newsUCIPEM n. 975 – 13 agosto 2023

newsUCIPEM n. 975 – 13 agosto 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le news sono strutturate: notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}. Link diretti e link per pdf -download a siti internet, per documentazione.

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

01 AICCeF                                             Giornata di Studio – 29 ottobre Bologna

02 CHIESE.                                             Crisi delle chiese se il cristianesimo

04 DALLA NAVATA                              XIX domenica del tempo ordinario (anno A)

05                                                          L’ immagine di Gesù che dopo aver compiuto il miracolo della folla

06 ECUMENISMO                                Chiese inclusive per donne nuove e uomini nuovi. La 59ma sessione del Sae

09 EDUCAZIONE ALLA SESSUALITÀ  “Come nascono i bambini?”: parlare di sesso ai figli e dare le risposte giuste

12 FEMMINISMO                                 Gpa, la realtà e la sua narrazione

13OMOFILIA                                        Lettera aperta a papa Francesco

14 SACERDOTI                                      Il prete, personaggio che delude

15                                                          Il giro dei preti. Le parrocchie, grandi dimenticate

16  SESSUALITÀ                                     Transgender, via al cambio nome e sesso senza operazione. Legge Cirinnà, riflessi?

17TEOLOGIA                                        Metamorfosi: categoria universale del cristianesimo

18TEOLOGIA MORALE                       Passare dai divieti alla prospettiva di piena realizzazione

19                                                          Il problema della Chiesa col sesso

ASSOCIAZIONE ITALIANA CONSULENTI CONIUGALI E FAMILIARI

Giornata di studio “Il Consulente Familiare al servizio della genitorialità: l’evoluzione delle competenze”

Definita la seconda Giornata di Studio dell’Aiccef, che  si svolgerà il 29 ottobre 2023 presso lo ZANHOTEL EUROPA di BOLOGNA ed in contemporanea in modalità on line. Si proseguirà l’approfondimento del tema dell’anno “Il Consulente Familiare al servizio della genitorialità: l’evoluzione delle competenze”.  Relatrice della Giornata è stata scelta Lorena Milani, professore ordinario di Pedagogia Generale e Sociale dell’Università degli Studi di Torino, che porrà il  focus sul valore della   responsabilità e della competenza nella relazione d’aiuto, ingredienti essenziali nel  costruire il NOI educativo. La seconda parte, come di consueto, sarà dedicata agli approfondimenti specialistici del tema nella consulenza familiare e alla  condivisione di esperienze di pratica professionale. Seguiranno i laboratori.

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CHIESE

Crisi delle chiese se il cristianesimo non funziona più

La teoria della secolarizzazione sembra non essersi avverata ma il ritorno del religioso non è quello delle Chiese piene di fedeli, né di preti, pastori e missionari: è la fine delle chiese cristiane tradizionali?

                Partiamo da un dato di fatto: diversamente rispetto a un passato recente, oggi, una sia pur rapida istantanea sulle varie credenze non può che fotografarle come un processo in costante divenire; ed è possibile senza problema alcuno scegliere di essere atei o agnostici, seguire un’ortodossia religiosa, cambiare confessione, ritagliarsi un proprio specifico percorso all’interno delle religioni. Inoltre, mi pare un evento ormai conclamato l’es-culturazione del cristianesimo – come la chiama Christoph Theobald – dal paesaggio sociale e dall’immaginario europei; un evento che giustificherebbe ampiamente l’aprirsi di un dibattito pubblico, di cui in realtà per ora si fatica alquanto a scorgere i contorni. In questo scenario (mosso), scorgo due narrazioni fondamentali sul futuro delle Chiese: una, minoritaria, ottimista, e un’altra, largamente prevalente, pessimista.

 Secondo la prima, le Chiese sarebbero destinate a emergere trionfanti dall’attuale palude stigia: contro ogni probabilità, esse proseguiranno ad adempiere il loro mandato divino di evangelizzare i loro contemporanei; stando all’altra, per contro, il loro declino è inevitabile, a gioco medio-lungo, e il Cristianesimo – come ogni altra religione, si presume – è destinato a perdere influenza e a tirare i remi in barca, mestamente. Ecco perché, a mio parere, no, non è la fine delle Chiese tradizionali, ma è per loro il tempo del crogiolo: c’è da rimboccarsi le maniche ma ancor più il pensiero, perché da troppo tempo, come Chiese, abbiamo smesso di pensare. A conti fatti, e a dispetto dei numerosi profeti di sventura (compagni ideali di quelli deprecati da Giovanni XXIII mentre introduceva, sessant’anni or sono, il Vaticano II con la “Gaudet Mater Ecclesia”), questo cambiamento d’epoca non solo non dovrebbe mettere paura, ma se affrontato con il piglio giusto potrà fare del bene al vangelo, alle Chiese e alla loro credibilità (ma anche ai cosiddetti non credenti, e alla società tutta).

                C’era una volta il praticante… E oggi? È vero, stiamo assistendo alla scomparsa del cosiddetto praticante, campione riconosciuto della partecipazione rituale nel quadro della civiltà parrocchiale abilmente inventata dal concilio di Trento: una figura che sottintendeva un’associazione incrollabile fra credenza e appartenenza. Come ha spiegato la sociologa Danièle Hervieu-Léger, nella stagione della post-modernità, caratterizzata da un panorama religioso dominato dalla fluidità degli itinerari di fede fai-da-te e dall’estrema mobilità di aggregazioni comunitarie costantemente negoziate e rinegoziate, si tratta in effetti di un personaggio sempre più obsoleto. Da parodiare, semmai, come avviene ad esempio nella famosa serie a cartoni animati della famiglia Simpson, con il personaggio di Ned Flanders, l’inflessibile vicino di casa dello sprovveduto Homer, un integralista senza se e senza ma. La figura che parrebbe adattarsi meglio alla mobilità tipica della post-modernità religiosa è invece quella del nomade, o del pellegrino. Mentre la figura del praticante era necessariamente collegata con una pratica rituale fissa e obbligatoria, ben regolata dall’istituzione, comunitaria e territorializzata, stabile nonché ordinariamente ripetuta, quella del nomade dello spirito e del pellegrino si segnala per una pratica individuale e volontaria, autonoma, modulabile e mobile.

                Dedichi un capitolo intero al mondo del pluralismo religioso. Il mondo è un grande “condominio” di religioni, antiche, nuove, e di non religiosi. È un panorama inedito?

                Fino a pochi decenni fa, in Europa la maggioranza delle persone viveva all’interno di gruppi religiosi ristretti e circoscritti nei loro contorni sociali, con una coscienza piuttosto marcata – anche in quanto sostanzialmente indisturbata – della propria identità (spesso in realtà diffusa, ma abbastanza blanda e segnata più da rituali popolari e tradizioni ancestrali che da convinzioni profonde) e della differenza che li separava da individui appartenenti a tradizioni religiose altre. Buddhisti, hindu, sikh, gli stessi musulmani, ad esempio, abitavano territori lontani geograficamente e ancor più mentalmente, frequentati soltanto da pochi fortunati turisti o dagli studiosi occidentali, visti come testimoni di percorsi spirituali curiosi, esotici, talvolta poco più che folkloristici. E alla fine, soprattutto, secondo la generale convinzione dei cristiani, noi avevamo ragione, e loro, pur se in buona fede, avevano torto. Oggi, la multireligiosità è un dato di fatto, con cui pure fatichiamo a fare i conti… C’è un grande spazio, pertanto, per il dialogo interreligioso.

                A un certo punto il libro ci mette di fronte a Dio, alla Bibbia e alla figura di Gesù. Mi pare che  così facendo vuoi condurci attraverso i “punti fermi” da cui ricominciare a ragionare sul futuro. Andiamo con ordine: perché ci parli del “trasloco” di Dio, cosa significa?

                Intendo dire che Dio, il Dio cristiano, sta cambiando indirizzo: ad esempio, se durante la seconda guerra mondiale i primi tre paesi cattolici su scala mondiale erano Francia, Italia e Germania, con relativa leadership sul piano simbolico e teologico, ora sono stati rimpiazzati rispettivamente da Brasile, Messico e Filippine, con un forte ridislocamento verso la cultura ispanica e il Terzo Mondo. Non diverse le risultanze in campo protestante: se gli Stati Uniti conservano il primato, al secondo posto c’è la Nigeria, più o meno alla pari con la Germania e l’Inghilterra. Mentre la maggioranza degli anglicani è di pelle nera, africani, americani o australiani. Nel complesso, le Chiese cristiane si trovano esposte a una cesura considerabile la più profonda dal tempo della comunità primitiva. Proiettandoci sul 2050, solo un quinto dei presumibili tre miliardi di cristiani sarà costituito di non-ispanici bianchi. Senza trascurare un fenomeno su cui, invece, dovremmo guardare con attenzione: quello delle Chiese indipendenti africane, soprattutto di matrice pentecostale, che stanno mettendo in discussione il monopolio dell’offerta del cristianesimo su quel continente delle grandi Chiese, cattolica e protestante. Alla fine, non sembra solo una boutade quella offerta da P. Jenkins, secondo il quale «presto l’espressione un cristiano bianco comincerebbe a suonare come un curioso ossimoro, leggermente sorprendente, tipo un buddhista svedese. Persone così esistono, ma nel termine è implicito un pizzico di eccentricità».

                E che ruolo vedi nel libro, per la Bibbia?

                Beh, nelle Chiese del futuro, in ogni caso, non si potrà fare a meno della Bibbia; anzi, non si dovrà, o meglio, non si dovrebbe, se ci si sofferma sul fatto che, nell’autocoscienza di alcune Chiese (penso in particolare alla mia, la Chiesa cattolica), per molti secoli il rapporto con il testo biblico è stato intermittente e alquanto labile, non di rado problematico e discusso, e talora quasi inesistente, almeno su vasta scala.

                La Bibbia è un libro con il quale siamo chiamati a confrontarci, credenti o non credenti, laici o religiosi che siamo. I suoi personaggi si affannano e comunicano, s’innamorano e lavorano, combattono e piangono, mentono e tradiscono, uccidono e vengono uccisi, desiderano e sognano, mangiano e si divertono: sono, dunque, come gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo, di ieri e di oggi, chiamati, se ci riescono, a umanizzarsi e a fare i conti con la nostra fragilità così come lo siamo noi. La Bibbia, vorrei dire, con Dio a scuola di umanità. È pesa molto, purtroppo, l’attuale analfabetismo biblico, una piaga che dovrebbe allarmarci più di quanto non accada…

                E infine Gesù…

                Credo sia decisivo, pensando al futuro delle Chiese, soffermarsi in particolare sulle due svolte novecentesche nell’interpretazione della figura di Gesù: la sua realtà ebraica e la sua dimensione umana. Nella convinzione che se, da un lato, Gesù rimane il nervo scoperto delle Chiese cristiane, attorno al quale occorrerà lavorare sempre di più in funzione di un reale e aperto dialogo ecumenico, dall’altro non si dovrebbe dimenticare che Gesù è l’unica personalità che ha rivoluzionato per sempre il mondo… Si tratterà pertanto, per i cristiani tutti, di cimentarsi a seguire il Cristo nella sua umanità reale – l’umanità di uomo che ha conosciuto come tutti dubbi, angosce e tentazioni – e nella sua ebraicità. Il recupero dell’umanità di Gesù, fra l’altro, ci sta consentendo di comprendere quanto Karl Rahner espresse con il suo teorema del rapporto direttamente proporzionale tra l’umanità e la divinità nella comprensione del suo mistero: quanto più divino, tanto più umano; quanto più umano, tanto più divino. Perché è l’uomo Gesù che ha narrato Dio, ed è nell’uomo Gesù che «abita corporalmente la pienezza della divinità» (Col 2,9); è con l’uomo Gesù che i credenti in lui sono e saranno chiamati a camminare in una vita personale e comunitaria, il più possibile umana ed umanizzata. Con lui che, infatti, «ci insegna a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà» (Tt 2,12).

                In chiusura: nuove virtù teologali, così le chiami. cosa intendi?

