NewsUCIPEM n. 956 – 2 aprile 2023

NewsUCIPEM n. 956 – 2 aprile 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

O2 ABUSI                                              Pedofilia, le buone lezioni e i cattivi esempi della Chiesa nella Sicilia degli scandali

03 CELIBATO                                         Sul celibato dei preti

05 Centro Internaz. Studi Famiglia Newsletter CISF – n. 12, 29 marzo 2023

06 CHIESA CATTOLICA                        Il papa missionario cancella la dottrina della scoperta

08                                                          Bergoglio e la (irreversibile) crisi del Cristianesimo

10 CITTÀ DEL VATICANO                    Abusi, Zollner SI si dimette in polemica dalla commissione per la tutela dei minori

12 CONSULTORI UCIPEM                   Milano1. Istituto la casa. La casa News – aprile 2023

13 DALLA NAVATA                              Domenica delle Palme – Anno A

13 COMMENTO                                   Commento di p. Enzo Bianchi

15 DIRITTI                                             Mamma e papà non bastano

17 FRANCESCO VESCOVO di ROMA Francesco è forte, non si dimetterà È ora di dire sì ai sacerdoti sposati”

18                                                           Tutti i dubbi di Francesco

19                                                          “Io non prego per il Papa ma vorrei stargli a fianco So che non mollerà”

20 PACE                                                 “Pacem in terris”. La sorprendente attualità di un’enciclica

23 RELIGIONI                                        Quaresima, Tempo della Passione, Ramadan: affinità e differenze

24 SESSUOLOGIA                                 Dottrina cristiana e divenire sessualità umana Una lettera dei vescovi scandinavi.

28 SIN0DO DELLA SINODALITÀ        Si chiude anche la tappa della consultazione ma non il dialogo con il Popolo di Dio                                      

ABUSI

Pedofilia, le buone lezioni e i cattivi esempi della Chiesa nella Sicilia degli scandali

Pochi giorni dall’aggiornamento del motu proprio del PapaVox Estis Lux Mundi”, una parte della chiesa siciliana il 30 marzo torna a occuparsi di abusi, con un convegno organizzato alla Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia San Giovanni Evangelista di Palermo dal titolo “La tutela dei minori e delle persone vulnerabili: un impegno comune”. Una parata di nomi illustri, del calibro dell’arcivescovo della città Corrado Lorefice, a cui è affidata l’introduzione, per proseguire con padre Andrew Small, segretario della Pontificia Commissione per la Tutela dei minori, e con l’arcivescovo di Ravenna Lorenzo Ghizzoni, presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili della Cei, che parlerà dell’impegno della chiesa cattolica a partire dal primo report sulle attività di tutela dei minori diffuso lo scorso novembre.

Un dossier a dir poco parziale e poco rappresentativo della realtà italiana perché, come abbiamo raccontato su ”Domani” il 17 novembre, prende in esame soltanto l’attività dei Servizi diocesani e le segnalazioni arrivate ai centri di ascolto di 158 diocesi su 226 nel biennio 2020-21.

L’obiettivo del convegno è ambizioso: partire da una riflessione sulla chiesa universale per concentrarsi sulle azioni di quella italiana e infine dare voce alle esperienze locali. Un’iniziativa voluta dalle diocesi di Palermo, Monreale, Cefalù, Trapani e Mazara del Vallo con il patrocinio, fra gli altri, del Servizio nazionale per la Tutela dei minori della Cei. Peccato che non si sia pensato di coinvolgere altre diocesi dell’isola, come Piazza Armerina, che

pure manda i suoi seminaristi a studiare nell’istituto palermitano.

I peccati della Sicilia. Proprio la diocesi di Piazza Armerina, in realtà, avrebbe molto da dire sull’abuso clericale, anche se non può certamente vantare una gestione esemplare del problema. A Enna, dal 7 ottobre 2021 è infatti in corso il processo a don Giuseppe Rugolo, un sacerdote molto popolare nella città dell’entroterra siciliano, oggi accusato di violenza sessuale su tre minori. Una vicenda ricca di colpi di scena che coinvolge diversi personaggi, non ultimo il vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana che, intercettato, prima ammette di aver insabbiato gli abusi di Rugolo e poi cerca di salvare capra e cavoli (sé stesso e la diocesi), con totale indifferenza per le vittime (come riportiamo su Domani del 14 novembre). Una storia che svela sempre nuovi capitoli: durante l’ultima udienza del 14 marzo u.s., infatti, si è arricchito l’elenco degli insulti del vicario generale della diocesi Nino Rivoli che, in un’intercettazione riportata in aula, apostrofa con l’epiteto di “bestiadon Giuseppe Fausciana, l’unico sacerdote che a Enna si è fatto portatore della denuncia della vittima di Rugolo, Antonio Messina. Don Rivoli, nel suo tormento per la spinosa situazione in cui si è venuto a trovare il vescovo, durante numerose telefonate intercettate dagli inquirenti non aveva risparmiato insulti all’imputato, definito «buttana» e «questa troia», mentre Messina – il ragazzo che ha subito violenza sessuale quando era minorenne – è addirittura un «bastardo».

Quanti sono coinvolti? La novità più eclatante del processo Rugolo, però, non è certo il turpiloquio del vicario o l’incresciosa gaffe di un altro sacerdote locale, don Pietro Spina, che in aula definisce «affettuosità» ogni atto sessuale che prescinde dalla penetrazione, ma l’inquietante realtà dei pedofili alla corte di monsignor Gisana: sacerdoti e catechisti dai trascorsi non proprio immacolati, il cui numero cresce ad ogni udienza. Infatti, ogni volta che Eleanna Parasiliti Molica, avvocata di parte civile, incalza i testimoni sui casi di abuso, in tribunale cala il gelo.

Il 10 ottobre 2022 era già emerso il nome di un altro prete che aveva abusato di un minorenne: entrambi, l’abusatore e la sua vittima, sono oggi parroci della diocesi. Il vescovo Gisana sapeva tutto, come si evince dalle intercettazioni, cosi come sapeva di un sacerdote di Gela, don Vincenzo Iannì, rinviato a giudizio nel 2019 per violenza su una ragazzina. Nell’ultima udienza del 14 marzo Gela si conferma una piazza “calda”: non solo annovera un catechista arrestato per violenza sessuale aggravata, al momento sotto processo, ma anche un educatore di 32 anni, che avrebbe abusato per anni di un ragazzino, oggi ventiduenne. Come emerge dalle indagini difensive svolte anche dall’avvocata Parasiliti Molica, la vittima aveva denunciato più volte gli abusi al vescovo ma Gisana non è mai intervenuto. In aula, è sempre l’avvocata di Messina a chiedere conto di questo educatore a un reticente don Vincenzo Murgano: il prete, vicario giudiziale della diocesi e (cosa ancora più grave), responsabile del Servizio di tutela dei minori fino al dicembre 2022, riconosce alla fine di non aver mai preso provvedimenti per i casi di abuso di cui era a conoscenza. «Ha detto candidamente che sapeva da tempo di don Iannì, ben prima che fosse processato – riporta Antonio Messina – e per quanto riguarda gli altri nomi fatti in aula ha sostenuto invece di non essere mai stato informato dal vescovo, pur essendo il responsabile incaricato per la tutela dei minori». Monsignor Gisana, quindi, sa dei preti pedofili di casa propria ma non parla nemmeno con la persona deputata ad occuparsene. Se don Murgano tace sui pedofili della diocesi, in compenso parla, e molto, con Rugolo. In udienza emerge infatti che Murgano era il consigliere personale del giovane prete, quando già questo era sottoposto all’indagine ecclesiastica (poi conclusa con un “non luogo a procedere” perché i fatti si sarebbero svolti quando era ancora seminarista e dunque non ritenuti di pertinenza della Congregazione per la dottrina della fede).

Fra messaggi e telefonate, i due si sentono ogni giorno e don Murgano incita Rugolo a controllare Antonio Messina sui social, oltre a sobillarlo contro don Fausciana, la “bestia”, colpevole di sostenere la vittima e coinvolgerla nelle attività pastorali. La prossima udienza in calendario il 4 aprile, con 21 nuovi testimoni chiamati a deporre, promette di scaldare ulteriormente gli animi.

Intanto si avvicina la Pasqua e la processione del venerdì santo, particolarmente sentita in città, vedrà in testa don Murgano, in quanto parroco della Chiesa madre e assistente spirituale di ben quattro confraternite cittadine, quasi a rassicurare i fedeli che nulla è cambiato. L’imbarazzante quadro della curia che emerge dal processo a don Rugolo, gli opposti schieramenti pro e contro don Fausciana e soprattutto le complicità della gerarchia, monsignor Gisana in primis, cominciano però a pesare non poco sul contesto cittadino.

Buone intenzioni e cattivi esempi. Intanto a Palermo va in scena lo spettacolo delle buone intenzioni della Chiesa contro gli abusi, con il provvidenziale supporto della nuova versione di ”Vox Estis Lux Mundi”.

«Il timore – commenta Marida Nicolaci del coordinamento Italy Church Too e docente della stessa Facoltà che ospita il convegno – è che si punti sulla prevenzione futura lasciandosi alle spalle il passato, senza farsi carico delle esigenze di una giustizia autenticamente riparativa, che implica il riconoscimento delle cause sistemiche del danno e il risarcimento delle vittime». Se il convegno palermitano appare come un’operazione politica per ripulire l’immagine della chiesa siciliana e smarcarsi dai guai della diocesi di Piazza Armerina, non si può dimenticare che lo stesso don Murgano, che sta facendo clamore a Enna più per le sue reticenze che per le sue rivelazioni, è anche lui un docente della facoltà teologica.

Così come ci sarà anche don Fortunato di Noto che, oltre ad essere il presidente dell’associazione Meter contro la pedofilia, è anche il direttore del Centro di ascolto del Servizio regionale della tutela dei minori della Cei. Don Di Noto non manca mai quando si tratta di far vedere il volto della chiesa che lotta contro gli abusi, ma è anche presente nelle intercettazioni agli atti del processo a Rugolo, mentre parla accorato con Gisana: «Ti voglio un bene dell’anima», dice al vescovo, e gli consiglia «vigilanza». «Se ci riesci, traccia almeno i colloqui», aggiunge, riferendosi agli incontri con i Messina, «perché questi qua (la vittima e la sua famiglia, ndr), come stanno montando la cosa, capisci…».

Palermo, in fin dei conti, non è poi così lontana da Enna.

Federica Tourn                 www.editorialedomani.it          28 marzo 2023

www.editorialedomani.it/politica/italia/pedofilia-le-buone-lezioni-e-i-cattivi-esempi-della-chiesa-nella-sicilia-degli-scandali-j9ensgwh

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230329tourn.pdf

CELIBATO

Sul celibato dei preti

            “Non c’è alcuna contraddizione nel fatto che un prete si sposi”. Così papa Francesco un paio di settimane fa a proposito del celibato all’interno della Chiesa cattolica. “Il celibato nella Chiesa occidentale è una prescrizione temporanea: non so se si risolve in un modo o nell’altro, ma è provvisoria in questo senso. Non sono ancora pronto a rivederlo, ma ovviamente è una questione di disciplina, che oggi c’è e domani può non esserci, e non ha niente a che vedere con il dogma». E ancora: “In realtà, nella Chiesa cattolica ci sono sacerdoti sposati: tutto il rito orientale è sposato. Tutto. Tutto il rito orientale. Qui in Curia – ha spiegato il Papa – ne abbiamo uno, l’ho incontrato oggi: ha una moglie e un figlio. Non c’è nessuna contraddizione per un sacerdote nel potersi sposare.” Con altrettanta schiettezza papa Francesco ha ribadito di non credere che una eventuale abolizione del celibato dei preti possa portare ad un aumento delle vocazioni.

Le proposte della Chiesa tedesca. Le affermazioni di papa Francesco (peraltro non nuove) hanno fatto discutere anche perché, più o meno contemporaneamente, sono state presentate alla stampa alcune risoluzioni approvate dal cammino sinodale della Chiesa tedesca in corso a Francoforte. Una di queste, approvata a larghissima maggioranza, è a favore di una revisione delle norme sul celibato. Il testo adottato formula una richiesta a papa Francesco di “riesaminare il nesso tra consacrazione e obbligo del celibato”.

                “Riesaminare il nesso tra consacrazione e obbligo del celibato”. Una formulazione più ampia, che chiedeva al Papa di revocare direttamente il celibato obbligatorio, è stata respinta con una maggioranza di due terzi. L’Assemblea sinodale tedesca ha inoltre deciso di chiedere al Papa di esaminare se ai sacerdoti già ordinati possa essere data la possibilità di essere sciolti dalla promessa del celibato senza dover rinunciare all’esercizio del ministero. Inoltre, il testo chiede che gli ex sacerdoti siano maggiormente coinvolti nella vita attiva della Chiesa.

                Il testo della mozione “Il celibato dei sacerdoti – rafforzamento e apertura” è stato votato con una maggioranza di quasi il 95% dei 205 voti espressi. Dei 60 vescovi presenti, 44 hanno votato a favore, 5 contrari e 11 si sono astenuti.

Un po’ di storia per capire. Come è andata la storia lo sappiamo: la prima solenne e severa normativa in proposito, emanata dal Concilio Lateranense I nel 1123, faticò ad affermarsi, tanto diffuso era il concubinaggio dei preti. L’obbligo del celibato “ebbe anche una motivazione economica: impedire che il “beneficio” (il terreno e gli immobili che davano al parroco il sufficiente per vivere) non fosse spartito tra figli e nipoti, esaurendo così, nel tempo, le sue entrate.

                 Il celibato ecclesiastico non è di natura divina. È solo una tradizione che appartiene alla disciplina della Chiesa. Nel terzo Concilio Lateranense, che si tenne nel 1179, venne stabilito che il celibato ecclesiastico non è di natura divina, ma solo canonica, cioè rappresenta una tradizione che appartiene alla disciplina della Chiesa latina. In questo modo il Lateranense III decideva di non mutare la “disciplina apostolica” dei primi sette primi concili ecumenici (riconosciuti anche dalla Chiesa ortodossa), che rendeva possibile l’ordinazione presbiterale anche di uomini sposati.

Non, invece, la possibilità di sposarsi dopo l’ordinazione. Le Chiese orientali – ortodosse e cattoliche -prevedono infatti l’ordinazione di seminaristi già sposati, ma non il matrimonio per i preti già tali. Mentre la Chiesa latina ha scelto di ordinare soltanto uomini celibi. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nel decreto «Presbyterorum ordinis», riconosceva che la scelta celibataria non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio. 

La proposta: preti sposati e preti celibi. La proposta che viene da più parti sollevata oggi è quella di accedere a una duplice tipologia di ministero: quello celibatario e quello uxorato (di uomini sposati).

                Non si deve certo bandire il ministero celibatario, laddove è espressione di una libera scelta frutto di una autentica vocazione alla verginità. Vi sono buone ragioni per affermare che il celibato, vissuto nella gioia di una libera scelta, costituisca, oltre che un segno della dimensione escatologica del mistero cristiano, uno status che offre una particolare disponibilità interiore a vivere il ministero ordinato. Ma questo non esclude la plausibilità della presenza di un sacerdozio uxorato, che ha, a sua volta, notevoli chances anche dal punto di vista pastorale: si pensi soltanto a quanto è importante l’esperienza familiare per affrontare, in modo efficace, questioni di vita quotidiana che coinvolgono la maggior parte dei fedeli (Giannino Piana).

