Essere psicoterapeuti: gli atteggiamenti di fondo

      La follia della guerra    

Caro Giulio,

          oggi vorrei riflettere con te non su un paziente specifico ma su una questione che è trasversale al nostro lavoro: quali sono i fattori che nello psicologo clinico e nello psicoterapeuta devono essere presenti per poter svolgere il suo lavoro in modo efficace? Al di là della formazione e del necessario “saper fare” ci sono degli atteggiamenti di fondo che ne denotano il suo “saper essere” e che risultano indispensabili per la sua azione d’aiuto?

          Su questo spunto molto interessante, mi sono soffermato molte volte in questi anni di attività, interrogando me stesso su quali possono essere i capisaldi di questa postura interiore che ci può portare ad essere il più possibili utili e vicini ai nostri pazienti. Proverò a delineare i capisaldi che trovo siano i più significativi, indicandoli con alcune parole chiave.

Coinvolgimento

          La parola coinvolgimento fa riferimento ad un atteggiamento in cui si è attivi, partecipi, interessati, impegnati verso l’altro. E’ esattamente il contrario di neutralità, distacco, freddezza. Credo che questa dimensione del nostro essere con gli altri sia un requisito fondamentale e imprescindibile di ogni relazione d’aiuto, come ciascuno di noi percepisce quando si è “dall’altra parte”, ovvero nella condizione di bisogno.

         Questa qualità che produce relazioni calde e sincere penso sia il nucleo che sentiamo dentro di noi e che ci ha portato probabilmente a scegliere questo lavoro. Il coinvolgimento può essere anche eccessivo, questo è vero, e per questo motivo deve essere monitorato per evitare di creare troppo stress nel terapeuta o distorsioni e sconfinamenti nella relazione d’aiuto. Tuttavia la sua assenza spegne probabilmente qualsiasi possibilità di cura e di presa in carico autentica. La parola stessa “prendere in carico” vuol dire portare con sé, avere l’altra persona in mente, potersela appresso, ricordarsi di lei. L’espressione più nota di questo modo di porsi è il famoso “I care” di don Milani, che potremmo tradurre: me ne prendo cura, mi tocca. Ciò avviene più fortemente con i pazienti più gravi e nelle situazioni più delicate in cui la presenza del terapeuta è quasi vitale al punto che si diviene davvero parte della vita mentale ed emotiva del paziente. La misura di questo coinvolgimento dipende da molti fattori ma ripeto non credo sia possibile un processo d’aiuto psicologico senza una dose significativa di esso.

          Lo stesso S. Freud che per altri aspetti ha teorizzato la neutralità del terapeuta e il suo essere uno “schermo bianco” per il paziente, si è ritrovato nella concretezza dei suoi casi clinici a offrire da mangiare ai pazienti o addirittura in un caso a prestare ad uno di essi del denaro.

          Senza incorrere in eccessi, credo che il punto essenziale sia far percepire al

paziente la nostra sincera attenzione e sollecitudine nei suoi confronti e il fatto che egli ha un posto nella nostra mente. Credo che questo possa avere molte ricadute positive e dare energia ad un percorso terapeutico in cui il paziente si affida.

Accettazione e valorizzazione

          Il secondo passaggio che trovo fondamentale è la costruzione dentro noi stessi di un atteggiamento benevolo verso la persona che abbiamo di fronte a noi volto a riconoscerne la storia, le difficoltà, le ragioni che l’hanno portata ad essere quello che è. Questo processo di comprensione non giudicante, non va confuso con un ingenuo buonismo in cui non si riconoscono i problemi, le responsabilità e gli aspetti critici del paziente. Credo che una visione lucida dei problemi possa essere compatibile con uno sguardo non giudicante o di svalutazione della persona in sé. La famosa distinzione che è sempre necessaria tra comportamenti problematici e valore della persona, è una componente di questo sguardo bifocale. Per facilitare questa comprensione può essere utile ricostruire la storia e le vicissitudini che hanno portato la persona a sviluppare le sue problematiche e i suoi sintomi. Talvolta quando si è portato a fondo questo processo di comprensione si arriva a porre a noi stessi la seguente domanda: “se io fossi stato nelle stesse condizioni, sono così sicuro che avrei fatto davvero di meglio?”.  

          Nella misura in cui ci si sente simili agli altri, è più facile provare rispetto e vicinanza verso di loro. Ricordo a questo proposito un direttore della Caritas che quando incontrava delle persone emarginate in colloquio, dopo aver ascoltato la loro storia tendeva a pensare che fosse soltanto un puro caso o un insieme complesso di condizioni e circostanze, che aveva fatto sì che lui fosse “da quella parte della scrivania” piuttosto che dall’altra parte.

