudire i figli. Così la Cassazione. Niente da fare per il padre, che pure aveva ottenuto dal tribunale il collocamento presso di sé dei minori. 
L’ex moglie vince un concorso e ottiene una sede in Friuli Venezia Giulia, lontanissima dalla casa abruzzese dell’ex coppia. Non è in discussione l’affido condiviso né conta chi fra i coniugi abbia violato di più o per primo gli accordi raggiunti in sede di consensuale: la priorità è garantire il futuro benessere dei minori, morale e materiale. La scelta della sede di lavoro non può di per sé essere attribuita alla mera volontà di allontanare i bambini dall’ex partner: è espressione di un diritto garantito dalla Costituzione, anche se incide in modo negativo sulla quotidianità dei rapporti dei figli con il genitore non collocatario. 
Dario Ferrara Italia Oggi 15 settembre 2016
www.italiaoggi.it/giornali/preview_giornali.asp?id=2115306&codiciTestate=&sez=hgiornali
www.oua.it/cassazione-minori-affidati-sempre-alla-madre-italia-oggi

Carcere e 60mila euro di provvisionale al padre che si disinteressa totalmente del figlio
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 50075, 25 novembre 2016
Per la Cassazione la sanzione monstre è giustificata dal persistente mancato versamento del mantenimento e dalla minore età del figlio. Carcere e non pena pecuniaria per il padre che si è disinteressato completamente del figlio senza mai versare l’assegno in favore del minore. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un padre confermando la condanna comminatagli dalla Corte d’Appello a sette mesi di reclusione, 600 euro di multa e risarcimento del danno in favore della parte civile, con provvisionale di 60mila euro.
Il ricorrente, imputato del reato di cui all’art. 570 (Violazione degli obblighi di assistenza familiare), è accusato di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore, non avendo mai corrisposto la somma mensile stabilite per il suo mantenimento, né l’importo a titolo di contributo per le spese sostenute dalla madre del ragazzo, così privando lo stesso anche della dovuta assistenza morale “non essendosi mai interessato a lui e avendolo visto solo due volte nel corso del primo anno di vita”.
Il ricorso, tuttavia, è solo una pedissequa ripetizione delle identiche doglianze poste a base dell’impugnazione formalizzata innanzi alla Corte territoriale e dalla stessa motivatamente disattese. Conferma l’attendibilità della parola della teste (la ex) costituitasi parte civile, i giudici di Cassazione precisano che essendo stato il reato ascritto in danno di soggetto minorenne, lo stato di bisogno di quest’ultimo è in re ipsa, salva la sussistenza di elementi concreti idonei a consentire il superamento della relativa presunzione. 
Ne discende che la deposizione della madre del minore, circa il ricorso all’aiuto di terzi per far fronte alle esigenze del figlio, lungi dall’essere insufficiente, come sostiene il ricorrente, altro non fa che corroborare ulteriormente la presunzione anzidetta.
Quanto alla mancata sostituzione della pena detentiva inflitta con la corrispondente pena pecuniaria, si precisa che, ai fini della sostituzione, “il giudice ricorre ai criteri previsti dall’art. 133 c.p.; tuttavia, ciò non implica che egli debba prendere in esame tutti i parametri contemplati nella suddetta previsione, potendo la sia discrezionalità essere esercitata motivando sugli aspetti ritenuti decisivi in proposito, quali l’inefficacia della sanzione”. Neppure trova spazio la censura relativa alla quantificazione della provvisionale, poiché la giurisprudenza di Cassazione rammenta che “il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva, non è impugnabile per Cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento”. 
Lucia Izzo News studio Cataldi 28 novembre 2016
Sentenza www.studiocataldi.it/articoli/24161-carcere-e-60mila-euro-di-provvisionale-al-padre-che-si-disinteressa-totalmente-del-figlio.asp

 

Separazioni meno conflittuali, bambini più garantiti
Una riflessione sul diritto alla co-genitorialità in caso di divorzio che rilancia la strada dell’affido materialmente condiviso. Anche i dati Istat mostrano l’inefficacia della legge n. 54/2006.
Perdere i genitori. Una tra le prospettive peggiori che possano toccare a bambini e ragazzi. Sempre più spesso non è solo la morte che allontana le madri e, soprattutto, i padri dai loro figli. Divorzi e separazioni conflittuali hanno frequentemente l’effetto di determinare una conflagrazione a catena che rende impossibile il diritto-dovere della genitorialità. Non si tratta di casi eccezionali. Soltanto in Europa ci sono dieci milioni di minori che vivono la tragedia di una separazione non “dei” genitori, ma “dai” genitore, o almeno da uno di loro.
In Italia, i figli coinvolti nelle disgregazione familiari sono oltre un milione, solo nell’ultimo decennio. Un evento doloroso, che si incide profondamente nel cuore di bambini e ragazzi. Una svolta esistenziale che anche dopo 10, 20 o 30 anni dall’episodio determina danni psico-biologici gravi. Le ricerche sul tema sono numerose. Negli Usa la correlazione tra divorzio conflittuale e salute dei bambini coinvolti è accertata fin dagli anni Ottanta. Anche in Europa tanti studi, dopo gli anni Novanta, sono giunti alla medesima conclusione.
Non era mai stata realizzata però una ricerca che prendesse in esame le conseguenze sui figli in base alla “qualità” della separazione. Tanto più lacerante risulta l’addio, tanto più la sofferenza dei figli sfocia in situazione patologiche. L’autore dello studio, pubblicato qualche giorno fa sulla rivista Health Psicology Open, è il pediatra italiano Vittorio Vezzetti, presidente dell’associazione di genitori separati “Figli per sempre” e membro del Comitato Scientifico dell’International Council on Shared Parenting che si batte per l’introduzione dell’affido “materialmente” condiviso.
Una differenza sostanziale rispetto all’affido “nominalmente” condiviso come esiste in Italia. Proprio l’inefficacia della nostra legge, la n. 54 del 2006, rende particolarmente urgente riflettere sui risultati a cui è approdato Vezzetti. Sia per valutare possibili interventi preventivi sul piano sociale e culturale che possano contribuire a contenere la crescita delle separazioni. Sia per sollecitare modifiche a una legge che, come confermato dall’Istat nell’ultimo dossier sul tema, ha lasciato di fatto invariati, o addirittura ha finito per peggiorare, gli indicatori determinati dalla scelta dell’affido condiviso all’italiana. Quello cioè che non modifica i comportamenti educativi dei genitori e non stabilisce accordi preventivi sulle modalità con cui occuparsi in modo congiunto e condiviso dei figli. L’affido “materialmente” condiviso, definito appunto shared parenting, prevede infatti che in sede giudiziaria venga stabilito e sottoscritto un protocollo dettagliato su come andranno gestiti tempi e scelte, spese e altri dettagli riguardanti la giornata del minore che vive la separazione dei genitori.
La differenza tra le due impostazioni è sostanziale. Nei Paesi europei dove l’affido “materialmente” condiviso è entrato nella legislazione – esemplare il caso svedese – la condizioni di salute dei figli sono nettamente migliori.
Lo studio di Vezzetti è partito da questa constatazione. «La premessa d’obbligo – spiega – è che fino a pochi anni fa la ricerca in questa area si è concentrata sugli effetti del divorzio “tout court”, considerando i figli del divorzio come un gruppo omogeneo e senza valutare la coesistenza di altre situazioni avverse». L’errore collegato è stato di attribuire alla semplice separazione conseguenze legate invece alla perdita genitoriale o al conflitto familiare di lunga durata. «Tutte quelle situazioni – prosegue l’esperto – sono assai meno frequenti in caso di affido materialmente condiviso». La ricerca elenca nel dettaglio le conseguenze che possono verificarsi nei minori in caso di conflitto familiare persistente. «Inimmaginabili fino a poco tempo fa e assai gravi. Si sono accertati – osserva Vezzetti – disturbi ormonali, del sistema immunitario, danni a livello cromosomico per usura della parte protettiva terminale, aumento di fattori come le citochine che hanno influenza negativa sullo sviluppo di tumori e malattie infiammatorie croniche. Si è poi constatata una influenza negativa sulla statura: nelle femmine solo per causa della morte paterna, nei maschi sia in caso di morte che di perdita susseguente a rottura familiare».
Al contrario, quando l’affido è “materialmente” condiviso e si sono stabiliti tempi pari o equipollenti per quanto riguarda la presenza dei genitori con i figli, non solo si riduce il conflitto ma si apre la strada ad un maggior benessere generale dei minori. «Certo – ammette Vezzetti – al momento si tratta di dati statistici e non si riesce a definire scientificamente un rapporto causale diretto». Ma il principio di precauzione dovrebbe indurre a prendere in esame questi risultati con tutta l’attenzione dovuta al futuro dei nostri figli.

Diritto al co-genitorialità. Italia fanalino di coda. Bambini più garantiti in Svezia, Belgio e Danimarca
In Svezia oltre il 30% dei bambini possono contare sul diritto alla co-genitorialità in caso di divorzio. Questo diritto, nella ricerca realizzata dal pediatra Vittorio Vezzetti “Nuovi approcci al divorzio con i bambini: un problema di salute pubblica”, viene misurato sulla base del tempo effettivamente trascorso con i genitori. Più la suddivisione è equa, sulla base di un protocollo educativo condiviso da papà e mamma e sottoscritto davanti al giudice, più il punteggio è elevato. Al secondo posto, nella classifica che tutela questi diritti, c’è il Belgio (oltre 20%). Al terzo Francia, Danimarca e Spagna, con differenze tra il meno 20% e il più 8%. Sotto al 3% – fanalino di coda – troviamo l’Italia in compagnia di Grecia, Portogallo, Romania, Slovacchia e Austria. I dati sono in stretta correlazione alla presenza nei vari Paesi di leggi sull’affido “materialmente” condiviso. Dove esistono buone leggi (Svezia, Belgio, Danimarca), meno conflittuale è il divorzio e meno conseguenze si registrano sui figli.
Affido condiviso, legge da rivedere. La legge 54 del 2006 sull’affido condiviso? Un fallimento. Lo spiega il rapporto “Matrimoni, separazioni e divorzi 2015” che l’Istat ha diffuso lo scorso 14 novembre 2016. 
www.istat.it/it/files/2016/11/matrimoni-separazioni-divorzi-2015.pdf?title=Matrimoni%2C+separazioni+e+divorzi+-+14%2Fnov%2F2016+-+Testo+integrale.pdf
«A distanza di dieci anni dall’entrata in vigore della legge è possibile verificare in che misura la sua introduzione abbia modificato alcune caratteristiche delle sentenze emesse dai tribunali». Il dossier prende in esame alcuni parametri. Nel 2005 (prima cioè dell’introduzione della legge) i figli affidati esclusivamente alla madre erano l’80,7%. Nel 2015 sono diventati solo 8,9%. Un successo, sembrerebbe, se non si dicesse che la nostra legge prevede il cosiddetto “genitore collocatario”, quello cioè dove il minore stabilisce la sua residenza. Ebbene, in quasi il 90% dei casi, questo genitore è sempre la madre. Nel 2005 la casa coniugale veniva assegnata alle moglie nel 57,4% dei casi.
Nel 2015 la percentuale è addirittura aumentata, toccando il 60% dei casi. Pressoché identica anche la quota di separazioni con assegno ai figli corrisposto dal padre. Erano il 95,4% nel 2005. E il 94,1% nel 2015. Non è cambiata neppure la quota media dell’assegno. Ammontava a 483 euro dieci anni fa e – probabilmente complice la crisi e il progressivo impoverimento dei padri separati – 485,43 euro nel 2015. Numeri significativi da cui si evince che «ad accezione della drastica riduzione della proporzione di figli minori affidati in modo esclusivo alle madri, tutti gli altri indicatori non hanno subito modificazioni di rilievo». Inutile sottolineare che questa situazione dipende in larga parte da un’applicazione discrezionale della legge. I giudici, in altri termini, hanno continuato a comportarsi come se la legge non esistesse.
«Ci si attendeva – osserva ancora il dossier Istat – una diminuzione della quota di separazioni in cui la casa coniugale è assegnata alle mogli e invece si registra un lieve aumento». Va anche detto che, con il Decreto legge 132 del 2014 sugli accordi extragiudiziali, una parte della procedura amministrativa, relativa soprattutto alle separazioni consensuali, vede coinvolti direttamente o indirettamente anche gli ufficiali di Stato civile. Le osservazioni sulla sostanziale inefficacia della legge n. 54 del 2006 rimangono comunque inalterate. Si tratta di una norma che non ha inciso né sull’atteggiamento culturale dei magistrati, né sul benessere dei figli coinvolti nella separazione. E non ha ridotto in alcun modo neppure il tasso di conflittualità tra gli ex coniugi che, come più volte ribadito, è determinato in buona parte dalle divergenze legate all’assegno di mantenimento
Luciano Moia Avvenire 10 dicembre 2016
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/separazione-famiglia