                Certo, si porrà la questione su come concepire il rapporto tra queste due tipologie di ministero. L’importante è cominciare a ragionare e non ostinarsi a mettere la testa sotto la sabbia (le doppie o triple di vite di alcuni preti dovrebbero essere fatte oggetto di reale interrogazione). E capire che l’eventuale abbandono dell’attuale disciplina celibataria, lungi dal dover essere considerato come un cedimento allo “spirito del tempo”, diventerebbe l’occasione per un vero e proprio arricchimento dell’azione pastorale della Chiesa.

La possibilità di accesso al sacerdozio in ambedue le condizioni di vita, oltre a costituire un atto di rispetto della libertà personale e a dare luogo a scelte umanamente più solide perché più serene, favorirebbe la realizzazione di una complementarità nell’esercizio del ministero sacerdotale oggi necessaria per interpretare correttamente la complessità delle situazioni e rispondere con efficacia alle richieste di una condizione di secolarizzazione, che rende sempre meno percepibile la domanda di fede.

Daniele Rocchetti            “la barca e il mare”        30 marzo 2023

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n. 12, 29 marzo 2023

  • Con le nostre mani. E’ il titolo di uno dei cortometraggi selezionati da Fondazione CON IL SUD e Fondazione Magna Grecia per dare vita, con video da 60’’, a un racconto del Sud fuori dagli stereotipi, attraverso il punto di vista di ragazzi e videomaker. Quello che vi proponiamo a questo link [YouTube – 1 min 06 sec]                                                                                   https://www.youtube.com/watch?v=A9txvD9G-xY

è stato realizzato da Giuseppe Valentino, gli altri sono visibili qui.             www.youtube.com/watch?v=A9txvD9G-xY

  • “Famiglia e digitale”: seminario di studio a Verona. Il Cisf Family Report sarà presentato nell’ambito di un seminario organizzato sabato 15 aprile a Verona (ore 9.15-12) a cura dell’Università di Verona-Dipartimento Scienze Umane, la Diocesi di Verona e Famiglie per la Famiglia Onlus. Dopo i saluti ufficiali sono previsti gli interventi del direttore Cisf, Francesco Belletti e della prof.ssa Sara Nanetti, docente a contratto di Sociologia all’Università Cattolica di Milano.
  • USA: una legge federale per l’equo trattamento delle lavoratrici incinte. E’ stato firmato dal presidente Biden a fine 2022 ed entrerà in vigore il 27 giugno prossimo il Pregnant Workers Fairness Act, una nuova legge che richiede ai datori di lavoro di fornire “accomodamenti ragionevoli” (ovvero modifiche al lavoro o alle procedure di lavoro), per tutelare il benessere delle lavoratrici in gravidanza, vicine al parto o con condizioni mediche correlate (indicazione valida, specifica la legge, a meno che l’accomodamento non causi al datore di lavoro un “disagio eccessivo”). La legge si applicherà in tutti gli Stati americani, a meno che non abbiano norme statali più favorevoli, e vieta comportamenti discriminatori da parte dei datori di lavoro.                       www.eeoc.gov/wysk/what-you-should-know-about-pregnant-workers-fairness-act
  • Quebec: raccolta di firme contro la legge che introduce la maternità surrogata. “Chiediamo una moratoria su qualsiasi apertura alla maternità surrogata fintanto che non ci sarà un dibattito informato sulla questione, soprattutto dal punto di vista delle donne e dei bambini”: è la richiesta dell’organizzazione laica e apartitica Pour les droits des femmes du Québec, https://site.pdfquebec.org/fr

che ha aperto una raccolta di firme contro il disegno di legge 12, presentato nel febbraio 2023 dal governo del Quebec per riformare il diritto di famiglia e includere il riconoscimento della GPA. “Siamo convinti“, si legge nella petizione, “che il contratto con il quale uno o più clienti si impegnano con una donna a partorire uno o più figli, indipendentemente dalla forma che assume questo contratto, leda la dignità umana e contribuisca alla mercificazione di donne e bambini” [qui il testo integrale]

 www.change.org/p/r%C3%A9sistons-au-commerce-mondialis%C3%A9-des-m%C3%A8res-porteuses?recruiter=497713589&utm_source=share_petition&utm_medium=facebook&utm_campaign=psf_combo_share_initial&utm_term=b9470aa8efaf4c4a9e391fbff1fc4eb0&recruited_by_id=f6b3e490-7f73-11e6-a14c-fb491fe924c0&utm_content=fht-35607625-fr-fr%3A3

  • Delega anziani, via libera definitivo. Dopo il via libera del Senato lo scorso 8 marzo, anche la Camera ha  approvato la legge delega in materia di politiche per gli anziani (con 150 voti favorevoli, 72 astenuti e nessun contrario – qui la scheda tecnica della pdl).
https://temi.camera.it/leg19/provvedimento/delega-al-governo-in-materia-di-politiche-per-le-persone-anziane.html

I decreti delegati dovranno essere promulgati entro gennaio 2024. Il provvedimento muove dal riconoscimento del diritto delle persone anziane alla continuità di vita e di cure presso il proprio domicilio e dal principio di semplificazione e integrazione delle procedure di valutazione della persona anziana non autosufficiente, procedure finalizzate a definire un “progetto assistenziale individualizzato” (PAI), che indicherà tutte le prestazioni sanitarie, sociali e assistenziali necessarie per la persona anziana [qui un approfondimento dal Sole24Ore].

                www.ilsole24ore.com/art/ddl-anziani-ecco-prossime-tappe-raffozare-assistenza-domiciliare-e-sostegni-AEGu2H8C?refresh_ce=1IGLIA

  • https://fondazionepaideia.it/Tutti in sella! Il servizio di bike sharing accessibile di Paideia. La Fondazione Paideia di Torino mette a disposizione un parco di biciclette           https://fondazionepaideia.it

accessibili che offre alle famiglie con bambini con disabilità la possibilità di usufruire di mezzi a due ruote adattati alle diverse esigenze e specificità. Le 15 biciclette sono a disposizione su prenotazione ogni sabato di apertura del Centro Paideia, fino al 17 giugno, dalle ore 9.30 alle 12.30 [qui tutte le info]

Corso di alta formazione “familiæ cura“. Un nuovo percorso di Alta formazione per operatori di pastorale familiare per educare, accompagnare e prendersi cura della famiglia: è promosso e organizzato dall’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia con l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Confederazione Italiana consultori familiari di ispirazione cristiana. Iscrizioni entro il 2 maggio 2023

https://formazionecontinua.unicatt.it/formazione-familiae-cure-e223bs003311-01.
  • Dalle case editrici
  • L. Ballerini, Appuntamenti, non agguati. Vivere bene la scuola oggi, San Paolo, Cinisello B. 2020, pp. 224
  • V. Paglia, L’età da inventare. La vecchiaia tra memoria ed eternità, Piemme, Roma 2021, pp. 237
  • Francesco Scanziani, I litigi e il perdono, Ancora, Milano 2023, pp. 136

Più le relazioni sono prossime, più richiedono cura: è il viatico di questo libro di don Francesco Scanziani che, pubblicato da Ancora Edizioni in una versione ampliata, guarda all’equilibrio della coppia – ma anche a quello tra genitori e figli o tra fratelli – come elemento fondamentale per vivere una vita piena e felice (…). (B. Ve.)

  • Save the date
  • Presentazione (MI) – 15 aprile 2023 (inizio ore 10.30). “Nessuno è perfetto, ma l’amore sì. Adozione e bisogni speciali“, presentazione del libro di Francesca Mineo presso la Biblioteca Braidense nell’ambito della rassegna “Voci di donne” [qui la locandina]
  • Webinar (IT) – 19 aprile 2023 (20.45-22.45). “La mia storia è come un puzzle. Per ragazzi e adulti che hanno un’esperienza di adozione“, a cura della rete FARO www.centrocta.it/nuovi-webinar-della-rete-faro
  • Congresso Internazionale (Roma) – 28/29 aprile 2023. “La ‘rivoluzione Billings’ 70 anni dopo: dalla conoscenza della fertilità alla medicina personalizzata”, organizzato dall’Università Cattolica Sacro Cuore
https://salute.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/26/2023/03/22/programma-billings-italiano.pdf
  • Ciclo di incontri (Lione-FR) – 17 maggio 2023. “Ateliers Clinique: couple, famille, individu“, a cura di IFACT-Institut de Formation et Application Therapies de la Communication [qui per info)

www.ifatc.com/ateliers-cliniques-couples-famille-individu

 Iscrizione   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/marzo2023/6313/index.html

CHIESA CATTOLICA

Il papa missionario cancella la dottrina della scoperta

«Annulla la dottrina». Con questo slogan i popoli nativi riunitisi nel santuario nazionale di Sant’Anne de Beaupré hanno accolto il papa lo scorso luglio durante la sua visita in Canada. E il papa li ha ascoltati. Con una nota congiunta dei dicasteri per la Cultura e l’educazione e per il Servizio dello sviluppo umano integrale, la Santa sede ha ripudiato la “dottrina della scoperta”, ovvero quei decreti pontifici che nei secoli hanno giustificato, attraverso l’evangelizzazione di nuovi territori, i soprusi e le violenze sui popoli nativi dei continenti extra europei.

«Il primo punto, quello fondamentale, è che i popoli indigeni lo hanno chiesto» ha spiegato a Vatican News il cardinale Michael Czerny, prefetto del dicastero, che ha descritto il documento come l’esito di una riflessione iniziata prima del viaggio di Francesco in Canada, per poi aggiungere che la condanna delle «false idee che hanno infettato troppi atteggiamenti in Canada» è l’unica strada per «camminare in modo solidale con l’obiettivo della guarigione e riconciliazione».

Le terre di nessuno. La cosiddetta “dottrina della scoperta” viene fatta risalire a tre bolle papali emanate nella seconda metà del Quattrocento. La principale, la Romanus Pontifex (1455), fu redatta da papa Niccolò V

https://it.cathopedia.org/wiki/Romanus_Pontifex

per garantire il possesso delle terre scoperte in Africa e affacciate sull’Atlantico al re del Portogallo Alfonso V. È in questo documento che si parla per la prima volta delle «terre di nessuno». Oggi il cardinale Czerny specifica che «una bolla è una decisione o un decreto con un sigillo, ma non è magistero, non è dottrina, non è insegnamento». Eppure secoli fa bastava il veto papale per avocare a sé i territori dei nativi ritenuti fuori dalla grazia divina, quindi popoli da evangelizzare o schiavizzare.

Lo stesso Cristoforo Colombo, dopo lo sbarco a San Salvador, tenne una cerimonia per prendere possesso della terra a nome dei reali di Spagna sotto l’egida della croce, per poi impiegare gli anni seguenti a evangelizzare le tribù caraibiche. Lo mostra chiaramente il più antico manufatto amerindio di arte cristiana conservato nella sezione etnologica dei Musei vaticani: un leggio di legno a forma di conchiglia che apparteneva al frate Bartolomeo de Las Heras, che visse con l’esploratore genovese a Cuba.

Numeri, non parole. Il documento non chiarisce la responsabilità storica della chiesa. Quando la Nota sottolinea che la chiesa ha acquisito una consapevolezza delle «politiche di assimilazione forzata, promosse dalle

autorità governative del tempo, volte a eliminare le loro culture indigene» non può ridimensionare il suo peso, soprattutto ideologico, nelle espropriazioni violente avvenute in passato. Eppure, sia la Nota che l’intervista del cardinale Czerny sembrano quasi sgravare la chiesa dalle proprie responsabilità. Interpellato sul sostegno ai diritti dei popoli nativi, il cardinale canadese ha menzionato la bolla “Sublimis Deus” (1537) con cui papa Paolo III scrisse: «Definiamo e dichiariamo che i cosiddetti indiani e tutti gli altri popoli che in seguito potranno essere scoperti dai cristiani, non siano in alcun modo privati della loro libertà o del possesso dei loro beni, anche se sono estranei alla fede cristiana».                                                        https://it.cathopedia.org/wiki/Sublimis_Deus

Ma se è vero che la bolla non vale come magistero, pesano oggi i numeri stilati dalla Commissione per la verità e la riconciliazione all’indomani della scoperta delle tombe nei pressi delle scuole residenziali canadesi gestite dalla chiesa cattolica: almeno quattromila bambini furono strappati alle loro famiglie e spesso seviziati al punto tale che le Nazioni Unite, nel 2007, hanno condannato le scuole residenziali quali «vettori essenziali della riduzione in schiavitù dei primi popoli».

(Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni). Il ruolo della chiesa. A proposito dell’America Latina, per esempio, l’elemento cristiano dei regni europei è imprescindibile, come scrive Diego Battistessa, docente all’Università Carlo III di Madrid, nel saggio America Latina donna forte e insorgente (Aut Aut edizioni): «Viene stabilito un nuovo spazio di potere e di dominio del mondo cristiano eurocentrico, con le sue visioni civilizzatrici, che configura nuove relazioni di produzione schiavista e disegna la nuova mappa delle Americhe».

Papa Francesco è il primo pontefice ad aver riconosciuto il debito europeo nei confronti delle Americhe. Di ritorno dal Canada, ha parlato di «atteggiamento colonialista di ridurre la cultura (dei nativi, ndr) alla nostra. È una cosa che ci viene dal modo di vivere sviluppato nostro, che delle volte perdiamo dei valori che loro hanno».

Nel 2015, all’incontro mondiale dei movimenti popolari di Santa Cruz de la Sierra in Bolivia, ammetteva: «Si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il Celam, il Consiglio episcopale latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la chiesa si inginocchi dinanzi a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli».

Ma, se nel 1992 Giovanni Paolo II sottolineava «più luci che ombre» nell’evangelizzazione del continente americano, è in occasione del viaggio in Bolivia che Francesco ha bandito il termine «scoperta dell’America» in nome della «cosiddetta conquista dell’America». Perché se è vero che – come sottolinea la Nota – «ci sono stati anche numerosi esempi di vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli laici che hanno dato la loro vita in difesa della dignità di quei popoli», va anche ricordato che, durante l’espansione coloniale del Sedicesimo secolo, un chierico come Bartolomé de Las Casas, rimasto solo a difendere gli indigeni, fu osteggiato proprio dalla chiesa locale, come emerge dalle lettere scritte dal vescovo del Guatemala, Francisco de Marroquín.

Il genocidio non c’è. Contrariamente alle aspettative dei popoli nativi canadesi, nella Nota non compare la parola «genocidio». L’espressione «genocidio culturale» è apparsa per la prima volta nel rapporto elaborato dalla Commissione per la verità e la riconciliazione nel 2015 e sul tema il papa era già stato interpellato di ritorno da Iqaluit. «Sì, è una parola tecnica genocidio ma io non l’ho usata perché non mi è venuta in mente. Ho descritto che è un genocidio» ha però ammesso.

Se la Nota abroga formalmente le bolle pontificie del Quattrocento, è la visione della chiesa missionaria di papa Francesco a rompere con un modello culturale arrivato fino a Benedetto XVI. Il papa tedesco, infatti, tracciava nel «cristianesimo dei perseguitati» il legame fra religione e ordinamento statale (“L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, LEV). Per Francesco, invece, il cristianesimo non è più la religione dei martiri, ma dei «sobrantes», gli scartati. Per questo, riconoscere i crimini passati significa rigettare le derive coloniali ancora in atto nei paesi più poveri. Non è un caso che le parole più dure contro il colonialismo il pontefice le abbia pronunciate un mese fa, nella Repubblica democratica del Congo: «Giù le mani dall’Africa, non è una miniera da sfruttare e da saccheggiare».