          Questo processo di conoscenza e comprensione va accompagnato poi ad una costante ricerca dei punti forza e di valorizzazione che il paziente presenta. Le storie che le persone ci portano sono infatti molto spesso intrise di fallimenti, di squalifiche, di colpevolizzazioni, per questo è essenziale aiutare il paziente a trovare qualcosa di buono in se stesso e anche nella vita che ha vissuto e nell’ambiente che lo circonda. E’ questo un processo mentale “contro intuitivo” che il paziente stesso spesso osteggia e rifiuta, ma che va intrapreso a partire dalla capacità del terapeuta stesso di vedere del buono nella persona che ha di fronte a sé.

          Questi aspetti sono stati esplorati ed esposti per la prima volta dal grandissimo terapeuta che è stato Carl Rogers di cui riporto una sintetica citazione:

“quando il cliente avverte, sia pure in minima misura, l’autenticità del terapeuta e l’accettazione e l’empatia che il terapeuta prova nei suoi confronti, si verificheranno uno sviluppo della sua personalità e una modificazione del suo comportamento”.

Speranza

          Con questo termine mi riferisco ad un atteggiamento in cui dentro di noi costruiamo una rappresentazione di una possibile realistica evoluzione positiva del nostro paziente, una sorta di spazio potenziale in cui egli potrebbe svilupparsi. Lo sforzo di costruire in termini concreti questo scenario e di rappresentarlo e condividerlo col paziente credo sia importante per alimentare in lui un senso di fiducia nel cambiamento. Questi scenari talvolta non portano alla soluzione di un problema ma più semplicemente ad una sua attenuazione, ad un suo rendere la qualità della vita o delle relazioni più accettabili. Dentro di noi è importante nutrire questo tipo di aspettative positive purché non siano magiche e irrealistiche, perché ritengo che in una certa misura questo pensiero possa “contaminare” il quadro mentale del paziente stesso che è quasi sempre afflitto da un senso di auto efficacia bassissimo. Sono sempre rimasto colpito dal famoso effetto pigmalione che è stato scoperto nei processi di apprendimento: si è visto che le aspettative degli insegnanti sui singoli studenti, anche se queste erano state generate da informazioni casuali e inattendibili, influenzava l’esito delle performance dei singoli studenti. Se questo vale nei processi di apprendimento, credo sia presente anche nei processi terapeutici.

          L’esperienza che ho svolto in questi tanti anni di lavoro clinico mi porta a dire che noi dobbiamo essere sempre molto cauti nel fare delle previsioni sugli sviluppi futuri delle persone. Talvolta il nostro approccio ci porta ad essere alquanto inclini ad un pessimismo o a vedere i limiti presenti, tuttavia anche se queste valutazioni possono essere corrette non possiamo con certezza, in moltissimi casi, escludere la presenza di una possibile evoluzione. Riuscire a disegnare questo possibile in termini realistici e sostenibili è la sfida che dobbiamo cogliere ogni giorno, è il nostro specifico terapeutico perché la società nel suo complesso tende piuttosto, attraverso pregiudizi e stigmi, a produrre profezie negative che poi spesso si auto avverano.

Equilibrio

          Il punto precedente si collega al seguente aspetto che ho indicato col termine “equilibrio”.  Si tratta di alimentare dentro di noi un assetto cognitivo ed emotivo molto particolare in cui si cerca costantemente di considerare con prudenza e con un senso di “provvisorietà” o di “parzialità” i diversi aspetti che emergono da una situazione.

Nel nostro lavoro clinico molto raramente siamo di fronte a valori assoluti, indiscutibili o tali da portarci ad un’unica conclusione. Molto più spesso siamo di fronte ad una pluralità di fattori, di condizioni, di comportamenti che hanno tantissime sfaccettature e possibilità di evolvere. Mettersi con pazienza a sommare questi elementi può essere molto utile ma ancora insufficiente perché i processi sono spesso imprevedibili. Gli assi su cui il clinico in ambito psicologico è chiamato ad esercitare queste funzioni di valutazione e di intervento sono molteplici e per ciascuno si ripropone una scelta ponderata di costi / benefici, effetti immediati / a lungo termine: non abbiamo solo a che fare con un singolo ma quasi sempre con nuclei familiari, relazioni complesse spesso fondanti la vita e l’identità delle persone. Per questo è molto appropriato un procedere cauto e con una prospettiva sempre modificabile in senso positivo o negativo. Se questa cautela vale per moltissimi ambiti della clinica medica, credo valga ancor di più per l’ambito psicologico o sociale in cui i fattori in gioco sono molto più difficili da quantificare e da stimare.