Le conseguenze dell’addebito nella separazione tra coniugi

Una breve analisi dei principali risvolti patrimoniali della pronuncia di addebito in sede giudiziale.
Nel giudizio di separazione tra coniugi l’addebito in capo ad uno di essi richiede un’apposita domanda di parte tendente a dimostrare che la moglie o il marito, avendo assunto una condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimonio, abbia determinato la crisi della coppia.
Giova sinteticamente ricordare che, per fondare una dichiarazione di addebito occorre la prova di un effettivo collegamento tra la trasgressione ai doveri matrimoniali da parte del coniuge e la intollerabile prosecuzione della convivenza. In assenza di tale nesso causale il giudice non potrà pronunciarsi sull’addebito e sarà altresì irrilevante ogni condotta assunta dal coniuge successivamente al verificarsi della crisi coniugale.
La Cassazione, infatti, nel ribadire detto criterio di connessione, esclude l’addebito della separazione addirittura in casi di acclarata infedeltà coniugale, qualora si accerti che quest’ultima non rappresenti la causa diretta della crisi matrimoniale. Pertanto, malgrado l’addebito della separazione possa apparire una conseguenza quasi naturale nelle ipotesi di tradimento, per la giurisprudenza ciò non è sempre così scontato.
Nello specifico, infatti, per la declaratoria di addebito nel giudizio di separazione, il giudice conduce un’indagine sull’intollerabilità della convivenza effettuando una valutazione di carattere globale e comparando le condotte assunte da entrambi i coniugi. In altri termini, ogni opportuno riscontro o valutazione giudiziaria non potrà fondarsi esclusivamente sul comportamento adottato dal coniuge “trasgressore”, poiché soltanto dalla predetta complessiva valutazione potrà evincersi la rilevanza ed il peso reale che le rispettive condotte hanno avuto nella crisi coniugale. In ragione di quanto sopra, il presunto tradimento non assume alcuna rilevanza ai fini dell’addebito della separazione, laddove il coniuge “colpevole” dimostri in giudizio che la propria infedeltà sia intervenuta in realtà quando la situazione di coppia si palesava già del tutto compromessa.
Senza pretesa di esaustività si osserva, inoltre, che le conseguenze di una pronuncia di addebito coinvolgono in particolar modo l’ambito patrimoniale del coniuge tacciato di “colpevolezza”. L’effetto primario dell’addebito infatti è certamente rinvenibile nella perdita, da parte del coniuge che lo subisce, del diritto all’assegno di mantenimento eventualmente riconosciutogli in sede di separazione. In altri termini, quand’anche il coniuge responsabile della crisi coniugale manifesti una condizione economica tale da giustificare il riconoscimento dell’assegno soprindicato, esso non ne avrà comunque diritto. Ne deriva pertanto che il riconoscimento all’assistenza materiale scaturente dal matrimonio si conserverà soltanto in favore del coniuge cui non è addebitabile la separazione. Quest’ultimo infatti, a seguito di un accertamento sulla propria situazione reddituale, potrà giovarsi dell’assegno di mantenimento garantendosi lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.
Ciononostante è importante chiarire che l’eventuale declaratoria di addebito in capo al coniuge trasgressore non impedirà a quest’ultimo, ricorrendone i presupposti di legge, di godere del diritto agli “alimenti” nei confronti dell’altro coniuge. Vale a dire che l’assegno “alimentare” dovrà comunque essere versato a prescindere dalla responsabilità in ordine alla separazione, stante la differente funzione degli “alimenti” rispetto a quella dell’assegno di “mantenimento”. Giova infatti ricordare che, mentre l’assegno di mantenimento persegue lo scopo di garantire, al coniuge che ne beneficia, il godimento e la conservazione delle medesime condizioni economiche esistenti durante il corso del matrimonio, l’assegno alimentare viene riconosciuto invece al fine di consentire al coniuge economicamente più debole i mezzi necessari e sufficienti per far fronte alle esigenze economiche legate al soddisfacimento dei propri bisogni primari.
È di palmare evidenza quindi come il diritto agli alimenti abbia quale suo imprescindibile presupposto l’acclarata impossibilità, da parte del coniuge interessato, di poter provvedere autonomamente al proprio sostentamento economico in quando sprovvisto di un reddito personale. La prestazione alimentare potrà poi essere adempiuta mediante un assegno da corrispondersi periodicamente o finanche accogliendo e mantenendo nella propria abitazione colui che ne beneficia. Ad ogni modo l’autorità giudiziaria potrà, a seconda delle circostanze, determinare modalità e tempi della somministrazione.
Di notevole rilevanza sono poi gli effetti della pronuncia di addebito della separazione in ambito successorio. Il coniuge separato con addebito perde infatti i diritti di successione inerenti allo stato coniugale, conservando tuttavia soltanto il diritto ad un assegno vitalizio qualora, all’apertura della successione dell’altro coniuge, egli già godeva dell’assegno alimentare a carico di quest’ultimo. Preme al riguardo aggiungere che pur in assenza di un formale provvedimento di riconoscimento del diritto agli alimenti, l’assegno indicato potrebbe essere giudizialmente disposto in favore del coniuge bisognoso qualora, all’apertura della successione, egli palesi un oggettivo stato di bisogno.
Benché non pacificamente si sostenga in dottrina e giurisprudenza la sua natura alimentare, il descritto vitalizio di cui gode il coniuge superstite con addebito ha chiaramente natura assistenziale e successoria. Esso costituisce in particolare un legato ex lege da commisurarsi sia in relazione alle sostanze ereditarie sia al numero degli eredi ed il cui adempimento grava su questi ultimi in proporzione alle rispettive quote ereditarie. Infine preme ricordare che il suo ammontare non potrà eccedere l’importo dell’assegno alimentare percepito prima della morte del coniuge alimentante.
Ulteriore effetto dell’addebito della separazione lo si rinviene in tema di prestazioni previdenziali riconosciute al coniuge defunto, quali ad esempio il diritto alla pensione di reversibilità ed altre indennità previste dalla legge. Mentre infatti al coniuge separato “senza addebito” spetterà certamente il diritto a tali prestazioni previdenziali, il coniuge separato “con addebito” conserverà ugualmente il diritto a percepire dette corresponsioni soltanto sul presupposto dell’effettivo godimento, in vita dell’altro coniuge, dell’assegno alimentare.
Infine, preme sottolineare che l’eventuale pronuncia di addebito non condiziona in alcun modo l’adozione di provvedimenti da parte dell’autorità giudiziaria sull’affidamento dei figli. L’interesse morale e materiale di questi ultimi è infatti del tutto disancorato dall’accertamento sulla responsabilità in ordine alla separazione e alla consequenziale declaratoria di addebito. Tuttavia qualora si dimostri che l’atteggiamento del coniuge colpevole possa esercitare una qualche influenza negativa sull’educazione e sulla morale dei figli, la pronuncia di addebito non sarebbe sgombra da interferenze rispetto ai provvedimenti di affidamento dei figli stessi. Per approfondimenti vai alla guida legale “L’addebito della separazione”
www.studiocataldi.it/guide_legali/separazione/addebito-separazione.asp
Avv. Pino Cupito Newsletter giuridica studio Cataldi.it 9 dicembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/24262-le-conseguenze-dell-addebito-nella-separazione-tra-coniugi.asp

 

 

Se l’ex moglie convive devo versare il mantenimento?

La convivenza stabile con un nuovo compagno fa cessare il diritto al mantenimento anche se quest’ultimo è disoccupato o se l’unione dovesse interrompersi. Se l’ex moglie, destinataria dell’assegno di mantenimento, versatole mensilmente dal marito, va a convivere con un’altra persona e questa convivenza diventa stabile e duratura, perde il diritto a ricevere detto mantenimento. È quanto ricorda la Cassazione in una recente sentenza [Cass. Ord. n. 25528/16, 13.12.2016]. La nascita di una nuova famiglia di fatto implica onòri e òneri, e tra questi ultimi c’è anche l’obbligo di reciproca assistenza materiale e morale: conseguentemente non possono ricadere sull’ex coniuge le spese per sostenere il nuovo nucleo familiare. Il «rischio economico» che la nascita di una nuova famiglia – anche se di fatto, basata cioè sulla convivenza e non sul matrimonio – grava sulla coppia e non su terzi estranei, anche se uniti da precedenti rapporti.

L’ex moglie perde l’assegno di mantenimento anche se il nuovo compagno è disoccupato o non ha le risorse economiche sufficienti a mantenerla. Inoltre – al contrario di quanto un tempo riteneva la giurisprudenza della Suprema Corte – una volta venuto meno il diritto al mantenimento dell’ex moglie, se la convivenza tra i due viene meno, il diritto all’assegno di mantenimento non “resuscita”: in altre parole, cessata l’unione di fatto, l’ex moglie non può più rivolgersi al precedente marito e obbligarlo a versarle nuovamente l’assegno.

Assegno di mantenimento e assegno divorzile: che differenza c’è? Benché la prassi comune usi la parola «assegno di mantenimento» in modo generico e onnicomprensivo, in verità bisogna distinguere tra due diverse situazioni:

  • Se la coppia è solo separata, si parla di assegno di mantenimento;

  • Se la coppia è, invece, anche divorziata, si parla di assegno divorzile.

Come noto, l’assegno di mantenimento o divorzile non è una sanzione, né una forma di risarcimento. Si tratta solo del dovere, che grava sul coniuge con reddito superiore, di consentire all’altro di mantenere (almeno tendenzialmente) lo stesso tenore di vita di cui godeva quando ancora era sposata. Quindi, in buona sostanza, si tratta di una redistribuzione delle ricchezze all’interno della coppia, anche dopo la cessazione dell’unione, al fine di garantire una sostanziale uguaglianza tra i due.

Quando si perde il diritto al mantenimento? Il diritto al mantenimento (o all’assegno divorzile si perde quando):

  • Cessa o si riduce notevolmente la disparità di reddito tra i due ex coniugi; il che può ad esempio avvenire quando:

  1. Il coniuge che versa l’assegno perde il lavoro o vede ridurre drasticamente i propri guadagni;

  2. Il coniuge che versa l’assegno deve affrontare spese rilevanti per la propria salute, con diminuzione della capacità lavorativa;

  3. Il coniuge che riceve il mantenimento inizia a lavorare o riceve un aumento di stipendio tale da elidere la disparità economica con l’ex;

  • Il coniuge beneficiario del mantenimento inizia una nuova convivenza stabile: come detto in apertura, l’instaurazione, da parte del coniuge divorziato, di una nuova famiglia, anche se «di fatto», cancella ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, pertanto, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno di mantenimento o divorzile a carico dell’altro coniuge.

Affinché la nuova convivenza faccia perdere il diritto all’assegno divorzile o di mantenimento è necessario che essa sia stabile e duratura, non occasionale o dettata da necessità differenti rispetto a quella di costituire una nuova famiglia di fatto (è il caso, ad esempio, del compagno che ospiti, a casa propria, la compagna solo per dividere le spese di affitto). Si deve, insomma, verificare una comunione materiale e spirituale, dove i conviventi si occupino l’uno dell’altro, al pari di marito e moglie. La famiglia infatti – al di là se fondata sul matrimonio o sulla convivenza – è una relazione stabile e duratura, basata su una reciproca assistenza morale e materiale, su doveri di fedeltà, coabitazione, sostegno, contribuzione e solidarietà. Doveri che, nei fatti, si manifestano ad esempio nel pagare indistintamente le spese per il ménage domestico, la spesa, le utenze e l’affitto, prendersi cura dell’appartamento e della sua manutenzione, aiutare il compagno/la compagna e crescere l’eventuale prole. Insomma, tutto ciò che comunemente fanno – o dovrebbero fare – marito e moglie.