Marco Grieco                    “Domani”           31 marzo 2023

www.editorialedomani.it/fatti/papa-dottrina-scoperta-rwhmnz7p

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230331grieco.pdf

Bergoglio e la (irreversibile) crisi del Cristianesimo

Agli inizi lo scontro tra Pietro e Paolo. La Chiesa di Pietro non è mai stata una comunità tranquilla. Appena venti/trent’anni dalla morte in croce di Gesù Cristo, Pietro e Paolo si scontrarono – dopo il cosiddetto incidente di Antiochia, di cui riferisce la Lettera ai Galati 2, 11-14 – a Gerusalemme per decidere, una volta per tutte, se i Gentili convertiti alla dottrina di Gesù dovessero sottoporsi alle leggi di Mosè, tra cui la circoncisione. La discussione fu aspra, come si evince da Atti 15, 1-19: “seditione non minima”, dice il testo con evidente understatement. Un primo gruppo di cristiani giudaizzanti se ne andrà per conto proprio, non condividendo la svolta epocale di Paolo, che riferisce: “hanno riconosciuto che mi era stato affidato il Vangelo per gli incirconcisi”. Non è stato che l’inizio, lungo i duemila anni.

Bergoglio comunista, globalista, populista, peronista…Nessuna meraviglia, dunque, che anche la Chiesa di Papa Francesco sia attraversata da conflitti, contestazioni, lotte di potere feroci e che il Papa personalmente ne sia il bersaglio. Bergoglio? Comunista, globalista, populista, peronista, rivoluzionario, conservatore, eretico, antipapa, gesuita, qui inteso come insulto… E ancora: incerto, decisionista, chiacchierone, ambiguo, centralista…

                Donde deriva tanta aggressività? Dal fatto che l’Europa, conquistata nel giro di un millennio al Cristianesimo, se ne sta congedando: le chiese sono sempre più vuote, i seminari chiudono i battenti, nei confessionali non si raccontano più i “peccati”. Come sottolinea Pierre Manent, professore di Filosofia politica presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi: “Gli Europei non sanno cosa pensare né che fare del Cristianesimo”. Il Cristianesimo e, quindi, la Chiesa – non esisterebbe il Cristianesimo senza la Chiesa – non sono più considerati dalla maggioranza delle persone, in Italia e in Europa, come strumenti per capire il mondo e per vivere nel mondo. Tampoco ai fini della salvezza.

                L’Occidente si sta congedando dal Cristianesimo. Quale, d’altronde?! Siamo tutti convinti di essere già stati salvati da noi stessi. La sintesi culturale e spirituale di Gerusalemme, di Atene, di Roma si sta disintegrando. Lo aveva denunciato Papa Benedetto XVI  nel discorso tenuto nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg il 12 settembre 2006, quando aveva descritto le tre ondate delle “de-ellenizzazione” del Cristianesimo:

  1. la Riforma protestante, che voleva liberare la fede dalla metafisica greca, affermando il principio esclusivo della “Sola Scriptura”;
  2. la teologia liberale di Adolf von Harnack, che, muovendo in senso opposto a quello di Lutero, intendeva togliere a Gesù la veste semitica della “Sola Scriptura” per fagli  indossare quella socratica del filosofo morale;
  3. la cultura ecumenico-globalista, per la quale il messaggio del Nuovo Testamento deve essere “es-culturato” dall’ellenismo e “in-culturato” nelle varie culture mondiali.

Papa Bergoglio e il processo di de-occidentalizzazione. Di queste Samuel P. Huntington aveva compilato nel 1993 su “Foreign Affairs”, in polemica con F. Fukuyama – che si illudeva circa una generale globalizzazione liberaldemocratica post-guerra fredda –  un elenco: Cristiano-occidentale, Cristiano-orientale, Latino-americana, Islamica, Indù, Cinese, Giapponese, Buddista, Africana. Secondo lo studioso lo studioso americano, si era messo in movimento un processo di “de-occidentalizzazione”, che la crescita demografica, lo sviluppo economico e la modernizzazione tecnologica avrebbero accelerato. Diversamente da quanti prevedevano che la globalizzazione a guida occidentale avrebbe indotto un’analoga occidentalizzazione dei valori, Huntington sosteneva che “l’ulteriore modernizzazione finisce con l’alterare gli equilibri di potere tra l’Occidente e le società non occidentali, alimenta il potere e l’autostima di quelle società e rafforza in esse il senso di appartenenza alla propria cultura”.

                Quali che ne siano le cause, il dramma dell’apostasia europeo-occidentale ci riguarda tutti, credenti o cristiani anonimi o non credenti.

Cristianesimo e Occidente. Ci riguarda, perché la storia del Cristianesimo e della Chiesa incrocia in profondità, qui in Occidente, la nostra storia collettiva e le nostre esistenze. Il Cristianesimo – e le religioni storiche pre/post-cristiane – ha risposto a due tipi di bisogni umani, che l’evoluzione della specie “sapiens” ha prodotto.

  1. Il primo è “il bisogno metafisico”: la domanda di dare un senso alla propria finitudine, al dolore, al negativo, al male, alla morte. Possiamo stordirci fin che vogliamo e distrarci in mille modi, ma questa è una domanda che scorre come la lava sotto la nostra crosta quotidiana più dura. E’ il bisogno di trasformare “il caso”, in cui siamo stati gettati come i dadi, in un “destino” scelto.
  2. Il secondo tipo di domanda/bisogno è quella dei legami comunitari e sociali. È una domanda etica: su quale tavola di valori teniamo insieme le relazioni, le comunità umane, le società? È il bisogno di trasformare il “caos” in “cosmos”, di costruire isole di ordine nel disordine dell’entropia.

Le religioni sono in crisi ma i non credenti faticano “produrre senso in casa propria”. La religione risponde a queste domande antropologiche essenziali. E se i non credenti “non credono” che le religioni siano state rivelate da quel Dio che esse stesse “rivelano” e che, pertanto, la religione sia soltanto una costruzione storico-sociale, non perciò se la cavano facilmente a “produrre senso in casa propria”, come direbbe Habermas. Il quale non nutre affatto l’illusione che i valori cristiano-liberali continueranno a fluire nelle nostre società europee, se la  sorgente cristiana originaria si ridurrà ad un rigagnolo. Certo è che l’itinerario storico e personale dal “caso” al “destino”, dal “caos” al “cosmos” appare piuttosto tormentato. Se il “bisogno religioso” è una costante antropologica, il Cristianesimo è qui in Europa la risposta storica.

Il deserto degli indifferenti. Papa Francesco, “venuto dalla fine del mondo” –da quello “non cristiano-occidentale” della cultura latino-americana – si è trovato ad affrontare la de-occidentalizzazione prevista di Huntigton e la de-ellenizzazione denunciata da Papa Benedetto XVI. Papa Francesco ha provato a rilanciare lo spirito del Concilio Vaticano II: uscire incontro al mondo. L’Umanesimo e il Rinascimento avevano aperto, sei secoli fa, le prime fratture tra il mondo e la Chiesa, che il ‘600 scientifico, il ‘700 illuministico, l’800 hegelo-marxiano e darwiniano allargarono a dismisura. La Chiesa si chiuse tra le sue mura con il Concilio di Trento (1545-1563), con il Sillabo del 1864, con Concilio Vaticano I (1869-1870).

                La Chiesa si apre al mondo. In ritardo. E diventa voce che grida nel deserto. Quando ha tentato, tardivamente, una sortita con il Concilio Vaticano II (1962-1965), non ha più trovato nemici che la assediassero, ma il deserto degli indifferenti. Il Concilio non ha fermato la secolarizzazione.  E quando Giovanni Paolo II, anche lui “chiamato da un Paese lontano”, il 22 ottobre 1978 gridò dall’alto della Loggia di San Pietro: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”, neppure a lui la sua Polonia cattolicissima diede ascolto. Anzi, secondo un’aggressiva corrente tradizionalista, il Vaticano II avrebbe spalancato la strada alla secolarizzazione. I cinque Papi del dopo-Concilio si sono trovati su questo drammatico crinale come “vox clamantis in deserto”.

La sinodalità non basta. Ora, in questo inizio di terzo millennio i processi di globalizzazione economica e culturale, le nuove tecnologie dell’informazione, l’Intelligenza artificiale e l’ingegneria genetica… stanno sottoponendo a rapida usura le istituzioni, le culture, le tradizioni, le religioni. Ne è coinvolta anche la Chiesa cattolica. Di fronte a queste sfide della storia, pare dubbio che la Chiesa se la possa cavare soltanto con la sinodalità, tanto più rimanendo una struttura verticale-monarchica, o con il sacerdozio femminile o con l’abolizione del celibato dei preti… benché possano essere, forse, passi necessari.

                Alla fine, ai credenti, ai cristiani anonimi, ai non-credenti, appare eroica e necessaria la traversata del deserto di Papa Francesco. Diversamente dal suo ultimo predecessore, che è entrato in alta competizione teologica con le filosofie del mondo, egli spinge i Cristiani a vivere la Chiesa come “un ospedale da campo”, come un posto dove si curano le ferite che il divenire storico infligge al tessuto esistenziale e a quello collettivo.

La Provvidenza non è un quieto riparo rispetto alla storia del mondo. Non che Francesco sia agnostico sul piano dottrinale, ma non crede che sia lì che si gioca, oggi, il futuro della Chiesa. È nello slancio comunitario e missionario che si decide, come spiega nella Evangelii Gaudium. Donde le posizioni “politiche” sulla pace e la guerra, sulla fratellanza universale, sulle periferie esistenziali, sulla difesa della terra, della vita e della corporeità umana…

                Da lì rifiorirà la fede cristiana? Forse. Le religioni nascono e muoiono: si tratta di vedere se il Cristianesimo continuerà ad essere in grado di rispondere al bisogno religioso che evolve, e se la Chiesa sarà in grado di stare all’altezza del nuovo Cristianesimo che si annuncia. La Provvidenza non è un quieto riparo rispetto alla storia del mondo. D’altronde, lo stesso Cristianesimo quale nuova religione è insorto dal crogiolo delle imponenti trasformazioni sociali, culturali e spirituali dell’Ellenismo, all’incrocio tra l’India, il Medioriente e il Mediterraneo, che la globalizzazione politica di Alessandro Magno, morto nel  323 a. C., aveva innescato e messo in comunicazione reciproca. La posta in gioco continua ad essere quella di difendere e di far crescere l’umano nell’uomo. Senza il Cristianesimo sarebbe molto più difficile.

 (α1943)Giovanni Cominelli               “la barca e il mare”                       29 marzo 2023

CITTÀ DEL VATICANO

Abusi, il gesuita Zollner si dimette in polemica dalla commissione per la tutela dei minori

  Il maggiore esperto dello scandalo abusi nella chiesa cattolica, il gesuita Hans Zollner, (α1966)si è dimesso dalla Pontificia commissione per la tutela dei minori, l’organismo creato da papa Francesco nel 2014 per affrontare, in tutta la sua portata, lo scandalo degli abusi sessuali sui minori commessi da preti. L’organismo non ha mai avuto una navigazione tranquilla e dimissioni eccellenti si erano avute già in passato, ma si trattava di laiche e laici, di esperti e vittime. Ora la questione è più seria perché riguarda uno degli uomini di fiducia del papa, anche per le motivazioni che ha messo nero su bianco per spiegare le ragioni della sua scelta. Fra le questioni sollevate, quella del rapporto fra la commissione e il Dicastero per la dottrina della fede, sotto il quale è stato posto dal papa l’organismo che si occupa della tutela dei minori con la riforma della Curia entrata in vigore da pochi mesi.

Evidentemente, secondo Zollner, la commissione non gode della necessaria autonomia. D’altro canto il rischio di una sovrapposizione c’è sempre stato, dato che il Dicastero è chiamato a valutare i casi di abuso provenienti dalle chiese locali, a istruire gli eventuali processi canonici e a stabilire le pene. Per quanto compito della pontificia commissione sia formalmente quello di «fornire al romano pontefice consiglio e consulenza ed altresì proporre le più opportune iniziative per la salvaguardia dei minori e delle persone vulnerabili», il conflitto fra i due organismi è sempre stato latente. Lo scorso settembre, infine, il papa aveva rinnovato la commissione nominando 10 nuovi membri, fra cui 7 donne.

Questioni irrisolte. In una dichiarazione diffusa ieri, Zollner ha riassunto così la questione: «La protezione dei bambini e delle persone vulnerabili deve essere al centro della missione della Chiesa cattolica». «Questa era – spiegava – la speranza condivisa da me e molti altri, quando fu istituita la commissione nel 2014. Tuttavia, nel corso del mio lavoro con la commissione, ho notato delle questioni che richiedono di essere affrontate con particolare urgenza e che mi hanno reso impossibile continuare». Negli ultimi anni, ha aggiunto il gesuita, «è andata aumentando la mia preoccupazione sul modo in cui la commissione, ha perseguito questo obiettivo, soprattutto in materia di responsabilità, compliance, accountability e trasparenza. Sono convinto che si tratti di principi che qualsiasi istituzione ecclesiastica, tanto più la Pontificia commissione per la tutela dei minori, sia tenuta a rispettare».

Quindi nel merito Zollner osservava: «Per quanto riguarda la compliance [conformità alle norme), c’è stata una mancanza di chiarezza sul processo di selezione dei membri e del personale, i loro rispettivi ruoli e responsabilità. Un’altra area di apprensione è quella della responsabilità e accountability [responsabilità pubblica]

finanziaria, che ritengo inadeguata. È fondamentale che la commissione mostri chiaramente l’uso fatto dei fondi nel suo lavoro». Inoltre, «dovrebbe esserci trasparenza sulle modalità di decisione all’interno della commissione.

Troppo spesso ai membri sono state fornite informazioni insufficienti e comunicazioni vaghe riguardo al modo in cui sono state prese alcune decisioni». Infine, «non sono a conoscenza di norme che regolino il rapporto tra la commissione e il Dicastero per la dottrina della fede, dal momento che la commissione è stata inserita nel Dicastero lo scorso giugno».

Un quadro generale che descrive, di fatto, un organismo con poteri limitati e che incontra ostacoli nella realizzazione dei suoi obiettivi.

Le indagini che fanno paura. Sullo sfondo, fra l’altro, s’intravede un nodo non piccolo da sciogliere: dalla Francia, al Portogallo, alla Germania, diverse commissioni d’indagine indipendenti promosse dagli stessi episcopati hanno portato alla luce una realtà fatta di decenni di abusi e coperture, un lavoro che sta producendo effetti importanti nelle riflessioni portate avanti dalle chiese di questi paesi circa l’urgenza di profonde riforme della struttura ecclesiale e della cultura che la governa. Non tutti, evidentemente, apprezzano il processo di trasparenza condotto attraverso la promozione di indagini che fanno emergere una verità dolorosa e, per certi versi, sconvolgenti. Anche la gestione complessivamente opaca da parte del Vaticano del caso dell’artista e teologo gesuita Marko Rupnik, accusato di abusi ripetuti su diverse suore, ha pesato in questi mesi sulla vicenda abusi. Il tema insomma è critico e non cessa di creare disagio anche ai piani alti dei sacri palazzi. D’altro canto, va ricordato come alla guida della commissione vaticana per la tutela dei minori, vi sia

 il cardinale Sean Patrick O’Malley,(α1944) arcivescovo di Boston, chiamato a guidare la diocesi americana nel 2003 dopo che questa fu travolta dagli scandali all’inizio degli anni duemila. O’Malley ha sempre fatto dell’impegno su questo fronte un punto fermo della sua azione. Dando notizia delle dimissioni di padre Zollner, il card. O’Malley, ha scritto: “Attraverso i numerosi corsi di formazione che ha fatto di vescovi e leader religiosi nel corso degli anni, viaggiando in tutto il mondo, è diventato un ambasciatore di salvaguardia e continuerà ad essere una presenza costante in questo importante lavoro attraverso i suoi ruoli di direttore dell’Istituto di Antropologia dell’Università Gregoriana e consulente della Diocesi di Roma”; quindi concludeva: “non vediamo l’ora di continuare la nostra collaborazione con padre Hans nel nostro impegno comune per fare della Chiesa una casa sicura per tutti”.