          Questa cautela non vuol dire naturalmente essere inerti o peggio ancora fatalisti,

al contrario come ho descritto poc’anzi, ci spinge in un ambito in cui si cerca di disegnare scenari di possibili cambiamenti, senza assumere una posizione pessimista o negativa.

E’ un equilibrio in cui, se c’è da scegliere tra la parte negativa e quella positiva, è costruttivo puntare comunque sempre su quest’ultima.

Umiltà e collaborazione

          La consapevolezza della complessità della realtà umana e di quanto siano ancora molto limitati, nonostante il continuo progresso delle conoscenze psicologiche, i nostri mezzi conoscitivi e di intervento rispetto ad essa, dovrebbe spingerci ad un atteggiamento interiore e personale di grande umiltà, e parallelamente a considerare come indispensabile che l’azione psicoterapeutica sia inserita in un quadro complessivo d’aiuto e di cambiamento.

          Si tratta di un atteggiamento interno che, senza rinunciare a comprendere, studiare, investigare le connessioni e la genesi della sofferenza umana, mantiene viva questa consapevolezza: è molto di più ciò che non conosciamo, che non sappiamo prevedere o che non sappiamo comprendere rispetto a ciò che abbiamo capito e codificato nelle nostre teorie e modelli.  Usiamo questi modelli per non essere completamente spogli di strumenti e per aver più fiducia nella nostra azione ma nello stesso tempo non dobbiamo vedere in questo insieme di attrezzi una soluzione magica e assolutamente certa. Tutti noi sappiamo per le ricerche svolte che la psicoterapia ha una sua grande efficacia, tuttavia le nostre teorie non sanno dire con la stessa sicurezza che cosa nella terapia sia il fattore più significativo di efficacia, come dimostra il fatto che terapie diverse sono ugualmente valide per i pazienti.

          Può essere frustrante per noi psicologi confrontarci con altre professioni in cui lo zoccolo duro di sicurezze cliniche è più sostanzioso e solido, tuttavia credo che siamo un po’ tutti nella stessa barca come dimostrano le continue “inversioni di tendenza” presenti in medicina. Senza voler fare paragoni con altre discipline, credo che noi dobbiamo serenamente prendere atto di un sapere e di un agire terapeutico che è validato empiricamente nel suo complesso ma molto artigianale nel suo farsi e nella sua comprensione. Difficilmente in altri ambiti il fattore umano è più determinante e variabile come nell’attività psicologica. Mentre altri interventi terapeutici potrebbero

in teoria essere svolti anche da una macchina o da un computer, penso ad esempio ad un intervento chirurgico, il processo psicoterapeutico è in modo imprescindibile connesso alla relazione tra due menti e due persone.

Le conseguenze delle condizioni di incertezza, variabilità e complessità in cui operiamo nel campo dello sviluppo psichico potrebbero essere le seguenti:

    • darci la spinta a non sentirci onnipotenti e a costruire processi terapeutici e di cambiamento che tengano il più possibile conto di una molteplicità di fattori e di stimoli: relazionali, sociali, esperienziali, corporei, biologici, estetici, etici, ecc.;

    • aiutarci a collaborare tra noi in un consesso professionale in cui, nessuno ha la

verità in tasca, ma tutti ne colgono probabilmente un aspetto in un approccio che deve essere multifocale e anche creativo;

    • aiutarci ad intessere con gli altri soggetti professionali (educatori, assistenti sociali, insegnanti, medici, ecc.) dei piani di intervento collaborativi e necessariamente integrati.

Al termine di questa breve e sintetica descrizione di quelli che possono essere alcune caratteristiche importanti dell’atteggiamento interiore di chi fa un lavoro psicologico di tipo clinico e terapeutico, vorrei soffermarmi su un ultimo aspetto sollevato da Irvin Yalom noto psicoterapeuta statunitense, espresso da questa sua efficace affermazione: “Solo il guaritore che è stato ferito può davvero curare.”

In quest’affermazione ci possiamo credo facilmente riconoscere per evidenziare come, se ci siamo accostati a questa professione, è probabilmente perché siamo stati spinti anche da un desiderio di cura e di serenità personale. Tale condizione ci deve rendere realmente umili e vicini ai nostri pazienti e non, al contrario, farci sentire superiori ad essi per soddisfare i nostri bisogni narcisistici.

Per usare sempre le parole di Irvin Yalom, possiamo allora considerare l’avventura della psicoterapia come un viaggio a due, in cui si crea uno scambio e una continua ricerca verso un’evoluzione dove tutti i protagonisti si ritrovano trasformati.

Paolo Breviglieri

Psicologo psicoterapeuta

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