Poiché la decisione di formare una nuova famiglia, anche se solo «di fatto» è una scelta esistenziale, libera e consapevole, tale scelta implica anche l’assunzione del rischio economico che da ciò deriva se i due conviventi non hanno le disponibilità per mantenersi. Il che fa cessare ogni precedente rapporto con l’altro coniuge, il quale non è più tenuto a versare l’assegno di mantenimento o, se già divorziato, l’assegno divorzile. Tale diritto all’assegno non va in stand-by (o, per usare un’espressione usata dagli avvocati, «non entra in stato di quiescenza», né si può considerare semplicemente «sospeso», ma) si perde per sempre, anche qualora il nuovo nucleo familiare dovesse sfaldarsi e l’ex beneficiario del mantenimento dovesse tornare a vivere da solo. In quel caso non potrebbe tornare alla carica, nei confronti del precedente coniuge, e chiedergli di mettere nuovamente mano al portafogli.

Del resto chi avvia una nuova convivenza trae dei notevoli benefici economici dalla separazione, potendo condividere con il nuovo convivente le spese di ordinaria amministrazione (vitto, alloggio, e relativi oneri), cosa che invece non può fare il precedente coniuge rimasto solo, il quale deve affrontare, oltre alle spese di ordinaria amministrazione, anche le spese relative al mantenimento del coniuge separato (e convivente) e degli eventuali figli comuni.

Addio mantenimento se si va a convivere. Questo principio è ormai stabile nella giurisprudenza della Cassazione che ha ormai consolidato la sua interpretazione a favore della cessazione definitiva dell’assegno di mantenimento o divorzile in caso di costituzione di nuova famiglia di fatto [Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 19345, 29 settembre2016;

www.sentenze-cassazione.com/wp-content/uploads/2016/09/Cassazione-Civile-VI-Sezione-1-Sentenza-n.-19345-2016.pdf

n. 2466/2016; n. 17856/2015; n. 6855/2015]: un’interpretazione che costituisce il superamento (da lunghi lustri da più parti auspicato) di una interpretazione della normativa sul divorzio in chiave chiaramente antimaschile.

Come detto, in passato, la giurisprudenza era invece orientata nel senso di ritenere che la famiglia di fatto comportasse solo la provvisoria sospensione, e non la definitiva estinzione, del diritto al mantenimento, che tornava pertanto a rivivere una volta cessata la convivenza [Cass. Sent. n. 4539/2014; n. 25845/2913; n. 17195/2011 che evidenzia che in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto; la conseguente cessazione del diritto all’assegno divorzile, a carico dell’altro coniuge, non è però definitiva, potendo la nuova convivenza – nella specie, uno stabile modello di vita in comune, con la nascita di due figli ed il trasferimento del nuovo nucleo in una abitazione messa a disposizione dal convivente – anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all’assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza].

Se sono presenti dei figli. Se la coppia ha avuto anche figli, la cessazione dell’obbligo di mantenimento riguarda solo l’ex coniugi ma non i minori o maggiorenni non autosufficienti, che manterranno il diritto ad essere ugualmente mantenuti, anche se ad essi provvede il/la nuovo/a compagno/a del genitore con cui convivono.

Come fare a cancellare l’assegno di mantenimento? Ma cosa deve fare, materialmente, l’uomo che, sapendo che l’ex moglie è andata a convivere con un’altra persona, non voglia più versarle il mantenimento? Innanzitutto deve procurarsi le prove di ciò che afferma, eventualmente con testimoni o con documenti che attestino il cambio di residenza, il pagamento delle utenze o altri elementi anche sintomatici di una vita in comunione. In secondo luogo deve, con un avvocato, recarsi in tribunale e instaurare una causa per la revisione delle condizioni di separazione o divorzio; non può, infatti, decidere autonomamente di sospendere il versamento, diversamente rischiando un decreto ingiuntivo ed, eventualmente, gli estremi del procedimento penale per violazione degli obblighi di mantenimento.

Redazione Lpt 6 gennaio 2017

13 sentenzewww.laleggepertutti.it/145330_se-lex-moglie-convive-devo-versare-il-mantenimento

 

Affido esclusivo dei figli: solo se nell’interesse del minore

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 27, 3 gennaio 2017

La Cassazione ritorna su un tema molto dibattuto riaffermando la regola dell’affidamento condiviso e i limiti di quello esclusivo ai casi di estrema necessità. La Corte pone nuovamente l’attenzione su un argomento molto dibattuto negli ultimi anni. Come ormai noto la normativa in vigore in materia di minori prevede la regola dell’affidamento condiviso, limitando i casi di affidamento esclusivo solo in casi di estrema necessità.

Il ricorso per il quale è intervenuta la sentenza oggetto di considerazione riguarda l’impugnazione di pronuncia della Corte di Appello di Brescia del 2015 con la quale veniva rigettato l’Appello avverso sentenza del Tribunale di Bergamo che, giudicando in materia di separazione, aveva affidato in via esclusiva al padre i due figli minori della coppia, fondando l’esigenza di tale tipologia di affido sulla circostanza che la particolare conflittualità esistente nel rapporto tra i coniugi avrebbe ostacolato la loro capacità di assumere scelte comuni e, quindi, un affidamento condiviso avrebbe creato una situazione di stallo nelle decisioni riguardanti i figli.

La Corte di Cassazione ha ritenuto assolutamente inconsistente la motivazione argomentata dal Giudice di primo di grado ed avallata dalla Corte di Appello che aveva rigettato l’impugnazione. Ritiene, difatti la Corte di Cassazione che l’affidamento esclusivo non garantisce assolutamente una minore litigiosità tra i genitori, né tutela l’interesse del figlio. E’ necessario, invece, procedere ad una valutazione esclusivamente diretta a verifica l’idoneità del genitore a svolgere le sue funzioni al fine di poter, eventualmente, prevedere un affidamento esclusivo, solo ed esclusivamente quando questa manchi del tutto.

Gli Ermellini confermano l’ormai consolidata giurisprudenza secondo la quale l’affidamento condiviso dei figli minori ad entrambi i genitori costituisce il regime ordinario di affidamento e, tale regime, non è impedito dalla conflittualità dei genitori, a meno che tale regime non sia pregiudizievole negli interessi dei figli, alterando e ponendo in serio pericolo il loro equilibrio e il loro sviluppo psico-fisico. Nel caso di specie, invece, alcun pregiudizio era potenzialmente arrecato e nessuna indagine diretta a verificarlo era stata effettuata, limitandosi il Giudice di Primo Grado a valutare semplicemente la conflittualità dei coniugi nell’ambito del giudizio di separazione e giustificando la tipologia di affido in ragione della necessità di assicurazione una rapidità di decisione riguardanti la prole, che sarebbe venuta meno a causa della stessa (nello stesso senso anche Cassazione n.1777 e n. 5108 del 2012, n.24526 del 2010 e 16593 del 2008).

Avv. Concetta Spatola Studio Cataldi 5 gennaio 2017 Sentenza

www.studiocataldi.it/articoli/24610-affido-esclusivo-dei-figli-solo-se-nell-interesse-del-minore.asp

L’ex marito lo chiede alla moglie e critica la valutazione basata sulla durata del matrimonio

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 275, 10 gennaio 2017

Presupposto per il riconoscimento dell’assegno di divorzio è che il richiedente non abbia redditi adeguati e non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive. Il criterio relativo alla durata del matrimonio attiene al momento successivo della quantificazione. E ciò, sia che l’inadeguatezza dei redditi venga correlata al tenore di vita goduto durante la convivenza o più in generale in costanza di matrimonio (criterio considerato, da larga parte della dottrina e da una parte della giurisprudenza, inadeguato e astratto – in quanto, in genere, la separazione e il successivo divorzio incidono negativamente sul tenore di vita di entrambi i coniugi – ed eccessivamente sanzionatorio per l’obbligato) sia che vengano in considerazioni altri criteri (ad es. un assegno che permetta una autosufficienza economica all’avente diritto, magari con alcune variabili collegate alla sua posizione economico-sociale, oltre che alle possibilità dell’obbligato): com’è noto, l’art. 5 L. Divorzio non fornisce definizione alcuna dell”‘inadeguatezza” dei redditi, attribuendone il contenuto all’opera della giurisprudenza.

Il criterio della durata del matrimonio appartiene al momento successivo della quantificazione dell’assegno, dopo che sia stata accertata l’inadeguatezza dei redditi del richiedente.

Nel caso di specie ha errato – secondo la Suprema Corte – la Corte di merito nell’escludere il diritto del ricorrente all’assegno divorzile, fondando esclusivamente la propria argomentazione sulla durata del matrimonio – poco più di due anni dalla celebrazione alla separazione di fatto con l’uscita dalla casa coniugale della moglie – non considerando peraltro il periodo di separazione assai più lungo. Né si potrebbero richiamare alcune sentenze di questa Corte (tra le altre Cass. N. 6164 del 2015) che ammettono l’esclusione dell’assegno in casi eccezionali di divorzio brevissimo (pochi giorni o pochi mesi di convivenza), ma ribadiscono sempre che il criterio della durata del matrimonio non attiene al diritto all’assegno, ma alla sua quantificazione.

Avv. Renato D’Isa 12 gennaio 2017

https://renatodisa.com/2017/01/12/corte-di-cassazione-sezione-i-civile-sentenza-10-gennaio-2017-n-275

 

Se la moglie resta contumace in sede di divorzio, può poi chiedere l’assegno?

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 683, 12 gennaio 2017

La richiesta di assegno divorzile è ammissibile anche dopo l’avvenuta statuizione sulle condizioni del divorzio. La Cassazione ribadisce le condizioni per le quali può essere concesso.

L’assegno divorzile è riconoscibile anche quando non sia stato chiesto nel giudizio che ha deciso il divorzio per la contumacia dell’attrice.

Ma è necessario dedurre e dimostrare le circostanze sopravvenute rispetto alla statuizione resa dal giudice di merito e concernenti l’indisponibilità di mezzi adeguati al proprio sostentamento e l’impossibilità oggettiva di procurarseli.

avv. Sugamele 13 gennaio 2017 www.divorzista.org/sentenza.php?id=13149

Arriva anche in Italia il coordinatore genitoriale

Tribunale di Milano 29 luglio 2016

Famiglia disgregata – Affidamento condiviso – Difficoltà insuperabili dei genitori nell’adottare scelte nell’interesse dei figli – Inserimento di un coordinatore genitoriale – Sussiste

L’inserimento della figura di un coordinatore genitoriale risponde all’esigenza di individuare un terzo nella famiglia disgregata che possa svolgere un ruolo vicario e di supporto dei genitori sia nella gestione della genitorialità condivisa sia nella individuazioni di soluzioni che, in attuazione del quadro genitoriale configurato dagli accordi o dal tribunale, possa coadiuvare aggiustamenti nelle tempistiche di frequentazione della minore con il genitore non collocatario, oltre che nella attuazione delle scelte, sia di carattere medico sia di carattere scolastico ed educativo- che i genitori dovranno in futuro assumere. Il coordinatore genitoriale, figura nuova nel panorama giuridico italiano ma ben nota in altri ordinamenti (popolare negli USA e species del più ampio genus di ADR – Alternative Dispute Resolution) – è soggetto qualificato, cui viene dunque demandato il compito di prevenire il ricorso a provvedimenti giudiziali in punto di responsabilità genitoriale. È una figura che viene individuata con lo specifico compito di facilitare la risoluzione delle dispute tra genitori altamente conflittuali e con lo scopo di ridurre l’eccessivo ricorso ad azioni giudiziarie. Il coordinatore genitoriale non ha poteri processuali poiché suo scopo è quello di risolvere il conflitto al di fuori del processo: in altri termini a ridurre al massimo il conflitto stesso.

Dott. Giuseppe Buffone il Caso 12 gennaio 2017 testo integrale

www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fmi.php?id_cont=16504.php

www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/16504.pdf

 

Accertamento giudiziale della paternità: l’obbligo di mantenimento scatta dalla nascita

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 25735, 14 dicembre 2016.