Francesco Peloso            “Domani”           29 marzo 2023

www.editorialedomani.it/politica/mondo/abusi-il-gesuita-zollner-si-dimette-in-polemica-dalla-commissione-per-la-tutela-dei-minori-xx3svcln

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Milano1. Istituto la casa. La casa News                 aprile 2023

Rivista fondata nel 1941 da don Paolo Liggeri

Editoriale                                                                                                                                         Luigi Filippo Colombo

Don Paolo Liggeri, Giusto tra i Giusti                                                                                    Elena D’Eredità *

Giovani adulti alla ricerca di sé                                                                                               Laura Scibilia

Tanti volti, un’unica Casa                                                                                                           La redazione

Perdere la testa                                                                                                                             Beppe Sivelli

Che il viaggio abbia inizio                                                                                                          Emanuela Balestrini

L’amore non muore mai                                                                                                             Jolanda Cavassini

Un nuovo arrivo in famiglia                                                                                                      Gianni e Roberta

Progetti di cooperazione internazionale                                                                             Associazione Hogar Onlus

Calendario: gruppi, corsi e incontri                        vedi la modalità on-line  usufruibile praticamente da tutti

  don Paolo Liggeri (α1911 Augusta-ω1996 Milano )

Don Paolo Liggeri, Giusto tra i Giusti

*Chissà che cosa avrebbe pensato don Paolo durante la cerimonia che si è svolta al Giardino dei Giusti di Milano lo scorso 3 marzo. Avrebbe ricordato i volti, i nomi e le storie di tutte le persone che aveva incontrato (e salvato) nella sua vita? Avrebbe sentito ancora più urgente la chiamata che lo aveva portato, 80 anni fa, a dare corpo e anima all’Istituto La Casa? A quella missione a favore dell’uomo, di ogni uomo o donna, nella sua unicità e nel suo bisogno fondante di costruire e ricostruire le relazioni familiari?

Il titolo della Giornata mondiale dei Giusti di quest’anno “Salvare l’umano nell’uomo. I Giusti e la responsabilità personale” sembra più che mai aderente a ciò che don Paolo Liggeri, partito dalla Sicilia, ordinato sacerdote a Milano, ha perseguito nella sua vita. La sua fede, che viveva di gesti concreti, di parole spesso sferzanti ma sempre incoraggianti, lo aveva spinto a unirsi alla Compagnia di San Paolo e ad esprimere il suo ministero nel segno di quel “cristianesimo sociale” trasmesso dal cardinale Andrea Carlo Ferrari, fondatore della stessa Compagnia.

Le sue azioni verso perseguitati, sfollati, giovani renitenti alla leva, perseguitati politici e razziali, lo avevano portato a essere arrestato nel carcere di San Vittore a Milano nel 1944 e da lì alla deportazione, prima a Fossoli e poi a Mauthausen, Gusen e Dachau. Tornato miracolosamente vivo dai campi nazisti, dopo essere stato liberato nel 1945, la sua intuizione e la sua mente fervida avevano fatto di lui il precursore dell’avvio di quelli che sarebbero diventati i Consultori familiari, istituiti in Italia solo trent’anni dopo, nel 1975. Di tutto quello che ha realizzato in seguito, dei molteplici servizi per la famiglia, della partecipazione attiva al dibattito sui temi della vita, della salute, della libertà, del matrimonio, restano opere vive ancora oggi.

La sua voce sembra ancora risuonare nella mente di chi lo ha incontrato e in quella di chi l’ha conosciuto attraverso le sue opere e i suoi scritti. La sua ironia, il suo sottile senso dell’umorismo, presente anche nelle pagine di “Triangolo Rosso”, il diario scritto durante gli anni di prigionia, e la determinazione o meglio, il coraggio, di fare e dire cose “assai scomode”. Non possiamo sapere che cosa avrebbe pensato don Paolo il giorno della cerimonia che lo ha onorato, insieme ad altri Giusti, ma è bello immaginare che abbia potuto sentire forte la presenza delle tantissime persone radunate sui prati del Giardino, per ricordare, rendere omaggio, ringraziare e soprattutto per riconoscere il bene, perseguirlo e difenderlo.

Sicuramente noi tutti dell’Istituto La Casa, che abbiamo assunto il compito e il privilegio di portare avanti quanto lui ha con abbondanza seminato e fatto crescere, abbiamo potuto ancora una volta apprendere la sua lezione più vera: imparare a vedere dentro l’uomo, attraverso le brutture e i danni, a volte i lividi, l’umanità.

                                                               Elena D’Eredità

www.istitutolacasa.it/pdf_sarat/rivistapdf_pdf_136121280.pdf

L’Istituto La Casa è diventato Ente del Terzo Settore iscritto al registro del RUN TS Regione Lombardia. Per questo le donazioni effettuate dal 1/6/2022 possono essere fiscalmente detraibili   Così altri consultori..

DALLA NAVATA

..Domenica della Passione, detta delle Palme – Anno A

Isaia                                      50, 04,  Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare

                                               una parola allo sfiduciato.

Salmo                                   21, 23.  Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea.

Paolo ai Filippesi            02,06. Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio

                                               l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo

                                               diventando simile agli uomini.

Matteo                                 26,17. Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?

La liturgia di questa domenica della Passione del Signore, detta anche delle Palme, prevede la lettura del racconto della passione secondo Matteo. L’evangelista non ci consegna innanzitutto una “cronaca”, ma ci fornisce l’interpretazione, scaturita dalla fede della chiesa, di quei fatti che hanno costituito la fine della vita di Gesù il Cristo. Il vangelo è scritto da chi confessa la resurrezione di Gesù e dunque legge gli eventi antecedenti nella luce di quell’evento che spiega, dà senso, illumina la passione e la morte. Per questo Matteo insiste sul “compimento delle Scritture”, ritmando il racconto con questo adagio: “come sta scritto…”, “ciò è avvenuto perché si compissero le Scritture…”. Leggendo la passione secondo Matteo assistiamo, come folla convocata, al processo di Gesù, nel quale si affrontano la volontà di Dio e quella degli uomini, in un dramma che è pasquale non solo per la sua collocazione temporale, ma anche per la sua dinamica.

                Possiamo distinguere il racconto in tre grandi parti:

il preludio (Mt 26,1-46);

il processo religioso (Mt 26,47-75);

il processo politico, la morte e la sepoltura (Mt 27,1-66).

Nel preludio, dopo il complotto (cf. Mt 26,1-5), leggiamo come apertura l’unzione di Gesù da parte di una donna anonima a Betania (casa del povero), vera introduzione alla passione (cf. Mt 26,6-13). Versando sul capo di Gesù olio profumato, la donna profetizza quell’unzione regale e sacerdotale che Gesù riceverà sulla croce. Ella “discerne” Gesù come “il Povero”, colui che va alla morte nella solitudine, nell’abbandono e senza difesa; Gesù approva il suo gesto, che non è spreco, ma vero dono fatto al Povero. Non comprendere questo, significa – come farà Giuda (cf. Mt 26,14-16) – vendere Gesù a prezzo di denaro, perché si stima il valore del denaro più importante dell’attenzione da dedicare a Gesù stesso. Per questo, come Gesù afferma con solennità: “Amen, io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto” (Mt 26,13), il suo gesto d’amore.

Segue il racconto della cena (cf. Mt 26,17-35), che secondo l’evangelista è una cena pasquale, e proprio in essa la denuncia del peccato del traditore: uno dei Dodici consegna Gesù, gli altri fuggiranno tutti e Pietro, la roccia, tremando come un fuscello dirà di non conoscere Gesù. Questa è la comunità di Gesù, alla quale egli dona il suo corpo e il suo sangue, la sua stessa vita. Sì, i convitati di quella cena sono dei peccatori, degli infedeli, un’assemblea che noi giudichiamo indegna di ricevere in dono la vita stessa del Signore. Ma quel dono è per la remissione dei peccati, il calice è sangue dell’alleanza versato per la remissione dei peccati, a cominciare da quelli dei Dodici. Dopo la cena, Gesù discende con la sua comunità al Getsemani, al di là del torrente Cedron, nella valle sotto il tempio, dove in un’intensa preghiera assume fino in fondo quegli eventi che ormai stavano precipitando (cf. Mt 26,36-46). Egli sarebbe potuto fuggire, rinnegando ciò che aveva fatto e detto; avrebbe potuto assumere lo stile di chi combatte anche con la violenza, facendo resistenza: sceglie invece di vivere fino alla fine facendo il bene, accogliendo su di sé il male piuttosto che farlo. Questa è la volontà di Dio per tutti, per ogni essere umano! Dunque Gesù è pronto, fa degli eventi che sopraggiungono un atto nella sua libertà e a causa del suo amore. C’è stata una lotta, possiamo dire che Gesù ha subito nuovamente la tentazione (cf. Mt 4,1-11), ma ancora una volta, come sempre, ha rimesso il suo destino nelle mani del Padre.

Segue la cattura nella tenebra, su indicazione di Giuda, attraverso un bacio, e la ferma confessione da parte di Gesù che quanto sta accadendo è conforme a ciò che le Scritture avevano annunciato: ora più che mai egli compie la vocazione ricevuta (cf. Mt 26,47-56). Poi Gesù viene condotto dal sommo sacerdote Caifa per il processo religioso (cf. Mt 26,57-68): là si erano riuniti alcuni scribi e alcuni anziani del popolo, convocati frettolosamente nella notte da Caifa. Con questo processo si vuole condannare Gesù, individuando nelle sue azioni e nelle sue parole contraddizioni alla Legge, bestemmie contro Dio, tradimento della comunità di Israele. Testimoni prezzolati intervengono per riferire parole di Gesù contro il tempio, la dimora di Dio.

Anche se Matteo non ci fornisce un resoconto preciso, un verbale, capiamo che la causa di quel processo sta tutta nell’identità di Gesù in rapporto a Dio. Così il sommo sacerdote gli chiede di confessare se è lui il Cristo, il Messia, il Figlio di Dio. E Gesù risponde rinviando Caifa alle sue parole e alla sua coscienza (“Tu l’hai detto”: Mt 26,64), ma svelando anche che, proprio in quella morte ormai prossima, ci sarebbe stato lo svelamento del Figlio dell’uomo seduto come Giudice alla destra di Dio nella gloria. Parole che indignano e spaventano Caifa, portandolo anche a strappare le sue vesti, segno che il sommo sacerdozio che giudica Gesù è ormai finito, svuotato.

In parallelo al processo religioso di Gesù da parte del sommo sacerdote, vi è l’interrogatorio di Pietro da parte di alcune serve, di persone anonime e senza potere. Pietro rinnega, non riconosce Gesù come Messia sofferente e non riesce neppure a riconoscerlo colui del quale era stato discepolo (cf. Mt 26,69-75). E Giuda? Avendo preferito il denaro a Gesù, non riesce a dare senso alla propria vita e decide quindi di suicidarsi (cf. Mt 27,3-10).

Il processo religioso poteva emettere condanne, ma non infliggere a Gesù una pena. Per questo egli è rinviato all’autorità politica romana, a Ponzio Pilato, in quegli anni governatore della Giudea (cf. Mt 27,1-3.11-26). Per Pilato Gesù è un caso interessante solo se rappresenta una minaccia al potere politico di Cesare. Per questo gli chiede: “Sei tu il Re dei giudei?” (Mt 27,11). Ovvero: “Sei tu un concorrente al potere imperiale? Riconosci il potere politico di Roma o lo vuoi per te?”. Ancora una volta, però, Gesù non risponde con un “sì” o con un “no”, ma rimanda Pilato alle sue parole: “Tu lo dici, tu fai questa affermazione, io non l’ho mai fatta!” (ibid.). Pilato comprende allora che Gesù non è un pericolo, ma fa appello alle accuse che le autorità religiose giudaiche muovevano contro di lui. Gesù però non risponde, tace (cf. Mt 26,14), con un silenzio che, se fosse ascoltato, griderebbe la verità con più forza di qualsiasi parola.

Pilato tenta poi uno scambio tra Gesù e un prigioniero famoso, un sedizioso, Barabba, ma la gente, sobillata dai capi religiosi, preferisce la morte di Gesù, e giunge a gridare: “Sia crocifisso!” (Mt 27,22). Qui il potere totalitario mostra il suo volto: vedendo che il tumulto cresce, avendo compreso che Gesù non conta nulla e non è difeso da nessuno, Pilato preferisce acconsentire alla volontà della massa, alla maggioranza in preda alla vertigine della rabbia, del rancore e della violenza (cf. Mt 27,20-26). Ma prima dell’esecuzione della condanna, la violenza trova la possibilità di sfogarsi contro un giusto inerme, fino al disprezzo e alla tortura. Gesù è incoronato Re dei giudei, secondo l’accusa presentata, e viene celebrato in una parodia: è rivestito di un mantello scarlatto, incoronato di spine e gli viene data una canna come scettro, icona che i cristiani mai dimenticheranno. “Fino a quel punto” hanno trattato Gesù, il Figlio dell’uomo, l’uomo vittima dell’ingiustizia e del sopruso… Il processo politico si chiude con la consegna di Gesù ai soldati da parte di Pilato, affinché eseguano la crocifissione fuori della città, nel luogo detto Golgota (cf. Mt 27,27-37).

Gesù è crocifisso tra due delinquenti (cf. Mt 27,38), annoverato anche nella morte tra i peccatori, i malfattori, e la parodia continua con un cartello che lo disprezza: “Costui è Gesù, il Re dei giudei” (Mt 27,37), un Messia fallito, condannato dall’autorità religiosa come bestemmiatore e da quella politica come malfattore, posto su una croce, il supplizio ignominioso riservato agli schiavi e ai maledetti da Dio e dagli uomini (cf. Dt 21,23; Gal 3,13). Sulla croce Gesù continua ad ascoltare oltraggi, nonché l’ultima eco delle tentazioni vissute all’inizio e poi sempre nella sua missione (cf. Mt 27,39-44). Scendere dalla croce manifestando la sua onnipotenza divina? Salvare se stesso come ha salvato tanti altri? Avere fede in Dio solo se lo libera da quella fine? No, Gesù resta fedele alla sua missione fino alla fine, per questo pone al Padre un’ultima domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Sal 22,2). Non è una contestazione, ma una preghiera, una richiesta di luce nella tenebra, una confessione: “O Dio, ti resto fedele anche in ciò che vivo come abbandono, tuo silenzio, lontananza da te!”. Nessuno tra i presenti può comprendere, ma solo un centurione pagano, sotto la croce, vedendo quella morte arriva a confessare: “Davvero costui era Figlio di Dio!” (Mt 27,54).

Così, mentre scende la sera e il corpo di Gesù viene deposto in un sepolcro da discepoli e discepole (cf. Mt 27,57-61), in un pagano è generata la fede in Gesù: in quella morte così atroce, il centurione vede che Gesù ha speranza, che resta fedele a Dio, che vive quella fine come dono, come amore per tutti gli uomini. Quella morte comincia ormai a manifestarsi come resurrezione, come vita, finché il terzo giorno si manifesterà in pienezza il grande mistero della Pasqua di Gesù (cf. Mt 28,1-10)

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DIRITTI

Diritti, mamma e papà non bastano

Un legame famigliare generativo non dipende dal sangue né dalla generazione biologica. Come dimostrano i genitori adottivi. Il ritornello è martellante: un bambino ha bisogno di una mamma e di un papà per crescere bene.