                Sono convinto sia necessario rileggere le virtù teologali, quelle che, nella tradizionale teologia cristiana, riguardano direttamente Dio, hanno Dio per oggetto e fondano l’agire umano favorendo – per così dire – un accesso diretto a Dio stesso. Ciò che riguarda tutti, da tutti deve essere trattato e approvato”. Ipotizzando che le future virtù, in realtà, saranno formalmente ancora quelle antiche, rintracciabili nella Bibbia e codificate appunto dalla tradizione – la triade fede, speranza e carità – ma rivisitate e ripensate alla luce dei nuovi contesti sociali e culturali (ad esempio, per Theobald sarebbero ospitalità e santità, oggi, i loro nuovi nomi). Un’operazione già in corso, che va continuamente rilanciata, tanto più che, se c’è un tratto ad accomunarle, è la sensazione generalizzata che esse siano diventate non solo difficili da praticare, ma anche da comprendere a fondo. Eppure, con la fede, la speranza e la carità siamo tutti chiamati a confrontarci, pensando al valore insieme spirituale e civile delle nuove virtù teologali… Certo, nel futuro contesto sempre più secolarizzato e post-secolare, quel che resta del Cristianesimo e dei cristiani – non solo in Occidente – si troverà a operare in uno spazio pubblico affollato di proposte etiche, morali, spirituali e teologiche variopinte, non di rado in contrasto fra loro e destinate a confrontarsi con il basso continuo della permanenza di atteggiamenti e stili di vita pienamente secolarizzati. Qui siamo, con le macerie del Cristianesimo di ieri ancora fumanti. Ma non servono, e non serviranno, posture passatiste. E non serve a nulla, neppure stavolta, rimpiangere le cipolle egiziane

                  Brunetto Salvarani α1956

Intervista di Claudio Paravati per “Confronti” di luglio/agosto 2023

Teologo, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico, Brunetto Salvarani è docente di Missiologia e Teologia del dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna di Bologna e presso gli Istituti di Scienze Religiose di Bologna, Modena e Rimini. È direttore della rivista QOL ed è presidente dell’Associazione Italiana Amici di Nevé Shalom Wahat al-Salam. Tra i suoi libri più recenti ricordiamo: Dell’umana fratellanza e altri dubbi (con Adnane Mokrani, Terra Santa 2021), Fino a farsi fratello di tutti. Charles de Foucauld e papa Francesco (Cittadella 2022) e Guardare alla teologia del futuro (a cura di, con Marinella Perroni, Claudiana 2022). Nel suo ultimo libro,  Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano (Laterza, 2023) analizza la crisi epocale che tutte le Chiese cristiani stanno attraversando, soprattutto nei Paesi europei. Cosa resterà, della Chiesa di oggi, nei prossimi decenni? Che cosa rischiamo tutti di perdere in una cultura in cui il Cristianesimo che abbiamo ereditato dal passato non dovesse più “funzionare”?

www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/08/crisi-delle-chiese-se-il-cristianesimo.html

DALLA NAVATA

Domenica del tempo ordinario – anno A

1Re                                       19,12. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.

Salmo                                   84, 09. Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo,    per i suoi fedeli. Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la   nostra terra.

Paolo ai Romani              09, 03. Vorrei essere io stesso anàtema, separato da Cristo, a vantaggio dei miei fratelli.

Matteo                                14, 33. Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!»

L’ immagine di Gesù che dopo aver compiuto il miracolo della folla

L’ immagine di Gesù che dopo aver compiuto il miracolo della folla — i cinquemila sfamati, senza contare le donne e i bambini — si ritira da solo, per sottrarsi all’entusiasmo, è una immagine che mi ritorna spesso alla mente per definire il perenne mistero di Gesù che, nonostante tutti i secoli che sono passati, io sono convinto è solo. Fra il suo messaggio e la sua parola e ciò che i suoi fedeli hanno fatto e hanno detto in nome suo, c’è un divario, un vuoto, una distanza che ogni tanto riscopriamo, perché la fede che Egli ha chiesto — quella simboleggiata da Pietro che cammina sulle acque — è così al di sopra delle risorse umane che noi abbiamo bisogno di sorreggerla con degli impulsi che sono più conformi alla nostra natura. Il risultato che ne abbiamo è quello di una fede contaminata, che ci tiene distanti da quello stesso Gesù di cui parliamo e al cui nome ci riferiamo. La solitudine di Gesù è un mistero che finirà alla fine dei tempi. Del resto lo disse in maniera simbolica anche Lui nell’ultima cena, quando disse ai suoi: «Non berrò più con voi il frutto della vite (è il vino della gioia) fino a quando non ci saremo trovati tutti nel Regno del Padre mio». Gesù è ancora nella sofferenza, dovuta alla sua segregazione e di questa segregazione, dovuta alla contaminazione della nostra fede, possiamo dire qualcosa oggi, ai margini di tre episodi così eloquenti a questo riguardo.

La figura di Elia ci richiama, nella storia che viene narrata dalla Bibbia, i violenti fanatici di tutta la storia delle religioni. Elia aveva appena sgozzato i sacerdoti del dio Baal per onorare Jahvè, era ancora macchiato di sangue, temeva rappresaglie. Credeva di avere reso onore a Dio, si ritira nella grotta. Ed ecco questa mirabile teofania. Viene il vento, si sente un terremoto: Dio non era nel terremoto; c’è un fuoco che divampa: Dio non era nel fuoco; c’è un mormorio di vento leggero: Dio era in quel mormorio. Questa non è una storia antica. Nella stessa terra in cui visse Elia ci sono oggi uomini di fede che in nome di Dio fanno il terremoto, il vento e il fuoco. Dio non è nel terremoto, non alza la spada, non è nel vento, non fa proclami minacciosi, non è nel fuoco perché non divora, non distrugge. E nel mormorio del vento. E una brezza evangelica che si alza dall’antichità giudaica. Per capire che Dio è nella brezza, in un soffio impercettibile, dovremo conoscere la parola e la testimonianza di Gesù. Abbiamo bisogno di liberare la fede dal delirio dell’onnipotenza. Ecco il primo pericolo che si nasconde nella fede religiosa. Ahimè, la cronaca di questi giorni ce ne dà un esempio sconcertante. Un male profondo che giustifica anche il fatto che molti uomini per difendere un’umanità pacifica hanno deciso di rifiutare Dio perché Dio è terremoto, vento e fuoco e non ne vogliono sapere. Hanno ragione. Dio è brezza, la voce di Dio passa attraverso la coscienza umana, è impercettibile, non costringe, non piega la testa del suo avversario come noi vorremmo che facesse e come anche il linguaggio religioso continua a dire. Abbiamo cantato «Te Deum» nelle chiese dopo vittorie sanguinose! Noi amiamo il Dio del tuono e del sangue. Non solo gli altri, i musulmani «fanatici». E una storia comune ed è per questo che Gesù è solo. Ha detto a Pietro: «Metti la spada nel fodero», ma noi abbiamo benedetto innumerevoli spade. È questa la nostra storia. La solitudine, oserei dire con un tocco forse di eccesso, il pianto di Gesù è dovuto a questo fraintendimento e per questo, in qualche modo, si può considerare — capitemi — un fallito perenne nella storia. Io sono convinto che per ritrovare la sorgente della fede dovremo entrare in quella solitudine.

L’altra tentazione è quella dell’antagonismo. Quelli che hanno fede fanno gruppo e si contrappongono agli altri, per cui la fede diventa una minaccia profonda per la solidarietà umana. E una storia lunga quanto la storia della fede cristiana. La fede ci fa obbligo di essere al servizio di tutti gli uomini, senza distinzione. Noi abbiamo fatto gruppo tra di noi e abbia destinato con occhi asciutti gli altri all’inferno. Per secoli abbiamo detto che chi non è dentro la Chiesa si danna. Questa era la fredda e diabolica certezza. In questo brano Paolo dice che pur di essere solidale con i suoi fratelli — gli Ebrei che erano responsabili del rifiuto di Gesù Cristo — accetterebbe di essere anatema, di essere condannato. Non c’è la sete della salvezza personale al sopra di tutto, c’è il desiderio della fraternità al di sotto di tutto, anche di andare all’inferno. Sono i paradossi che esprimono bene questo sentimento. Noi abbiamo vissuto una fede fatta di usurpazioni, di distinzioni, di segregazioni, di ghetti. Noi dobbiamo capovolgere tutto questo. Pur di essere solidale con i miei fratelli di questo mondo, non mi importa chi siano, io accetto di andare all’inferno. Paradosso. Ma poi questa è la via per conoscere il Dio di Gesù Cristo. Il Dio di Gesù Cristo non è quello che si conosce al di sopra, ma è quello che si conosce per le vie concrete della solidarietà con gli uomini, con quelli che noi giudichiamo i più colpevoli.

  p. Ernesto Balducci, scolopio (α1922-ω1992) “Gli ultimi tempi” vol.1 anno A

www.fondazionebalducci.com/category/la_parola

ECUMENISMO

Chiese inclusive per donne nuove e uomini nuovi. La 59ma sessione del Sae

Il dialogo interreligioso è una prospettiva che il Sae ha sempre tenuto presente sullo sfondo della sua storia. Alcune sessioni alla fine degli anni ’90 sono state dedicate al tema e ogni anno esso è declinato attraverso un momento specifico di confronto con uomini e donne di altre tradizioni. La tavola rotonda interreligiosa della 59a edizione – intitolata “Per la giustizia di genere” – ha avuto come ospiti Paola Cavallari, Sarah Kaminski e Zineb Moujoud che, nella loro visione singolare, hanno trattato il tema da una prospettiva cristiana, ebraica e islamica a partire da tre parole: differenza-uguaglianza, storia-memoria, sessismo.

«Siamo ancora lontani dall’aver raggiunto l’obiettivo di una giustizia di genere – ha premesso il teologo e scrittore Brunetto Salvarani, che ha moderato i lavori –. La violenza costituisce una questione strutturale, un flagello che rappresenta la prima causa di morte delle donne. Esse sono sottorappresentate nei ruoli di comando, guadagnano meno degli uomini e sono le prime a perdere il lavoro nei tempi di crisi. Il cambiamento necessario inizia con nuovi modi di pensare. Come diceva Bergonzoni: “Non dovremmo solo rimboccarci le maniche ma soprattutto il pensiero”». Il teologo ha citato come esempio di buona pratica il documento sulla giustizia di genere della Chiesa evangelica luterana in Italia (Celi) promosso e votato nel 2021 durante il 23° Sinodo. Il testo afferma che «è necessario riconoscere il dono di ogni persona e il suo valore di donna, uomo e persona non binaria. Da un discorso di giustizia di genere trae vantaggio tutta la comunità, mentre quando una persona è discriminata tutta la comunità è danneggiata».

                Entrando nel merito del binomio differenza-uguaglianza, secondo

 Sarah Kaminski, (α1979,)scrittrice, traduttrice, docente all’Università di Torino, «la questione della coppia e delle parole dialettiche che si completano l’un l’altra è insita in noi. Nel racconto della creazione del mondo, incontriamo il “vizio” ebraico di iniziare dalle due creazioni, dalla separazione. Per me la cosa più importante è la divisione, che dà diritto a un’esistenza autonoma, completa ma complementare».

                La docente ha portato degli esempi di lettura, dicendo che occorre cautela nel leggere la Bibbia. Nel primo racconto della creazione (Gen 1,27): «“Dio disse “faremo l’uomo nella nostra immagine, nel nostro modo di essere”. Chi sono i noi? Il midrash dice che Dio ha discusso con gli angeli e ha cancellato i volti precedenti perché non gli piacevano. Ha creato nella sua immagine, e non vado a discutere la questione di Dio femminile. Per me è un insieme di identità, del tutto astratto. C’è scritto: ha creato nella sua immagine, maschio e femmina. Due parole in tensione e in armonia».

                Passando poi al secondo racconto (Gen 2,18), Kaminski propone una traduzione alternativa per l’affermazione divina che è generalmente tradotta “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. «Il termine utilizzato è ezer kenegdo: un aiuto “contro” di lui, in dialettica con lui, a complemento di lui.  I rabbini discutono il fatto che la donna può essere un aiuto per l’uomo, ma può essere anche un elemento in opposizione assoluta a lui. Grossman spiega che in tutta la storia ebraica le donne ufficialmente avevano uno status minoritario, ma c’erano lettere e documenti in cui gli uomini si lamentavano del potere delle donne a casa e della loro gestione degli affari. Le definiscono ribelli e sfacciate. In teoria erano minoritarie, di fatto le donne valevano».

     Paola Cavallari, ω1950, cattolica, insegnante, fondatrice e presidente emerita dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, ha premesso che ci sono due modi per intendere la parola differenza: uno positivo e uno negativo; uno orizzontale e uno gerarchico. Il femminismo della differenza ha elaborato da anni un pensiero sulla differenza nell’accezione positiva. «Anche il termine uguaglianza è importante, e sarebbe meglio declinarla come parità: abbiamo bisogno di pari diritti, un pari accesso al voto e ai servizi pubblici. Il pensiero della differenza ha superato il traguardo dell’uguaglianza che era stata interpretata spesso come assimilazione. L’accesso delle donne a determinate leadership e ruoli di potere non sia una estensione dei diritti già dati ma una rifondazione dei diritti a partire dalle differenze».