L’obbligo del mantenimento del figlio sorge – in caso di accertamento giudiziale della paternità – dalla nascita e non dalla domanda. Correttamente, pertanto, in esito al giudizio promosso dalla madre nella qualità di genitrice del minore per l’accertamento della paternità e a seguito di espressa domanda in tale senso, il giudice condanna il convenuto, soccombente, non solo al pagamento di un assegno mensile di mantenimento, con decorrenza dalla domanda, oltre interessi legali e rivalutazione annuale, ma anche al pagamento di una ulteriore somma pari all’ammontare degli assegni dovuti per il periodo intercorso tra la nascita e la proposizione della domanda (nella specie: otto mesi), senza che il convenuto possa opporre che tale ultimo importo gli è stato addebitato a titolo di rimborso alla attrice, in proprio, delle spese anticipate per il mantenimento del minore.

Renato D’Isa 10 gennaio 2017

 

https://renatodisa.com/2017/01/10/corte-di-cassazione-sezione-i-civile-sentenza-14-dicembre-2016-n-25735

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Accertamento giudiziale della paternità: l’obbligo di mantenimento scatta dalla nascita

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Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 25735, 14 dicembre 2016.

L’obbligo del mantenimento del figlio sorge – in caso di accertamento giudiziale della paternità – dalla nascita e non dalla domanda. Correttamente, pertanto, in esito al giudizio promosso dalla madre nella qualità di genitrice del minore per l’accertamento della paternità e a seguito di espressa domanda in tale senso, il giudice condanna il convenuto, soccombente, non solo al pagamento di un assegno mensile di mantenimento, con decorrenza dalla domanda, oltre interessi legali e rivalutazione annuale, ma anche al pagamento di una ulteriore somma pari all’ammontare degli assegni dovuti per il periodo intercorso tra la nascita e la proposizione della domanda (nella specie: otto mesi), senza che il convenuto possa opporre che tale ultimo importo gli è stato addebitato a titolo di rimborso alla attrice, in proprio, delle spese anticipate per il mantenimento del minore.

 

Marco Giordano, presidente di Progetto Famiglia e portavoce del Tavolo Nazionale Affido 09 gennaio 2017

www.vita.it/it/article/2017/01/09/affidi-di-lunga-durata-quattro-raccomandazioni-per-fare-buoni-progetti/142077

Le conseguenze dell’addebito nella separazione tra coniugi
Una breve analisi dei principali risvolti patrimoniali della pronuncia di addebito in sede giudiziale.
Nel giudizio di separazione tra coniugi l’addebito in capo ad uno di essi richiede un’apposita domanda di parte tendente a dimostrare che la moglie o il marito, avendo assunto una condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimonio, abbia determinato la crisi della coppia.
Giova sinteticamente ricordare che, per fondare una dichiarazione di addebito occorre la prova di un effettivo collegamento tra la trasgressione ai doveri matrimoniali da parte del coniuge e la intollerabile prosecuzione della convivenza. In assenza di tale nesso causale il giudice non potrà pronunciarsi sull’addebito e sarà altresì irrilevante ogni condotta assunta dal coniuge successivamente al verificarsi della crisi coniugale.
La Cassazione, infatti, nel ribadire detto criterio di connessione, esclude l’addebito della separazione addirittura in casi di acclarata infedeltà coniugale, qualora si accerti che quest’ultima non rappresenti la causa diretta della crisi matrimoniale. Pertanto, malgrado l’addebito della separazione possa apparire una conseguenza quasi naturale nelle ipotesi di tradimento, per la giurisprudenza ciò non è sempre così scontato.
Nello specifico, infatti, per la declaratoria di addebito nel giudizio di separazione, il giudice conduce un’indagine sull’intollerabilità della convivenza effettuando una valutazione di carattere globale e comparando le condotte assunte da entrambi i coniugi. In altri termini, ogni opportuno riscontro o valutazione giudiziaria non potrà fondarsi esclusivamente sul comportamento adottato dal coniuge “trasgressore”, poiché soltanto dalla predetta complessiva valutazione potrà evincersi la rilevanza ed il peso reale che le rispettive condotte hanno avuto nella crisi coniugale. In ragione di quanto sopra, il presunto tradimento non assume alcuna rilevanza ai fini dell’addebito della separazione, laddove il coniuge “colpevole” dimostri in giudizio che la propria infedeltà sia intervenuta in realtà quando la situazione di coppia si palesava già del tutto compromessa.
Senza pretesa di esaustività si osserva, inoltre, che le conseguenze di una pronuncia di addebito coinvolgono in particolar modo l’ambito patrimoniale del coniuge tacciato di “colpevolezza”. L’effetto primario dell’addebito infatti è certamente rinvenibile nella perdita, da parte del coniuge che lo subisce, del diritto all’assegno di mantenimento eventualmente riconosciutogli in sede di separazione. In altri termini, quand’anche il coniuge responsabile della crisi coniugale manifesti una condizione economica tale da giustificare il riconoscimento dell’assegno soprindicato, esso non ne avrà comunque diritto. Ne deriva pertanto che il riconoscimento all’assistenza materiale scaturente dal matrimonio si conserverà soltanto in favore del coniuge cui non è addebitabile la separazione. Quest’ultimo infatti, a seguito di un accertamento sulla propria situazione reddituale, potrà giovarsi dell’assegno di mantenimento garantendosi lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.
Ciononostante è importante chiarire che l’eventuale declaratoria di addebito in capo al coniuge trasgressore non impedirà a quest’ultimo, ricorrendone i presupposti di legge, di godere del diritto agli “alimenti” nei confronti dell’altro coniuge. Vale a dire che l’assegno “alimentare” dovrà comunque essere versato a prescindere dalla responsabilità in ordine alla separazione, stante la differente funzione degli “alimenti” rispetto a quella dell’assegno di “mantenimento”. Giova infatti ricordare che, mentre l’assegno di mantenimento persegue lo scopo di garantire, al coniuge che ne beneficia, il godimento e la conservazione delle medesime condizioni economiche esistenti durante il corso del matrimonio, l’assegno alimentare viene riconosciuto invece al fine di consentire al coniuge economicamente più debole i mezzi necessari e sufficienti per far fronte alle esigenze economiche legate al soddisfacimento dei propri bisogni primari.
È di palmare evidenza quindi come il diritto agli alimenti abbia quale suo imprescindibile presupposto l’acclarata impossibilità, da parte del coniuge interessato, di poter provvedere autonomamente al proprio sostentamento economico in quando sprovvisto di un reddito personale. La prestazione alimentare potrà poi essere adempiuta mediante un assegno da corrispondersi periodicamente o finanche accogliendo e mantenendo nella propria abitazione colui che ne beneficia. Ad ogni modo l’autorità giudiziaria potrà, a seconda delle circostanze, determinare modalità e tempi della somministrazione.
Di notevole rilevanza sono poi gli effetti della pronuncia di addebito della separazione in ambito successorio. Il coniuge separato con addebito perde infatti i diritti di successione inerenti allo stato coniugale, conservando tuttavia soltanto il diritto ad un assegno vitalizio qualora, all’apertura della successione dell’altro coniuge, egli già godeva dell’assegno alimentare a carico di quest’ultimo. Preme al riguardo aggiungere che pur in assenza di un formale provvedimento di riconoscimento del diritto agli alimenti, l’assegno indicato potrebbe essere giudizialmente disposto in favore del coniuge bisognoso qualora, all’apertura della successione, egli palesi un oggettivo stato di bisogno.
Benché non pacificamente si sostenga in dottrina e giurisprudenza la sua natura alimentare, il descritto vitalizio di cui gode il coniuge superstite con addebito ha chiaramente natura assistenziale e successoria. Esso costituisce in particolare un legato ex lege da commisurarsi sia in relazione alle sostanze ereditarie sia al numero degli eredi ed il cui adempimento grava su questi ultimi in proporzione alle rispettive quote ereditarie. Infine preme ricordare che il suo ammontare non potrà eccedere l’importo dell’assegno alimentare percepito prima della morte del coniuge alimentante.
Ulteriore effetto dell’addebito della separazione lo si rinviene in tema di prestazioni previdenziali riconosciute al coniuge defunto, quali ad esempio il diritto alla pensione di reversibilità ed altre indennità previste dalla legge. Mentre infatti al coniuge separato “senza addebito” spetterà certamente il diritto a tali prestazioni previdenziali, il coniuge separato “con addebito” conserverà ugualmente il diritto a percepire dette corresponsioni soltanto sul presupposto dell’effettivo godimento, in vita dell’altro coniuge, dell’assegno alimentare.
Infine, preme sottolineare che l’eventuale pronuncia di addebito non condiziona in alcun modo l’adozione di provvedimenti da parte dell’autorità giudiziaria sull’affidamento dei figli. L’interesse morale e materiale di questi ultimi è infatti del tutto disancorato dall’accertamento sulla responsabilità in ordine alla separazione e alla consequenziale declaratoria di addebito. Tuttavia qualora si dimostri che l’atteggiamento del coniuge colpevole possa esercitare una qualche influenza negativa sull’educazione e sulla morale dei figli, la pronuncia di addebito non sarebbe sgombra da interferenze rispetto ai provvedimenti di affidamento dei figli stessi. Per approfondimenti vai alla guida legale “L’addebito della separazione”
www.studiocataldi.it/guide_legali/separazione/addebito-separazione.asp
Avv. Pino Cupito Newsletter giuridica studio Cataldi.it 9 dicembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/2

 

Separati, ma senza litigare le regole d’oro dei tribunali.

 

Quando l’amore nella coppia finisce, quel che resta di una famiglia con figli è spesso solo un libro aperto nelle mani di un giudice. È una sentenza a stabilire chi, tra mamma e papà, avrà la custodia dei bambini. In quale casa dovranno stare e per quanto tempo. Ma anche quanto costerà continuare a mantenere i figli, pur vivendo separati. Ed è soprattutto su questo, su chi deve mettere mano al portafogli e perché, che si accendono in aula le liti più violente. Per ridurre scontri e discussioni, giudici e avvocati indicano la strada dell’accordo con un “decalogo” sulle spese che i genitori in fase di separazione e divorzio dovranno affrontare non vivendo più sotto lo stesso tetto. «È un argomento che crea forti tensioni tra ex coniugi e la speranza è che con queste linee guida, il più analitiche possibile, si possano recuperare uniformità di giudizio, punti fermi e serenità», commenta il presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi.

 

Gli avvocati sorvegliano, e si improvvisano psicologi. Ma quando dal tribunale si torna a casa, il lutto è spesso ancora da elaborare. Ed è in quel momento che le piccole decisioni dei tempi di pace, diventano strumento di ricatto, pregiudicando per mesi o per anni la serenità dei ragazzi. Ma la soluzione adesso arriva da una sede autorevole: nasce nelle aule di tribunale il vademecum da non trasgredire per la serenità di figli e genitori. È la strada intrapresa, da un paio d’anni a questa parte nelle principali città, da Roma a Milano, da Verona a Firenze. L’ultimo esempio è proprio Torino, dove magistrati e legali hanno siglato un accordo che ha visto un lungo lavoro d’intesa tra il presidente della sezione famiglia Cesare Castellani e la coordinatrice per i minori dell’Ordine, l’avvocato Assunta Confente.

 

Un protocollo che definisce cosa rientri nell’assegno di mantenimento e quali siano invece le spese “extra”. E quali di queste richiedano un preventivo accordo tra i genitori. «Hai deciso di portare il bambino a scuola di calcio? Sai che preferisco che impari a suonare il pianoforte. Io per il calcio non metto un centesimo». E il cane? Quel cucciolo scelto tutti insieme, alla vigilia di un Natale: «Non sta in casa mia, e te ne occupi tu». Anche la gita scolastica può diventare motivo di lite, così come la spesa per la mensa. Il denaro è lo specchietto per le allodole dei genitori in lotta. I figli soffrono, c’è chi assiste sbigottito, qualcuno arriva ad ammalarsi.

 

Nessun margine di dubbio sussiste su pranzi e cene, bollette, vestiti, medicine e il necessario per la scuola: queste voci rientrano appieno nel cosiddetto “assegno di mantenimento”. I protocolli d’intesa siglati a livello locale intervengono, invece, sugli “extra”. Come l’iscrizione scolastica (cui l’ex coniuge è obbligato a contribuire se la scuola è pubblica, mentre la scelta di una privata va concordata in anticipo). Altri esempi sono le spese per la baby sitter o la gita, che a Torino è autorizzata in automatico solo se non prevede il pernottamento. Anche le spese per gli animali domestici sono “extra”, ma contribuirvi è obbligatorio; le lezioni private, invece, devono essere scelte in due.