                Ma cos’è una mamma e cos’è un papà? La natura eterosessuale dei genitori sarebbe sufficiente a garantire una buona educazione e, dunque, una buona crescita della vita del figlio? Una mamma e un papà, ovvero i genitori naturali, sarebbero davvero la condizione necessaria e sufficiente per dare alla vita del figlio la cura e l’amore indispensabili al suo sviluppo? Davvero la cura e l’amore dipendono dalla differenza anatomica dei genitori? Significherebbe che una coppia di genitori dello stesso sesso non sarebbe in grado per principio di fornire cura e amore? Non c’è qualcosa di brutalmente sommario in questo sillogismo che data la premessa che ogni figlio ha bisogno di una mamma e di un papà necessariamente eterosessuali, conclude che senza questa presenza i diritti del figlio, insieme alla sua stessa vita, verrebbero ingiustamente lesi?

Mi chiedo sempre quando ascolto questo ritornello quale film abbiano visto coloro che lo pronunciano. Se fosse possibile inviterei costoro a stare al mio fianco in una mia comune giornata di lavoro perché possano ascoltare gli innumerevoli disastri che molto frequentemente la mamma e il papà eterosessuali, ovvero i genitori biologici del figlio, possono provocare sulle loro creature.

                Figli di coppie gay, il Parlamento europeo condanna il governo Meloni per lo stop alle registrazioni: “L’Italia torni indietro”

La gamma è vasta è spazia dalla totale indifferenza all’intrusione più o meno violenta. Le sfumature tra questi due poli (indifferenza e intrusione) sono variegate: arroganza, irresponsabilità, litigi quotidiani con il coniuge e separazioni burrascose che coinvolgono senza alcuna tutela i figli, soprusi, ricatti, assenza di rispetto, abbandoni, abusi, maltrattamenti, umiliazioni, imposizioni autoritarie, dipendenza affettiva, ecc.

Sono cose talmente note, frequenti, quasi abituali… Basta solo guardarsi attorno, magari proprio nelle famiglie di coloro che si fanno promotori di quel ritornello… La realtà è che un legame famigliare generativo, al di là del sesso dei genitori, non è affatto la norma, ma una difficile e impegnativa costruzione alla quale la differenza anatomica dei genitori non abilita affatto. Un legame famigliare generativo non dipende dal sangue, né dalla generazione biologica. Come danno dimostrazione spesso esemplare i genitori adottivi, mamma e papà non sono tali in quanto genitori naturali dei loro figli, ma solo in quanto hanno scelto di aderire con responsabilità illimitata alla cura dei loro figli.

Bisogna dunque distinguere con attenzione l’atto naturale della generazione di un figlio da quello della sua adozione simbolica. Il primo è dettato dalle leggi della natura ma può lasciare vacante la funzione genitoriale necessaria al figlio, mentre il secondo è condizione necessaria di ogni legame famigliare ma non dipende affatto da quelle leggi. Sappiamo bene che non tutti i papà e le mamme naturali hanno assolto il compiuto di questo secondo atto. Generare un figlio non significa di per sé essere una madre o un padre. Madre e padre si diventa attraverso un gesto infinitamente ripetuto di adozione simbolica della vita del figlio. Questo significa che la cura non scaturisce dal sangue ma dal dono della cura, dalla pazienza e dal decentramento del proprio Io che fanno spazio alla vita del figlio.

L’eterosessualità dei genitori biologici garantisce questo spazio? Un bambino ha diritto ad avere una mamma e un papà che nonostante la loro eterosessualità e la loro consaguineità si rivelano dannosi per la sua crescita, oppure ha diritto ad essere amato da chi si assume davvero il difficile compito simbolico della sua cura? Possiamo davvero pensare che la differenza anatomica tra i sessi sia la condizione necessaria e sufficiente per garantire la presenza di una madre e di un padre degni di questo nome?

La sostanza del legame famigliare non è il sangue, ma la capacità di amore e di cura nei confronti del figlio. Non dovremo allora avere pregiudizi sul fatto che una coppia omoparentale, unita da un profondo sentimento amoroso, possa cimentarsi nell’impresa di provare ad essere dei genitori sufficientemente buoni. Non sarà certo l’assenza di eterosessualità a minare questa possibilità, né, del resto la sua esclusione. La difficoltà che incontra ogni genitore nell’esercizio del suo mestiere impossibile vale anche per nuove coppie di genitori omoparentali. Come diceva saggiamente un mio vecchio professore, quando ancora il dibattito politico sull’omogenitorialità non era all’orizzonte: “Lasciamo che sbaglino anche loro”.

Massimo Recalcati          La Repubblica   30 marzo 2023

www.repubblica.it/commenti/2023/03/30/news/famiglia_tradizionale_coppie_gay_tutela_figli-394290332/?ref=nl-rep-f-an

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

“Francesco è forte, non si dimetterà È ora di dire sì ai sacerdoti sposati”

  intervista a Jean-Claude Hollerich (α1958)

«Francesco è forte, coraggioso, ha grande forza di volontà. E tanta speranza. Non credo che si dimetterà. Potrebbe rinunciare al pontificato solo se gli sarà davvero impossibile portare avanti il ministero petrino. Ma io sono convinto che continuerà a guidare la Chiesa con tenacia, cercando sempre di renderla più missionaria, più aperta e più pronta ad ascoltare la gente, a dialogare col mondo e con la contemporaneità». Parola di Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo, uno dei porporati più vicini al Papa. Bergoglio lo ha nominato relatore generale del Sinodo dei vescovi, e anche per questo è considerato una delle figure chiave di questa fase del pontificato. E poche settimane fa il Pontefice lo ha cooptato nel Consiglio dei cardinali.

Eminenza, il ricovero del Papa ha alimentato ulteriormente le voci sulle sue possibili dimissioni: che cosa ne pensa?

«Io non credo che lascerà il soglio pontificio. Potrebbe dare l’addio al papato solo se gli sarà davvero impossibile portare avanti il ministero petrino. Ma il Santo Padre è forte, coraggioso, tenace, ha grande forza di volontà. E tanta speranza».

Come sintetizzerebbe il pontificato di Francesco?

«Credo che il Papa stia compiendo una grande opera: attuare il Concilio Vaticano II. Sta facendo un

bene immenso alla Chiesa, preparandole un avvenire gioioso».

E all’umanità oltre il recinto cattolico?

«Pensiamo all’enciclica “Fratelli tutti”: predica la fratellanza tra tutti gli uomini e donne, che siano credenti, di altre fedi e non credenti. È un messaggio straordinario, e particolarmente prezioso in questo tempo di guerre. Indica le vie da intraprendere per trovare un modo di vivere insieme in pace e armonia sulla nostra Terra, la nostra casa comune. Chiede un vero amore del prossimo, per ogni prossimo. Questo è molto bello, perché è l’opposto della Chiesa che condanna. Nella Lettera del Pontefice si trova la Chiesa che vuole bene a ogni persona, e questa è l’immagine di Dio che ama tutti. È un gigantesco passo in avanti».

Quali sono gli obiettivi del Sinodo sulla sinodalità in programma a ottobre 2023 e 2024?

«Con il Sinodo il Papa punterà a rendere la Chiesa più pronta a dialogare col mondo e con la contemporaneità, ad ascoltare tutti per capire a che cosa aspira la gente. Lo scopo è anche fare in modo che la Chiesa non sia una “dittatura clericale”, ma la Chiesa di tutti. In cui papi, cardinali, vescovi e preti fanno parte del popolo di Dio esattamente come i laici, chiamati a partecipare alla missione di servizio, spirituale e concreto, al mondo. Noi non possiamo essere preti e vescovi senza la gente, lo siamo per la gente».

Il Sinodo potrà essere terreno di attacchi degli oppositori al pontificato?

«Ho fiducia che andrà bene, anche se so che ci saranno delle difficoltà. Le offensive al Sinodo potranno avvenire, ma credo che saranno meno in quantità e in durezza di ciò che possiamo immaginare. Sono ottimista e ho speranza, perché sento che i fedeli aspettano tanto la sinodalità per una Chiesa viva, aperta, solidale e missionaria a servizio del mondo».

A proposito di «Chiesa aperta»: sta davvero accogliendo le persone omosessuali? Nella galassia cattolica cresce la richiesta di benedire le coppie gay: qual è la sua idea?

«Purtroppo la Chiesa non sempre accoglie bene le persone omosessuali: ancora troppo spesso le marginalizza. E questo mi fa male. È contro l’insegnamento di Gesù, perché nel Regno di Dio c’è posto per tutti; Gesù non andava dalla gente a dire “devi cambiare”, ma a manifestare il suo bene per tutti e ciascuno. Benedire una coppia gay? Benedire significa “dire bene” di qualcuno, e Dio non dice cose cattive. E poi, benedire una coppia omosessuale non vuol dire matrimonio sacramentale. E perché “maledire” una coppia gay che vive un amore vero? Penso che la Chiesa potrà cambiare questo atteggiamento solo dopo un lungo processo. Ma bisogna impegnarsi per accelerare: noi dobbiamo aprire le porte a tutti. Non voglio esprimermi sulla dottrina della Chiesa, ma spero in un’attitudine pastorale diffusa grazie alla quale tutti si sentano benvenuti».

Il celibato sembra stia diventando un ostacolo per il mondo sacerdotale. Non pensa che sia ora di togliere questa prassi, che non è un dogma?

«Io vivo il mio celibato con grande gioia. Ma conosco tanti sacerdoti che soffrono per questo motivo. So di giovani che vorrebbero farsi preti ma hanno la fidanzata. In più, non possiamo tralasciare che in varie parti del mondo ci sono sempre meno vocazioni sacerdotali. Mi domando: non sarebbe meglio ordinare sacerdoti anche uomini sposati? Nella mia arcidiocesi ci sono diaconi permanenti coniugati che conducono un lavoro straordinario e apprezzatissimo, le loro omelie emergono dal loro cuore e dalla realtà della loro vita familiare. Penso che la gente sia contenta di  ascoltare prediche così. Ma questa è una decisione che il Papa deve prendere insieme con tutta la Chiesa»

 a cura di Domenico Agasso        in “La Stampa” del 1° aprile 2023

www.lastampa.it/vatican-insider/it/2023/04/01/news/jean-claude_hollerich_papa_francesco-12731402

                                                          www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202304/230401hollerichagasso.pdf

Tutti i dubbi di Francesco

Il ricovero di Francesco al policlinico Gemelli, iniziato ieri pomeriggio, suscita due ordini di preoccupazioni.

Per un verso, infatti, s’è aperto ieri sera uno squarcio sull’entourage del Papa: lì non è stato un medico, ma un infermiere a suggerire il ricovero al Gemelli; e lì s’è concepita l’idea di coprire con la bugia di un “ricovero programmato” una polmonite che risponde alle cure. Nulla di paragonabile alle miserie dell’archiatra pontificio di Pio XII che si vendette le foto del papa morente o alle funamboliche descrizioni di Navarro-Valls (che nel 2005 raccontava d’un papa malatissimo che s’era mangiato “uno yogurt e sette biscotti”): ma il segno di un’ingenuità assai poco rassicurante.

Per altro verso preoccupa invece il fantasma del 2005: l’unico anno in cui Giovanni Paolo II non poté presiedere il triduo pasquale (sarebbe morto il sabato in Albis). È questo che sta spingendo i curanti a cercare di guarire Francesco in fretta, così che celebrare o almeno dire l’Angelus: ma l’assenza di Francesco dalla Settimana santa farebbe crescere i discorsi sulle dimissioni del Papa, rispetto ai quali la crisi cardio-respiratoria di ieri ha segnato un cambio di passo.

Papa Bergoglio aveva giocato a più riprese con le sue dimissioni nelle innumerevoli interviste, a giornali, periodici, radio e tv, di questi anni: in quelle conversazioni che hanno creato una nuova tipologia di magistero – il “magistero liquido” – Francesco ha spesso sondato, aggiustato, corretto, enunciato, eluso temi e problemi. Ha parlato della durata del pontificato (“breve”, lo profetizzò a Spadaro ben dieci anni fa) e sulle ragioni delle sue possibili dimissioni (“si governa con la testa e non la rotula”, ha detto di recente): e ha giocato al gatto col topo coi giornalisti. Ad alcuni di loro ha confidato di aver dato al Segretario di Stato (di allora) Bertone una lettera di dimissioni per il caso che fosse sopraggiunto un impedimento medico: atto che non ha alcun valore, perché il collegio cardinalizio ha da sé il dovere di provvedere a dare un vescovo a Roma quando la prima sede diventa vacante (per morte, o per rinuncia o per inabilità a comunicare almeno “per lettera” coi fedeli). Ad altri ha spiegato di essere in salute, pur sapendo di poter morire l’indomani: cosa davvero lapalissiana. Ad altri ha ripetuto che se si sentisse incapace di decidere (o se qualcuno glielo “gridasse”), si dimetterebbe; ma ad altri ancora ha confidato il timore che la sua eventuale rinuncia crei una prassi e condizioni il successore: promesse e timori senza ragion d’essere perché la rinuncia del Papa deve solo essere libera e non può essere né accolta, né cercata, né respinta da chicchessia.

Poi l’età è venuta a ricordare a tutti – Papa incluso – che in quella libertà interiore e canonica accade anche l’imprevedibile. Francesco è un uomo abituato a decidere tutto da solo anche quando contava pochissimo, e ha continuato a farlo anche nell’esercitare il ministero di comunione fra vescovi e d’unità fra le chiese: da solo dovrà decidere il peso da dare a questa prova che non potrà non ricordargli le parole del Risorto a Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” […] E detto questo aggiunse: “Seguimi”».

Alberto Melloni               “la Repubblica” 31 marzo 2023

www.repubblica.it/commenti/2023/03/30/news/bergoglio_papa_futuro_pontificato-394286150

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230331melloni.pdf

“ Io non prego per il Papa ma vorrei stargli a fianco So che non mollerà”

 intervista a Edith Bruck,

«Il Papa per me non è un amico. È molto di più, è come un familiare. Gli voglio bene. Mi auguro che possa guarire presto e non rimanere in ospedale troppo a lungo». Edith Bruck, 92 anni a maggio, scrittrice e sopravvissuta ad Auschwitz, ha avuto l’onore di ricevere una visita del Santo Padre a casa sua. Un’esperienza che ha anche raccontato nel libro “Sono Francesco“, la cui prefazione è stata scritta proprio da Bergoglio.

Se potesse inviargli un messaggio che cosa gli direbbe in questo momento?

«Che vorrei essere al suo fianco per stringergli le mani. Lui mi ha detto che gli trasmetto forza. Ecco, vorrei che sentisse la mia forza per trasformarla in energia per sé. Quando è venuto a casa mia, due anni fa, dopo aver letto un mio articolo sull’Osservatore Romano sui suoi dieci anni di pontificato, ci siamo a lungo abbracciati. Io appena l’ho visto sono scoppiata a piangere ma poi è stato tutto molto naturale. Spero che ora non soffra tanto. Temo si sia stancato troppo perché ha viaggiato molto negli ultimi tempi. Il 28 marzo sarebbe dovuto andare in Ungheria, dove io sono nata, ma ha dovuto annullare il viaggio».