                Entrando nel discorso del magistero della Chiesa cattolica, Cavallari ha citato una rivisitazione della “Mulieris dignitatem-1988” fatta da papa Francesco nel 2013 nella quale si parla di uno “speciale affidamento” dell’essere umano alla donna nella maternità. Commenta l’insegnante: «Questa spia linguistica forse poco visibile immediatamente, fa cogliere come ancora si possa vivere la dimensione dell’umano come se la donna fosse estranea all’umano. Una conseguenza di questa allocuzione riguarda il principio petrino e il principio mariano. Il genio femminile è stato molto inneggiato. Ci chiediamo come donne perché il genio femminile deve avere caratteristiche specifiche nell’ambito dell’essere cristiani e non avere caratteristiche che sono trasversali a tutti gli uomini e le donne: la misericordia, la dolcezza, l’amore, la carità. Si ha l’impressione che per le donne ci sia un posto speciale che è però un piccolo recinto che non apre alla libertà, nel quale il genio femminile può agire solo nei termini della maternità. Maternità è un’enorme potenzialità della donna ma è una funzione. La Chiesa cattolica l’ha interpretata come controllo sulla riproduzione e sulla sessualità femminile».

   Zineb Moujoud, della Comunità islamica di Perugia, futura psicologa, impegnata nel dialogo interreligioso, sul tema differenza-uguaglianza ricorda un campo estivo di giovani cristiani in cui una ragazza le aveva rivolto una domanda sulla posizione religiosa della donna nell’Islam. «Il campeggio era focalizzato su una figura ponte, Maria, una maestra di fede anche per noi, della quale il Corano racconta la nascita. In questo episodio la mamma di Maria era fiduciosa che ciò che portava in grembo fosse un maschio e lo avrebbe consacrato al Signore. Dopo aver partorito disse “ho partorito una femmina, il maschio non era certo uguale alla femmina”. Il maschio aveva l’accesso esclusivo al tempio. Ma Dio ha accolto Maria e l’ha fatta crescere. Spesso siamo noi che leggiamo la religione in termini discriminatori tra maschio e femmina. La mamma di Maria era convinta della superiorità del maschio, ma Dio ha accettato Maria che è stata l’unico caso femminile all’interno del tempio ed è diventata una figura di essere umano purificato che si dedica completamente a Dio».

                Secondo Moujoud è importante per la comprensione delle dinamiche di differenza e uguaglianza tra generi in una cornice religiosa «distinguere quelli che sono la cultura, l’educazione, la tradizione da quelli che sono gli insegnamenti religiosi. La tradizione e la cultura in cui siamo tanto inseriti ci dà i paraocchi con i quali leggiamo anche la religione. Nel Corano uomini e donne sono sullo stesso piano; negli elenchi si utilizza il maschile e il femminile».

 Rispetto al binomio storia/memoria Kaminski distingue due atteggiamenti nell’ebraismo contemporaneo: la società ebraica ortodossa e ultraortodossa sta rinnovando momenti che dall’illuminismo in poi le donne all’interno dell’ebraismo hanno ottenuto o hanno ripescato e hanno fatto riconoscere dal mondo maschile, e il mondo intero ebraico, visibile nei serial televisivi e nei film, che sta facendo riguardo alle donne dei passi indietro. Sulla memoria, che nella lingua ebraica è un termine maschile – zachor, zeccar – da una generazione all’altra si rimuovono le donne. «Le donne sono una memoria narrata all’interno della casa sino a una certa età, poi negli scritti e nei commenti cessano di essere un elemento importante. La memoria va attuata dalle donne in due momenti basilari della memoria ebraica. Il primo è Shabbat, “luogo” che accoglie l’emanazione femminile di Dio, la Shekhinah, ma il ruolo delle donne si ferma alla soglia di Shabbat, alla sera. Lei è molto presente, ma da lì in poi le normative sono riferite all’uomo. Il secondo momento è Pesach, la Pasqua ebraica, dove la preparazione della festa è affidata alle mani della donna, ma la conduzione del Seder (sequenza del rituale) sarà affidata all’uomo. La legge ebraica dice che sono momenti importanti perché non si deve solo ricordare ma custodire (shomer). Il momento dello zachor e shomer, le due candele per accogliere lo Shabbat, è tramandato attraverso le donne. Dal 1920 nella terra d’Israele le donne hanno il diritto al voto ma tante storiche dimostrano che le donne sono finite poi in cucina. Ci volevano gli anni ’80 per dare uguaglianza agli stipendi, ai posti di lavoro, nella politica».

                Paola Cavallari osserva che nell’ambito della storia-memoria e degli altri saperi, la realtà è interpretata da diversi punti di vista che non possono essere ignorati. «Esistono delle parzialità che si rifanno a razza, etnia, religione, sesso, genere. Ci sono uomini che stanno affrontando la loro posizione come soggetto sessuato, non più come uomo in senso neutrale. Anche la donna è soggetto sessuale. Entrambi pensano la loro storia e identità di genere con la consapevolezza che non sono l’intero».

                Come Kaminski, Cavallari riprende la nuova traduzione di Genesi 2,18 “un soccorso contro di lui”: «contro, di fronte, è il volto dell’altro che resiste alla nostra autosufficienza, al nostro desiderio di non incontrare ostacoli, il limite. La ricchezza che ci offre questa formulazione è immensa. A parte il fatto che in Genesi si dice che Dio creò l’Adam dalla Adamà, che non è l’uomo, ma il terroso, l’essere umano, la prima creazione, e poi avviene lo sdoppiamento sessuato. Sappiamo quali ricadute hanno le traduzioni di certi testi del Primo sul Nuovo Testamento».

                Per parlare della giustizia di genere nell’Islam, Zineb Moujoud è partita dalla realtà antica nella penisola araba. «L’arrivo di una neonata femmina era un evento vergognoso, catastrofico, per questo era seppellita viva dal suo stesso padre. Dio nel Corano condanna fermamente questa pratica atroce. Il modello maschilista viene completamente sconvolto dal messaggio rivoluzionario dell’Islam che riconosce il diritto alla vita delle donne, che a noi pare scontato. Qualche secolo fa non lo era. Il Corano riconosce il diritto alla vita, alla cura, all’educazione, all’istruzione, all’affetto, alla pietà, alla tenerezza, all’eredità. Nel VII secolo una donna gestiva un grande mercato. Le donne si sono oggi affermate in campo ingegneristico, artistico, sportivo. Nel 2019 avete eletta a ricoprire il ruolo di giovane europea una giovane musulmana velata italiana, tutti questi esempi sono piccoli flash per fare vedere come – da essere seppellita viva, ad avere diritti, a emergere nella società come protagonista – la donna ha fatto un percorso e la religione dell’infanzia l’ha favorita in questo suo sviluppo. Lottare per i diritti della donna in alcuni contesti sociali di maggioranza islamica è un grande paradosso che riflette come il binomio religione e tradizioni culturali spesso siano confusi e contaminati l’un l’altro».

                L’ultima parola, sessismo, è analizzata da Sarah Kaminski premettendo che il modello dell’ebraismo è patriarcale. «Il popolo Israele è femmina. Una delle definizioni correnti nella Bibbia per dire il suo peccato è affermare che è un popolo che si prostituisce. Questo è offensivo, e non si parla mai di prostituzione maschile. Gli uomini ebrei erano oggetto di sessismo essendo considerati effeminati perché non facevano il mestiere di contadino o guerriero. Con l’illuminismo e con la rivoluzione sionista la donna diventata pioniera, contadina e anche soldata. Ma è stato solo dagli anni ’80 in poi che la donna ha avuto lo status che ha oggi in Israele di cui sono molto fiera, ma non sono fiera di quello che c’è negli ambienti religiosi. Nella società israeliana oggi viene affrontato il tema dei diritti agli omosessuali e a persone di ogni orientamento; in quanto a leggi dello Stato siamo avanti. L’adozione e l’utero in affitto sono accettati e garantiti dalla legge israeliana. Non così la pensano gli ambienti religiosi e ultrareligiosi: è un’altra storia che va raccontata in un altro modo».

                Il termine sessista, secondo Paola Cavallari, «è molto sfuggente: a prima vista non si riconosce se una società è sessista. La citazione di papa Francesco era sessista. È facile a dirsi ma difficile ad afferrarlo. Ci sono categorie concettuali che veicolano il sessismo (spirito-materia, ragione-sentimenti, anima-corpo, attivo-passivo, forte-debole, astratto-concreto, teorico-empirico, trascendente-immanente, cultura- natura) ma è difficile rendersene conto. Non sono poli oppositivi che hanno lo stesso valore assiologico, ad esempio il corpo era considerato inferiore rispetto allo spirito».

                La scrittrice ricorda l’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, «filiazione del Sae, che è nato anche perché nel 2015 ci fu un Appello di dieci Chiese cristiane che chiedeva alle Chiese in Italia di farsi carico della violenza sulle donne: vogliamo ricordarci di questa cosa, vogliamo impegnarci nel portarla avanti? Il pastore valdese Daniele Bouchard, che dice di aver imparato che la violenza è costitutiva del genere maschile, ha scritto che “le chiese cristiane hanno la possibilità e la responsabilità di intervenire contro la violenza sulle donne a diversi livelli. Qualche passo in avanti è stato fatto, ne è un esempio l’Appello del 2015, ma è ancora troppo difficile parlare di violenza sulle donne negli ambienti ecclesiastici. Riconoscere che il problema della violenza è anche interno alle chiese significa ammettere che le chiese sono parte costitutiva del patriarcato, e dunque sono corresponsabili anche della violenza maschile. È risaputo che il luogo dove avviene la maggior parte delle violenze sulle donne è la famiglia. La cristianità non ha nessuna responsabilità in questo?”».

                Anche per Zineb Moujoud il sessismo è facile da dire e difficile da afferrare. Infatti «l’atteggiamento di difendere certi atteggiamenti spesso non avviene in modo consapevole. A volte sono le stesse donne che si sottomettono in modo incondizionato agli atti di discriminazione nei loro confronti considerandoli normali perché loro sono donne. Addirittura può capitare che anche in contesti islamici diventano protagoniste di approcci sessisti verso i loro simili, per quanto riguarda l’istruzione è spesso la mamma che impedisce alla figlia di continuare a studiare perché “è roba da maschio”. Oppure succede che l’uomo quando arriva a casa deve trovare il cibo caldo. Ma non accade il contrario. C’è distanza tra questi atteggiamenti e l’insegnamento islamico. Il Profeta era su un’altra linea. Si faceva consigliare anche politicamente da una giurista musulmana. In un’ottica islamica uomo e donna sono creati da un solo essere. Ci saranno ruoli, abilità, responsabilità specifiche, ma non dicono superiorità o inferiorità bensì differenze complementari, collaborazione tra generi piuttosto che competizione».

                La tavola rotonda si è conclusa con tre appelli all’assemblea richiesti dal moderatore.

  1. Paola Cavallari ha auspicato che i temi delle prossime sessioni tengano presente il pensiero sessuato.
  2.  Zineb Moujoud ha chiesto di continuare sulla linea di conoscere l’altro, proporre la realtà dalla parte dei due generi, lavorare in sintonia.
  3. Sarah Kaminski ha suggerito di studiare diversamente l’ebraismo. «Trovo in moltissimi ambienti una conoscenza superficiale e l’ignoranza della storia ebraica e di Israele oggi».

Redazione          Adista   31 luglio 2023

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EDUCAZIONE ALLA SESSUALITÀ

“Come nascono i bambini?”: parlare di sesso ai figli e dare le risposte giuste alle domande imbarazzanti

“Come nascono i bambini?”: parlare di sesso ai figli e dare le risposte giuste alle domande imbarazzanti

Le domande su corpo e relazioni cominciano già alla scuola materna. E alle elementari si intensificano, complice lo sviluppo psicosessuale e la curiosità che caratterizzano questa fase. Imbarazzi e tabù pregressi dei genitori, però, possono rendere la conversazione, di per sé naturale, molto complessa. Con la psicologa Cecilia Ferrari abbiamo parlato di come approcciare l’argomento, età per età

“Ma quindi, come nascono i bambini?”. Questa è senz’altro la domanda più gettonata di tutte quelle che corollano il percorso verso la consapevolezza affettiva e sessuale dei bambini, viaggio che li conduce alla scoperta del proprio corpo, di quello degli altri e delle relazioni intime che tra questi possono intercorrere. Lo sviluppo psicosessuale dei più piccoli inizia alla nascita, poi si evolve grazie all’acquisizione di regole sociali, alla comprensione delle emozioni e, non ultima, alla componente biologica ormonale che si innesca con la pre-pubertà. Senza dimenticare gli stimoli ambientali cui i piccoli sono sottoposti, dalle informazioni ricevute dagli amichetti più grandi a quelle reperite dalla tv, passando per le canzoni (basti pensare al “sexy shop” di Tango di Tananai o al “sogno erotico” di Levante, parte dei testi delle canzoni che hanno presentato a Sanremo 2023): i bambini, anche solo da un punto di vista lessicale, vengono a contatto con parole afferenti al sesso sin da piccolissimi. E la curiosità per il significato di quell’espressione può generare una serie di domande fisiologiche e normalissime cui, spesso, il genitore fatica a trovare risposte consone, con toni adeguati all’età del bambino e senza farsi intrappolare dalla rete del disagio. I tabù e lo stigma che possono ruotare, per questioni culturali, sociali, individuali e, non ultime, religiose, intorno alla sessualità, ovviamente non aiutano.