 

È in questo elenco che le città si differenziano, rispecchiando le rispettive abitudini. Se a Roma si affronta insieme la scelta della minicar, a Torino non ha bisogno di autorizzazione l’acquisto dell’abbonamento ai mezzi pubblici. Se il figlio deve prendere la patente, entrambi i genitori mettono mano al portafogli senza discutere, ma al momento di comprare il motorino la decisione (e la spesa) vanno condivise.

 

«Importante è aver stabilito il principio del silenzio assenso — spiega Giulia Facchini, avvocato matrimonialista di Torino — In passato i genitori che non volevano contribuire alle spese si negavano, lasciando semplicemente passare il tempo». Oggi, invece, l’accordo prevede che dopo dieci giorni dalla comunicazione, in assenza di risposta, la spesa extra sia di fatto autorizzata.

 

Ottavia Giustetti e Sarah Martinenghi        La repubblica 23 marzo 2016

 

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/03/23/separati-ma-senza-litigare-le-regole-doro-dei-tribunali25.html?ref=search

 

 

 

 

 

Tradimento e infedeltà apparente: quando sono motivo di addebito?

 

            L’adulterio, anche se provato, non sempre giustifica l’addebito della separazione nei confronti del coniuge fedifrago: una guida completa sui casi in cui ciò è possibile.

            È a tutti noto che dal matrimonio scaturiscono doveri reciproci per marito e moglie. Parliamo del dovere di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione nell’interesse della famiglia e di coabitazione [Art. 143 cod. civ.].

Se, tuttavia, è di certo più facile trovare chi tra i coniugi possa accettare soluzioni di compromesso, come ad esempio quella di vivere lontano dall’altro (magari per ragioni di lavoro), ben poche sarebbero invece le coppie disposte a “chiudere un occhio” davanti al tradimento del/la consorte.

La fedeltà rappresenta, infatti, l’essenza stessa del matrimonio e si basa sul principio dell’esclusività tra uomo e donna che, prima ancora che un principio morale (e religioso), rappresenta un principio giuridico: la nostra legge, infatti, non permette che uno stesso soggetto possa, al contempo, essere unito in matrimonio a più persone contemporaneamente [L’art. 86 cod. civ. stabilisce che “Non può contrarre matrimonio chi è vincolato da un matrimonio precedente”].

            Se è vero, infatti, che l’adulterio non costituisce più – come un tempo – un’autonoma figura di reato [La Corte Costituzionale con le sentt. n.126/1968 e n.147/1969 ha dichiarato illegittimi gli artt. 559 e 560 cod. pen. che rispettivamente prevedevano il reato di “adulterio” a carico della moglie (che comportava la pena della reclusione fino a un anno) e il reato di “concubinato” a carico del marito (per il quale era stabilita la pena della reclusione fino a due anni).], tuttavia esso continua a rappresentare uno dei motivi più frequenti di separazione delle coppie.

Quando è necessaria la prova del tradimento. Perché la domanda di separazione sia accolta non è, tuttavia, necessario fornire al giudice la prova dell’adulterio: è sufficiente, infatti, che siano intervenute tra i coniugi incomprensioni (anche solo scaturenti dal venir meno della fiducia nell’altro) tali da rendere intollerabile la vita coniugale. La prova dell’infedeltà è invece indispensabile quando il coniuge tradito, oltre alla separazione, voglia ottenere anche l’addebito [Ai sensi dell’art. 151 cod. civ., il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.]: ossia la dichiarazione con cui il giudice attribuisce la responsabilità della rottura del matrimonio al coniuge fedifrago.

            Tale pronuncia, infatti, comporta nei confronti di quest’ultimo la perdita dell’eventuale diritto ad un assegno di mantenimento (che gli dovrebbe garantire un tenore di vita analogo a quello avuto durante il matrimonio), così come una forte attenuazione dei diritti successori: infatti, al coniuge cui è stata addebitata la separazione spetta solo il diritto a un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione egli godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.

            Quando la prova dell’infedeltà non rileva ai fini dell’addebito. Non sempre, tuttavia, l’adulterio, se pur provato, può dar luogo all’addebito. Se è vero, infatti, che la pronuncia di addebito si basa sulla violazione di uno dei doveri nascenti dal matrimonio (quale appunto quello di fedeltà), tuttavia è anche necessario al contempo che sia data prova al giudice di un rapporto di causa-effetto tra l’infedeltà e la separazione. In parole semplici, ai fini della pronuncia di addebito occorre che il giudice accerti che il tradimento sia stata la vera causa della rottura tra marito e moglie. In mancanza di tale prova, nessuna responsabilità potrà essere attribuita al coniuge fedifrago.

Cosa deve accertare il giudice. Nello specifico, occorre provare non solo che tradimento vi sia stato, ma anche che esso abbia provocato l’intollerabilità della convivenza o la lesione di diritti della personalità del coniuge (come quello alla dignità, all’onore e alla reputazione); si pensi, ad esempio, al caso in cui, pur essendosi esso manifestato in un singolo episodio, tuttavia abbia provocato una grave offesa all’altro coniuge per il fatto di essersi consumato proprio nella casa coniugale.

Se, perciò, la crisi tra i coniugi sia stata antecedente all’infedeltà tale per cui, ad esempio, la convivenza tra marito e moglie aveva già una natura meramente formale (per la mancanza del necessario legame affettivo tra i coniugi), in tal caso il giudice potrà escludere l’addebito; in questa ipotesi, infatti, il tradimento non costituisce il motivo dell’intollerabilità della convivenza ma una sua diretta conseguenza.

            A riguardo, la Suprema Corte ha ribadito come la pronuncia di addebito da parte del giudice non può basarsi solo sull’inosservanza dei doveri coniugali, ma che occorre la prova che l’irreversibile crisi coniugale sia riconducibile esclusivamente al comportamento contrario, in modo volontario e consapevole, a tali doveri da parte di uno o di entrambi i coniugi. Nel verificare l’inesistenza di un diretto collegamento tra infedeltà e crisi coniugale, il giudice dovrà svolgere un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi da cui evincere la preesistenza di una crisi coniugale in un contesto di vita caratterizzato da una convivenza tra marito e moglie puramente formale. Si pensi, ad esempio, al caso in cui uno dei coniugi ponga in modo ingiustificato il rifiuto di consumare rapporti sessuali con l’altro e quest’ultimo poi lo abbia tradito.

            Irrilevanza della tacita accettazione del coniuge, Secondo la giurisprudenza, inoltre, anche quando sia stata tollerata l’infedeltà del coniuge ciò non impedisce la richiesta di addebito; ciò che rileva, infatti, è che il partner tradito non sia più stato in grado di sopportare l’infedeltà sicché essa, per quanto tollerata durante il matrimonio, abbia rappresentato la causa della rottura del legame. Il fatto, perciò, che il coniuge abbia chiuso gli occhi per anni davanti all’adulterio, magari sperando in un cambiamento dell’ex, non giustifica il rigetto della richiesta di addebito 

Riportiamo di seguito una panoramica di situazioni di infedeltà ritenute dalla giurisprudenza motivo di addebito:

aver intrapreso una relazione extraconiugale che abbia portato il coniuge fedifrago ad allontanarsi dall’ex, così privandolo della necessaria assistenza durante la malattia;

relazione adulterina dalla quale sia nato un figlio;

tradimenti scoperti in seguito ai quali i coniugi hanno tentato di recuperare il rapporto, fino alla scoperta di una nuova infedeltà;

numerosi episodi di infedeltà aggravati da forti litigi e da violenza fisica da cui sia derivato l’allontanamento del coniuge fedifrago dalla casa coniugale;

aver intrapreso una relazione extraconiugale sfociata in una convivenza di dominio pubblico a seguito del trasferimento del coniuge fedifrago in altra città per motivi di lavoro;

esercizio diretto della prostituzione da parte del coniuge;

relazione extraconiugale omosessuale.

Addebito per infedeltà apparente. Vi sono, poi, alcuni comportamenti che rilevano ai fini dell’addebito pur non costituendo adulterio in senso stretto; ciò in quanto essi sono comunque ritenuti ingiuriosi nei confronti del coniuge anche in ragione della percezione che di essi ne ha la società.

Si parla in tal caso di” infedeltà apparente” di cui sono un classico esempio le relazioni platoniche. Tali comportamenti si caratterizzano per il fatto che la condotta di un coniuge: 

provochi nell’altro e nei terzi il fondato sospetto del tradimento;

sia posta in essere con l’intenzione e la consapevolezza di ledere l’onore e la dignità del coniuge;

rechi un pregiudizio alla dignità personale del coniuge anche in relazione al contesto sociale di appartenenza e alla sua sensibilità.

Riportiamo qui di seguito, a titolo esemplificativo, alcuni casi di infedeltà apparente ritenuti dalla giurisprudenza rilevanti ai fini dell’addebito 

il comportamento di un coniuge portato avanti in modo tale da far supporre a terzi l’esistenza di una relazione extraconiugale anche se essa non si sia realmente verificata;

la relazione intrapresa da uno dei coniugi subito dopo l’allontanamento dalla casa coniugale in concomitanza con l’inizio della causa di separazione che dia luogo a plausibili sospetti di tradimento;

approcci fisici insistenti posti in essere pubblicamente, se pur non accompagnati da rapporti sessuali;

la forte attrazione provata da uno dei coniugi nei confronti di una persona e tale da aver portato all’allontanamento dalla casa coniugale per diverso tempo;

l’appuntamento, dopo l’intrapresa riconciliazione dei coniugi, con persona con la quale si era convissuto durante la separazione dal coniuge;

la relazione platonica che per gli aspetti esteriori con cui è coltivata e l’ambiente ristretto di frequentazione dei coniugi, dà luogo a verosimili sospetti di infedeltà, provocando offesa all’onore e alla dignità dell’altro coniuge;

l’infedeltà del coniuge rimasta allo stadio di mero tentativo solo per il sentimento non corrisposto da parte del terzo.

Come provare l’adulterio. Nel giudizio di separazione, il problema delle prove che si possono utilizzare in causa è particolarmente delicato, non solo per la difficoltà in sé di documentare al giudice situazioni che di norma sono vissute nell’intimità e non platealmente, ma anche per i limiti che la legge pone alla ricerca di tali prove. Tuttavia, se di norma l’utilizzo di dati personali di un soggetto ha sempre bisogno del consenso di quest’ultimo (si pensi all’esibizione in Tribunale di registrazioni, foto, ecc.), ciò non vale anche nel caso in cui si agisce allo scopo di tutelare un proprio diritto (come, appunto, avviene quando un coniuge voglia dimostrare la relazione extraconiugale dell’altro).

            Non vi è perciò alcuna violazione della privacy da parte del marito o della moglie che, sospettando di essere tradito, scelga di far pedinare il coniuge da un investigatore privato e usare le “prove” nel corso del giudizio di separazione al fine di ottenere la dichiarazione di addebito. Le prove documentali ottenute anche a mezzo di agenzie di investigazione sono, infatti, ammesse nel processo se pur con un limite: quello che chi le abbia procurate sia sentito come testimone e, quindi, riferisca di persona al giudice quanto ha visto e fotografato.

            Il giudice può anche valutare ai fini della prova le dichiarazioni da testimoni che non abbiano avuto conoscenza diretta della relazione adulterina, così come può dare rilevanza alla testimonianza del figlio. Attenzione però: la lesione del diritto alla privacy non può spingersi fino al punto di violare la corrispondenza del coniuge; pertanto, non sarebbe possibile, al fine di procurarsi la prova dell’adulterio, frugare nella posta o tra le email o gli sms ricevuti dal coniuge. Curiosare nella posta dell’ex coniuge costituisce, infatti, un vero e proprio reato.

Una volta provato l’adulterio, spetterà poi al coniuge che voglia evitare l’addebito provare che la relazione extraconiugale sia sopravvenuta in un contesto familiare già disgregato (per un approfondimento leggi: Separazione: col tradimento onere della prova invertito).