Ritiene che il Papa possa dimettersi se troppo malato?

«No, non è il tipo. Del resto lo ha detto anche pubblicamente che finché resta lucido non lascerà. E lo ha ammesso anche con me. Dopo quella prima visita a casa mia ci siamo incontrati altre tre volte e al compleanno mi ha telefonato per gli auguri. E ogni volta mi ha detto “le ginocchia mi fanno male, ma la testa funziona” lasciando appunto intendere che non mollerà».

Secondo lei è importante anche per le comunità non cattoliche? Perché?

«Sin da giovane ha lottato molto per unire tutti quanti, per far accettare la multireligiosità. Quando era in Argentina ha lavorato cinque anni con un capo rabbino e un capo musulmano. E ancora oggi continua sulla linea della fratellanza».

In questi giorni di ricovero ospedaliero sta ricevendo molte attestazioni di affetto.

«Fuori dal Vaticano è molto amato, perché è un uomo dolce e generoso e questo la gente lo percepisce. Ma dentro al Vaticano gli fanno la guerra e deve fare i conti con molte rivalità e lotte intestine per il potere. Mentre lui è fondamentalmente un uomo di pace».

Quanto è determinante l’impegno del Papa per la pace?

«Moltissimo: si impegna sempre in mezzo alla follia umana. Si spende sempre per la pace e contro la guerra. Basti pensare che aveva programmato i viaggi a Kiev e a Mosca, ma chissà ora quando ci potrà andare».

Lei sta pregando per la sua guarigione?

«Avrei preferito non mi ponesse questa domanda perché non so se sarò compresa. No, io non prego. Almeno non con le parole, lo faccio con l’anima e con il cuore. Non credo nelle preghiere ma nei comportamenti improntati al rispetto dell’altro. Per me la fede è una cosa diversa, perché penso che in nome di Dio sono state uccise milioni di persone. Ricordo ancora che sulla fibbia dei nazisti nel lager c’era scritto “Dio è con noi”».

Quanto le ha fatto bene l’incontro con il Santo Padre ripensando alla sua vita da deportata?

«Moltissimo. Quando è venuto a trovarmi ha chiesto perdono per la persecuzione degli ebrei, non soltanto per il periodo dell’Olocausto ma anche per i secoli precedenti. In quel modo ha mandato un messaggio di pace e di fratellanza a tutto il mondo. E mi ha scaldato il cuore. Francesco mi dà molto calore».

Come considera l’approccio con il mondo ebraico?

«Assai prezioso, come pure nei confronti di altre fedi. Francesco ha il dono di saper avvicinare gli esseri umani nel nome della fratellanza. E non tutti gli altri Papi hanno avuto questa capacità».

Ritiene che possa garantire l’armonia sociale che politicamente è sempre in bilico?

«No, non credo che riesca a dare stabilità. Né dentro, né fuori dal Vaticano. Fa quello che può e serve ogni suo gesto che è come una goccia di bene in un mare nero. Certamente il suo impegno e la sua apertura mentale non sono da trascurare. È stato il primo Papa a dire “chi sono io per giudicare gli omosessuali?”. E credo sia un passo importante verso la pacificazione sociale».

Se potesse inviargli un libro che cosa sceglierebbe?

«La mia raccolta di poesie, perché gli darebbero molta forza. E sono convinta che gli farebbe piacere, perché, come ha scritto nella prefazione al mio libro sul nostro incontro io gli infondo speranza e tanta forza. Mai come adesso che è malato ne avrebbe bisogno».

a cura di Grazia Longo                   “La Stampa”       31 marzo 2023

www.lastampa.it/cronaca/2023/03/31/news/edith_bruck_salute_papa_francesco-12729589

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230331brucklongo.pdf

PACE

“Pacem in terris”. La sorprendente attualità di un’enciclica

www.vatican.va/content/john-xxiii/it/encyclicals/documents/hf_j-xxiii_enc_11041963_pacem.html

 Sono trascorsi sessant’anni dalla pubblicazione della “Pacem in terris” e l’enciclica sulla pace di papa Giovanni XXIII sembra scritta oggi tale è l’attualità dell’analisi della situazione mondiale e delle proposte suggerite per affrontarla correttamente. A rendere ragione di questa attualità è, da una parte, lo scenario geopolitico odierno, che presenta forti analogie con quello di quegli anni: la minaccia di una guerra mondiale era allora incombente per la installazione a Cuba di missili sovietici e oggi si ripropone con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e con il moltiplicarsi di gravi conflitti nelle diverse aree del pianeta. A questo si aggiunge – e non è cosa di poco conto – la delineazione di questioni che hanno avuto in seguito (ed hanno ancora oggi) una singolare rilevanza per la vita dei popoli e dell’intera comunità umana: dai diritti umani – è la prima volta che in un documento ufficiale della chiesa viene positivamente ricordata la Carta dell’Onu – ai «segni del tempo» – l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica e il sorgere ovunque di comunità politiche indipendenti (il Vaticano II riprenderà nella Gaudium et spes questa categoria) – fino alle prime avvisaglie della globalizzazione e al disegno di un nuovo ordine mondiale.

il tema centrale. L’enciclica datata 11 aprile 1963, che è l’ultimo intervento di papa Giovanni (il 3 giugno successivo morirà) e che costituisce il culmine e la sintesi del suo magistero, ha avuto una enorme risonanza nell’opinione pubblica mondiale con un numero rilevantissimo di commenti, sia nell’ambito del mondo cattolico che di quello laico – era il primo documento papale non esclusivamente rivolto ai cattolici ma «a tutti gli uomini di buona volontà» (n. 4) – al punto che è difficile dire oggi ancora qualcosa di nuovo, aggiungere qualche nuova considerazione.

A ricevere il numero più consistente di commenti è stato (ed è) l’art. 67, in cui il pontefice afferma con chiarezza che pensare oggi «che la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia è del tutto irragionevole (alienum a ratione)». Questa forte dichiarazione, che è il cuore dell’intero messaggio, ciò attorno a cui ruota tutto il resto, riveste un carattere decisamente rivoluzionario, rappresenta una vera e propria presa di distanza dalla precedente, costante presa di posizione della tradizione ecclesiale. Ad essere messo sotto processo, e definitivamente superato, è infatti il concetto di «guerra giusta» o di «guerra difensiva» – concetto che veniva legittimato, sia pure con la presenza di alcune precise delimitazioni riguardanti tanto le condizioni relative all’ingresso in guerra quanto le modalità del suo concreto esercizio – per sostituirlo con un giudizio severo di condanna nei confronti di ogni tipologia di guerra.

A provocare tale ripudio è la comparsa sul mercato mondiale di armi micidiali, l’atomica in primis come il papa ricorda, ma anche le armi chimiche e batteriologiche, che hanno (e non possono che avere) effetti devastanti sulla vita dei singoli e dei popoli. Il risvolto positivo, che giustifica più radicalmente la presa di posizione di papa Giovanni, è tuttavia anzitutto la fedeltà al messaggio evangelico, che conferisce agli «operatori di pace» il titolo più alto «saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5, 9). Il tema della pace, che segna trasversalmente tutte le pagine dell’enciclica e rende ragione del titolo ad essa conferito, Pacem in terris, è stato spesso oggetto di interventi del «papa buono», a partire dal grido accorato, «il mondo non vuole la guerra ma la pace» pronunciato in occasione del rischio di conflitto mondiale degli anni sessanta.

valori in gioco e «segni del tempo». Ma la pace non può affermarsi senza appoggiarsi su alcuni pilastri che la sorreggono. Il richiamo è qui in modo speciale alla verità, alla giustizia, all’amore e alla libertà (n. 18). Il pontefice non si accontenta tutta-via di ricordare che non c’è pace senza il ricorso a questi valori; in altri termini, che la possibilità di uscire dal disordine della violenza e della guerra passa attraverso la loro realizzazione. Egli mette soprattutto chiaramente a fuoco le vie che vanno oggi percorse per conseguire questo obiettivo. Verità e giustizia, qui richiamate come virtù che rinviano reciprocamente l’una all’altra e si integrano tra loro, esigono che si proceda alla creazione di un «mondo nuovo» e di un «uomo nuovo» – l’enciclica non manca di un importante prospettiva antropologica –; un mondo in cui vengano meno le diseguaglianze che sono all’origine dei conflitti da cui scaturiscono le guerre, e nel quale la logica della separazione (o dell’opposizione) lasci il posto alla ricerca di sempre nuove forme di cooperazione tra i singoli e tra le nazioni.

Libertà e amore, a sua volta, rendono necessaria la promozione di condizioni che facilitino l’esercizio della autonomia personale nelle sue diverse declinazioni in quanto bene essenziale alla salvaguardia della dignità della persona e insieme tuttavia non la confondano con una forma di arbitrio assoluto da cui scaturisce un’autoreferenzialità egocentrica, ma la mettano al servizio della ricerca del «bene comune», che è il bene della singola persona e della intera collettività umana. Le spinte individualiste, già presenti all’epoca della stesura dell’enciclica e che si sono accentuate negli ultimi decenni, non sono promettenti e impongono che si reagisca a un pesante retaggio che porta con sé tentazioni involutive, le quali si traducono nello sviluppo di tendenze neocorporative e nazionaliste fino ai limiti della xenofobia e del razzismo.

Tutto questo in stridente contrasto con la crescita costante, a livello strutturale, di una situazione di interdipendenza, tanto tra i diversi fattori che sono alla base della costruzione di una convivenza fraterna quanto tra i singoli e tra i vari popoli del pianeta. Proprio qui si colloca l’ultimo (ma non in ordine di importanza) valore richiamato dall’enciclica, quello dell’amore, definito da papa Francesco «carità sociale», il quale deve assumere connotati universalistici in un mondo divenuto, per usare un’espressione cara a McLuhan, «un piccolo villaggio» e nel quale, di conseguenza, dovrebbero cadere tutte le barriere fisico-geografiche e culturali per dare vita ad un interscambio allargato finalizzato a fare dell’umanità un’unica famiglia, in nome dell’appartenenza alla stessa natura e, per chi crede, in nome del riconoscimento di essere in Cristo figli dello stesso Padre, e dunque fratelli.

Papa Giovanni XXIII non si accontenta, d’altronde, di mettere in evidenza le «ombre» della situazione attuale e di suggerire i rimedi per riuscire a sconfiggerla, ma con l’ottimismo che lo caratterizza e che altro non è che «realismo cristiano», lontano da ogni forma di superficiale e acritica valutazione dell’esistente e tuttavia aperto alla speranza nel futuro, mette a fuoco anche alcune «luci» facendo riferimento ai tre «segni del tempo» cui si è alluso (nn. 45-46). Ognuno di essi meriterebbe un’accurata riflessione, che metta a confronto la situazione di ieri con quella di oggi. Ci accontentiamo di fornire qui qualche spunto di analisi che consenta di comprendere la fecondità della scelta fatta dall’enciclica.

  1. Il primo dei «segni» – l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici – è andato soggetto nel nostro Paese, negli anni settanta del secolo scorso, a un processo di sviluppo dovuto alle lotte operaie e ad una forte presenza del sindacato e sfociato nella stesura dello Statuto dei lavoratori e nella rivendicazione di spazi più umanizzanti per far uscire il lavoratore da uno stato di pesante alienazione fisica e psicologica. Purtroppo questo processo, a partire dagli anni ottanta si è gradualmente allentato, andando incontro a una stagione di forte declino, che rende urgente riprendere il cammino inaugurato dall’enciclica.
  2. Anche il secondo «segno del tempo» – l’ingresso della donna nella vita pubblica – ha percorso un itinerario analogo a quello precedente. Dopo il momento del boom del femminismo tra gli anni settanta e gli anni ottanta con la rivendicazione della parità dei diritti e l’aumento delle possibilità di accesso al lavoro, nonché, di conseguenza di partecipazione alla vita pubblica, si è assistito (e si assiste) a una allarmante battuta di arresto, e persino di vera e propria flessione con gravi ricadute negative sulla vita della comunità. L’inserimento delle donne nel mondo del lavoro – lo testimoniano le statistiche ufficiali – è ancor oggi assai limitato se lo si confronta con la presenza maschile, e l’acquisizione di fatto dei diritti è ancora ben lontana dagli obiettivi perseguiti – si pensi al basso quoziente di donne presenti nel campo della vita politica e pubblica in genere. Questo vale – è giusto ricordarlo – anche per la chiesa, nella quale, nonostante qualche piccolo passo avanti fatto da papa Francesco, il gap rimane alto per il mancato riconoscimento di fatto della parità dei generi (è sufficiente ricordare qui l’annosa questione del sacerdozio della donna).
  3. Infine non meno problematico in relazione alla sua concreta attuazione è il terzo «segno del tempo» – il sorgere ovunque di comunità politiche indipendenti –, il quale è andato soggetto a una svolta involutiva ancor più consistente delle precedenti. Dopo un periodo di decolonizzazione, imposto dalle Carte dei diritti umani e dalle Costituzioni dei Paesi occidentali a regime democratico si è infatti qui prodotta un’inversione di tendenza, dovuta anche alle difficoltà di autogoverno di popoli a lungo dipendenti, ma soprattutto a ragioni strettamente economiche. È venuta infatti affermandosi una sorta di neocolonialismo basato sullo sfruttamento dei popoli e delle loro risorse, con il ritorno a visioni etnocentriche e persino – si pensi alla questione migratoria – con rigurgiti razzisti. È sufficiente richiamare l’attenzione su quanto sta avvenendo in Africa, dove sempre più massiccia è l’occupazione del territorio da parte di diversi popoli, la Cina in primis, seguita da quasi tutte le nazioni occidentali o, analogamente, a quanto sta avvenendo da tempo in America Latina ad opera degli Stati Uniti.

l’importanza della dimensione politica. Non è difficile intuire che la realizzazione del progetto indicato da papa Giovanni, in particolare la promozione della pace, debba sfociare nella piena assunzione della responsabilità politica; una responsabilità che non può (e non deve) essere demandata ai soli governanti, ma deve coinvolgere tutti i cittadini di ogni area del mondo, a partire dalla nascita di una nuova coscienza animata da una forte tensione morale. Lo mette bene in evidenza l’enciclica, che collega strettamente tale responsabilità al riconoscimento della dignità della persona e al suo essere soggetto sociale chiamato a perseguire il «bene comune». Si legge infatti al n.44: «È un’esigenza della loro dignità di persone che gli esseri umani prendano parte attiva alla ‘vita pubblica’ […]. Attraverso alla partecipazione alla vita pubblica si aprono agli esseri umani nuovi e vasti campi di bene, mentre i frequenti contatti fra cittadini e funzionari pubblici rendono a questi meno arduo cogliere le esigenze obiettive del bene comune e l’avvicendarsi dei titolari nei poteri pubblici, ci impedisce il loro logorio e assicura interventi in rispondenza all’«essere sociale».