Come ci ha detto la psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva Cecilia Ferrari, socia della Libera Compagnia di Arti e Mestieri Sociali per la quale lavora come psicologa scolastica nelle scuole dell’hinterland milanese, “la vergogna intorno all’intimità è una sovrastruttura degli adulti: se ci si sente in difficoltà a parlare di questi temi, è facile traslare questo disagio anche nelle conversazioni con i bambini”. I piccoli, sin dalla nascita, usano il corpo come “mezzo di scoperta del mondo”: la parola d’ordine è dunque accogliere questa naturale curiosità permettendo al bambino di porre le domande che desidera senza sentirsi giudicato, o, peggio, non accolto. Ecco dunque un piccolo vademecum, età per età, per capire lo sviluppo psicosessuale dei più piccoli e intercettare (e accogliere) le loro domande su sesso, amore e corpi senza andare in confusione.

Alla scoperta del mondo (attraverso il corpo): da 0 a 3 anni

Tra gli 0 e i 2 anni”, spiega l’esperta, “la scoperta passa attraverso il contatto della pelle e la bocca, a partire dalla suzione dei primi mesi di vita”. A 2-3 anni inizia il controllo sfinterico e il bambino comincia a scoprire il proprio corpo attraverso la manipolazione. “In questa fase dello sviluppo psicosessuale il piccolo comincia a toccarsi e a scoprire il piacere che ne deriva: non parliamo ancora di un piacere in senso orgasmico o erotico, ma sempre relativo alla scoperta”. Fino ai 3 anni, la simbiosi tra genitori e bambino è totale: è a questa età che comincia a capire che il suo corpo è altro da quello della mamma e del papà e a percepire come permanenti i suoi caratteri sessuali.

Dai 4 in poi: l’età delle domande

Le prime domande sui corpi (proprio e altrui) iniziano intorno ai 4 anni, complici i giochi di ruolo (fare finta di essere il dottore, la mamma, la maestra) che alimentano l’immaginazione e la capacità simbolica. A partire dai sei anni, il bambino assume consapevolezza della costanza di genere, ossia del fatto che il sesso biologico di una persona rimane lo stesso anche se la sua apparenza fisica (ad esempio abbigliamento, lunghezza dei capelli) può variare. “Dai 7 fino ai 10 anni cominciano a svilupparsi, infine, tutte quelle regole sociali legate ad esempio al senso di privacy e pudore. In questa fase i bambini cominciano a stringere delle relazioni più intime con i pari dello stesso sesso e possono iniziare a sperimentare la masturbazione”. L’esplorazione del corpo, anche intesa, appunto, come masturbazione, è ancora una volta un passaggio naturale e fisiologico della crescita dei bambini.

Quando iniziare a parlare di sesso (e come rispondere alle domande “scomode”)

Il tema del sesso, dunque, non è collocabile in una fase precisa della prima infanzia. Non esiste, insomma, una finestra in cui fare “il discorso” ai più piccoli: l’argomento, data la sua natura, può essere introdotto subito, già alla scuola materna, e con spontaneità. “In questo modo”, suggerisce l’esperta, “si dà al piccolo l’idea che intorno alla questione non ci siano tabù”. Vale lo stesso per gli attributi intimi, spesso definiti tramite eufemismi (la vagina !!!??? [vulva]diventa così “patatina”, il pene è il “pisellino”). “Non dimentichiamo di dire ai bambini come si chiamano veramente: dare un nome alle cose li aiuta a individuare meglio le parti del corpo in caso di malessere”. Lo stesso vale, ad esempio, per le mestruazioni, spesso occultate da eufemismi o addirittura da silenzi fino al giorno in cui la piccola non arriva al menarca: “Dire in anticipo e con naturalezza a una bambina che a un certo punto vivrà una fase di sviluppo importante attraverso il ciclo mestruale è un modo per proteggerla dalla normale paura e angoscia che questo cambiamento porta con sé”. E anche per evitare di legare al sangue e al ciclo tabù, stigma e vergogna.

E le domande specifiche, spesso lanciate a bruciapelo, come gestirle? “Se un bambino pone un quesito diretto su qualunque questione, sesso compreso, bisognerebbe sempre rispondere e farlo con onestà, ovviamente con termini consoni alla sua età. A intuito il genitore può capire se il figlio cerca solo risposte ‘scientifiche’ o si accontenta del significato lessicale, oppure desidera sapere di più”. Rispondendo con onestà, “si evita che il bambino vada cercarsi da solo le risposte, col rischio che venga sovrastimolato, confuso o turbato da concetti che non sono adeguati al suo sviluppo”. L’importante, dunque, è non imbarazzarsi e non evitare la domanda: “Tagliando corto si rischia di accumulare sul piccolo un senso di tabù e vergogna in merito al sesso, che poi può portarsi dietro anche da adulto”.

Come nascono i bambini?

Una delle domande più gettonate, dicevamo, è quella relativa alle gravidanze. Questo perché “è impossibile che un bambino non si lasci travolgere dalla curiosità alla vista di un pancione”, ci ha detto l’esperta. A sua volta, la domanda su come nascono i bambini può generare curiosità ancora più articolate (“Come ci è arrivato il seme di papà nella pancia della mamma?”). A quesito diretto, suggerisce la dottoressa Ferrari, sarebbe bene dare risposte quanto più possibile realistiche e precise. “Fino ai 4 anni si possono dare spiegazioni più semplici usando termini non edulcorati o fantasiosi. ‘Nella pancia della mamma c’è un uovo che si incontra con il semino del papà’ potrebbe essere un buon inizio. Ai bambini della scuola elementare è possibile dare spiegazioni usando termini specifici (‘Il pene dell’uomo emette un liquido che quando si incontra con l’ovulo della donna fa nascere l’embrione’)”.

E se i piccoli vengono a contatto con stimoli non consoni alla loro età, magari tramite fratelli o amici più grandi? “In questo caso, se il genitore si accorge che il bambino è turbato perché non era pronto a ricevere quell’informazione, è importante che validi la sua emozione e che poi lo aiuti a fare chiarezza magari col supporto di letture specifiche”. Fondamentale, in questi casi, è “accogliere il suo turbamento senza minimizzarlo”.

Educazione all’affettività a scuola: perché è importante un buon corso di avvio alla sessualità

La scuola è il luogo eletto in cui i bambini cominciano a scoprire le relazioni e anche lo sfondo ideale per un buon corso di educazione alla sessualità e all’affettività, spesso proposti dai dirigenti in quinta elementare, periodo ponte non solo da un punto di vista didattico ma anche psicosessuale. “Secondo alcune scuole di pensiero si può iniziare a introdurre l’argomento, con letture e filastrocche, già alla scuola materna”, ci ha detto la dottoressa. “Anche se spesso i corsi vengono proposti intorno ai 10 anni, quando il bambino ha già acquisito un grosso ventaglio di competenze cognitive e relazionali”. I 10 anni sono un giro di boa perché nei piccoli “cominciano una serie di cambiamenti anche corporei, come il menarca per le femmine e le prime eiaculazioni per i maschi e inizia il percorso verso pubertà”. Le relazioni con i pari del sesso opposto, sempre in questo periodo, entrano nel vivo. Ma come si fa a riconoscere un buon corso di educazione sessuale? “Fondamentale è che sia tenuto da professionisti, dunque psicologi, psicopedagogisti, sessuologi o educatori specializzati che non si imbarazzano a parlare di certi argomenti, soprattutto con una platea di giovanissimi. Importante anche che nel corso si parli non solo di sessualità ma anche di sentimenti ed emozioni e che mantenga aspetti sia pratici che teorici con l’aiuto di giochi, libri e storie”.

Letture per accompagnarli nella crescita e nell’educazione sessuale

A proposito di letture, la dottoressa Ferrari suggerisce la serie “Così sei nato tu e “Così sei fatto tu” del dottor Alberto Pellai (Erikson), organizzata per età e facilmente approcciabile dai bambini nelle fasce 4-10 anni. Dello stesso autore, molto prolifico in termini di letture a tema infanzia e sessualità, c’è anche “Mamma e papà, che cos’è l’amore” (Franco Angeli); infine, per introdurre il tema dell’inclusione, della consapevolezza e del consenso, molto interessante la lettura di “Un bambino è come un re” (Franco Angeli).

Giovanna Gallo                La Repubblica                  19 luglio 2023

www.repubblica.it/moda-e-beauty/2023/07/19/news/come_nascono_i_bambini_come_parlare_di_sesso_ai_figli-407750687/?ref=RHLM-BG-I405574519-P2-S1-T1

FEMMINISMO

Gpa, la realtà e la sua narrazione

Il dibattito sulla gestazione per altri che si è attivato sul Manifesto è necessario, ma rischia di essere inutile se chi vi partecipa si limita alla difesa di principi sanciti da vecchi o nuovi femminismi. Diventa velleitario, se arriva a sostenere che il diritto – dalla Costituzione in poi – è una garanzia di libertà o di giustizia per le donne. Ed è debole se ci porta a credere che avere dei diritti sia la via che conduce fuori dall’oppressione, mentre il neoliberalismo, che li ha svuotati di ogni contenuto, usa il diritto per affermare la libertà di mercato del più astratto degli individui. Per essere radicale, questo dibattito dovrebbe affondare le sue radici nella realtà: di chi e a chi parliamo quando parliamo di GPA? In che condizione materiale si trova chi vi fa ricorso o mette a disposizione il proprio utero? Chi può fare queste scelte e chi è obbligata a farle?

Va detto che questo dibattito rischia di avere un esito paradossale. Si parla di una tecnica che svincola la procreazione dalla sessualità ‘naturale’, ma si finisce per fare della maternità il naturale destino delle donne. Per chi vi si oppone, la gestazione per altri è insopportabile perché una madre che rinuncia a curarsi del frutto del suo grembo cedendolo a terzi mette in questione ogni istinto o legame materno. Non deve essere possibile avere un utero senza accettare di realizzare il carattere simbolico e la posizione sociale che esso prescrive. D’altra parte, il sostegno alla GPA finisce per identificare con la sua funzione procreativa la donna che mette il suo utero a disposizione come dono o come merce. Il desiderio di procreare reclamato come diritto attraverso il corpo di una donna rischia sempre di confinare con il dovere che il patriarcato pretende di imporre a tutte le donne.

È fuorviante spostare il discorso sulla libertà di scelta o sull’autodeterminazione. È vero che la mercificazione delle donne non è una novità, ma non è una novità nemmeno il fatto che per molte donne rendersi merci sia stata una scelta obbligata. Nella storia del patriarcato capitalista lo hanno fatto molte operaie che si sono prostituite dopo la fine del turno perché il salario del padrone magari bastava a sopravvivere, ma certamente non permetteva di vivere. Bisognerebbe prestare la dovuta attenzione alle condizioni materiali che investono la GPA, che è una pratica costosa. Una parte – qualunque sia il suo sesso, genere e orientamento sessuale – può permettersi di pagare cinquantamila euro, o molto di più, per farvi ricorso. L’altra parte – sempre e soltanto una donna – tramite un’agenzia mette a disposizione il proprio utero e almeno un anno della propria esistenza per avere una vita migliore di quella consentita dal salario orario di 1,5 € che una lavoratrice dei servizi riceve in Georgia, una delle mete privilegiate del cosiddetto ‘turismo riproduttivo’. Non si comprano né si regalano bambine o bambini, ma la capacità procreativa di una donna la cui scelta di valorizzare il proprio utero è possibile all’interno di un regime sessuato transnazionale che produce profitti enormi per le imprese della procreazione e quote significative del PIL per i paesi dove è legale. Per questo – dopo lo scoppio della guerra – le agenzie ucraine si sono affrettate a giurare che i bunker avrebbero protetto dalle bombe la filiera procreativa. Non è possibile pensare la libertà di scelta senza considerare le condizioni materiali in cui si sceglie e quali rapporti questa scelta riproduce oppure sfida. Di nuova o di vecchia generazione, il femminismo non dovrebbe essere indifferente ai rapporti di classe dentro cui si iscrive la possibilità delle donne di reclamare e praticare la libertà, e nemmeno alle loro condizioni disuguali da una parte e dall’altra dei confini. È vero che il riferimento alla GPA viene usato per attaccare le coppie omosessuali e per riaffermare una famiglia ormai dissolta da comportamenti soggettivi che ne sfidano irrimediabilmente la tenuta.