Maria Elena Casarano          la legge per tutti        28 gennaio 2015  riferimenti e citazioni di sentenze

www.laleggepertutti.it/73042_tradimento-e-infedelta-apparente-quando-sono-motivo-di-addebito

In caso di separazione o divorzio a chi spettano gli assegni familiari?

 

Il genitore affidatario o convivente con i figli minori ha diritto a percepire gli assegni per il nucleo familiare, anche nel caso in cui ne sia titolare l’altro coniuge, in aggiunta all’assegno di mantenimento, se non diversamente stabilito in sede di separazione o divorzio.

            In caso di separazione o divorzio, gli assegni famigliari spettano solo al coniuge cui il giudice abbia affidato i figli, anche se a percepirli sia l’altro coniuge [art. 211 della Legge 19 maggio 1975 n. 151]. Lo stesso principio si applica tanto nel caso di affidamento esclusivo che condiviso. Tale principio è stato chiarito in una circolare dell’Inps [circolare n. 210 del 7.12.1999]. Pertanto, il genitore non affidatario o non convivente con i figli, che percepisce gli assegni familiari, deve corrispondere tali somme all’ex coniuge, al quale, di fatto, spettano, in aggiunta all’assegno di mantenimento e indipendentemente dall’ammontare di quest’ultimo.

            Nonostante la legge sia chiara, spesso il genitore non affidatario o non convivente con i figli minori che percepisce gli assegni familiari dal proprio datore di lavoro omette di versarli all’altro genitore, cui spettano, pensando che l’unico obbligo a cui è tenuto sia quello di versare l’assegno di mantenimento per i figli economicamente non autosufficienti.

            In realtà gli assegni familiari per i figli minori da un lato, e l’assegno di mantenimento dall’altro (sia esso stabilito dal giudice o di comune accordo dalle parti con la separazione/divorzio consensuale) hanno natura e funzioni diverse. I primi fungono da “integrazione alimentare”, per cui non possono che essere percepiti dal genitore che, di fatto, provvede al mantenimento dei figli. Al contrario, l’assegno di mantenimento costituisce il contributo fornito dal genitore non convivente con i figli al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione di questi ultimi, la cui misura viene calcolata in proporzione alla capacità reddituale del genitore.

            Tuttavia, in sede di separazione o divorzio, i coniugi possono addivenire ad accordi diversi, riconoscendo al genitore che percepisce gli assegni familiari dal proprio datore di lavoro la possibilità di trattenerli, stabilendo comunque la misura dell’assegno di mantenimento in considerazione della somma percepita a titolo di assegni familiari dal genitore obbligato al mantenimento. È chiaro, dunque, che il genitore non affidatario o non convivente con i figli minori, che trattiene per sé gli assegni familiari, non versandoli all’ex coniuge, commette il reato di “appropriazione indebita”, incassando del denaro non proprio ma dell’altro genitore e che ha percepito per conto di quest’ultimo [Cass. sent. n. 694 del 01.02.1985].

            Pertanto, il coniuge affidatario o convivente con i figli minori che non ha mai ricevuto dall’ex gli assegni familiari potrà rivolgersi al tribunale per ottenere il rimborso delle somme indebitamente trattenute dall’altro coniuge. Ad ogni modo, la richiesta di rimborso deve essere limitata alle somme percepite dall’ex coniuge nel decennio precedente, attesa l’applicazione del termine di prescrizione decennale.

avv. Alessandra Castellino    La legge per tutti       29 gennaio 2015

www.laleggepertutti.it/74791_assegni-familiari-in-caso-di-separazione-o-divorzio-a-chi-spettano

 

L’assegno divorzile compete al coniuge che sia privo di mezzi.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 1264, 26 gennaio 2015.

L’assegno divorzile compete al coniuge che sia privo di mezzi, tali da potergli permettere il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello tenuto, durante la vita matrimoniale.

Con motivazione congrua ed immune da vizi, la sentenza impugnata, sulla scorta delle indagini di polizia tributaria, ha evidenziato le ingenti disponibilità patrimoniali, di cui il marito già godeva nei primi anni novanta (quando non era ancora intervenuta la separazione), tanto da aver costituito, con un rilevantissimo conferimento, una società di capitali, con un notevole saldo di conto corrente, anche grazie ad una donazione miliardaria del proprio padre, a fronte delle modestissime disponibilità patrimoniali della moglie.

sentenza         Studio Sugamele         www.avvocatocivilista.net/sentenze.php

 

 

    Le molteplici conseguenze dell’infedeltà coniugale.

 

Corte di Cassazione – prima Sezione civile, sentenza n. 755, 19 gennaio 2015.

 

            Quali possono essere le conseguenze, operanti sul piano risarcitorio, di una condotta integrante infedeltà coniugale? Nel caso di specie la Suprema corte si pronuncia in merito alle censure promosse dal marito, il quale, condannato nel merito al versamento di assegno familiare per il mantenimento della prole, nonostante l’accertata condotta fedifraga della moglie non ha ottenuto il risarcimento del danno richiesto in primo grado.

Secondo la Cassazione il giudice del merito avrebbe correttamente fatto risalire l’evento danno, provocato dalla moglie, non come lesivo direttamente dell’integrità psicofisica del coniuge (domanda di risarcimento del danno originariamente proposta in sede di merito) ma legato alla sola sfera della reputazione.

            Ecco quindi come un unico evento danno può essere inquadrato come lesivo di un duplice ordine di interessi: da un lato, danneggiante il bene dell’integrità psicofisica, cioè della salute; dall’altro, lesivo di un bene non direttamente attinente la persona, ma la sua reputazione, danneggiante quindi i rapporti sociali dell’individuo.

            Secondo il ricorrente, il comportamento della moglie avrebbe integrato vero e proprio “pubblico scandalo” (“ossia di comportamenti pubblici, esterni, lesivi della dignità personale del coniuge”), dando di conseguenza origine a un vero e proprio illecito civile, avendo l’interessato patito disagio psicofisico, autonomamente accertabile e risarcibile.

            La Cassazione, attenendo la questione all’esame diretto sul fatto oggetto della controversia, non ravvisando alcun vizio nella motivazione riportata nella sentenza impugnata, rigetta il ricorso.

            Per saperne di più vedi il testo integrale della sentenza qui sotto allegato.

 

Licia Albertazzi         newsletter Giuridica StudioCataldi.             26 gennaio 2015

sentenza                      www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17392.asp

Convivenza e rapporti sessuali dopo la separazione: rilevano ai fini della riconciliazione?

 

            Perché la ripresa dei rapporti tra coniugi possa interrompere il termine dei tre anni necessari per ottenere il divorzio, essa non deve essere solo temporanea, ma deve basarsi su una ricostituzione effettiva dell’unione materiale e affettiva della coppia.

            Si susseguono negli ultimi tempi le pronunce della Cassazione in tema di riconciliazione coniugale a riprova di un sempre crescente contenzioso sull’argomento. Ricordiamo, a riguardo, che i coniugi hanno la possibilità – senza che occorra l’intervento del giudice – di far cessare gli effetti della sentenza di separazione con una dichiarazione espressa o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separati [art. 157 cod. civ.]

Quando la riconciliazione avviene senza che marito e moglie abbiano compiuto una dichiarazione espressa, il problema maggiore che si pone riguarda l’aspetto della prova ad essa relativa. Si tratta di questione di non poco conto in quanto -lo ricordiamo – dalla riconciliazione derivano importanti conseguenze quali 

l’interruzione del decorso dei tre anni per chiedere il divorzio (sicché sarà preclusa la possibilità di ricorrere al giudice, salvo il decorso di un nuovo triennio senza che i coniugi abbiano si siano riconciliati);

il ripristino in via automatica del regime di comunione legale eventualmente operante tra le parti;

il venir meno dell’obbligo di versare l’assegno all’ex eventualmente disposto dal giudice.

Si tratta di motivi per i quali, non di rado, la parte refrattaria a concedere il divorzio al coniuge o che voglia liberarsi dell’obbligo di mantenimento dell’ex approfitta di circostanze occasionali di riavvicinamento (come ad esempio un viaggio fatto insieme) per far valere l’intervenuta riconciliazione.

            Sul tema della prova della riconciliazione si è proprio di recente pronunciata la Cassazione [ordinanza n. 27386, 24 dicembre 2014].

 

vedi     newsUCIPEM n. 528 – 11 gennaio 2015, pag. 16    www.ucipem.it/sito/sito/main.php?id=306

www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=202:newsucipem-n-528-11-gennaio-2015&catid=84&Itemid=231

che, con particolare riferimento all’ipotesi di ripristino dei rapporti tra i coniugi, ha approfondito il significato del concetto dell’unione tra marito e moglie rilevante ai fini della riconciliazione.

            Pur ribadendo il consolidato orientamento sul tema, nello specifico, la Suprema Corte ha precisato che la ripresa della vita coniugale a seguito della separazione, si realizza solo dopo che vi sia stata una ricostituzione dell’intero complesso dei rapporti che caratterizzano l’unione matrimoniale. In particolare, occorre che sia intervenuto non soltanto il ripristino delle relazioni che riguardano l’aspetto materiale del matrimonio (quale appunto la coabitazione o i rapporti sessuali), ma anche di quelle sulle quali si basa la comunione spirituale dei coniugi (cioè il legame affettivo basato sulla condivisione, nel bene e nel male, di ogni aspetto della vita coniugale).

            Non è dunque sufficiente che tra le parti vi sia stata una ripresa dei rapporti, ma occorre – affinché la riconciliazione valga a impedire la domanda di divorzio – che essa si basi sull’effettiva volontà dei coniugi di rinnovare l’impegno di vita in comune. Da ciò deriva la necessità che l’intrapresa convivenza tra i coniugi non abbia carattere temporaneo; essa, invece, deve essere tale da interrompere il pregresso stato di separazione tra i coniugi attraverso la ricostituzione stabile e duratura del preesistente nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali sì da far rinascere il pregresso legame tra marito e moglie.

            La vicenda. Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, la coabitazione dei coniugi, peraltro non continuativa, era fondata esclusivamente su esigenze abitative occasionali del marito uscito dal carcere, ritenute insufficienti a fornire la prova dell’avvenuta riconciliazione tra i coniugi 

Se dopo la separazione marito e moglie hanno avuto un riavvicinamento, anche se caratterizzato dalla convivenza e dalla ripresa di rapporti sessuali, tuttavia, se esso è stato solo di carattere temporaneo e occasionale, non rappresenta una circostanza idonea a provare la riconciliazione. L’occasionalità dei rapporti tra i coniugi è incompatibile, infatti, con la piena ricostituzione della comunione di vita materiale e spirituale fra gli ex, necessaria, invece, ai fini della prova della loro riconciliazione.

            avv.     Maria Elena Casarano          La legge per tutti       29 gennaio 2015

www.laleggepertutti.it/74793_convivenza-e-rapporti-sessuali-dopo-la-separazione-rilevano-ai-fini-della-riconciliazione

 

 

 

Il-diritto-di-abitazione-della-casa-familiare-e-un-atipico-diritto-personale-di-godimento.

 

Suprema Corte di Cassazione, seconda Sezione civile, Sentenza n. 27128, 19 dicembre 2014.

Il diritto di abitazione della casa familiare è un atipico diritto personale di godimento (e non un diritto reale), previsto nell’esclusivo interesse dei figli (art. 155, comma quarto, cod. civ.) e non nell’interesse del coniuge affidatario, che viene meno con l’assegnazione della casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge affidatario dei figli, non avendo più ragione di esistere. Ed invero, la tutela del figlio minore o disabile è assicurata dall’affidamento al coniuge al quale la casa coniugale sia assegnata nonché dall’obbligo di mantenimento, cura ed educazione che è posto a carico di entrambi i genitori.