L’enciclica intreccia poi, a tale proposito, la diagnosi dei mali e dei segnali di bene già presenti con le indicazioni per la costruzione di una nuova azione politica, che sappia vincere, da un lato, le resistenze e le opacità del presente e sappia proiettare insieme, dall’altro, nel futuro la ricerca di una società più giusta e di una convivenza più pacifica tra gli uomini e tra i popoli. La via indicata come itinerario da percorrere è caratterizzata dall’apertura di cerchi concentrici sempre più ampi, che vanno dai rapporti tra cittadini e autorità pubbliche all’interno delle singole unità politiche ai rapporti fra le stesse unità politiche e la comunità mondiale, con un graduale allargamento dell’orizzonte in vista della promozione del bene comune universale (n. 5; cfr. anche nn. 18 e 87). Questo impegno deve tradursi in azioni concrete che l’enciclica non manca di segnalare, mettendo in primo luogo l’accento sulla centralità della questione del disarmo e reagendo alla tendenza alla corsa agli armamenti che, oltre a costituire un considerevole spreco di danaro sottratto ai poveri, fa vivere gli esseri umani in una condizione di permanente precarietà e paura, cioè – come recita il testo dell’enciclica – «sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante» (n. 60).

un documento che guarda al futuro. Nonostante la distanza di tempo – sessant’anni sono percepiti oggi, in ragione del ritmo accelerato della vita e della radicalità dei mutamenti, come un periodo molto più lungo – il messaggio che la Pacem in terris ci propone conserva intatto il carattere profetico della prima ora, proiettandosi con la nitidezza e con la forza evocativa del suo linguaggio nella direzione del futuro. Un futuro che è nelle nostre mani, e nei confronti del quale, anche in ore buie come quelle che stiamo attraversando, non deve venir meno la speranza. La pace, che è il bene supremo cui tendere con tutte le nostre energie, va perseguita giorno dopo giorno con costanza e coraggio, senza tentennamenti e senza scoraggiamenti. L’essere «operatori di pace» – come ci sollecita a fare il discorso della montagna – esige da parte di tutti una forte responsabilità. È un imperativo morale (e non solo) al quale occorre aderire in termini incondizionati, un dovere al quale non ci si può sottrarre – accanto alla civiltà dei diritti va oggi promossa una «civiltà dei doveri – il cui adempimento è una condizione ineludibile se si vuole dare vita a un mondo solidale fondato sull’armonia tra i singoli e tra i popoli della terra.

 Giannino Piana (α1939)      “Rocca” n. 7                      1° aprile 2023

RELIGIONI

Quaresima, Tempo della Passione, Ramadan: affinità e differenze

Distinzioni in ambito cristiano e affinità con il mese sacro dell’Islam

                La Quaresima, i quaranta giorni di penitenza prima della Pasqua nella religione cristiana è un richiamo ai quaranta giorni che Gesù ha passato nel deserto prima della predicazione, e al contempo un richiamo dei quarant’anni di esodo del popolo ebraico. È un tempo di purificazione, rinuncia alle tentazioni, distacco da ciò che non è essenziale. È un tempo di preghiera, di conversione, di ritorno a Dio. Sono previsti giorni di digiuno, in particolare nel mercoledì delle Ceneri e nel venerdì della Passione e in generale l’astinenza dal consumo di carni durante i venerdì di Quaresima. Tutto ciò prevalentemente in ambito cattolico.

                Per le chiese protestanti le cose stanno diversamente. Come ha ben spiegato il pastore Luca Baratto durante una puntata della trasmissione Culto Evangelico in onda su Radio Uno Rai «La parola Quaresima non fa parte del vocabolario dei protestanti italiani. Le chiese evangeliche del nostro paese – almeno quelle che seguono l’anno liturgico – preferiscono chiamare questo periodo «Tempo della Passione». Ciò corrisponde allo svolgersi del racconto dei vangeli che, dopo gli inizi in Galilea, vedono Gesù dirigersi verso Gerusalemme: un viaggio difficile, costellato da incomprensioni con i discepoli, e soprattutto dall’annuncio che in quella città Gesù sarà preso e ucciso. È il momento di riflettere su che cosa significhi seguire quel Gesù che invita ognuno a prendere la propria croce».

                Il pastore Baratto specifica ancora: «C’è, però, anche da dire che i protestanti italiani non usano la parola Quaresima perché a essa è legata una spiritualità che non appartiene loro. A un evangelico suona strano che ci sia un particolare periodo dell’anno da dedicare alla contrizione e al pentimento; in realtà, l’intera vita di un credente è la conferma di essere un peccatore perdonato. Allo stesso modo, non appartiene alla mentalità protestante l’obbligo religioso di rinunce o penitenze. Scrive il profeta Isaia che il vero digiuno non è dedicare un giorno all’astinenza dal cibo, ma saper dividere il pane con chi ha fame».

                La Riforma non ha rifiutato la Quaresima, ma ha fatto un passo indietro rispetto alle pratiche penitenziali. Queste sono rimaste molto rigide nell’ortodossia ma sono diventate meno stringenti nel cattolicesimo. «Nel XVI secolo, la critica dei riformatori si concentrava su quelle cose che bisognava fare per essere degni di ricevere la salvezza, come le indulgenze o il digiuno», ricorda Nicolas Cochand, docente di teologia pratica presso l’Istituto protestante di teologia, in Parigi. «Oggi, da un punto di vista protestante, la Quaresima è soprattutto un tempo di solidarietà con i più poveri, un tempo di astinenza, ad esempio dall’alcol, e un tempo di esplorazione per una ricerca spirituale contemporanea, di una vita più semplice. Questa idea di felice sobrietà può benissimo essere ricondotta a Calvino».

                È la tradizione luterana che dà più spazio alla Quaresima nelle sue liturgie, in particolare attraverso la celebrazione del Mercoledì delle ceneri. Per i musulmani il mese del Ramadan, in corso, è quello in cui Dio ha consegnato il Corano al Profeta. È il tempo della preghiera, della meditazione ma in particolare del digiuno, dall’alba al tramonto, insieme al divieto di fumare e praticare sesso.

Ramadan e Quaresima sono legati a due rivelazioni: l’avvio della vita pubblica di Gesù e l’avvio della rivelazione della volontà di Allah al profeta Maometto. Il digiuno di Ramadan è uno dei cinque pilastri dell’Islam, i cinque obblighi fondamentali previsti dalla Legge religiosa per ogni credente musulmano di qualsiasi sesso, insieme alla Dichiarazione di fede, alla preghiera, all’elemosina e al pellegrinaggio ai luoghi sacri.

Redazione          Riforma.it           30 marzo 2023

https://riforma.it/it/articolo/2023/03/30/quaresima-tempo-della-passione-ramadan-affinita-e-differenze

SESSUOLOGIA

Dottrina cristiana e divenire della sessualità umana. Una lettera dei vescovi scandinavi.

Un breve testo, scritto dai Vescovi Scandinavi, presenta la sessualità umana con grande accuratezza. Ne riproduco il testo integrale, sottolineandone poi alcuni elementi che restano in discussione, senza negare la bontà del tentativo di uscire dalle contrapposizioni troppo nette tra dottrina cristiana e cultura comune

                1. Il testo della lettera

Regione Episcopale Scandinava

LETTERA PASTORALE SULLA SESSUALITÀ UMANA

Quinta domenica di Quaresima 2023  (26 marzo 2023)

Cari fratelli e sorelle,

I quaranta giorni di Quaresima sono un richiamo ai quaranta giorni in cui Cristo digiunò nel deserto. Ma non solo. Nella storia della salvezza, i tempi di quaranta giorni segnano varie tappe nell’opera della redenzione portata avanti da Dio e che continua ancor oggi. Un primo intervento ebbe luogo ai giorni di Noè. Avendo visto la rovina operata dall’uomo (Genesi 6,5), il Signore sottopose la terra a un battesimo purificatorio. “Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti” (Genesi 7,12). Da qui un nuovo inizio.

            Quando Noè e i suoi parenti tornarono in un mondo ripulito dall’acqua, Dio fece il suo primo patto con “ogni carne”. Promise che mai più il diluvio avrebbe distrutto la terra. Agli uomini chiese giustizia: onorare Dio, costruire la pace, essere fecondi. Siamo chiamati a vivere beati sulla terra, a trovare gioia gli uni negli altri. Il nostro potenziale è meraviglioso finché ricordiamo chi siamo: “perché a immagine di Dio, Egli ha fatto l’uomo” (Genesi 9,6). Siamo chiamati a dare compimento a questa immagine attraverso le scelte di vita che facciamo. Per ratificare la sua alleanza, Dio pose un segno nel cielo: “Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando apparirà l’arco sulle nubi, io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra” (Genesi 9,13, 16).

            Il segno dell’alleanza, l’arcobaleno, oggi è rivendicato come simbolo di un movimento allo stesso tempo politico e culturale. Riconosciamo quanto c’è di nobile nelle aspirazioni di questo movimento. Le condividiamo nella misura in cui parlano della dignità di tutti gli esseri umani e del loro desiderio di visibilità. La Chiesa condanna ogni ingiusta discriminazione, qualunque sia, anche quella che si fonda sul genere o sull’orientamento sessuale. Dissentiamo da esso, tuttavia, quando il movimento propone una visione della natura umana che astrae dall’integrità incarnata della persona, come se il sesso fosse qualcosa di accidentale. E ci opponiamo quando tale visione viene imposta ai bambini come una verità provata e non un’ipotesi ardita, e imposta ai minori come un pesante carico di autodeterminazione al quale non sono preparati. È curioso: la nostra società tanto preoccupata per il corpo, di fatto lo prende alla leggera, rifiutando di vedere il corpo come segno di identità, e supponendo di conseguenza che l’unica individualità sia quella prodotta dall’autopercezione soggettiva, costruendo noi stessi a nostra immagine.

            Quando professiamo che Dio ci ha fatti a sua immagine, questa non si riferisce solo all’anima. Appartiene misteriosamente anche al corpo. Per noi cristiani il corpo è legato intrinsecamente alla personalità. Noi crediamo alla risurrezione del corpo. Naturalmente, “saremo tutti trasformati” (1 Corinzi 15,51). Cosa sarà il nostro corpo nell’eternità è difficile immaginarlo. Crediamo nell’affermazione biblica, fondata sulla tradizione, che l’unità di mente, anima e corpo durerà per sempre. Nell’eternità saremo riconoscibili per quello che già ora siamo, però gli aspetti conflittuali che ancora impediscono lo sviluppo armonioso del nostro vero sé saranno stati risolti.

            “Per grazia di Dio sono quello che sono” (1 Corinzi 15,10). San Paolo ha dovuto lottare con se stesso per fare in fede questa affermazione. Così, abbastanza spesso, anche noi. Siamo consapevoli di tutto ciò che non siamo; ci concentriamo sui doni che non abbiamo ricevuto, sull’affetto o sull’affermazione che manca nella nostra vita. Queste cose ci rattristano. Vogliamo rimediare. A volte è ragionevole. Spesso è inutile. Il cammino dell’accettazione di noi stessi passa attraverso il nostro impegno con ciò che è reale. La realtà della nostra vita abbraccia le nostre contraddizioni e ferite. La Bibbia e le vite dei santi mostrano che le nostre ferite possono, per grazia, diventare fonti di guarigione per noi stessi e per gli altri.

            L’immagine di Dio nella natura umana si manifesta nella complementarità del maschile e del femminile. L’uomo e la donna sono creati l’uno per l’altra: il comandamento di essere fecondi dipende da questa reciprocità, santificata nell’unione nuziale. Nella Scrittura, il matrimonio dell’uomo e della donna diventa immagine della comunione di Dio con l’umanità, che sarà perfetta nelle nozze dell’Agnello alla fine della storia (Apocalisse 19,6). Non significa che tale unione, per noi, sia facile o indolore. Ad alcuni sembra un’opzione impossibile. Ad un livello interiore, l’integrazione di caratteristiche maschili e femminili può essere ardua. La Chiesa lo riconosce. Desidera abbracciare e consolare tutti coloro che vivono con difficoltà questa problematica.

Come vostri vescovi vogliamo sottolineare che siamo qui per tutti, per accompagnare tutti. Il desiderio di amore e la ricerca di un’integrazione sessuale tocca intimamente gli esseri umani. Sotto questo aspetto siamo vulnerabili. Ci vuole pazienza nel cammino verso l’integrazione, e gioia per ogni passo ulteriore. C’è già, per esempio, un enorme salto di qualità nel passare dalla promiscuità alla fedeltà, indipendentemente dal fatto che la relazione stabile corrisponda pienamente o meno all’ordine oggettivo di un’unione nuziale sacramentalmente benedetta. Ogni ricerca di integrazione è degna di rispetto, merita incoraggiamento. La crescita in saggezza e virtù ha uno sviluppo organico. Avviene gradualmente. Allo stesso tempo la crescita, per dare buoni risultati (o per essere feconda), deve procedere verso una meta. La nostra missione e il nostro compito di vescovi è indicare il cammino pacificante e vivificante dei comandamenti di Cristo, stretto all’inizio, ma che si dilata man mano che avanziamo. Mancheremmo nei vostri confronti se offrissimo di meno. Non siamo stati ordinati per predicare nostre piccole nozioni.

            Nell’ospitale fraternità della Chiesa c’è posto per tutti. La Chiesa, dice un antico testo, è “la misericordia di Dio che scende sugli uomini” (dal midrash siriaco del IV secolo “La Caverna dei Tesori”). Questa misericordia non esclude nessuno, ma stabilisce un alto ideale. L’ideale è enunciato nei comandamenti, che ci aiutano a crescere rispetto a concezioni di sé troppo anguste. Siamo chiamati a diventare donne e uomini nuovi. In tutti noi ci sono elementi caotici che vanno messi in ordine. La comunione sacramentale presuppone un consenso coerentemente vissuto alle condizioni poste dall’alleanza sigillata nel sangue di Cristo. Può accadere che le circostanze rendano impossibile a un cattolico ricevere i sacramenti per un certo periodo. Non è per questo che cessa di essere membro della Chiesa. L’esperienza d’esilio interiore abbracciato nella fede può portare a un più profondo senso di appartenenza. Nelle Scritture gli esili spesso ci rivelano questo. Ognuno di noi ha un esodo da fare, ma non camminiamo soli.

Il segno della prima alleanza di Dio ci circonda anche nei momenti di prova. Ci chiama a cercare il senso della nostra esistenza, non tanto nei frammenti di luce dell’arcobaleno, ma nella fonte divina dello spettro pieno e meraviglioso che è di Dio e che ci chiama ad essere simili a Dio. Come discepoli di Cristo, immagine di Dio (Colossesi 1,15), non possiamo ridurre il segno dell’arcobaleno a qualcosa di meno del patto vivificante tra il Creatore e la creazione. Dio ci ha conferito “beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventassimo per loro mezzo partecipi della natura divina” (2 Pietro 1,4). L’immagine di Dio impressa nel nostro essere richiama la santificazione in Cristo. Qualsiasi considerazione del desiderio umano che ponga l’asticella più in basso di questo è inadeguato da un punto di vista cristiano.

            Ora, le nozioni di ciò che significa essere umano, e quindi essere sessuato sono in divenire. Ciò che oggi è dato per scontato domani può essere rifiutato. Chiunque scommette molto su teorie passeggere rischia di essere assai mortificato. Abbiamo bisogno di radici profonde. Cerchiamo allora di appropriarci dei principi fondamentali dell’antropologia cristiana, mentre ci avviciniamo con amicizia, con rispetto, a coloro che si sentono estranei ad essi. Lo dobbiamo al Signore, a noi stessi e al nostro mondo, per rendere conto di ciò in cui crediamo e del perché crediamo che sia vero.

            Molti sono perplessi sull’insegnamento cristiano tradizionale sulla sessualità. A questi offriamo un’amichevole parola di consiglio. Innanzitutto: cercate di familiarizzare con la chiamata e la promessa di Cristo, di conoscerlo meglio attraverso le Scritture e nella preghiera, attraverso la liturgia e lo studio di tutto l’insegnamento della Chiesa, non solo attraverso frammenti presi qua e là. Partecipate alla vita della Chiesa. Così si amplierà l’orizzonte delle domande dalle quali siete partiti, e anche la vostra mente e il vostro cuore. In secondo luogo, consideriamo i limiti di un discorso puramente laico sulla sessualità. Ha bisogno di essere arricchito. Abbiamo bisogno di termini adeguati per parlare di queste cose importanti. Avremo un contributo prezioso da offrire se recupereremo la natura sacramentale della sessualità nel disegno di Dio, la bellezza della castità cristiana e la gioia dell’amicizia, che mostra quale grande intimità liberatrice si può trovare anche nelle relazioni non sessuali.