La difesa della famiglia impone alle donne di essere madri all’interno di certi rapporti di autorità e secondo una precisa divisione sessuale del lavoro. Per rendere chiaro questo messaggio è stata revocata la registrazione anagrafica dei figli e delle figlie di coppie omosessuali. A essere colpite, oltre a centinaia di bambine e bambini, sono state soprattutto coppie di donne lesbiche che hanno fatto ricorso non alla GPA ma alla fecondazione eterologa, mentre le coppie di uomini gay sono molto poche visto che per loro la GPA è possibile solo in Canada e negli Stati Uniti a prezzi altissimi, anche quando si tratta solo di un rimborso spese per una prestazione «altruistica». In tutti i casi, la soppressione della libertà sessuale mira a fare dell’eterosessualità un principio che naturalizza le gerarchie e i rapporti sessuati di dominio e sfruttamento istituzionalizzati dalla famiglia.

 La stessa eterosessualità deve a sua volta essere regolata in funzione della procreazione, soprattutto di fronte a milioni di donne che non sono e non vogliono essere madri, o che lottano per essere madri contro la subalternità imposta dal dominio maschile. La famiglia torna così a essere «il supplemento del welfare», come ha dichiarato a più riprese Giorgia Meloni, garantendo al contempo alle imprese significativi sgravi fiscali per l’assunzione delle donne in condizioni di ordinaria precarietà. Imposta come unico canale di accesso a sussidi miseri non per le donne, ma per le famiglie, la maternità è così trasformata nel paradossale privilegio sociale di lavoratrici e lavoratori poveri e quindi valorizzata ideologicamente per nascondere il feroce attacco che da anni subiscono.

La criminalizzazione universale della GPA – che dal punto di vista giuridico è soltanto ridicola – è la mossa ideologica che rende visibili alcune cose mentre ne nasconde altre. Nasconde il fatto che vi fanno ricorso per il 95% coppie eterosessuali, rendendo visibili soltanto le cosiddette coppie omogenitoriali per attaccare la libertà sessuale di tutte e tutti. Nasconde il fatto che si tratta comunque di poche migliaia di individui che hanno in tasca il denaro per pagare una ‘madre surrogata’, mentre la maggior parte delle donne, in Italia e nei paesi di destinazione del ‘turismo riproduttivo’, fa i conti con la quotidianità dello sfruttamento. Nasconde chi pratica la libertà sessuale senza avere o rivendicare una famiglia e fuori dall’ingiunzione patriarcale alla procreazione, mentre rende visibile una maternità che è tanto valorizzata simbolicamente quanto materialmente impoverita.

Di fronte a tutto questo, il dibattito sulla GPA è davvero necessario. La sua posta in gioco non può essere però un regolamento di conti tra femminismi, ma dovrebbe essere la possibilità di praticare un femminismo che non si compiaccia dei propri principi, ma trovi il proprio senso nella capacità di stare nella realtà per trasformarla.

Paola Rudan, docente università di Bologna  “il manifesto” 19 luglio 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202307/230719rudan.pdf

OMOFILIA

Lettera aperta a papa Francesco

Carissimo Santo Padre,

come padri e madri credenti di figli e figlie lgbtq+, sentiamo nostro il Suo dolore di padre che vede i fratelli divisi e ancor più il dolore del Padre dei cieli che vede bestemmiato il progetto d’amore che ha su questi nostri figli nelle urla blasfeme sbraitate durante una Celebrazione Eucaristica alla GMG di Lisbona, “Bruceranno tutti all’inferno! “, come apprendiamo dal giornale “La Repubblica”. [Queste urla hanno squarciato il velo di accoglienza “presente negli occhi, nelle menti, nei cuori dei tanti partecipanti al “Rainbow Center” [Centro Arcobaleno] che avevano fatto sentire benvenuti e sostenuti questi nostri figli e figlie” portando la morte nel loro cuore.]

www.repubblica.it/cronaca/2023/08/10/news/lgbtq_papa_francesco_giornata_mondiale_gioventu_minacce_insulti-410647291/?ref=search

“Nella Chiesa c’è posto per tutti, non abbiate paura: TODOS, TODOS, TODOS”, sono state le Sue

parole accorate che abbiamo accolto non più come speranza ma come promessa!”

Ebbene, queste parole che crediamo vere, “questi meravigliosi ideali puramente cristiani, attendono di essere tradotti in gesti concreti, in modo da cambiare le forme, i modi e le dottrine della nostra amata Chiesa”

Come padri e madri di questi figli, figlie, figl*, che ben conoscono il loro cuore, possiamo affermare in tutta verità che non sono oggettivamente inclini al disordine né i loro atti intrinsecamente disordinati, ma che anche questo amore è oggettivamente incline al bene, al bello, al buono, nel modo che è dato loro.

Possiamo affermare che il loro donarsi amore reciproco e fedele nella alterità delle persone, nella fecondità del generare l’altro, nel servizio al bene comune, dona reciproca felicità e porta a maturazione, a compimento, la loro umanità, rende cioè gloria al progetto d’amore di Dio su di loro.

Crediamo e speriamo con tutte le nostre forze che sia arrivato il momento, ed il Sinodo Universale è, secondo noi, il Kairos dello Spirito, dove la dottrina che ha provocato e ancora provoca tante lacerazioni e sofferenze, divenga fonte di gioia e di rendimento di lode.

“Amore e verità si abbracceranno, giustizia e pace si baceranno”. (Salmo 85) Queste le nostre speranze su cui invochiamo la Sua operosa benedizione.

Rete “3VolteGenitori”, rete italiana di genitori cristiani di figli e figlie lgbtq+

“www.finesettimana.org” 11 agosto 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202308/230811rete3voltegenitori.pdf

www.gionata.org/perche-santita-nel-nome-della-dottrina-si-continua-a-minacciare-la-dignita-delle-persone-lgbtq

SACERDOTI

Il prete, personaggio che delude

                Il prete non gode di buona stampa. Le cronache della pedofilia hanno contribuito. Ma non è l’unica ragione. Ce n’è un’altra ancora più impegnativa. L’opinione pubblica è, in grande maggioranza, sfavorevole alla figura del prete. Più l’opinione è pubblica, cioè vasta, legata a comunità diocesane o, ancora più nazionale più è sfavorevole.

                Il prete pedofilo, il prete che lascia perché innamorato, il prete che fa outing…Del prete, d’altronde, non si parla. Gli organi di informazione parlano moltissimo del Papa (lo si è visto in maniera molto evidente anche in occasione della recente Giornata Mondiale della Gioventù, a Lisbona), si parla, qualche altra volta, di personaggi ecclesiastici importanti. Ma del prete non si parla, semplicemente perché non ci sono motivi per parlarne.

                Qualche volta, però, i motivi si impongono. Normalmente, non sono motivi “a favore”, ma “a sfavore”. Il caso pedofilia è esemplare. In quel caso di preti si parla, e molto. Ma, appunto, se ne parla quando i preti sono coinvolti nei fattacci della pedofilia.

                Molti preti, anche quando annunciano di non fare più il prete lo fanno “da preti”, mettendosi al centro della comunità. Oppure se ne parla quando, in una bella omelia di una bella domenica, il parroco della tal parrocchia annuncia solennemente di “lasciare” perché si è innamorato. Oppure, il curato della talaltra parrocchia, sempre in una bella omelia e sempre in una bella domenica, fa outing: è omosessuale e deve informare tutta la comunità. (Molti preti, anche quando annunciano di non fare più il prete sentono lo fanno “da preti”, mettendosi al centro della comunità). In questi casi, le ragioni per parlare e far parlare dei preti ci sono. Anche se, probabilmente, sarebbe meglio che quelle ragioni non ci fossero.

                Non so se ha ragione quell’amico prete il quale afferma che, la pedofilia e il gran parlare che se ne fa, sempre (anche nelle giornate della GMG in corso a Lisbona), ha fatto diventare tutti i preti degli indiziati pedofili. Un po’ esagerato, forse. Ma non del tutto campato in aria.

                Ma esiste una variante a questo “sentire” collettivo sul prete. Mi pare sia Nando Pagnoncelli che, in alcune delle sue molte inchieste, ha rilevato una specie di anomalia: in genere si parla male dei preti, ma spesso si parla bene del proprio prete. L’opinione sulla categoria, dunque, resta negativa, ma si accetta volentieri l’eccezione, quella del prete che si conosce di cui si apprezza l’impegno. L’opinione pubblica resta prevalentemente negativa, l’opinione semipubblica o privata è (meglio: può essere) positiva.

                La cattiva stampa del prete nasce dalla sua stessa condizione di prete. Ma, a monte di tutte queste varianti, esiste una situazione che ha a che fare con la missione stessa del prete. Il prete è diventato figura di riferimento essenziale della comunità cristiana. Anche e soprattutto perché deve trattare con misteri cruciali dell’annuncio cristiano: i sacramenti, la messa, la confessione… L’aura sacra che circonda la sua figura ha questa lontana radice. Su questa aura sacra tutta una tradizione popolare ci ha giocato alla grande.

Alcuni preti, giovani soprattutto, affermano polemicamente la loro “diversità” con sottane, zucchetti, fasce, pizzi… I meno giovani di noi si ricordano l’affermazione impegnativa: il prete è “alter Christus”, è un altro Cristo. La frase veniva variamente spiegata e ci sono siti on line e, forse, anche qualche teologo che la usa ancora. E alcuni preti, giovani soprattutto, affermano polemicamente la loro “diversità” con sottane, zucchetti, fasce, pizzi…

                Personalmente ricordo che la frase faceva letteralmente incavolare mons. Alberto Bellini, indimenticato docente di teologia dogmatica nel seminario di Bergamo, che contestava ferocemente quella frase (se “ferocemente” si può applicare a una figura piccola, magra, quasi diafana come era quella di mons. Bellini).

                A parte questa discussione, la frase nasce da quell’aura sacra nella quale viene visto il prete e contribuisce di suo a rafforzarla. Il risultato finale è chiaro. Il prete è chiamato a fare e a dire cose sempre più grandi, molto più grandi di lui. Il prete è sempre al di sotto di quello che annuncia e di quello che fa. Il prete non è il vangelo e le “cose” che il prete fa, l’eucarestia soprattutto, sono di una vertiginosa altezza, alla quale lui, il prete, non arriverà mai.

                Il prete dice e fa cose molto più grandi di lui, quindi è sempre nella situazione di essere deludente. Il buon prete, a questo punto, non è quello che si impegna a dimostrare che questa verità è falsa, ma quello che si adatta, serenamente, al fatto che è vera. Di conseguenza, si potrebbe dire che la grandezza del prete sta nel chiedere perdono, sempre e soprattutto quando pretende di essere quello che non è. Essere costantemente perdonati, non solo da Dio ma anche dalla propria comunità: ecco la grande chance del prete.

                P.S. Mi è venuta la voglia di scrivere questa nota, nella mattina del 4 agosto, festa del “santo curato d’Ars”. Quel grande santo, quel grande parroco, ci raccontano i suoi biografi, voleva scappar via dalla sua piccola parrocchia, non perché era stufo del suo gregge, ma, semplicemente perché non si sentiva all’altezza, lui, , Giovanni Maria Vianney, il “santo curato d’Ars”!

Mons. Alberto Carrara, α1943in pensione                La barca e il mare               Bergamo               7 agosto 2023

Il giro dei preti. Le parrocchie, grandi dimenticate

Ogni anno è la stessa storia. Ad un certo punto, cominciano a girare le voci e, dopo poco, una paginata de “L’Eco” annuncia ufficialmente i trasferimenti dei preti. Arriva il nuovo prete e tutto viene buttato per aria. Spesso le scelte sono frutto di lunghe pensate, altre volte sono aggiustamenti dell’ultima ora, dovuti, per lo più, al rifiuto, che cresce di continuo, di sacerdoti che non accettano, per diversi e svariati motivi, le proposte di destinazione del Vescovo. Le comunità sono “naturalmente” escluse da questo processo. Per di più spesso e volentieri si trovano a che fare non solo con preti diversi ma, soprattutto, con modalità pastorali molto diverse. Non è raro che percorsi di corresponsabilità avviati dal parroco precedente siano azzerati dal nuovo arrivato. O che sperimentazioni liturgiche o catechetiche frutto di parecchi anni di riflessioni comune e di scelte condivise tra i (pochi) preti e i (tanti) laici siano accantonate.

Come mai la comunità cristiana non viene in nessun modo interpellata? In questi casi, come in molti altri casi, viene da chiedersi la ragione per la quale la comunità cristiana non venga interpellata. Gli amici preti con cui ne parlo mi rispondono che, quasi sempre, pure loro vengono informati a giochi fatti. Raramente vengono sollecitati a offrire un profilo di comunità che renda meno complicato possibile l’inserimento di un nuovo sacerdote.

Mi rendo conto che le questioni in gioco sono tante e non si possono banalizzare. Il prete perfetto (come, del resto, il laico perfetto) non c’è, per fortuna, ed è sotto gli occhi di tutti che alcuni sono un bel problema in qualunque posto li si metta. E dunque è buona cosa che le inconsapevoli comunità se ne facciano carico a tempo determinato.