Nel caso in cui, come nella specie, l’immobile sia assegnato in proprietà esclusiva al coniuge affidatario l’invalidità di cui sia portatore il figlio e le sue condizioni di vita – che, per quel che si è detto, assumono rilevanza in relazione agli obblighi dei genitori – non possono avere alcuna interferenza sul valore di mercato dell’immobile ovvero sulla determinazione della porzione corrispondente alla quota di comproprietà spettante al condividente. Infatti, ove si operasse la decurtazione del valore in considerazione del diritto di abitazione, il coniuge non assegnatario verrebbe ingiustificatamente penalizzato con la corresponsione di una somma che non sarebbe rispondente alla metà dell’effettivo valore venale del bene: il che è comprovato dalla considerazione che, qualora intendesse rivenderlo a terzi, l’assegnatario in proprietà esclusiva potrebbe ricavare l’intero prezzo di mercato, pari al valore venale del bene, senza alcuna diminuzione.

            avv. Renato D’Isa      2 gennaio 2015

corte-di-cassazione-sezione-ii-sentenza-19-dicembre-2014-n-27128-il-diritto-di-abitazione-della-casa-familiare-e-un-atipico-diritto-personale-di-godimento-e-non-un-diritto-reale-previsto-nell

 

Donazione indiretta e comunione legale dei coniugi in caso di separazione

 

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 21494, 10 ottobre 2014.

 

            In caso di separazione l’ex non potrà accampare pretese sull’immobile acquistato coi soldi dei genitori: infatti, il bene donato rientra tra quelli di proprietà personale del coniuge.

            Si sente spesso parlare di donazione indiretta: di cosa si tratta? A differenza della donazione tradizionale (in cui il donante trasferisce al beneficiario la proprietà su un bene dal primo acquistato), nella donazione indiretta, invece, il donante versa al beneficiario il denaro affinché quest’ultimo acquisti, autonomamente, il bene che il primo vorrebbe donare.

            Il caso tipico è quello del papà che versa sul conto del figlio i soldi affinché quest’ultimo acquisti un’auto o la casa, in modo da evitare, poi, costosi passaggi di proprietà.

            In pratica, se oggetto della donazione classica è il bene, in quella indiretta si “dona” il denaro. In verità, poi, per il diritto non è così: infatti, anche nella donazione indiretta l’oggetto vero e proprio del regalo (almeno secondo la legge) è il bene.

            Dunque, sintetizziamo: l’acquisto di un immobile eseguito con i soldi forniti da terzi integra una donazione indiretta; essa ha per oggetto l’immobile acquistato, e non il denaro.

            Qual è la conseguenza se il donatario è sposato ed in regime di comunione legale dei beni?

            Il bene acquistato coi soldi donati (ossia tramite donazione indiretta) non rientra nella comunione ma rimane bene di proprietà personale ed esclusiva dell’acquirente [ai sensi dell’art. 179, primo comma, lettera b), cod. civ.]. Ciò corrisponde, di solito, alla volontà dei genitori, che intendono beneficiare il proprio figlio, in modo tale che, dall’eventuale separazione, questi non abbia a perdere il regalo di mamma e papà.

            Quindi, l’altro coniuge non potrà mai accampare pretese, in caso di separazione, sulla casa o sull’automobile acquistata dall’ex coi soldi a lui “donati” da terzi.

            A questa conclusione è giunta, di recente, la Cassazione.

            Possono essere, inoltre, donazioni indirette il pagamento del debito altrui, il contratto a favore di terzo, l’accollo del debito altrui e la vendita a prezzo irrisorio.

            Come detto, l’ipotesi più frequente di donazione indiretta è però l’acquisto di un immobile da parte del figlio, utilizzando denaro fornito dai genitori. Secondo la giurisprudenza, l’intestazione in nome del figlio di un bene immobile acquistato dai genitori configura una donazione indiretta dell’immobile (e non del denaro); e ciò vale:

sia nel caso di acquisto da parte del figlio con il denaro appositamente fornito dai genitori,

sia nel caso di pagamento contestuale da parte dei genitori,

sia nel caso di conclusione del contratto da parte dei genitori a favore del figlio.

            Fiscalmente, le donazioni indirette scontano l’imposta di donazione, ma con un’importantissima eccezione: si ha l’esenzione dall’imposta di donazione per le donazioni di immobili o aziende quando all’atto si applica l’imposta di registro proporzionale oppure l’Iva.

            Ricordiamo comunque che se si desidera intestare l’immobile a entrambi i coniugi, è sempre possibile farli intervenire entrambi all’atto di acquisto.

la legge per tutti                                            7 gennaio 2014

http://www.laleggepertutti.it/61799_donazione-indiretta-e-comunione-legale-dei-coniugi

 

sentenza                      www.eredita.biz/sentenza.php?id=9137

 

 

NEGOZIAZIONE ASSISTITA

 

La Procura di Milano detta le linee guida su separazioni e divorzi.

 

Il D. L. n. 132/2014 (convertito con la L. n. 162/2014), nell’ambito delle misure introdotte in materia di giustizia civile, all’art. 6 disciplina la convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano ha dettato le linee guida da seguire in tale nuova procedura.

Fissiamo in questa sede quelli che sono i passaggi più salienti che caratterizzano la negoziazione assistita in ambito di diritto di famiglia.

Condizioni. Innanzitutto, l’accordo, che compone la controversia, deve essere sottoscritto dalle parti e da almeno un avvocato per parte. Nell’accordo l’avvocato deve espressamente dare atto di aver tentato di conciliare le parti, di averle informate circa la possibilità di esperire la mediazione familiare, di averle informate, in caso di presenza di figli minori, dell’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori. Compito degli avvocati sarà, altresì, quello di certificare l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Al momento del deposito dell’accordo, dovranno essere necessariamente allegati una serie di documenti (vedi allegato n. 1) e una scheda di sintesi (vedi allegato n. 2), nella quale verranno evidenziati gli elementi più sensibili da porre all’attenzione del P.M..

Ufficio di presentazione. In attesa che la Segreteria del p.m. e la Segreteria degli Affari Civili vengano dotati di PEC, l’originale dell’accordo dovrà essere consegnato da almeno uno degli avvocati che ha sottoscritto l’atto stesso (o da un suo delegato) alla Segreteria del p.m. o, in caso di assenza o impedimento, alla Segreteria degli Affari Generali.

Rilascio provvedimento P.M.. Il pubblico ministero provvederà a rilasciare il nulla osta (se non ci sono figli da tutelare) o ad autorizzare l’accordo (se ci sono figli da tutelare), di regola, entro 3 giorni lavorativi dalla presentazione dell’accordo stesso, salvo imprevisti. Un giorno in meno rispetto a quanto è stato previsto per Roma. Sempre in attesa della dotazione della PEC, sarà cura di almeno uno degli avvocati, che hanno sottoscritto l’atto (o di un loro delegato), provvedere al ritiro di una copia dell’accordo (l’originale resterà agli atti dell’Ufficio). Per la trasmissione dell’accordo all’Ufficiale dello Stato Civile, i 10 giorni previsti decorreranno dalla data di consegna delle copie dell’accordo stesso (o dalla comunicazione via PEC).

Contributo unificato. Al momento, in attesa che il Ministero della Giustizia si esprima in merito al quesito sollevato al riguardo dal Procuratore della Repubblica e dal Dirigente la Procura della Repubblica, non viene richiesto il versamento di alcun contributo. Il Ministero della Giustizia deve esprimersi, altresì, in merito all’eventuale sospensione feriale dei termini della procedura statuita per le convenzioni di negoziazione assistita.

allegati 1 e 2, le linee guida Procura della Repubblica (16 dicembre 2014)

            diritto e giustizia 8 gennaio 2015

www.dirittoegiustizia.it/news/9/0000071484/La_Procura_di_Milano_detta_le_linee_guida_su_separazioni_e_divorzi.html

 

 

La separazione non è interrotta dalla coabitazione temporanea.

 

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 27386, 24 dicembre 2014,

 

La convivenza ripresa dopo la separazione ed idonea ad interromperla, non deve essere caratterizzata dalla temporaneità, dovendosi ricostituire concretamente il preesistente vincolo coniugale, nella sua essenza materiale e spirituale, di certo non realizzabile se l’altro coniuge si trova in carcere. Nella disciplina della cessazione degli effetti civili del matrimonio, il pregresso stato di separazione tra i coniugi (concretante un vero e proprio requisito dell’azione, ex art. 3 n. 2 della legge n. 898 del 1970) può legittimamente dirsi interrotto nel caso in cui si sia concretamente e durevolmente ricostituito il preesistente nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali sì da ridar vita al pregresso vincolo coniugale, e non anche quando il riavvicinamento dei coniugi, pur con la ripresa della convivenza e dei rapporti sessuali, rivesta caratteri di temporaneità ed occasionalità.

            avv. Renato D’Isa      8 gennaio 2014

 

ordinanza                   http://renatodisa.com/2015/01/08/corte-di-cassazione-sezione-vi-ordinanza-24-dicembre-2014-n-27386-la-convivenza-ripresa-dopo-la-separazione-ed-idonea-ad-interromperla-non-deve-essere-caratterizzata-dalla-temporaneita-dovendos/

 

CASA CONIUGALE

 

Se il marito non le lascia la casa.

 

Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 1784, 15 gennaio 2015 

Se una madre lascia la città con i suoi figli perché il marito non le lascia la casa, non è perseguibile per il reato previsto dall’art. 388 c.p. Non commette reato chi decide di trasferirsi con i figli in un’altra città, se il marito si oppone a lasciare la casa coniugale. 

La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Genova che aveva condannato una donna a 3 mesi di reclusione per il reato previsto dall’art. 388 c.p. Secondo gli Ermellini la ricostruzione dei fatti porta ad escludere la volontà elusiva nel comportamento della donna posto che “l’elemento costitutivo del delitto contestato si realizza solo quando i comportamenti stigmatizzanti siano finalizzati ad impedire, di fatto, l’esercizio del diritto di visita e di frequentazione della prole.”

 

avv. Valeria Cianciolo                      questioni di diritto di famiglia                      16 gennaio 2015

 

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ASSEGNO di MANTENIMENTO

 

200 euro per due figli sono pochi: scatta il penale.

 

Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 1788, 15gennaio 2015

 

Il genitore ha l’obbligo giuridico di attivarsi per reperire un’occupazione: il versamento di una somma esigua non scrimina se non c’è vero e proprio stato di necessità.

 

Il genitore che versa un mantenimento per i figli esiguo (200 euro per due figli nel caso di specie) commette reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare.

 

Non rileva che l’onerato affermi di avere delle difficoltà economiche (peraltro senza provarle in concreto), avendo comunque l’obbligo giuridico di attivarsi per trovare un lavoro, nel caso sia disoccupato. La condotta può essere scriminata solo se sussiste un vero e proprio «stato di necessità».

Lo ha affermato la Cassazione respingendo il ricorso di un padre contro la condanna a sei mesi di carcere e a pagare 600 euro di multa dalla Corte d’appello di Catania perché colpevole del reato previsto dall’articolo 570 c.p. Secondo l’uomo, il reato non sussisteva poiché l’ex moglie non si trovava in stato di bisogno e le sue condizioni economiche non erano cambiate nel corso della separazione. Inoltre, il padre, nei momenti di minore difficoltà, aveva versato più di quanto statuito dal giudice della separazione, il che dimostrava, di fatto, la «natura non dolosa dell’inadempimento quando si era verificato».

La Cassazione ritiene tuttavia che il padre, nel periodo di riferimento, «si è limitato a versare solo 200 euro al mese per il mantenimento dei due figli minori, somma chiaramente insufficiente, sia per quanto dimostrato essere stato speso dalla moglie, per fronteggiare spese documentate nel medesimo periodo, sia per quanto indirettamente si desume dalla quantificazione dell’assegno nella misura di 350 euro, ad opera del giudice, in epoca successiva». Con particolare riferimento a quest’ultimo aspetto si deve evidenziare che, «la presenza di due figli minori, il cui stato di bisogno si presume, rende inidoneo a escludere il reato l’accertamento della presenza di difficoltà economiche in capo all’obbligato, che ha l’obbligo giuridico di attivarsi, anche ove sia privo di occupazione, potendo la sua condotta inadempiente essere scriminata solo dallo stato di necessità».

Valeria Mazzotta       Persona e danno         16 gennaio 2015      sentenza

 

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Divorzio nel Paese Ue: se il figlio risiede in Italia le visite le decide il giudice del luogo.

 

Tribunale di Vercelli, prima Sezione civile, decreto 23 luglio 2014.

 

            Se il minore ha la propria residenza abituale in Italia, il Tribunale italiano può discostarsi dai provvedimenti del giudice straniero che, insieme al divorzio, si è pronunciato sul diritto di visita del minore.