            Il punto dell’insegnamento della Chiesa non è quello di ridurre l’amore, ma di realizzarlo. Alla fine del prologo, il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 ripete un passo del Catechismo Romano del 1566: “Tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento deve essere orientata alla carità che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri dell’attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di nostro Signore. Così da far comprendere che ogni esercizio di perfetta virtù cristiana non può scaturire se non dall’amore, come nell’ amore ha d’altronde il suo ultimo fine” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 25; cfr. Catechismo Romano, Prefazione 10; cfr. 1 Corinzi 13,8).

            Da questo amore è stato fatto il mondo, e ha preso forma la nostra natura. Questo amore si è reso manifesto nell’esemplarità di Cristo, nel suo insegnamento, nella sua passione salvifica e nella sua morte. L’amore ha trionfato nella sua gloriosa risurrezione, che celebreremo con gioia durante i cinquanta giorni della Pasqua. La nostra comunità cattolica, dalle molte sfaccettature e dai tanti colori, possa testimoniare questo amore nella verità.

Czeslaw Kozon, Copenaghen, presidente

Anders Cardinale Arborelius, Stoccolma

Peter Bürcher, Reykjavik                              Bernt Eidsvig, Oslo                          Berislav Grgic, Tromso

Marco Pasinato, Helsinki                              David Tencer, Reykjavik                 Erik Varden, Trondheim

2. Alcune considerazioni sul testo dei Vescovi scandinavi. Le 4 pagine del testo redatto dai vescovi della Regione Scandinava hanno il merito di concentrare in breve spazio un ragionamento accurato, di cui ora vorrei mettere in luce e commentare alcune affermazioni centrali. Procedo riprendendone il testo con alcune sottolineature in grassetto, su cui poi mi soffermo commentandole.

                a) benedire le nozze e benedire una unione: è possibile distinguere? Ci vuole pazienza nel cammino verso l’integrazione, e gioia per ogni passo ulteriore. C’è già, per esempio, un enorme salto di qualità nel passare dalla promiscuità alla fedeltà, indipendentemente dal fatto che la relazione stabile corrisponda pienamente o meno all’ordine oggettivo di un’unione nuziale sacramentalmente benedetta. Ogni ricerca di integrazione è degna di rispetto, merita incoraggiamento. La crescita in saggezza e virtù ha uno sviluppo organico. Avviene gradualmente. Allo stesso tempo la crescita, per dare buoni risultati (o per essere feconda), deve procedere verso una meta. La nostra missione e il nostro compito di vescovi è indicare il cammino pacificante e vivificante dei comandamenti di Cristo, stretto all’inizio, ma che si dilata man mano che avanziamo. Mancheremmo nei vostri confronti se offrissimo di meno. Non siamo stati ordinati per predicare nostre piccole nozioni. Nell’ospitale fraternità della Chiesa c’è posto per tutti. La Chiesa, dice un antico testo, è “la misericordia di Dio che scende sugli uomini” (dal midrash siriaco del IV secolo “La Caverna dei Tesori”). Questa misericordia non esclude nessuno, ma stabilisce un alto ideale. L’ideale è enunciato nei comandamenti, che ci aiutano a crescere rispetto a concezioni di sé troppo anguste. Siamo chiamati a diventare donne e uomini nuovi. In tutti noi ci sono elementi caotici che vanno messi in ordine. La comunione sacramentale presuppone un consenso coerentemente vissuto alle condizioni poste dall’alleanza sigillata nel sangue di Cristo. Può accadere che le circostanze rendano impossibile a un cattolico ricevere i sacramenti per un certo periodo. Non è per questo che cessa di essere membro della Chiesa.”

                Tra le cose che appaiono più opportune nel testo vi è certamente la comprensione di una “gradualità” di condizioni che i soggetti vivono all’interno del loro vissuto personale e sessuale. Ma appare altrettanto chiaro che questa “fatica del discernimento”, condotta con grande linearità, non corrisponde a “forme ecclesiali” capaci di riconoscere queste diverse condizioni. Come non esiste solo la “comunione eucaristica”, ma tante altre forme di “espressione cultuale” nella vita del cristiano, così non esiste solo la “benedizione nuziale”, ma anche un azione del “benedire” che riconosce altre forme di legame, di unione e di progetto di vita comune. Una nozione troppo stretta di sacramento e una certa preclusione alla valorizzazione di un “sacramentale” come la benedizione creano una forte tensione tra un regime verbale della accoglienza e un regime liturgico e sacramentale della esclusione. Credo che questo dipenda da un uso troppo rigido e stereotipato della tradizione liturgica, che è più elastica di quanto si pensi. Se è vero che nel percorso di vita si può cadere in esperienze di “indegnità” rispetto alla comunione eucaristica, è altrettanto vero che in questa visione la eucaristia diventa solo il premio per i perfetti e non riesce ad assumere la figura del “farmaco per chi è in cammino”. Qui, come è evidente, il linguaggio dei vescovi scandinavi, pur nutrito a fondo dallo spirito di Amoris Lætitia nel suo regime espressivo, continua ad usare soltanto le categorie fondamentali di Familiaris consortio e si limita ad affermare una comunione ecclesiale che non riesce a trovare espressione sul piano liturgico-sacramentale. Questo è un punto debole del testo.

b) La identità personale e il ruolo della sessualità. Ora, le nozioni di ciò che significa essere umano, e quindi essere sessuato sono in divenire. Ciò che oggi è dato per scontato domani può essere rifiutato. Chiunque scommette molto su teorie passeggere rischia di essere assai mortificato. Abbiamo bisogno di radici profonde. Cerchiamo allora di appropriarci dei principi fondamentali dell’antropologia cristiana, mentre ci avviciniamo con amicizia, con rispetto, a coloro che si sentono estranei ad essi. Lo dobbiamo al Signore, a noi stessi e al nostro mondo, per rendere conto di ciò in cui crediamo e del perché crediamo che sia vero.”

                Il divenire delle nozioni di essere umano e di essere sessuato sono una ammissione di grande importanza, che fa onore al documento. La scommessa su teorie passeggere è certo sempre rischiosa, ma lo è altrettanto una scommessa cieca su teorie fondate su una cultura e su un ordine sociale che non è più il nostro. Per questo è fondamentale, come dice il testo “appropriarci dei principi fondamentali della antropologia cristiana”. Ma come avviene questa “appropriazione”? Questo passaggio non sembra implicare un dialogo profondo con la cultura ambiente. I principi fondamentali della antropologia cristiana vengono non anzitutto dal Catechismo, ma dalla luce che la Parola e la esperienza di uomini e donne gettano sulla tradizione (secondo il chiaro dettato di GS 46). Nessuna “teoria passeggera”, come nessuna “visione classica” garantisce del tutto. Sarebbe unilaterale pensare che lo sviluppo delle nozioni di essere umano e di essere sessuato restino esterne ad una “comprensione della tradizione”, che funzionerebbe da sé, quasi fuori dello spazio e del tempo. La pretesa di difendere il “vangelo della sessualità” insieme alla società chiusa, che ne ha interpretato le evidenze in modo unilaterale, è un rischio a cui il testo resta esposto. Credere nel vangelo non può essere confuso con il credere in una società ordinata secondo una lettura unilaterale del sesso solo come “funzione della generazione”. La insufficienza dei “tria bona” classici mostra un versante scoperto della tradizione che abbiamo il compito di superare, anche mediante l’ascolto della esperienza contemporanea, proprio nella sua più dura laicità, dalla quale abbiamo non solo da distinguerci, ma anche da imparare.

c) la tensione con la cultura e i “segni dei tempi”. “Molti sono perplessi sull’insegnamento cristiano tradizionale sulla sessualità. A questi offriamo un’amichevole parola di consiglio. Innanzitutto: cercate di familiarizzare con la chiamata e la promessa di Cristo, di conoscerlo meglio attraverso le Scritture e nella preghiera, attraverso la liturgia e lo studio di tutto l’insegnamento della Chiesa, non solo attraverso frammenti presi qua e là. Partecipate alla vita della Chiesa. Così si amplierà l’orizzonte delle domande dalle quali siete partiti, e anche la vostra mente e il vostro cuore. In secondo luogo, consideriamo i limiti di un discorso puramente laico sulla sessualità. Ha bisogno di essere arricchito. Abbiamo bisogno di termini adeguati per parlare di queste cose importanti. Avremo un contributo prezioso da offrire se recupereremo la natura sacramentale della sessualità nel disegno di Dio, la bellezza della castità cristiana e la gioia dell’amicizia, che mostra quale grande intimità liberatrice si può trovare anche nelle relazioni non sessuali”.

                Con tutta la ricercata delicatezza di forme espressive, tuttavia la considerazione parallela della “dottrina cristiana sulla sessualità” e del discorso laico sul sesso non sembra riconoscere un aspetto decisivo, che qualificherebbe meglio tutto il discorso. I vescovi dicono che la percezione dei limiti dell’insegnamento tradizionale dipenderebbe da una considerazione parziale di tale insegnamento, mentre i limiti della lettura laica sarebbero oggettivi. Qui manca del tutto il ricorso, credo necessario, alla nozione di “segni dei tempi”. La trasformazione del sesso in sessualità, che si è prodotta nella “società laica” degli ultimi 200 anni, ha messo in movimento un positivo ripensamento della tradizione cristiana. La personalizzazione del matrimonio e del sesso non è soltanto un merito della tradizione cristiana, ma viene anche dal contributo della lettura laica. Perché non si dovrebbe riconoscere, ad esempio, che la attenzione all’individuo non è solo “caduta individualistica”, ma anche “scoperta di autenticità”? Certo tanto la tradizione cristiana quanto la cultura laica sono anche piene di “pregiudizi” che devono essere superati. Ma se è giusto riconoscere che la Chiesa ha ricchezze che meritano di essere custodite a favore anche di chi non crede, è altrettanto importante dire che la cultura laica può insegnare alla Chiesa a comprendere e ad esprimere i propri tesori in modi e forme più profonde e più adeguate. Anche la cultura laica ha un contributo profondo da offrire alla dottrina cristiana, liberandola da alcuni cortocircuiti, che la hanno identificata tendenzialmente con una “società chiusa”. Una maggiore chiarezza su questo aspetto di reciprocità, nel rapporto tra cultura cristiana e cultura laica, avrebbe ulteriormente giovato al documento e alla sua positiva recezione.

Andrea Grillo    blog: Come se non          27 marzo 2023

www.cittadellaeditrice.com/munera/dottrina-cristiana-e-divenire-della-sessualita-umana-una-lettera-dei-vescovi-scandinavi

SIN0DO DELLA SINODALITÀ

Si chiude anche la tappa della consultazione ma non il dialogo con il Popolo di Dio

Venerdì 31 marzo 2023 si è conclusa ufficialmente la Tappa Continentale: la seconda tappa del processo sinodale e con essa anche la consultazione su larga scala del Popolo di Dio. Dopo la Tappa Locale (diocesana e nazionale), l’inserimento di un tempo di ascolto, dialogo e discernimento tra le Chiese di una stessa area geografica ha rappresentato un’ulteriore novità di questo processo sinodale.

                Questa nuova tappa non si è limitata alla celebrazione di sette assemblee continentali, ma è stata un vero e proprio processo di ascolto e discernimento a livello continentale, sulla stessa e unica domanda del processo sinodale nel suo complesso, ossia Come si realizza oggi, ai diversi livelli (dal locale all’universale), quel “camminare insieme” che permette alla Chiesa di annunciare il Vangelo, secondo la missione che le è stata affidata? (DP n. 2).

                Seguendo il principio della sussidiarietà, l’organizzazione di questa parte del processo e le rispettive assemblee sinodali continentali sono state affidate ai Comitati Organizzatori locali (o Task Forces) facenti capo, per lo più, alle Riunioni Internazionali delle Conferenze Episcopali o delle Chiese Cattoliche Orientali. Una speciale task force della Segreteria Generale del Sinodo ha tuttavia accompagnato il loro lavoro. I responsabili della Segreteria Generale del Sinodo e il Relatore Generale della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi hanno assicurato la presenza di almeno uno di loro in ogni assemblea continentale a testimonianza della vicinanza e del desiderio della Santa Sede di ascoltare le Chiese particolari.

                Le sette assemblee che, da inizio febbraio e fino a fine marzo hanno scandito questo tempo del cammino sinodale, sono state tutte assemblee ecclesiali, ossia rappresentative del Popolo di Dio (vescovi, sacerdoti, consacrati/e, laici/laiche). Avevano per obbiettivo di rispondere alle tre questioni contenute nel DTC (n. 106) pubblicato il 27 ottobre scorso (per approfondire). I partecipanti hanno dapprima tentato di

  1. individuare le “risonanze” suscitate dalla lettura del DTC per poi indicare tensioni e priorità. È stato confortante notare come i partecipanti alle assemblee continentali si sono ritrovati nelle piste individuate nel DTC, chiaramente ognuno a partire dalla propria prospettiva ecclesiale e culturale, a volte anche molto diverse. Il frutto delle loro discussioni è contenuto nel Documento Finale che ogni Assemblea ha prodotto quale contributo per i lavori della prima sessione dell’assemblea del sinodo dei vescovi di ottobre (4-29 ottobre 2023). Questi documenti sono stati il frutto di un percorso autenticamente sinodale, rispettoso del processo finora svolto, riflettendo così la voce del Popolo di Dio del Continente. Questi 7 documenti continentali saranno alla base del Instrumentum Laboris, il documento di lavoro per la prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Ora spetta alla Commissione Preparatoria, istituita dalla Segreteria Generale del Sinodo, (per approfondire), organizzare il gruppo di lavoro chiamato a produrlo.

Tutte le assemblee sono state un tempo di Grazia per la Chiesa. Oltre a sottolineare il grande desiderio di rinnovamento camminando insieme uniti a Cristo, il processo continentale ha rivelato la gioia e il profondo amore di tantissimi fedeli per la loro Chiesa, Popolo di Dio, nonostante le sue carenze e debolezze; l’importanza dell’ascolto come strumento e dinamica permanente della vita ecclesiale; e ha confermato la scelta della conversione spirituale, come metodo che favorisce il vero ascolto e il discernimento comunitario per il raggiungimento di un consenso ecclesiale.

                La Segreteria Generale del Sinodo esprime la sua viva gratitudine a quanti si sono impegnati con grande serietà e entusiasmo in questo processo. La Tappa Continentale ha portato a una maggiore consapevolezza dell’importanza di camminare insieme nella Chiesa come comunione di comunità, rafforzando il dialogo tra Chiese particolari e Chiesa Universale. La conclusione della consultazione non significa la conclusione del processo sinodale per il Popolo di Dio né tantomeno l’interruzione del dialogo tra Chiesa Universale e Chiesa particolare. Significa piuttosto lasciare alle comunità locali la sfida di mettere in pratica quelle “riforme sinodali” nella quotidianità del loro agire ecclesiale e nella consapevolezza che molto di quanto è stato finora discusso e individuato a livello locale non necessita del discernimento della Chiesa universale o l’intervento del magistero di Pietro.

Non tutti i Documenti Finali sono disponibili .

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