Eppure “sinodo” significa “cammino fatto insieme” Eppure qualcosa sarebbe opportuno cambiare. Anche solo per dare sostanza a parole come “sinodalità”, un percorso che, se non vuole essere ricoperto di stucchevole retorica, va sostanziato di ascolto diffuso, di comunicazione trasparente, di confronto autentico. Un sinodo che deve diventare processo e non ridursi ad evento (più o meno sopportato). In Diocesi in diversi si sono attivati e le pratiche sinodali hanno mostrato la ricerca di una “sinfonia” nella varietà dei carismi e dei ruoli: né fughe solitarie, né ricatto dell’immobilismo.

Lo stile sinodale chiede di mettere in gioco l’esercizio del potere. Si sta comprendendo, una volta in più che assumere la postura di chiesa sinodale significa mettere in gioco l’autorità e l’esercizio del potere, la capacità – davvero! – di camminare insieme. È l’unico modo per togliere fiato al clericalismo, dare spazio alle laiche e ai laici, impedire che qualcuno decida per tutti, facendo proprio un principio caro alla Chiesa del primo millennio: “ciò che riguarda tutti, da tutti deve essere trattato e approvato”.[Codice di Giustiniano].

Perché non immaginare di accompagnare le comunità – con modalità da pensare –dentro i processi, a volte dolorosi, di cambio dei sacerdoti? Perché non fare diventare questi cambi occasioni di confronto sulle scelte di fondo pastorali su cui è impostata e si imposterà la vita parrocchiale? Da qualche parte la “postura sinodale” tanto auspicata bisognerà imparare ad assumerla. O no?

                        Daniele Rocchetti            La barca e il mare            10 agosto 2023

SESSUALITÀ

Transgender, via al cambio nome e sesso senza operazione. Legge Cirinnà, possibili riflessi?

Storica sentenza del Tribunale di Trapani: via libera al cambio nome e identità di genere senza intervento chirurgico o terapia ormonale. Nuove riflessioni sulle unioni civili e sulla legge Cirinnà. Per la prima volta, in Italia, è stato riconosciuto il diritto a cambiare nome e identità di genere, anche senza aver effettuato e programmato un intervento chirurgico per cambiare sesso e senza essersi sottoposti ad alcuna una terapia ormonale.

La vicenda concreta riguarda Emanuela, persona transgender che, fin dall’infanzia, si è sempre riconosciuta nel genere opposto al suo sesso di nascita. La legge italiana (L. n. 164 del 1982) stabilisce che, per il cambio di nome e identità sessuale all’anagrafe e sui documenti, un passaggio necessario è la “riassegnazione di genere” attraverso un intervento chirurgico o una terapia ormonale.

Però, dopo aver parlato con i medici delle conseguenze dell’operazione, Emanuela ha scelto di non sottoporsi all’intervento chirurgico e di conservare il proprio organo sessuale maschile.

Il Tribunale di Trapani, con la sentenza in esame, ha affermato che l’organo sessuale maschile non rappresenta un ostacolo alla percezione di sé come donna. È un caso unico in Italia. Un precedente simile si ritrova soltanto in una sentenza della Corte di Cassazione del 2015, con la quale si riconosceva ad una donna transgender il diritto di legittimarsi come donna prima di sottoporsi all’intervento chirurgico. La grande differenza è che, nel caso del 2015, l’operazione era già programmata. Invece, nella recente vicenda di Emanuela, l’intervento non era stato nemmeno pianificato.

                Questa storica pronuncia diventa l’occasione per affrontare di nuovo un tema già trattato qualche mese fa dalla Corte costituzionale: la facoltà di cambiare sesso per poter convertire un’unione civile in un matrimonio.

                Con la legge Cirinnà (L. n. 76 del 2016), è stato riconosciuto alle coppie dello stesso sesso di costituire un’unione civile. Dal punto di vista dei diritti e dei vantaggi, c’è stato sicuramente un passo avanti rispetto alla convivenza di fatto, ma restano differenze rispetto al matrimonio (cioè, l’unione coniugale tra due persone di sesso diverso). Su tutte, ad esempio, ai partner dello stesso sesso, seppur uniti civilmente, non è riconosciuta la possibilità di adottare bambini.

Dunque, si tratta di una situazione legalmente riconosciuta, ma che comunque pone dei limiti al completo sviluppo della vita di una coppia. E la giurisprudenza conosce numerose vicende di soggetti che, per avere la possibilità di sposarsi e vedersi attribuiti quei diritti ancora non riconosciuti, hanno deciso di cambiare sesso. La Corte Costituzionale (con sent. n. 269 del 27 dicembre 2022) ha precisato che la Legge Cirinnà non consente la conversione dell’unione civile in matrimonio a seguito di cambio del genere. Anzi, la legge n. 76 del 2016 prevede, tra le cause di scioglimento dell’unione civile, proprio la sentenza di rettifica di attribuzione di sesso.

                Però, la Corte fa anche un’altra considerazione. In ipotesi di questo tipo, l’intervento chirurgico per il cambio del sesso sarebbe inutile. Infatti, per la Corte, bisogna distinguere il caso dell’operazione per il cambiamento del sesso e il caso dell’operazione per poter modificare in tal modo la propria condizione anagrafica.

                La sentenza del Tribunale di Trapani apre certamente nuovi scenari. Il riconoscimento del diritto a cambiare nome e identità di genere senza intervento chirurgico o terapia ormonale e la nuova percezione, per cui l’organo sessuale maschile non è un impedimento alla percezione di sé come donna (o viceversa), forse permettono di riconsiderare il tema in modo diverso.

                Solo il coraggio di persone come Emanuela, che ha portato avanti questa battaglia per più di vent’anni, potrà dirci se ciò sarà possibile oppure no.

                                               Redazione giuridica Brocardi                     18 luglio 2023

www.brocardi.it/notizie-giuridiche/transgender-cambio-nome-sesso-senza-operazione-legge-cirinna-possibili/3234.html

TEOLOGIA

Metamorfosi: categoria universale del cristianesimo

Qualche appunto di lettura sull’ultimo libro di José Tolentino Mendonça, “Metamorfosi necessaria”.

«Paolo si pone in dipendenza da quell’evento chiamato Gesù e si dedica, integralmente, al servizio del suo annuncio. Ma lo fa in modo nuovo, con una grammatica diversa, a contatto con spazi culturali inediti»: poggia su tale prospettiva il nuovo libro di José Tolentino Mendonça, Metamorfosi necessaria. Rileggere san Paolo (Milano, Vita e pensiero, 2023, 141 pagine 16).

 (α1965)    cardinale, arcivescovo, teologo

C’è già molto nel titolo del volume, poiché nel riconsiderare l’apostolo delle genti, il teologo portoghese sceglie appunto la chiave ermeneutica della trasformazione, della metamorfosi, che opera profondamente nella biografia di Paolo e, di conseguenza, nell’annuncio del kerigma: Paolo è colui che trasmette Cristo in modo nuovo, con «grammatica diversa», declinando l’evento Gesù di Nazareth su una cartografia geografico-culturale dai confini nuovi, uscendo cioè dall’ambito semitico per abbracciare il Mediterraneo ellenistico-romano (e percorrendo i sentieri della diaspora ebraica che in parte quell’abbraccio già aveva realizzato): «Con Paolo, il cristianesimo guadagna in vastità».

                Il libro è diviso in due parti: la prima, preponderante, è una ricostruzione dello status questionis degli studi scientifici su Paolo, sulla sua identità, storia, formazione; sulla sua ‘conversione’ (o ‘vocazione’); sul suo progressivo e mai finito mutamento di pensiero, sulla sua scrittura, sul cambiamento di categorie e azioni; sulla dialettica tra Atti ed epistole; sul Cristo di Paolo, sugli elementi del suo annuncio e del rapporto con gli altri apostoli; sulla società mediterranea e i suoi usi, costumi, immaginari, religioni, appartenenze, politiche.

                In modo documentato, Tolentino Mendonça ricostruisce il dibattito specialistico, corregge ‘vulgate’ non supportate dagli studi, fa suoi dubbi e messe in discussione, sottolinea incoerenze e punti di difficile spiegazione, su cui gli esegeti si interrogano da sempre (basti pensare alla parola ‘carne’, che nelle lettere paoline non assume sempre la medesima accezione e che una sterile lettura moralistica ha strumentalizzato in chiave quasi solo corporea). Ad esempio, l’autore insiste sulla natura coordinata e comunitaria dell’azione paolina, poiché egli sempre si adoperò per inserire le nuove comunità dentro una rete ampia di chiese, superando ogni carattere personalistico: «Al contrario di quanto l’immaginario cristiano sembra a grandi linee aver favorito, Paolo non fu un navigatore solitario e autosufficiente in quella straordinaria avventura che fu il cristianesimo di matrice paolina. Da solo non avrebbe potuto portare a termine l’ingente e complesso compito della fondazione e dell’accompagnamento delle comunità».

                La seconda parte del libro, più breve e ricapitolazione finale del discorso, riguarda l’esempio paolino per la vita cristiana oggi, che è oltre il semplice «cosa dice Paolo a noi», caratterizzandosi invece con un più ampio interrogarsi sulla tipologia, sull’atteggiamento, sullo sguardo che la Chiesa e il singolo fedele possono maturare grazie a Paolo. La categoria della metamorfosi diviene allora categoria primariamente e universalmente cristiana, e quindi anche antropologica: «L’eredità ispiratrice dell’apostolo non si limita a stimolare le necessarie metamorfosi del percorso cristiano. Paolo è autore di una visione culturale e politica ampia, e il suo discorso obbliga a pensare la persona umana e l’organizzazione delle società nel loro complesso. Paolo non si sofferma soltanto sul destino dei credenti. Egli riflette sulle questioni del destino umano e della metamorfosi del mondo».

Allora, in un tempo di radicali mutamenti come il nostro, l’apostolo esorta a non avere paura nel mutare stili, strutture e categorie ermeneutiche (ma anche biografiche), nella fedeltà al nucleo incandescente della fede cristiana — Cristo morto e risorto –, poiché è urgente avere la consapevolezza dell’«esperienza della metamorfosi come grammatica del credere», per cui «noi non siamo cristiani: diventiamo cristiani, e questo ci obbliga a rompere con il conformismo teologico di un cristianesimo come dato acquisito, quasi fosse un automatismo». In questo senso, «l’esistenza cristiana è, secondo Paolo, un’esistenza metamorfica, che abita creativamente la trasformazione portata da Cristo. Credere in Cristo significa partecipare al dinamismo di vita nascosto e al contempo rivelato nell’evento della risurrezione. È una novità totale, resa possibile unicamente dall’iniziativa di Dio».

                Un libro dunque stimolante, questo ultimo di Tolentino Mendonça; una lettura arricchente, capace di donare speranza e fiducia. E sebbene non abbia la profondità e la ricchezza di altri testi del cardinale portoghese (penso, ad esempio, ad Elogio della sete o La mistica dell’istante) senza dubbio si tratta di un volume che può essere nutrimento per il tempo estivo, aiutando la riflessione e la cura del pensiero. Una lettura sicuramente feconda, una lettura di semina: e di tali letture oggi avvertiamo un grande bisogno.

Sergio Di Benedetto.  α1983, dottore di ricerca in Letteratura Italiana all’Università di Lugano

TEOLOGIA MORALE

Passare dai divieti alla prospettiva di piena realizzazione

Con il Concilio Vaticano II si è realizzato nella teologia morale un vero cambiamento di paradigma. Nonostante ciò il Vaticano continua a vedere in pubblicazioni su temi di etica sessuale e di etica della relazione motivi per negare il nulla osta o per procedimenti di contestazione dell’insegnamento. La morale sessuale pende come una spada di Damocle sul capo di teologhe e teologi.

Chi si esprimeva in maniera critica o divergente rispetto alle linee previste dalle norme del magistero, doveva aspettarsi – a seconda del grado di carriera accademica raggiunto – o un ritiro del permesso di insegnamento o un procedimento di contestazione di quanto insegnato. Con il pontificato di papa Francesco era sembrato che qualcosa fosse mutato, soprattutto per il cambiamento presente nella sua esortazione apostolica Amoris lætitia, nel 2016 dopo i due sinodi dei vescovi. Oggi però siamo sorpresi per il recente rifiuto del nulla osta romano ad uno di noi (Martin M. Lintner) all’assunzione dell’incarico di decano dello Studio Filosofico Teologico Accademico di Bressanone, a motivo delle sue pubblicazioni su temi di etica morale e di etica della relazione.

Perché scriviamo in due questo intervento? Una di noi è una donna sposata da quasi 20 anni, e l’altro è un prete ordinato da 20 anni, dell’Ordine dei Serviti. Ci conosciamo da più di 23 anni, perché abbiamo studiato insieme all’Università Gregoriana a Roma. Siamo rimasti amici e abbiamo collaborato a livello scientifico. Scriviamo insieme questo articolo perché apparteniamo alla generazione di mezzo dei teologi e delle teologhe morali. Abbiamo già alle spalle un tratto di percorso professionale e inoltre abbiamo vissuto in un tempo in cui la morale sessuale ha perso il suo carattere di tabù.