Nel nostro Paese cresce sempre più il numero di matrimoni tra persone di diversa nazionalità, e in special modo appartenenti ai diversi Stati membri dell’Unione europea. Unioni che sicuramente richiedono maggior impegno da parte della coppia, specie qualora nascano figli; ciò per la necessità di educarli alla luce delle diverse consuetudini, costumi e, non di rado, del diverso credo religioso.

            Insieme alle unioni, tuttavia, crescono anche i divorzi, per la cui domanda ciascun coniuge ha la facoltà di scegliere a quale giudice rivolgersi, se cioè a quello del proprio Stato di appartenenza (per nazionalità o residenza) o di quello del coniuge. In tal caso, esiste un regolamento comunitario che sancisce un generale principio di collaborazione fra i Paesi appartenenti all’Ue [L’art. 21, co. 1 Regolamento ce 2201/03 stabilisce il principio generale secondo cui ciascuno Stato membro riconosce in automatico le decisioni pronunciate in altro Stato, senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento], tale per cui la decisione presa da uno di essi viene riconosciuta in via automatica dal giudice dell’altro Stato membro.

            Sappiamo, tuttavia, che non sempre la sentenza di separazione o divorzio si limita a pronunciarsi sullo “stato” delle parti (dichiarandole, ad esempio, libere dal vincolo coniugale); molto spesso, anzi, essa finisce col decidere su molteplici questioni personali e patrimoniali (mantenimento, responsabilità genitoriale, affidamento della prole). Che succede allora se il giudice del Paese Ue, cui si sia rivolto uno dei coniugi per il divorzio, decida su questioni riguardanti la vita dei figli minori (ad esempio il loro diritto di visita) e questi, invece, risiedono abitualmente in Italia?

            Ha dato risposta a questa domanda una pronuncia del Tribunale di Vercelli. Il giudice piemontese, a riguardo, ha chiarito che, nonostante l’esistenza di un dovere di cooperazione tra i Paesi dell’Unione europea, in questi casi va data priorità ai criteri di tutela dell’interesse del minore e quello della sua residenza abituale, come sanciti da norme internazionali [La Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20.11.1989, (ratificata in Italia dalla L. 176/1991) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, agli artt. 7 e 24]. Infatti, si legge in sentenza, i principi di fiducia e collaborazione cui si ispira il sistema di cooperazione giudiziaria tra gli Stati Ue non rappresentano un dogma e non possono essere ritenuti valori assoluti ed inderogabili.

            Ciò significa, in parole semplici che, una volta accertato che il bambino ha la propria residenza abituale in uno Stato membro, il giudice di quello Stato è legittimato a prendere i provvedimenti nel suo interesse, discostandosi da quelli eventualmente presi dallo Stato cui si sia rivolto l’altro genitore. Tali decisioni possono riguardare, ad esempio, le modalità di visita tra il figlio e il genitore non collocatario che – sottolinea il giudice – è opportuno che sia assunta dal Tribunale del luogo di abituale residenza del minore proprio per la necessità di salvaguardare in via prioritaria le sue esigenze. Tale giudice, infatti, è di certo in grado di acquisire, più dell’autorità del diverso Paese, tutte quelle informazioni necessarie a valutare le effettive necessità del bambino, e prendere così i provvedimenti più opportuni nei suoi riguardi.

            Ciò vale ancor più quando dalla storia giudiziaria dei coniugi siano emersi gravi disagi familiari (come nella vicenda in esame); ciò in quanto in tal caso può risultare indispensabile il supporto offerto dai servizi sociali del luogo di residenza del figlio. Il minore, infatti, si legge in sentenza, è un soggetto in età evolutiva, per cui – anche allo scopo di garantire in tempi adeguati le opportune modifiche del provvedimento – occorre procedere al costante monitoraggio della formazione della sua personalità , così come all’evoluzione dei rapporti di quest’ultimo con ciascuno dei genitori. Monitoraggio che solo il giudice del luogo di residenza del bambino potrà effettuare in modo tempestivo, con il supporto dei servizi sociali di zona e di ogni altro soggetto che sia di riferimento per il bambino (familiari, scuola, ecc.).

            D’altronde, ricorda il giudice piemontese, lo stesso regolamento Ce prevede che il criterio di vicinanza del minore debba essere quello di riferimento nel regolare la competenza in materia di responsabilità genitoriale [art. 12 del regolamento Ce 2201/03].

La vicenda. Un padre romeno , aveva chiesto il divorzio dalla moglie (sua connazionale) alle autorità di Zalau (nel procedimento la moglie non si era costituita); l’uomo aveva chiesto e ottenuto un provvedimento in merito alle sue visite con il figlio minore, da tempo residente in Italia con la madre. La decisione del giudice rumeno era stata presa senza neppure aver acquisito le informazioni sulle attuali condizioni di vita e i rapporti tra il piccolo e i genitori; tra l’altro, il padre aveva sempre assunto una condotta violenta nei confronti della moglie e del bambino.

Il principio di collaborazione giudiziaria fra gli Stati Ue deve sempre cedere il passo all’obbligo di dare priorità alle esigenze dei minori. Per tale motivo, se il tribunale di un Paese Ue abbia deciso su una questione riguardante i figli minori (come ad esempio quella sulle modalità di visita da parte del genitore non affidatario) e questi risiedano abitualmente in Italia (o in un altro Stato membro), il giudice italiano (o del diverso Paese) è libero di discostarsi da tale pronuncia se essa non corrisponda all’interesse del bambino.

 

Maria Elena Casarano                      la legge per tutti         15 gennaio 2015      

 

www.laleggepertutti.it/62226_divorzio-nel-paese-ue-se-il-figlio-risiede-in-italia-le-visite-le-decide-il-giudice-del-luogo

 

Coniuge prevaricatore: addebito per la separazione.

 

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 753, 19 gennaio 2015.

 

Il carattere autoritario nei confronti della moglie implica la dichiarazione di responsabilità per il fallimento del matrimonio.

            Rischia la condanna dell’addebito, nel giudizio di separazione, il coniuge prevaricatore. A dirlo è stata la Cassazione. L’uomo con il carattere autoritario nei confronti della moglie rischia la condanna, da parte del giudice, quando i tentativi della donna di esprimere la propria opinione, vengono da lui repressi con offese, attacchi d’ira e violenza. Insomma, è sempre da condannare il comportamento fortemente egoistico.

            Cos’è l’addebito. Quando l’intollerabilità della convivenza o il pregiudizio per la prole sono la conseguenza diretta della violazione, da parte di un coniuge, dei doveri derivanti dal matrimonio, l’altro coniuge può chiedere la separazione con addebito. La richiesta deve essere specifica e supportata da prove sulla violazione dei doveri matrimoniali.

I presupposti dell’addebito sono essenzialmente due:

la violazione da parte di uno dei coniugi dei doveri nascenti dal matrimonio, avvenuta durante la convivenza (non rilevano, di massima, i comportamenti successivi alla crisi);

l’esistenza di un rapporto di causa ed effetto (ossia un nesso causale) che collega la violazione del coniuge alla crisi coniugale che ha determinato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.

Tutti i comportamenti gravemente violenti e aggressivi sono causa di addebito se commessi nei confronti dell’altro coniuge o della prole. Questa causa di addebito rientra tra le violazioni del dovere di assistenza morale e materiale [Art. 143 cod. civ.].

A rilevare per la dichiarazione di addebito non possono certo essere semplici aspetti caratteriali, privi di alcun rilievo causale nella crisi del matrimonio (circostanza, infatti, che potrebbe essere nota alla coppia ancor prima di sposarsi). Le mere diversità di indole, infatti, non comportano alcuna responsabilità per la rottura della coppia. Si deve invece trattare di qualcosa di più e di molto più serio: di un comportamento prevaricatore, assolutamente incompatibile con il fondamento comunitario della vita familiare. Infatti, un atteggiamento unilaterale, sordo alle valutazioni e alle richieste dell’altro coniuge, eccessivamente rigido, può tradursi nella violazione dell’obbligo, nei confronti dell’altro coniuge, di concordare l’indirizzo della vita familiare e, in quanto fonte di angoscia e dolore per il medesimo, nella violazione del dovere di assistenza morale e materiale.

                        La legge per tutti       19 gennaio 2015

www.laleggepertutti.it/69415_coniuge-prevaricatore-addebito-per-la-separazione

 sentenza    renatodisa.com/2015/01/22/corte-di-cassazione-sezione-i-sentenza-19-gennaio-2015-n-753-un-comportamento-prevaricatore-del-coniuge-assolutamente-incompatibile-con-il-fondamento-comunitario-della-vita-familiare-giacche-un

 

ASSEGNO di MANTENIMENTO

 

Una panoramica sulla giurisprudenza in tema di mantenimento dei figli maggiorenni.

 

Disoccupati cronici, studenti svogliati o attempati “teenager”? Niente più alibi per i “bamboccioni” che non vogliono andare via da casa e rimanere sotto lo stesso tetto tra le cure amorevoli e la “paghetta” di mamma e papà. Pur mantenendo una posizione prudente sulla facoltà, per i genitori, di scaricare la prole “pigra”, sulla delicata questione del mantenimento dei figli maggiorenni, la Cassazione è sempre più orientata a porre un freno.

            È vero, infatti, che l’obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli, ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c., non cessa con il raggiungimento della maggiore età, ma permane fino al raggiungimento di un’indipendenza economica tale da essere in grado di provvedere autonomamente alle proprie esigenze di vita, ma tale obbligo non è infinito. Se da un lato, non qualsiasi lavoro o reddito fa venir meno l’obbligo del mantenimento, ma occorre un impiego tale da consentire al figlio un reddito corrispondente alla propria professionalità, adeguato alle sue attitudini ed aspirazioni (Cass. n. 27377/2013; n. 1773/2012; n. 18/2011; n. 14123/2011; n. 21773/2008), dall’altro, l’abuso non è più tollerato.

            L’obbligo continua a vigere, afferma la Cassazione, solo se il figlio “incolpevolmente” non raggiunge l’indipendenza economica (Cass. n. 23590/2010). Come dire, i bozzoli, ormai diventati farfalle, devono librarsi con le proprie ali.

            Se, dunque, la precarietà del mondo del lavoro accentuata dalla crisi fa perdere l’occupazione espletata in passato (Cass. n. 23590/2010) o impedisce di trovare un impiego idoneo, per i figli che tengono un comportamento di inerzia e rifiuto ingiustificato di occasioni di lavoro e quindi di disinteresse nella ricerca di indipendenza economica, la Cassazione ha ritenuto, senza ma e senza se, configurabile l’esonero dalla corresponsione dell’assegno richiesto da parte del genitore obbligato (Cass. n. 7970/2013; n. 4765/2002; n. 1830/2011).

            Così, ad esempio, la S.C. ha detto di no al mantenimento della figlia trentaseienne laureata in architettura (e titolare di rendita immobiliare) che aveva rifiutato l’offerta di lavoro del padre, occupato nel settore dell’edilizia, poiché in grado di “attendere ad occupazioni lucrative, ingiustamente, invece, da lei rifiutate” (Cass. n. 610/2012).

            Allo stesso modo, ha escluso il diritto al mantenimento del figlio ventottenne che aveva iniziato ad espletare attività lavorativa saltuaria ed era iscritto all’università da più di otto anni (Cass. n. 1585/2014) e al figlio ultratrentenne senza lavoro ma in possesso di un patrimonio tale da garantirgli l’autosufficienza economica (Cass. n. 27377/2013).

            Il no ai bamboccioni è stato rigorosamente ribadito dalla Cassazione anche nella recente sentenza n. 18076 del 20 agosto scorso nei confronti di due fratelli, della “tenera” età, rispettivamente, di 46 e 47 anni, che la madre non riteneva ancora pronti per seguire la loro strada e voleva tenere amorevolmente con sé sotto il tetto della casa coniugale a lei assegnata dopo la separazione.

            Fuori casa i bamboccioni over 40!”. Ma gli Ermellini non hanno mostrato alcuna “comprensione”, mettendo alla porta i due fratelli disoccupati ma impegnati “attivamente nella ricerca di un lavoro”, ritenendo che la crisi economica non possa giustificare la mancata sistemazione di persone adulte in grado di “assumersi la completa responsabilità della propria esistenza”.

            avv. Michela Manganati       StudioCataldi.                        Newsletter Giuridica del 19 gennaio 2015 –             www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17330.asp

 

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