Teologi morali nostri predecessori, in particolare uomini, hanno condotto controversi dibattiti su e dopo l’enciclica Humanæ Vitæ (1968), hanno vissuto ingiunzioni e rilievi disciplinari da parte del magistero e hanno partecipato alla lotta per dare fondamenti nuovi alla morale sessuale. Molti di loro sono stati sanzionati – e allora è seguito un lungo periodo di silenzio sull’etica di questo ambito. Al contempo fiorivano, tra altri, i temi della bioetica, cosicché da parte sia di cittadine e cittadini che di organismi sociali e istituzioni politiche crescevano le richieste di orientamento morale e di chiarimenti.

La generazione di mezzo di teologhe e teologi morali è quella che può e vuole di nuovo parlare e pubblicare su questioni di morale sessuale e di etica della relazione. In questo è figlia del Concilio Vaticano II, conosce l’enorme portata del cambiamento di paradigma del Concilio principalmente attraverso studi storici. Tuttavia i dibattiti attuali rendono evidente che noi ci troviamo ancora dentro la storia della ricezione del Concilio. Vogliamo quindi, come generazione successiva a quella del Concilio e che può beneficiare dei suoi contributi epocali, offrire un contributo.

Superare i silenzi, offrire orientamento, essere a servizio della formazione della coscienza. Qual è lo stimolo a superare il silenzio durato decenni? Il motivo di partenza è la responsabilità che noi teologhe e teologi morali sentiamo, a fornire un contributo per il superamento della crisi degli abusi nella Chiesa cattolica. E questo è già un motivo sufficientemente forte. Il programma della teologia morale consiste attualmente nell’offrire un contributo per rendere possibile la realizzazione positiva nelle relazioni. Il punto centrale è avere la possibilità di parlare ed esprimersi in modo comprensibile a tutte le persone di buona volontà. Questo deve avvenire tenendo presente lo stato delle scienze umane e delle conoscenze esegetiche nelle tradizioni bibliche nell’ambito in questione. L’obiettivo è offrire un orientamento fondato su principi sia etici che teologici e quindi

servire alla formazione della coscienza basata su seria riflessione.

Da Roma però si viene ancora visti con sospetto. Con forza chiediamo tuttavia di poter vivere anche i prossimi venti anni della nostra vita professionale in critica lealtà nei confronti del magistero ecclesiastico. Perché la nostra facoltà ha qualcosa da offrire su questi temi, e sicuramente non più con l’indice morale puntato contro, ma nel senso del sensus fidelium, cioè la comune ricerca di senso di tutti i credenti. Ci guida la domanda di come noi, esseri umani, possiamo rendere possibile teologicamente il vivere relazioni positive, quale contributo a questo obiettivo può fornire la teologia accanto a discipline come la psicologia o le scienze umane.

Così, di fronte ai più recenti sviluppi – come già cinque anni fa con

          Ansgar Wucherpfennig SI– (α1965)  si pone la domanda: è di nuovo la morale sessuale che “inchioda” i teologi e le teologhe al silenzio?

Sullo sfondo c’è sempre la questione del potere. Nella teologia morale già da anni si parla di cambiamento di paradigma: basta con la morale sessuale, si va verso l’etica della relazione. Ma forse questo rimane per molti troppo vago. Forse esiste la paura che, con tale cambiamento, si perda qualcosa del nucleo specifico della morale sessuale cattolica. Sullo sfondo si evidenzia in questo anche la questione del potere: chi ha l’autorità di ripensare l’insegnamento della Chiesa e di cambiare qualcosa? Quali asimmetrie vengono tramandate? E, molto concretamente: chi potrebbe toglierci la possibilità di parlare? Non vogliamo più accettare l’imposizione del silenzio. Perché proprio questo ha inciso sul fatto che noi teologi solo molto lentamente abbiamo potuto riprendere a parlare in questo ambito, e solo adesso, anche a causa degli scandali degli abusi, viene richiesta la nostra parola. E a questo proposito è importante prendere sul serio il fatto che molte persone di buona volontà secondo la migliore scienza e coscienza non possono seguire la morale sessuale cattolica e addirittura la percepiscono come intimidatoria. Non vogliamo rassegnarci a questo, e non per critica all’insegnamento della Chiesa, ma proprio per il nostro sentire cum ecclesiæ, per il nostro profondo sentimento di appartenenza alla Chiesa.

Come sempre nella teologia e nella Chiesa si deve pensare sul lungo periodo – non di anni, ma di decenni e di secoli. Nelle nostre riflessioni sull’etica delle relazioni ci basiamo sul fatto che nel Concilio Vaticano II si è realizzato un cambiamento dell’insegnamento matrimoniale e sessuale. Il matrimonio non è più stato visto principalmente come contratto, ma descritto con l’immagine biblica dell’alleanza. Non si è più stabilito il diritto sul corpo dell’altro, ma il matrimonio è stato visto come il luogo in cui avviene una libera reciproca donazione di sé. Al primo posto non c’è più la forma giuridica, ma la qualità personale della relazione matrimoniale. Come fondamento del matrimonio non c’è più il rispetto del comandamento dell’indissolubilità e del divieto del divorzio, ma la realizzazione dell’amore e della fedeltà reciproca, che comprende corpo e anima. Di questo si è discusso. Il matrimonio è anche il luogo, grazie al Concilio Vaticano II, nel quale vengono donati anche i figli, ma questo non rappresenta più il suo obiettivo primario. Il modello è un matrimonio come alleanza d’amore e di vita, che viene vissuta nell’amore personale e nella relazione con un Dio personale e che ama.

Anche questo cambiamento del Concilio Vaticano II era stato preparato. Già allora dei teologi furono condannato da autorità romane (ad esempio Herbert Doms α1890-ω1977). Ciò che vogliamo noi oggi è sostenere l’insegnamento sessuale della Chiesa e pensare, immaginare, i suoi contenuti in maniera critico-costruttiva, in modo che possano essere credibili e diventare elementi di promozione di vita.

Ma che cosa è così importante oggi per la morale sessuale ovvero per l’etica della relazione al punto da essere di nuovo al centro dell’attenzione – per non parlare di una linea di conflitto tra il magistero e la teologia morale? Come in un ambito problematico della bioetica, e come ha mostrato papa Francesco nella sua enciclica “Laudato Si”, ad una analisi obiettiva della situazione deve seguire un discernimento etico-teologico.

Quali sono i nostri oggetti di ricerca? Sessualità, matrimonio e relazione. La sessualità viene intesa come multidimensionale: accanto alla funzione di generazione occorre pensare anche alla funzione di piacere, identità e relazione. La sessualità deve essere vista non solo come rapporto sessuale, ma come moltiforme espressione della personalità e dell’amore.

La capacità di autodeterminazione sessuale. Per il matrimonio è importante la citata esortazione apostolica “Amoris lætitia”. In seguito ad essa si può e si dovrebbe parlare di un altissimo valore del matrimonio, ma non del suo valore esclusivo, come ha affermato Eberhard Schockenhoff, (α1953-ω2020) il collega purtroppo deceduto troppo presto. Il matrimonio come sacramento rimane un luogo del desiderio e – detto con  Klaus Demmer (α1931-ω2024)  – una decisione di vita, che però, come anche una vocazione in un ordine o al presbiterato, può andare incontro ad un fallimento. Il potenziale di desiderio, nell’impegno e nel cammino comune, è qualcosa di molto forte da realizzare. Bisogna rendere visibile e plausibile il fatto che il matrimonio è una forma di vita d’amore, come viene detto da Schockenhoff, e proprio come tale può e deve essere colta, come un modo di vivere la propria relazione ricco di promesse.

Nella questione della relazione viene messa a fuoco principalmente una relazione tra partner, ma che comprende sempre al contempo diverse relazioni: la relazione con sé stessi, con altri di volta in volta, come anche con l’ambiente e inoltre con Dio. Nella valutazione più precisa, è importante prendere seriamente in considerazione le diverse acquisizioni delle scienze umane. Cosa da considerarsi pienamente in linea secondo il Concilio Vaticano II come autonomia degli ambiti.

Forzare il collegamento con il principio dei diritti umani. Che cosa sta succedendo? L’etica di questo ambito si trova attualmente in una fase di trasformazione, di passaggio da una morale basata su divieto e comando ad un’etica della relazione orientata tanto alla virtù che ai principi. In questo la capacità di autodeterminazione sessuale svolge un ruolo centrale nel contesto dell’etica della responsabilità.

A questo scopo è necessaria anche la presa in considerazione di conoscenze delle scienze umane, è necessario il dialogo con gli studi di genere, specialmente per l’attenzione alla singolarità di ogni persona, compresa la sua identità sessuale. Se si è in una fase di trasformazione si cerca sempre, nel presente, di collegare quanto vi è di valore nella tradizione con il nuovo del futuro, nella prospettiva della realizzazione positiva.

Questo richiede anche da parte delle scienziate e degli scienziati di muoversi in ricerca.

Innanzitutto, i mostruosi fatti di violenza sessuale hanno reso evidente che la capacità di autodeterminazione sessuale non deve più essere rifiutata da parte del magistero. Bisognerebbe ad esempio analizzare in senso relazionale il diritto alla autodeterminazione sessuale o nell’insegnamento affrontare con particolare attenzione nel quadro della violenza sessuale il ruolo di abusatore in determinati passi biblici.

In questo deve essere forzato il collegamento col principio dei diritti umani. Qui occorre indirizzare chiaramente l’ambito dell’etica normativa con principi, criteri e anche con chiare norme di divieto, ad esempio dichiarando di per sé cattivi comportamenti di violenza sessuale. A questo scopo occorre un accertamento della immagine cristiana (o delle immagini cristiane) della persona. Non è stata ancora abbozzata alcuna etica in questo senso, bensì solo accertata una possibile base comune che non è da intendersi in maniera uniforme. La persona umana viene intesa come un essere di relazione che sta in relazione con sé stesso, con altri, con l’ambiente e con Dio e che deve giustificare a tutti questi livelli sé stesso, i suoi atti e le sue omissioni. In questa regolazione di principio antropologica la libertà biblica dei figli di Dio viene presa sul serio. La natura umana viene intesa come aperta alla grazia, come anche nella classica teologia matrimoniale l’istituzione matrimonio viene inteso come aperto al suo potenziale simbolico.

Quale modello argomentativo dovrebbe essere favorito nell’etica della relazione? Accanto al modello argomentativo del diritto naturale, che ha caratterizzato a lungo la morale sessuale cattolica, c’è quello ermeneutico delle scienze umane. Dal Concilio Vaticano II in poi si può parlare anche di un modello personale, che ha la nostra preferenza. Con papa Francesco deve essere coinvolta anche la dignità della persona ad esempio nella contraccezione. Che le conoscenze delle scienze umane rientrino in queste questioni è un presupposto; infatti, come anche in questioni di etica relative al clima, l’analisi obiettiva delle situazioni è imprescindibile.

Fondamentale è la domanda relativa alla responsabilità: chi si assume la responsabilità, per che cosa, davanti a chi, con quale criterio, per il presente e per il futuro? Questa domanda, riportata all’etica della relazione nella situazione attuale, significa: io mi assumo responsabilità per la persona che amo, davanti a Dio, con i criteri dell’attenzione a dignità e libertà della persona amata e della positiva realizzazione della relazione per il presente e per il futuro.

Inoltre si tratta di scoprire la dimensione nascosta del potere nel passaggio dalla morale sessuale all’etica della relazione. La dimensione del potere si estende a questioni relative a coloro che sono reciprocamente in relazione, ma anche alla relazione tra teologia e magistero. Se le questioni di morale sessuale tornano ad essere un mezzo di potere per colpire con misure disciplinari, questo è in contrasto con il principio del Concilio Vaticano II, di considerare il matrimonio come alleanza, come alleanza tra persone con pari diritti, come avvenimento simmetrico. Già l’oggetto contenutistico sarebbe stato reso ad absurdum performativo, se l’etica di questo ambito continua a pendere come una spada di Damocle sul capo di teologhe e teologi morali.

Su questo sfondo, l’etica della relazione è da interpretare come arte del vivere e del comprendere.

Vivere l’amore donato da Gesù nella vita di coppia (tra le altre anche nella forma del matrimonio) e voler comprendere ciò che (eventualmente) i figli donati necessitano, quale forma di relazione si vuole vivere e quale ruolo deve svolgere la fede – di questo si tratta. Da ciò si evince il concentrarsi sull’amore, come amore di amicizia, come amore erotico e come amore altruistico. Con Schockenhoff vogliamo considerare come essenza l’arte di amare. Al centro non sta tanto la sessualità quanto la relazione e la qualità della relazione. Per dirlo con altre parole: in primo piano non sta la forma giuridica della relazione, ma la sua qualità personale, di cui il matrimonio rappresenta la forma adeguata. In questo la sessualità è un mezzo di espressione tra altri per la relazione. Anche assistersi reciprocamente nelle questioni del lavoro di cura, per molti che vogliono porre la propria persona in condizione di compatibilità tra famiglia e professione, può essere un criterio della qualità della relazione.

Bisogna inoltre considerare ulteriormente il contenuto teologico della vita di coppia in particolare del matrimonio. Il matrimonio è un luogo in cui prioritariamente si attualizza l’amore di Cristo per la Chiesa e in cui analogamente esso viene testimoniato, ed è un luogo di reciproca santificazione dei coniugi. Il matrimonio ha una sua propria missione nella Chiesa, che dovrebbe essere espressa in futuro in maniera più chiara. Questo è un compito della teologia morale oggi. Per questo la teologia morale deve poter parlare e poter continuare a parlare. La sinodalità che papa Francesco promuove e che comincia con l’ascolto e il desiderio di comprendere, sarebbe su questi temi un punto di ancoraggio adeguato. Con questo obiettivo vogliamo continuare ad impegnarci.

 Kerstin Schlögl-Flierl, nata nel 1976, dal 2015 è professoressa di teologia morale alla Facoltà cattolico-teologica di Augsburg. Ha studiato germanistica e teologia a Ratisbona, Roma e Boston, dal 2020 è membro del Consiglio Etico Tedesco, dal 2023 è membro corrispondente della Pontificia Accademia per la Vita.

      Martin M. Lintner, OSM nato nel 1972, dal 2009 è professore di teologia morale allo Studio Filosofico Teologico Accademico di Bressanone, dal 2013 al 2015 è stato presidente della Società Europea di Teologia Cattolica, e dal 2014 al 2017 presidente di “INSeCT– International Network of Societies for Catholic Theology”, organizzazione di coordinamento mondiale.

www.herder.de” (Herder Korrespondenz 8/2023) agosto 2023 (traduzione: www.finesettimana. org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202308/230806schloglflierllintner.pdf

Il recente caso del rifiuto dell’approvazione per la nomina di Martin Lintner a preside dello Studio teologico di Bressanone, ha destato sconcerto in ambito ecclesiale ed accademico. Non si comprendono bene le motivazioni, che tuttavia sembrano essere legate alle posizioni sulla morale sessuale che il teologo ha avanzato.

La Chiesa cattolica ha portato avanti nei secoli una visione della sessualità elaborata da una prospettiva esclusivamente maschile. In questo ambito sarebbe utile rielaborare alcuni aspetti anche con il contributo della riflessione teologica delle donne.

Separazione tra corpo e anima. Iniziamo dalle basi: una morale sessuale si basa su un’idea di essere umano. In un’antropologia come quella cattolica che distingueva (e a volte separava) corpo e anima, la sessualità atteneva certamente al corpo. Più che come parte strutturante della persona (anche spirituale) era considerata qualcosa che aveva a che fare più propriamente con la parte bestiale dell’umano che con la sua anima. Sono stati molti i teologi dei primi secoli che hanno considerato la corporeità o addirittura la sessualità create in seconda istanza, successivamente alla costituzione umana originaria, ritenendole quindi secondarie alla realizzazione della persona e/o addirittura da eliminare per recuperare l’iniziale configurazione.

In questa visione, Adamo diventava simbolo della mente superiore e creata prima, mentre Eva diventava simbolo del corpo e della sensualità, quindi creata dopo e come aiuto per Adamo. Il serpente interveniva tramite la sensualità, cioè Eva, a spostare l’equilibrio paradisiaco di Adamo verso la corporeità, la sensualità e quindi verso il peccato.

Se questa visione ha assunto tratti spesso angoscianti e problematici, è stato anche a causa di una certa ricezione di tale pensiero in Agostino. Rimasto famoso per una famosa frase presente nelle Confessiones (“Dio, dammi la castità ma non adesso”), che mostra il desiderio sessuale causa di una divisione nell’animo, Agostino ha consegnato alla teologia una visione oscura dell’atto sessuale, responsabile diretto, a suo parere, della trasmissione del peccato originale. Nella sua polemica con Giuliano di Eclano, in particolare, Agostino intende spiegare come la concupiscenza si manifesti in alcuni atti corporei. Sono atti sottratti al controllo della ragione e dunque da lui considerati peccaminosi (non sto a dire qui come questa visione sia debitrice in realtà ad una antropologia stoica). Qui egli arriva a fare due esempi, uno dei quali diventerà esiziale: l’indipendenza del pene e quella del battito del cuore sono casi nei quali si mostra che il corpo disobbedisce alla mente. Questa disobbedienza sarebbe secondo lui una delle manifestazioni della concupiscenza, residuo del peccato originale. L’esempio dell’indipendenza del pene diventò argomentazione per affermare che nell’atto sessuale l’essere umano è sottoposto a peccato e tramite esso lo trasmette alle generazioni successive. Di lì la concezione della sessualità prese vie che l’hanno collegata sempre più al peccato piuttosto che alla santità.

Convinzioni criticabili. Tutte queste convinzioni, su cui si basa questo tipo di concezione, subiscono una necessaria critica. Anzitutto la visione antropologica che separa anima e corpo è divenuta oggi più che mai problematica: si deve concepire l’anima e dunque la persona come un connubio insolubile tra queste due. Inoltre, sempre più distintamente dall’inizio del Novecento, gli studi scientifici hanno chiarito che la sessualità non attiene primariamente al corpo ma alla psiche e questo fin dai primi momenti della costituzione del composto umano, anche quando il bimbo non ha ancora sviluppato la fase genitale. Non solo il neonato, ma perfino il feto presenta impulsi sessuali, dal momento che con la sessualità non s’intende più l’attività meramente genitale, ma piuttosto la spinta al piacere nell’avere e intessere relazioni (anche con sé stessi). Infine, è chiara l’ideologia patriarcale, inficiata di sessismo, che ha permesso una lettura della Bibbia discriminante per le donne.

L’antropologia antica ha permesso di concepire l’esercizio della sessualità solo ed esclusivamente in vista della procreazione, con la giustificazione biblica del testo di Gen 1,28 (“siate fecondi e moltiplicatevi”), ma consolidatasi non da ultimo a causa del fatto che sono stati soprattutto gli uomini maschi a formulare una tale interpretazione biblica e concezione del sesso. È solo nel loro corpo, infatti, che piacere e fecondità risultano indissolubilmente uniti. La produzione del seme nel maschio umano, infatti, avviene collateralmente al raggiungimento dell’apex [vertice] del piacere.

Una lettura riduttiva della sessualità. Questa ]localizzazione della genitalità ha determinato anche una lettura riduttiva della sessualità. Ancora una volta una tale concezione non sarebbe stata possibile partendo da una lettura dell’anatomia della donna, che nel suo corpo presenta un organo specificatamente e unicamente dedicato al piacere sessuale [clitoride.] Esso non risulta collegato alle fasi della sua fertilità. La presenza di tale organo è qualcosa di talmente inaudito per la mentalità patriarcale che in molte culture esso viene reciso! L’infibulazione è una pratica brutale e maschilista presente ancora in almeno 30 paesi.

In certi assunti acritici sono cadute le menti più brillanti della cultura occidentale. Anche Aristotele risulta determinato dal modello maschile per cui c’è fecondità solo se c’è piacere. Secondo tale criterio, il fatto che la donna a volte concepisca senza arrivare alla soddisfazione e a volte provi appagamento senza essere feconda, porta il filosofo a concludere che essa non apporti un suo seme nella generazione. Solo nel 1827 la scienza avrebbe scoperto l’esistenza dell’ovulo femminile, prima solo ipotizzato da una minoranza di filosofi. Per lo più fino ad allora, il ruolo della donna nella generazione era stato considerato esclusivamente passivo. Di qui la giustificazione della sua inferiorità e non autonomia anche in campo sociale e culturale; di qui anche una complicata elaborazione della concezione verginale di Maria.

Fecondità femminile e maschile. La fecondità femminile segue un ritmo tutto suo, spesso abbastanza indipendente dalla sua attività sessuale. Milioni di ovuli, infatti, sono prodotti ed eliminati, senza collegamento all’orgasmo e senza che nessuna etica si sia mai stracciata le vesti per questo, relegando tutto ciò all’ambito del naturale ovvero – ma con un salto acrobatico – ad una volontà di Dio stesso. Del seme maschile invece si è fatto un largo processo di sacralizzazione e la sua perdita sottoposta a colpevolizzazione, comprensibile forse in una cultura nomade e in un popolo esposto al rischio di estinzione come quello ebraico, che doveva quindi facilitare e potenziare al massimo la fecondità, pena la sua estinzione come popolo. Il racconto di Onan ha dato il nome ad una pratica che resta ancora oggi, in una umanità che conta un numero di individui mai avuto in precedenza nella storia, il peccato sessuale fondamentale: onanismo. Per quanto i corpi siano diversi e ogni corpo abbia le sue specifiche zone erogene, il corpo della donna ha differentemente dall’uomo maschio una distribuzione vasta e periferica dei suoi organi sessuali, che sono collocati esternamente ma anche presenti internamente. Tutto questo dovrebbe di per sé costituire una contestazione ad ogni concezione della sessualità che restringa il sesso alla genitalità e quest’ultima sostanzialmente all’attività esterna alla persona, come risulta quella del fallo maschile.

L’identificazione poi tra la capacità di procreare del maschio e la dimostrazione della sua potenza (è significativo che il nome che la disfunzione erettile maschile ha preso sia impotenza) ha dato origine a tutti gli abusi spirituali e di potere che avvengono ai danni delle donne, di chi presenta una maschilità non normativa e che viene percepito deviante rispetto alla maschilità normante, o dei bambini. La pedofilia, infatti, prima che un abuso sessuale è una disfunzione della persona nel campo della sua gestione del potere.

Sesso ed etica. Vorrei aggiungere che ovviamente il fatto che la morale debba partire da una interpretazione della fisiologia dell’anatomia umana è una posizione che non si intende da sé, ma avrebbe bisogno di essere motivata e messa sotto critica. Risulta però evidente che la visione fin qui delineata appare collegata ad una antropologia superata e che mantiene della sessualità aspetti “predatori” più che relazionali.

Sono dell’idea che se a formulare l’etica sessuale avessero contribuito maggiormente le donne, non avremmo avuto una mentalità così sessuofobica e oggi saremmo fuori da quella dicotomia che rende per la chiesa cattolica il sesso un’ossessione: da una parte, infatti, la riteniamo solo fonte di peccato, escludendone quanto più l’esercizio giocoso e liberante, teoricamente – ma solo teoricamente – negandone l’espressione ai preti cattolici latini o agli omosessuali, quasi come se ciò potesse costituire di per sé un metodo infallibile per il raggiungimento della santità; dall’altra, impedendo a chiunque voglia aprire una riflessione teologica più articolata e meno arcaica su queste questioni ogni riconoscimento (vedi caso Lintner). Nell’un caso e nell’altro si dimentica che la concezione della santità cristiana dovrebbe essere legata alla capacità di amore della persona e non alla quantità delle sue eiaculazioni.

Una visione arcaica. Una visione della sessualità così arcaica che distingue fino a separare anima e corpo, riduce la sessualità alla genitalità separandola dal resto della persona e collega il piacere sessuale alla fecondità, si rende responsabile degli abusi più devastanti nei confronti delle donne, in ambito sia sessuale che di potere (vedi caso Rupnik); ammette l’esercizio della prostituzione come se riguardasse solo un atto esterno del cliente. Questi potrebbe continuare a percepire l’immagine di sé ancora compatibile con quella di una persona rispettabile e moralmente onesta. L’idea che ciò che si fa col sesso, magari a pagamento e con persone ritenute mera merce per appagare le proprie legittime necessità, non riguardi l’intera persona, è una concezione che ebbe la sua più chiara espressione nelle eresie gnostiche. In questi gruppi, i quali dividevano totalmente lo spirito dalla materia, era possibile rilevare due tipi di atteggiamenti rispetto alla sessualità: o fortemente ascetico – perché l’anima doveva abbandonare il corpo – oppure totalmente libertino – perché convinti che ciò che si attuava col corpo non avrebbe “intaccato” l’anima. Supporre una forte separazione tra materia e spirito, tra corpo e anima, implica che ciò che avviene in uno dei due poli non abbia impatto sull’altro e viceversa. Fintanto che il corpo e la sessualità verranno concepite come separate e non integralmente costitutive della persona, si permetterà anche un uso strumentale della corporeità (propria e altrui). Sembra che in alcuni casi anche certe teorie della morale cattolica non siano esenti da un certo gnosticismo.

Selene Zorzi       Rocca                    31 luglio 2023

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